LA GENESI DEL PAESAGGIO CLASSICO (parte prima) Dalle fonti antiche e secondo l’osservazione dell’antropologo Con particolare riguardo al paesaggio toscano di Giovanni Caselli Dei periodi geologici che si sono succeduti durante i 4 miliardi e mezzo di anni che sono trascorsi dalle origini del nostro pianeta, quelle che ci interessano più da vicino sono solo gli ultimi tre, quelli succedutisi durante gli ultimi 7 milioni anni circa, le cui testimonianze sono percepibili quando facciamo una escursione in campagna. Dopo il Carbonifero Permiano, si è verificato un abbassamento della parte tirrenica di quella che poi sarà l'Italia e che era ancora coperta dalle acque, causando così un accumulo, in questo avvallamento, di numerosi strati di detriti spessi fino a 3 km parte dei quali vediamo in tutto l'Appennino. Verso la fine dell'era Cenozoica, l'era nostra, in un’epoca detta dai geologi Miocene, si è verificato un brusco sollevamento dovuto alla spinta dell'Africa che ha sollevato al di sopra del livello del mare questi sedimenti dando origine alle Alpi e agli Appennini. Durante il periodo detto Pliocene, la spinta del continente africano da luogo ad una serie di pieghe negli strati geologici (come quelle che forma un tovaglia se spinta sul tavolo da un lato) che formano bacini interni al sistema appenninico e paralleli a questo, che trattengono le acque formando una serie di laghi rimasti tali fino quasi all’ultima Età Glaciale. Si tratta delle ultime vicende nella storia della Terra, note con i nomi scientifici di Miocene, Pliocene e Pleistocene, durante le quali i continenti assumono le forme a noi note. Durante il Pleistocene, circa 800.000 anni fa, quando in Europa erano già arrivati dall'Africa i nostri antenati del genere Homo antecessor si verificano, per motivi ancora ignoti, le glaciazioni, periodi alterni in cui i ghiacci dei poli si estendono fino a coprire vaste aree continentali e poi si ritirano. Queste oscillazioni hanno ripercussioni notevoli sul livello dei mari che si innalzano e si abbassano con lo sciogliersi e il formarsi dei ghiacciai. Man mano che gli Appennini si sollevano i fiumi e i torrenti del Casentino, come del resto accade altrove, modellano i depositi lacustri in una serie di colline che dalle propaggini dell’Appennino si spingono fino al corso dell’Arno. Le glaciazioni che si susseguono contribuiscono anch'esse a modellare i depositi lacustri dando al territorio le forme che oggi vediamo. Su queste colline ad andamento rettilineo e di altezza costante, si trovano numerosi manufatti di selce lasciati da almeno tre specie umane: L'Homo heidelbergensis, l'Homo Neanderthalensis e l'Homo sapiens. Circa 800.000 anni fa, il Casentino era un lago, come lo erano del resto tutte le valli longitudinali interne ad ovest dell'Appennino, quali la Garfagnana, la Pianura Fiorentina, il Mugello, la Val Tiberina e la Val di Chiana. La flora era lussureggiante fino a quando il clima subì un raffreddamento alla fine del periodo; nelle foreste e nelle radure vivevano grandi mammiferi come il mammut meridionale, il Tapiro -estinto due milioni e mezzo di anni fa-, il rinoceronte etrusco -estinto 700.000 anni fa-. C'erano poi vari tipi di equidi fra i quali una zebra, quindi antilopi, un grosso cinghiale, una formidabile iena, una tigre dai denti a sciabola, Il cervo gigante e molti altri componenti tipici della fauna definita Villafranchiana (da 3 milioni ad 800.000 anni fa). Nella parte terminale di questo periodo si trovavano nel Valdarno i mastodonti di Borson e dell'Alvernia ed anche, poco più tardi, cavallo, bue selvatico, cervo attuale e mammut lanoso. In Val di Chiana era comune anche un grosso ippopotamo. La foresta era composta di alberi ed arbusti ancora esistenti, quali il