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Boeri T. - Populismo e stato sociale

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i Robinson / Letture
Tito Boeri
Populismo e stato sociale
Editori Laterza
© 2017, Gius. Laterza & Figli
Edizione digitale: maggio 2017
www.laterza.it
Proprietà letteraria riservata
Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma
Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy)
per conto della
Gius. Laterza & Figli Spa
ISBN 9788858129968
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata
Sommario
Premessa
1. Chi sono i populisti? Democrazia diretta e corpi intermedi
2. Le ragioni della resurrezione dei partiti populisti
3. Meglio affrontare i problemi alla radice anziché inseguire i populisti
4. Una proposta modesta, ma fattibile
Riferimenti bibliografici
Appendice. I partiti populisti europei
Premessa
Da Jacques Delors in poi si è soliti descrivere il processo di integrazione
europea con la metafora della bicicletta: “o pedali e vai avanti oppure ti
fermi e quindi cadi”. Vi confesso che non mi è difficile cedere a questa
convenzione. Ma permettetemi di notare che i presunti pedalatori hanno
oggi di fronte a loro una salita particolarmente impegnativa e, almeno a
giudicare dalle foto che si trovano su Internet, i leader europei non sempre
si trovano a loro agio pedalando sulle due ruote. La salita che sta loro di
fronte è come il muro di Sormano, con pendenze del 20%, impegnative
anche per chi sale a piedi e tali da far rischiare il ribaltamento.
Non è il primo muro che l’Europa si trova di fronte: quello di Berlino
era ancora più ripido ed è stato superato brillantemente, demolito, dal
gruppo compatto. Frammenti del muro di Berlino sono oggi visibili a
Potsdamer Platz e vengono sorpassati in scioltezza dai ciclisti del Velothon
Berlin. Ma a questa nuova dura e pericolosa prova l’Europa sta arrivando
divisa, con defezioni già annunciate e un pubblico tutt’altro che ben
disposto verso chi affronta la salita. A rischio non è solo la moneta unica,
ma anche l’Unione Europea, almeno per come la conosciamo.
Il pericolo ha un nome ben preciso. Si chiama populismo, la possibile
affermazione di partiti che offrono un messaggio semplice quanto
pericoloso: interrompere il processo di integrazione europea e chiudere le
frontiere agli immigrati, per meglio proteggere le persone più vulnerabili
dalle sfide della globalizzazione. È un messaggio che mina alle basi il
principio della libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione
Europea su cui si fonda, a partire dal Trattato di Roma, il processo di
integrazione politica ed economica europea.
È un messaggio che toglie soprattutto ai giovani la migliore assicurazione
sociale contro la disoccupazione di cui oggi possano disporre. Trovare
lavoro in un altro paese dell’Unione è un’opzione per molti quando le
cose vanno male dove si è vissuti sin lì. Lo testimonia il vero e proprio
esodo di giovani italiani verificatosi negli ultimi sei anni, contestuale alla
forte crescita della disoccupazione giovanile nel nostro paese. Un esodo
esploso soprattutto negli ultimissimi anni di questa interminabile crisi,
quando sono emigrati più di 100.000 italiani all’anno. Lo documenta la
figura 1, che mostra il numero di italiani che ha fatto domanda di
iscrizione all’AIRE, Anagrafe italiana residenti all’estero (linea nera
continua, asse di sinistra), in parallelo all’andamento del tasso di
disoccupazione giovanile (linea grigia tratteggiata, asse di destra). Gli anni
di recessione sono ombreggiati.
Figura 1. Disoccupazione giovanile ed esodo
La mobilità del lavoro è tanto più necessaria nell’ambito dell’unione
monetaria. Le differenze nei livelli della disoccupazione tra paesi dell’euro
non sono mai state così grandi come dopo la Grande Recessione e la crisi
dell’area euro. Mentre Austria e Germania hanno mantenuto tassi di
disoccupazione relativamente stabili e inferiori alle due cifre anche per i
giovani, la Francia ha conosciuto un aumento della disoccupazione
soprattutto tra i lavoratori poco qualificati di tutte le età, mentre nei paesi
del Sud Europa si è verificata un’impennata nei livelli di disoccupazione,
con punte del 40-60% fra i più giovani.
La mobilità territoriale nell’ambito dell’Unione Europea è anche un
potente fattore di integrazione culturale. Non è un caso che i giovani, la
componente più mobile della popolazione, si riconoscano molto di più dei
loro genitori nell’identità europea. Un’Europa che ripristina rigidi confini
nazionali, che erige muri al suo interno, diventa una mera entità
geografica, anziché un progetto di integrazione.
Nelle pagine che seguono vorrei, innanzitutto, cercare di offrire una
definizione del populismo un po’ meno generica di quella di uso corrente
e, soprattutto, capire le ragioni del crescente successo elettorale dei partiti
populisti e della loro capacità di dettare l’agenda anche agli altri partiti.
Intendo, successivamente, affrontare il rapporto fra populismo e stato
sociale, un rapporto strettamente legato alla questione dell’immigrazione.
Una delle conclusioni di questa analisi è che i populisti offrono le risposte
sbagliate a problemi reali, profondi, vissuti da milioni di persone. Di qui la
scelta di discutere, nel terzo capitolo, possibili riforme dello stato sociale
che, assieme a un diverso ruolo dei corpi intermedi, possano affrontare alla
radice questi problemi. Infine, consapevole delle difficoltà che queste
riforme incontrano e dei tempi lunghi che richiedono, vorrei avanzare
una proposta, che può apparire modesta alla luce della dimensione dei
problemi sin lì affrontati, ma che ha il pregio di avere un alto valore
simbolico e di essere immediatamente realizzabile.
1. Chi sono i populisti?
Democrazia diretta e corpi intermedi
Chi sono i populisti? Secondo l’Enciclopedia Britannica, “I populisti
affermano di essere i protettori dell’interesse del cittadino medio contro le
élites: assecondano le paure e gli entusiasmi del popolo e si fanno
promotori di politiche senza considerarne le conseguenze per il Paese”.
Il pregio di questa definizione è che mette in luce gli orizzonti angusti
della strategia politica di questi partiti: offrono una protezione di
brevissimo respiro, apparentemente immediata, ma al tempo stesso del
tutto inefficace nel volgere di poco tempo. Chiudere le frontiere a persone
e a prodotti provenienti da altri paesi può sembrare un modo per
proteggere la popolazione autoctona dalla concorrenza degli immigrati e
dei paesi a basso costo del lavoro. Ma una strategia politica basata sui muri
ignora le possibili reazioni degli altri paesi. Questi possono rispondere
chiudendo a loro volta le frontiere ai beni prodotti internamente causando
la perdita di molti posti di lavoro. Inoltre, le importazioni dei paesi
avanzati consistono spesso in beni intermedi che servono a rendere più
competitive le esportazioni: rendendo più costose le prime, si inibiscono
le seconde.
Anche il protezionismo nel mercato del lavoro, piuttosto che in quello
dei beni, è di breve respiro e può rivelarsi presto controproducente. Il
rischio è quello di sostituire immigrazione regolare con immigrazione
clandestina, molto più difficile da gestire. La regolarizzazione degli
immigrati, come documenta una recente ricerca svolta nell’ambito del
progetto VisitINPS basata sull’accesso ai verbali ispettivi e ai dati degli
archivi sui versamenti contributivi individuali e delle aziende coinvolte,
porta a una emersione, persistente nel tempo, di base contributiva.
