LDB 2 Giornalista e saggista, nel 1917 Walter Lippmann ricoprì la carica di sottosegretario aggiunto Usa alla Guerra: un breve interludio, che pure rappresentò uno strategico punto di osservazione delle convulsioni comunicative di una società democratica, apparentemente inconsapevole della propria complessità. Pubblicato nel 1922, L’opinione pubblica conserva la sua carica euristica, la sua lucida provocatorietà e ricchezza descrittiva. L’assunto è limpido: come avviene quel complesso e solo apparentemente «normale» processo attraverso cui le nostre opinioni diventano Opinione pubblica, Volontà nazionale, Mente collettiva, Fine sociale? Come «l’opinione pubblica» costruisce i proprimiti, i propri eroi, i propri nemici, strappandoli alla storia e catapultandoli in una leggenda paradossalmente effimera? Lippmann indaga e descrive i meccanismi attraverso cui le immagini «interne» elaborate nelle nostre teste ci condizionano nei rapporti con il mondo esterno, gli ostacoli che limitano le nostre capacità d’accesso ai fatti, le distorsioni provocate dalla necessità di comprimerle, «raccontando» un mondo complicato con un «piccolo vocabolario»; infine, la paura stessa dei fatti che potrebbero minacciare la vita consueta. A partire da questi limiti, l’analisi ricostruisce come i messaggi provenienti dall’esterno siano influenzati dagli scenari mentali di ciascuno, da preconcetti e pregiudizi. Il testo di Lippmann ci offre anche una lucida critica del sistema politico democratico che ambisce a governare società sempre più complesse. 3 Walter Lippmann (New York 1889-1974) fu inizialmente socialista, in seguito, nei primi anni dell’amministrazione rooseveltiana, si orientò verso posizioni liberali. Fu uno dei più noti pubblicisti repubblicani: direttore (1914-18) di «New Republic» e «World», collaboratore della «New York Herald Tribune» e di molti altri giornali, autore di The Good Society (1937), U.S. Foreign Policy: Shield of the Republic (1943), The Cold War (1948), Isolation and Alliance (1952), The Public Philosophy (1955; tradotto in italiano dalle Edizioni di Comunità). 4 Virgolette / 2 5 Walter Lippmann L’OPINIONE PUBBLICA Prefazione di Nicola Tranfaglia Traduzione di Cesare Mannucci DONZELLI EDITORE 6 Titolo originale: Public Opinion © 1999, 2000, 2004 Donzelli editore, Roma Via Mentana 2b INTERNET www.donzelli.it E-MAIL [email protected] ISBN 978-88-6843-308-6 7 Indice Prefazione di Nicola Tranfaglia I. Introduzione I. II. Il mondo esterno e le immagini che ce ne facciamo Accessi al mondo esterno II. La censura e la segretezza III. Il contatto e la possibilità IV. Il tempo e l’attenzione V. La velocità, le parole e la chiarezza III. Gli stereotipi VI. Gli stereotipi VII. Gli stereotipi come difesa VIII. I punti ciechi e il loro valore IX. I codici e i loro nemici X. La scoperta degli stereotipi IV. Gli interessi XI. XII. V. Suscitare l’interesse L’interesse personale riconsiderato La formazione di una volontà comune XIII. Il trasferimento XIV. Sì o no XV. VI. dell’interesse I capi e i seguaci L’immagine della democrazia XVI. L’uomo egocentrico XVII. La comunità autosufficiente XVIII. Il ruolo della forza, del favoritismo e del privilegio XIX. La vecchia immagine in una forma nuova: il socialismo corporativo XX. Una nuova immagine 8 VII. I giornali XXI. Il pubblico come consumatore XXII. Il fedele lettore XXIII. La natura delle notizie XXIV. Le notizie, la verità e una conclusione VIII. L’informazione organizzata XXV. Il cuneo iniziale XXVI. Il lavoro d’informazione XXVII. XXVIII. L’appello al pubblico L’appello alla ragione 9 Prefazione di Nicola Tranfaglia 1. Un brusco risveglio. Questo libro, divenuto assai presto un classico degli studi internazionali sulla comunicazione, fu scritto dal giovane – ma già noto – Walter Lippmann all’indomani della prima guerra mondiale, nel 1921, e venne pubblicato l’anno dopo dalla casa editrice Macmillan a New York, suscitando l’interesse e il dibattito che meritava in tutto il mondo anglosassone. In Italia arrivò con enorme ritardo, più di quarant’anni dopo, nel 1963, grazie all’interesse per il mondo americano di Renzo Zorzi, animatore culturale e organizzativo delle giovani Edizioni di Comunità create da Adriano Olivetti e all’interesse che ai problemi della comunicazione rivolgeva fin da allora uno studioso come Cesare Mannucci, autore di saggi importanti e pionieristici sulla televisione e sulla società di massa, che lo tradusse. Ma per il nostro paese era ancora una volta troppo presto, giacché la cultura italiana continuava a essere quasi completamente sorda, nel suo complesso, malgrado l’espandersi ormai evidente della televisione, ai problemi posti dall’opera di Lippmann1. Il libro cadde così in un concorde e imbarazzato silenzio come se i temi posti dallo scrittore americano fossero estranei e lontani dalla penisola, di scarso o nullo interesse per una democrazia «speciale» come quella italiana. Nei due decenni successivi, del resto, gli studi sulla comunicazione, cresciuti a poco a poco, quasi di nascosto, in alcune università fino a dar luogo assai di recente alla nascita di veri e propri corsi di laurea in Scienze della comunicazione, incontrarono un riscontro episodico o addirittura un vero e proprio disinteresse anche presso i politici, i giornalisti e gli operatori dell’informazione, come se il nostro fosse un paese, per così dire, refrattario a considerare i problemi legati agli aspetti etici e politici della comunicazione come uno dei temi centrali per una democrazia moderna. Il risveglio, assai brusco, è avvenuto nella primavera del 1994 quando Silvio Berlusconi, l’imprenditore che aveva costruito, anche – ma non solo 10 – grazie ai favori del potere politico, un impero televisivo privato, riuscì in pochi mesi (pur dopo una lunga, sotterranea preparazione negli anni ottanta) a creare un movimento politico-aziendale in grado di raggiungere la maggioranza relativa alle elezioni politiche, e, insieme, con la Lega di Bossi e gli eredi del Movimento sociale, quella assoluta, necessaria per governare il paese con il nuovo sistema maggioritario voluto, attraverso un referendum popolare, dalla stragrande maggioranza degli italiani. Da quel momento, malgrado la fulminea caduta di Berlusconi dopo sette mesi di governo, il problema dell’influenza della televisione, e in generale dei mezzi di comunicazione, sulla lotta politica è divenuto un tema centrale del dibattito e per mesi (ma si potrebbe dire ormai per anni) si è scritto di blind trust, di legislazione antitrust, di cosiddetta par condicio, in altri termini di strumenti politici e legislativi ipotizzati per fare in modo che l’«opinione pubblica» – proprio quella di cui parla Lippmann – non sia egemonizzata, in maniera più o meno stabile e pregiudiziale da chi dispone della proprietà o della gestione (o di entrambe) dei mezzi di comunicazione, a cominciare da quello per ora più potente e diffuso in Italia, la televisione via etere. Ma sovente si è discusso di tali questioni, e si continua a farlo, con scarsa o insufficiente consapevolezza dei problemi di fondo, vorremmo dire sul piano teoretico e concettuale, che caratterizzano la comunicazione in una società industrializzata, illudendosi a volte di riuscire, con strumenti giuridici arretrati, a ingabbiare un fenomeno dirompente, o di risolvere, a livello politico o di accordo tra i partiti, difficoltà che attengono proprio alla natura e al ruolo degli strumenti di comunicazione. Esemplare, da questo punto di vista, è stato il recente dibattito sulla limitazione delle reti televisive in un mondo nel quale satelliti e cavi – solo che lo si voglia e se ne attrezzino le strutture – sono in grado di modificare radicalmente i termini della questione. C’è peraltro da sottolineare che, al di là della peculiarità non entusiasmante della vicenda italiana, siamo di sicuro di fronte a nuovi mutamenti. «Quello di oggi – ha osservato di recente Peppino Ortoleva – è un periodo di riassetto forse senza precedenti storici, da un lato perché tocca simultaneamente tutte le forme di comunicazione, dall’altro perché coincide con l’ascesa dell’“industria dell’informazione” nel suo complesso a settore cruciale, e in qualche misura trainante, dell’intera economia»2. La pubblicazione di un classico come L’opinione pubblica di Lippmann in un’edizione riveduta e aggiornata si inserisce in questa mutata (almeno all’apparenza) congiuntura culturale e può contribuire a chiarire quelli che restano i concetti di fondo del problema, sfatando miti duri a morire e 11 introducendo elementi significativi, e talora decisivi, in un dibattito che oscilla ancora tra il livello della politica contingente e quello di un tecnicismo che non di rado resta fine a se stesso. La personalità dell’autore (politicamente impegnato prima come socialista, poi da liberale di sinistra, infine da repubblicano), il quale scrisse un originale saggio di teoria politica su La filosofia pubblica (edito in Italia sempre da Comunità) e dedicò altri lavori ai temi della comunicazione, e fu a lungo uno dei più ascoltati consiglieri di politica estera del governo di Washington ma anche, per un cinquantennio, uno degli editorialisti più seguiti del «Herald Tribune» e di altri importanti giornali, non è priva di rilievo per la valutazione del libro. Nelle sue pagine (anche in questo lavoro scritto a poco più di trent’anni) accade di trovare insieme la riflessione dello studioso indipendente e i frutti di un’esperienza giornalistica vissuta in prima persona, intensa ed appassionata, in un paese, gli Stati Uniti, dove una salda tradizione democratica ha motivato non di rado chi si dedica al giornalismo a intendere quella professione come costante servizio a favore dell’interesse generale piuttosto che esclusivamente di quello del proprietario dell’impresa in cui lavora. Si è trattato anche lì, a quanto pare, di eccezioni sia pure numerose piuttosto che di una regola generale, ma basta leggere questo o altri libri di Lippmann per toccare con mano le differenze profonde tra il caso americano e quello italiano: da noi una lunga abitudine a sostenere, per non dire servire, già nell’età liberale, i governi del momento si è consolidata grazie alla dittatura fascista nel periodo delicato della crescita e d’una contraddittoria modernizzazione ed è proseguita, pur con indubbie differenze, nel periodo repubblicano grazie all’identificazione del maggior partito di governo con le istituzioni statali che ha caratterizzato i primi trent’anni del dopoguerra. Né si può dire, purtroppo, che nei vent’anni successivi, fino al crollo della «prima Repubblica», stampa e radiotelevisione abbiano dato in generale prova di effettivo distacco critico dai partiti maggiori come dal potere economico e finanziario3. 2. L’ambiente invisibile. All’indomani di un evento epocale come la prima guerra mondiale, il giovane Lippmann aveva pubblicato un saggio intitolato Liberty and the News: di fronte a quel che era accaduto prima, durante e dopo il conflitto, si era reso conto appieno del peso crescente che andavano assumendo i 12 mezzi di comunicazione nella vita politica dell’Occidente. Riflessioni su problemi analoghi costituiscono i punti di partenza da cui muove nel successivo L’opinione pubblica. Lippmann parte da una constatazione, per così dire ovvia, ma gravida di conseguenze per l’impostazione del problema: «In qualsiasi società – scrive nelle pagine iniziali del saggio – che non sia talmente assorbita nei suoi interessi né tanto piccola che tutti siano in grado di sapere tutto ciò che vi accada, le idee si riferiscono a fatti che sono fuori del campo visuale dell’individuo e che per di più sono difficili da comprendere». Se questo è vero, ed è difficile negarlo in una società come quella che esce dalla «grande guerra» e vede crescere il ritmo degli scambi, la rapidità dei trasporti, la presenza dei mezzi di comunicazione di massa, ne deriva necessariamente che «ciò che l’individuo fa si fonda non su una conoscenza diretta e certa ma su immagini che egli si forma o che gli vengono date». Esiste in altri termini un «ambiente invisibile» per la maggior parte degli individui, come dei gruppi sociali, di cui ciascuno ha le immagini che gli vengono trasmesse appunto dai mezzi di comunicazione. «Cos’è la propaganda – si chiede Lippmann – se non lo sforzo di modificare le immagini a cui reagiscono gli individui, di sostituire un modello sociale a un altro?»1. Non per caso lo studioso americano parla di immagini piuttosto che di parole. Lippmann ha letto con attenzione ed acume le opere essenziali della psicologia del profondo: Freud, Jung, Adler e gli autori più importanti della psicoanalisi sono presenti in quest’opera con citazioni essenziali che mostrano come l’autore abbia intuito la novità e l’importanza degli studi psicologici ai fini della scienza politica e della sociologia e ne proponga un’applicazione assai pertinente nel campo della comunicazione. Qui si rivelano di estrema importanza, da una parte, le reazioni razionali e non razionali dell’individuo come dei gruppi sociali di fronte alle notizie, dall’altra lo sfruttamento di quelle reazioni da parte di chi fa i giornali e, a maggior ragione (ma Lippmann nel 1921 non poteva saperlo), di chi sostituirà alle parole della stampa scritta le immagini e i suoni propri del mezzo televisivo, in grado di influire, in maniera più forte e diretta di quanto facciano le notizie scritte, sulla produzione di immagini propria di ogni individuo. Tornando all’«ambiente invisibile» di cui parla l’autore e alle immagini che individui e gruppi sociali si fanno delle notizie che ricevono di quell’ambiente che non conoscono direttamente, Lippmann parte di qui per dare una definizione stringata ma ancora oggi, a mio parere, valida 13 dell’opinione pubblica: «Le immagini in base a cui agiscono gruppi di persone o individui che agiscono in nome di gruppi, costituiscono l’Opinione Pubblica con le iniziali maiuscole». E si arriva così al vero oggetto del libro che si propone di condurre il lettore anzitutto ad analizzare gli ostacoli di vario genere che limitano l’accesso di tutti all’ambiente invisibile, quindi a cercare di costruire quella che si potrebbe definire una «teoria democratica dell’opinione pubblica». Il nocciolo della mia tesi – afferma lo scrittore americano – è che la democrazia, nella sua forma originaria, non abbia seriamente affrontato il problema derivante dalla non automatica corrispondenza delle immagini, che gli individui hanno nella loro mente, alla realtà del mondo esterno. […] Il governo rappresentativo, tanto nella sfera che solitamente viene detta politica che in quella dell’economia, non può funzionare bene, quale che sia la base del sistema elettorale, se non c’è un’organizzazione indipendente che renda i fatti non visti comprensibili a quelli che devono prendere le decisioni2. Emergono da queste affermazioni quelli che mi paiono anche oggi i pilastri di una «teoria democratica della comunicazione». In primo luogo, Lippmann osserva che il pensiero democratico moderno, quello degli ultimi due secoli seguito alle grandi rivoluzioni settecentesche, per intenderci, non ha elaborato questa teoria, non si è posto il problema nei termini che gli paiono pertinenti alla luce delle scoperte della psicologia del profondo. Quindi sottolinea un aspetto che è di singolare attualità in questa fine secolo: la necessità di un’organizzazione indipendente che si assuma l’onere di un’informazione corretta di quel che avviene, particolarmente utile per chi deve prendere le decisioni in un paese, è indiscutibile e non è legata alla peculiarità del sistema elettorale adottato. Lippmann si riferiva, con tutta evidenza, al sistema maggioritario vigente negli Stati Uniti e sosteneva, a ragione, che la parte politica che consegue la maggioranza non ha per questo diritti particolari sull’informazione, la quale, viceversa, deve poter essere gestita, almeno in parte (per ciò che concerne la documentazione da fornire a tutti sull’operato delle forze dominanti) da un’organizzazione autonoma dall’una e dall’altra parte politica. Impostato così, con estrema chiarezza, il problema di fondo, la parte centrale dell’opera affronta in maniera analitica, alla luce dell’esperienza illuminante della guerra mondiale ma anche della modernizzazione in corso dei mezzi di comunicazione di massa, prima di tutti i quotidiani, proprio i problemi che nascono dalla difficoltà di comunicare a tutti l’«ambiente invisibile», dagli ostacoli di ogni genere che vi si 14 frappongono, dai complessi meccanismi comunicazione nella società industriale. che condizionano la 3. Per una teoria democratica della comunicazione. Lippmann dedica particolare spazio e complessità di ragionamento a tre aspetti che restano, a mio avviso, di grande interesse per una teoria della comunicazione. Il primo riguarda gli ostacoli che il governo, o altre istituzioni dello stato democratico, pongono alla conoscenza di alcuni fatti di rilevante interesse pubblico. La grande guerra ha esaltato questo fattore e l’autore analizza i comunicati del Quartier Generale Alleato mettendo in luce come la censura che i militari esercitavano sull’andamento degli scontri avesse motivazioni, per così dire, politiche come la preoccupazione di evitare il diffondersi dell’allarmismo nella popolazione, la necessità di infondere coraggio ai civili in una fase particolarmente difficile, l’obiettivo propagandistico più o meno esplicito. Lippmann si rende conto perfettamente del fatto che gli obiettivi politici di un partito o di un governo reggano in maniera ferrea l’uso del segreto e contrappone, ad esempio, la segretezza della diplomazia mantenuta dall’Intesa nelle trattative precedenti la prima guerra mondiale all’abolizione di quel segreto da parte dei bolscevichi nel 1917 quando conquistarono il potere in Russia. L’osservazione con cui conclude la sua tesi – «la storia del concetto di segretezza, di riserbo, sarebbe divertente» – ha per l’Italia un peso assai maggiore rispetto agli altri stati democratici dell’Occidente giacché è ormai accertato che nella recente storia repubblicana (ma anche in quella dell’età liberale e fascista) l’istituto del «segreto di stato» o anche quello del riserbo governativo è stato usato più volte per ragioni che poco o nulla hanno avuto a che fare con l’interesse generale e sono state legate, piuttosto, all’esigenza da parte di singoli uomini di governo o partiti politici di non far conoscere azioni che sarebbero andate incontro con ogni probabilità a severe censure di una parte almeno della stampa e della pubblica opinione. Purtroppo, fino ad oggi, nessuno studioso ha tentato di ricostruire questo aspetto singolare della nostra storia recente. Il secondo aspetto di cui parla Lippmann è costituito dalle barriere economiche, sociali e culturali che impediscono a tanti di accedere alle fonti di informazione: «Ci sono interi settori – osserva –, vastissimi gruppi, ghetti, isole e classi che hanno solo un vago sentore di ciò che succede. La loro vita scorre come su binari, sono rinchiusi nei propri affari, esclusi 15 dagli avvenimenti più grandi, incontrano poche persone appartenenti a strati diversi dal loro, leggono poco»1. A prima vista, l’affermazione non ha resistito all’impatto della radio e della televisione, i media che hanno caratterizzato l’ultimo settantennio, ma in realtà, pur limitata dall’espandersi di quei nuovi mezzi di comunicazione, mantiene gran parte della sua validità nel senso che – secondo studi recenti condotti anche nel nostro paese – le limitazioni di reddito, di ambiente sociale, di preparazione culturale influiscono negativamente anche sul modo di recepire le notizie attraverso il mezzo radiotelevisivo. La fruizione dei telegiornali e in genere dei notiziari all’interno di contesti come quelli propri di alcune televisioni commerciali spesso fa sì che l’attenzione sia rivolta non verso i grandi avvenimenti ma piuttosto verso fatti ed episodi della piccola cronaca locale. Del resto, Lippmann insiste a ragione sui limiti alla comunicazione provocati dalla permanenza senza interruzioni nel luogo di residenza e ricorda che i viaggi sono negli anni venti (ma in parte anche oggi) prerogativa di una parte relativamente limitata della popolazione. «Ciascun ambiente – ricorda – determina più o meno da solo gli affari che rientrano nella sua immediata competenza, soprattutto determina la somministrazione specifica del giudizio. Ma il giudizio stesso si forma su modelli che possono venir ereditati dal passato, trasmessi o imitati da altri ambienti sociali». C’è in questo passaggio un’intuizione importante, strettamente legata agli sviluppi della nuova psicologia, ed è quella che si riferisce ai «modelli» che influenzano a fondo chi riceve la comunicazione, nel senso che è a determinati «modelli» che fa sempre riferimento l’utente di ogni informazione, cogliendo del messaggio che riceve in particolare quella parte omogenea e armonica rispetto ad essi. Di qui parte, nel saggio di Lippmann, un’analisi approfondita del ruolo centrale che simboli e stereotipi esercitano nella comunicazione, condizionando al tempo stesso i comunicatori e i dirigenti dell’informazione, che ne hanno bisogno per costruire un ritratto coerente e ordinato delle notizie, e gli utenti, che se ne servono a loro volta per codificare i fatti e darne una prima, sommaria interpretazione. «Di solito – conclude Lippmann – tutto ciò culmina nell’edificazione di un sistema del male e di un altro, che è il sistema del bene. Allora si rivela il nostro amore dell’assoluto. Infatti non abbiamo simpatia per gli avverbi che qualificano e limitano, poiché ingombrano le frasi e ostacolano il sentimento irresistibile». Certo, la guerra è stato un esempio particolarmente eloquente di questa scomoda verità: eppure lo scrittore 16 americano è persuaso, e a ragione, che il conflitto abbia soltanto esaltato, per così dire, la tendenza della società umana a intraprendere la scorciatoia degli stereotipi e a costruire una visione dicotomica della realtà nella quale la collocazione di un «bene» più o meno determinato costituisce il punto di riferimento essenziale di chi fornisce come di chi riceve le notizie da un ambiente sempre più grande che giunge alla fine a includere l’intero pianeta2. Il terzo aspetto cui l’autore dedica molto spazio riguarda le novità introdotte, nel campo della comunicazione, dalla psicologia del profondo, che consente di analizzare in maniera assai più rigorosa le motivazioni psicologiche che spingono individui e gruppi sociali a seguire quel che succede al di fuori del microcosmo in cui si svolge la vita della maggior parte dei cittadini di uno stato e del mondo intero. Anche in questa parte del libro troviamo osservazioni e punti di vista che si adattano assai bene non soltanto agli anni in cui Lippmann scriveva ma anche ai tempi nostri, a quelli caratterizzati – potremmo dire – da una sorta di vera e propria elefantiasi dei mezzi di comunicazione di massa. Faccio alcuni esempi che possono forse restituire, almeno in parte, il modo di procedere concreto e pragmatico di Lippmann. Sulle notizie che si riferiscono alla politica, non ha dubbi: «La politica – osserva – è interessante quando c’è un conflitto o, come diciamo, una questione. E per rendere popolare la politica si debbono trovar problemi anche quando, a onor del vero, non ce ne sono affatto: non ce ne sono, nel senso che le differenze di giudizio o di principio, o di fatto, non richiedono un ricorso all’aggressività». Sul ruolo che hanno alcune persone – amate o autorevoli – nel modo in cui ciascuno si avvicina al «mondo invisibile»: «In tutti i campi – salvo pochissimi e per brevi periodi della nostra vita – la massima indipendenza che possiamo esercitare è quella di moltiplicare le autorità alle quali prestiamo benevola attenzione […]. Le persone da cui dipendiamo per i nostri contatti con il mondo esterno sono quelle che sembrano dirigerlo». Infine sull’organizzazione del consenso nella moderna società di massa: È un’arte vecchissima che era stata data per morta quando apparve la democrazia. Ma non è morta. In realtà ne è stata migliorata enormemente la tecnica, perché ora si fonda sull’analisi piuttosto che sulla pratica. E così, per effetto della ricerca psicologica abbinata ai moderni mezzi di comunicazione, la prassi democratica ha subito una svolta. Sta avvenendo una rivoluzione, infinitamente più significativa di qualsiasi spostamento di potere economico3. 17 4. Il giornalismo investigativo. L’ultima parte del lavoro assai denso di Lippmann è dedicata a quello che era nel 1921 il mezzo di comunicazione di massa per eccellenza, i giornali, ma che restano ancora oggi centrali per una teoria della comunicazione giacché hanno costituito a lungo (e in parte continuano a costituire) il modello per i nuovi media, per i radiogiornali come per i telegiornali. Tra i tanti punti che l’autore tocca con rapide osservazioni, ce ne sono alcuni che meritano di essere ricordati per il valore – verrebbe da dire – profetico (se non si trattasse, come in verità si tratta, di un solido ragionamento fondato sull’esperienza e su una riflessione già matura) e sono tutti punti che attengono al rapporto tra il giornale e i suoi lettori e alla natura dell’attività giornalistica in una società moderna. Lippmann considera il giornale come un’impresa che ha anzitutto obiettivi economici (di qui il ruolo centrale della pubblicità divenuto negli Stati Uniti decisivo già nei primi due decenni del secolo, assai prima che nella vecchia Europa) e afferma, a proposito della stampa americana in quel momento, che «approssimativamente il sostegno economico della raccolta delle notizie generali sta nel prezzo che pagano per i prodotti reclamizzati i settori discretamente agiati delle città che superano i centomila abitanti». Nel 1921, secondo la valutazione di Lippmann, sono 175 i quotidiani-chiave negli Stati Uniti e rientrano tutti nel meccanismo descritto dallo scrittore; ad essi si affiancano oltre 2100 quotidiani locali che, per le notizie generali, utilizzano agenzie o si collegano ai grandi quotidiani nazionali o di una grande regione. Lippmann non ritiene tuttavia che gli inserzionisti (e in particolare il singolo inserzionista per quanto importante) siano in grado di dettare legge su un giornale se questo ha costruito intorno a sé un pubblico di lettori fedeli e affezionati alla testata. Un giornale – scrive – può maltrattare un inserzionista, può attaccare un potente interesse bancario o commerciale, ma se si aliena le simpatie del pubblico che ha potere di acquisto, perde il solo patrimonio indispensabile alla sua esistenza. […] Un corpo di lettori che resti fedele, nei tempi buoni come nei cattivi, è una forza maggiore di quella di cui può disporre il singolo inserzionista e una forza abbastanza grande per spezzare una combinazione di inserzionisti. Ci troviamo qui di fronte a un punto delicato dell’analisi dei mezzi di comunicazione di massa che respinge il determinismo di certe interpretazioni tutte fondate sugli interessi economici (Lippmann qui critica le tesi che si collegano in qualche modo al socialismo, in particolare 18 a quello «corporativo» inglese teorizzato da Cole) che guidano i giornali e individua nel rapporto tra lettori e giornali una zona di possibile, sia pure limitata, autonomia del lavoro giornalistico anche nella società contemporanea. Lo scrittore peraltro nota un fenomeno che diventerà più accentuato nei decenni successivi del Novecento ma che si può individuare già all’indomani della prima guerra mondiale: Non sono le loro notizie politiche e sociali che mantengono in primo luogo la diffusione. L’interesse per queste notizie è intermittente e pochi editori possono farvi affidamento in modo esclusivo. Perciò il giornale assume tutta una serie di altre funzioni, tutte aventi lo scopo di mantenere unito un certo corpo di lettori che non sono in grado di essere critici di fronte alle grandi notizie. Lippmann insiste quindi sul problema della necessaria «standardizzazione» delle notizie che si ritrova nei giornali: una standardizzazione – aggiungiamo noi – che dovrebbe mettere in guardia gli storici dall’utilizzare senza cautela nelle loro ricerche le fonti giornalistiche: «Il giornalismo – osserva – fuorché in casi eccezionali non è un’esposizione di prima mano del materiale grezzo. È un’esposizione di questo materiale più o meno stilizzata». E ancora, con maggior chiarezza: «Senza una standardizzazione, senza degli stereotipi, senza dei giudizi precostituiti, senza una noncuranza spietata per le sottigliezze, il direttore morirebbe ben presto di agitazione»1. L’ultimo punto affrontato nell’analisi dello scrittore riguarda la natura, i limiti, le peculiarità dell’attività giornalistica intesa anzitutto come pubblico servizio in una società moderna. E qui le sue conclusioni appaiono a chi scrive non solo chiarificatrici rispetto al dibattito attuale ma preziose per allargare l’ottica visuale con cui in questi anni si affronta il problema della comunicazione nel mondo contemporaneo. Lippmann non si fa illusioni sugli obiettivi di fondo che può conseguire la professione anche perché è convinto assertore, secondo un credo empirico e positivista ancora assai diffuso in quegli anni, della superiorità che le scienze naturali hanno acquisito su quelle umane: L’assenza di precisi criteri di verifica – osserva – spiega, meglio di qualunque altra cosa, il carattere della professione. C’è un piccolissimo corpo di conoscenze esatte che non richiede alcuna capacità o preparazione eccezionali. Il resto rientra nella discrezionalità del giornalista. […] E la sua sicurezza viene temperata da questa consapevolezza. Potrebbe avere tutto il coraggio del mondo, e talvolta lo ha, ma gli manca la sottostante cultura di una tecnica come quella che ha finalmente liberato le scienze fisiche dal controllo teologico. Qui lo scrittore sembra non tener conto delle riflessioni quasi 19 contemporanee di Max Weber che negli anni precedenti aveva teorizzato la possibilità di applicare anche nelle scienze sociali (e dunque umane) criteri di valutazione in qualche modo staccati dalla contingenza politicoideologica, ma non c’è dubbio che, almeno per quanto riguarda il giornalismo, le intuizioni di Lippmann sull’ampiezza della discrezionalità giornalistica colpiscono nel segno, anche se sono sempre di meno gli operatori della comunicazione che se ne ricordano a tempo debito… Del resto, l’autore è consapevole di una relazione per così dire ferrea che esiste tra due termini del suo discorso e che spiega lo stato differente della comunicazione in paesi di antica e consolidata tradizione democratica rispetto a quelli che questa tradizione o non l’hanno o l’hanno fragile e incerta: «In generale – scrive – la qualità dell’informazione nella società moderna è un indice della sua organizzazione sociale […] la stampa non è un sostituto delle istituzioni»2. Lippmann è preoccupato soprattutto di un aspetto fondamentale per una teoria democratica della comunicazione, che di rado viene richiamato nell’attuale dibattito sul dovere e sul diritto all’informazione. Egli è convinto che in una società democratica il primo obiettivo dei giornalisti sia quello di documentare in modo esauriente l’attività dei ceti dirigenti: solo così infatti i cittadini-elettori potranno giudicare in maniera adeguata l’operato del governo compiere scelte oculate nelle competizioni politiche che via via si presenteranno. Ma la sua esperienza lo fa essere pessimista di fronte alla possibilità che ciò avvenga giacché, a suo avviso, «la stampa ha a che fare con una società in cui le forze dominanti sono assai imperfettamente documentate […] normalmente può documentare solo quello che è stato documentato per lei dalle istituzioni nel corso del loro funzionamento»3. Non si può dire che le cose siano cambiate in maniera decisiva nel corso degli ultimi settant’anni. In apparenza giornalisti e telecamere penetrano dovunque e non hanno limiti di investigazione ma, nella realtà, si formano due immagini sempre più differenziate: quella da offrire ai giornalisti perché la trasmettano al grande pubblico, più superficiale e meno attenta ai punti essenziali e, di contro, quella più importante ma segreta dei colloqui confidenziali, degli incontri non ufficiali, ormai anche delle telefonate segrete che la stampa e la televisione non sono in grado di documentare e di rivelare ai milioni di lettori e di spettatori che le seguono con attenzione più o meno grande. 5. Il potere dei media. 20 Rispetto agli anni venti, oggi il sistema dei media vive, come è ovvio, una fase per molti aspetti nuova e diversa a livello tecnologico come a livello economico, sociale e istituzionale. Ortoleva nel suo bel libro, intitolato significativamente Mediastoria, individua negli ultimi due secoli quattro periodi «esplosivi» in cui le innovazioni nel campo della comunicazione si addensano e si sovrappongono l’una all’altra: il primo è quello degli anni 1830-40, con la sperimentazione del telegrafo, l’introduzione del francobollo, le tecniche di fotografia rapida; il secondo si colloca nel ventennio che va dal 1875 al 1895 in cui nascono la linotype, le macchine di piegatura veloce dei gior nali, la macchina da scrivere, il fonografo, il grammofono, il cinema, il telefono, la telescrittura e la radiotelegrafia; il terzo è rappresentato dal periodo 1920-35 in cui compaiono la stampa a rotocalco, la telefotografia, la fotocopiatrice, lo sviluppo delle reti di radiodiffusione circolare, le prime sperimentazioni televisive, il cinema sonoro e quello a colori; il quarto periodo esplosivo è quello che stiamo vivendo1. Si tratta di una periodizzazione, a mio avviso, largamente accettabile; ed è significativo che rispunti in questi anni, e acquisti mordente, un dibattito già presente nel libro di Lippmann, che costituisce anzi uno dei fili che guidano la ricerca e la riflessione dello scrittore americano: quali sono gli effetti dei media, e del sistema che ormai li accomuna e per così dire coordina, sulle opinioni politiche e culturali di chi li legge, li vede e li ascolta? Il quesito ha acquistato un sapore di stretta attualità nell’Italia degli ultimi due anni ma viene riproposto di continuo nel mondo anglosassone come in quello tedesco, francese o spagnolo e continua a essere più che mai aperta la disputa tra chi sottolinea la scarsa influenza dei mezzi di comunicazione sulle opzioni politiche e culturali (della maggioranza, almeno) del pubblico dei lettori e dei radio-telespettatori e chi invece tende a stabilire un nesso diretto tra i modelli proposti dai media, soprattutto quelli televisivi, e le scelte degli utenti della comunicazione. In realtà, leggendo Lippmann, si può giungere a una visione che rifugge dall’accettazione dell’uno o dell’altro atteggiamento estremo, giacché lo scrittore americano da una parte insiste sull’importanza che hanno le «autorità» (quelli che oggi si chiamerebbero opinion leaders) del proprio circolo primario nella formazione delle opinioni di ciascuno, dall’altra mette in luce il peso rilevante dei media quando riescono ad adottare simboli e stereotipi già presenti e attivi nella mentalità dei propri lettori o spettatori. Naturalmente l’influenza tende ad aumentare in periodi in cui i valori dominanti in una società o in determinati gruppi sociali sono in crisi, 21 le «autorità» (ad esempio la classe dirigente) sono screditate, cioè nei periodi di transizione. «Il potere della comunicazione», ha affermato, del resto, uno studioso al termine di un serrato bilancio su «Il potere dei media», deve essere considerato in termini di influenza mediata […] anche nel caso degli effetti a lungo termine sui processi di costruzione della realtà, oltre che in quello degli effetti a breve termine. Ciò vale, evidentemente, qualora si sia in presenza di situazioni in cui, da un lato, il sistema dei media sia pluralistico e regolamentato e, dall’altro, siano operanti i fattori e le condizioni che rendono possibile la mediazione, a ribadire la relatività del potere dei media e la sua dipendenza dalla presenza attiva delle altre agenzie di socializzazione primaria e secondaria2. Il problema, visto così, necessariamente si allarga e coinvolge, come è inevitabile, l’assetto generale della società: dove la famiglia, la scuola, le istituzioni non svolgono compiutamente la propria funzione, il potere dei media tende a crescere, e in maniera più accentuata e incontrollata, se difettano pluralismo e leggi antitrust. A Lippmann, prima e più che ad altri studiosi, dobbiamo una diagnosi lucida del problema e riflessioni che, a distanza di settant’anni, restano essenziali per chi si accosta ai problemi complessi e affascinanti del rapporto tra i media e le forme di potere proprie di una società industriale quali erano già gli Stati Uniti negli anni venti ed è ora l’Italia alla fine del secolo ventesimo. Torino, settembre 1995 N. T. Questa nuova edizione dell’Opinione pubblica di Walter Lippmann ripropone, senza modifiche particolari, quella pubblicata da Comunità nel 1963. Tutti gli interventi operati sul testo sono stati sottoposti all’attenzione di Cesare Mannucci che ne aveva curato la traduzione. Su questo terreno le differenze fra le due edizioni sono minime. Più consistente risulta invece la rielaborazione delle note, poiché si è cercato di completare le indicazioni bibliografiche, fornite spesso in maniera sommaria dall’autore, indicando anche, là dove era utile e possibile, le traduzioni italiane esistenti. La maggior parte delle informazioni relative ai testi citati da Lippmann sono state ritrovate sul National Union Catalog. La revisione della traduzione e il completamento delle note sono stati curati da Maria Pia Donat-Cattin. L’editore ringrazia per la preziosa e gentile collaborazione Gabriella Miggiano dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e Francesca Donat-Cattin della Biblioteca Nazionale di Torino. La competenza e la disponibilità del professor Luciano Mecacci hanno consentito la soluzione degli ultimi dubbi. 