Peccio, l'Abete, il Ginepro, il Tasso, la Querce il Castagno, il Faggio, l'Olmo, l'Ontano, il Carpino, il Nocciolo il Tiglio il Pioppo, il Frassino, l'Acero, la Betulla, il Pino silvestre il Larice. Nei periodi più caldi si estendevano l'Alloro, il Bosso, l'Agrifoglio e l'Edera. Nel Valdarno si sono rinvenuti fossili di Sequoia, di Lidodendron, di Liquidambar, piante scomparse dal nostro paese e reintrodotte di recente.. In questo ambiente giunsero dall'Africa, attraverso lo Stretto di Gibilterra e dal Medio Oriente, i primi uomini, che in Spagna hanno lasciato tracce fino da 1.300.000 anni fa. In Italia non abbiamo rinvenuto, ad oggi, resti ossei o di manufatti anteriori al milione di anni fa. IL PAESAGGIO CLASSICO L’Italia dei primi uomini era ben diversa da quella attuale, ma paradossalmente, non così diversa come lo era invece un secolo fa. E' infatti vero che l'aspetto superficiale - o il colpo d'occhio- che offre oggi, ad esmpio la Toscana, è più simile a quello di 3000 anni fa che non a quello di 70-80 anni fa. L'espansione dei boschi, che hanno coperto il 70% dei terreni coltivati, dalla metà del XX secolo ad oggi, solo ora subisce una frenata a seguito della domanda di combustibili alternativi a quelli di importazione, i boschi vengono quindi abbattuti a vasto raggio per produrre legna da ardere. La Toscana dei contadini e soprattutto dei contadini poveri, era un giardino laddove era coltivata ed era un deserto roccioso laddove oggi è boscaglia e arbusteto. I pascoli alti erano vasti, solo contenuti dalle foreste demaniali o di proprietà monastica oppure dal castagneto. Se l'ambiente della Toscana in epoca etrusca è difficilmente immaginabile, quello creato dai Romani, è invece abbastanza facilmente ipotizzabile grazie all'archeologia e agli studi multidisciplinari, ma soprattutto alle testimonianze scritte. Diodoro Siculo si meravigliava che gli Etruschi coltivassero non tanto le pianure quanto le colline, e fino in cima! Infatti in Grecia, in Tuchia, ma anche in Umbria, si coltivavano le pianure mentre sulle colline e in montagna, nei prati, fra le rocce e nei dirupi brucavano pecore e capre. Il viaggiatore dell'Italia "classica" era continuamente a contatto con la natura, le coltivazioni che fiancheggiavano la strada e che accompagnavano i lunghi e lenti tragitti, pervadevano il panorama dell'epoca. Ovunque si vedevano bianchi buoi aggiogati all'aratro, lunghe file di schiavi curvi sotto gli olivi, mentre le fronde degli alberi da frutto e i pampini delle viti si protendevano verso la strada dal loro supporto arboreo. Se riusciamo con difficoltà ad immaginare una Grecia o una Sicilia totalmente prive di limoni, aranci, agavi e fichi d'India, ugualmente difficile ci sarà immaginare un'Italia centrale senza quei frutti, alberi e verdure che diamo per scontati e che hanno fatto parte del quadro quotidianamente sotto i nostri occhi e di quelli dei nostri antenati, da decine di secoli. Perfino i cipressi e gli olivi mancavano nel paesaggio etrusco del VII secolo a.C. La vite c'era, ma in che quantità, dove e come fosse coltivata prima della colonizzazione orientalizzante rimane un mistero. Il paesaggio italiano della vite e dell'olivo, che caratterizzava la Toscana e le regioni limitrofe sino agli anni '70 del XX secolo, era simile al paesaggio dell'Italia romana, ma con le dovute differenze... L'olivo è dopo la vite, il secondo albero in ordine di importanza nel mondo romano e classico del Mediterraneo. A sud dell'Appennino, -e in alcune località anche a nord- l'olivo caratterizzava il paesaggio in maniera determinante; nella dieta il suo prodotto era fondamentale e indispensabile più del vino. Nel Casentino medievale - e forse anche in quello etrusco- all'olio di oliva si preferiva il lardo o il burro, gli olivi erano rari; solo in epoca moderna, durante il XIX secolo vaste aree del Casentino furono fittamente piantate a oliveto. Da Teofrasto (314 a.C.), apprendiamo che l'olivo cresceva solo entro 40 miglia dal mare, mentre da Fenestella sappiamo che durante il regno di Tarquinio Prisco (VI sec. a.C.), non vi erano olivi né in Italia, né in Spagna o in Africa, mentre, dice Plino ..."oggi è penetrato anche oltre le Alpi fino al centro delle province Galliche e Ispaniche"...