Chi invece arriva in modo illegale e non ha alcuna opportunità di
regolarizzarsi, non solo non paga i contributi, ma è anche esposto a un
rischio più alto di venire coinvolto in qualche attività criminale. Un
effetto causale della mancanza di regolarizzazione sul coinvolgimento in
attività illegali è stato riscontrato dagli studi che hanno comparato le sorti
di chi ce l’ha fatta e di chi non ce l’ha fatta in uno dei click days per la
regolarizzazione degli immigrati.
Se poi gli altri paesi reagiscono chiudendo a loro volta le frontiere,
questo finirà per trattenere da noi persone che avrebbero migliori
opportunità d’impiego altrove. E non bisogna mai dimenticare che gli
immigrati hanno reso più competitive le nostre imprese e risolto i
problemi di molte famiglie italiane nel colmare le falle evidenti del nostro
stato sociale nell’aiutare le persone non-autosufficienti.
Analogamente, tagliare le tasse e aumentare la spesa pubblica, un altro
Leitmotif della propaganda populista, può nell’immediato migliorare la
situazione di molte persone, ma rapidamente porta all’isolamento
internazionale e al collasso di un paese, con un forte peggioramento delle
stesse condizioni di vita iniziali dei più deboli. Il tutto mentre un pesante
fardello di debito pubblico viene lasciato in eredità alle generazioni future.
La definizione di populismo che, a mio giudizio, è ancora più utile nel
circoscrivere e insieme capire questo fenomeno è quella offerta dal
politologo olandese Cas Mudde. Si tratta di una ideologia (e di una
conseguente strategia politica) “leggera” che considera la società come
composta da due gruppi omogenei, da due blocchi monolitici, tra di loro
contrapposti: da una parte il popolo, dall’altra l’élite corrotta (declinata al
singolare).
Il pregio di questa definizione è che mette in luce come il peggior
nemico del populismo sia “tutto ciò che sta nel mezzo”, i cosiddetti corpi
intermedi della società civile: dall’associazionismo ai partiti, dalle
rappresentanze di interessi (a partire dai sindacati) alle istituzioni di
garanzia, dalle autorità indipendenti di controllo ai dirigenti indipendenti
di amministrazioni pubbliche. La democrazia dei populisti è la democrazia
diretta che assegna un potere assoluto alla maggioranza, trasformandosi
paradossalmente nella dittatura della maggioranza paventata da Alexis de
Tocqueville in La democrazia in America.
Quella dei populisti è una visione della democrazia ben diversa da quella
propria delle democrazie liberali o industrializzate, in cui sono presenti
molte istituzioni a tutela delle minoranze, che garantiscono il rispetto dei
principi fissati nella Costituzione e che fungono da contrappeso al potere
dell’esecutivo (i cosiddetti sistemi di checks and balances). Questi corpi
istituzionali intermedi (a partire dalle associazioni politiche e dai partiti)
rafforzano anche i legami sociali, permettendo che la delega al potere
pubblico insita nella democrazia rappresentativa non porti al “dominio di
un’autorità lontana e irraggiungibile, fondata sull’isolamento fra uomo e
uomo, dove tutti diventano estranei a tutti”.
La storia ha dato ragione a Tocqueville: molte dittature sono nate da
argomenti populisti. E sono in molti, oggi, a intravvedere il rischio di
evoluzioni di questo tipo anche in Europa, soprattutto fra i paesi dell’ex
blocco sovietico.
I partiti populisti hanno una lunga storia, raramente coronata da
esperienze di governo, almeno nell’ambito delle democrazie
industrializzate. Il termine populismo si deve al People’s Party che
conquistò cinque Stati nelle elezioni presidenziali del 1892 negli Stati
Uniti. In Europa il precedente più rilevante è il movimento poujadista
(dal nome di Pierre Poujade) del dopoguerra francese; in Italia troviamo
tracce indelebili di populismo, in mezzo a tante altre cose, nel partito
dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini.
Le esperienze di governo nazionale dei populisti sono per lo più
concentrate in America Latina, con generazioni di politici ai due estremi
dell’ideologia politica: dalla sinistra dei Perón e Vargas, alla destra di
Fujimori, alla nuova generazione di sinistra di Chávez, Morales e Correa.
Coerentemente con una strategia che guarda ai risultati immediati
ignorando le conseguenze di lungo periodo, i primi mesi dei populisti al
governo sono idilliaci: politiche espansive e un ottimismo che
rapidamente contagia i mercati. Poi, quando i vincoli macroeconomici
impongono le loro leggi, inizia la discesa lungo il maelstrom. Valga per
queste esperienze il giudizio lapidario di Rudiger Dornbusch e Sebastian
Edwards, due illustri economisti che hanno studiato a fondo l’America
Latina:
Più e più volte, Paese dopo Paese, i populisti hanno sposato programmi economici che
richiedevano un uso massiccio di politiche fiscali espansive e una valuta sopravvalutata per
accelerare la crescita e ridistribuire il reddito. L’implementazione di queste politiche si è
normalmente accompagnata ad una indifferenza nei confronti dell’esistenza di vincoli fiscali e delle
leggi economiche che presiedono alla determinazione del tasso di cambio. Dopo un breve periodo
di ripresa economica e di crescita si creano dei colli di bottiglia che provocano pressioni
macroeconomiche insostenibili le quali, in ultima analisi, si traducono in un crollo dei salari reali e
in serie difficoltà nella bilancia dei pagamenti. Il risultato finale di questi esperimenti ha provocato,
in genere, inflazione galoppante, crisi e collasso dei sistemi economici. All’indomani di questi
esperimenti non c’è alternativa se non implementare, solitamente con l’aiuto del Fondo Monetario
Internazionale, un drastico e costoso programma di stabilizzazione. Il carattere autodistruttivo del
populismo si nota in particolare nella brusca riduzione del reddito pro capite e dei salari reali che si
verifica sul finire di queste esperienze.
Ci sono sicuramente differenze importanti fra i partiti populisti oggi
presenti nei vari paesi europei. Alcuni sono ideologicamente più vicini alla
destra, altri alla sinistra, altri ancora sono partiti trasversali, che superano la
dicotomia destra-sinistra in nome della contrapposizione fra popolo ed
élite. Ma tutti questi partiti hanno in comune una forte vocazione antieuropeista, sovranista e, nella quasi totalità dei casi, anti-immigrazione.
Hanno acquisito sempre più rilievo negli anni della Grande Recessione e,
poi, in quelli della crisi dell’Eurozona, traendo infine nuova linfa vitale
dall’esplosione del problema dei rifugiati.
Fatto sta che oggi ci sono partiti populisti che raccolgono almeno il 10%
dei voti in venti paesi europei. Mediamente contano per il 17%
dell’elettorato. In cinque paesi, tra cui l’Italia, sono il primo partito; in
sette paesi (Finlandia, Grecia, Lituania, Norvegia, Slovacchia, Svizzera e
Ungheria) sono al governo. E i sondaggi per le prossime elezioni li danno
quasi ovunque in crescita.