22 Del lavoro pionieristico di Cesare Mannucci vorrei ricordare almeno il saggio sulla televisione Lo spettatore senza libertà, edito da Laterza nel 1961,equello su La società di massa, apparso nel 1967 presso le Edizioni di Comunità. 2 P. Ortoleva, Mediastoria. Comunicazione e cambiamento sociale nel mondo contemporaneo, Nuove Pratiche editrice, Parma 1995, p. 107. 3 Sui mutamenti e le continuità nella stampa e nella televisione italiana dal 1975 ad oggi cfr. la prefazione dei curatori e il saggio di P. Murialdi e N. Tranfaglia nel volume La stampa italiana nell’età della televisione, a cura di V. Castronovo e N. Tranfaglia, Laterza, Roma-Bari 1995. 1 Le citazioni di Lippmann alle pp. 19 e 20 di questo volume. 2 In questo volume, p. 23. 1 In questo volume, p. 36. 2 Cfr. pp. 80-1 e 181. Per un’analisi delle leggende di guerra compiuta da uno storico, il riferimento d’obbligo è a M. Bloch, Rilessioni di uno storico sulle false notizie della guerra, in La guerra e le false notizie. Ricordi (1914-1915) e Riflessioni (1921), Donzelli, Roma 1994. 3 Cfr. pp. 179, 232, 255. 1 Cfr. pp. 327, 329, 335, 349, 353-4. 2 Cfr. pp. 361, 363-4. Per le tesi di M. Weber cfr. Il metodo delle scienze storicosociali (1922), a cura di P. Rossi, Einaudi, Torino 1958. 3 In questo volume, p. 261. 1 Ortoleva, Mediastoria cit., pp. 55-107. 2 G. Losito, Il potere dei media, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1994, p. 154. Si veda anche la rassegna di M. Wolf, Gli effetti sociali dei media, Bompiani, Milano 1992. 1 23 L’opinione pubblica a Fay Lippmann 24 – Dopo ciò, dissi, assomiglia tu la nostra natura, per quanto riguarda sapienza e ignoranza, a un fenomeno di questo genere: considera degli uomini chiusi in una specie di dimora sotterranea a mo’ di caverna, avente l’ingresso aperto alla luce e lungo per tutta la lunghezza dell’antro, e quivi essi racchiusi sin da fanciulli con le gambe e il collo in catene, sì da dover star fermi e guardar solo dinanzi a sé, ma impossibilitati per i vincoli a muovere in giro la testa; e che la luce di un fuoco arda dietro di loro, in alto e lontano, e che tra il fuoco e i prigionieri corra in alto una strada, lungo la quale è costruito un muricciolo, come quegli schermi che hanno i giocolieri a nascondere le figure, e sui quali esibiscono i loro spettacoli. – Vedo, disse. – Guarda ora degli uomini che lungo questo muretto trasportino utensili d’ogni genere, sporgenti oltre il muro, e statue e altre immagini animali di pietra e di legno, e ogni sorta di oggetti; e, come è naturale, alcuni di questi trasportatori parlino, e altri stiano in silenzio. – D’una strana immagine tu parli, disse, e di ben strani prigionieri! – Simili a noi, diss’io, ché questi cotali credi tu anzitutto che di se stessi e gli uni degli altri vedano altro fuorché le ombre riflesse dal fuoco sulla parete dell’antro di fronte a loro? – Come potrebbe essere altrimenti, se son costretti a tenere per tutta la vita immobile la testa? – E che vedrebbero degli oggetti trasportati? Non forse lo stesso? – Come no? – E se fossero in grado di discorrere fra loro, non pensi tu che essi prenderebbero per realtà quel che appunto vedessero? Platone, Repubblica, VII (traduzione di Francesco Gabrieli) 25 I. Introduzione 26 I. Il mondo esterno e le immagini che ce ne facciamo 1. C’è un’isola, nell’oceano, dove nel 1914 vivevano insieme alcuni inglesi, francesi e tedeschi. L’isola non era in grado di ricevere cablogrammi, e solo ogni due mesi vi approdava un postale inglese. Nel settembre di quell’anno gli abitanti, attendendo l’arrivo della nave, discutevano ancora dei fatti di cui parlava l’ultimo giornale che avevano ricevuto: l’imminente processo a madame Caillaux per l’uccisione di Gastone Calmette. Fu, dunque, con un’impazienza maggiore del solito che l’intera colonia, una mattina verso la metà di settembre, si trovò riunita al molo per apprendere la sentenza dal capitano del postale. Vennero a sapere invece che da più di sei settimane quelli di loro che erano di nazionalità inglese, insieme a quelli di nazionalità francese, si trovavano in guerra, in omaggio alla santità dei trattati, con quelli di loro che erano di nazionalità tedesca. Durante quelle sei curiose settimane si erano comportati reciprocamente da amici, mentre, di fatto, erano già nemici. Ma la loro situazione non era poi gran che diversa da quella della maggior parte della popolazione europea. L’errore per loro era durato sei settimane; sul continente l’intervallo era stato forse di sei giorni o di sei ore, ma un intervallo comunque c’era stato. C’era stato un momento in cui l’immagine di un’Europa dove gli individui continuavano a dedicarsi alle proprie faccende non corrispondeva in alcun modo all’Europa che stava per mettere in subbuglio le loro vite. Ciascuno per qualche tempo si era sentito ancora legato a un ambiente che in realtà non esisteva più. Fino al 25 luglio in tutto il mondo la gente aveva continuato a produrre merci che non sarebbe più stata in grado di spedire, a ordinarne altre che non sarebbe più stata in grado di importare, a far piani per le proprie carriere, a studiare nuove iniziative, e coltivare speranze e aspettative, tutto nella convinzione che il mondo che conoscevano fosse il mondo reale. C’era anche chi scriveva libri che illustravano quel mondo, credendo seriamente alle immagini che se n’era fatto. E poi, quattro anni dopo, un giovedì mattina, arrivò la notizia dell’armistizio, e la gente provò l’indescrivibile sollievo di sapere che il massacro era finito. Tuttavia, nei cinque giorni precedenti la 27 cessazione effettiva della guerra, e nonostante che questa fosse già stata celebrata, varie migliaia di giovani morirono sui campi di battaglia. Guardando al passato ci è possibile capire quanto sia indiretto il modo in cui veniamo a conoscere l’ambiente in cui nondimeno viviamo. Ci accorgiamo che ce ne giungono notizie più o meno rapidamente, ma che se ne possediamo un’immagine che riteniamo veritiera, la trattiamo proprio come se fosse l’ambiente stesso. È difficile tenerne conto quando si tratta delle convinzioni su cui fondiamo ora la nostra azione, ma rispetto ad altri popoli e ad altre epoche ci lusinghiamo di poter capire facilmente quando siamo caduti nell’errore di prendere terribilmente sul serio immagini ridicole del mondo circostante. Per la presunta superiorità della nostra visione retrospettiva, siamo pronti a dire che il mondo che avrebbero dovuto vedere, e il mondo che effettivamente videro, erano spesso due cose totalmente contraddittorie. Ci accorgiamo inoltre che essi, mentre governavano e combattevano, commerciavano e facevano riforme nel mondo come se l’immaginavano, conseguivano o non conseguivano risultati nel mondo come effettivamente era. Partivano per le Indie, e scoprivano l’America. Diagnosticavano il male, e impiccavano delle vecchie donne. Pensavano di poter diventare ricchi vendendo sempre e non comprando mai. Un califfo, obbedendo a quello che riteneva il Volere di Allah, dava fuoco alla biblioteca di Alessandria. Scrivendo intorno al 389 sant’Ambrogio difendeva il prigioniero della caverna platonica, che decisamente si rifiuta di volgere il capo. Quanto alla terra nulla gioverebbe alla visione del futuro trattare della sua qualità o della sua posizione. Onde ci basti di sapere quanto si contiene nel corso delle divine Scritture: che Iddio «sospese la terra nel vuoto» (Gb XXVI, 7). Che interesse, infatti, per noi di discutere se essa stia sospesa nell’aria o sull’acqua, onde farne poi nascere la controversia come mai la natura dell’aria, più tenue e arrendevole, possa sostenere la mole della terra; o come, se questa sta sull’acqua, non si sommerga e non vi rovini dentro col suo peso? […] Non è già che la terra stia sospesa in equilibrio, perché si trova nel mezzo del mondo; ma perché la maestà di Dio ve la obbliga, colla legge della sua volontà1. Non ci agevola nella nostra speranza della vita futura. Basta sapere ciò che afferma la Sacra Scrittura. Perché disputare, allora? Ma un secolo e mezzo dopo sant’Ambrogio, l’opinione si sentì di nuovo turbata, e questa volta dal problema degli Antipodi. Un monaco di nome Cosma, famoso per il suo sapere scientifico, venne perciò incaricato di scrivere una Topografia Cristiana, ovvero «L’opinione cristiana intorno al mondo»2. È chiaro che egli sapeva benissimo che cosa ci si aspettasse da lui, perché basò tutte le sue conclusioni sulle Scritture, così come lui le interpretava. 28 Ne risulta, dunque, che il mondo è un piatto parallelogramma, due volte più esteso in larghezza, da Est a Ovest, che in lunghezza, da Nord a Sud. Nel centro sta la terra circondata dall’oceano, che a sua volta è circondato da un’altra terra, dove gli uomini erano vissuti prima del diluvio. Quest’altra terra era il punto d’imbarco di Noè. A Nord c’è un’alta montagna conica, intorno alla quale girano il sole e la luna. Quando il sole sta dietro la montagna, è notte. Il cielo è incollato ai margini della terra esterna. Consiste in quattro alte pareti che s’incontrano in una volta concava, sicché la terra è il pavimento dell’universo. Dall’altra parte del cielo c’è un altro oceano, che costituisce le «acque che stanno sopra il firmamento». Lo spazio tra l’oceano celeste e la volta ultima dell’universo appartiene ai beati. Lo spazio tra la terra e il cielo è abitato dagli angeli. Infine, siccome san Paolo ha detto che tutti gli uomini sono creati per vivere sulla «faccia della terra», come potrebbero vivere sul retro, dove si suppone siano gli Antipodi? «Con questo brano davanti agli occhi, ci vien detto, un cristiano non dovrebbe “nemmeno nominare gli Antipodi”»3. E ancor meno dovrebbe andarci, agli Antipodi; né alcun principe cristiano dovrebbe dargli una nave per fare il tentativo; né alcun pio marinaio dovrebbe desiderare di tentare. Per Cosma non c’era nulla di assurdo nella sua pianta. Solo tenendo presente la sua assoluta convinzione che questa fosse la pianta dell’universo, possiamo capire quale orrore avrebbe provato per Magellano o per Peary, o per l’aviatore che rischiasse una collisione con gli angeli e con la volta del cielo volando a sette miglia di altezza nell’aria. Allo stesso modo possiamo ben capire le furie della guerra e della politica, tenendo presente che la quasi totalità dei membri di ognuna delle parti in lotta crede assolutamente alla propria immagine della parte avversaria, e che considera realtà non ciò che è reale, ma ciò che suppone essere reale. E che perciò, come Amleto, potrà pugnalare Polonio, dietro la tenda frusciante, scambiandolo per il re, e forse, come Amleto, soggiungere: Miserabile, temerario, importuno buffone, addio! ti ho preso per uno a te superiore: prendi la tua fortuna. 2. Di solito i grandi uomini, anche durante la loro vita, sono noti al pubblico soltanto attraverso una personalità fittizia: per cui c’è una parte di vero nel vecchio detto che nessuno è un grand’uomo per il suo cameriere. Soltanto una parte di vero, però, perché il cameriere e il segretario privato 29 sono spesso immersi anche loro nella finzione. I personaggi regali, ad esempio, sono personalità costruite. Credano essi stessi nel proprio personaggio pubblico, o si limitino a permettere al proprio ciambellano di metterlo in scena, ci sono in loro perlomeno due esseri distinti; quello pubblico e regale, e quello privato e umano. Le biografie dei grandi possono essere facilmente classificate tra le storie dell’uno o dell’altro essere. Il biografo ufficiale presenta la vita pubblica, quello non ufficiale le memorie rivelatrici. Il Lincoln di Charnwood, ad esempio, è un nobile ritratto che raffigura non un essere umano reale, ma un personaggio epico, pieno di significato, che si muove allo stesso livello di realtà di un Enea o di un san Giorgio. E anche lo Hamilton di Oliver è una maestosa astrazione, la scultura di un’idea, «un saggio», come lo stesso Oliver dichiara, «sull’unione americana». È un monumento solenne alla politica del federalismo, piuttosto che la biografia di una persona vera. A volte, poi, la gente crea la propria facciata esteriore proprio nel momento in cui crede di rivelare il proprio mondo interiore. I diari di Repington e quelli di Margot Asquith sono un genere di autoritratto nel quale il dettaglio intimo è illuminante soprattutto come rivelazione del modo in cui gli autori amano considerare se stessi. Ma il genere più interessante di ritratto è quello che nasce spontaneamente nella mente della gente. Quando Vittoria salì al trono, dice Strachey1, una grande ondata di entusiasmo pervase il pubblico, perché il sentimento e le romanticherie erano di moda e lo spettacolo della piccola regina innocente e modesta, con i suoi biondi capelli e le sue guance rosate, che passava in carrozza per le strade della capitale, riempiva i cuori dei londinesi di entusiastica e affettuosa fedeltà. Soprattutto ciascuno era colpito, e in modo vivissimo, dal contrasto tra la regina Vittoria e i suoi zii; quei vecchi sgradevoli, viziosi ed egoisti, testardi e ridicoli, con il loro perpetuo peso di debiti, di impicci e di cattiva fama, erano svaniti come la neve d’inverno, e ora, finalmente, coronata e radiosa, giungeva la primavera. Jean de Pierrefeu2 poté osservare il culto dell’eroe da vicino, essendo stato ufficiale di Stato maggiore di Joffre nel momento della sua maggior fama: Per due anni il mondo tributò un omaggio quasi divino al vincitore della Marna. I portalettere erano letteralmente piegati dal peso delle cassette, dei pacchi e delle lettere mandatigli da ignoti come entusiastica testimonianza della loro ammirazione. Credo che nessun altro comandante di questa guerra abbia potuto quanto lui farsi un’idea di quello che veramente è la gloria. Gli mandavano scatole di cioccolatini dalle più famose pasticcerie del mondo, casse di champagne, grandi vini di ogni 30 marca, frutta, selvaggina, ninnoli e utensili, vestiti, servizi da fumatori, calamai, fermacarte. Ogni regione mandava la sua specialità. Il pittore mandava il suo quadro, lo scultore la sua statuetta, la buona vecchietta una coperta o delle calze, il pastore, nella sua capanna, intagliava una pipa per lui. Tutti i fabbricanti del mondo ostili alla Germania gli mandarono i loro prodotti: l’Avana i suoi sigari, il Portogallo il suo rosso Porto. Ho conosciuto un parrucchiere che non trovò di meglio che fare un ritratto del generale con i capelli dei suoi cari; un calligrafo ebbe la stessa idea, ma i lineamenti erano fatti di migliaia di frasi inneggianti al generale tracciate in caratteri minutissimi. Quanto a lettere, ne riceveva di scritte nelle più diverse calligrafie, da tutti i paesi, in tutti i dialetti, lettere affettuose, riconoscenti, traboccanti d’amore, piene d’adorazione. Lo chiamavano Salvatore del Mondo, Padre della Patria, Strumento di Dio, Benefattore dell’Umanità eccetera… E non soltanto i francesi, ma gli americani, gli argentini, gli australiani… Migliaia di bambini, all’insaputa dei genitori, prendevano la penna per scrivergli il loro amore; moltissimi lo chiamavano Padre. E c’era qualcosa di struggente in queste effusioni, in questa adorazione, in questi sospiri di sollievo che uscivano da migliaia di cuori per la sconfitta della barbarie. A tutte queste anime ingenue Joffre appariva come san Giorgio che sconfigge il drago. Per la coscienza dell’umanità era certamente l’incarnazione della vittoria del bene sul male, della luce sulle tenebre. Persino i pazzi, i sempliciotti, gli squilibrati e i maniaci volgevano verso di lui le menti ottenebrate come verso la ragione stessa. Ho letto la lettera di una persona che viveva a Sidney, la quale implorava il generale di liberarla dai suoi nemici; un neozelandese lo pregava di mandare dei soldati a casa di uno che gli doveva dieci sterline e si rifiutava di pagare. Infine centinaia di ragazzine, superando la timidezza del sesso, gli chiedevano appuntamenti segreti; altre desideravano solo servirlo. Questo Joffre ideale era un composto di varie cose: la vittoria conquistata insieme ai suoi ufficiali e alle sue truppe, la disperazione della guerra, i lutti personali, la speranza nella vittoria futura. Ma accanto all’adorazione dell’eroe c’è anche l’esorcizzazione dei diavoli. Con lo stesso meccanismo con cui si creano gli eroi, si fanno anche i diavoli. Se ogni bene doveva venire da Joffre, Foch, Wilson, Roosevelt, ogni male doveva risalire al Kaiser Guglielmo, a Lenin e a Trockij. Essi erano onnipotenti nel male quanto gli eroi lo erano nel bene. Agli occhi di molte creature semplici e terrorizzate non c’era al mondo rivolgimento politico, sciopero, rinvio, morte misteriosa o incendio che non dovesse essere riportato a queste fonti personali del male. 3. Una convergenza così universale su una personalità simbolica è un fatto abbastanza raro da diventare memorabile; e ogni scrittore ha una 31 certa debolezza per gli esempi lampanti e inconfutabili. L’analisi della guerra ne rivela molti, ma non li crea dal nulla. Nella normale vita pubblica le immagini simboliche non influiscono certamente meno sul comportamento, ma ciascun simbolo è meno comprensivo, perché ce ne sono molti in concorrenza. E perciò non solo è meno carico di emozione, perché al massimo rappresenta i sentimenti di una parte soltanto della popolazione, ma anche all’interno di questa parte le differenze individuali sono molto meno livellate. In tempi di moderata sicurezza, i simboli dell’opinione pubblica sono soggetti a controlli, a confronti e a discussioni. Si formano e si disfanno, si consolidano e vengono dimenticati, e non realizzano mai perfettamente il sentimento di un gruppo intero. In fondo c’è una sola attività umana in cui si riesca ad attuare l’unione sacra di popolazioni intere: quest’unione si compie appunto in quelle fasi centrali di una guerra in cui la paura, la bellicosità e l’odio hanno raggiunto il completo dominio dell’animo umano, schiacciando o assorbendo ogni altro istinto, e non è ancora cominciata la stanchezza. In quasi tutte le altre situazioni, e persino durante la guerra quando si arriva a un punto morto, c’è sempre una gamma sufficientemente ampia di sentimenti per consentire conflitti, scelte, esitazioni, compromessi. Il simbolismo dell’opinione pubblica porta di solito, come vedremo1, i segni di questo equilibrarsi degli interessi. Si pensi, ad esempio, alla rapidità con cui, raggiunto l’armistizio, è svanito il simbolo precario e tutt’altro che ben fondato dell’Unità Alleata, e si è disgregata di conseguenza l’immagine simbolica che ogni nazione aveva delle altre: l’Inghilterra tutrice del Diritto Internazionale, la Francia sentinella alla Frontiera della Libertà, l’America paese della Crociata. E si pensi come sia franata l’immagine simbolica che ogni nazione aveva di se stessa, non appena la lotta dei partiti e delle classi e le ambizioni personali hanno ricominciato ad agitare le questioni rimaste in sospeso. Ed anche come siano venute meno, una alla volta, le immagini simboliche dei capi; e Wilson, Clemenceau, Lloyd George abbiano cessato di essere incarnazioni della speranza umana, diventando semplicemente i negoziatori e gli amministratori di un mondo deluso. Ovviamente qui non importa stabilire se tutto ciò sia uno dei sommessi mali della pace o se si debba salutarlo come un ritorno alla salute. La nostra prima preoccupazione di fronte alle finzioni e ai simboli è di disinteressarci del valore che hanno per l’ordine sociale esistente, e di considerarli semplicemente una parte importante del meccanismo della comunicazione umana. Ora, in qualsiasi società che non sia talmente assorbita nei suoi interessi 32 né tanto piccola, che tutti siano in grado di sapere tutto su ciò che vi accade, le idee si riferiscono a fatti che sono fuori del campo visuale dell’individuo, e che per di più sono difficili da comprendere. Miss Sherwin di Gopher Prairie2 sa che in Francia si combatte una guerra, e cerca di figurarsela. Non è mai stata in Francia, e certamente non ha mai percorso quella che ora è la linea del fronte. È vero che ha visto fotografie di soldati francesi e tedeschi, ma le riesce impossibile immaginare tre milioni di uomini. Nessuno, difatti, riesce a immaginarseli, e nemmeno i militari di professione tentano di farlo: li pensano, poniamo, come duecento divisioni. Ma Miss Sherwin non ha la possibilità di vedere le carte militari con lo schieramento delle forze opposte, e perciò, se pensa alla guerra, si affretta a pensare a Joffre e al Kaiser come se fossero impegnati in un duello personale. Forse, se potessimo entrare nella sua mente, scopriremmo qualcosa di simile a un’incisione settecentesca di un grande soldato. La figura, più grande del normale, spicca audace e composta contro un indistinto esercito di minuscole figurine che tendono a sfumare nel paesaggio. Non sembra, del resto, che gli stessi grandi uomini rifuggano da queste fantasticherie. Pierrefeu racconta della visita di un fotografo a Joffre. Il generale stava «nel suo ufficio di aspetto borghese, davanti al tavolo completamente sgombro dove era solito mettersi per firmare i documenti. Improvvisamente si notò che non c’erano carte geografiche, si provvide a sistemarne lì per lì alcune, che vennero tolte appena il fotografo ebbe finito»3. Il solo sentimento che si può provare per un fatto di cui non si ha un’esperienza diretta è il sentimento che viene suscitato dall’immagine mentale di quel fatto. Ecco perché, finché non sappiamo quello che gli altri ritengono di sapere, non possiamo nemmeno capire davvero le loro azioni. Una volta ho visto una ragazza, cresciuta in un centro minerario della Pennsylvania, passare improvvisamente dall’allegria al dolore più cupo allorché una raffica di vento incrinò il vetro della finestra della sua cucina. Per ore intere restò inconsolabile, e a me la cosa riusciva incomprensibile. Ma quando finalmente fu in grado di parlare, si riuscì a capire che per lei la rottura di un vetro significava che era morto un parente stretto. Perciò piangeva per suo padre, che l’aveva spaventata abbandonando la casa. Naturalmente il padre era vivo e vegeto, come subito dimostrò un accertamento fatto a mezzo di telegrafo. Ma fino a quando non arrivò il telegramma, il vetro incrinato continuò ad essere un autentico messaggio agli occhi della ragazza. Perché fosse autentico, solo l’esame paziente e approfondito di uno psichiatra avrebbe potuto stabilirlo. Ma anche l’osservatore meno esperto era in grado di capire che la ragazza, 33 terribilmente sconvolta dalle sue difficoltà familiari, s’era costruita un’allucinazione sulla base di un fatto esterno, cui s’erano mescolati il ricordo di una superstizione, il rimorso, la paura e l’amore del padre. In questi casi l’anormalità è solo una questione di grado. Quando un Procuratore generale, terrorizzato da una bomba esplosa sulla soglia della sua casa, si convince in seguito alla lettura di scritti rivoluzionari che il 1° maggio 1920 scoppierà una rivoluzione, dobbiamo riconoscere che praticamente si è messo in moto lo stesso meccanismo che ha agito nella ragazza della Pennsylvania. Naturalmente la guerra ha fornito parecchi esempi di questo genere: il fatto imprevisto, l’immaginazione che si mette a lavorare, la volontà di credere, e, dall’insieme di questi tre elementi, una contraffazione della realtà verso la quale c’era stata una violenta reazione istintiva. Infatti è abbastanza chiaro che in certe situazioni gli individui reagiscono alle finzioni con la stessa forza con cui reagiscono alla realtà, e che in molti casi contribuiscono a creare proprio quelle funzioni a cui reagiranno. Scagli la prima pietra chi non ha creduto che un esercito russo stesse attraversando l’Inghilterra nell’agosto del 1914, o chi non ha accettato dei racconti di atrocità senza averne le prove dirette, o non ha mai creduto di vedere un complotto, un traditore, una spia dove non ce n’era alcuno. Scagli la prima pietra chi non ha mai fatto circolare come verità autentica quello che aveva sentito dire da qualcuno che non ne sapeva affatto più di lui. In tutti questi casi c’è un fattore comune che è particolarmente degno di nota: l’inserimento di uno pseudo-ambiente tra l’individuo e il suo ambiente. Il comportamento dell’individuo è appunto una reazione a questo pseudo-ambiente. Ma dato che è un comportamento, le sue conseguenze, se si tratta di atti, non operano nello pseudo-ambiente nel quale è stato stimolato, ma nell’ambiente reale nel quale l’azione accade. Se il comportamento non è un atto pratico, ma ciò che grossolanamente chiamiamo pensiero ed emozione, può passare anche parecchio tempo prima che si possa notare una rottura nel tessuto del mondo immaginario. Ma se lo stimolo dello pseudo-fatto dà luogo a un’azione che ha per oggetto cose o altre persone, la contraddizione si sviluppa subito. Allora subentra la sensazione di battere la testa contro un muro, di apprendere per esperienza diretta quella che Herbert Spencer chiamava la tragedia dell’assassinio di una Bellissima Teoria da parte di una Gang di Fatti Brutali; in breve, il disagio di un mancato adeguamento. E infatti è certo che, a livello della vita sociale, quello che si è soliti chiamare l’adattamento dell’uomo all’ambiente avviene per mezzo di finzioni. Per finzioni non intendo affatto menzogne. Intendo invece una 34 rappresentazione dell’ambiente fabbricata, in maggiore o minor misura, dall’individuo stesso. La gamma delle finzioni va dalla completa allucinazione all’uso perfettamente cosciente di un modello schematico da parte dello scienziato, o alla decisione che per un determinato problema l’esattezza, al di là di una certa cifra decimale, non ha importanza. Un prodotto dell’immaginazione può avere un grado anche notevole di fedeltà, e finché di questo grado di fedeltà si riesce a tener conto, la finzione non è fuorviante. In realtà la cultura umana è in larga misura la selezione, il riordinamento, la schematizzazione e la stilizzazione di quelle che William James chiamava «le irradiazioni e le ridistemazioni casuali delle nostre idee»4. L’alternativa all’uso di finzioni è l’imposizione diretta al flusso delle sensazioni. Ma non è poi una vera alternativa, giacché, per quanto rinfrescante possa essere a volte il guardare con occhio perfettamente innocente, l’innocenza in sé non è saggezza, ma semmai una fonte e un correttivo della saggezza. Infatti l’ambiente reale, preso nel suo insieme, è troppo grande, troppo complesso e troppo fuggevole per consentire una conoscenza diretta. Non siamo attrezzati per affrontare tante sottigliezze, tanta varietà, tante mutazioni e combinazioni. E pur dovendo operare in questo ambiente, siamo costretti a costruirlo su un modello più semplice per poterne venire a capo. Per attraversare il mondo gli uomini debbono possedere carte geografiche. La persistente difficoltà è di assicurarsi mappe sulle quali la propria esigenza, o quella altrui, non sia tracciata sulla costa della Boemia. 4. Lo studioso dell’opinione pubblica deve quindi cominciare col riconoscere il rapporto triangolare esistente tra la scena dell’azione, la rappresentazione che l’uomo si fa di questa scena e la reazione a tale rappresentazione, rioperante a sua volta sulla scena dell’azione. È come uno spettacolo che venga suggerito agli attori dalla loro esperienza personale, in cui la trama si compia nelle vite reali degli attori, e non solo nei loro ruoli teatrali. Il cinema mette spesso in risalto con grande efficacia questo duplice dramma del movente interiore e del comportamento esteriore. Due uomini, ad esempio, litigano apparentemente per questioni di denaro; ma la loro collera riesce incomprensibile. Poi c’è una dissolvenza, e subito dopo appare la scena che l’uno o l’altro dei due vede con l’occhio della mente. Litigavano, seduti davanti a un tavolo, per questioni di denaro. Ma nella memoria rievocavano gli anni della giovinezza, quando una certa ragazza aveva abbandonato uno dei due per 35 l’altro. Il dramma esteriore è dunque spiegato: il protagonista non è avido di denaro, ma innamorato. Una scena non molto diversa da questa è stata recitata al Senato degli Stati Uniti. La mattina del 29 settembre 1919, all’ora della prima colazione, alcuni senatori lessero sul «Washington Post» la notizia dello sbarco di marines americani sulla costa della Dalmazia. Il giornale diceva così: ACCERTATI ORMAI I FATTI Sembrano ormai definitivamente accertati i seguenti importanti fatti. Gli ordini impartiti al contrammiraglio Andrews, comandante delle forze navali americane nell’Adriatico, sono giunti dall’Ammiragliato inglese tramite il Consiglio di guerra e il contrammiraglio Knapps in Londra. L’approvazione o la disapprovazione del Dipartimento americano della Marina non sono state richieste. ALL’INSAPUTA DI DANIELS Si ammette che Daniels si è venuto a trovare in una situazione imbarazzante quando sono giunti qui dei cablogrammi attestanti che le forze che dovrebbero dipendere esclusivamente da lui a sua insaputa erano ingaggiate in un’azione navale. D’altra parte era evidente che l’Ammiragliato inglese poteva sentire l’esigenza di ordinare al contrammiraglio Andrews di agire per conto della Gran Bretagna e dei suoi alleati, poiché se si volevano contenere i seguaci di D’Annunzio la situazione richiedeva uno sforzo da parte di qualche nazione. È apparso anche chiaro che sotto il nuovo regime della Società delle Nazioni, degli stranieri si troverebbero nella posizione di dare ordini alle forze navali americane in casi di emergenza con o senza il consenso del Dipartimento americano della Marina (I corsivi sono miei). Il primo senatore a commentare questa notizia è Knox della Pennsylvania. Chiede indignato un’inchiesta. Nel senatore Brandegee del Connecticut, che parla subito dopo, l’indignazione ha già destato la credulità. Mentre Knox indignato vuole sapere se la notizia è vera, Brandegee, mezzo minuto dopo, vorrebbe sapere che cosa sarebbe accaduto se dei marines fossero stati uccisi. Knox, interessandosi al problema, dimentica di aver domandato un’inchiesta, e risponde che se dei marines americani fossero stati uccisi, ci sarebbe stata la guerra. Siamo ancora ai verbi condizionali. Ma il dibattito continua. McCormick dell’Illinois ricorda al Senato che l’amministrazione Wilson è portata a intraprendere piccole guerre non autorizzate; e ripete la battuta di Theodore Roosevelt sul «combattere la pace». Brandegee osserva che i marines hanno agito «per ordine di un Consiglio supremo insediato da qualche parte», ma non riesce a ricordare chi rappresenti gli Stati Uniti. Perciò il senatore New dell’Indiana presenta un ordine del giorno che invita perentoriamente chi di dovere ad esporre i fatti. 36 Fino a questo punto i senatori sono ancora vagamente consapevoli che stanno discutendo sulla base di una semplice voce. Dal momento che sono degli avvocati, hanno ancora presenti alcune delle caratteristiche che deve avere l’evidenza. Ma come uomini sanguigni provano già tutta l’indignazione che si conviene al fatto che dei marines americani siano stati mandati in guerra per ordine di un governo straniero e senza il consenso del Congresso americano. Emotivamente vogliono crederlo, perché sono dei repubblicani che osteggiano la Società delle Nazioni. Ciò suscita la reazione del capo del gruppo democratico, il senatore Hitchcock del Nebraska. Questi difende il Consiglio supremo: ha agito in base ai poteri di guerra. La pace non è ancora stata conclusa perché i repubblicani la fanno andare per le lunghe. Perciò l’azione era necessaria e legale. A questo punto ambedue le parti danno per scontato che il resoconto del giornale corrisponda a verità, e le conclusioni che ne traggono sono le conclusioni della loro parte politica. Tuttavia questo incredibile assunto prende corpo durante un dibattito su un ordine del giorno che chiede di indagare sulla verità dell’assunto. Tutto ciò rivela quanto riesca difficile, persino a degli esperti avvocati, sospendere il giudizio fino a quando non siano disponibili tutti i dati. La reazione è istantanea: la finzione viene presa per la verità, perché la finzione soddisfa una profonda esigenza. Qualche giorno dopo un rapporto ufficiale dimostrava che i marines non erano sbarcati per ordine del governo inglese o del Consiglio supremo; non avevano combattuto contro gli italiani; erano stati fatti sbarcare su richiesta del governo italiano per proteggere gli italiani e il comandante americano era stato ufficialmente ringraziato dalle autorità italiane. I marines non si trovavano in guerra con l’Italia e avevano agito secondo una vecchia consuetudine internazionale, che non aveva nulla a che vedere con la Società delle Nazioni. La scena dell’azione era l’Adriatico. L’immagine di questa scena era stata fornita ai senatori a Washington, in questo caso probabilmente nell’intento di ingannare, da qualcuno a cui non importava nulla dell’Adriatico, ma importava molto il fallimento dell’idea della Società delle Nazioni. A questa immagine il Senato reagì infatti accentuando le divisioni tra i due partiti a proposito della Società. 