(Lib.XV Nat.Hist.) L'olivo deve essersi diffuso molto rapidamente dopo la sua introduzione in Italia fra il VII e ilV secolo a.C., si tratta di una pianta dalla crescita estremamente lenta; Esiodo diceva che nessun uomo ha mai raccolto olive dall'olivo da lui piantato. "La raccolta delle olive -scriveva Plinio il Vecchio- segue la vendemmia, e fare l'olio richiede più scienza che fare il vino, in quanto dallo stesso olivo si possono ottenere vari tipi di olio. Il primo tipo di olio si ottiene dalle olive acerbe, questo è il migliore come sapore, inoltre il primo olio che esce dalla pressa è il più ricco"... Plinio asseriva che in questo prodotto l'Italia era al primo posto nel mondo. Soprattutto i Greci usavano l'olio nei ginnasi per detergere il corpo con lo 'strigillo', una pratica che fu introdotta anche a Roma. La maniera di crescere gli olivi oggi in Italia - anche in alcune zone dell'aretino - si è forse adattata ai dettami comunitari, tuttavia si vedono ancora differenze regionali riflettenti tradizioni radicate sicuramente risalenti all'epoca romana. Il pino è un elemento così essenziale del paesaggio italiano classico, Plinio non poteva che classificarlo terzo nella sua dettagliata descrizione degli alberi utili. Il quarto albero da frutto è per Plinio il cotogno, un frutto -ingiustamente ignorato oggigiorno- di origine cretese, col suo evocativo nome di Crysomela. Il melograno è il quinto frutto, assieme alla rarissima pesca. Il melograno aveva associazioni simboliche, soprattutto connesse con la fertilità, la stele di Londa (V sec. a.C.) mostra una donna seduta -la defunta- che regge una melagrana. La Persica, ossia la pesca, ha un nome che ne tradisce l'origine. Proveniva infatti dalla Persia, non era nemmeno comune in Asia, dice Plinio, i Persiani l'avevano ottenuta dal paese dei Tochari, i misteriosi indoeuropei delle oasi della Via della Seta in Cina. Plinio dice che questo è un frutto di recente introduzione, raro in quanto difficile da coltivare. Pesche e susine incominciarono a essere coltivate in Italia dall'epoca di Catone in poi. La prugna, Prunus, più nota era una varietà mezza bianca e mezza viola; ve n'erano tre o quattro varietà italiane, ma si dice che l'armena avesse un profumo incomparabile. Il giuggiolo (Zizipa), che mai mancava presso ogni casa di mezzadro, veniva dall'Asia. Le mele migliori erano quelle di Media (Kurdistan); la mela era il frutto più diffuso e con il maggior numero di varietà, sia ibride che pure. Anche di pere ce n'erano in gran quantità e varietà, la superba era quella più comune sulle mense, ma la crustumiana era la più squisita. Plinio cita decine di varietà di pere assieme alle loro distinte qualità. Cosa sarebbe la campagna Toscana, senza l'onnipresente fico dottato o verdino, che cresce sul ciglio della strada o presso la fonte? Eppure in Etruria non si sapeva cosa fosse un fico, finché la pianta non arrivò con i mercanti egei dalla Calcidice e da Chios. I fichi neri vennero invece dall'Africa al tempo di Augusto, e quelli di Alessandria erano considerati delicatae. Il noce, altro albero oggi comunissimo nel Casentino, non poteva mancare nell'elenco pliniano, tuttavia, il suo nome greco iuglandes tradisce la sua origine orientale. A Roma la noce divenne simbolo