L’avanzata del populismo e, più in generale, la sfiducia nella classe
politica che questa esprime si riflette anche in una riduzione della
partecipazione alle elezioni. In genere populismo e astensionismo vanno
di pari passo ed esprimono un rifiuto diffuso per la classe dirigente.
Oltre alla loro influenza diretta, alla loro capacità di porre al centro del
confronto i temi a loro più congeniali, i partiti populisti riescono a
spostare le piattaforme degli altri partiti. Questi, nel cercare di non
perdere terreno, spesso inseguono il nazionalismo e sono disposti anche a
rinunciare a principi fondamentali, come ad esempio quello della libera
circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione. Molto anti-europeismo
oggi acquisito da partiti e leader politici in passato favorevoli
all’integrazione europea può essere letto in questo modo: il tentativo di
occupare uno spazio che altrimenti sarebbe destinato ai partiti populisti.
Per questo è importante trovare antidoti al populismo anche quando non c’è un
rischio concreto che questi partiti possano andare al potere. Per certi aspetti, al
potere lo sono già. E dove non sono al governo, quasi sempre detengono il
monopolio dell’opposizione, obbligando gli altri partiti a formare
coalizioni altamente eterogenee e perciò particolarmente inefficaci
nell’affrontare le sfide che molti paesi hanno di fronte dopo una lunga
crisi.
2. Le ragioni della resurrezione
dei partiti populisti
Dietro al successo recente dei partiti populisti c’è una tensione latente fra
domanda e offerta di protezione sociale. Da una parte, una crescente
vulnerabilità ai cambiamenti tecnologici e alla globalizzazione di vasti
strati della popolazione alimenta una forte domanda di protezione.
Dall’altra, non ci si fida di chi dovrebbe offrire questa protezione e,
dunque, si avverte la necessità di rivolgersi ad outsiders che non abbiano
apparentemente alcun legame con la classe dirigente.
C’è, dunque, una ragione economica (la perdita di reddito e di sicurezza)
e una motivazione di tipo culturale (la sfiducia verso le classi dirigenti) alla
base della resurrezione dei populisti. È il loro incrocio a produrre il
populismo come fenomeno diffuso e potenzialmente maggioritario. Uno
dei due ingredienti, da solo, probabilmente non basterebbe.
I dati sulla distribuzione planetaria del reddito ci dicono che esiste un ceto
medio-alto del mondo, costituito soprattutto dalle persone poco istruite nei
paesi avanzati, che negli ultimi venti anni ha pagato un prezzo elevato alla
globalizzazione. La figura 2 mostra, sull’asse orizzontale, la scala dei
redditi mondiali nel 1988, a sinistra quelli più bassi, a destra quelli più alti.
L’asse verticale, invece, ci dice di quanto questi redditi sono variati in
termini reali nei venti anni successivi. L’avvallamento che si nota fra il 75°
e il 95° percentile documenta che coloro che si trovavano trent’anni fa fra
il 25% e il 5% più ricco della popolazione mondiale hanno subìto, nei
venti anni successivi, un brusco peggioramento della loro posizione
relativa nella scala dei redditi, non partecipando alla crescita globale. Si
tratta per lo più di lavoratori poco qualificati nelle economie avanzate.
Non è avvenuto così in altre parti della distribuzione del reddito
mondiale, ad esempio tra i lavoratori poco qualificati dei paesi emergenti,
localizzati per lo più fra il 20° e il 50° percentile, dove i redditi reali sono
aumentati anche in modo consistente.
Figura 2. Cambiamenti percentuali del reddito reale a diversi percentili della distribuzione
globale del reddito
In aggiunta alla globalizzazione, il progresso tecnologico di molte
democrazie industrializzate ha comportato una polarizzazione delle
opportunità di impiego, esponendo la parte inferiore del ceto medio al
rischio di povertà, rendendo socialmente vulnerabili persone che non
avrebbero mai pensato di esserlo.
Tutto ciò è avvenuto mentre lunghi anni di crisi e l’affievolirsi delle
opportunità di mobilità sociale hanno portato a una profonda sfiducia nei
confronti di chi dovrebbe offrire protezione sociale. Poco importa se le
classi dirigenti dei diversi paesi hanno effettivamente responsabilità nella
crisi o se questa sia dovuta a fattori esterni. Quel che conta è che le classi
dirigenti vengono percepite come corrotte e lontane anni luce dai
cittadini. Si chiede protezione, ma al contempo si rifiuta chi potrebbe offrirtela, è il
“grande paradosso” che Arlie Russell Hochschild rinviene nel suo viaggio,
da straniera a casa propria, fra gli elettori di Donald Trump.
Dietro al successo elettorale dei populisti ci sono, dunque, fenomeni di
lungo periodo – la globalizzazione e il progresso tecnologico – accanto ai
perduranti effetti della Grande Recessione. E c’è anche un tentativo
disperato di riguadagnare sovranità nazionale per redistribuire risorse a
favore di chi è rimasto indietro.
Come si evince chiaramente dalla figura 3, nel referendum sulla Brexit
sono state le componenti del paese con un reddito più basso, qui misurato
in termini di salario orario (asse orizzontale), a votare massicciamente per
l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Viceversa, al crescere
del salario i voti a favore dell’uscita tendono a diminuire drasticamente.
Figura 3. Standard di vita e voto per Brexit
Il dato paradossale è che l’Unione Europea sin qui non ha tolto sovranità
nazionale ai singoli Stati membri nel disegno delle politiche sociali. Non
esiste, del resto, una sola “Europa sociale”, ma tante Europe sociali
distinte. I casi di interferenza di istituzioni sovranazionali europee nel
disegno delle politiche sociali sono relegati alla crisi del debito
dell’Eurozona, alle politiche imposte dalla Troika ai paesi che hanno
accettato di cedere sovranità nazionale per non uscire dall’Europa. Questi
diktat imposti da Bruxelles (e Francoforte) possono spiegare il successo
dei populisti in Grecia, forse più in generale nel Sud Europa, ma non nei
paesi dell’Europa continentale e settentrionale.
C’è un’altra forma di minaccia alla sovranità nazionale sulle politiche del
welfare nei paesi con uno stato sociale più generoso, sulla quale i partiti
populisti capitalizzano consensi. È una minaccia indiretta. Si basa sulla
relazione fra stato sociale e immigrazione. Sarebbe quest’ultima a togliere
sovranità ai paesi nel disegno del proprio welfare state. Gli immigrati hanno,
in effetti, tutte le caratteristiche di un comodo capro espiatorio: visibili,
circondati spesso da pregiudizi, con forti difficoltà di integrazione
culturale e sociale. L’immigrazione è un tema che polarizza l’opinione
pubblica, il terreno ideale per chi vuole scomporre, ricomporre e
riallineare gruppi di elettori.
Come documenta questa breve rassegna di citazioni di politici populisti
in paesi con uno stato sociale relativamente generoso, tutti gli immigrati –
comunitari o extracomunitari – vengono descritti come vere e proprie
“spugne dello stato sociale”.