5. Non è necessario qui stabilire se in questo caso particolare il Senato fosse al di sopra o al di sotto del suo livello normale. E neppure interessa stabilire se il Senato regga bene il confronto con la Camera dei 37 rappresentanti, o con altri parlamenti. Vorrei soffermarmi solo sullo spettacolo universale di uomini che agiscono sul proprio ambiente, mossi da stimoli provenienti dai propri pseudo-ambienti. Infatti, tenuto largamente conto degli inganni deliberati, la scienza politica deve ancora spiegare certi fatti, come i reciproci attacchi di due nazioni, ognuna delle quali è persuasa di agire per legittima difesa, o di due classi, ciascuna delle quali è certa di parlare a nome dell’interesse comune. Siamo tentati di dire che vivono in mondi diversi; però è più esatto dire che vivono nello stesso mondo, ma pensano e sentono in mondi diversi. È rispetto a questi mondi particolari, rispetto a queste elaborazioni personali, o di gruppo, o di classe, o di regione, o professionali, o nazionali, o di setta, che si compie l’adattamento politico degli uomini nella Grande Società. È impossibile descrivere la loro varietà e la loro complessità. Eppure queste finzioni determinano in grandissima parte il comportamento politico degli uomini. Dobbiamo cominciare col tener conto di una cinquantina di parlamenti sovrani comprendenti almeno un centinaio di assemblee legislative. A questi corrispondono almeno una cinquantina di gerarchie di assemblee provinciali e municipali, le quali, con i loro organi esecutivi, amministrativi e legislativi, costituiscono nel mondo l’autorità formale, ma tutto ciò non dà neppure una pallida idea della complessità della vita politica. Infatti, entro ciascuno di questi innumerevoli centri di autorità ci sono partiti, e questi partiti sono anch’essi gerarchie le cui radici affondano nelle classi, nelle categorie, nelle conventicole e nei clan; e all’interno di questi ci sono i singoli uomini politici, ciascuno dei quali è al centro di una rete di legami e di memorie e di speranze e di timori. In un modo o nell’altro, per ragioni spesso inevitabilmente oscure, per effetto di una supremazia, o di un compromesso, o di un accordo, emergono da questi organi politici gli ordini che mettono in moto gli eserciti o dettano la pace, o impongono la coscrizione, le tasse, l’esilio, il carcere, proteggono la proprietà o la confiscano, incoraggiano un tipo d’iniziativa economica e ne scoraggiano un’altra, facilitano l’immigrazione o la bloccano, migliorano le comunicazioni o le censurano, istituiscono scuole, costruiscono flotte, proclamano delle «politiche» o dei «destini», elevano barriere economiche, creano o disfano patrimoni, sottomettono un popolo al dominio di un altro o favoriscono una classe nei confronti di un’altra. Per ognuna di queste decisioni si dà per definitiva una certa visione dei fatti, la si accetta come base delle deduzioni che si traggono e come stimolo del sentire. Quale visione dei fatti, e perché proprio quella? 38 E tuttavia neanche questo permette di cogliere tutta la complessità della politica. La struttura politica formale è inserita in un ambiente sociale, che comprende innumerevoli corporazioni e istituzioni grandi e piccole, associazioni volontarie e semivolontarie, raggruppamenti nazionali, provinciali, cittadini e di vicinato, che assai spesso prendono la decisione di cui il corpo politico prende atto. Su che cosa si basano queste decisioni? La società moderna – dice Chesterton – è intrinsecamente insicura perché si fonda sull’idea che tutti gli uomini faranno la stessa cosa per ragioni diverse […] e, come dentro la testa di un qualsiasi detenuto può esserci l’inferno di un delitto assolutamente unico, così nella casa o sotto il cappello di un qualunque impiegato di periferia può esserci il limbo di una filosofia del tutto personale. Il primo può essere un perfetto materialista, che sente il suo corpo come un’orribile macchina intenta a fabbricare la sua mente; può darsi che ascolti i suoi pensieri come se fossero il monotono ticchettìo di un orologio. Il nostro vicino può essere un Christian Scientist, e vedere il proprio corpo come in qualche modo meno reale della sua ombra; può arrivare quasi a convincersi che le sue braccia e le sue gambe siano illusioni, al pari dei serpenti che si muovono nell’allucinazione del delirium tremens. Il terzo uomo che incontriamo per via può essere non un Christian Scientist, ma, al contrario, un cristiano. Forse vive in una fiaba, come direbbero i suoi vicini, in una fiaba segreta ma solida, piena dei volti e delle presenze di amici ultraterreni. Il quarto uomo può essere un teosofo, purtroppo molto probabilmente un vegetariano; e non vedo perché dovrei rinunciare al piacere di immaginare che il quinto sia un adoratore del diavolo […]. Ora, quale che sia il nostro giudizio sul valore di questa varietà, è che l’unità raggiungibile tra questi uomini è precaria. Aspettarsi che gli uomini continuino sempre a pensare cose diverse, e tuttavia a comportarsi nello stesso modo, è una speculazione dubbia. Così si fonda una società non su una comunione, né su una convenzione, ma piuttosto su una coincidenza. Può darsi che quattro uomini s’incontrino sotto lo stesso lampione; il primo per verniciarlo in verde pisello, in seguito ad una riforma decisa dal municipio; un secondo per leggere il breviario sotto la sua luce; un terzo per abbracciarlo con ardore in un eccesso di entusiasmo da ubriachezza; e il quarto solo perché il lampione color verde pisello è un punto bene in vista per un rendez-vous con la ragazza. Ma è poco sensato attendersi che questo avvenga ogni sera1. Al posto dei quattro uomini al lampione si mettano i governi, i partiti, le aziende, le associazioni, gli ambienti sociali, i mestieri e le professioni, le università, le sette e i gruppi etnici del mondo. Si pensi al legislatore che vota una legge che influirà su popoli lontani, a un uomo di governo che prende una decisione. Si pensi alla Conferenza della pace che ricostituisce le frontiere d’Europa, a un ambasciatore presso un paese straniero che cerca di individuare le intenzioni del proprio governo e del governo straniero, a un imprenditore che sfrutta una concessione in un paese arretrato, ad un direttore di giornale che reclama la guerra, ad un prete che 39 chiede alla polizia di porre dei limiti a certi divertimenti, ai membri di un club che si formano un’opinione su uno sciopero, ad un circolo femminile che si accinge a controllare le scuole, a nove giudici che decidono se l’assemblea legislativa dell’Oregon può fissare l’orario di lavoro per le donne, alla riunione di Gabinetto per decidere sul riconoscimento di un governo, al congresso di partito per scegliere un candidato ed elaborare un programma, a ventisette milioni di elettori che mettono le loro schede nell’urna, a un irlandese di Cork che pensa ad un irlandese di Belfast, alla Terza Internazionale che progetta di ricostruire l’intera società umana, ad un consiglio di amministrazione di fronte ad una serie di rivendicazioni dei propri dipendenti, a un giovane che sceglie una professione, a un commerciante che calcola la domanda e l’offerta per la prossima stagione, allo speculatore che cerca di indovinare il corso dei titoli, al banchiere che decide se finanziare o no una nuova iniziativa, all’inserzionista, al lettore delle inserzioni […]. Si pensi ai diversi tipi di americani che riflettono sulle loro idee di «Impero britannico», di «Francia» o di «Russia» o di «Messico». Tutto ciò non è molto diverso dai quattro uomini di Chesterton accanto al lampione verde pisello. 6. E perciò, prima di addentrarci nella giungla delle oscurità circa le differenze innate tra gli uomini, faremo bene a fissare la nostra attenzione sulle straordinarie differenze che corrono tra le conoscenze che gli uomini hanno del mondo1. Non metto in dubbio che vi siano importanti differenze biologiche, poiché gli uomini sono animali, sarebbe strano che non ce ne fossero. Ma poiché sono anche esseri razionali, sarebbe peggio che superficiale avventurarsi in una qualsiasi generalizzazione sui comportamenti comparati finché non ci fossero delle similarità misurabili tra gli ambienti rispetto ai quali il comportamento è una reazione. Il valore pratico di quest’idea è che colloca a un livello più raffinato l’antica controversia circa la natura e l’educazione, le qualità innate e l’ambiente. Infatti lo pseudo-ambiente è un ibrido risultante da una combinazione di «natura umana» e di «condizioni ambientali». Tutto ciò, dal mio punto di vista, dimostra l’inutilità del pontificare su quello che l’uomo è, e sarà, sempre sulla base di ciò che gli vediamo fare, o su quali siano le condizioni necessarie della società. Infatti non sappiamo in che modo gli uomini si comporterebbero in reazione ai fatti della Grande Società. Sulla base di dati come questi non si può onestamente pervenire ad alcuna conclusione circa l’uomo o la Grande Società. 40 Questo, allora, sarà il punto di partenza della nostra indagine. Il nostro assunto è che ciò che l’individuo fa si fonda non su una conoscenza diretta e certa, ma su immagini che egli si forma o che gli vengono date. Se il suo atlante gli dice che il mondo è piatto, l’uomo non farà rotta verso ciò che ritiene essere l’orlo del nostro pianeta per paura di cadere giù. Se le sue mappe comprendono una fontana dell’eterna giovinezza, Ponce de León continuerà a cercarla. Se qualcuno tira su con la pala della terra gialla che sembra oro, per un po’ agirà proprio come se avesse trovato dell’oro. Il modo in cui il mondo viene immaginato determina in ogni momento il comportamento dell’uomo. Non determina quello che gli uomini conseguiranno: determina i loro sforzi, i loro sentimenti, le loro speranze, ma non le conquiste e i risultati. E proprio gli uomini che proclamano più forte il loro «materialismo» e il loro disprezzo per gli «ideologi», cioè i comunisti marxisti, in che cosa pongono le loro speranze? Nella formazione, mediante la propaganda, di un gruppo dotato di coscienza di classe. Ma cos’è la propaganda se non lo sforzo di modificare l’immagine a cui reagiscono gli individui, di sostituire un modello sociale a un altro? Che cos’è la coscienza di classe se non un modo di vedere il mondo? E che cos’è la coscienza nazionale se non un altro di questi modi? E che cos’è la «coscienza dell’affinità», di cui parla il professor Giddings, se non una disposizione a credere che in mezzo alla moltitudine degli uomini possiamo, da certi segni, riconoscere come affini alcuni di loro? Si cerchi di spiegare la vita sociale come impegno a cercare il piacere e a evitare il dolore; si dirà ben presto che l’edonista sfugge al problema, perché, anche supponendo che l’uomo davvero persegua questi fini, il problema cruciale, del perché ritenga che una vita sia più atta di un’altra a produrre il piacere, non viene neppure sfiorato. La guida della coscienza può essere una spiegazione? E allora da dove deriva la sua particolare coscienza? È valida allora la teoria dell’egoismo economico? Ma come arrivano gli uomini a concepire il loro interesse in un modo piuttosto che in un altro? La spiegazione va dunque cercata nel desiderio di sicurezza, o di prestigio, o di supremazia, o di ciò che viene vagamente chiamato autorealizzazione. Come concepiscono gli uomini la loro sicurezza, che cosa considerano prestigio, come individuano i mezzi per la supremazia, o quale idea di se stessi vogliono realizzare? Piacere, dolore, coscienza, acquisizione, protezione, perfezionamento, predominio sono indubbiamente nomi per indicare taluni comportamenti degli uomini. Possono esserci disposizioni istintive che operano a questi fini, ma nessuna formulazione del fine, o descrizione delle tendenze a raggiungerlo, possono spiegare la condotta che ne risulta. Il fatto stesso che gli uomini si 41 fanno delle teorie prova che i loro pseudo-ambienti, le loro rappresentazioni interiori del mondo, sono un elemento determinante del pensiero, del sentimento e dell’azione. E infatti se il rapporto tra realtà e reazione umana fosse diretto e immediato, invece che indiretto e inferito, non si conoscerebbero né l’indecisione né l’insuccesso, e (se ognuno di noi fosse inserito nel mondo con la stessa comodità del bimbo nel grembo materno) Bernard Shaw non sarebbe stato in grado di dire che nessun essere umano, tranne nei primi nove mesi della sua esistenza, conduce le sue cose con la stessa efficienza di una pianta. È proprio qui che sorge la principale difficoltà ad adattare la teoria psicoanalitica al pensiero politico. I freudiani si preoccupano del mancato adattamento di singoli individui ad altri individui e a concrete circostanze. Il loro assunto è che se si potessero sciogliere i nodi interni ben difficilmente si creerebbe confusione intorno a quello che è il rapporto ovviamente normale. Ma l’opinione pubblica ha a che fare con realtà indirette, non viste e sconcertanti, e non c’è nulla di ovvio in esse. Le situazioni a cui si riferiscono le opinioni pubbliche sono note solo come opinioni. Lo psicoanalista, d’altro canto, presume quasi sempre che l’ambiente sia conoscibile, e, qualora non sia conoscibile, almeno sopportabile da ogni intelligenza non obnubilata. Questo suo postulato è il problema dell’opinione pubblica. Invece di dare per acquisito un ambiente facilmente conoscibile, l’analista della società si preoccupa soprattutto di studiare in che modo venga concepito l’ambiente politico più vasto, e se sia possibile concepirlo più fedelmente. Lo psicoanalista esamina l’adattamento ad un’incognita, che egli chiama l’ambiente; l’analista sociale esamina quell’incognita che definisce pseudo-ambiente. Naturalmente ha un debito permanente e costante verso la nuova psicologia, non solo perché essa, quando è ben applicata, aiuta le persone a reggersi da sole, qualsiasi cosa succeda, ma perché lo studio dei sogni, della fantasia e delle razionalizzazioni ha chiarito notevolmente il processo di formazione dello pseudo-ambiente. Ma non può assumere come criterio di giudizio né quello che viene chiamato un «normale curriculum biologico»2 entro l’ordine sociale esistente, né un curriculum «liberato dalla repressione religiosa e dalle convenzioni dogmatiche» che si svolge fuori di quest’ordine3. Per un sociologo che cos’è un normale curriculum sociale? O un curriculum libero da repressioni e convenzioni? Naturalmente gli studiosi conservatori assumono il primo, e quelli romantici il secondo. Ma nell’assumerli danno per scontato tutto il mondo. Dicono, in sostanza, o che la società è quella cosa che corrisponde alla loro idea della normalità, oppure che è quella cosa che corrisponde alla loro 42 idea di ciò che è libero. Entrambe le idee sono soltanto delle opinioni pubbliche, e mentre lo psicanalista, come medico, può forse assumerle, il sociologo non può servirsi dei prodotti dell’opinione pubblica esistente come criteri per lo studio dell’opinione pubblica. 7. Il mondo con cui dobbiamo avere a che fare politicamente è fuori dalla nostra portata, fuori dal nostro campo visuale, fuori dai nostri pensieri. Dev’essere esplorato, riferito e immaginato. L’uomo non è un dio aristotelico, capace di contemplare con un solo sguardo l’intera esistenza. È la creatura di un’evoluzione, appena in grado di abbracciare una porzione di realtà che gli consenta di sopravvivere e di strappare al tempo pochi attimi di intuizione e felicità. Eppure questa stessa creatura ha inventato mezzi per vedere quello che non si può vedere a occhio nudo, di sentire quello che l’orecchio non può sentire, di pesare masse immense e masse infinitesime, di contare e dividere più voci di quante, come singolo, riesce a ricordare. Impara a vedere con la mente vaste zone del mondo che non potrebbe mai vedere con gli occhi, o toccare, o odorare, o udire, o ricordare. Un po’ alla volta si costruisce nella mente un’immagine attendibile del mondo che sta al di là della sua portata. Chiamiamo grossolanamente affari pubblici quegli aspetti del mondo esterno che hanno a che fare con il comportamento di altri esseri umani, in quanto questo comportamento si incroci col nostro, dipenda da noi, o ci interessi. Invece le immagini che sono nella mente di questi esseri umani, le immagini di se stessi, di altri, delle loro esigenze, dei loro intenti e dei loro rapporti, sono le loro opinioni pubbliche. Le immagini in base a cui agiscono gruppi di persone, o individui che agiscono in nome di gruppi, costituiscono l’Opinione Pubblica con le iniziali maiuscole. E così nei prossimi capitoli esamineremo anzitutto alcuni dei motivi per cui l’immagine interna così spesso fuorvia gli uomini nei loro rapporti con il mondo esterno. Per prima cosa considereremo i principali fattori che limitano il loro accesso ai fatti. Sono le censure artificiose, le limitazioni dei contatti sociali, il tempo relativamente scarso che ogni giorno si può dedicare a seguire gli affari pubblici, la distorsione prodotta dalla necessità di comprimere i fatti in messaggi brevissimi, la difficoltà di esprimere un mondo complicato con un piccolo vocabolario, e infine la paura di affrontare quei fatti che sembrerebbero minacciare il consueto svolgimento della vita degli individui. L’analisi passerà poi da questi limiti più o meno esterni al problema di 43 come questo rigagnolo di messaggi provenienti dall’esterno venga influenzato dalle immagini riposte nella mente, dai preconcetti e dai pregiudizi che interpretano, completano e a loro volta fortemente indirizzano il movimento della nostra attenzione e la nostra stessa visione. Di qui procederà a esaminare in che modo i limitati messaggi provenienti dall’esterno, e organizzati in uno schema di stereotipi, si identifichino nel singolo individuo con quelli che egli sente e immagina essere i suoi interessi. Nelle parti successivi esamineremo in che modo le opinioni si cristallizzino in quella che si è soliti chiamare l’Opinione Pubblica, e come si formi una Volontà Nazionale, una Mente Collettiva, un Fine Sociale, o come si preferisce chiamarli. Le prime cinque parti costituiscono la sezione descrittiva del libro. Segue quindi un’analisi della teoria democratica tradizionale dell’opinione pubblica. Il nocciolo della mia tesi è che la democrazia, nella sua forma originaria, non abbia mai seriamente affrontato il problema derivante dalla non automatica corrispondenza delle immagini, che gli individui hanno nella loro mente, alla realtà del mondo esterno. E poi, dal momento che la teoria democratica è stata sottoposta a critiche da parte socialista, segue un esame delle più moderne e coerenti di queste critiche, cioè di quelle mosse dai socialisti corporativi inglesi. Il mio intento è di accertare se questi riformatori abbiano presenti le principali difficoltà dell’opinione pubblica. Sono arrivato alla conclusione che essi le ignorano al pari dei primi democratici, perché anch’essi sostengono – e in una civiltà molto più complicata – che in qualche misterioso modo esiste nei cuori degli uomini una conoscenza del mondo che sta al di là della loro portata diretta. La mia tesi è che il governo rappresentativo, tanto nella sfera che solitamente vien detta politica che in quella dell’economia, non può funzionare bene, quale che sia la base del sistema elettorale, se non c’è un’organizzazione indipendente di esperti che renda comprensibili i fatti non visti a quelli che devono prendere le decisioni. Sostengo perciò che solo la reale accettazione del principio, che la rappresentanza personale dev’essere integrata dalla rappresentazione dei fatti non visti, permetterebbe un decentramento soddisfacente, che ci consentirebbe di liberarci dall’intollerabile e inefficace funzione secondo cui ciascuno di noi deve farsi un’opinione da competente su tutti gli affari pubblici. Sostengo inoltre che il problema della stampa resta confuso perché sia i suoi critici che i suoi apologeti pretendono che sia la stampa stessa a dar corpo a questa finzione, pretendono che essa compensi tutto ciò che non era stato previsto dalla teoria democratica; e affermo che i lettori pretendono che questo miracolo si compia senza spesa o fatica da parte 44 loro. I giornali vengono considerati dai democratici come la panacea dei loro difetti, mentre l’analisi della natura delle notizie e della base economica del giornalismo sembrano dimostrare che i giornali necessariamente e inevitabilmente riflettono – e perciò, in maggiore o minor misura, intensificano – i difetti dell’organizzazione della pubblica opinione. La mia conclusione è che le opinioni pubbliche debbano essere organizzate per la stampa, se si vuole che siano sensate, e non dalla stampa, come avviene oggi. Vedo questa organizzazione in primo luogo come il compito di una scienza politica che abbia conquistato il suo giusto posto di chiarificatrice dei dati su cui si dovranno basare le decisioni reali, invece che di apologeta, critica o cronista delle decisioni già prese. Cercherò di dimostrare che le perplessità del governo e del mondo economico concorrono a dare alla scienza politica questa grande possibilità di arricchirsi e di servire il pubblico. E naturalmente spero che queste pagine aiutino almeno qualcuno a comprendere questa possibilità con maggiore chiarezza e perciò a perseguirla con maggiore consapevolezza. Sant’Ambrogio, L’Esamerone ossia dell’origine e natura delle cose (Sei, Torino 1937, trad. di E. Pasteris, pp. 44-6), L, 6, citato in H. O. Taylor, The Medieval Mind, Macmillan, New York 1919, I, p. 73. 2 W. E. H. Lecky, History of the rise and influence of the spirit of rationalism in Europe, Longmans, Green and Co., New York-London 1914, I, pp. 276-8. 3 Ibid. 1 L. Strachey, La regina Vittoria, trad. di S. Caramella, Mondadori, Milano 1930, pp. 40-50; ed. or. Queen Victoria, Harcourt, Brace and Co., New York 1921, p. 72. 2 J. de Pierrefeu, G. Q. G. Secteur 1. Trois ans au Grand Quartier Général par le rédacteur du «Communiqué», L’Édition française illustrée, Paris 1920, pp. 94-5. 1 Cfr. la parte V. 2 Cfr. S. Lewis, Main Street, Harcourt, Brace, and Howe, New York 1920; trad. it. La via principale, Rizzoli, Milano 1957. 3 Pierrefeu, G.Q.G. Secteur 1 cit., p. 99. 4 W. James, Principles of Psychology, H. Holt and Co., New York 1918, III, p. 638; trad. it. Principii di psicologia, Società Editrice Libraria, Milano 1901. 1 G. K. Chesterton, The Mad Hatter and the Sane Householder, in «Vanity Fair», gennaio 1921, p. 54. 1 Cfr. G. Wallas, Our Social Heritage, Yale University Press, New Haven (Conn.) 1921, pp. 77 sgg. 2 E. J. Kempf, Psychopathology, C. V. Mosby, St. Louis 1920, p. 116. 3 Ibid., p. 151. 1 45 II. Accessi al mondo esterno 46 II. La censura e la segretezza 1. L’immagine di un generale che presiede una conferenza-stampa nell’ora più terribile di una delle grandi battaglie della storia sembra più una scena de Il soldato di cioccolata che un episodio vero. Eppure l’ufficiale che redigeva i comunicati francesi ci fa sapere che queste conferenze rientravano nella normale condotta della guerra; che nel momento peggiore di Verdun il generale Joffre e il suo Stato maggiore si riunirono per discutere sui sostantivi, gli aggettivi e i verbi da stamparsi nei giornali la mattina seguente. Il comunicato serale del 23 (febbraio 1916) – dice Pierrefeu1 – fu redatto in un’atmosfera drammatica. Berthelot, della segreteria del Primo Ministro, aveva appena telefonato per ordine di questi chiedendo al generale Pellé di rendere più forte il comunicato e di sottolineare la portata dell’attacco nemico. Occorreva preparare il pubblico al peggio per il caso che la faccenda si fosse risolta in una catastrofe. Questa sua preoccupazione dimostrava chiaramente che il Governo non aveva trovato motivo di fiducia né al Quartier generale né al ministero della Guerra. Mentre Berthelot parlava, il generale Pellé prendeva appunti. Mi passò il foglio su cui aveva scritto le volontà del governo insieme all’ordine del giorno emanato dal generale von Deimling, e trovato addosso ad alcuni prigionieri, in cui si affermava che l’attacco era l’offensiva suprema per conseguire la pace. Tutto ciò doveva abilmente dimostrare che la Germania si era impegnata in uno sforzo gigantesco, in uno sforzo senza precedenti, e che dal suo successo si riprometteva la fine della guerra. Il senso del documento era che nessuno avrebbe dovuto sorprendersi di una nostra ritirata. Mezz’ora dopo, quando scesi con il mio testo, trovai riuniti nell’ufficio del colonnello Claudel, che però non era presente, Pellé, il generale Janin, il colonnello Dupont e il tenente colonnello Renouard. Temendo che non sarei riuscito a dare l’impressione desiderata, il generale Pellé aveva preparato personalmente una bozza di comunicato. Lessi quello che avevo scritto. Lo si giudicò troppo moderato. Quello di Pellé, d’altro canto, sembrò troppo allarmante. Avevo omesso di proposito l’ordine del giorno di von Deimling. Inserirlo nel comunicato avrebbe significato rompere il cliché a cui il pubblico era abituato, trasformarlo in una sorta di supplica. Sarebbe stato come dire: «In che modo credete che possiamo resistere?». C’era da temere che il pubblico si sarebbe disorientato per questo cambiamento di tono e avrebbe creduto che tutto fosse perduto. Esposi le mie ragioni e suggerii di 47 dare ai giornali il testo di von Deimling come nota separata. Poiché le opinioni non concordavano, il generale Pellé andò a chiamare il generale de Castelnau perché prendesse la decisione definitiva. Il generale arrivò sorridente, calmo e di buon umore, disse qualche piacevolezza su questa nuova specie di consiglio letterario di guerra, e diede un’occhiata ai testi. Scelse il più semplice, rafforzò la prima fase, inserì le parole «come era stato previsto», che appaiono sempre rassicuranti, e si oppose recisamente all’inserimento dell’ordine del giorno di von Deimling; ma approvò l’idea di trasmetterlo alla stampa come nota speciale. Quella sera il generale Joffre lesse attentamente il comunicato e lo approvò. Nel giro di poche ore quelle due o trecento parole sarebbero state lette in tutto il mondo. Avrebbero dipinto un quadro di ciò che stava accadendo sui pendii di Verdun, e di fronte a questo quadro la gente avrebbe provato sollievo o disperazione. Si doveva infondere speranza nel bottegaio di Brest, nel contadino della Lorena, nel deputato di palazzo Borbone, nel giornalista di Amsterdam o di Minneapolis, e nello stesso tempo si doveva prepararli ad accettare l’eventuale sconfitta senza cedere al panico. Perciò si dice loro che la perdita di terreno non è una sorpresa per il comando francese. Li si induce a considerare la cosa come grave, ma non strana. Di fatto, però, lo Stato maggiore francese non era del tutto preparato all’offensiva tedesca. Non si erano scavate trincee di rinforzo, non si erano costruite strade d’emergenza, mancava il filo spinato, ma una simile ammissione avrebbe suscitato nella mente dei civili immagini capaci di mutare in disastro una sconfitta. L’Alto comando poteva dolersi della cosa, e tuttavia riprendersi; invece la popolazione della Francia e dei paesi alleati, piena di incertezze e priva dell’unicità d’intenti del militare di carriera, sapendo tutta la verità, forse avrebbe perduto di vista la guerra per abbandonarsi a polemiche sulla competenza degli ufficiali, invece di lasciare che il pubblico reagisse sulla base di tutti i dati che erano a conoscenza dei generali, le autorità presentavano solo certi fatti e anche questi solo nel modo più adatto a rafforzare lo spirito pubblico. In questo caso gli uomini che prepararono lo pseudo-ambiente sapevano com’era quello reale, ma qualche giorno dopo avvenne un fatto di cui lo stesso Stato maggiore francese non era a conoscenza. I tedeschi comunicarono2 che il pomeriggio del giorno precedente avevano preso, in seguito a un assalto, Fort de Douaumont. Al Quartier Generale francese di Chantilly nessuno riuscì a capire questa notizia, infatti la mattina del 25, dopo il combattimento del XX Corpo, la battaglia aveva preso una piega favorevole. Nel frattempo il comunicato tedesco aveva fatto il giro del 48 mondo e i francesi dovevano pur dichiarare qualcosa, perciò il Quartier Generale fornì una spiegazione. «Data la totale ignoranza di Chantilly circa le modalità dell’attacco, costruimmo, nel comunicato serale del 26, un piano dell’attacco che certamente aveva mille probabilità contro una d’esser vero». Il comunicato di questa battaglia immaginaria suonava così: È in corso un arduo combattimento intorno al Fort de Douaumont, un posto avanzato del primitivo sistema di difesa di Verdun. La posizione conquistata questa mattina dal nemico, dopo vari assalti infruttuosi che gli sono costati gravissime perdite, è stata di nuovo raggiunta e sorpassata dalle nostre truppe, che il nemico non è riuscito a respingere. Ciò che realmente era accaduto differiva sia dalla versione francese sia da quella tedesca. Durante un avvicendamento di truppe in prima linea, la posizione era stata in qualche modo dimenticata nell’incrociarsi degli ordini. Solo un comandante di batteria e pochi uomini rimasero nel forte. Alcuni soldati tedeschi, vedendo la porta aperta, erano entrati strisciando nel forte, ed avevano fatto prigionieri tutti gli occupanti. Poco dopo i francesi, che stavano sui fianchi della collina, rimasero esterrefatti nel vedersi presi di mira dal forte. A Douaumont non v’era stata alcuna battaglia, né v’erano state perdite e le truppe francesi non l’avevano oltrepassato, come il comunicato pareva dire. Le posizioni erano più avanzate da ambedue i lati, certamente, ma il forte era nelle mani del nemico. Eppure tutti credettero di capire dal comunicato che il forte fosse semiaccerchiato. Le parole non lo dicevano esplicitamente, ma «la stampa, come sempre, ha affrettato il passo». I commentatori militari conclusero che i tedeschi sarebbero stati costretti presto ad arrendersi. Nel giro di pochi giorni cominciarono a domandarsi perché mai la guarnigione, dal momento che era a corto di cibo, non si fosse ancora arresa. «Si dovette chiedergli, tramite l’ufficio stampa, di lasciar cadere il tema dell’accerchiamento»3. 2. Il redattore del comunicato francese racconta che, prolungandosi la battaglia, lui e i suoi colleghi si accinsero a neutralizzare l’ostinazione dei tedeschi insistendo continuamente sulle loro terribili perdite. È necessario ricordare che a quel punto, e anzi fin verso la fine del 1917, l’orientamento ortodosso di tutti i popoli alleati era che la guerra sarebbe stata decisa per «logorio». Nessuno credeva a una guerra di movimento. Si sosteneva che la strategia, o la diplomazia, non contavano; si trattava semplicemente di 49 ammazzare tedeschi. Il pubblico in genere più o meno credeva al dogma, ma si doveva continuamente ricordarglielo di fronte agli spettacolari successi dei tedeschi. Quasi non passava giorno che il comunicato […] non attribuisse ai tedeschi, con qualche parvenza di verosimiglianza, perdite gravi, estremamente gravi, e non parlasse di sacrifici cruenti, mucchi di cadaveri, ecatombi. Analogamente l’agenzia telegrafica usava regolarmente le statistiche dell’Ufficio informazioni di Verdun, il cui capo, maggiore Cointet, aveva inventato un metodo per calcolare le perdite tedesche che ovviamente dava meravigliosi risultati. Ogni quindici giorni le cifre aumentavano di un centinaio di migliaia, o giù di lì. Questi 300 000, 400 000, 500 000 caduti esibiti, suddivisi in perdite giornaliere, settimanali, mensili, ripetuti in tutti i modi, creavano un effetto strabiliante. Le nostre formule variavano poco: «Secondo i prigionieri, le perdite tedesche nel corso dell’attacco sono state considerevoli»; «è dimostrato che le perdite»; «il nemico stremato dalle perdite non ha rinnovato l’attacco» formule, successivamente abbandonate perché troppo logore, venivano usate ogni giorno: «Sotto il fuoco della nostra artiglieria e delle nostre mitragliatrici». La ripetizione costante impressionava i neutrali e la stessa Germania, e contribuiva a creare uno sfondo sanguinoso nonostante le smentite da Nauen (l’agenzia telegrafica tedesca), che cercò invano di distruggere l’effetto nocivo di questa perpetua ripetizione1. La tesi che il comando francese intendeva far valere pubblicamente, attraverso questi dispacci, veniva formulata come segue per l’orientamento dei censori: Questa offensiva impegna le forze attive dei nostri avversari, il cui potenziale umano sta diminuendo. Abbiamo appreso che la classe del 1916 è già al fronte. Resterà la classe del 1917, già in corso di mobilitazione, e le risorse della terza categoria (uomini al di sopra dei 45 anni, o convalescenti). Tra poche settimane le forze tedesche, esaurite dallo sforzo, si troveranno di fronte a tutte le forze della coalizione (dieci milioni contro sette milioni)2. Secondo de Pierrefeu, il comando francese si era persuaso della verità della cosa. «Per un’incredibile aberrazione mentale, si vedeva solo il logorìo del nemico; sembrava che le nostre forze non fossero soggette a logorio. Il generale Nivelle condivideva queste idee. Ne vedemmo i risultati nel 1917». Ormai chiamiamo tutto questo propaganda. Un gruppo di persone, in grado di impedire il libero accesso ai fatti, ne manipolano la notizia in vista di un loro fine. Che il fine in questo caso fosse patriottico non inficia la validità della considerazione. Usavano il loro potere affinché il pubblico dei paesi alleati vedesse le cose come essi desideravano che fossero viste. Le cifre delle perdite del maggiore Cointet, che venivano diffuse in tutto il 50 mondo, sono dello stesso genere. Con esse si intendeva provocare un particolare tipo di deduzione, e cioè che la guerra di logoramento stava procedendo in modo favorevole ai francesi. Ma la deduzione non viene tratta formalmente nell’argomentazione. Deriva quasi automaticamente dalla creazione di un quadro mentale di teorie interminabili di tedeschi massacrati sulle colline presso Verdun. Mettendo al centro del quadro i caduti tedeschi, e omettendo di menzionare i caduti francesi, si costruiva un panorama assai particolare della battaglia. Era un panorama inteso a neutralizzare gli effetti delle conquiste territoriali tedesche e l’impressione di potenza creata dalla persistenza dell’offensiva. Era anche un panorama che tendeva a far accettare al pubblico la demoralizzante strategia difensiva a cui gli eserciti alleati erano costretti. Infatti il pubblico, avvezzo all’idea che la guerra è fatta di grandi movimenti strategici, attacchi laterali, accerchiamenti e drammatiche capitolazioni, doveva gradualmente dimenticare questo quadro per sostituirvi la terribile idea che la guerra sarebbe stata vinta opponendo vite ad altre vite. Grazie al controllo esercitato su tutte le notizie dal fronte, lo Stato maggiore generale sostituiva una versione dei fatti coerente con questa strategia. Lo Stato maggiore di un esercito in campo si trova in una posizione che gli consente, entro limiti piuttosto ampi, di controllare ciò che il pubblico percepirà. Controlla la selezione dei corrispondenti che vanno al fronte, controlla i loro movimenti al fronte, legge e censura i loro messaggi dal fronte e controlla le linee telegrafiche. Il Governo che sta dietro all’esercito, accresce ulteriormente il controllo, regolando cablogrammi e passaporti, poste, dogane e posti di blocco. Lo rafforza coi poteri legali esercitati sugli editori, sulle riunioni pubbliche, e anche attraverso il servizio segreto, ma nel caso di un esercito il controllo è lungi dall’essere perfetto. C’è sempre il comunicato del nemico, che con la radiotelegrafia non può essere nascosto ai neutrali. Soprattutto ci sono le indiscrezioni dei soldati, che rifluiscono dal fronte e si diffondono rapidamente quando sono in licenza. Un esercito è poco maneggevole. Ed ecco perché la censura navale e diplomatica è quasi sempre molto più completa. Meno persone sanno che cosa sta succedendo, più facilmente le loro azioni vengono controllate. 