del matrimonio in quanto il suo seme è protetto da diversi strati. Prima dell'invenzione dei confetti la sposa gettava le noci ai ragazzi che portavano le fiaccole durante la cerimonia. Il rumore delle noci che cadevano al suolo era simbolo e incoraggiamento alla gioia. Il mallo della noce era usato anche qui in Casentino per tingere la lana, in tempi anche recenti. Le donne (e forse anche gli uomini) che incanutivano, ricorrevano alle giovani noci, che infrante e passate sopra i capelli, gli davano un colore rosso scuro simile all' hennè. La nocciòla, ossia la avellana (da Avellino in Campania, secondo Plinio), è autoctona in Italia, ma varietà più grosse vennero dal Ponto. A Roma si vendevano tostate sulle bancarelle in inverno. Le mandorle comparvero in Italia all'epoca di Catone che le chiama infatti noci greche. Il castagno non si é affatto diffuso in Italia nel medioevo, ma assai prima. E' questa una pianta che, prima dell'arrivo della patata, costituiva l'essenziale alimento per i pastori delle montagne che vivevano sopra la linea di crescita dei cereali. Questo frutto squisito sostituì l'amara ghianda e la magra faggiòla già in epoca romana. I Romani facevano larghissimo uso delle castagne e della farina di queste, nonché del preziosissimo legno di castagno. Plinio dice che la castagna è buona se arrostita; magari la farina arrostita è migliore, e il pane che se ne ottiene viene consumato dalle donne quando osservano il digiuno. Il castagno viene dall'Asia Minore, Plinio dice da Sardis, i Greci le chiamavano sardianos prima di chiamarle, come fanno, Dios balano. I Romani ne conoscevano più varietà di noi, coltivavano la pianta, innestandola e ottenendone molti ibridi. Il moro nero o gelso nero non è stato importato dalla Cina per la coltivazione del baco da seta, come molti incautamente asseriscono, questo esisteva in epoca romana, è il moro bianco, che venne invece dall'Oriente all'epoca di Giustiniano, quando si scoprì il segreto della seta. Due monaci nestoriani, di ritorno dalla Cina, portarono a Bisanzio dei bachi da seta nascosti nei loro bastoni di canna di bambù. La fragola e il corbezzolo erano ritenuti da Plinio lo stesso frutto. Si riteneva che lo stesso frutto crescesse su due piante estremamente diverse: l'una un arbusto, l'altra un'erba. In inglese rimane la tradizione pliniana che non distingue la fragola dalla corbezzola, ambedue dette "strawberry". Plinio dice anche che il ciliegio era sconosciuto in Italia, prima della vittoria di Lucio Lucullo contro Mitridate nel 74 a.C. cosa difficile da credere. Eppure Lucullo stesso importò il ciliegio dal Ponto (Crimea) ..." in 120 anni, -asserisce Plinio- questa pianta ha traversato l'oceano giungendo fino alla Britannia"... Come omettere le numerose varietà di quercia quando si descrive l'ambiente della Toscana? Oggi neppure una persona educata riconosce una varietà di quercia da un'altra, quando si saprà che in Italia ne sono comuni ben sei varietà molti si sorprenderanno. Plinio inizia il suo resoconto dalle ghiande:...Le ghiande, ancora oggi costituiscono la ricchezza di molte genti, perfino in tempo di pace. Inoltre, quando il grano scarseggia, esse vengono seccate e macinate in farina da cui si fa il pane... Vi sono molte varietà di ghiande, esse differiscono nel frutto, nello habitat, nel sesso e nel sapore... (Plinio, Lib.XVI;VI) Il cipresso, così tipico del paesaggio toscano, è un albero che, come rivela il nome, proviene dal Mediterraneo orientale. Plinio dice che questa esotica pianta è stata introdotta in Italia a fatica. …”Il cipresso -scrive Plinio- è un albero talmente brutto, talmente inutile, che per questo motivo lo si relega a lato della porta di casa per ricordare i nostri cari scomparsi”… Il paese di origine