Secondo questi mistificatori di professione, è per colpa degli immigrati
che la spesa sociale deve essere tagliata, che bisogna allontanare l’età in cui
si va in pensione, che bisogna tagliare il welfare. Vi assicuro per conoscenza
diretta che i tagli al welfare alimentano odi feroci. Scaricare queste
responsabilità sugli immigrati significa additarli all’odio di molti nostri concittadini.
I dati, peraltro, ci dicono esattamente il contrario. In Italia, ad esempio,
gli immigrati versano ogni anno otto miliardi di contributi sociali e ne
ricevono tre in termini di pensioni e altre prestazioni sociali, con un saldo
netto di circa cinque miliardi per le casse dell’INPS. Certo, a fronte di
questi contributi netti vi saranno un domani prestazioni: gli immigrati di
oggi faranno parte dei pensionati di domani. Ma è anche vero che in molti
casi i contributi previdenziali degli immigrati non si traducono poi in
pensioni. L’INPS ha calcolato che sin qui gli immigrati ci hanno
“regalato” circa un punto di PIL di contributi sociali a fronte dei quali
non sono state loro erogate delle pensioni. E ogni anno questi “contributi
a fondo perduto” degli immigrati valgono circa 300 milioni di euro di
entrate aggiuntive nelle casse dell’INPS.
Stime condotte sugli altri paesi europei, a partire da fonti campionarie,
raffrontando le tasse e i contributi versati dagli immigrati con l’insieme
delle prestazioni sociali (pensioni, sussidi di disoccupazione, assistenza
sociale) loro erogate dai sistemi di protezione sociale nazionali,
evidenziano ovunque un contributo positivo degli immigrati. Questi sono
sottorappresentati fra i beneficiari di prestazioni di tipo contributivo,
mentre, soprattutto nei paesi del Nord Europa, sono sovrarappresentati fra
i beneficiari di assistenza sociale. Dato che i trasferimenti assistenziali
assorbono una quota molto più bassa della spesa sociale dei trasferimenti
contributivi, il saldo complessivo è positivo.
Più difficile valutare l’impatto fiscale dell’immigrazione quando si tenga
conto della spesa sanitaria e per l’istruzione. Gli immigrati, essendo più
giovani della popolazione autoctona, hanno in genere meno bisogno di
assistenza sanitaria dei nativi. Avendo più figli, almeno una volta
completata la riunificazione famigliare, tendono invece a fruire
proporzionalmente di più del sistema educativo.
Come nel caso dei trasferimenti sociali, una valutazione completa degli
effetti fiscali dell’immigrazione richiede di considerare la posizione fiscale
netta per generazioni di immigrati durante la loro intera vita, anziché
soltanto in un dato momento. Tutti gli studi di cui siamo a conoscenza
che hanno compiuto queste valutazioni in Europa, nell’ambito di modelli
di contabilità generazionale, hanno concluso che il saldo netto è positivo
soprattutto se gli immigrati arrivano – come nella stragrande maggioranza
dei casi – da giovani e lasciano il paese che li accoglie quando invecchiano
per tornare al luogo d’origine.
Oltre a disinformare riguardo all’impatto fiscale dell’immigrazione, i
partiti populisti offrono le ricette sbagliate per affrontare eventuali forme
di welfare shopping, di turismo sociale. Impedire la mobilità del lavoro
significa, come già accennato, precludere l’accesso, soprattutto da parte
dei giovani, alla migliore assicurazione contro la disoccupazione oggi
disponibile in Europa: vale a dire cercare lavoro nei paesi che offrono le
migliori opportunità di impiego. È un’assicurazione contro la
disoccupazione che ha, peraltro, il vantaggio di alleggerire la pressione
fiscale sui bilanci nazionali. Chi si sposta e trova lavoro altrove rende il
finanziamento dello stato sociale meno oneroso, non rendendo più
necessari i trasferimenti destinati a chi perde il lavoro.
Gli slogan dei populisti trovano oggi spazio in Europa a seguito
dell’impennata delle richieste di asilo. Il numero di coloro che richiedono
aiuto umanitario è più che quintuplicato negli ultimi anni, passando da
meno di mezzo milione a più di due milioni e mezzo all’anno secondo i
dati dell’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite (figura
4). Molti dei richiedenti asilo arrivano in Europa dall’Asia, essendo la Siria
il principale terreno di conflitto.
Figura 4. Il boom delle richieste d’asilo
L’immigrazione associata allo stato di rifugiato è molto diversa da quella
economica per almeno tre motivi. Primo, origina da conflitti da cui si
cerca di fuggire anziché essere alimentata dalla ricerca di migliori standard
di vita sul piano prettamente economico. Perciò è una migrazione dettata
principalmente da eventi in atto nel paese d’origine piuttosto che dal
richiamo dei paesi di destinazione (dominano i fattori push rispetto a quelli
pull). Il rifugiato raramente può scegliere dove andare e questo limita
fortemente la possibilità che poi si verifichino un inserimento rapido nel
mercato del lavoro e un incontro fra domanda e offerta di competenze.
In secondo luogo, i rifugiati solitamente arrivano per grandi ondate
associate all’aprirsi di nuovi teatri di conflitto, dunque con molta minore
gradualità rispetto all’immigrazione economica. Questo rende
l’integrazione dei nuovi arrivati più difficile. A ciò si aggiunga il fatto che
gli stessi rifugiati hanno minori incentivi a una rapida integrazione,
giacché ritengono che si tratti di una sistemazione temporanea (ciò che, in
genere, ex post non risulta vero).
Infine, la normativa è diversa. La domanda di asilo deve essere presentata
all’arrivo, mentre l’immigrazione economica legale richiede generalmente
che la domanda venga inoltrata prima di lasciare il paese d’origine. Inoltre,
in attesa dell’accettazione della domanda, il richiedente asilo non può
lavorare e perciò inevitabilmente riceve trasferimenti pubblici, dipende
cioè dallo stato sociale senza potervi contribuire. Queste differenze
normative e associati ritardi nel processo di integrazione sono confermati
dai dati. I rifugiati hanno il 50% in meno di probabilità di lavorare
rispetto agli immigrati economici nei primi tre anni dopo il loro arrivo.
Convergono ai tassi di occupazione degli immigrati economici solo nel
giro di quindici anni.
Non sorprende, dunque, che la percezione degli immigrati sia peggiorata
dopo l’impennata nel flusso di rifugiati, nonostante le ragioni umanitarie
che dovrebbero giustificare l’ospitalità loro concessa dai paesi che li
accolgono. L’integrazione sociale è inscindibilmente legata all’integrazione
nel mercato del lavoro e, come si è visto, i rifugiati hanno tempi più
lunghi di integrazione nel mercato del lavoro rispetto agli immigrati
economici.
A riprova di quanto conti l’integrazione nel lavoro, c’è il fatto che
generalmente la percezione degli immigrati è migliore nei centri urbani,
dove è più facile trovare un’occupazione, rispetto ai piccoli centri o alle
zone rurali. Le grandi città possono offrire ancora più opportunità di
impiego ai rifugiati che, come si è sottolineato, non sono nella condizione
di scegliere dove andare. Le città hanno un mercato del lavoro più ampio,
con maggiori probabilità di valorizzare le competenze di questi lavoratori,
di trovare un incontro fra domanda e offerta.