3. Senza qualche forma di censura la propaganda nel senso stretto della parola è impossibile. Per poter esercitare la propaganda dev’esserci qualche barriera tra il pubblico e l’avvenimento. L’accesso all’ambiente 51 reale deve venir limitato, prima che qualcuno possa creare uno pseudoambiente che gli sembri adatto od opportuno. Infatti, mentre coloro che hanno diretto accesso al teatro degli avvenimenti possono fraintendere quello che vedono, nessun altro può decidere in che modo lo fraintenderanno, sempreché non sia in grado di decidere dove guarderanno e che cosa. La censura militare è la forma più semplice di barriera, ma non è affatto la più importante, perché si sa che esiste e perciò in una certa misura è accettata e scontata. In momenti diversi e in materie diverse alcune persone impongono e altre accettano una particolare regola di segretezza. La frontiera che delimita ciò che viene celato perché la pubblicazione non è, come si suol dire, «compatibile con l’interesse pubblico», sfuma gradualmente in ciò che viene celato perché si ritiene che non riguardi il pubblico. La nozione di ciò che costituisce un affare privato della persona è elastica. Così la consistenza del patrimonio di un individuo viene considerata un affare privato, e la legge relativa all’imposta sul reddito provvede con cura a mantenerla il più possibile privata. La vendita di un pezzo di terreno non è privata, ma il prezzo può esserlo. Gli stipendi in genere vengono considerati più privati dei salari, e i redditi più privati delle eredità. Alla solvibilità di un individuo viene data solo una pubblicità limitata. I profitti delle grandi società sono più pubblici di quelli delle piccole. Certe specie di conservazione, tra marito e moglie, avvocato e cliente, medico e paziente, prete e comunicando, sono privilegiate. Le riunioni dei consiglieri d’amministrazione sono, in genere, private. Così molte riunioni politiche. La maggior parte di ciò che viene detto a una riunione di Gabinetto, o da un ambasciatore al ministro degli Esteri, o in colloqui privati, o a pranzo, è privato. Molte persone considerano privato il contratto tra datore di lavoro e dipendente. Una volta gli affari di tutte le aziende erano ritenuti privati quanto lo è oggi la fede religiosa del singolo. Prima ancora c’è stato un tempo in cui la fede veniva considerata un fatto pubblico quanto il colore degli occhi. D’altro canto le malattie infettive erano, un tempo, altrettanto private che i processi digestivi. La storia del concetto di segretezza, sarebbe una storia divertente. Talvolta i modi di concepirla sono in violento contrasto, come quando i bolscevichi pubblicarono i trattati segreti, o quando Hughes investigò sulle compagnie di assicurazione, o quando i fatti scandalosi di qualcuno passano dalle pagine della cronaca cittadina alle prime pagine dei giornali di Hearst. Buone o cattive che siano le ragioni a favore della segretezza, le barriere esistono. Nel campo di quelli che vengono definiti gli affari pubblici si insiste sul riserbo. Perciò spesso è molto illuminante chiedersi 52 da dove si sono derivati i fatti su cui ci si forma le proprie opinioni. Chi realmente vide, udì, sentì, contò, nominò la cosa su cui si ha un’opinione? Era colui che ce l’ha detto, o colui che glielo ha detto, o qualcuno ancora più remoto? E quanto gli fu consentito vedere? Quando ci informa che la Francia pensa questo o quello, quale parte della Francia ha potuto osservare? In che modo poté osservarla? Dov’era quando l’osservava? Con quali francesi gli fu consentito di parlare, quali giornali ha letto e dove appresero questi ultimi ciò che affermano? Ci possiamo porre queste domande, ma di rado siamo in grado di dare una risposta. Tuttavia servono a ricordarci la distanza che spesso separa la nostra opinione pubblica dall’intervento cui si riferisce. E il ricordo è di per sé una protezione. 53 III. Il contatto e la possibilità 1. Mentre la censura e la segretezza bloccano molte notizie alla fonte, una massa ancor più grande di dati non arriva alla generalità del pubblico, o vi arriva solo lentamente. Infatti esistono limiti molto precisi alla circolazione delle idee. Se si considera la propaganda del governo durante la guerra ci si può fare un’idea approssimativa dello sforzo che occorre per raggiungere «tutti». Tenendo presente che la guerra era già in corso da due anni e mezzo quando l’America vi entrò, e che erano stati diffusi milioni e milioni di pagine stampate ed erano stati tenuti innumerevoli discorsi, soffermiamoci sul resoconto che George Creel fa della sua battaglia «per le menti degli uomini, per la conquista delle loro convinzioni» affinché «il vangelo dell’americanismo possa essere portato in ogni angolo del globo»1. Creel dovette mettere in piedi un’organizzazione, la quale comprendeva una sezione notizie che diramò, ci dice, più di seimila veline, e dovette reperire 75 000 Four Minute Men2 che tennero almeno 755 190 discorsi a un pubblico che superò i 300 000 000 di persone. Fu affidato ai Boy Scouts il compito di consegnare copie commentate dei discorsi del presidente Wilson alle famiglie americane. Periodici quindicinali furono inviati a 600 000 insegnanti. Vennero fornite 200 000 lastre per conferenze con proiezioni. Vennero prodotti 1438 disegni per manifesti, locandine, avvisi sui quotidiani, vignette, bolli e distintivi. Per la distribuzione ci si appoggiò alle Camere di Commercio, alle chiese, alle associazioni, alle scuole. E tuttavia lo sforzo di Creel, della cui ampiezza le cose che ho menzionate non possono davvero dare un’idea, non comprendeva la stupenda organizzazione di McAdoo per i prestiti di guerra, né la vastissima propaganda di Hoover contro lo spreco alimentare, né le campagne della Croce Rossa, dell’Ymca, dell’Esercito della Salvezza, dei Cavalieri di Colombo, del Comitato Ebraico d’Assistenza, per non parlare dell’attività indipendente di società patriottiche come la Lega per la Difesa della Pace, la Lega dell’Associazione delle Nazioni Libere, la Lega per la 54 Sicurezza Nazionale, e nemmeno l’attività degli uffici propaganda degli alleati e delle Nazioni oppresse. Si tratta probabilmente del più vasto e intenso sforzo mai fatto per trasmettere rapidamente a tutta la popolazione di un paese un complesso di idee in modo abbastanza uniforme. Il proselitismo di vecchio stampo procedeva più lentamente, forse più sicuramente, ma non in modo così generale. Ma se occorrono misure talmente estreme per giungere a tutti in tempo di crisi, quanto sgombre sono in realtà le normali vie che conducono alle menti degli uomini? Il governo cercava – e per tutta la durata della guerra ci riuscì, credo, in larghissima misura – di creare qualcosa che si potrebbe quasi chiamare una sola pubblica opinione in tutta l’America. Ma si pensi al lavoro accanito, alle complicate trovate, al denaro e al personale che si resero necessari. In tempo di pace non c’è nulla di simile, ed anzi ci sono interi settori, vastissimi gruppi, ghetti, isole e classi che hanno solo un vago sentore di ciò che succede. La loro vita scorre come su binari, sono rinchiusi nei propri affari, esclusi dagli avvenimenti più grandi, incontrano poche persone appartenenti a strati diversi dal loro, leggono poco. I viaggi e i commerci, la posta, il telegrafo e la radio, le ferrovie, le autostrade, le navi, le automobili e nel prossimo futuro gli aeroplani, sono certamente di importanza primaria per la circolazione delle idee. Ognuno di questi mezzi influisce in maniera molto intricata sull’offerta e sulla qualità delle notizie e delle opinioni. Ciascuno è a sua volta condizionato da fatti tecnici, economici, politici. Ogniqualvolta un governo rende più facile il rilascio e il controllo dei passaporti, o le ispezioni doganali, ogniqualvolta si apre una nuova ferrovia o un nuovo porto, o si inaugura una nuova linea marittima, ogniqualvolta le tariffe salgono o scendono, la posta viaggia più rapidamente o più lentamente, i cablogrammi non vengono censurati e scendono di prezzo, si costruisce, o si allarga, o si migliora un’autostrada, la circolazione delle idee ne resta influenzata. I livelli delle tariffe doganali e le sovvenzioni influiscono sull’orientamento dell’impresa commerciale, e perciò sulla natura dei contatti tra gli uomini. E così può accadere, come ad esempio è accaduto nel caso di Salem, nel Massachusetts, che un mutamento nell’arte delle costruzioni navali trasformi un’intera città da centro di rapporti internazionali in graziosa cittadina di provincia. Non sono necessariamente tutti buoni gli effetti immediati di un trasporto più rapido. Sarebbe difficile dire, ad esempio, che il sistema ferroviario francese, tutto gravitante su Parigi, sia stato soltanto una fortuna per i francesi. È certamente vero che i problemi derivanti dai mezzi di comunicazione 55 sono della massima importanza, e che uno degli aspetti più costruttivi del programma della Società delle Nazioni è stato lo studio dei trasporti ferroviari e degli accessi al mare. L’accaparramento dei cavi sottomarini, dei porti, delle stazioni di rifornimento di benzina, dei varchi montani, dei canali, degli stretti, delle vie fluviali, dei nodi ferroviari, dei luoghi di mercato è molto più importante dell’arricchimento di un gruppo di uomini d’affari, o del prestigio di un governo. Esso costituisce una barriera allo scambio di notizie e di opinioni, ma il monopolio non è la sola barriera. Il costo e la disponibilità di mezzi di trasporto sono barriere ancora più grandi, perché se il costo del viaggiare o del commerciare è proibitivo, se la domanda di mezzi di trasporto eccede l’offerta, le barriere esistono anche in assenza del monopolio. 2. L’entità del reddito di un individuo ha notevoli conseguenze sulle sue possibilità di accesso al mondo che sta al di là del suo vicinato. Con il denaro può superare quasi ogni tangibile ostacolo alla comunicazione, può viaggiare, comprare libri e periodici ed estendere la propria attenzione a quasi tutti i fatti noti del mondo. Il reddito dell’individuo e il reddito della collettività determinano l’entità del flusso di comunicazione possibile. Ma le idee degli uomini determinano come si spenderà quel reddito, e ciò a sua volta influisce alla lunga sulla misura del reddito di cui disporranno. Così vi sono anche delle limitazioni che non sono meno reali per il fatto di essere spesso autoimposte e frutto di debolezze. Ci sono settori del popolo sovrano che impiegano gran parte del loro tempo libero e dei risparmi andando in automobile e confrontando le automobili, giocando a bridge e discutendo poi le partite, andando al cinema o a vedere drammoni, parlando sempre con le stesse persone delle stesse vecchie cose, solo con varianti minime. Non si può dire che essi davvero soffrano a causa della censura, o del segreto o dell’alto costo o della difficoltà della comunicazione. Soffrono di anemia, di mancanza di appetito e di curiosità per la scena umana. Il loro non è un problema di accesso al mondo esterno; mondi interessanti attendono di venir esplorati da loro, ma loro non vi entrano. Si muovono, come se stessero al guinzaglio, entro un raggio prestabilito di conoscenze e secondo le regole e il vangelo del loro ambiente sociale. Tra gli uomini la cerchia della conversazione d’affari e al club e nello scompartimento per fumatori è più ampia dell’ambiente al quale appartengono. Tra le donne l’ambiente sociale e la cerchia della 56 conversazione sono spesso quasi identici. È nell’ambiente sociale che le idee derivate dalla lettura e dalle conferenze e dalla conversazione convergono, vengono classificate, accettate, respinte, giudicate e sanzionate. È là, infine, che viene deciso ad ogni fase di una discussione quali autorità e quali fonti di informazione sono ammissibili, e quali no. Il nostro ambiente sociale si compone di coloro che nella frase «la gente dice» costituiscono la gente; sono la gente la cui approvazione ha per noi l’importanza più intima. Nelle grandi città, tra gli uomini e le donne di vasti interessi e forniti dei mezzi per spostarsi, l’ambiente sociale non è così rigidamente definito; ma anche nelle grandi città ci sono quartieri e vie che racchiudono ambienti sociali autosufficienti. Nelle piccole comunità può esserci una circolazione più libera, un cameratismo più genuino da dopo colazione fino a prima di cena. Tuttavia sono poche le persone che non sanno qual è l’ambiente cui appartengono, e quale non lo è. Di solito, il segno distintivo di un ambiente sociale è la presunzione che i figli possono sposarsi tra di loro. Sposarsi al di fuori dell’ambiente implica, come minimo, un momento di dubbio prima che il fidanzamento possa venir approvato. Ogni ambiente sociale ha un’immagine piuttosto chiara del posto che occupa nella gerarchia sociale. Tra ambienti che stanno allo stesso livello, i rapporti sono facili, gli individui vengono rapidamente accettati, l’ospitalità è normale e priva di imbarazzo. Ma nei contatti tra ambienti che sono più «su» e più «giù», c’è sempre un’esitazione reciproca, un lieve disagio, e la consapevolezza della differenza. Naturalmente in una società come quella americana gli individui si spostano con una certa facilità da un ambiente all’altro, specialmente dove non c’è la barriera razziale e dove la posizione economica è soggetta a rapidi mutamenti. La posizione economica, tuttavia, non si misura dall’ammontare del reddito. Infatti, almeno nella prima generazione, non è il reddito che determina la posizione sociale, ma il tipo di lavoro che uno fa, e può volerci una o due generazioni prima che questo scompaia dalla tradizione familiare. Così l’attività bancaria, quella legale, la medicina, i giornali, la chiesa, il commercio di qualità, l’attività di Borsa, l’industria hanno un valore sociale diverso da quello dell’attività del venditore, del capo reparto, del tecnico, dell’infermiera, della maestra, del bottegaio; e queste attività, a loro volta, vengono valutate diversamente da quelle dell’idraulico, dell’autista, della sarta, del subappaltatore o della stenografa, così come queste, a loro volta, hanno un posto diverso da quelle del maggiordomo, della cameriera, dell’addetto alla proiezione 57 cinematografica, o del macchinista di treno. E tuttavia le entrate finanziarie non coincidono necessariamente con tali valutazioni. 3. Quali che siano le prove di ammissione, l’ambiente sociale, una volta formatosi, non è una mera classe economica, ma qualcosa che assomiglia di più a un clan biologico. L’appartenenza è connessa intimamente all’amore, al matrimonio e ai figli, o, per parlare più esattamente, agli atteggiamenti e ai desideri che vi sono implicati. Perciò nell’ambiente sociale le opinioni si imbattono nei canoni della Tradizione Familiare, della Rispettabilità, del Decoro, della Dignità, del Gusto e della Forma, i quali compongono l’immagine che l’ambiente sociale ha di sé, un’immagine inculcata con assiduità nei figli. In questo quadro viene dato tacitamente ampio spazio a una versione autorizzata di ciò che ogni ambiente sociale è invitato ad accettare nel suo intimo come posizione sociale degli altri. I più volgari ambiscono a un’espressione esteriore della deferenza dovuta, gli altri hanno la sensibilità e la delicatezza di tacere sulla propria consapevolezza che una tale deferenza esiste in modo invisibile. Ma questa consapevolezza, diventando manifesta quando c’è un matrimonio, una guerra, o una sollevazione sociale, è il nesso di un grande fascio di disposizioni, classificata da Trotter1 sotto la definizione generale di istinto del gregge. All’interno di ciascun ambiente sociale ci sono degli àuguri come i van der Luydens e la signora Manson Mingott dell’Età dell’innocenza2, che vengono riconosciuti custodi e interpreti del suo modello sociale. Sei arrivato, dicono, se i van der Luydens ti accolgono; gli inviti ai loro ricevimenti sono il segno visibile dell’essere arrivati e del rango. Le elezioni ai club universitari, graduate con cura, e le classificazioni universalmente accettate, determinano chi conti nell’università. I leader sociali, gravati della responsabilità eugenetica definitiva, sono straordinariamente sensibili. Non solo debbono stare attentissimi a quanto costituisce l’omogeneità del loro ambiente, ma debbono maturare in se stessi la capacità di sapere che cosa stanno facendo gli altri ambienti sociali. Agiscono come una specie di ministero degli Esteri. Mentre la maggior parte dei membri di un ambiente vive tranquilla e soddisfatta all’interno del proprio ambiente, considerandolo a tutti gli effetti pratici come il mondo, i leader sociali debbono abbinare a un’intima conoscenza dell’anatomia del proprio ambiente una coscienza persistente del suo posto nella gerarchia degli ambienti. 58 La gerarchia, in realtà, è tenuta assieme dai leader sociali; a ciascun livello c’è qualcosa che si potrebbe quasi chiamare l’ambiente sociale dei leader sociali. Ma verticalmente il vero cemento della società, nella misura in cui questa è davvero tenuta assieme dai contatti sociali, è costituito da quelle persone eccezionali, spesso sospette, le quali, come Julius Beaufort e Ellen Olenska nell’Età dell’innocenza, circolano tra gli ambienti. Così si vengono a stabilire vie personali di comunicazione tra un ambiente e l’altro, lungo le quali operano le leggi di imitazione di Tarde. Ma per vasti settori della popolazione queste vie non esistono. Per loro debbono bastare i racconti autorizzati della vita mondana e i film sull’alta società. Essi possono elaborare una propria gerarchia sociale, quasi ignorata, come hanno fatto i neri e «l’elemento straniero» ma tra quella massa assimilata che sempre si considera la «nazione», esiste, nonostante la grande separazione degli ambienti, una molteplicità di contatti personali, attraverso i quali ha luogo una circolazione di convenzioni. Alcuni ambienti sono collocati in modo da diventare ciò che il professor Ross ha definito «punti radianti di convenzionalità»3. Così il superiore sociale probabilmente verrà imitato dall’inferiore sociale; il detentore di potere viene imitato dai subordinati, il più riuscito dal meno riuscito, il ricco dal povero, la città dalla campagna. Ma l’imitazione non si ferma alla frontiera. L’ambiente sociale potente, socialmente superiore, riuscito, ricco, urbano è fondamentalmente internazionale in tutto l’emisfero occidentale, e per molti versi Londra è il suo centro. Conta tra i suoi membri le persone più influenti del mondo, dal momento che comprende i diplomatici, i finanzieri, i circoli superiori dell’esercito e della marina, alcuni principi della Chiesa, e alcuni grandi proprietari di giornali, le loro mogli e madri e figlie, che tengono lo scettro degli inviti. È nello stesso tempo un grande circolo di conversazione e un vero ambiente sociale, ma la sua importanza proviene dal fatto che qui finalmente la distinzione tra affari pubblici e privati praticamente scompare. Gli affari privati di questo ambiente sono questioni pubbliche e le questioni pubbliche sono suoi affari privati, spesso suoi affari di famiglia. I parti di Margot Asquith, come quelli reali, appartengono, come dicono i filosofi, più o meno alla stessa categoria di conversazione in cui rientrano una proposta di legge doganale o un dibattito parlamentare. Vi sono vaste zone dell’attività di governo a cui questo ambiente sociale non è interessato e, almeno in America, esso ha esercitato solo un controllo fluttuante sul governo nazionale. Ma il suo potere sul campo degli affari internazionali è sempre grandissimo, e in tempo di guerra il suo prestigio cresce enormemente. Ciò è abbastanza naturale, perché 59 questi cosmopoliti hanno col mondo esterno contatti che la maggior parte della gente non possiede. Hanno pranzato assieme nelle capitali, e il loro senso dell’onore nazionale non è una mera astrazione; è la concreta esperienza di venir snobbati o accettati dai loro amici. Al dottor Kennicott di Gopher Prairie importa assai poco l’opinione di Winston e moltissimo quella di Ezra Stowbody, ma alla signora Mingott, che ha una figlia sposata al conte di Swithin, importa moltissimo quando fa visita alla figlia, o quando ospita Winston stesso. Il dottor Kennicott e la signora Mingott sono entrambi socialmente sensibili, ma la signora Mingott è sensibile ad un ambiente sociale che governa il mondo, mentre l’ambiente sociale del dottor Kennicott governa solo Gopher Prairie. Ma nelle questioni che toccano le più ampie relazioni della Grande Società4, spesso il dottor Kennicott si troverà ad avere delle opinioni che ritiene puramente sue, mentre, di fatto, sono arrivate fino a Gopher Prairie dall’Alta Società, trasformandosi lungo il passaggio attraverso gli ambienti sociali di provincia. 4. Non rientra nella nostra indagine il tentativo di descrivere il tessuto sociale. Dobbiamo solo tener presente quanto sia importante la parte giocata dall’ambiente sociale nei nostri contatti spirituali col mondo, come essa tenda a fissare ciò che è ammissibile, e a determinare come sarà giudicato. Ciascun ambiente determina più o meno da solo gli affari che rientrano nella sua immediata competenza, soprattutto determina la somministrazione specifica del giudizio. Ma il giudizio stesso si forma su modelli1 che possono venir ereditati dal passato, trasmessi o imitati da altri ambienti sociali. L’ambiente sociale più alto si compone di coloro che incarnano la guida della Grande Società. Diversamente da quasi tutti gli altri ambienti sociali, in cui la più parte delle opinioni sono concrete solo per quanto riguarda gli affari locali, in questa Altissima Società le grandi decisioni sulla guerra e sulla pace, sulla strategia sociale e sulla distribuzione definitiva del potere politico, sono esperienze intime entro il giro di quelle che, almeno potenzialmente, sono conoscenze personali. Dato che la posizione e i contatti giocano una parte così grande nel determinare che cosa si riesce a vedere, sentire, leggere e sperimentare, nonché che cosa è permesso vedere, sentire, leggere e sapere, non sorprende che il giudizio morale sia tanto più comune del pensiero costruttivo. E tuttavia, per pensare in modo veramente efficace, la cosa più importante è liquidare i giudizi, riacquistare l’occhio innocente, metter 60 ordine nei sentimenti, essere curiosi e di cuore aperto. Dato che la storia dell’uomo è quella che è, l’opinione politica al livello della Grande Società richiede una dose di equanimità spersonalizzata che difficilmente si mantiene per molto tempo. Ci interessiamo degli affari pubblici, ma siamo immersi nei nostri affari privati. Il tempo e l’attenzione che possiamo dedicare alla fatica di non accettare ad occhi chiusi le opinioni, sono limitati, e siamo soggetti a continue interruzioni. 61 IV. Il tempo e l’attenzione 1. Naturalmente si può valutare in modo approssimativo solo la quantità di attenzione che la gente ogni giorno dedica ad informarsi intorno agli affari pubblici. Però è interessante notare che tre valutazioni, che ho esaminato, concordano piuttosto bene, benché siano state fatte in epoche diverse, in luoghi diversi e con metodi diversi1. Hotchkiss e Franken hanno mandato un questionario a 1761 studenti universitari, maschi e femmine, di New York, a cui hanno risposto quasi tutti. Scott ha usato un questionario per 4000 importanti uomini d’affari e professionisti di Chicago, ottenendo risposte da 2300. Un’aliquota oscillante tra il 70 e il 75 per cento di coloro che hanno risposto alle due inchieste riteneva di dedicare un quarto d’ora al giorno alla lettura dei giornali. Solo il 4 per cento del gruppo di Chicago calcolava di dedicare un tempo minore, e il 25 per cento calcolava un tempo maggiore. Tra i newyorkesi un po’ più dell’8 per cento riteneva di leggere i giornali per meno di un quarto d’ora, e il 17,5 per cento per un tempo più lungo. Pochissime persone hanno un’idea precisa di cosa sia un quarto d’ora, e perciò le cifre non vanno prese alla lettera. Inoltre gli uomini d’affari, i professionisti e gli studenti universitari tendono spesso ad avere una strana riluttanza ad apparire troppo dediti alla lettura dei giornali, e forse in loro c’è anche un lieve desiderio di farsi credere rapidi lettori. Tutto quello che si può correttamente ricavare da queste cifre è che più di tre quarti degli appartenenti a questi gruppi selezionati stimano piuttosto bassa l’attenzione che dedicano alle notizie stampate concernenti il mondo esterno. Queste valutazioni del tempo sono discretamente confermate da un test che è un po’ meno soggettivo. Scott ha chiesto ai suoi intervistati di Chicago quanti giornali leggessero ogni giorno, e ne ricavò che: il 14 per cento il 46 per cento il 21 per cento leggeva un solo giornale leggeva due giornali leggeva tre giornali 62 il 10 per cento il 3 per cento il 2 per cento il 3 per cento leggeva quattro giornali leggeva cinque giornali leggeva sei giornali leggeva tutti i giornali (che erano 8 al tempo dell’inchiesta). I lettori di due e tre giornali sono il 67 per cento, cifra che si avvicina abbastanza al 71 per cento del gruppo di Scott che ritiene di leggere quindici minuti al giorno. I lettori onnivori di quattro o più giornali coincidono approssimativamente con il 25 per cento che ritiene di leggere più di quindici minuti. 2. È ancora più difficile valutare come sia distribuito il tempo. Agli studenti universitari fu chiesto di indicare «i cinque argomenti che vi interessano di più». Un 25 per cento scarso indicò le «notizie generali», un 15 per cento scarso gli editoriali, quasi il 12 per cento «la politica», un po’ più dell’8 per cento la finanza, e, a neanche due anni dall’armistizio, un po’ più del 6 per cento le notizie dall’estero, il 3,5 la cronaca locale, circa il 3 l’attività economica, e lo 0,25 per cento le notizie «sindacali». Alcuni dissero di essere più interessati allo sport, ai servizi speciali, al teatro, agli annunci commerciali, ai disegni umoristici, alle recensioni di libri, all’«esattezza», alla musica, al «tono morale», alla cronaca mondana, alle brevi, all’arte, ai racconti, al movimento marittimo, alle notizie sulla scuola, alle notizie d’attualità, alla stampa. Trascurando questo gruppo, circa il 67,5 per cento indicò come interessanti le notizie e le opinioni attinenti agli affari pubblici. Si trattava di un gruppo universitario misto. Le ragazze professavano un interesse maggiore dei ragazzi per le notizie generali, il teatro, la musica, l’arte, i racconti, le vignette umoristiche, gli annunci commerciali e «il tono morale». Dal canto loro i ragazzi si sentivano più attirati dalla finanza, dallo sport, dalla pagina economica, dall’«esattezza» e dalla «brevità». Queste discriminazioni corrispondono un po’ troppo agli ideali di ciò che è perbene e morale, virile e positivo, per non far nascere sospetti sull’obiettività delle risposte. Tuttavia sono abbastanza in armonia con le risposte dei professionisti e degli uomini d’affari di Chicago. Scott chiese loro non quali argomenti li interessassero di più, ma perché preferissero un giornale ad un altro. Quasi 63 il 71 per cento fondava la propria consapevole preferenza sulla cronaca locale (17,8%), o politica (15,8%), o finanziaria (11,3%), o estera (9,5%), o generale (7,2%), o sugli editoriali (9%). L’altro 30 per cento decideva per ragioni non connesse alla vita pubblica. Andava da uno scarso 7 per cento, che decideva in virtù del «tono morale», fino a un ventesimo dell’uno per cento che attribuiva il primo posto all’umorismo. In che rapporto stanno queste preferenze con lo spazio che i giornali riservano alle varie materie? Purtroppo su questo punto non esistono dati per i giornali letti dai gruppi di Chicago e New York all’epoca in cui i questionari vennero formulati. Abbiamo un’interessante analisi condotta più di vent’anni fa da Wilcox. Egli studiò centodieci giornali di quattordici grandi città, e classificò il contenuto di più di novemila colonne. Fatta una media nazionale, le proporzioni delle materie trattate dai giornali erano le seguenti: Per potersi servire di questa tabella per un confronto è necessario escludere lo spazio dedicato alla pubblicità e ricalcolare le percentuali. Infatti la pubblicità occupava solo una parte infinitesima della preferenza consapevole del gruppo di Chicago e del gruppo universitario. Credo sia lecito ai nostri scopi, perché la stampa pubblica la pubblicità che può procurarsi1, mentre il resto del giornale si rivolge al gusto dei lettori. La tabella diventa allora la seguente: 64 In questa tabella riveduta, sommando le voci che possono ritenersi attinenti agli affari pubblici, vale a dire le notizie belliche, estere, politiche, altre, economiche e le opinioni, si ha che il 76,5 per cento dello spazio del giornale era dedicato nel 1900 al 70,6 per cento delle ragioni indicate nel 1916 dagli uomini d’affari di Chicago per preferire un giornale piuttosto che un altro, e ai cinque argomenti che interessavano di più nel 1920 il 67,5 per cento degli studenti universitari di New York. Questo sembrerebbe dimostrare che i gusti degli uomini d’affari e degli studenti universitari delle grandi città corrispondono ancora oggi, più o meno, ai giudizi medi dei direttori dei giornali delle grandi città di vent’anni addietro. Da allora la proporzione dei servizi speciali rispetto alle notizie è indubbiamente aumentata, e sono aumentate anche la tiratura e le dimensioni dei giornali. Perciò, se oggi si potessero ottenere risposte precise da gruppi più tipici di quanto non siano gli studenti universitari o i professionisti e gli uomini d’affari, ci si dovrebbe aspettare di scoprire che è minore la percentuale di tempo dedicata agli affari pubblici, così come è più piccola la percentuale di spazio. D’altro canto ci si aspetterebbe di scoprire che l’uomo medio dedica più di un quarto d’ora al suo giornale, e che mentre la percentuale di spazio riservata agli affari pubblici è inferiore a quella di vent’anni fa, l’ammontare effettivo è maggiore. Non si può pretendere di trarre da queste cifre delle deduzioni complesse. Esse contribuiscono semplicemente a rendere un poco più concrete le nostre idee circa lo sforzo che si dedica giorno per giorno all’acquisizione dei dati che stanno alla base delle nostre opinioni. Naturalmente i giornali non sono i soli mezzi, ma sono certamente i 65 principali. Le riviste, i discorsi pubblici, i giri di conferenze in provincia, la chiesa, le riunioni politiche, le riunioni sindacali, i circoli femminili e i cinegiornali integrano la stampa. Ma calcolando tutto nel modo più favorevole possibile, il tempo durante il quale siamo ogni giorno direttamente esposti a informazioni provenienti dal nostro ambiente invisibile è piccolo. 66 V. La velocità, le parole e la chiarezza 1. Il mondo che non vediamo ci viene rappresentato soprattutto con le parole. Queste parole vengono trasmesse per telegrafo o per radio dai corrispondenti ai redattori, che le inseriscono nel giornale. Il telegrafo è costoso, e le sue possibilità di impiego sono spesso limitate. Le notizie d’agenzia vengono perciò di solito codificate. Così un dispaccio che suona: «Washington, DC, 1° giugno. Gli Stati Uniti considerano un incidente chiuso la questione delle navi tedesche confiscate in questo paese all’inizio delle ostilità» può venir trasmesso per telegrafo nella forma seguente: «Washing. 1. USA consid incdnt chiuso navi ted confisc qusto pae inizio ost»1. Una notizia che dica: Berlino, 1° giugno. Il cancelliere Wirth, nell’esporre oggi al Reichstag per sommi capi il programma del governo, ha detto che «la ricostruzione e la riconciliazione saranno il caposaldo della politica del nuovo governo». Ha aggiunto che il Gabinetto è deciso a procedere lealmente al disarmo e che il disarmo non sarà la ragione dell’imposizione di nuove sanzioni da parte degli alleati può essere trasmessa per cablogramma in questa forma: Berlino, 1. Cancelliere Wirth oggi Reichstag esponendo sc prog gov detto ricostruz et riconcil caposaldo pol nuovo gov. Aggiunto Gabinetto è dcs procedere lealmente disarmo et che dsrm non sarà rag imposiz nuove sanzn parte alleati. In questa seconda notizia la sostanza, trascelta da un lungo discorso pronunciato in una lingua straniera, è stata tradotta, codificata e poi decodificata. Gli operatori che ricevono questi messaggi li trascrivono a mano a mano che li ricevono, e mi si dice che un buon operatore possa scrivere quindicimila o anche più parole in un orario di otto ore, con mezz’ora di intervallo per la colazione e due periodi di riposo di dieci minuti. 2. 