del cipresso, secondo Plinio, è l'isola di Creta, forse anche Cipro, dato il nome! Forse il cipresso fu importato in Italia verso il V secolo a.C., tuttavia pare che crescesse spontaneo ad Ischia e forse anche a Taranto. Gli ontàni (Alnus)crescevano lungo i corsi d'acqua, come oggi, proteggendo le sponde dall'erosione in caso di piene. Fra questi crescono i più alti pioppi neri, specialmente nella Gallia Cisalpina, la patria dei pioppi. Sono questi alberi autoctoni residui dell'Era Glaciale, che hanno il ruolo insostituibile di rendere meno franosi gli argini di fossi e torrenti. Ma non sarebbe completa questa breve storia di alberi e piante senza uno sguardo a due essenze importati per le loro associazioni mitico rituali: la mortella (o mirto), e il lauro (o alloro). Dalla mortella gli Etruschi e i Romani ottenevano sia due varietà di olio e vino, che una bevanda detta myrtidanum. La bacca del mirto veniva usata al posto del pepe prima che questa spezia fosse in uso comune; il salame mirtato non deve essere stato dissimile dal toscano di oggi. Anche questa pianta ha un nome greco, per cui Plinio la ritenne d'importazione. La mortella era una pianta sacra a Venere e dal suo olio si otteneva anche una specie di incenso per i riti religiosi. L'alloro, o lauro, era assegnato alla celebrazione dei trionfi, ma veniva anche largamente usato nei giardini. Plinio dice che ornava i portali dell'imperatore e del gran sacerdote, appeso in festoni. Il lauro, che cresceva in gran profusione sul Monte Parnasso assieme al bosso, fu consacrato ad Apollo. Tiberio si poneva in testa una corona di lauro quando c'era un temporale, per proteggersi dal fulmine sull'alto della rupe di Capri. Assieme all'alloro, la quercia era ugualmente usata nelle corone onorifiche. Una corona di foglie di quercia pendeva sempre sulla porta di casa di Giulio Cesare. La Corona Civica era di quercia, era l'emblema della clemenza dell'Imperatore. Si adornavano con corone di quercia e alloro le vittime sacrificali e gli officianti il sacrificio, gli eroi, le prore delle navi, gli edifici pubblici ecc. La quercia più usata era l'isco (Aesculum) che lascia il nome a Pian di Scò (Pian d'Isco). Erano conifere e faggi gli alberi che Plinio il Giovane dice adornavano le vette del Monte Fumaiolo e dell'Alpe della Luna. Sorprenderà gli ignari sapere che il paesaggio dell'Italia classica era assai meno ricco di alberi e boschi di quanto lo sia oggi. Nelle aree più densamente abitate il paesaggio veniva letteralmente spogliato per trarne legna e carbone. Non vi era casa degna di questo nome senza un bagno (non l'eufemismo di oggi che significa 'cesso', ma un vero bagno), non vi era vicus privo di bagni pubblici, e questi erano riscaldati con enormi quantità di legna. Naturalmente, nei luoghi meno accessibili e dai quali era difficile il trasporto della legna, le foreste erano estese e anche impenetrabili. Si pensi alla nota Selva Cimina, che sui monti Cimini costituì il confine naturale e un vero baluardo fra Roma e l'Etruria per secoli. Il Pinus picea, che cresce in montagna, era la conifera più comune per il largo uso che si faceva del suo legno. Anche il pino si piantava assieme al cipresso presso la porta di casa e presso i cimiteri in memoria dei morti; la sua resina era mischiata al franchincenso perché gli somigliava nell'odore e costava meno. La pece, di cui i Romani facevano largo uso, si otteneva da questo pino. L'abete forniva il legno per i cantieri navali, ma purtroppo cresceva sempre lontano dal mare. I suoi pedàni così diritti servivano anche nell'edilizia e in mille altri impieghi. Il larice, il cui legno era fra i migliori nel campo delle conifere, non marciva ne intarlava. Il suo bel colore rossiccio e il suo profumo lo facevano