Il populismo rischia dunque di mettere in moto un circolo vizioso in cui
restrizioni alla mobilità rendono più difficile la ricerca di un’occupazione
da parte dei giovani europei e degli stessi immigrati, portandoli a
competere per un impiego in aree che offrono scarse opportunità di
lavoro. Questo può, a sua volta, rendere più oneroso lo stato sociale e
creare forti tensioni anche nell’accesso alle prestazioni sociali.
In altre parole, il populismo, in nome di una virtuale protezione
temporanea contro gli immigrati, finisce per peggiorare le condizioni di
vita non solo degli immigrati, ma anche della popolazione autoctona. E
rende più difficile finanziare le prestazioni dello stato sociale. Il disagio
diffuso può, a quel punto, portare ad un ulteriore aumento della domanda
di politiche populiste, magari affidate ad altri attori.
3. Meglio affrontare i problemi
alla radice anziché inseguire i populisti
Il populismo offre, come si è visto, risposte sbagliate ai problemi da cui
trae la propria forza. Di più: induce a pensare che i problemi più spinosi possano
essere risolti semplicemente sostituendo i politici corrotti con rappresentanti del popolo,
che possibilmente non abbiano alcuna esperienza di governo.
Il modo migliore di evitare nuove cocenti delusioni a chi oggi, quasi per
disperazione, è disposto a scommettere su persone di cui non si sa nulla,
tranne che apparentemente “sono come noi”, è affrontare i problemi alla
radice anziché accettare le libere associazioni della propaganda populista.
Bisogna rimuovere quelle iniquità che trasmettono all’opinione pubblica
l’immagine di una classe dirigente corrotta che pensa esclusivamente ai
propri interessi. Dimostrare nei fatti che le regole dello stato sociale si
applicano anche a chi ha posizioni di potere. Bisogna poi rispondere in
modo convincente alla richiesta di protezione, separando i problemi dello
stato sociale da quelli dell’immigrazione. Si tratta di due problemi
disgiunti, che vanno affrontati a un differente livello di governo. Il
problema dello stato sociale riguarda principalmente le singole
giurisdizioni nazionali. Quello dell’immigrazione è un problema che non
può che essere affrontato a livello europeo.
Nei singoli paesi è importante che avanzi la riforma dei sistemi di
protezione sociale, nella direzione di renderli sostenibili di fronte alle
grandi sfide di questo secolo, dalla globalizzazione al cambiamento
tecnologico. I sistemi di protezione sociale europei sono stati costruiti
soprattutto per rispondere a crisi temporanee, imposte dal ciclo
economico. I sussidi di disoccupazione consentono a chi perde il lavoro di
cercare un impiego alternativo, evitando che si impoverisca fin dal giorno
dopo il licenziamento. In questa loro funzione sociale i sussidi di
disoccupazione hanno anche un ruolo importante dal punto di vista
macroeconomico: impediscono che la crisi diventi più profonda e più
duratura evitando che si metta in moto un circolo vizioso di calo ulteriore
della domanda di beni prodotti dalle imprese e di distruzione di posti di
lavoro.
Analogamente, strumenti che sussidino riduzioni dell’orario di lavoro
come la Cassa Integrazione Guadagni sono adatti per recessioni
relativamente brevi: tengono i lavoratori attivi e impediscono alle imprese,
temporaneamente in difficoltà, di perdere il capitale umano accumulato,
una forza lavoro che nel tempo ha imparato a fondo il proprio mestiere e
che sarebbe difficile sostituire con altri lavoratori una volta che la
recessione è finita.
Prestazioni sociali di questo tipo non possono però gestire crisi
strutturali, che per lunghi anni o addirittura per sempre rendono obsolete
certe lavorazioni o le spostano in altre parti del mondo. Di fronte a sfide di
questa portata i sussidi di disoccupazione, inevitabilmente di durata
limitata, sono, alla lunga, un’arma spuntata. I trasferimenti in costanza di
rapporto di lavoro possono addirittura rivelarsi controproducenti, legando
persone a lavori e imprese che non hanno prospettive.
Per trasformare la protezione sociale ciclica in protezione sociale strutturale
bisogna pensare a strumenti che facilitino la ricollocazione professionale, il
cambiamento di lavoro, anche quando questo comporta inizialmente un
salario più basso di quello avuto in precedenza e un posto sulla carta
“meno sicuro”. Assicurazioni salariali che integrino i salari nei primi anni
in cui si accetta un nuovo lavoro, meno remunerato del precedente,
possono svolgere questa funzione. Fondamentale è anche proteggere senza
inibire la mobilità territoriale, la ricerca di lavoro altrove. Ed è importante
che i regimi di protezione dell’impiego incoraggino un costante
investimento in formazione sul posto di lavoro da parte del lavoratore e
dell’azienda, perché è proprio il miglioramento costante dell’incontro fra
domanda e offerta di competenze che può proteggere dalla competizione
dei paesi a basso costo del lavoro e dall’automazione.
Per chi proprio non ce la fa e rischia di cadere in condizioni di
indigenza, invece, ci vuole un paracadute, un reddito minimo, in grado di
riportare il beneficiario al di sopra della soglia di povertà. L’accesso a
questo reddito minimo garantito è subordinato all’accertamento che le
condizioni reddituali e patrimoniali delle famiglie siano effettivamente al
di sotto della soglia di povertà. Per chi è disoccupato e in condizioni di
lavorare, la possibilità di continuare a ricevere il trasferimento deve essere
condizionata ad un impegno attivo nella ricerca di un impiego.
Offrire protezione sociale strutturale significa anche rendere i sistemi di
welfare sostenibili, in grado di mantenere nel tempo gli impegni che
prendono con i cittadini e con i contribuenti. Uno stato sociale sostenibile
deve essere efficace nel raggiungere chi ha davvero bisogno d’aiuto, senza
disperdere risorse a favore di persone che occupano una posizione
intermedia o addirittura medio-alta nella scala dei redditi. Uno stato
sociale sostenibile deve basarsi in gran parte su un principio assicurativo,
in cui le prestazioni vengono erogate a partire dai contributi versati, come
premi assicurativi. Uno stato sociale sostenibile deve porre in essere un
solido patto fra generazioni, in cui non vi siano stridenti asimmetrie fra il
trattamento riservato a chi oggi è in pensione e a chi oggi entra per la
prima volta nel mercato del lavoro.
La classe dirigente potrà riguadagnarsi la fiducia dei cittadini solo se si
mostrerà capace di autoriforma: non può chiedere agli altri di fare ciò che
non vuole o non è in grado di imporre a se stessa.
Come documentano le barre verticali della figura 5, oggi ci sono circa
2.600 vitalizi in pagamento per cariche elettive alla Camera o al Senato. Si
dica quel che si vuole, ma i vitalizi sono pensioni concesse con regole molto più
vantaggiose di quelle riservate agli altri lavoratori. Già da tempo, a partire da
metà degli anni Settanta, la gestione delle pensioni dei parlamentari ha
presentato evidenti e crescenti squilibri che sono letteralmente esplosi a
partire dalla seconda metà degli anni Novanta, proprio mentre le pensioni
degli italiani venivano fortemente ridimensionate. Con le regole attuali, la
spesa per vitalizi (linea nera) è destinata, anche nel prossimo decennio, a
continuare ad eccedere di circa 100 milioni l’anno i contributi versati da
deputati e senatori (linea grigia).