67 Spesso poche parole debbono rappresentare un’intera serie di atti, pensieri, sentimenti e conseguenze. Leggiamo: Washington, 23 dic. Una dichiarazione che accusa le autorità militari giapponesi di atti più «terribili e barbari» di quelli che si dice siano accaduti in Belgio durante la guerra, è stata oggi formulata qui dalla Commissione coreana, sulla base, ha detto la commissione, di resoconti autentici avuti dalla Manciuria. Qui i testimoni oculari, della cui esattezza non si sa nulla, riferiscono agli estensori di «resoconti autentici»; ed essi a loro volta li trasmettono a una commissione distante cinquemila miglia. Questa prepara una dichiarazione, probabilmente troppo lunga per la pubblicazione, dalla quale un corrispondente ricava una notizia lunga tre pollici e mezzo. Il significato deve essere ridotto in modo tale da consentire al lettore di giudicare quanto peso si debba dare alla notizia. C’è da dubitare che persino un sommo maestro di stile possa ficcare tutti gli elementi di verità, che una completa imparzialità richiederebbe, in un resoconto di cento parole su ciò che è accaduto in Corea nel corso di vari mesi. In verità il linguaggio non è affatto un veicolo perfetto di significati. Le parole, come la moneta, vengono voltate e rivoltate, sì da suscitare una serie di immagini oggi, un’altra serie domani. Non c’è alcuna certezza che la medesima parola susciti nella mente del lettore esattamente la stessa idea che suscitò in quella del cronista. In teoria, se ogni fatto e ogni relazione avessero un nome unico, e se tutti fossero d’accordo sui nomi, sarebbe possibile comunicare senza fraintendimenti. Nelle scienze esatte si è arrivati abbastanza vicino a questo ideale, ed è in parte per questa ragione che di tutte le forme di cooperazione mondiale l’indagine scientifica appare la più efficace. Le parole di cui gli uomini dispongono sono meno delle idee da esprimere, e il linguaggio, come disse Jean Paul, è un dizionario di metafore sbiadite1. Il giornalista che si rivolge a mezzo milione di lettori, di cui ha solo una vaga immagine, come l’oratore le cui parole vengono trasmesse a remoti villaggi e al di là del mare, non possono mai sperare che poche frasi riescano a portare l’intero fardello del loro significato. «Le parole di Lloyd George, mal capite e mal trasmesse», disse Briand alla Camera dei Deputati2, «parevano dare ai pangermanisti l’idea che fosse venuto il momento di muoversi». Un primo ministro inglese, parlando in inglese al mondo intero in ascolto, esprime il proprio concetto nel suo linguaggio ad ogni genere di persone, che in queste parole vedranno i propri concetti. Importa assai poco che sia ricco di idee o sottile: o piuttosto, quanto più ricco e sottile è il suo discorso, tanto più ne 68 risentiranno i concetti, nel momento in cui verranno riversati in frasi fatte e quindi redistribuiti tra cervelli stranieri3. Milioni di coloro che lo seguono leggono solo a stento. Altri milioni di persone possono leggere le parole, ma non riescono a capirle. Si può ritenere che tre quarti buoni di coloro che riescono sia a leggere che a capire dispongano di meno di mezz’ora al giorno da dedicare alla materia. In loro le parole così acquisite sono la scintilla che mette in moto una sequela di idee, sulle quali alla fine può fondarsi un voto dalle conseguenze meno prevedibili. Necessariamente le idee che consentiamo alle parole lette di suscitare in noi formano la parte più cospicua dei dati originari delle nostre opinioni. Il mondo è immenso, le situazioni che ci riguardano sono intricate, i messaggi sono pochi, la parte più consistente dell’opinione dev’essere costruita nell’immaginazione. Quando usiamo la parola «Messico», qual è l’immagine che essa suscita in un abitante di New York? Probabilmente si tratta di un composto di sabbia, cactus, pozzi di petrolio, «greasers»4, indios che bevono rum, vecchi cavalieri permalosi sbandieranti basette e nazionalismo, o magari un contadiname idillico alla Jean-Jacques, assalito dalla prospettiva di un fumoso industrialismo, e in lotta per i Diritti dell’Uomo. Che cosa richiama alla mente la parola «Giappone»? Forse una vaga orda di uomini gialli con gli occhi obliqui, circondati da Pericoli Gialli, spose da quadro, ventagli, Samurai, banzai, arte e fiori di ciliegio? O la parola «straniero»? Secondo un gruppo di studenti universitari del New England, intervistati nell’anno 1920, uno straniero era una delle seguenti cose5: Una persona ostile a questo paese. Una persona che è contro il governo. Una persona che sta dalla parte opposta. Un nativo di un paese ostile. Un forestiero col cui paese si è in guerra. Un forestiero che cerca di nuocere al paese in cui si trova. Un nemico proveniente da un paese estero. Una persona che è contro un paese ecc. Eppure la parola «straniero» è un termine legale insolitamente esatto, molto più esatto di parole come «sovranità», «indipendenza», «onore nazionale», «diritti», «difesa», «aggressione», «imperialismo», «capitalismo», «socialismo», su cui siamo così pronti a dichiararci «pro» o «contro». 3. 69 La capacità di distinguere le analogie superficiali, di intendere le differenze e di apprezzare la varietà è lucidità di mente. Essa è una facoltà relativa. Infatti le differenze di lucidità sono grandi, come potrebbe essere quella tra un neonato e un botanico che esaminino un fiore. Per il neonato c’è ben poca differenza tra le dita dei propri piedi, l’orologio del padre, la lampada sul tavolo, la luna in cielo e un’edizione di Guy de Maupassant rilegata in un bel colore giallo. Per non pochi membri dell’Union League Club non esiste un’apprezzabile differenza tra un membro del partito democratico, un socialista, un anarchico e uno svaligiatore, mentre agli occhi di un anarchico molto raffinato passa un universo intero tra Bakunin, Tolstoj e Kropotkin. Questi esempi dimostrano quanto potrebbe riuscire difficile ottenere un giudizio fondato su Maupassant nel mondo dei bambini; o sui democratici nell’ambiente dell’Union League Club. Un uomo che non ha l’automobile forse non riuscirà a cogliere distinzioni più fini di quelle tra una Ford, un tassì e un’automobile di lusso. Ma se questo stesso uomo si compra la macchina e la guida, e, come direbbero gli psicoanalisti, proietta la sua libido sulle automobili, coglierà una differenza in fatto di carburatore semplicemente guardando la parte posteriore di un’automobile distante un intero isolato. Ecco perché è spesso un vero sollievo il fatto che la conversazione passi dai «problemi generali» a ciò che appassiona il singolo individuo. È come passare dal paesaggio appeso in salotto al vero campo arato. È un ritorno al mondo tridimensionale, dopo un soggiorno nella rappresentazione che il pittore dà alle reazioni emotive provocate dal proprio impreciso ricordo di ciò che immagina di dover aver visto. Noi identifichiamo facilmente, dice Ferenczi, due cose solo parzialmente simili1: il fanciullo più facilmente dell’adulto, la mente primitiva o minorata più prontamente di quella matura. La coscienza, al suo apparire nel fanciullo, sembra un insieme incontrollabile di sensazioni. Il bambino non ha il senso del tempo, e quasi non ha il senso dello spazio: stende la mano per prendere il lampadario con la stessa fiducia con cui si protende verso il seno della madre, e in un primo momento quasi con la stessa speranza. Solo molto lentamente la funzione assume una configurazione precisa. Per l’inesperienza assoluta questo è un mondo coerente e indifferenziato, nel quale, come qualcuno ha detto a proposito di una certa scuola di filosofi, tutti i fatti nascono liberi e uguali. Quei fatti che nel mondo sono realmente collegati non sono stati ancora separati da quelli che per caso si vengono a trovare fianco a fianco nel flusso di coscienza. In un primo momento, dice Ferenczi, il bambino ottiene piangendo alcune delle cose che vuole. Questo è «il periodo dell’onnipotenza 70 incondizionata». Nella sua seconda fase il bambino indica le cose che vuole, e queste gli vengono date. «Onnipotenza con l’aiuto di gesti magici». In seguito il bambino impara a parlare, chiede le cose che vuole e in parte riesce ad averle. «Il periodo dei pensieri magici e delle parole magiche». Ogni fase può persistere in certe situazioni, benché sommersa e visibile solo a tratti: come ad esempio nelle piccole innocue superstizioni da cui solo pochi di noi sono del tutto liberi. In ciascuna fase il successo parziale tende a confermare quel modo di agire, mentre l’insuccesso tende a stimolare l’elaborazione di un altro modo. Molti individui, partiti e persino nazioni, sembrano trascendere solo di rado l’organizzazione magica dell’esperienza. Ma nei settori più avanzati dei popoli più avanzati, gli esperimenti compiuti dopo ripetuti insuccessi hanno portato all’invenzione di un nuovo principio. La luna, imparano, non si muove perché le si abbaia. La terra non dà il raccolto in virtù di feste propiziatorie o di maggioranze repubblicane, ma per opera del sole, dell’umidità, dei semi, del concime e del lavoro2. Tenendo presente il valore puramente schematico delle categorie di reazione di Ferenczi, la qualità che individuiamo come decisiva è la capacità di distinguere tra le percezioni grezze e le analogie vaghe. Questa capacità è stata studiata con garanzie scientifiche3. Gli studi dell’Associazione di Zurigo indicano chiaramente che una leggera stanchezza mentale, un turbamento interno dell’attenzione o una distrazione esterna, tendono ad «appiattire» la qualità della reazione. Un esempio del tipo più «piatto» è l’associazione acustica (cane-pane), una reazione al suono e non al senso della parola-stimolo. Una delle prove, ad esempio, indica un aumento di associazione acustica del nove per cento nel secondo centinaio di parole. Ora l’associazione acustica è quasi una ripetizione, una forma molto primitiva di analogia. 4. Se le condizioni relativamente semplici di un laboratorio possono appiattire così facilmente le nostre capacità di discernimento, quale sarà l’effetto della vita urbana? Nel laboratorio la fatica è piuttosto lieve, la distrazione abbastanza trascurabile: entrambe sono compensate dall’interesse e dalla consapevolezza del soggetto. Ma se il battito di un metronomo deprime l’intelligenza, che effetto avranno otto o dodici ore di rumori, odori e caldo di una fabbrica, o giornate intere passate tra il ticchettio delle macchine per scrivere e tra squilli di telefono e porte che sbattono, sui giudizi politici che si formano leggendo dei giornali in tram o 71 nella metropolitana? Si può udire nel brusio qualcosa che non si manifesti con urli, o vedere nel bagliore generale qualcosa che non s’accenda e spenga come un’insegna elettrica? La vita del cittadino difetta di solitudine, silenzio, scioltezza. Le notti sono rumorose e accecanti. Gli abitanti della grande città sono assaliti da suoni incessanti, ora violenti e ineguali, ora scanditi in ritmi interrotti, ma senza fine e senza pietà. Nella moderna civiltà industriale il pensiero procede in un bagno di rumore. Se le sue distinzioni sono spesso piatte e sciocche, almeno una parte della spiegazione la troviamo in questo stato di cose. Il popolo sovrano decide questioni di vita e di morte e di felicità in condizioni nelle quali sia l’esperienza che l’esperimento dimostrano che il pensiero è molto difficile. «Il peso intollerabile del pensiero» è un peso quando le condizioni ambientali lo rendono gravoso. Non è un peso quando esse sono favorevoli. Pensare è eccitante come lo è danzare, ed è altrettanto naturale. Chiunque per ragioni professionali debba adoperare la mente sa che durante una parte della giornata avrà bisogno di crearsi intorno una zona di silenzio. Ma in mezzo a quel caos che abbiamo la civetteria di chiamare civiltà, il cittadino conduce nelle peggiori condizioni possibili la pericolosa impresa di governarsi. Il movimento per l’accorciamento della settimana lavorativa, per l’allungamento delle vacanze, per ottenere più luce, aria, ordine, sole e dignità nelle fabbriche e negli uffici è ispirato da un vago riconoscimento di questa verità. Ma questo, se si vuole migliorare il tono intellettuale della nostra vita, non può essere che un inizio. Finché molte occupazioni continueranno ad essere una routine senza fine, e, per l’operaio, senza scopo, una sorta di automatismo che impegna un solo gruppo di muscoli in un solo monotono schema di attività, la vita intera dell’individuo tenderà ad un automatismo in cui nessuna cosa, salvo che sia preannunciata da un colpo di tuono, è destinata ad essere distinta da tutto il resto. Finché resterà imprigionato dalla folla di giorno, e persino di sera, la sua attenzione sarà intermittente e priva d’intensità. Essa non reggerà, né analizzerà con chiarezza, là dove egli è la vittima di tutti i tipi di rumore, in una casa che avrebbe bisogno di essere depurata del suo concentrato di monotonia, di bambini strillanti, di aspre recriminazioni, di cibo indigesto, di aria stagnante e arredamento soffocante. Magari ogni tanto entriamo in un edificio che è sereno e spazioso; andiamo in un teatro la cui scenografia ha eliminato ciò che distrae, o ci rechiamo al mare, o in un posto tranquillo, e ci ricordiamo di quanto affollata, capricciosa, superflua e chiassosa sia la normale vita urbana del nostro tempo. Comprendiamo allora perché le nostre menti confuse afferrino così poco con precisione, perché vengano catturate e sballottate, 72 in una specie di tarantella, da titoli di stampa e parole d’ordine, perché così spesso non siano in grado di vedere le differenze tra le cose o di cogliere l’identità tra cose apparentemente diverse. 5. Ma questo disordine esterno è ulteriormente complicato da quello interno. Gli esperimenti dimostrano che la velocità, la precisione e la qualità intellettuale dell’associazione vengono sconvolte da quelli che abbiamo imparato a chiamare conflitti emotivi. Misurata in quinti di secondo, una serie di cento stimoli contenenti parole sia neutrali che eccitanti può offrire una variazione tra 5 e 32 o anche la mancanza totale di reazione1. Ovviamente, la nostra opinione pubblica è in contatto intermittente con complessi di ogni sorta: con l’ambizione e l’interesse economico, con il risentimento personale, il pregiudizio razziale, il sentimento di classe e così via. Essi sviano la nostra lettura, il nostro pensiero, la nostra conversazione e il nostro comportamento in molti e svariati modi. E infine, poiché le opinioni non si limitano ai membri normali della società, dato che per gli scopi di un’elezione, di una propaganda, di un movimento il numero è potenza, la qualità dell’attenzione viene a scadere ancora di più. La massa degli individui totalmente analfabeti, deboli di mente, gravemente nevrotici, denutriti e frustrati, è assai cospicua: molto più cospicua, c’è motivo di credere, di quanto generalmente pensiamo. Così un messaggio di carattere generale viene diffuso tra persone che sono mentalmente dei ragazzi o dei barbari, tra persone le cui vite sono una palude piena di grovigli, tra persone la cui vitalità è esaurita, tra persone chiuse in se stesse e tra persone la cui esperienza non contiene alcun riferimento al problema in discussione. La corrente della pubblica opinione viene fermata da costoro in piccoli gorghi di fraintendimento, dove viene a tingersi di pregiudizi e di analogie assurde. Un «appello generale» tiene conto della natura dell’associazione di idee e si rivolge al tipo di sensibilità più diffuso. Un appello «ristretto» o «speciale» è quello che si rivolge a sensibilità insolite. Ma lo stesso individuo può reagire in modo molto diverso a stimoli diversi, o anche agli stessi stimoli in momenti diversi. Le sensibilità umane sono come una regione alpina. Ci sono cime isolate, ci sono altipiani estesi ma separati, e ci sono strati più profondi che sono piuttosto continui attraverso tutta l’umanità. Perciò gli individui la cui sensibilità raggiunge la rarefatta atmosfera di quelle cime ove esiste una squisita differenza tra Frege e 73 Peano, o tra periodi diversi del Sassetta, possono essere dei repubblicani solidamente tradizionalisti a un altro livello di reazione, e quando sono affamati e terrorizzati, sono indistinguibili da qualsiasi altra persona affamata e terrorizzata. Non sorprende che le riviste a grande diffusione preferiscano il viso di una bella ragazza a qualsiasi altro segno di riconoscimento: un viso abbastanza grazioso per attirare, ma abbastanza innocente per riuscire accettabile. Infatti è il «livello psichico» su cui agisce lo stimolo a determinare se il pubblico è potenzialmente largo o esiguo. 6. Così l’ambiente di cui si occupano le nostre opinioni pubbliche viene rispecchiato in molti modi: dalla scarsa attenzione, dalla povertà di linguaggio, dalla distrazione, da costellazioni inconsce di sentimenti, da attriti, violenza, monotonia. Queste limitazioni al nostro accesso a quell’ambiente si uniscono all’oscurità e alla complessità dei fatti stessi per frustrare la chiarezza e la fedeltà della percezione, per sostituire costruzioni illusorie a idee concrete e per privarci di adeguati controlli su coloro che consapevolmente si adoperano per mettere fuori strada. Pierrefeu, G. Q. G. Secteur 1 cit., pp. 126-9. 2 Il 26 febbraio 1916. Cfr. ibid., pp. 133 sgg. 3 Cfr. ibid., pp. 134-5. 1 Ibid., pp. 138-9. 2 Ibid., p. 147. 1 G. Creel, How we advertised America, Harper & brothers, New York-London 1920. 2 Nella rivoluzione delle colonie americane contro l’Inghilterra, venivano detti Minute Men coloro che s’erano impegnati a scendere in piazza armati, al minimo allarme, senza por tempo in mezzo. Four Minute Men è una derivazione scherzosa, la quale indica le persone che prima della guerra mondiale si erano messe a disposizione dei servizi di propaganda per tenere brevi discorsi, quasi senza preavviso, in qualsiasi località venisse loro indicata [n.d.t.]. 1 W. Trotter, Instincts of the Herd in War and Peace, T. F. Unwin, London 1916. 2 E. Wharton, L’età dell’innocenza, Corbaccio, Milano 1995; ed. or. The Age of Innocence, The Modern Library, New York 1920. 3 Cfr. E. A. Ross, Social Psychology, an outline and source book, Macmillan, New York 1908, capp. IX, X, XI. 4 Nel testo: «Great Society». L’espressione designa la società civile nel suo insieme [n.d.t.]. 1 Cfr. la parte III. 1 74 Nel luglio 1900: D. F. Wilcox, The American Newspaper: A Study in Social Psychology, Annals of the American Academy of Political and Social Science, XVII, p. 56 (le tabelle statistiche sono state riportate da James Edward Rogers in The American Newspaper), The University of Chicago Press, Chicago 1909. Nel 1916 (?): W D. Scott, The Psychology of Advertising, theory andpractice (Leipzig 1900), Mainard & Co., Boston, pp. 226-48; cfr. anche H. F. Adams, Advertising and its Mental Laws, Macmillan, New York, cap. IV. Nel 1920: Newspaper Reading Habits of College Students, di G. B. Hotchkiss e R. B. Franken, pubblicato dalla Association of National Advertisers. 1 Salvo quella che considera disdicevole, e quella che, in rari casi, non rientra nello spazio disponibile. 1 Nel testo l’esempio è reso col codice Phillips. Si è cercato di dare un equivalente approssimativo che rendesse l’idea [n.d.t.]. 1 Citato da W. A. White, Mechanisms of Character Formation. Introduction to psychoanalysis, Macmillan, New York 1916. 2 Cablogramma speciale per il «New York Times» del 25 maggio 1921, inviato da Edwin L. James. 3 Nel maggio 1921 le relazioni tra l’Inghilterra e la Francia divennero tese in seguito all’insurrezione di Korfanty nell’Alta Slesia. La corrispondenza da Londra del «Manchester Guardian» (20 maggio 1921) conteneva il seguente passo: «Lo scambio di parole franco-inglese. Negli ambienti che conoscono bene il costume e il carattere francesi c’è la tendenza a ritenere che la nostra stampa e la nostra opinione pubblica abbiano mostrato una eccessiva sensibilità verso il linguaggio vivace e in qualche caso intemperante adottato dalla stampa francese nel corso dell’attuale crisi. Un osservatore neutrale bene informato mi ha spiegato la cosa nei seguenti termini. Le parole, come il denaro, sono simboli di valore. Esse rappresentano un significato, perciò, e, come il denaro, il loro valore rappresentativo va su e giù. La parola francese “étonnant” venne usata da Bossuet con un significato molto pesante, che oggi ha perduto. Una cosa analoga può essere osservata nel caso della parola inglese “awful”. Alcune nazioni tendono costituzionalmente ad attenuare, altre a esagerare. Quello che il Tommy inglese chiamava un luogo insalubre poteva esser descritto da un soldato italiano solo grazie a un ricco vocabolario, aiutato da una mimica esuberante. Le nazioni che attenuano, mantengono solida la loro moneta verbale. Le nazioni che esagerano soffrono di un’inflazione nel linguaggio. Espressioni come «un insigne studioso», «un bravo scrittore» debbono essere tradotte in francese come «un grande sapiente», «uno squisito maestro». È una pura questione di scambio, proprio come in Francia una sterlina rende quarantasei franchi, e tuttavia si sa che ciò non aumenta il valore in patria. Gli inglesi, leggendo la stampa francese, dovrebbero sforzarsi di compiere un’operazione mentale simile a quella del banchiere che trasforma i franchi in sterline, e non dimentica, nel farlo, che mentre in tempi normali il cambio era a venticinque, ora a causa della guerra, è a quarantasei. Infatti c’è una fluttuazione di guerra sugli scambi di parole così come sugli scambi monetari. L’argomento, si spera, vale nei due sensi, e i francesi debbono comprendere che la reticenza inglese ha lo stesso valore della loro esuberanza espressiva». 4 Termine americano spregiativo per «messicani. Letteralmente «unti» [n.d.t.]. 5 «The New Republic», 29 dicembre 1920, p. 142. 1 75 «Internationale Zeitschrift für Ärztliche Psychoanalyse», 1913. Tradotto e ripubblicato dal dottor Ernest Jones in S. Ferenczi, First Contributions to Psychoanalysis, R. G. Badger, Boston 1916, cap. VIII, «Fasi evolutive del senso della realtà»; trad. it. in Id., Opere 1913–1919, Raffaello Cortina, Milano 1990. 2 Essendo un patologo, Ferenczi non descrive questo periodo più maturo in cui l’esperienza è organizzata sotto forma di equazioni, la fase del realismo fondato sulla scienza. 3 Si vedano, ad esempio, i Diagnostische Assoziazionsstudien, (1906) condotti alla clinica psichiatrica dell’università di Zurigo sotto la direzione di Jung. [I risultati di queste ricerche, pubblicati dapprima, fra il 1904 e il 1905, con il titolo Experimentelle Untersuchungen uber Assoziationen Gesunder sono inclusi nel vol. II, t. 1 delle Opere, Boringhieri, Torino 1984, n.d.t.]. Queste prove vennero svolte principalmente sotto la classificazione cosiddetta Kràpelin-Aschaffenburg. Esse indicano il tempo di reazione, classificano la reazione associativa alla parola-stimolo in termini di interiore, esteriore e acustico, riportano risultati distinti per il primo e per il secondo centinaio di parole, per il tempo di reazione e per la qualità della reazione quando il soggetto è distratto perché ha in mente un’idea, o quando risponde mentre batte il tempo con un metronomo. Alcuni dei risultati sono riassunti in C. G. Jung, Collected Papers on Analytical Psychology, 1917, cap. II. 1 Id., Clark Lectures (1909); trad. it. in Id., Opere, vol. II, t. 2, Bollati Boringhieri, Torino 1987. 1 76 III. Gli stereotipi 77 VI. Gli stereotipi 1. Ciascuno di noi vive e opera su una piccola parte della superficie terrestre, si muove in un cerchio ristretto e solo di pochi dei suoi conoscenti giunge ad essere intimo. Di tutti gli avvenimenti pubblici che hanno vasti effetti, vediamo al massimo solo una fase e un aspetto. Questo vale sia per gli eminenti personaggi che redigono trattati, legiferano, ed emanano ordini, sia per quelli per i quali questi trattati vengono redatti, queste leggi vengono promulgate e questi ordini vengono dati. Inevitabilmente le nostre opinioni coprono uno spazio più ampio, un tempo più lungo, un numero maggiore di cose di quanto possiamo direttamente osservare. Debbono, perciò, essere costruite sulla base di ciò che ci viene riferito da altri, e di ciò che noi stessi riusciamo ad immaginare. D’altronde, nemmeno il testimone oculare riporta un’immagine semplice della scena che ha visto1. Infatti l’esperienza sembra dimostrare che alla scena che poi porta con sé egli già in partenza reca degli elementi, e che più spesso di quanto si creda ciò che egli crede il resoconto di un fatto è già in realtà la sua trasfigurazione. Sono pochi i fatti che sembrano venire registrati dalla coscienza come sono; la maggior parte dei fatti contenuti nella coscienza appaiono in parte costruiti. Il resoconto è il prodotto congiunto di colui che conosce e della cosa conosciuta, in cui il ruolo dell’osservatore è sempre selettivo e di solito creativo. I fatti che vediamo dipendono dal punto di vista in cui ci mettiamo, e dalle abitudini contratte dai nostri occhi. Una scena non familiare è come il mondo del bambino: «Una grande confusione, fiorente e ronzante»2. È in questo modo, dice John Dewey3, che ogni cosa nuova colpisce l’adulto, sempre che la cosa sia davvero nuova e insolita. Le lingue straniere che non comprendiamo ci danno sempre l’impressione di un confuso chiacchierio, un cicaleccio in cui non è possibile fissare alcun gruppo di suoni nettamente definito e ben individualizzato. Accade lo stesso al provinciale in una affollata via cittadina, all’abitante della terra ferma sul mare, all’ignorante in 78 faccende sportive che assiste a una discussione fra competenti a proposito di una partita complicata. Ponete un uomo privo di esperienza in una fabbrica, ed il lavoro gli sembrerà sulle prime un miscuglio di cose senza significato. Gli stranieri di un’altra razza proverbialmente si somigliano tutti, agli occhi del visitatore forestiero. In un gruppo di pecore, ognuna delle quali è perfettamente individualizzata per il pastore, un estraneo percepisce soltanto grossolane differenze di grandezza e di colore. Ciò che non comprendiamo ha per noi il carattere di un indiscriminato mutamento, di una macchia in espansione. Il problema dell’acquisto dei significati dalle cose, o (detto in altro modo) il problema di formare abiti di apprensione diretta è dunque quello di introdurre: a) definitezza o distinzione e b) coerenza, costanza, o stabilità di significati in cose che altrimenti sono vaghe e fluttuanti. Come siano questa precisione e questa costanza dipende però da chi le introduce. In un brano successivo4 Dewey fornisce un esempio di come possano differire le definizioni del termine «metallo», date rispettivamente da un profano che ha qualche esperienza in proposito e da un chimico. «La levigatezza, la durezza, la lucentezza e lo splendore, il notevole peso in rapporto alla grandezza; […] proprietà utili come la capacità di essere rese malleabili dal calore ed essere indurite dal freddo, di conservare la forma e la figura date, di resistere alla pressione ed al logoramento», entrerebbero probabilmente nella definizione del profano. Ma il chimico probabilmente trascurerebbe queste qualità estetiche e utilitarie, e definirebbe metallo «un elemento chimico che entra in combinazione con l’ossigeno in modo da formare una base». Nella maggior parte dei casi noi definiamo non dopo, ma prima di aver visto. Nella grande, fiorente e ronzante confusione del mondo esterno trascegliamo quello che la nostra cultura ha già definito per noi, e tendiamo a percepire quello che abbiamo trascelto nella forma che la nostra cultura ha stereotipato per noi. Dei grandi uomini che si sono riuniti a Parigi per decidere le sorti dell’umanità, quanti erano davvero in grado di vedere qualcosa dell’Europa? Se qualcuno avesse potuto entrare nella mente di Clemenceau, vi avrebbe trovato le immagini reali dell’Europa del 1919 o non piuttosto un forte sedimento di idee stereotipate accumulate e irrigiditesi nel corso di una lunga e combattiva esistenza? Vedeva i tedeschi del 1919, o il tipo germanico che aveva imparato a vedere fin dal 1871? Vedeva proprio quest’ultimo, e tra i vari rapporti che gli arrivavano dalla Germania dava peso a quelli – e, a quanto pare, solo a quelli – che si attagliavano al tipo che aveva nella mente. Se uno junker diventava minaccioso, quello era un autentico tedesco; se un dirigente sindacale riconosceva la colpa dell’impero, non poteva essere un vero tedesco. A un congresso di psicologia, svoltosi a Gottinga, è stato fatto un interessante esperimento su un gruppo di osservatori presumibilmente 79 addestrati5. Non lontano dalla sala delle riunioni c’era una festa pubblica, con ballo in maschera. Improvvisamente la porta della sala si apre, un clown si precipita come un folle inseguito da un negro armato di pistola. I due si fermano in mezzo alla sala e si insultano; il clown cade, il negro gli salta addosso, spara e subito entrambi escono dalla sala. Il tutto dura appena venti secondi. Il presidente pregò i membri presenti di scriver subito un rapporto perché sicuramente ci sarebbe stata un’inchiesta giudiziaria. Furono consegnati quaranta rapporti. Uno solo aveva meno del venti per cento di errori relativi al preciso svolgersi dei fatti; quattordici avevano dal venti al quaranta per cento di errori, dodici dal quaranta al cinquanta per cento, e tredici più del cinquanta per cento. Inoltre, in ventiquattro rapporti il dieci per cento dei dettagli erano puramente inventati, e questa percentuale di invenzione era ancora maggiore in dieci rapporti e minore in sei. In definitiva un quarto dei rapporti dovette essere considerato come falso. Non è necessario dire che tutta la scena era stata concordata e anche fotografata prima. I dieci rapporti falsi sono dunque da inserire nella categoria dei racconti e delle leggende, altri ventiquattro sono semileggendari e i sei rimanenti hanno più o meno il valore di testimonianza esatta. Sicché, di quaranta osservatori allenati che hanno scritto un resoconto responsabile di una scena appena accaduta dinanzi ai loro occhi, più della maggioranza ha visto una scena che non aveva avuto luogo. Che cosa avevano visto allora? Sembrerebbe più facile raccontare ciò che è accaduto, che inventare qualcosa che non è accaduto. Essi hanno visto il loro stereotipo di una zuffa. Tutti nel corso della loro vita avevano acquisito una serie di immagini di zuffe, e queste immagini sfilarono dinanzi ai loro occhi. In uno solo di loro queste immagini soppiantarono meno del 20 per cento della scena reale; in tredici di loro più della metà. In trentaquattro dei quaranta osservatori gli stereotipi si appropriarono di almeno un decimo della scena. Un eminente critico d’arte ha scritto6 che date le forme quasi innumerevoli che assume un oggetto […] data la nostra insensibilità e la nostra scarsa attenzione, le cose difficilmente avrebbero per noi tratti e contorni così precisi e chiari da poter essere richiamati a volontà, se non fosse per le forme stereotipate che l’arte ha prestato loro. La verità è ancor più ampia di quel che lui pensasse, perché le forme stereotipate fornite al mondo non provengono solo dall’arte, intesa nel senso di pittura e scultura e letteratura, ma anche dai nostri codici morali, dalle nostre filosofie sociali e dalle nostre agitazioni politiche. Sostituiamo, in quest’altro brano di Berenson, le parole «politica», «economia» e «società» alla parola «arte», e le sue affermazioni resteranno egualmente vere: 80 A meno che anni e anni dedicati allo studio di tutte le scuole artistiche non ci abbiano insegnato anche a vedere con i nostri occhi, cadiamo ben presto nell’abitudine di modellare tutto quello che osserviamo nelle forme che ci offre quella sola arte che ci è familiare. Essa è la misura con cui giudichiamo la realtà artistica. Basta che qualcuno ci dia forme e colori che non trovano riscontro istantaneo nel nostro misero repertorio di forme e tinte trite e ritrite, ed ecco che scuoteremo la testa perché questi non ha riprodotto le cose come sappiamo che debbono essere, o lo accuseremo di insincerità. Berenson parla del disappunto che proviamo quando un pittore «non visualizza gli oggetti esattamente come noi», e della difficoltà di apprezzare l’arte del medioevo perché da allora «la nostra maniera di visualizzare le forme è cambiata in mille modi»7. Passa poi a dimostrare in che modo ci è stato insegnato a vedere quello che vediamo della figura umana. Creato da Donatello e Masaccio, e sanzionato dagli umanisti, il nuovo canone della figura umana, la nuova forma dei lineamenti […] presentava alle classi dirigenti di quell’epoca il tipo di essere umano che con maggiori probabilità poteva affermarsi nello scontro delle forze umane […] chi aveva il potere di spezzare questo nuovo cliché visivo e di scegliere dal caos delle cose forme più precisamente espressive della realtà di quelle fissate da uomini di genio? Nessuno aveva un tale potere. La gente doveva per forza vedere le cose in quel modo e in nessun altro, e vedere solo le forme ritratte, amare solo gli ideali offerti8. 2. Se non riusciamo a comprendere pienamente le azioni degli altri finché non sappiamo che cosa credono di sapere, allora, per essere equi, dobbiamo vagliare non solo le informazioni che erano a loro disposizione, ma anche le menti con cui le hanno filtrate. Infatti i tipi accettati, gli schemi correnti, le versioni standard intercettano le notizie prima che arrivino alla coscienza. L’americanizzazione, ad esempio, è, almeno superficialmente, la sostituzione di stereotipi americani a stereotipi europei. Così il contadino che magari vedeva il proprietario come il signore del castello, e il suo datore di lavoro come il magnate locale, impara dall’americanizzazione a vedere il proprietario e il datore di lavoro secondo i canoni americani. Ciò costituisce un mutamento di mentalità, che in sostanza, quando l’inoculazione riesce, è un mutamento del modo di vedere. Il suo occhio vede in modo diverso. Un’amabile gentildonna confessava che gli stereotipi sono di un’importanza così soverchiante che, quando i suoi vengono contrastati, lei da parte sua non riesce nemmeno più 81 ad accettare la fraternità umana e la paternità divina. I vestiti che portiamo ci influenzano stranamente. L’abbigliamento crea un’atmosfera psicologica e sociale. Che cosa si può sperare dall’americanismo di un individuo che insiste a farsi fare i vestiti a Londra? Il cibo stesso influisce sull’americanismo di una persona. Che specie di americanismo può maturare in un’atmosfera di crauti e di formaggio di Limburgo? Che cosa ci si può aspettare dall’americanismo dell’individuo il cui fiato puzza continuamente d’aglio?1 Questa signora avrebbe potuto essere la patrona di una parata a cui assistette una volta un mio amico. S’intitolava «Il Crogiuolo», ed ebbe luogo un 4 luglio in un centro dell’industria automobilistica dove lavorano molti operai di origine straniera. Al centro del campo di baseball, all’altezza della seconda base, era stato messo un enorme pentolone di legno e tela. Su due lati c’erano delle scalinate che portavano fino all’orlo. Dopo che il pubblico si fu sistemato e la banda musicale ebbe suonato, entrò da un’apertura ad un lato del campo una processione. Era composta di uomini di tutte le nazionalità straniere presenti nelle fabbriche. Indossavano i costumi del loro paese d’origine, cantavano i loro canti nazionali, danzavano i loro balli popolari e portavano le bandiere di tutti i paesi d’Europa. Fungeva da maestro di cerimonie il direttore della scuola elementare, vestito da Zio Sam. Fu lui a condurli al pentolone; li fece salire per le scalinate e li portò dentro. Poi si mise dall’altra parte e li invitò ad uscire. Ricomparvero in bombetta, giacca, pantaloni, gilet, colletto duro e cravatta a pallini – e senza dubbio, diceva il mio amico, ognuno con una matita Eversharp nel taschino – cantando tutti insieme l’inno nazionale americano. I promotori di questa parata, e probabilmente la maggior parte dei protagonisti, credevano di essere riusciti ad esprimere quella che costituisce la difficoltà più intima di associazione amichevole tra le vecchie stirpi americane e le nuove. Il conflitto dei loro stereotipi impediva il pieno riconoscimento della loro comune umanità. Le persone che hanno cambiato il loro nome lo sanno; intendono cambiare se stessi e l’atteggiamento degli altri nei loro confronti. Naturalmente c’è un nesso fra la scena esterna e la mente con cui la osserviamo, proprio come nelle riunioni della sinistra ci sono uomini con i capelli lunghi e donne con i capelli corti. Ma per l’osservatore frettoloso è sufficiente un nesso superficiale: se tra il pubblico ci sono due donne con i capelli alla maschietta, e quattro barbe, agli occhi del cronista il quale sa in precedenza che queste riunioni sono frequentate da persone che hanno questi gusti in fatto di acconciatura, quello sarà un pubblico tutto alla 82 maschietta e barbuto. C’è un nesso tra la nostra visione e i fatti, ma spesso è un curioso nesso. Un tale, supponiamo, non ha mai guardato un paesaggio se non per esaminare la possibilità di dividerlo in lotti fabbricabili, ma ha visto invece un certo numero di paesaggi appesi in salotto. E da questi ha appreso a concepire il paesaggio come un tramonto rosato o come una strada di campagna con un campanile e una luna d’argento. Un giorno va in campagna e per varie ore non vede un solo paesaggio. Poi il sole cala e in quel momento sembra rosa. Di colpo riconosce un paesaggio ed esclama che è bellissimo. Ma due giorni dopo, quando cerca di ricordare quello che ha visto, nove volte su dieci ricorderà soprattutto un paesaggio visto in salotto. Se non era ubriaco, e non sognava, e non era pazzo, ha visto un tramonto; ma ci ha visto, e soprattutto ne ricorderà, più quello che le oleografie gli hanno insegnato ad osservare di quello che un pittore impressionista, ad esempio, o un giapponese colto, ci avrebbe visto e ne avrebbe riportato. E il giapponese e il pittore a loro volta avranno visto e ricordato soprattutto la forma che avevano imparato, a meno che per caso non fossero tra quei pochissimi che scoprono all’umanità nuovi modi di vedere. L’osservatore inesperto sceglie nell’ambiente dei segni riconoscibili: i segni stanno al posto di idee, e queste idee vengono riempite del nostro repertorio di immagini. Non è che vediamo davvero quest’uomo e quel tramonto; ma piuttosto notiamo che l’oggetto è un uomo o un tramonto, e poi vediamo soprattutto ciò di cui la nostra mente è già piena al riguardo. 