impiegare nella costruzione delle case; la sua resina è abbondante e mielosa. Il tasso, Taxus baccata, era, secondo i Romani, tristis ac dira, la sua bacca purpurea è tanto velenosa quanto bella a vedersi. La parola 'tossico', secondo Plinio, proviene proprio da tassico cioè il veleno del tasso. Tuttavia, toxica significa anche arco per frecce, e il micidiale longbow degli inglesi del medioevo era fatto di tasso. L'acero è invece un albero dal legno pregiato per farne mobilio; esiste in diverse varietà: quello bianco è detto gallico perché cresce a nord del Padus e oltre le Alpi. Il miglior legno in assoluto è quello del bosso, l'essenza più comune nei giardini e nei parchi dei Romani. Il bosso cresce in grandi foreste sul Pindo, dove i boschi sembrano il paradiso arcadico ideale di un romano. Dal nome del bosso deriva l'inglese box (scatola), poiché nel medioevo il legno serviva anche a far cofanetti per i gioielli delle dame. Il legname da costruzione era tagliato dall'inizio dell'autunno fino a prima che incominci a soffiare il vento favonio, cioè alla primavera, quando il legno si risveglia e vegeta, come dice Vitruvio. Gli alberi si tagliavano secondo precise regole per far sì che il legno risultasse duraturo e inattaccabile ai tarli. Si segava attorno al tronco fino al midollo, lasciando in piedi l'albero, quando la linfa era sgocciolata e il legno asciutto, allora lo si abbatteva. Vitruvio dice che il legno delle foreste dell'Appennino tirrenico era migliore di quello delle foreste padane e adriatiche che sono meno soleggiate, quindi le pendici tirreniche dell'Appennino dovevano essere molto più spoglie in quanto il loro legno era più desiderabile. I prodotti agricoli dei Romani erano numerosissimi, anche se molti di quelli che oggi noi usiamo non erano noti allora, ugualmente, potremmo dire che molte cose coltivate e consumate allora vengono ingiustamente ignorate oggi. Il cereale principale, il più antico e il più usato dalle classi povere per la farina del pane e le farinate, era, appunto, il 'farro', ossia il Triticum dicoccum che Virgilio chiama robustaque farra e Plinio definisce primus antiquis Latio cibus. Dalla farina, ador, si facevano delle torte, Adorea liba, che venivano consumate durante la cerimonia del matrimonio. Il grano comune, Frumentum, il grano per eccellenza che nequiquam pingues palea teret area culmos, come dice Virgilio, poteva anche allora prendere la ruggine. L'orzo aveva due varietà, una a due file di grani e una a sei, Hordeum distichum e hexastichum; dall'orzo schiacciato si otteneva la polenta, Giovenale parla di iuventus...grandi pasta polenta mentre Ovidio dice tosta quod coxeratante polenta dimostrando che la polenta, sia pure d'orzo, esisteva prima dell'arrivo del mais dalle Americhe. La fava, Faba, era nota nella varietà piccola, che serviva soprattutto come cibo per il bestiame; allora veniva mangiata vere fabis satio dice Virgilio, e laetum siliqua quassante legumen. Il pisello, Pisum, era comune anche se aborrito dai poeti. Il cece, Cicer, giunse in Grecia dall'Asia occidentale ed era comunissimo, veniva arrostito come si fa oggi in Grecia e nel Medio Oriente; Orazio dice infatti “fricti ciceris...emptor”. I fagioli sono un'importazione dall'America, ma non tutti, il Phaselus o Phaseolus menzionato da Virgilio e da Columella, è risultato, tramite l'archeologia, corrispondere al toscano fagiolo dall'occhio, che è in realtà il Dolichos sinensis, che venne dall'Asia, coltivato in tutto il Mediterraneo. La véccia Vicia era comunissima in quanto nativa, così come il lupino: “tristi lupini...silvam sonantem” di Virgilio. Il carrubo, Siliqua graeca era comune quanto oggi per nutrire gli animali in Sicilia, a Malta e nel meridione. I verdi campi, i prati