Figura 5. Spesa per vitalizi, per cariche elettive, contributi e numero dei percettori
Applicando le regole del sistema contributivo oggi in vigore per tutti gli
altri lavoratori italiani all’intera carriera contributiva dei parlamentari, la
spesa per vitalizi si ridurrebbe del 40%, con un risparmio di circa 57
milioni. Supponendo poi che il rapporto fra vitalizi in essere e vitalizi
ricalcolati sia lo stesso per i consiglieri regionali, il risparmio complessivo
in caso di ricalcolo per l’insieme delle cariche elettive salirebbe a 125
milioni di euro (e a circa un miliardo e 235 milioni nei primi dieci anni).
Non sono cifre simboliche. Non si vuole farlo? Ci si vuole trincerare
dietro alla possibile censura della Corte costituzionale? Si cominci
quantomeno a fare un’operazione di trasparenza, procedendo a un ricalcolo dei
vitalizi col sistema contributivo oggi applicato a tutti gli italiani. Nel corso di
audizioni parlamentari e di incontri con l’associazione degli ex
parlamentari ho invitato gli attuali e futuri percettori di vitalizi a darci
tutte le informazioni per procedere a questo ricalcolo a livello individuale.
Ma sin qui nessuno, dico nessuno, ha raccolto questo invito.
Ci vuole inevitabilmente del tempo affinché le riforme dei sistemi di
protezione sociale vengano portate a compimento. Mentre questo lavoro
procede, è fondamentale che le esigenze di chi si sente al margine, di chi è
più vulnerabile, trovino voce. C’è una ragione profonda per cui i populisti
odiano i corpi intermedi: sono il miglior antidoto contro il populismo. Non solo
perché resistono all’occupazione totale dei poteri, come il potere
giudiziario o i sindacati che in Venezuela si sono opposti alla dittatura di
Chávez, ma anche perché offrono alternative al populismo a chi sin qui
non ha avuto voce in capitolo. Chi appartiene a una qualche associazione
della società civile, chi ha una tessera del sindacato in tasca, difficilmente
cade nella propaganda populista.
La figura 6 mostra stime di quanto vari la probabilità di votare per un
qualche partito populista in base alle caratteristiche individuali e
all’appartenenza a una qualche associazione della società civile. I dati sono
tratti dallo European Social Survey, un’indagine condotta in Europa da
ormai venti anni sulla base di un questionario armonizzato tra paesi, e
sono di tipo retrospettivo (si chiede agli intervistati come hanno votato
alle elezioni precedenti). I partiti populisti sono quelli della classificazione
curata dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti (cfr. Appendice).
Figura 6. Variazioni percentuali nel voto per partiti populisti in base alle caratteristiche
individuali e all’appartenenza ad associazioni della società civile
Nota: La variabile dipendente è dicotomica: è uguale a 1 quando l’intervistato ha votato
per un partito populista, e a zero altrimenti.
La figura 6 ci dice che appartenere ad associazioni della società civile
riduce la probabilità di votare per un partito populista di circa il 4% a
parità di altre condizioni. Anche il fatto di possedere un titolo di studio
universitario o superiore sembra incidere in maniera significativa: sono
infatti soprattutto i cittadini meno istruti a votare per i partiti populisti. Vi
sono tanti modi di spiegare il ruolo dell’istruzione nel condizionare il voto
populista. L’istruzione è, ad esempio, positivamente correlata al reddito e
inversamente alle reazioni emozionali (delusione, rabbia, frustrazione,
desiderio di aggressione) che, come vedremo in seguito, spiegano il voto
ad outsiders sconosciuti.
Il documentato ruolo dell’associazionismo nello scoraggiare il voto
populista ha spiegazioni meno ovvie. I contesti collettivi, i movimenti
politici e i social network, possono diventare un’arena in cui coltivare
rancori, dare fiato all’odio contro l’establishment e la “casta”. Il risultato
illustrato nella figura 6 sembra allora discendere proprio dal ruolo
esercitato dai corpi intermedi della società civile nello scardinare la
contrapposizione fra popolo ed élite e nel rafforzare il rapporto fiduciario
che deve instaurarsi in ogni democrazia rappresentativa fra elettori e classe
dirigente.
È una questione di fiducia, prima ancora che di rappresentanza. Quando
sei debole e insicuro cerchi qualcuno di cui poterti fidare. Se non lo trovi,
non ti rimane che scommettere con la forza della disperazione sulle
promesse di qualche bravo oratore, pur sapendo che molto probabilmente
non verranno mantenute. La frustrazione ti spinge solo a punire chi ti ha
deluso, al di là della razionalità di questo comportamento. È il desiderio di
aggressione – un meccanismo psicologico studiato anche nell’ambito
dell’economia comportamentale – secondo cui la frustrazione
conseguente alla delusione delle aspettative porta al desiderio sfrenato di
punire chi ha provocato la delusione. Questo stesso meccanismo spiega il
desiderio di votare per un partito populista, indipendentemente dalle
specifiche piattaforme proposte. In altre parole, chi vota populista lo fa più
che altro per soddisfare il desiderio di punire una classe politica che si è
dimostrata in passato inadeguata in rapporto alle aspettative.
Ovviamente, i partiti tradizionali non sono adeguati a svolgere questo
ruolo punitivo nei confronti della classe politica: non per un problema di
credibilità, ma perché sono essi stessi la classe politica da punire. Il partito
populista, al quale è delegato il compito di punire la vecchia classe
politica, deve invece necessariamente essere un nuovo partito al di fuori
della vecchia classe dirigente. Occorrono, però, non solo partiti nuovi, ma
anche nuovi leader alla loro guida.
Il sindacato, come tutti i corpi intermedi, potrebbe contribuire a ridurre
fortemente il richiamo dei partiti populisti. Ha perciò oggi grandi
responsabilità di fronte alla sua avanzata. In Italia forse ancora di più che in
altri paesi. Che credibilità può avere un sindacato che si oppone
all’introduzione di un salario minimo in Italia, nonostante fosse previsto
dai decreti attuativi del Jobs Act? Perché non pensa innanzitutto a
proteggere i più poveri, selezionando i beneficiari di assistenza in base alla
situazione economica e patrimoniale della famiglia nel suo complesso?
Perché ha chiesto e ottenuto, con l’incremento generalizzato della
cosiddetta quattordicesima, di dare più soldi anche ai pensionati che
vivono in famiglie con redditi e patrimoni elevati, invece di pensare prima
di tutto ad aiutare i più poveri, quale che fosse la loro età?
In Italia solo tre euro su cento erogati per prestazioni sociali vanno al
10% più povero della popolazione, mentre spendiamo quasi cinque
miliardi di euro in misure assistenziali destinate al 40% della popolazione
con redditi più alti. Alla luce di queste cattive proprietà distributive del
nostro sistema di protezione sociale non ci può essere giustificazione di
sorta per la mancanza in Italia di una rete di protezione sociale contro la
povertà, di un reddito minimo garantito, basato su criteri uniformi su
tutto il territorio nazionale.