3. Un atteggiamento di questo genere risparmia energie. Infatti il tentativo di vedere tutte le cose con freschezza e in dettaglio, invece che nella loro tipicità e generalità, è spossante; e quando si è molto occupati, è praticamente impossibile. In un circolo di amici, e nei confronti di stretti collaboratori o correnti, non esistono scorciatoie – né surrogati – ad una conoscenza individualizzata. Quelli che ammiriamo di più sono gli uomini e le donne la cui coscienza è popolata fittamente di persone piuttosto che di tipi; che conoscono noi piuttosto che la classificazione nella quale potremmo essere fatti rientrare. Infatti, anche senza formularlo chiaramente a noi stessi, avvertiamo per intuizione che tutte le classificazioni sono in funzione di fini che non sono necessariamente i nostri; che nessun’associazione tra due esseri umani ha vera dignità se in essa ciascuno non consideri l’altro come un fine in sé. C’è un vizio 83 organico in ogni contatto tra due persone in cui non si affermi come un assioma l’inviolabilità personale di entrambi. Ma la vita è affannosa e multiforme e soprattutto la distanza fisica separa uomini che spesso si trovano in un rapporto reciproco fondamentale, come il datore di lavoro e il suo dipendente, l’elettore e l’eletto. Non c’è il tempo né la possibilità per una conoscenza profonda. E così ci limitiamo a notare un tratto, che caratterizza un tipo ben conosciuto, e riempiano il resto dell’immagine grazie agli stereotipi che ci portiamo in testa. Quello è un agitatore: fin lì notiamo, o ce lo dicono. Ebbene, un agitatore è fatto così e colà, e quindi anche lui è fatto così e colà. È un intellettuale. È un plutocrate. È uno straniero. È un «sudeuropeo». È un «bramino» di Boston1. È uno di Harvard. Com’è diverso dal dire: è uno di Yale. È una brava persona. È uno che è stato a West Point. È un vecchio sergente di carriera. È un abitante del Greenwich Village: cosa non sappiamo di lui, o di lei, allora? È un banchiere internazionale. È un abitante di Main Street. Le più sottili e contagianti influenze sono quelle che creano e conservano il repertorio degli stereotipi. Sentiamo parlare del mondo prima di vederlo. Immaginiamo la maggior parte delle cose prima di averne esperienza. E questi preconcetti, se non siamo stati resi molto avvertiti dall’educazione, incidono profondamente nell’intero processo della percezione. Contrassegnano certi oggetti come familiari o estranei, mettendone in risalto la differenza, sicché ciò che conosciamo appena ci sembra ben noto, e quello che ci è un po’ estraneo ci appare decisamente alieno. Vengono suscitati da piccoli segni, che possono variare dal vero indice alla vaga analogia. Una volta suscitati, inondano la visione fresca e immediata di vecchie immagini, e proiettano nel mondo ciò che la memoria ha fatto risuscitare. Se nell’ambiente non ci fossero delle uniformità di fatto, non ci sarebbe economia, ma soltanto errore nell’abitudine umana di accettare la previsione come visione. Ma ci sono invece delle uniformità abbastanza costanti, e la necessità di economizzare l’attenzione è così inevitabile che l’abbandono di tutti gli stereotipi, per un atteggiamento completamente innocente di fronte all’esperienza, impoverirebbe la vita umana. Ciò che conta è la natura degli stereotipi, e la credulità con cui li adoperiamo. E questo in ultima analisi dipende da quegli schemi generali che costituiscono la nostra filosofia della vita. Se in questa filosofia assumiamo che il mondo è codificato secondo un codice di cui siamo in possesso, probabilmente descriveremo, nei nostri resoconti degli avvenimenti, un mondo retto dal nostro codice. Ma se la nostra filosofia ci 84 dice che ogni uomo è solo una particella del mondo, che la sua intelligenza ne cattura, nel migliore dei casi, solo qualche frase e qualche aspetto in una rozza trama di idee, allora, quando usiamo i nostri stereotipi tendiamo a renderci conto che sono soltanto degli stereotipi, li consideriamo senza troppo impegno, e li modifichiamo di buon grado. Tendiamo anche a renderci conto sempre più chiaramente del momento in cui le nostre idee sono sorte, della loro origine, di come sono arrivate sino a noi, e del motivo per cui le abbiamo accettate. Tutta la storia utile è antisettica allo stesso modo. Ci consente di sapere quale fiaba, quale testo scolastico, quale tradizione, quale romanzo, dramma, quadro, frase abbia seminato un preconcetto in questa mente, un altro preconcetto in quell’altra. 4. Almeno quelli che vogliono censurare l’arte non sottovalutano questa influenza. In genere la fraintendono, e quasi sempre si intestardiscono scioccamente nel voler impedire agli altri di scoprire qualcosa che loro non hanno sanzionato. Ma ad ogni modo, come Platone quando parla dei poeti, essi intuiscono vagamente che spesso i tipi acquisiti attraverso l’invenzione della fantasia vengono poi imposti alla realtà. Così non c’è dubbio che il cinema sta continuamente costruendo immagini, che vengono poi richiamate alla mente dalle parole che la gente legge nei giornali. Nell’intera esperienza della specie umana non c’è stato un altro strumento di visualizzazione della potenza del cinema. Se un fiorentino voleva avere un’immagine dei santi, poteva andare a guardare gli affreschi della sua chiesa, dove gli veniva offerta una visione dei santi che era stata standardizzata per la sua epoca da Giotto. Se un ateniese voleva farsi un’immagine degli dei, andava in un tempio. Ma il numero di oggetti che venivano ritratti non era molto grande. E in Oriente, dove lo spirito del secondo comandamento era largamente accettato, la rappresentazione di cose concrete era ancora più scarsa; ed è forse proprio per questa ragione che la capacità di decisione pratica è risultata lì così ridotta. Nel mondo occidentale, invece, c’è stato nel corso degli ultimi secoli un enorme aumento, sia in volume che in ampiezza, della rappresentazione laica, attraverso la descrizione verbale, la narrativa, la narrativa illustrata, e infine il cinema e forse il cinema sonoro. Le fotografie hanno sull’immaginazione odierna lo stesso tipo di autorità che ieri aveva la parola stampata e in precedenza aveva avuto la parola parlata. Sembrano del tutto vere. Ci figuriamo che arrivino sino a noi direttamente, senza intromissioni umane; e sono per la mente il cibo 85 più facile. Ogni descrizione verbale, o anche ogni immagine inerte, richiede uno sforzo di memoria prima che l’immagine si produca nella mente. Ma sullo schermo l’intero processo dell’osservare, descrivere, riferire e poi immaginare, è già stato compiuto per noi. Senza uno sforzo maggiore di quello richiesto per restar svegli, il risultato a cui costantemente mira la nostra immaginazione viene proiettato sullo schermo. L’idea nebulosa diventa vivida: la nostra confusa idea, poniamo, del Ku Klux Klan, acquista chiarezza e intensità, grazie a Griffith, quando assistiamo a La nascita di una nazione. Storicamente può essere un’immagine sbagliata, moralmente può essere perniciosa, ma è un’immagine, ed io dubito che qualcuno che abbia visto il film, e non sappia del Ku Klux Klan più di quanto ne sapeva Griffith, potrà mai più sentirlo nominare senza vedere quei cavalieri bianchi. 5. E allo stesso modo, quando parliamo della mente di un gruppo di persone, della mente francese, della mente militarista, della mente bolscevica, andiamo soggetti a gravi confusioni se non accettiamo di separare le disposizioni istintive dagli stereotipi, dagli schemi e dalle formule che giocano una parte così decisiva nella costruzione del mondo mentale cui il carattere originario si adatta e risponde. La mancata distinzione tra questi due ordini di fatti spiega i fiumi di chiacchiere che si sono fatte a proposito di menti collettive, anime nazionali e psicologia delle razze. Naturalmente uno stereotipo può esser così coerentemente e autorevolmente trasmesso di padre in figlio da sembrare quasi un fatto biologico. Sotto certi aspetti, forse siamo davvero diventati, come dice Wallas1, biologicamente parassitari nei confronti del nostro retaggio sociale. Ma certamente non esiste la minima prova scientifica che consenta di sostenere che gli uomini nascano con gli atteggiamenti politici del paese in cui vedono la luce. Nella misura in cui in una nazione gli atteggiamenti politici sono simili, i primi luoghi in cui si deve cercare una spiegazione sono la stanza dei bambini, la scuola, la chiesa, e non quel limbo abitato dalle Menti di Gruppo e dalle Anime Nazionali. Finché non si dimostra che non esiste una trasmissione di tradizioni da parte dei genitori, degli insegnanti, dei preti e degli zii, si cade in un errore madornale attribuendo le differenze politiche alla cellula embrionale. Si può fare qualche generalizzazione, e sempre con la dovuta umiltà, sulle differenze comparative entro la stessa categoria di educazione e di esperienza. Ma anche questa è impresa piena di trabocchetti. Infatti 86 nemmeno due esperienze sono veramente identiche, nemmeno quelle dei due bambini cresciuti nella stessa famiglia. Il figlio maggiore non fa mai l’esperienza di essere il minore. E perciò, finché non siamo in grado di valutare le differenze di formazione, dobbiamo sospendere il giudizio sulle differenze di natura. Sarebbe come giudicare la produttività di due terreni, confrontando la loro resa prima di sapere quale dei due si trova nel Labrador, e quale nello Iowa, e se sono stati coltivati e concimati, oppure eccessivamente sfruttati o lasciati incolti. 87 VII. Gli stereotipi come difesa 1. C’è un’altra ragione, oltre all’economia dello sforzo, che spiega perché così spesso ci atteniamo ai nostri stereotipi quando potremmo avere una visione più disinteressata. I sistemi di stereotipi possono essere il centro della nostra tradizione personale, le difese della nostra posizione nella società. Formarono un’immagine ordinata e più o meno coerente del mondo, a cui le nostre abitudini, i nostri gusti, le nostre capacità, i nostri agi e le nostre speranze si sono adattati. Forse non sono un’immagine completa del mondo, ma sono l’immagine di un mondo possibile a cui ci siamo adattati. In questo mondo le persone e le cose hanno un loro posto preciso e si comportano secondo certe previsioni. In esso ci sentiamo a nostro agio; vi siamo inseriti; ne siamo membri; sappiamo come rigirarci. Vi troviamo il fascino del familiare, del normale, del sicuro; le sue scanalature e le sue forme stanno là dove siamo abituati a trovarle. E anche se abbiamo dovuto abbandonare molte cose che ci avrebbero tentato prima che ci accomodassimo alle pieghe di questo stampo, una volta che ci stiamo ben dentro, troviamo che esso calza comodamente come una vecchia scarpa. Nessuna meraviglia, quindi, che ogni attacco agli stereotipi prenda l’aspetto di un attacco alle fondamenta dell’universo: infatti è un attacco alle fondamenta del nostro universo, e quando sono in gioco cose grosse non siamo affatto disposti ad ammettere che ci sia una distinzione tra il nostro universo e l’universo. Un mondo che si dimostri così fatto, per cui quelli che onoriamo sono indegni, e quelli che disprezziamo sono nobili, è semplicemente sconvolgente. Se la nostra scala di valori non è la sola possibile, allora c’è anarchia. Infatti se i mansueti dovessero davvero ereditare la terra, se gli ultimi dovessero davvero essere i primi, se soltanto quelli che sono senza peccato potessero scagliare la prima pietra, e se a Cesare si dessero solo le cose che spettano a Cesare, allora i fondamenti del rispetto di sé davvero vacillerebbero in coloro che hanno organizzato la loro vita come se queste massime non fossero vere. Nessuno schema di stereotipi è naturale. Non è solo un modo per 88 sostituire l’ordine alla grande, fiorente, ronzante confusione della realtà. Non è soltanto una scorciatoia. È tutto questo, e anche qualcos’altro. È la garanzia del rispetto di noi stessi; è la proiezione nel mondo del nostro senso, del nostro valore, della nostra posizione e dei nostri diritti. Perciò gli stereotipi sono fortemente carichi dei sentimenti che gli sono associati. Costituiscono la forza della nostra tradizione, e dietro le sue difese possiamo continuare a sentirci sicuri della posizione che occupiamo. 2. Ad esempio, quando Aristotele scrisse nel quarto secolo a.C. la sua difesa della schiavitù in un clima di crescente scetticismo1, gli schiavi ateniesi erano ormai in buona parte indistinguibili dai liberi cittadini. Zimmern cita un divertente brano del Vecchio Oligarca, che illustrava il buon trattamento ricevuto dagli schiavi: «Se fosse legale battere gli schiavi, accadrebbe spesso che un ateniese possa venire scambiato per uno schiavo o per uno straniero, e ricevere delle percosse; dal momento che il popolo ateniese non è vestito meglio dello schiavo o dello straniero, né l’aspetto personale rivela alcuna superiorità». Quest’assenza di segni distintivi naturalmente tenderebbe a far scomparire l’istituzione. Se gli uomini liberi e gli schiavi si somigliavano, che base c’era per trattarli in modo così diverso? È proprio questa confusione che Aristotele si studiò di chiarire nel primo libro della Politica. Con istinto sicuro capì che per giustificare la schiavitù doveva insegnare ai greci un modo di vedere i loro schiavi adatto al perdurare della schiavitù. Così, diceva Aristotele, ci sono esseri che sono schiavi per natura2: «È schiavo per natura chi può appartenere a un altro (per cui è di un altro)». Tutto quello che dice in realtà è che chi si trova ad esser schiavo è destinato dalla natura ad esserlo. Dal punto di vista logico, l’affermazione non ha alcun valore, ma in realtà non è affatto una proposizione, e la logica non c’entra affatto. È uno stereotipo, o piuttosto fa parte di uno stereotipo: il resto segue quasi immediatamente. Dopo aver asserito che gli schiavi hanno la ragione, ma sono privi del dono di usarla, Aristotele dichiara che «la natura vuol segnare una differenza nel corpo dei liberi e degli schiavi: gli uni l’hanno robusto per i servizi necessari, gli altri eretto e inutile a siffatte attività, ma adatto alla vita politica […]. È evidente che taluni sono per natura liberi, altri, schiavi». Se ci chiediamo ora che cos’è che non funziona nel ragionamento di Aristotele, troviamo che egli ha cominciato coll’erigere una grossa barriera tra sé e i fatti. Dicendo che quelli che sono schiavi sono destinati dalla 89 natura ad esserlo, egli escludeva automaticamente la questione decisiva se gli specifici individui che si trovavano ad essere schiavi erano gli specifici individui destinati dalla natura ad essere schiavi. Infatti questo interrogativo avrebbe gettato il dubbio su ogni caso di schiavitù. E dal momento che il fatto di essere schiavi non era la prova che un individuo fosse destinato ad esserlo, non sarebbe rimasto più alcun criterio atto a fornire la certezza. Perciò Aristotele escludeva del tutto questo dubbio distruttivo: quelli che erano schiavi erano destinati ad esserlo. Ogni possessore di schiavi doveva considerare queste sue proprietà degli schiavi per natura. Quando il suo occhio si fosse allenato a vederli in questo modo, avrebbe notato, a conferma della loro natura servile, il fatto che eseguivano un lavoro servile, che erano competenti a compiere il lavoro servile e che avevano i muscoli per fare il lavoro servile. Questo è il perfetto stereotipo. Il suo contrassegno è che esso precede l’uso della ragione: è una forma di percezione, che impone un certo stampo ai dati dei nostri sensi prima che i dati arrivino all’intelligenza. Lo stereotipo è come le vetrate color lavanda di Beacon Street, come il portiere che a un ballo mascherato giudica se l’invitato ha un abbigliamento appropriato. Non c’è nulla di più refrattario all’educazione, o alla critica, dello stereotipo. Si imprime sull’evidenza nell’atto stesso di constatarla. Ecco perché i racconti dei viaggiatori sono spesso un resoconto interessante di quello che il viaggiatore ha portato con sé nel suo viaggio. Se si è portato dietro soprattutto l’appetito, la fissazione per le stanze da bagno piastrellate, la convinzione che la carrozza Pullmann è il non plus ultra della comodità, e l’idea che si deve dare la mancia ai camerieri, ai tassisti e ai barbieri, ma in nessun caso ai bigliettai e alle mascherine, allora la sua odissea traboccherà di buoni e cattivi pasti, di avventure nella stanza da bagno, di incontri galanti sui treni e di voraci richieste di danaro. O forse, se è un tipo più grave, si sarà trovato, durante il viaggio, in luoghi celebri. Raggiunta la meta, e gettato uno sguardo furtivo al monumento, avrà affondato la testa nel Baedecker leggendone ogni parola, e sarà partito alla volta di un altro luogo celebre; tornando alla fine con un’impressione compatta e ordinata dell’Europa, con accanto una stelletta o due. In qualche misura gli stimoli esterni, soprattutto quando sono parole scritte o parlate, richiamano alla mente una parte o l’altra di un sistema di stereotipi, sicché la sensazione reale e il preconcetto occupano la coscienza contemporaneamente. I due elementi si fondono, come se guardassimo il rosso attraverso lenti azzurre, e vedessimo il verde. Se ciò che guardiamo corrisponde bene a quello che abbiamo previsto, lo stereotipo viene 90 rafforzato per l’avvenire, come succede all’individuo il quale sa che i giapponesi sono astuti e ha la cattiva sorte di imbattersi in un paio di giapponesi disonesti. Se invece l’esperienza contraddice lo stereotipo, può accadere l’una o l’altra di queste due cose: se l’individuo non è più duttile, o se un interesse potente rende molto scomoda la revisione degli stereotipi, egli liquida la contraddizione come un’eccezione che conferma la regola, scredita il testimone, trova un difetto da qualche parte e riesce a dimenticarla. Ma se è ancora curioso e di mente aperta, la novità viene accolta nell’immagine e lasciata libera di modificarla. A volte, se l’incidente è abbastanza impressionante, e se egli già provava un certo disagio per il suo schema precostituito, può darsi che si senta scosso a tal punto da diffidare di tutti i modi accettati di considerare la vita, e da attendersi che di norma nessuna cosa sarà mai ciò che in genere dovrebbe essere. Nei casi estremi, particolarmente se si tratta di un letterato, può concepire una passione per l’inversione dei canoni morali, facendo di Giuda, di Benedict Arnold o di Cesare Borgia i suoi eroi. 3. La funzione svolta dallo stereotipo può essere osservata nei racconti tedeschi sui franchi tiratori belgi. Questi racconti, strano a dirsi, vennero confutati per la prima volta da un’organizzazione di preti cattolici tedeschi denominata Pax1. L’esistenza di racconti di atrocità non è di per sé cosa sorprendente, né sorprende che i tedeschi fossero felici di crederci. Ma invece sorprende che una grande organizzazione conservatrice di buoni patrioti tedeschi si sia messa già il 16 agosto 1914, a contraddire una raccolta di calunnie sul nemico, sebbene tali calunnie fossero preziosissime per blandire la travagliata coscienza dei loro compatrioti. E in particolare, perché l’ordine dei Gesuiti avrebbe dovuto mettersi a distruggere un’invenzione così importante per lo spirito bellico della Germania? Cito dal resoconto di van Langenhove: Le armate tedesche erano appena entrate nel Belgio che già cominciavano a circolare strane voci. Si diffusero da un luogo a un altro, vennero riportate dalla stampa e ben presto invasero l’intera Germania. Si diceva che la popolazione belga, istigata dal clero, fosse intervenuta perfidamente nelle ostilità; che avesse attaccato di sorpresa dei distaccamenti isolati; che avesse segnalato al nemico le posizioni occupate dalle truppe tedesche; che dei vecchi, e persino dei fanciulli, si fossero resi colpevoli di orrende atrocità nei confronti di soldati tedeschi feriti e inermi, 91 strappando loro gli occhi e tagliandogli dita, naso e orecchie; che i preti dai pulpiti avessero esortato la popolazione a commettere questi crimini, promettendole per ricompensa il regno dei cieli, e che avessero persino dato l’esempio di questi atti di barbarie. In questo modo l’opinione pubblica tedesca restò turbata e manifestò una vibrata indignazione, rivolta specialmente contro i preti, che erano tenuti responsabili degli atti di barbarie attribuiti ai belgi […]. Per naturale derivazione l’ira cui erano caduti in preda fu rivolta dai tedeschi contro il clero cattolico in generale. I protestanti lasciarono che si riaccendesse nei loro cuori il vecchio odio religioso e si lanciarono in attacchi contro i cattolici. Si scatenò un nuovo Kulturkampf. I cattolici non esitarono a reagire a questo atteggiamento ostile2. Forse qualche azione di franchi tiratori c’è stata. Sarebbe stato ben strano che ogni belga adirato si precipitasse in biblioteca, aprisse un manuale di diritto internazionale, e si informasse se aveva il diritto di tirare su quella scocciatura infernale in marcia lungo le sue strade. Sarebbe stato non meno strano che un esercito, che non si era mai trovato sotto il fuoco, non considerasse ogni proiettile sparatogli contro come non autorizzato, perché scomodo, e anzi quasi come una violazione delle regole del Kriegsspiel, che fino a quel momento costituiva la sua sola esperienza bellica. È facile immaginarsi i più sensibili intenti a convincersi che la gente a cui stavano facendo cose tanto terribili dovesse essere gente terribile. E così la leggenda può essersi propagata fino ad arrivare ai censori e agli addetti alla propaganda, i quali, ci credessero o no, ne compresero l’utilità e la rovesciarono sulla popolazione civile tedesca. E non è che a questa spiacesse molto di scoprire che la popolazione che stava maltrattando era subumana. Per di più, dato che la leggenda proveniva dai suoi eroi, non solo era legittimo prestarvi fede, ma sarebbe stato antipatriottico rifiutarsi di farlo. Ma quando, proprio per il fatto che il teatro degli avvenimenti si perde nelle nebbie della guerra, la fantasia gioca una parte così importante, non esistono più freni né controlli. La leggenda dei feroci preti belgi fece risorgere un odio antico: infatti nella mente di moltissimi protestanti tedeschi nazionalisti, soprattutto nelle classi superiori, il quadro delle vittorie di Bismarck comprendeva una lunga controversia con i cattolici. Per un processo di associazione, i preti belgi diventarono semplicemente dei preti, e l’odio per i belgi diventò una valvola attraverso cui potevano sfogare tutti i loro odi. Questi protestanti tedeschi fecero proprio come certi americani i quali sotto la pressione della guerra, e accomunando il nemico a tutti i loro avversari interni, crearono un oggetto composito su cui sfogarono il loro odio. Contro questo nemico sintetico, l’Unno tedesco e l’Unno interno, gettarono tutto il malanimo che avevano dentro di sé. 92 La reazione cattolica ai racconti delle atrocità fu naturalmente difensiva. Mirò soprattutto a quegli elementi che suscitavano ostilità verso tutti i cattolici, piuttosto che verso i soli cattolici belgi. Le Informations Pax, dice van Langenhove, avevano un carattere esclusivamente ecclesiastico, e «limitavano la propria attenzione quasi soltanto alle azioni reprensibili attribuite ai preti». E tuttavia non si può fare a meno di domandarsi che cosa abbia messo in moto nella mente dei cattolici tedeschi questa rivelazione su ciò che l’impero di Bismarck significava nei loro riguardi; e inoltre se ci sia stato un qualche oscuro nesso tra questa scoperta e il fatto che l’eminente uomo politico tedesco che al momento dell’armistizio si dimostrò pronto a firmare la condanna a morte dell’impero è stato Erzberger3, il capo del Centro Cattolico. 93 VIII. I punti ciechi e il loro valore 1. Ho parlato di stereotipi, anziché di ideali, perché il termine «ideale» di solito viene riservato a ciò che consideriamo il buono, il vero e il bello. Contiene perciò implicitamente l’idea che ci sia qualcosa da copiare o da raggiungere. Ma il nostro repertorio di impressioni fisse è più ampio, poiché abbraccia truffatori ideali, politicanti ideali, sciovinisti ideali, agitatori ideali, nemici ideali. Il nostro mondo stereotipato non è necessariamente il mondo come lo vorremmo: è semplicemente il mondo come ce lo aspettiamo. Se i fatti reali vi corrispondono, si prova come un senso di familiarità, e si ha l’impressione di muoversi secondo l’andazzo delle cose. Se siamo degli ateniesi che non vogliono provare rimorsi, il nostro schiavo dev’essere uno schiavo per natura. Se, dopo aver detto ai nostri amici che al golf facciamo 18 buche in 95 colpi, le facciamo invece in 110, sosterremo con loro che oggi non siamo noi stessi. In altre parole, ci è ignoto quell’incapace che ha fallito 15 colpi. La maggior parte di noi affronterebbe le cose con un assortimento piuttosto casuale e mutevole di stereotipi, se non ci fosse in ogni generazione un numero relativamente piccolo di persone che s’impegnano costantemente a disporli, standardizzarli e migliorarli in sistemi logici, noti come le Leggi dell’Economia Politica, i Princìpi della Politica, e via dicendo. Quando scriviamo sulla cultura, sulla tradizione e sulla mentalità di gruppo pensiamo di solito a questi sistemi perfezionati da uomini di genio. Ora, non si può certo contestare la necessità di uno studio e di una critica costanti di queste versioni idealizzate, ma lo storico, il politico e il pubblicitario non possono fermarsi qui. Infatti ciò che opera nella storia non è l’idea sistematica che un genio può formulare, ma le imitazioni cangianti, le copie, le contraffazioni, le analogie e le distorsioni delle menti degli individui. E così il marxismo non è necessariamente ciò che ha scritto Karl Marx nel Capitale, ma tutto ciò che credono le varie fazioni in lotta, ognuna delle quali pretende di essere quella ortodossa. Non è possibile dedurre la storia del cristianesimo dai Vangeli, né la storia politica americana dalla 94 Costituzione. Bisogna risalire al Capitale come l’intendono i marxisti, ai Vangeli come vengono predicati e alla predicazione come viene recepita, alla Costituzione come viene interpretata e applicata. Infatti, pur essendoci un’influenza reciproca tra la versione standard e le versioni correnti, sono queste ultime distribuite tra gli uomini ad influire sul loro comportamento1. La teoria della relatività – afferma un critico le cui palpebre, come quelle di Monna Lisa, sono un po’ pesanti – promette di diventare un principio suscettibile di applicazione universale, pressappoco come la teoria dell’evoluzione. Quest’ultima, che era nota come ipotesi tecnico-biologica, si trasformò rapidamente in una guida stimolante per studiosi di tutti i rami del sapere. Usi e costumi, princìpi morali, religiosi, filosofie, arti, vaporiere, tranvai elettrici: tutto aveva subito un’«evoluzione». Questa parola diventò un termine generalissimo, ma diventò anche talmente imprecisa che in molti casi il suo significato originario andò perduto, e la teoria che avrebbe dovuto indicare venne fraintesa. Ci azzardiamo a preconizzare una vicenda e un destino analoghi alla teoria della relatività. Questa teoria, oggi imperfettamente compresa, diventerà ancor più vaga e nebulosa. La storia si ripete, e la relatività, dopo aver ricevuto, come l’evoluzione, un certo numero di esposizioni popolari comprensibili, ma piuttosto imprecise dal punto di vista scientifico, verrà lanciata alla conquista del mondo. Lasciateci suggerire che, a quel punto, probabilmente si chiamerà relativismus. Molte di queste applicazioni più vaste saranno senza dubbio giustificate; ma talune saranno assurde, e un buon numero di loro, pensiamo, non sarà altro che un cumulo di banalità. E la nuova teoria fisica, semplice seme di questa possente crescita, tornerà ad essere il problema esclusivamente tecnico degli uomini di scienza2. Ma per conquistare il mondo un’idea deve corrispondere, sia pure in modo impreciso, a qualcosa. Il professor Bury ha dimostrato che per molto tempo l’idea di progresso fu soltanto un giocattolo speculativo. È difficile – scrive3 – che una nuova idea di carattere speculativo si propaghi e venga accolta nella coscienza generale di una collettività prima di aver assunto una forma esteriore concreta, o di esser stata sottolineata da una vistosa prova materiale. Nel caso dell’idea di progresso tutt’e due le condizioni si realizzarono (in Inghilterra) nel periodo 1820-1850. La prova più vistosa venne fornita dalla rivoluzione meccanica. Gli uomini nati all’inizio del secolo avevano visto, prima di raggiungere i trent’anni, il rapido sviluppo della navigazione a vapore e dell’illuminazione a gas delle città e delle case, e anche l’apertura della prima ferrovia. Nella coscienza del normale cittadino sono stati miracoli come questi a gettare le basi della fede nella perfettibilità della razza umana. Tennyson, che in materia filosofica era una persona piuttosto normale, 95 racconta che quando andò con il primo treno da Liverpool a Manchester (1830) era convinto che le ruote corressero dentro scanalature. Allora scrisse questo verso. Che il grande mondo rotoli per sempre lungo le sonanti Scanalature del mutamento4. E così un pensiero più o meno applicabile a un viaggio da Liverpool a Manchester venne generalizzato a modello dell’universo «per sempre». Questo modello, raccolto da altri e rafforzato da scintillanti invenzioni, impresse un tono ottimistico alla teoria dell’evoluzione. Naturalmente questa teoria, come dice il professor Bury, resta neutrale di fronte al pessimismo e all’ottimismo. Ma prometteva il continuo mutamento, e i mutamenti visibili nel mondo indicavano conquiste della natura talmente straordinarie che la coscienza popolare fuse insieme le due cose. L’evoluzione – prima nello stesso Darwin, e poi, in modo più complicato, in Herbert Spencer – era un «progresso verso la perfezione». 2. Lo stereotipo rappresentato da termini come «progresso» e «perfezione» si componeva fondamentalmente di invenzioni meccaniche. E meccanico è rimasto, nel complesso, fino ad oggi. In America più che in tutto il resto del mondo, lo spettacolo del progresso meccanico ha creato un’impressione così profonda da permeare l’intero codice morale. Un americano è disposto a sopportare quasi ogni insulto, ma non l’accusa di non essere proteso verso il progresso. Sia egli di antica ascendenza, ovvero un recente immigrato, l’aspetto che sempre ha colpito la sua attenzione è l’immenso sviluppo materiale della civiltà americana. Esso costituisce uno stereotipo fondamentale attraverso cui vede il mondo: il villaggio di campagna diventerà la grande metropoli, il modesto edificio un grattacielo, ciò che è piccolo dovrà essere grosso, ciò che è lento dovrà essere veloce, ciò che è povero dovrà essere ricco; le poche cose debbono diventare le molte; tutto ciò che è lo dovrà essere ancor di più. Naturalmente non tutti gli americani vedono il mondo in questo modo. Non lo vedeva così Henry Adams, e non lo vede così William Allen White. Ma lo vedono così gli uomini che nelle riviste consacrate alla religione del successo figurano come i Costruttori dell’America; essi intendono pressappoco questo quando predicano l’evoluzione, il progresso, la prosperità, l’essere costruttivi, il modo di agire americano. È facile ridere, ma in realtà essi usano un grandissimo modello dello sforzo 96 umano: un modello che in primo luogo implica un criterio impersonale, in secondo luogo implica un criterio mondano, e in terzo luogo abitua gli uomini a pensare quantitativamente. Certamente l’idea confonde l’eccellenza con le grandi dimensioni, la felicità con la velocità, e la natura umana con un congegno meccanico. Tuttavia vi operano le stesse motivazioni che da sempre animano ogni codice morale, e sempre lo animeranno. Il desiderio di avere il più grosso, il più veloce, il più alto, o, se si è fabbricanti di orologi da polso e di microscopi, il più piccolo; in breve l’amore del superlativo e del «senza pari», che nella sua essenza e potenzialmente è una nobile passione. Certamente la concezione americana del progresso si è dimostrata efficace in moltissime situazioni economiche e psicologiche. Ha trasformato in attività produttiva un’aggressività, una sete di denaro e una volontà di potenza assolutamente eccezionali. E non si può dire che abbia, almeno in passato, frustrato gravemente la natura attiva dei membri attivi della collettività. Questi ultimi hanno creato una civiltà che fornisce quelle che a loro sembrano ampie soddisfazioni nel lavoro, nell’amore e nello svago, e la foga della loro vittoria sulle montagne, sulle terre vergini, sulle distanze e sulla concorrenza degli uomini ha rimpiazzato persino quella parte del sentimento religioso che si manifesta in un senso di comunione con l’universo. Il modello, nella sua successione di idea, azione e risultato, si è dimostrato un successo così prossimo alla perfezione che ogni tentativo di metterlo in dubbio viene considerato antiamericano. Eppure questo modello è una maniera molto parziale e inadeguata di rappresentarsi il mondo. La consuetudine di concepire il progresso come «sviluppo» significa che molti aspetti dell’ambiente sono stati puramente e semplicemente ignorati. Avendo davanti agli occhi questo stereotipo del «progresso», la massa degli americani ha visto ben poco che non si accordasse con quel concetto. Essi hanno visto l’espansione delle città, ma non l’accrescimento dei quartieri poveri; hanno esaltato le statistiche del censimento, ma si sono rifiutati di vedere il sovraffollamento; hanno messo in risalto con orgoglio la loro crescita, ma non si sono curati dello spopolamento delle campagne o dell’immigrazione non assimilata. Hanno sviluppato furiosamente l’industria, con un irresponsabile spreco di risorse naturali; hanno creato complessi industriali giganteschi, ma senza curarsi dei rapporti umani. Si sono avviati a diventare una delle nazioni più potenti della terra, ma senza curarsi di preparare le istituzioni e la mente alla fine dell’isolamento. Si sono trovati coinvolti nella guerra mondiale senza essere né moralmente né fisicamente preparati, e alla fine si sono ritrovati alquanto delusi, ma non molto più esperti di prima. 