di Plinio, risplendevano del verde smeraldino dell'erba medica, Medicago, esattamente come oggi: “te quoque, medica, putres accipiunt sulci” canta Virgilio. Forse l'erba medica è di origine orientale. Fra le verdure di Catone domina la Brassica, il cavolo, che ancora è comune nella forma selvatica originaria, nei nostri prati era consumato anche per le sue qualità curative, nonostante gli inconvenienti: “crambe repetita” come dice Giovenale. In mancanza di verze, si legavano le foglie della comune Brassica, come si fa con la lattuga, per farla crescere bianca e tenera. La rapa Rapum rapulum era probabilmente poco diversa dalla varietà selvatica spontanea pizzicante che cresce ai margini dei nostri orti. La carota e altre radici erano dette pastinaca, mentre il ravanello esisteva col nome di radix che continua nel toscano 'radice', mentre la forma nord italiana 'ravanello' deriva dal greco raphanus. La lattuga, Lactuca, fu prodotta dalla pianta selvatica tramite selezione, come l'endivia, Intubum, e la cicoria, Cichoreum. Il carciofo, Cinara, era assai più piccolo e assai più spinoso del nostro. Il sedano, Apium, fu sviluppato da un'erba semiacquatica. L'asparago, Asparagus, tipico della regione mediterranea, fu cantato da Giovenale “montani asparagi..quos legit uilica”. La lacrimosa Caepa di Columella, la cipolla, arrivò durante la protostoria dall'Asia occidentale, quindi raggiunse la Siria, la Grecia e infine l'Italia. Anche il porro, Porrum capitatum, venne dall'oriente, così come l'aglio, Allium, che giunse in Europa coi primi agricoltori che si insediarono attorno al Mediterraneo. Il cetriolo, Cucumis citrullus, venne dall'India settentrionale, attraverso i mercanti Tolomei. Tiberio mangiava cetrioli tutto l'anno facendoli crescere nelle serre. Il 'cocomero' venne dall'Africa anche perché Columella lo chiama Alexandrinae cucurbitae, ma era più piccolo del nostro. Il 'popone' era sconosciuto poiché non ancora giunto dall'Asia Centrale. Un'altra cucurbitacea era la zucca che venne anch'essa dall'India. I funghi erano più noti ai Romani che a noi, essi ne conoscevano le buone e le cattive qualità: Agrippina avvelenò Claudio con l'Agarico; invece per Giovenale il porcino era domino dei funghi. Il tartufo, tuber, veniva importato dall'Africa, ma cresceva oggi come allora in tutte le valli appenniniche. Il cappero, Capparis, era noto in quanto pianta mediterranea, così lo erano la menta, Mentha, la ruta e il cuminum, usati come spezie, assieme al coriandolo, e all'anice. I Romani conoscevano il pepe, l'aloe e anche il riso, ma questi prodotti non erano diffusissimi. Per quanto riguarda i fiori del giardino vi erano diverse varietà di rose, come la famosa rosa di Damasco (Rosa bifera), altre varietà venivano dal Caucaso e dalla Persia. Erano famosi i giardini di rose di Paestum. Il giglio bianco (Lilium) venne dall'Asia occidentale in Grecia e poi in Italia. Nei giardini etruschi e romani vi erano narcisi e giunchiglie, la verbena e l'acanto. Vi erano anche l'assenzio, il piretro, la manrdagora e l'elleboro velenoso, oltre alla cicuta. Camminando per le stradelle sterrate della Toscana non mancheremo di riscontrare presso i fossi e i margini della via, queste erbe e alberi, che se oggi servono solo da ornamento, essi formavano un tempo parte integrante della cultura e dell'economia di ogni giorno. I pioppi e gli ontani crescono ancora lungo i torrenti, i salici lungo fossi e canali, i cipressi fiancheggiano stradelle ormai dimenticate, l'acero campestre cresce incontrollato qua e là, spesso assalito da una vecchia e stenta vite, mentre l'assenzio (Artemisia) cresce quasi esclusivamente nei pressi di insediamenti molto antichi, così accade per lo 'spinacio medievale' (Chenopodium bonusHenricus), poiché