Sin qui abbiamo visto risposte nazionali al populismo. A livello europeo
vanno, invece, gestiti i problemi comuni, a partire da quelli
dell’immigrazione e dei rifugiati. Affinché l’Unione Europea sopravviva
come area in cui vige la libera circolazione dei lavoratori occorre avere una
politica dell’immigrazione a livello comunitario e una gestione comune
del problema dei rifugiati, con una profonda revisione della convenzione
di Dublino.
Bisognerebbe, innanzitutto, decidere sulle domande d’asilo prima che le
persone in cerca d’asilo entrino nel territorio dell’Unione Europea.
Questo servirebbe a frenare l’ecatombe di disperati che perdono la vita nel
tentativo di raggiungere un paese in cui poter fare domanda d’asilo. A
supporto di questa gestione comune delle domande ci dovrebbe essere un
accordo comunitario su ciò che rende una domanda d’asilo accoglibile e
investimenti comunitari volti alla creazione di strutture di prima
accoglienza al di fuori dei confini dell’Unione.
Occorrerebbe, inoltre, un accordo sulla condivisione fra i singoli Stati
della prima accoglienza dei rifugiati, una volta che questi siano entrati
nell’Unione. Forme di compensazione fra paesi, o addirittura un sistema
di quote che possano essere oggetto di negoziati bilaterali e di scambi fra i
diversi paesi, servirebbero a rendere sostenibile nel tempo questa
condivisione dei costi iniziali dell’accoglienza.
Inutile sottolineare che siamo molto lontani dal poter realizzare questo
disegno, anche perché i partiti populisti, come si è detto, sono già al
potere in cinque paesi dell’Unione (Finlandia, Grecia, Lituania,
Slovacchia e Ungheria) oltre che in due paesi membri dell’Area
economica europea (EEA), ovvero la Norvegia e la Svizzera.
4. Una proposta modesta,
ma fattibile
C’è comunque qualcosa che si può fare sin d’ora e in gran parte per via
amministrativa, senza bisogno di nuove leggi, per venire incontro alle
preoccupazioni di molti europei riguardo al futuro dello stato sociale.
Non si può negare che l’Unione Europea sin qui non si è mai data
strumenti adeguati per monitorare la mobilità dei lavoratori all’interno
delle sue frontiere, non ha ancora costruito un’infrastruttura informatica e
amministrativa adeguata per mettere pienamente in pratica i principi sanciti dal
Trattato di Roma, nonostante i sessant’anni di storia che ci separano da
quell’accordo.
In particolare, sin qui non c’è stato coordinamento tra le
amministrazioni dello stato sociale nei singoli paesi per ridurre l’evasione
contributiva e per prevenire potenziali abusi da parte dei lavoratori che si
spostano da una nazione all’altra. È oggi possibile, ad esempio, ricevere i
sussidi di disoccupazione in un paese e lavorare in un altro paese
dell’Unione. Il fatto è che attualmente gli Stati membri dell’Unione
Europea, per individuare i contribuenti, utilizzano Codici nazionali di
Identificazione Fiscale (CIF), strumenti utili all’interno dei singoli paesi
ma eterogenei e quindi poco funzionali per una visione europea
complessiva, a causa delle differenze nei sistemi di codificazione. Accade
così che quando un contribuente – sia esso cittadino di uno dei paesi
dell’Unione oppure extracomunitario – lascia un paese UE per emigrare
in un altro paese UE se ne perde traccia. Certo, esistono accordi bilaterali
per la valorizzazione dei contributi previdenziali fra i diversi paesi, ma
devono essere attivati dai diretti interessati.
È fondamentale, dunque, che le amministrazioni dello stato sociale nei
diversi paesi dell’Unione si dotino di un unico codice identificativo contributivo,
che segua nei loro spostamenti i lavoratori che cambiano paese e faciliti
l’aggiornamento dei relativi dati fiscali e contributivi, grazie ad un sistema
che accomuni ogni codice di identificazione fiscale in un’unica chiave di
lettura, per avere una verifica costante delle informazioni utili.
Un codice unico, oltre a contenere notevolmente il rischio di frodi
contributive e fiscali, permetterebbe di rendere più efficiente e veloce lo
scambio di informazioni fra paesi, riducendo la burocrazia oggi necessaria
per operazioni quali, ad esempio, la totalizzazione dei contributi ai fini
pensionistici.
Per questi motivi è importante avviare un confronto fra le
amministrazioni nazionali che gestiscono i programmi di protezione
sociale in Europa, con l’obiettivo di istituire un codice di protezione
sociale che valga per tutti i paesi dell’Unione Europea. Ci sono soluzioni
tecniche, già studiate all’INPS, in grado di minimizzare i problemi di
adeguamento delle strutture informatiche nei diversi paesi e di rispettare
le più stringenti normative sulla privacy, consentendo a ciascun paese di
continuare ad utilizzare i propri codici identificativi, integrandoli in modo
da creare un formato standardizzato, sul modello dei codici IBAN.
Questo European Social Security Identification Number (ESSIN) dovrebbe
permettere la piena portabilità dei diritti sociali tra paesi e un migliore
monitoraggio dei flussi migratori all’interno dell’Unione, impedendo il
welfare shopping.
Il codice di protezione sociale europeo può diventare anche un fattore
identitario, un modo di acquisire nei fatti la cittadinanza europea da parte
di chi regolarmente contribuisce a finanziare lo stato sociale dei singoli
paesi, così come è stato il Social Security Number nella storia degli Stati
Uniti. Peraltro, un simile strumento, permettendo la tracciabilità dei
lavoratori nel mercato unico, getterebbe le basi per l’adozione di misure
condivise a livello comunitario, come un sussidio di disoccupazione
europeo.
Certo, il codice unico è solo una goccia nell’oceano dei problemi che
abbiamo affrontato. Ma può essere un simbolo, e i simboli contano.
Inoltre è realizzabile, ed è ispirato proprio da quei corpi intermedi, le
pubbliche amministrazioni, chiamiamole pure burocrazie, che possono
battere il populismo.
Bisogna tornare a pedalare se non si vuole cadere, sapendo che bisogna
utilizzare un rapporto molto agile per la salita. È infatti illusorio pensare di
poter contare sulle reazioni a catena su cui si è retta per decenni la filosofia
dell’integrazione europea, la visione di Jean Monnet e degli altri padri
fondatori. Il processo di integrazione politica non andrà avanti da solo,
come semplice conseguenza dell’integrazione economica, ed è la stessa
integrazione economica che oggi rischia di andare indietro. Eppure di
questa integrazione, di un maggiore coordinamento sovranazionale, non
possiamo fare a meno. Perché senza l’Europa, senza una forte voce
collettiva, saremo sempre troppo piccoli per contare quando si tratterà di
affrontare e, speriamo, risolvere i grandi problemi di governance della
globalizzazione e del progresso tecnologico.
Riferimenti bibliografici
Questo scritto è largamente basato sul testo della lectio magistralis tenuta per l’apertura di Biennale
Democrazia al Teatro Regio di Torino il 29 marzo 2017 (dal titolo Populismo e stato sociale nelle
democrazie industrializzate).
Vorrei qui ringraziare la città di Torino – rappresentata nell’occasione dal sindaco Chiara
Appendino – e il presidente di Biennale Democrazia, Gustavo Zagrebelsky, per l’invito e per
avermi concesso di riprodurre quanto da me espresso in quella occasione.