97 La buona e la cattiva influenza dello stereotipo americano è stata chiaramente visibile nella guerra mondiale. L’idea che la guerra potesse essere vinta mobilitando eserciti illimitati, lanciando sottoscrizioni illimitate, costruendo un numero illimitato di navi, producendo una quantità illimitata di munizioni e fissandosi illimitatamente su queste sole cose, rispondeva indubbiamente allo stereotipo tradizionale; e perciò ha dato luogo a una sorta di miracolo materiale1. Ma quelli che più subivano l’influsso di questo stereotipo non ponevano mente a quali dovessero essere i frutti della vittoria e a come si dovesse conseguirli. Perciò non si parlava dei fini, o li si considerava automatici, e non si riusciva a concepire la vittoria, dato che lo stereotipo lo esigeva, se non come una vittoria annientatrice sul campo di battaglia. In tempo di pace non si chiedeva a che cosa serviva l’automobile più veloce, e in guerra non si chiedeva a che cosa doveva servire la vittoria più completa. Ma a Parigi il modello non corrispondeva alla realtà. In tempo di pace si può indefinitamente sostituire a cose piccole cose grosse, e a cose grosse cose ancora più grosse; in guerra, dopo che si è conquistata la vittoria assoluta, non si può passare ad una vittoria più assoluta. Bisogna agire secondo un modello totalmente diverso. E quando non si possiede questo modello, la fine della guerra diventa, come è capitato a molta brava gente, un «anticlimax» in un mondo grigio e scipito. A questo punto lo stereotipo e i fatti, che non possono essere ignorati, divergono in modo definitivo. Ci si arriva fatalmente, poiché la nostra immagine delle cose è più semplice e più immobile del flusso degli avvenimenti. Viene il momento, perciò, in cui i punti ciechi si spostano dai margini al centro della visione, e allora, in mancanza di spiriti critici che abbiano il coraggio di levare un grido d’allarme, e di leader capaci di comprendere il mutamento, e di un popolo abituato alla tolleranza, lo stereotipo, invece di risparmiare lo sforzo ed incanalare le energie come fece nel 1917 e nel 1918, può render vano lo sforzo e sprecare le energie degli uomini accecandoli, come è accaduto a coloro che invocavano una pace cartaginese nel 1919 e deplorarono il Trattato di Versailles nel 1921. 3. Accettato acriticamente, lo stereotipo non solo censura molte cose di cui invece si dovrebbe tener conto, ma per di più è molto probabile che nel giorno in cui si spezza si infranga con lui anche ciò di cui saggiamente teneva conto. Questa è la punizione che Bernard Shaw assegna al Libero Scambio, alla Libertà di Contrattazione, alla Libera Concorrenza, alla 98 Libertà Nazionale, al Laissez-faire e al Darwinismo. Cent’anni fa – ed egli allora sarebbe stato sicuramente uno dei più mordaci paladini di queste dottrine – non le avrebbe viste come le vede oggi nel Mezzo Secolo Infedele1, semplici pretesti per schiacciare il prossimo impunemente, mentre ogni interferenza da parte di un governo dirigista, ogni organizzazione tranne quella della polizia intesa a proteggere la truffa legalizzata dai pugni, ogni tentativo di introdurre nel caos industriale fini e progetti e preveggenza sarebbero «contrari alle leggi dell’economia politica». Come pioniere della marcia verso i pascoli del cielo2, avrebbe compreso che del tipo di fini e di progetti e di preveggenza che poteva offrire un governo come quello degli zii della regina Vittoria meno ce n’era e meglio era. Avrebbe visto non già il forte schiacciare il debole, ma lo sciocco schiacciare il forte. Avrebbe visto fini, progetti e preveggenza all’opera per bloccare le invenzioni, per bloccare l’iniziativa, per bloccare quello che egli infallibilmente avrebbe salutato come il prossimo stadio dell’Evoluzione Creatrice. Anche ora Shaw non mostra molto entusiasmo per gli interventi dei governi dirigisti esistenti, ma in teoria è schierato al polo opposto del laissez-faire. Prima della guerra il pensiero più avanzato si era anch’esso schierato contro l’idea tradizionale che, dando libero gioco a tutti i fattori, la saggezza si sarebbe fatta strada da sola, creando l’armonia. Dopo la guerra e l’esperienza che questa ha fornito in fatto di governi dirigisti, assistiti da censori, propagandisti e spie, Roebuck Ramsden e la Libertà Naturale sono stati riammessi nella cerchia dei pensatori seri. C’è un elemento comune a questi cicli. In ogni sistema di stereotipi c’è un punto in cui cessa lo sforzo e le cose accadono spontaneamente, proprio come si vorrebbe. Lo stereotipo del progresso, possente promotore di attività, soffoca quasi totalmente il tentativo di decidere in quale attività lanciarsi e per quale motivo in quella e non in un’altra attività. Il laissezfaire, provvidenziale liberazione dalla stupida burocrazia, presume che gli uomini si avvieranno per combustione spontanea verso un’armonia prestabilita. Il collettivismo, antidoto all’egoismo spietato, presuppone nella visione marxista un determinismo economico verso l’efficienza e la saggezza dei funzionari socialisti. Infine il governo forte, l’imperialismo all’interno e all’estero, che nei suoi esempi migliori è profondamente conscio del prezzo del disordine, si affida all’idea che tutto ciò a cui i governanti danno importanza sarà noto ai governanti. In ogni teoria vi è un punto di cieco automatismo. Questo punto cieco occulta qualche fatto che, se fosse tenuto presente, 99 frenerebbe il movimento fondamentale che lo stereotipo provoca. Se colui che crede nel progresso dovesse chiedersi, come il cinese della storiella, che cosa vuol fare del tempo che ha risparmiato superando il record, se il paladino del laissez-faire dovesse contemplare non le libere ed esuberanti energie degli uomini, ma ciò che taluni chiamano la natura umana, se il collettivista mettesse al centro della sua attenzione il problema del come garantirsi i suoi funzionari, se l’imperialista osasse dubitare della propria ispirazione, vedremo più Amleti e meno Enrichi Quinti. Infatti questi punti ciechi tengono lontane quelle immagini distraenti che, con le relative emozioni, potrebbero provocare esitazione e far vacillare la risoluzione. Di conseguenza lo stereotipo non solo risparmia tempo in una vita già molto impegnata, ed è perciò una difesa della nostra posizione nella società, ma tende anche a proteggerci dagli effetti spossanti del tentativo di vedere il mondo con sguardo fermo, e di vederlo nella sua totalità. 100 IX. I codici e i loro nemici 1. Chiunque abbia aspettato un amico in fondo al marciapiede di una stazione ferroviaria ricorderà quante strane persone abbia scambiato per lui. La foggia di un cappello, un passo un po’ caratteristico suscitavano alla mente in modo vivido l’immagine della persona attesa. Nel sonno un tintinnìo può sembrare il rintocco di una grande campana; il lontano colpo di un martello può sembrare uno scoppio di tuono. Le nostre costellazioni di immagini risponderanno a uno stimolo che forse somiglia solo vagamente a un qualche loro aspetto. Nell’allucinazione possono invadere tutta la coscienza. Oppure possono entrare appena nella zona della percezione, benché io tenda a credere che una tale esperienza sia estremamente rara e molto raffinata, come quando fissiamo una parola o un oggetto familiare, ed esso cessa a poco a poco di essere familiare. È certo che per lo più il modo in cui vediamo le cose è una combinazione di quello che c’è e di quello che ci aspettavamo di trovare. Il cielo non è lo stesso per un astronomo e per una coppia di innamorati; una pagina di Kant provocherà un corso di pensieri diverso in un kantiano e in un empirista assoluto; la bella di Tahiti è più attraente agli occhi del suo corteggiatore tahitiano che a quelli dei lettori del «National Geographic Magazine». La competenza in una materia è, in realtà, il moltiplicarsi degli aspetti che siamo preparati a scoprire, più l’abitudine a fare la tara sulle nostre aspettative. Mentre all’ignorante tutte le cose sembrano uguali, e la vita non è che una cosa dopo l’altra, per lo specialista le cose hanno un alto grado di individualità. Per un autista, un buongustaio, un intenditore, un membro del Gabinetto presidenziale, o la moglie di un professore vi sono distinzioni e qualità evidenti, che non sono affatto evidenti alla persona comune che discute di automobili, vini, opere d’arte, repubblicani e facoltà universitarie. Ma nelle opinioni pubbliche pochi possono essere esperti, dal momento che la vita, come Bernard Shaw ha reso chiaro, è così breve.Quelli che sono esperti lo sono soltanto in poche materie. Anche tra i militari di 101 professione, come abbiamo imparato durante la guerra, gli specialisti di cavalleria non si dimostravano necessariamente brillanti in fatto di trincee e di carri armati. Anzi, qualche volta un po’ di competenza in una modesta materia può semplicemente esasperare la normale tendenza umana a cercare di fare entrare a forza negli stereotipi tutto ciò che può esservi fatto entrare a forza, e a gettar via ciò che non vi si adatta. Se non stiamo molto attenti, tendiamo a figurarci tutto quello che ci sembra conosciuto con l’ausilio di immagini già presenti nella nostra mente. Così, nella visione americana del Progresso e del Successo, c’è un’immagine precisa della natura e della società. È il tipo di natura umana ed è il tipo di società che producono logicamente il tipo di progresso che viene considerato ideale. E quindi, quando cerchiamo di descrivere o spiegare davvero gli uomini riusciti, e gli avvenimenti che sono realmente accaduti, ascriviamo ad essi le qualità che sono presupposte negli stereotipi. Queste qualità vennero standardizzate piuttosto candidamente dagli economisti di altri tempi. Essi si misero a descrivere il sistema sociale sotto cui vivevano, e lo trovarono troppo complicato per essere espresso in parole. Così costruirono quello che sinceramente speravano fosse un diagramma semplificato, non troppo diverso, come principio e come verosimiglianza, dal parallelogramma con zampe e testa con cui il bambino disegna una complicata mucca. Lo schema comprendeva un capitalista che aveva diligentemente messo via un capitale con i risparmi del suo lavoro, un imprenditore che immaginava una domanda socialmente utile e organizzava una fabbrica, una raccolta di operai che contrattavano liberamente, prendere o lasciare, il loro lavoro; un proprietario terriero e un gruppo di consumatori che compravano sul mercato più conveniente quei beni che secondo un rapido calcolo piacere-dolore sapevano che avrebbero dato loro il massimo piacere. Il modello funzionava, e le persone del tipo postulato dal modello, che vivevano nel tipo di mondo postulato dal modello, invariabilmente collaboravano in modo armonioso nei libri dove il modello veniva descritto. Con modifiche e abbellimenti, questa finzione usata dagli economisti per semplificare il loro pensiero fu smerciata e volgarizzata finché per vasti settori della popolazione s’impose come la mitologia economica del giorno. Forniva una versione-tipo del capitalista, dell’imprenditore, dell’operaio e del consumatore a una società che naturalmente era più impegnata a conseguire il successo che a spiegarlo. Gli edifici che sorgevano, e i conti in banca che si accumulavano, erano la prova che lo stereotipo del modo in cui si era arrivati a tutto ciò era corretto. E quelli 102 che più beneficiarono del successo arrivarono a credere d’essere il tipo di uomini che s’immaginava che fossero. Non sorprende che gli amici ingenui degli uomini di successo, quando leggono la biografia ufficiale e il necrologio, debbano faticare a non domandarsi se quello sia proprio il loro amico. 2. Naturalmente il ritratto ufficiale riusciva irriconoscibile agli sconfitti e alle vittime. Infatti, mentre coloro che impersonavano il progresso ben di rado si soffermavano a indagare se erano arrivati per la via tracciata dagli economisti, o per un’altra via ugualmente accettabile, i falliti indagavano. «Nessuno – disse William James1 – penetra una generalizzazione al di là della sua conoscenza dei dettagli». I capitani d’industria vedevano nei grandi monopoli i monumenti del (loro) successo; i concorrenti sconfitti vedevano in essi i monumenti del (loro) insuccesso. Perciò i primi magnificavano le economie e le virtù della grande industria, chiedevano mano libera, dicevano di essere gli agenti della prosperità e i promotori del commercio. I vinti mettevano l’accento sugli sprechi e le brutalità dei monopoli, e reclamavano a gran voce che il Dipartimento della Giustizia liberasse l’economia dalle cospirazioni. Nella stessa situazione una parte vedeva il progresso, l’economia e uno splendido sviluppo; l’altra parte vedeva la reazione, il dispendio esagerato e la limitazione delle attività economiche. Per dimostrare i due lati della disputa si pubblicarono volumi di statistiche e aneddoti sulla verità effettiva e sulla verità nascosta, sulla verità più profonda e sulla verità più generale. Infatti, quando un sistema di stereotipi è ben stabilito, la nostra attenzione si rivolge a quei fatti che lo appoggiano e si distoglie da quelli che lo contraddicono. Ed è forse proprio perché sono già predisposte che le persone bonarie scoprono tante occasioni di bontà e le persone maligne tante ragioni di malanimo. Si parla giustamente di persone che vedono attraverso occhiali rosa o al contrario con occhio invidioso. Se, come scrisse una volta Philip Littell di un celebre professore, noi vediamo la vita riflessa oscuramente nello specchio di classe, i nostri stereotipi di come sono i ceti superiori e le classi inferiori non saranno contaminati dalla comprensione. Ciò che è estraneo sarà respinto, ciò che è diverso cadrà sotto sguardi che non vedono. Noi non vediamo quello che i nostri occhi non sono abituati a considerare. Noi siamo colpiti, talvolta consapevolmente, più spesso senza saperlo, da quei fatti che si attagliano alla nostra filosofia. 103 3. Questa nostra filosofia è una serie più o meno organizzata di immagini per descrivere il mondo che non si vede. Ma non solo per descriverlo: anche per giudicarlo. E perciò gli stereotipi sono carichi di preferenze, soffusi di simpatia o antipatia, abbarbicati a timori, brame, passioni, orgoglio, speranze. Ciò che evoca lo stereotipo viene giudicato con il sentimento più appropriato; tranne quando deliberatamente teniamo in sospeso il pregiudizio, noi non giudichiamo cattivo un uomo dopo averlo esaminato. Vediamo un uomo cattivo. Vediamo un’aurora rugiadosa, una fanciulla verginale, un prete santo, un inglese privo di spirito, un pericoloso rosso, uno spensierato bohémien, un pigro indù, uno scaltro orientale, uno slavo sognatore, un capriccioso irlandese, un cupido ebreo, un americano al cento per cento. Nel mondo di ogni giorno il vero modo di giudicare è spesso questo, molto in anticipo sui dati di fatto: un modo che già contiene in sé la conclusione che i dati di fatto quasi certamente confermeranno. In questo tipo di giudizio non entrano giustizia, né pietà, né verità, perché il giudizio ha preceduto i dati di fatto. D’altronde un popolo senza pregiudizi, un popolo che abbia una visione del tutto neutrale, è talmente impensabile in qualsiasi delle civiltà, di cui mette conto parlare, che nessun sistema educativo potrebbe mai basarsi su quell’ideale. Possiamo individuare il pregiudizio, tenerne conto e renderlo più sofisticato, ma fintantoché gli uomini saranno costretti dalla loro finitezza a comprimere in un breve periodo d’istruzione scolastica la preparazione ad affrontare un’immensa civiltà, dovranno portare con sé immagini di essa e avere pregiudizi. I loro pregiudizi potranno essere o non essere benevoli, benevoli verso gli altri, verso altre idee; potranno suscitare l’amore di ciò che si ritiene un bene positivo, oppure l’odio di ciò che non è compreso nella loro versione del bene: la natura dei pregiudizi condizionerà la qualità dei pensieri e delle azioni degli individui. La moralità, il buon gusto e le buone maniere dapprima standardizzano e quindi accentuano taluni di questi pregiudizi latenti. Adattandoci al nostro codice, adattiamo ad esso pure i fatti che vediamo. Dal punto di vista razionale i fatti sono neutrali rispetto a tutti i nostri concetti di bene e male. Di fatto i nostri canoni determinano in larga misura ciò che percepiamo e il modo in cui lo percepiamo. Infatti un codice morale è uno schema di comportamento applicato a un certo numero di occasioni tipiche. Comportarsi come prescrive il codice è servire lo scopo che il codice persegue. Questo può essere la volontà divina, o quella del re, o la salvezza individuale in un paradiso 104 tridimensionale ben tangibile, il successo sulla terra o la dedizione al genere umano. In ogni caso gli autori del codice scelgono certe situazioni tipiche, e quindi, mercé una qualche forma di ragionamento o intuizione, deducono il tipo di comportamento che condurrebbe alla meta che riconoscono. Le regole valgono dove valgono. Ma nella vita quotidiana come fa un uomo a sapere se la sua situazione è quella che aveva in mente il «legislatore»? Gli si ingiunge di non uccidere. Ma se i suoi figli vengono aggrediti, gli è consentito di uccidere per impedire un’uccisione? I dieci comandamenti non si pronunciano su questo punto. Perciò ogni codice ha intorno un nugolo di interpreti che deducono casi più specifici. Supponiamo allora che i dottori della legge decidano che gli è consentito uccidere per autodifesa. Per un altro individuo il dubbio è quasi altrettanto forte; come fa a sapere che la sua definizione dell’autodifesa è giusta, o che non si tratta invece di un malinteso, che l’aggressione se l’è immaginata e che l’aggressore in realtà è lui? Forse ha provocato lui l’aggressione. Ma che cos’è una provocazione? Proprio questo genere di confusione infettava le menti di moltissimi tedeschi nell’agosto 1914. Nel mondo moderno assai più grave di qualsiasi differenza di codice morale è la differenza nell’assunzione dei fatti a cui il codice viene applicato. Le formule religiose, morali e politiche non distano le une dalle altre quanto i fatti supposti dai loro fedeli. In tal caso, anziché confrontare gli ideali, è utile riesaminare le visioni dei fatti. Perciò la regola di fare agli altri quello che si vorrebbe che gli altri facessero a noi, poggia sulla convinzione che la natura umana sia uniforme. L’affermazione di Shaw che non si deve fare agli altri quello che si vorrebbe che gli altri facessero a noi, perché i loro gusti possono essere diversi, poggia sulla convinzione che la natura umana non sia uniforme. La massima che la concorrenza è l’anima del commercio sintetizza un intero tomo di postulati circa i moventi economici, i rapporti di lavoro e il funzionamento di un particolare sistema commerciale. La tesi che l’America non avrà mai una marina mercantile, se non sarà posseduta e gestita dai privati, presume l’esistenza provata di un certo nesso tra un certo tipo di profitto e un certo tipo di incentivo. La giustificazione della dittatura, dello spionaggio e del terrore da parte del propagandista bolscevico, perché «ogni stato è un apparato di violenza»1, è un giudizio storico la cui verità non è affatto evidente di per sé al non-comunista. Alla base di ogni codice morale c’è un’immagine della natura umana, una carta dell’universo e un’interpretazione della storia. Le regole del codice si applicano alla natura umana (così come la si immagina), in un 105 universo (così come lo si immagina), dopo una storia (interpretata in un dato modo). Nella misura in cui i fatti della personalità, dell’ambiente e della memoria sono diversi, è difficile applicare con successo le regole del codice. S’intende che ogni codice morale deve concepire in un modo o nell’altro la psicologia umana, il mondo materiale e la tradizione. Ma nei codici che subiscono l’influsso della scienza, si sa che la concezione è un’ipotesi, mentre nei codici che ci giungono acriticamente dal passato, o che sgorgano dalle caverne dello spirito, la concezione non viene vista come un’ipotesi da verificare o da contraddire, ma come una convenzione che si accetta senza avanzare dubbi. Nel primo caso l’uomo considera con umiltà le sue convinzioni, perché sa che sono problematiche e incomplete; nel secondo è dogmatico, perché la sua convinzione è mito conchiuso. Il moralista che accetta la disciplina scientifica, pur non conoscendo tutto, sa di essere sulla via di conoscere qualcosa; il dogmatico, col suo mito, crede di partecipare dell’onniscienza, pur non possedendo i criteri con cui distinguere la verità dall’errore. Infatti il segno distintivo del mito è che la verità e l’errore, la realtà e la favola, il documento e la fantasia, stanno tutti sullo stesso piano di credibilità. Sicché il mito non è necessariamente falso. Può anche darsi che sia completamente vero. Può darsi che sia parzialmente vero. Se è da lungo tempo che influenza la condotta umana, è quasi certo che conterrà molte cose profondamente vere e importanti. Ciò che un mito non contiene mai è il potere critico di separare la sua verità dai suoi errori. Infatti a questo potere si perviene solo quando ci si renda conto che nessuna opinione umana, quale che sia la sua presunta origine, è troppo alta per misurarsi con i fatti, che qualsiasi opinione è solo l’opinione di qualcuno. E se si chiede perché la prova dei fatti sia preferibile a qualsiasi altra, non è possibile rispondere se non si ha intenzione di usare la prova per provarla. 4. L’affermazione che i codici morali presuppongono una particolare visione dei fatti è suscettibile, mi sembra, di schiaccianti dimostrazioni. Nell’espressione «codici morali» comprendo ogni tipo di codice: personale, familiare, economico, professionale, legale, patriottico, internazionale. Al centro di ognuno c’è un complesso di stereotipi sulla psicologia, sulla sociologia e sulla storia. È raro che la stessa visione della natura umana, delle istituzioni o della tradizione resti costante in tutti i nostri codici. Si confrontino, ad esempio, il codice economico e quello patriottico. È in atto una guerra che si suppone coinvolgere egualmente 106 tutti. Due uomini sono soci in affari. Uno si arruola volontario, l’altro ottiene una commessa bellica. Il soldato sacrifica tutto, forse anche la vita. Viene pagato un dollaro il giorno, e nessuno dice, nessuno crede, che si potrebbe renderlo un soldato migliore con una qualche forma di incentivo economico. Questo movente scompare dalla sua natura umana. Il socio invece sacrifica molto poco, intasca un bel profitto e pochi dicono o credono che produrrebbe le munizioni in mancanza di un incentivo economico. Forse gli fanno un torto. Sta di fatto che il codice patriottico convenzionale presuppone un certo tipo di natura umana, il codice commerciale ne presuppone un altro. E i codici probabilmente aderiscono alla realtà in una misura tale che quando un individuo adotta un certo codice tende a mostrare il tipo di natura umana che il codice richiede. Ecco perché è così pericoloso generalizzare sulla natura umana. Un padre amorevole può essere un duro padrone, un fervente riformatore municipale e un rapace sciovinista quando è all’estero. La sua vita familiare, la sua attività economica, la sua politica interna e la sua politica estera poggiano su interpretazioni totalmente diverse di come è fatto il suo prossimo e di come lui deve comportarsi. Queste interpretazioni differiscono nella stessa persona a seconda dei codici, i codici differiscono in qualche modo tra persone dello stesso ambiente sociale, differiscono largamente da un ambiente sociale ad un altro, e tra due nazioni o due razze; possono differire a tal punto da escludere la possibilità di un presupposto comune. Ecco perché individui professanti lo stesso bagaglio di convinzioni religiose possono combattersi in guerra. L’elemento della loro fede che determina la condotta è l’interpretazione dei fatti da essi accolta. È qui che i codici entrano così sottilmente e in modo così contagiante nella formazione dell’opinione pubblica. La teoria ortodossa afferma che un’opinione pubblica costituisce un giudizio morale su un gruppo di fatti. La teoria che avanzerei io è che, allo stato attuale dell’istruzione, un’opinione pubblica è soprattutto un’interpretazione moralizzata e codificata dei fatti. Mi sembra che la costellazione di stereotipi che sta alla base dei nostri codici determini largamente in quale ordine di fatti li noteremo e in quale luce li vedremo. È per questo che, con la migliore volontà del mondo, la politica dell’informazione seguita da un giornale tende ad appoggiare il suo orientamento generale; è per questo che un capitalista vede un complesso di fatti, e certi aspetti della natura umana, e li vede davvero; è per questo che il suo avversario socialista vede un altro complesso di fatti e altri aspetti, e ciascuno considera l’altro irragionevole o perverso, mentre la differenza reale tra di loro è una differenza di 107 percezione. Questa differenza è determinata dalla differenza esistente tra l’insieme degli stereotipi capitalisti e l’insieme di quelli socialisti. «In America non ci sono classi», scrive un giornalista americano. «La storia di tutte le società sinora esistite è una storia di lotte di classe», afferma il Manifesto comunista. Se si ha in mente lo schema del giornalista, si vedranno con gran chiarezza i fatti che lo confermano, in modo vago e inefficace quelli che lo contraddicono. Se si ha in mente lo schema comunista, non solo si vedranno cose diverse, ma si vedrà con un risalto completamente diverso quello che per avventura si sta vedendo insieme al giornalista. 5. E dato che il mio sistema morale si basa sull’interpretazione dei fatti che io accetto, colui che nega i miei giudizi morali o la mia interpretazione dei fatti appare ai miei occhi perverso, estraneo, pericoloso. Come debbo spiegarmelo? L’avversario deve sempre venire spiegato, e l’ultima spiegazione che andiamo a cercare è che egli veda un diverso ordine di fatti. Evitiamo una tale spiegazione perché mina i fondamenti stessi della nostra sicurezza di aver visto la vita diligentemente e di averla vista nella sua interezza. Solo quando ci abituiamo a riconoscere nelle nostre opinioni un’esperienza parziale vista attraverso i nostri stereotipi, diventiamo veramente tolleranti verso l’avversario. Senza quest’abitudine noi crediamo nell’assolutezza della nostra visione, e di conseguenza nel carattere perfido di ogni opposizione. Infatti gli uomini, pur essendo disposti ad ammettere che esistono due lati di una «questione», non credono che vi siano due lati di quello che considerano un «fatto». E davvero non se ne convincono se non quando, dopo una lunga educazione critica, si rendono pienamente conto di quanto la loro percezione dei dati sociali sia soggettiva e indiretta. Così quando due fazioni vedono con intensità ciascuna il suo aspetto, ed escogitano le loro spiegazioni di ciò che è vero, è quasi impossibile che si riconoscano reciprocamente dell’onestà. Se lo schema si adatta alla loro esperienza in un momento cruciale, non lo considerano più un’interpretazione. Lo considerano «realtà». Può anche non somigliare alla realtà, se non in quanto perviene a una conclusione che si attaglia ad un’esperienza reale. Posso rappresentare il mio viaggio da New York a Boston tirando una linea diritta su una carta geografica, proprio come un individuo può vedere il suo trionfo come il termine di una via diritta e stretta. La strada per cui sono andato davvero a Boston può essere stata 108 piena di deviazioni, svolte e contorcimenti, proprio come il suo cammino può aver comportato molte cose oltre l’iniziativa, l’applicazione e il risparmio. Ma sempre che io raggiunga Boston ed egli il successo, il tragitto in linea d’aria e la via diritta possono andare come diagrammi bell’e pronti. Solo quando qualcuno cerca di seguirli, e non arriva, dobbiamo rispondere a delle obiezioni. Se noi insistiamo sui nostri diagrammi ed egli insiste a respingerli, ben presto noi tendiamo a considerarlo uno sciocco pericoloso, ed egli tende a considerarci bugiardi e ipocriti. Così gradualmente dipingiamo ritratti l’uno dell’altro. Infatti l’avversario si presenta come colui che dice: male, sii il mio bene. Egli è una seccatura che non rientra nel nostro schema di cose. Ciò nondimeno vi si intromette. E poiché nella nostra mente questo schema si fonda su fatti incontrovertibili corroborati da una logica irresistibile, è necessario trovargli un posto nello schema. È raro che in politica o nelle vertenze sindacali gli si faccia posto mediante la semplice ammissione che egli ha guardato la stessa realtà e ne ha visto un altro aspetto. Questo metterebbe in pericolo l’intero schema. Così, a Parigi, Fiume per gli italiani era italiana. Non era semplicemente una città che sarebbe stato opportuno includere nel regno d’Italia; era italiana. Fissavano la loro attenzione esclusivamente sulla maggioranza italiana residente entro i confini legali del nucleo urbano. I delegati americani, avendo visto più italiani a New York che a Fiume, senza per questo considerare italiana New York, guardavano a Fiume come ad un porto di accesso all’Europa centrale. Vedevano con chiarezza gli jugoslavi nei sobborghi e il retroterra non italiano. Perciò a Parigi alcuni italiani cercarono una spiegazione convincente della perversità americana. La trovarono in una voce, partita da chi sa dove, secondo cui un influente diplomatico americano era nelle mani di un’amante jugoslava. Lei era stata vista… lui era stato visto… a Versailles appena fuori del boulevard… la villa dai grandi alberi. Questo è un modo piuttosto comune di svuotare di contenuto un’opposizione. Nella loro forma più calunniosa queste accuse di rado raggiungono la pagina stampata, e un Roosevelt può essere obbligato ad aspettare degli anni, e un Harding dei mesi, prima di poter far scoppiare il bubbone e porre fine ad una campagna di voci che si è diffusa in ogni circolo. I personaggi pubblici debbono sopportare una dose paurosa di velenosa maldicenza nei club, nelle sale da pranzo e nelle camere da letto; una maldicenza ripetuta, elaborata, fonte di riso e considerata deliziosa. Queste cose, credo, sono più comuni in Europa che in America, e tuttavia è raro che ci sia un funzionario americano su cui qualcuno non stia 109 raccontando uno scandalo. Trasformiamo gli oppositori in scellerati e cospiratori. Se i prezzi salgono spietatamente, vuol dire che i profittatori hanno cospirato; se i ricchi sono troppo ricchi, è perché hanno rubato; se un’elezione molto combattuta è stata persa, l’elettorato è stato corrotto; se un uomo di governo fa qualcosa che si disapprova, è stato comprato o influenzato da qualche losco individuo. Se gli operai sono inquieti, sono vittime di agitatori; se sono inquieti in vaste zone, è in atto una cospirazione. Se non si producono abbastanza aeroplani, è opera di spie; se ci sono disordini in Irlanda, è l’«oro» tedesco o bolscevico. E se si è alla ricerca nevrastenica di complotti, si finisce per vedere tutti gli scioperi, il Piano Plumb, la ribellione irlandese, la sommossa araba, la restaurazione di re Costantino, la Società delle Nazioni, i disordini messicani, il movimento per ridurre gli armamenti, il cinema alla domenica, le gonne corte, l’infrazione delle leggi proibizionistiche, il risveglio dei neri, come ramificazioni di un qualche grandioso complotto macchinato da Mosca, o da Roma, o dalla Massoneria, o dai giapponesi, o dai Savi di Sion. 110 X. La scoperta degli stereotipi 1. I diplomatici provetti, costretti ad indirizzarsi pubblicamente ai popoli belligeranti, hanno imparato a usare un vasto repertorio di stereotipi. Avevano a che fare con un’alleanza precaria di potenze, ciascuna delle quali riusciva a mantenere l’unità interna soltanto in virtù di una guida attentissima. Il soldato semplice e sua moglie, eroici e disinteressati al di là di ogni limite registrato negli annali del coraggio, non erano però abbastanza eroici per affrontare lietamente la morte in nome delle varie idee che i ministeri degli Esteri di potenze straniere definivano essenziali per l’avvenire della civiltà. Pochi soldati avrebbero attraversato volentieri la terra di nessuno per conquistare a beneficio degli alleati certi porti, miniere, passi montani e villaggi. In uno dei paesi accadde che la fazione guerrafondaia che controllava il ministero degli Esteri, l’Alto comando e la maggior parte della stampa, rivendicasse certe parti dei territori di vari paesi vicini. Queste rivendicazioni venivano chiamate la Grande Ruritania dalle classi colte che consideravano Kipling, Treitschke e Maurice Barrès ruritani al cento per cento. Ma quest’idea grandiosa non suscitava alcun entusiasmo all’estero. E così, stringendo al cuore il più bel fiore del genio ruritano – come diceva il loro vate – gli statisti della Ruritania si avviarono a dividere e conquistare. Divisero la rivendicazione in settori. Per ciascun attore evocarono lo stereotipo a cui ad uno o più dei loro alleati riusciva difficile resistere, avendo anch’essi delle rivendicazioni per cui speravano di guadagnarsi l’approvazione proprio grazie allo stesso stereotipo. Il primo territorio era una regione montana abitata da contadini appartenenti a un altro gruppo etnico. La Ruritania la esigeva per completare i suoi confini geografici naturali. Fissando l’attenzione abbastanza a lungo sul valore ineffabile di ciò che è naturale, quei contadini stranieri si dissolvevano come nebbia al sole, e solo il profilo delle montagne restava visibile. Il secondo territorio era abitato da ruritani, e per il principio che nessun popolo deve vivere sotto il dominio straniero, essi vennero riannessi. E poi veniva una città di notevole importanza 111 commerciale, non abitata da ruritani. Ma fino al Settecento aveva fatto parte della Ruritania, e per il principio del Diritto Storico venne annessa. Un po’ più in là c’era un magnifico giacimento minerario posseduto da stranieri e sfruttato da stranieri. Fu annesso per il principio delle riparazioni per danni. Al di là di questo c’era un territorio abitato per il 97 per cento da stranieri, che costituiva il confine geografico naturale di un altro paese, mai appartenuto nella storia alla Ruritania. Ma in passato una delle province che erano state federate nella Ruritania aveva avuto commerci con quei mercati, e la cultura della classe superiore era ruritana. Le terre vennero rivendicate per il principio della superiorità culturale e della necessità di difendere la civiltà. Infine c’era un porto totalmente estraneo alla Ruritania geograficamente, etnicamente, economicamente, storicamente, tradizionalmente: fu rivendicato perché si sosteneva che era necessario ai fini della difesa nazionale. Nei trattati che hanno posto fine alla grande guerra di questi esempi se ne trovano in abbondanza. Non è, beninteso, che io creda che fosse possibile dare un nuovo assetto all’Europa sulla base di uno di questi principi. Sono certo che non lo era. L’uso stesso di questi principi, così pretenziosi e così assoluti, significava che non c’era alcuno spirito di accomodamento e che perciò mancava la sostanza della pace. Infatti quando si comincia a discutere di fabbriche, miniere, montagne, o anche autorità politica, come esempi perfetti di qualche principio eterno o giù di lì, non si discute più, si combatte. Questo principio eterno censura tutte le obiezioni, isola il problema dal suo retroterra e dal suo contesto e mette in moto nell’individuo forti emozioni, assai adatte al principio, estremamente inadatte ai moli, ai magazzini e alla proprietà immobiliare. E quando si è cominciato in questo stato d’animo non ci si può più fermare: esiste un vero pericolo. Per farvi fronte si debbono invocare principi ancora più assoluti, per poter difendere ciò che è esposto all’attacco. Poi si debbono difendere le difese, erigere paracolpi e paracolpi per i paracolpi, finché l’intera faccenda diventa così ingarbugliata che sembra meno pericoloso combattere che continuare a discutere. Spesso ci sono certi indizi che consentono di scoprire la falsa assolutezza di uno stereotipo. Nel caso della propaganda ruritana i principi si cancellavano a vicenda così rapidamente che si poteva agevolmente capire com’era stato costruito l’argomento. La serie delle contraddizioni dimostrava che per ogni territorio si impiegava lo stereotipo che avrebbe annullato tutti i fatti che venivano a conflitto con la rivendicazione. La contraddizione di questo tipo è spesso un buon indizio. 