cibo preferito dall’Imperatore Enrico II, che infesta i campi laddove da sempre vi sono campi. Cicerchie, vecce, lupini e piselli inselvatichiti, decorano i margini di enormi campi di foraggio o di girasoli, in regola coi dettami EU. In anni relativamente recenti, forse dal secolo XVIII, si diffuse nel Casentino e nel Mugello la coltivazione della vite “maritata” all'acero campestre, potato in forma di candelabro. Non vi erano vigneti come nel medioevo o come oggi, ma solo viti singole distribuite più o meno fittamente in campi seminati a grano o foraggio, “sposate” all'acero. Questo sistema di crescere la vite ha una storia affascinante quanto curiosa. Il primo esempio di vite maritata ad un albero vivo lo si trova nel bassorilievi di Ninive nel British Museum, ma non è tutto. Seconda la tradizione greca classica Dioniso giunge in Occidente dall'India cavalcando una tigre e portando con sé un pampino di vite, la prima vite vinifera che poi si sarebbe diffusa in tutto il Mediterraneo. Questa “India”, terra di origine di Dioniso, è oggi l'area che comprende l'Uzbekistan, il Tajikistan, l'Afghanistan e il nord del Pakistan, detta Piccola India fino al Medioevo. Qui si trova infatti la piu grade varietà di vite vinifera di ogni altro paese, qui viti vecchie di oltre 100 anni si trovano “maritate” ad altissimi Populus nigra mesopotamica e ad altri tipi di alberi. Come si vede in una stupenda foto del 1908 che mostra l'esploratore italiano Filippo De Filippi accanto a una vetusta vite di questi tipo. Ciò prova ancora una volta che la leggenda ha sempre un fondo di verità. Gli aceri campestri crescono fuori controllo, e non servono più per sostenere una vite, mentre L’assenzio" (Arthemisia absinthum) cresce esclusivamente su siti antichi e medievali in quanto non si diffonde da dove è stato piantato una volta. Lo stesso si può dire dello spinacio di Good -KingHenry" (Choenpodium bonus Henricus), non è più considerato come la delicatezza dei banchetti reali. La veccia selvatica, lupini e piselli crescono spontaneamente sul ciglio della strada, non vengono più ricercati da bocche affamate. Il paesaggio dell'antica Toscana non era molto diverso da quello mostrato dalle prime fotografie, ma iin epoca etrusca, come nel medioevo, le valli alluvionali non erano ampiamente coltivate. Gli Etruschi coltivavano più intensamente le colline che le pianure. In sostanza, solo i cereali si coltivavano nelle valli, soggette ad alluvioni, mentre le colline erano terrazzate e finemente lavorate in ogni angolo. Il latifundi tardo romani, si trovavano in gran parte su dolci pendii e pianure. Curiosamente, l'area industriale del Casentino dei Pianacci, tra Bibbiena e Partina, scelta da un moderno istinto pratico, piuttosto che da una pianificazione razionale fu scelta anche dai romani. A cosa servono tali conoscenze oggi? Un'antica tradizione diffusa in tutte le culture, implica che le cose esistono in virtù del fatto che sono nominate. Le cose, animali, vegetali e minerali esistono perché hanno un nome. Tutto ciò che ha un nome ed è conosciuto appartiene a noi in virtù del fatto che possiamo npmionarlo quindi immagazzinarlo nel cervello. Nominare una cosa significa possederla, afferrarla con la testa. Oggi poche persone possono nominare un gran numero di animali vegetali e minerali, questo è uno dei motivi per cui siamo oggi più poveri dei nostri antenati. Fortuna che non siamo sempre consapevoli di questa perdita di conoscenza! Possiamo essere ricchi proprietari di molte altre cose, ma siamo senza dubbio molto, molto più poveri come possessori del nostro ambiente naturtale, come ce lo hanno consegnato i nostri antenati, quindi noi e il pianeta, soffriamo le conseguenze di questo collasso culturale. Giovanni Caselli