Alcuni spunti e soprattutto la proposta dello European Social Security Identification Number (ESSIN)
erano già contenuti, in forma embrionale, in un mio contributo a un volume collettaneo per la
Luiss University Press (Europa: sfida per l’Italia) a cura di Marta Dassù, Stefano Micossi e Riccardo
Perissich. Ringrazio la Luiss University Press per l’autorizzazione a riprodurre parte di quel
materiale.
Nella stesura ho tratto grande beneficio dalle discussioni con Francesco Passarelli e Antonio
Spilimbergo.
I dati sull’esodo dei giovani italiani riprodotti nella figura 1 sono stati raccolti da Massimo Anelli
e Giovanni Peri (Does Emigration Delay Political Change? Evidence from Italy during the Great Recession,
NBER Working Paper n. 22350, 2016).
L’evidenza empirica sulla diminuzione della distanza fra le posizioni dei partiti populisti e quelle
degli altri partiti è offerta da Luigi Guiso, Helios Herrera, Massimo Morelli e Tommaso Sonno
(Demand and Supply of Populism, CEPR Discussion Papers n. 11871, 2017). La definizione di
populismo di Cas Mudde è tratta dal suo libro Populist Radical Right Parties in Europe, Cambridge
University Press, 2007. Il riferimento alla disoccupazione in Europa mai così diversa tra paesi è
tratto da un mio lavoro scritto con Juan Francisco Jimeno (Learning from the Great Divergence in
Unemployment in Europe during the Crisis, “Labour Economics”, 2016).
Lo studio VisitINPS sugli effetti della regolarizzazione del 2002 sull’emersione di base
contributiva è stato condotto nel 2017 da Edoardo Di Porto, Enrica Maria Martino e Paolo
Naticchioni ed è in corso di pubblicazione nella serie dei WorkINPS Papers. Lo studio sul click day
e sul coinvolgimento di immigrati in attività illegali è di Paolo Pinotti (Clicking on Heaven’s Door:
The Effect of Immigrant Legalization on Crime, “American Economic Review”, 2017).
Una trattazione rigorosa, in chiave di economia della politica, del ruolo dei sistemi di checks and
balances nell’impedire la dittatura della maggioranza viene fornita da Philippe Aghion, Alberto
Alesina e Francesco Trebbi (Endogenous Political Institutions, “Quarterly Journal of Economics”,
2004). La citazione di Rudiger Dornbusch e Sebastian Edwards è tratta dall’introduzione di The
Macroeconomics of Populism in Latin America edito da Chicago University Press nel 1991. I dati sulla
distribuzione mondiale del reddito e la figura 2 sono tratti da un lavoro di Christoph Lakner e
Branko Milanovic (Global Income Distribution: From the Fall of the Berlin Wall to the Great Recession,
World Bank Working Paper n. 6719, 2013).
Il riferimento al “grande paradosso” messo in luce da Arlie Russell Hochschild trae spunto dal
suo libro più recente (Strangers in Their Own Land: Anger and Mourning on the American Right, The
New Press, 2016). La figura 3 è tratta da un post di Torsten Bell dal titolo The Referendum, Living
Standards
and
Inequality
sul
sito
della
Resolution
Foundation
(http://www.resolutionfoundation.org/media/blog/the-referendum-living-standards-andinequality/).
I rilievi sulla posizione fiscale netta degli immigrati rispetto allo stato sociale sono tratti da un mio
lavoro sui dati EU-Silc (Immigration to the Land of Redistribution, “Economica”, 2009) e da una
rassegna di Robert Rowthorn (The Fiscal Impacts of Immigration on Advanced Economies, “Oxford
Review of Economic Policy”, 2008). Gli studi di contabilità generazionale sull’impatto fiscale
dell’immigrazione cui mi riferisco sono sulla Spagna (M. Dolores Collado, Iñigo Iturbe-Ormaetxe e
Guadalupe Valera, Quantifying the Impact of Immigration on the Spanish Welfare State, “International
Tax and Public Finance”, 2004), sulla Svezia (Kjetil Storesletten, Fiscal Implications of Immigration: A
Net Present Value Approach, “Scandinavian Journal of Economics”, 2003) e sull’Olanda (Hans
Roodenburg, Rob Euwals e Harry ter Rele, Immigration and the Dutch Economy, CPB Netherlands
Bureau of Economic Policy Analysis, 2003).
La figura 4 e l’evidenza sulla diversa rispondenza del voto ai partiti populisti ai flussi migratori nei
grandi e piccoli centri urbani sono riprese da un lavoro di Christian Dustmann, Francesco Fasani,
Tommaso Frattini, Luigi Minale e Uta Schönberg (On the Economics and Politics of Refugee Migration,
CReAM Discussion Papers n. 16, 2016).
Appendice.
I partiti populisti europei
L’elenco che segue è stato elaborato dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti a partire dal lavoro di
Ronald Inglehart e Pippa Norris, Trump, Brexit, and the Rise of Populism: Economic Have-Nots and
Cultural Backlash (HKS Faculty Research Working Paper Series RWP16-026, 2016) e da una
analisi delle posizioni politiche (sentimento anti-establishment, euroscetticismo e/o avversione
all’immigrazione) dei diversi partiti europei. Si è fatto riferimento anche ai raggruppamenti presso
il Parlamento europeo per rintracciare altri partiti con posizioni simili.
Austria
Austria
Belgio
Belgio
Bulgaria
Bulgaria
Danimarca
Estonia
Finlandia
Finlandia
Francia
Germania
Germania
Germania
Grecia
Grecia
Grecia
Grecia
Italia
Italia
Italia
Lettonia
Lituania
Lussemburgo
Montenegro
Norvegia
Paesi Bassi
Paesi Bassi
Polonia
Regno Unito
Repubblica ceca
Repubblica ceca
Repubblica ceca
Romania
Slovacchia
Alleanza per il futuro dell’Austria
Partito della libertà austriaco
Partito popolare
Vlaams Belang
Ataka
IMRO – Movimento nazionale bulgaro
Partito del popolo danese
Partito popolare conservatore estone
Fronte bianco-blu
Partito dei finlandesi
Fronte nazionale
Alternativa per la Germania
I repubblicani
Partito nazionaldemocratico di Germania
Greci indipendenti
Lega popolare – Alba dorata
Raggruppamento popolare ortodosso
Syriza – Coalizione della sinistra radicale
Fratelli d’Italia
Lega Nord
Movimento 5 Stelle
Alleanza nazionale
Ordine e giustizia
Partito riformista di alternativa democratica
Partito dei radicali serbi
Partito del progresso
Partito per la libertà
Partito socialista
Diritto e giustizia
Partito per l’indipendenza del Regno Unito
Alba – Coalizione nazionale
Partito dei lavoratori della giustizia sociale
Partito dei liberi cittadini
Partito grande Romania
Partito nazionale slovacco
Spagna
Svezia
Svizzera
Svizzera
Ucraina
Ungheria
Ungheria
Podemos
Democratici svedesi
Movimento dei cittadini di Romandia
Partito del popolo svizzero
Svoboda
Fidesz – Unione civica ungherese
Jobbik – Movimento per un’Ungheria migliore
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