112 2. Un altro indizio è l’incapacità di tener conto dello spazio. Nella primavera del 1918, ad esempio, parecchie persone, inorridite dal ritiro della Russia, chiedevano la «ricostituzione di un fronte orientale». La guerra, com’essi la concepivano, si svolgeva su due fronti, e quando uno di questi scompariva si creava un’esigenza subitanea di ricrearlo. L’esercito giapponese, che non era impegnato, avrebbe dovuto tenere il fronte sostituendo i russi. Ma c’era un ostacolo insuperabile. Tra Vladivostok e la linea orientale c’erano cinquemila miglia di territorio, attraversate da una sola decrepita ferrovia, ma gli entusiasti non riuscivano a tener presenti quelle cinquemila miglia. La loro convinzione che un fronte orientale fosse necessario era così soverchiante, e la loro fiducia nel valore dell’esercito giapponese era così grande, che mentalmente avevano proiettato quell’esercito da Vladivostok alla Polonia sul tappeto magico. Invano le nostre autorità militari sostenevano che uno sbarco di truppe sulla costa della Siberia aveva tanto poco a che fare col dare addosso ai tedeschi quanto l’arrampicarsi dalla cantina al tetto del palazzo Woolworth aveva a che fare con il raggiungere la luna. In questo caso lo stereotipo era la guerra su due fronti. Sin dal momento in cui la gente aveva cominciato ad immaginarsi la grande guerra, aveva concepito la Germania come stretta in mezzo alla Francia e alla Russia. Una generazione di strateghi, e forse due, erano vissute avendo questa immagine visiva come punto di partenza di tutti i loro calcoli. Per circa quattro anni ogni cartina che avevano visto aveva approfondito l’impressione che questa fosse la guerra. Quando le cose presero un’altra piega, non fu facile vederle come erano. Venivano viste attraverso lo stereotipo, e i fatti in conflitto con quest’ultimo, come la distanza tra il Giappone e la Polonia, non potevano presentarsi con chiarezza alla coscienza. È interessante notare che le autorità americane affrontarono i nuovi fatti più realisticamente di quelle francesi. In parte perché (prima del 1914) non avevano alcun preconcetto di come potesse essere una guerra sul continente; in parte perché gli americani, tutti intenti alla mobilitazione delle loro forze, avevano una visione del fronte occidentale che era essa stessa uno stereotipo il quale escludeva dalla loro coscienza una percezione veramente chiara degli altri teatri di guerra. Nella primavera del 1918 questo modo di vedere americano non poteva competere con il tradizionale modo di vedere francese, perché mentre gli americani credevano enormemente nelle proprie forze, i francesi a quel punto (prima 113 di Cantigny e della seconda Marna) erano in preda ai più gravi dubbi. La fiducia americana pervadeva lo stereotipo americano; gli dava quel potere di possedere la consapevolezza, quella vivacità e quel sensato mordente, quell’effetto stimolante sulla volontà, quell’interesse emotivo in quanto oggetto di desiderio, quell’aderenza all’attività in corso, che James considera caratteristici di ciò che consideriamo «reale»1. I francesi, disperati, restavano ancorati all’immagine consueta. E quando le grossolane realtà geografiche non si adattavano al preconcetto, venivano censurate dalla mente, oppure venivano deformate. Perciò il problema di far raggiungere i tedeschi dai giapponesi veniva in una certa misura superato col far compiere ai tedeschi metà del cammino per incontrarli. Tra il marzo e il giugno 1918 s’immaginò che un esercito tedesco stesse operando nella Siberia orientale. Questo esercito fantasma era costituito da alcuni prigionieri tedeschi realmente visti, da altri prigionieri tedeschi immaginati, e soprattutto dall’illusione che quelle cinquemila miglia di distanza in realtà non esistessero2. 3. Un’immagine veritiera dello spazio non è cosa semplice. Se traccio su una carta geografica una linea diritta tra Bombay e Hong Kong, e misuro la distanza, non ho appreso assolutamente nulla sulla distanza che dovrei percorrere in un viaggio che mi portasse fin lì. E anche se misuro l’effettiva distanza che debbo percorrere, ne so ancora pochissimo finché ignoro quali navi facciano quella linea, in quali date, con quale velocità, se riuscirò a prenotare un posto e se ho mezzi sufficienti per pagare il biglietto. Nella vita pratica lo spazio è una questione di mezzi di trasporto disponibili, non di piani geometrici: come ben sapeva il vecchio magnate delle ferrovie che minacciò di far crescere l’erba sulle strade di una città che lo aveva offeso. Se viaggio in automobile e chiedo quanto disti il luogo dove sono diretto, considero un perfetto idiota l’individuo che mi dice tre miglia, e non fa menzione di una deviazione di sei miglia. Non mi serve niente sapere che sono tremiglia a piedi: tanto varrebbe che mi si dicesse che è un miglio a volo d’uccello. Io non volo come un uccello, e nemmeno sto camminando. Mi serve sapere che per un’automobile sono nove miglia, e anche, se questo è il caso, che sei di esse sono accidentate. Mi secco con il pedone che mi dice che sono tre miglia, e penso male dell’aviatore che mi ha detto che era un miglio soltanto. Parlano entrambi dello spazio che devono coprire loro, non di quello che devo percorrere io. Nel tracciare le frontiere l’incapacità di concepire la geografia pratica 114 di una regione ha fatto sorgere assurde complicazioni. Sotto qualche formula generale, come quella dell’autodeterminazione, gli statisti in momenti diversi hanno tracciato sulle carte geografiche linee, le quali, constatate sul posto, correvano attraverso una fabbrica, tagliavano la strada di un villaggio, spezzavano la navata di una chiesa o dividevano la cucina e la stanza da letto di una casa colonica. In una regione messa a pascolo sono state tracciate frontiere che separavano i pascoli dall’acqua o dal mercato, e in una zona industriale frontiere che separavano gli scali ferroviari dalle strade ferrate. Sulla carta etnica a colori la linea era etnicamente giusta, cioè giusta nel mondo di quella carta etnica. 4. Ma anche il tempo, non meno dello spazio, viene strapazzato. Un esempio comune è quello dell’individuo che con un complicato testamento cerca di controllare il suo denaro per lungo tempo dopo la sua morte. Era intento del primo William James – scrive il suo pronipote Henry James1 – assicurare che i figli (alcuni dei quali alla sua morte erano minorenni) si qualificassero con la laboriosità e l’esperienza al godimento dell’ingente patrimonio che egli prevedeva di trasmetter loro, e a questo fine lasciò un testamento che era un complesso voluminoso di restrizioni e istruzioni. Con ciò egli mostrò quanto fosse grande la sua fiducia nel proprio discernimento e la sua sollecitudine per il bene morale dei suoi discendenti. Il tribunale mandò all’aria il testamento. Infatti la legge, nella sua opposizione ai diritti perpetui, riconosce che esistono precisi limiti all’utilità di consentire a una persona di imporre il suo marchio morale su un futuro sconosciuto. Ma il desiderio di imporlo è un tratto molto umano, tanto umano che la legge gli consente di avere effetto per un periodo di tempo limitato dopo la morte. L’articolo che in ogni costituzione regola la procedura per l’approvazione di eventuali emendamenti è un buon indice della fiducia nutrita dagli estensori nell’influenza delle proprie opinioni sulle generazioni successive. Ci sono, mi pare, alcuni stati americani che hanno costituzioni quasi non suscettibili di emendamenti. I loro autori debbono aver avuto uno scarso senso del fluire del tempo: per loro l’hic et nunc era così certo, e il futuro così vago o così spaventoso, che hanno avuto il coraggio di dire in che modo la vita dovesse svolgersi dopo la loro scomparsa. E dato che le costituzioni sono difficili da emendare gli zelanti del gusto della pietrificazione hanno amato in ogni tempo scrivere su 115 questo bronzo imperituro ogni genere di regole e restrizioni; le quali, se essi avessero avuto un briciolo d’umiltà verso l’avvenire, non avrebbero dovuto essere più permanenti di una legge ordinaria. Nelle nostre opinioni entra largamente il pregiudizio sul tempo. Per un individuo un’istituzione esistita per tutta la durata della sua vita cosciente fa parte dell’assetto permanente dell’universo: per un altro è effimera. Il tempo geologico è molto diverso dal tempo biologico. Il tempo sociale è il più complesso di tutti. Lo statista deve decidere se i suoi calcoli debbano essere a immediata o a lunga scadenza. Alcune decisioni vanno prese sulla base di quello che accadrà nelle due prossime ore; altre su quello che accadrà entro una settimana, un mese, una stagione, un decennio, quando i figli o i nipoti saranno adulti. Gran parte della saggezza sta nella capacità di individuare il concetto di tempo connaturato al problema che si sta affrontando. Tra il sognatore che ignora il presente, e il filisteo che non vede altro, c’è tutta una gamma di persone che impiegano un concetto erroneo del tempo. Un’autentica scala di valori implica un senso molto acuto dei tempi corrispondenti. In qualche modo si deve pur concepire il tempo lontano, il passato e il futuro. Ma, come dice James, «della lunga durata non abbiamo un senso diretto di “percezione”»2. Il periodo più lungo che immediatamente percepiamo è quello che viene chiamato il «presente apparente». Esso, secondo Titchener, dura circa sei secondi3. Tutte le impressioni comprese in questo periodo di tempo ci sono compresenti. Ciò rende possibile la percezione di mutamenti e di fatti nonché di oggetti stazionari. Il presente percettivo è integrato dal presente ideativo. Grazie alla combinazione di percezioni e immagini mnemoniche, giorni, mesi, e persino anni interi del passato vengono a fondersi nel presente. In questo presente ideativo, la vivezza, come diceva James, è proporzionale al numero di distinzioni che percepiamo al suo interno. Così una vacanza in cui ci annoiavamo, perché non avevamo nulla da fare, passa lentamente mentre è in atto, ma sembra brevissima nella memoria. L’attività intensa uccide rapidamente il tempo, ma la sua durata è lunga nella memoria. James ha scritto un brano interessante sul rapporto tra la nostra capacità di distinzione e il nostro senso del tempo4: Abbiamo ogni ragione di credere che le creature possono differire enormemente nelle quantità di durata di tempo che avvertono intuitivamente, e nella distinzione dei fatti che possono riempirla. Von Baer si è dato ad alcuni interessanti calcoli sull’effetto di tali differenze nel mutare l’aspetto della natura. Immaginiamo di essere capaci, nel giro di un secondo, di notare distintamente diecimila fatti, invece 116 di solo dieci, come succede adesso5; se la nostra vita fosse destinata a ritenere un ugual numero di impressioni, potrebbe anche essere mille volte più breve. Vivremmo quindi meno di un mese, e personalmente non sapremmo del mutamento delle stagioni. Se nascessimo in inverno, crederemmo all’estate come oggi crediamo ai calori dell’era carbonifera. I movimenti degli esseri organici sarebbero così lenti per i nostri sensi da essere arguiti, non visti. Il sole sarebbe immobile in cielo, la luna sarebbe quasi senza mutamento, e così via. Ma ora facciamo l’ipotesi inversa, e supponiamo che un essere avverta solo un millesimo delle sensazioni da noi avvertite in un determinato tempo, e di conseguenza viva mille volte più a lungo di noi. Inverni ed estati sarebbero per lui come quarti d’ora. I funghi e le piante a rapida crescita matureranno così velocemente da apparire creazioni istantanee; gli arbusti annuali sorgeranno e spariranno dalla terra come fonti inquiete di acqua bollente; i movimenti degli animali saranno invisibili, come ci sono invisibili i movimenti delle pallottole e delle palle di cannone; il sole solcherà il cielo come una meteora, lasciando una traccia di fuoco dietro di sé. 5. Nel suo Outline of History Wells ha fatto uno sforzo coraggioso per rendere chiaro «il vero rapporto tra il tempo storico e quello geologico»1. Su una scala che rappresenta il tempo intercorso tra Colombo e noi in tre pollici di spazio, il lettore dovrebbe percorrere cinquantacinque piedi per arrivare all’epoca di chi ha istoriato le caverne di Altamira, cinquecentocinquanta piedi per vedere i primi uomini di Neanderthal, un miglio all’incirca per incontrare l’ultimo dinosauro. Una cronologia più o meno precisa non si ha fino a dopo il mille avanti Cristo, e a quell’epoca «Sargon I dell’impero degli Accadi-Sumeri era un ricordo remoto, […] più remoto di quanto non sia Costantino il Grande dal mondo d’oggi […] Ammurabi era morto da mille anni […] Stonehenge, in Inghilterra, esisteva già da mille anni». Wells scriveva con un intento preciso. «Nel breve periodo di diecimila anni queste unità (in cui gli uomini si sono associati) sono passate dalla piccola tribù familiare della prima civiltà neolitica agli estesi regni unificati – estesi ma ancor troppo piccoli e parziali – del tempo presente». Mutando la prospettiva temporale verso gli attuali problemi, Wells sperava di mutare la prospettiva morale. Purtuttavia la misura astronomica del tempo, quella geologica, quella biologica, qualsiasi misura telescopica che minimizzi il presente non è «più vera» di una misura microscopica. Simeon Strunsky ha ragione quando insiste che se Wells ha in mente il suo sottotitolo, il «Probabile Futuro dell’Umanità», allora ha diritto a chiedere un indeterminato numero di secoli per addivenire alla sua 117 soluzione. Se invece pensa di salvare questa civiltà occidentale, vacillante per effetto della grande guerra, deve ragionare in termini di decenni o ventenni2. Dipende tutto dallo scopo pratico per cui si adotta la misura. Ci sono situazioni in cui occorre allungare la prospettiva temporale, e altre in cui occorre abbreviarla. Colui che dice che non importa se quindici milioni di cinesi muoiono per una carestia, dal momento che nello spazio di due generazioni la natalità compenserà la perdita, ha usato una prospettiva temporale per giustificare la propria inerzia. La persona che vede come misero un sano giovanotto, perché emotivamente troppo impressionata da uno stato contingente di disagio, ha perso il senso della durata della vita del mendicante. Il popolo che per amore della pace immediata è disposto a tacitare un impero aggressivo, indulgendo ai suoi appetiti, consente a un presente ingannevole di interferire nella pace dei suoi figli. Il popolo che non avrà pazienza con un vicino fastidioso, che vuol portare tutto a uno showdown, non è meno vittima di un presente ingannevole. Il calcolo corretto del tempo entra in quasi tutti i problemi sociali. Supponiamo, ad esempio, che si ponga una questione di legname. Alcuni alberi crescono più rapidamente di altri. In questo caso una sana politica forestale è quella per cui la quantità di alberi di ogni specie e di ogni età, tagliata ad ogni stagione, venga rimpiazzata. Nella misura in cui questo calcolo è giusto, si ottiene la massima economia: tagliare meno è uno spreco, e tagliare di più è sfruttamento. Ma può venire un momento d’emergenza, mettiamo il bisogno di abete rosso per aeroplani, creato da una guerra, per cui la misura annuale dev’essere superata. Un governo attento se ne renderà conto, e considererà il ripristino dell’equilibrio come un impegno per il futuro. Il carbone implica una teoria del tempo diversa, perché il carbone, a differenza dell’albero, è prodotto al ritmo del tempo geologico. La provvista è limitata. Perciò una giusta politica sociale comporta complicati calcoli delle risorse mondiali disponibili, delle possibili dichiarate, dell’attuale tasso di impiego, dell’attuale economia di impiego, e dei combustili alternativi. Ma quando questo calcolo è stato compiuto, deve poi essere quadrato con un standard ideale in cui è incluso il tempo. Supponiamo, ad esempio, che i tecnici arrivino alla conclusione che gli attuali combustibili vanno esaurendosi a un certo ritmo; che se non vengono scoperte nuove fonti, l’industria entrerà in una fase di contrazione in un preciso momento dell’avvenire. Dovremo allora determinare quanta parsimonia e quanti sacrifici saranno necessari, dopo aver realizzato tutte le economie possibili, per non derubare i posteri. Ma chi considereremo 118 posteri? I nostri nipoti? I nostri pronipoti? Forse, se ci renderemo conto subito della necessità, decideremo di calcolare sulla base di cent’anni, giudicandoli un ampio periodo di tempo per la scoperta di altri combustibili. Le cifre, naturalmente, sono ipotetiche, ma facendo questo calcolo applicheremo le conoscenze che possediamo. Daremo così al tempo sociale il suo posto nell’opinione pubblica. Immaginiamo ora un caso in qualche modo diverso: un contratto tra un municipio e un’azienda tranviaria. L’azienda dichiara che non investirà il suo capitale se non le verrà garantito per novantanove anni il monopolio delle strade principali. Nella mente di coloro che fanno questa richiesta novantanove anni sono come dire «per l’eternità». Ma supponiamo che vi sia ragione di credere che le tranvie in superficie, alimentate da una centrale elettrica e correnti su binari, siano destinate a passare di moda nel giro di vent’anni. Allora sarebbe un pessimo contratto, che virtualmente condannerebbe una generazione futura a un trasporto pubblico di qualità inferiore. Se sottoscrivono un tale contratto i rappresentanti del municipio dimostrano di non avere un senso preciso di che cosa siano novantanove anni. Molto meglio dare adesso una sovvenzione all’azienda, per invogliare il capitale, piuttosto che stimolare l’investimento indulgendo a un senso fallace di eternità. Nessun rappresentante municipale e nessun rappresentante di azienda ha il senso del tempo reale quando parla di novantanove anni. La storia come viene vista dal popolo è il regno delle confusioni sul tempo. Per l’inglese medio, ad esempio, la condanna di Cromwell, la corruzione dell’Act of Union, la carestia del 1847, sono torti subiti da persone morte da molto tempo, e commessi da protagonisti anch’essi morti da parecchio tempo, con cui nessuna persona vivente, irlandese o inglese, ha alcun reale rapporto. Ma nella mente di un patriota irlandese questi stessi fatti sono quasi contemporanei, la sua memoria è come uno di quei dipinti storici in cui Virgilio e Dante siedono fianco a fianco a conversare. Queste prospettive e questi scorci costituiscono una grande barriera tra i popoli. È molto difficile per una persona attaccata a una tradizione ricordare che cosa sia contemporaneo nella tradizione di un’altra. Quasi nulla di ciò che va sotto il nome di Diritti Storici o Torti Storici può considerarsi una visione veramente obiettiva del passato. Prendiamo, ad esempio, la disputa franco-tedesca sull’Alsazia-Lorena. Tutto dipende dalla data che si sceglie. Se si parte dai Rauraci e dai Sequi, le terre storicamente fanno parte dell’antica Gallia. Se si preferisce Enrico I, sono storicamente territorio tedesco; se si prende il 1273, appartengono alla Casa d’Austria; se si prendono il 1648 e la pace di Westfalia sono per la 119 maggior parte francesi; se si prende Luigi XIV e l’anno 1688 sono quasi completamente francesi. Se si ricorre all’argomento storico, quasi sicuramente si sceglieranno quelle date del passato che appoggiano l’opinione che si ha a proposito di quello che si deve fare adesso. Le discussioni sulle «razze» e sulle «nazionalità» tradiscono spesso la stessa visione arbitraria del tempo. Durante la guerra, sotto l’influsso di fortissime emozioni, la differenza tra «teutoni» da una parte e «anglosassoni» e francesi dall’altra, veniva ritenuta comunemente una differenza eterna; erano sempre state razze in conflitto. Eppure, una generazione addietro, storici come Freeman mettevano in risalto la comune origine teutonica dei popoli dell’Europa occidentale, e gli etnologi certamente sosterrebbero che i tedeschi, gli inglesi, e la maggior parte dei francesi sono ramificazioni di quello che un tempo fu un ceppo unico. La regola generale è questa: se si prova simpatia oggi per un popolo, si riportano le ramificazioni al tronco; se si ha antipatia, si sostiene che le distinte ramificazioni sono in realtà distinti ceppi. Nel primo caso si concentra l’attenzione sul periodo in cui non erano distinguibili; nel secondo, sul periodo nel quale hanno cominciato a distinguersi. E il modo di vedere corrispondente allo stato d’animo viene assunto come la «verità». Una divertente variante è l’albero genealogico. Di solito una coppia viene designata come «i capostipiti»; possibilmente una coppia legata ad un avvenimento che dà lustro, come la Conquista Normanna. Questa coppia non ha antenati. Non sono discendenti di nessuno. Ma in realtà erano discendenti di antenati, e l’espressione che il tal dei tali è stato il fondatore di questo casato significa non che egli è l’Adamo della sua famiglia, ma che egli è quel particolare antenato da cui è opportuno cominciare, o magari l’antenato più remoto di cui si abbia notizia. Ma le tavole genealogiche rivelano un pregiudizio più profondo: a meno che la linea femminile non sia particolarmente rimarchevole, la discendenza passa attraverso i soli maschi. L’albero è maschile; in certi momenti le femmine si aggiungono ad esso come api vaganti si posano su un antico melo. 7. È il futuro però il tempo più ingannevole di tutti. Qui la nostra tentazione è di saltare certi passi necessari alla successione; e, dal momento che siamo governati dalla speranza o dal dubbio, di esagerare o di minimizzare il tempo occorrente a completare le varie parti di un 120 percorso. La discussione del ruolo esercitabile dai dipendenti nella direzione dell’industria è irta di difficoltà di questo tipo. Infatti la direzione è una parola che abbraccia molte funzioni1. Alcune non richiedono alcuna preparazione; altre richiedono un po’ di preparazione; altre ancora si possono imparare solo nel corso di una vita. E il programma veramente giudizioso di democratizzazione industriale sarebbe quello fondato sui tempi adatti, cosicché l’assunzione di responsabilità procedesse parallelamente a un programma complementare di preparazione tecnica. La proposta di un’immediata dittatura del proletariato è un tentativo di saltare il tempo intermedio della preparazione; l’opposizione a ogni forma di partecipazione alla responsabilità è un tentativo di negare il mutamento nel tempo delle capacità umane. I concetti primitivi della democrazia, come quello dell’avvicendamento nelle cariche, e del disprezzo per l’esperto, non sono altro che il vecchio mito che la Dea della Saggezza sia balzata fuori matura e armata di tutto punto dalla fronte di Giove. Queste idee presuppongono che non occorra affatto imparare quello che richiede anni per essere imparato. La concezione del tempo è un elemento decisivo ogniqualvolta la frase «gente arretrata» viene usata a fondamento di una politica. Il patto sociale della Società delle Nazioni dichiara2, ad esempio, che «il carattere del mandato deve differire a seconda dello stadio di sviluppo della popolazione», nonché per altre ragioni. Certe collettività, afferma, «hanno raggiunto uno stadio di sviluppo» in cui si può riconoscere provvisoriamente la loro indipendenza, fatta eccezione per quei consigli e quell’assistenza che saranno necessari «fintantoché non saranno in grado di reggersi da sole». Il modo in cui i paesi mandatari e quelli sotto mandato concepiscono questo periodo di tempo influirà profondamente sui loro rapporti. Così nel caso di Cuba il giudizio del governo americano ha coinciso praticamente con quello dei patrioti cubani, e sebbene ci siano stati dei disordini, non c’è forse pagina più bella nella storia dell’atteggiamento tenuto dalle grandi potenze verso le piccole. In questa storia spesso le valutazioni non hanno coinciso. Quando il popolo imperiale, a prescindere dalla sua espressione ufficiale, si è profondamente convinto che l’arretratezza del popolo arretrato è così ostinata da non valer la pena d’un rimedio, o così vantaggiosa da rendere inopportuno un rimedio, il rapporto tra i due è sempre degenerato, avvelenando la pace del mondo. Si sono avuti pochi casi, pochissimi, in cui l’arretratezza abbia significato per la potenza dominante la necessità di un programma di avanzamento,un programma con regole definite e precise valutazioni temporali. Molto più spesso, in realtà tanto spesso da sembrare la regola, 121 l’arretratezza è stata concepita come un marchio di inferiorità intrinseco ed eterno. E allora ogni tentativo di essere meno arretrati è stato accolto come quella sedizione che, in queste condizioni, esso indubbiamente è. Nei nostri stessi conflitti razziali possiamo constatare alcuni dei risultati dell’incapacità di capire che il tempo avrebbe gradualmente cancellato il costume servile dei neri, e che l’adattamento sociale fondato su questo costume avrebbe cominciato a sgretolarsi. È difficile non immaginarsi il futuro come se obbedisse ai nostri fini attuali, non annullare tutto ciò che rimanda l’attuazione di ciò che desideriamo, o non rendere immortale tutto ciò che sta tra noi e i nostri timori. 8. Nel mettere insieme le nostre opinioni pubbliche, dobbiamo non solo immaginare più spazio di quello che vediamo con i nostri occhi, e più tempo di quello che possiamo percepire, ma dobbiamo descrivere e giudicare più individui, più azioni, più cose di quante possiamo mai contare o immaginare con chiarezza. Dobbiamo al tempo stesso sintetizzare e generalizzare; dobbiamo trascegliere campioni, e trattarli come tipici. Scegliere bene un buon campione di un grande universo non è facile. È un problema di scienza della statistica, ed è una faccenda estremamente difficile per coloro la cui matematica è primitiva, e la mia resta azoica nonostante la mezza dozzina di manuali che una volta piamente mi illudevo di aver capito. Tutto quello che sono riusciti a darmi è una maggiore consapevolezza di quanto sia difficile classificare e campionare, della facilità con cui spalmiamo un po’ di burro sull’intero universo. Qualche tempo fa un gruppo di assistenti sociali di Sheffield, in Inghilterra, si mise in testa di sostituire un quadro preciso dell’equipaggiamento mentale degli operai di quella città all’immagine impressionistica che se ne erano formati. Intendevano dire, sulla base di qualche fatto concreto, quale fosse questo equipaggiamento. Scoprirono, come noi tutti scopriamo nel momento in cui non ci abbandoniamo alla prima impressione, di essere assediati dalle complicazioni. Del test che impiegarono non occorre dire qui se non che si trattava di un ampio questionario. Per comodità immaginiamo che le domande costituissero un buon test dell’equipaggiamento mentale utile alla vita urbana inglese. In teoria, allora, si sarebbero dovute porre queste domande a ciascun membro della classe operaia. Ma non è facile sapere chi sono i lavoratori. E tuttavia 122 immaginiamoci pure che l’ufficio del censimento sappia identificarli. C’erano dunque all’incirca centoquattromila uomini e centosettemila donne che avrebbero giustificato o confutato le frasi occasionali sugli «operai ignoranti» o sugli «operai intelligenti», ma nessuno poteva sognarsi di interrogarli tutti e duecentomila. Perciò gli assistenti sociali consultarono un eminente statistico, il professor Bowley. Il suo parere fu che un buon campione avrebbe dovuto comprendere non meno di 408 uomini e 408 donne. Secondo i calcoli matematici, questo numero non avrebbe presentato deviazioni dalla media superiori a un ventiduesimo. Dovevano interrogare perciò almeno 816 persone prima di poter pretendere di parlare dell’operaio medio. Ma a quali 816 persone avrebbero dovuto rivolgersi? Avremmo potuto raccogliere informazioni sugli operai a cui uno o l’altro di noi aveva accesso già prima dell’inchiesta; avremmo potuto operare attraverso signori e signore dediti alla filantropia che fossero in contatto con certi gruppi di operai in un circolo, in una missione, in un ambulatorio, in una chiesa, in un centro sociale. Ma un tale metodo di selezione avrebbe dato risultati assolutamente senza valore. Gli operai così prescelti non sarebbero stati in alcun modo rappresentativi di ciò che comunemente si dice «il lavoratore normale»; avrebbero rappresentato solo i gruppetti a cui appartenevano. Il modo giusto di procurarsi «vittime», al quale ci siamo rigorosamente attenuti con un immenso investimento di tempo e di fatica, è quello di trovare gli operai con un qualche sistema «neutrale» o «casuale». Così fecero. E dopo tutte queste precauzioni non approdarono a una conclusione più precisa di questa: che sulla base della loro classificazione, e secondo il loro questionario, tra i 200 000 operai di Sheffield «circa un quarto» erano «ben equipaggiati», «quasi tre quarti» erano «inadeguatamente equipaggiati», e che «un quindicesimo circa» erano «mal equipaggiati». Si paragoni questo metodo coscienzioso e quasi pedante di arrivare a un’opinione con i nostri soliti giudizi a proposito di masse di persone: sugli irlandesi volubili, e sui francesi logici, e sui tedeschi disciplinati, e sugli slavi ignoranti, e sui cinesi onesti, e sui giapponesi infidi, e via dicendo. Tutte queste sono generalizzazioni tratte da campioni, ma i campioni vengono scelti con un metodo che statisticamente è del tutto inaccettabile. Così il datore di lavoro giudicherà la manodopera dal dipendente più importuno che conosce, oppure dal più docile, e molti gruppetti estremisti si sono figurati di essere un buon campione della classe operaia. Quante opinioni femminili sulla «questione delle domestiche» sono poco più che il riflesso del trattamento fatto alle proprie 123 domestiche da chi le esprime? La tendenza della mente non scientifica è di trascegliere o imbattersi in un campione che rafforza o sfida i suoi pregiudizi, e poi di assumerlo a rappresentativo di tutta una categoria. Un bel po’ di confusione sorge allorché gli individui rifiutano di classificarsi come noi li abbiamo classificati. La profezia sarebbe molto più facile, solo che essi restassero dove li abbiamo messi. Ma in realtà un’espressione come la classe operaia abbraccerà solo una parte della verità, e per una parte del tempo. Quando si prendono tutte le persone che stanno al di sotto di un certo livello di reddito, e le si chiama la classe operaia, non si può fare a meno di presumere che le persone così classificate si comporteranno secondo le stereotipo che si ha. Chi siano precisamente queste persone non si è affatto certi. Gli operai dell’industria e i minatori ci rientrano più o meno, ma i salariati agricoli, i piccoli coltivatori diretti, i venditori ambulanti, i piccoli esercenti, i commessi, i domestici, i soldati, i poliziotti, i pompieri sfuggono alla rete. La tendenza, quando ci si rivolge alla «classe operaia», è di concentrare l’attenzione sui due o tre milioni più o meno accertati di iscritti ai sindacati, e di trattarli come se fossero i Lavoratori; agli altri diciassette o diciotto milioni di individui che statisticamente farebbero anch’essi parte di questa categoria, viene tacitamente attribuito il punto di vista che si suppone abbia il nucleo organizzato. Quanto è stato ingannevole, nel 1918-21, attribuire alla classe operaia inglese il punto di vista espresso nelle risoluzioni del Trades Union Congress, e negli opuscoli scritti da intellettuali! Lo stereotipo della Classe Operaia come Emancipatrice sceglie i dati che lo sostengono e rigetta gli altri. E così, parallelamente ai movimenti reali dei lavoratori, esiste una finzione del Movimento Operaio, in cui una massa idealizzata muove verso una meta ideale. La finzione si rivolge al futuro poiché nel futuro le possibilità sono quasi indistinguibili dalle probabilità e così le probabilità dalle certezze. Se il futuro è abbastanza lungo, la volontà umana potrebbe trasformare quello che è appena concepibile in ciò che è assai probabile in ciò che per forza si avvererà. James chiamava tutto questo la scala della fede, e diceva che «è una collina di buona volontà su cui, per quanto riguarda le grandi questioni della vita, gli uomini abitualmente vivono»1. 1. Non vi è nulla di assurdo nel ritenere veritiera una certa visione del mondo. 2. Avrebbe potuto essere vera sotto certe condizioni; 3. Può essere vera anche ora. 4. È degna d’essere vera. 5. Dovrebbe essere vera. 124 6. Deve essere vera. 7. Sarà vera, in ogni caso sarà vera per me. E, come si espresse in altro luogo2, «l’agire in questo modo può essere, in certi casi particolari, il mezzo per rendere il fatto sicuramente vero alla fine». Tuttavia nessuno più di lui avrebbe insistito che, per quanto dipende da noi, dobbiamo evitare di sostituire la meta al punto di partenza, dobbiamo evitare di riportare al presente ciò che il coraggio, lo sforzo e la capacità potrebbero creare nel futuro. Eppure questa verità lapalissiana è smisuratamente difficile come regola di vita, perché ognuno di noi è assai poco preparato alla scelta dei propri campioni. Se crediamo che una certa cosa dovrebbe essere vera, possiamo sempre trovare un caso in cui è vera, oppure qualcuno che crede che dovrebbe essere vera. È arduo, quando un fatto reale illustra una speranza, dare a quel fatto il suo giusto peso. Quando le prime sei persone che incontriamo sono d’accordo con noi, non è facile ricordare che possono avere tutte quante letto lo stesso giornale a colazione. E tuttavia non possiamo inviare un questionario a 816 campioni scelti a caso ogni volta che desideriamo valutare una probabilità. Nel maneggiare una gran massa di fatti dobbiamo presumere di non aver scelto dei veri campioni, se agiamo sull’impressione del momento. 9. E quando tentiamo di fare un passo più in là, per cercare le cause e gli effetti di questioni complicate e lontane, l’opinione casuale gioca degli scherzi. Ci sono ben pochi grossi problemi, nella vita pubblica, in cui la causa e l’effetto siano immediatamente evidenti. Non sono ovvi nemmeno agli occhi di studiosi che hanno dedicato anni, poniamo, a studiare i cicli economici, o le fluttuazioni dei prezzi e dei salari, o la migrazione e l’assimilazione dei popoli, o le mire diplomatiche delle potenze straniere. Eppure in qualche modo si presume che si abbia tutti delle opinioni su questi problemi, e non è affatto sorprendente che la forma più comune di ragionamento sia quella intuitiva: post hoc ergo propter hoc. Quanto più una mente è interpretata, tanto più facilmente elabora la teoria per cui due cose che attraggono la sua attuazione contemporaneamente sono in rapporto causale. Ci siamo già soffermati a lungo sul modo in cui le cose colpiscono la nostra attenzione. Abbiamo visto che il nostro accesso all’informazione è ostruito e incerto, e che la nostra percezione è profondamente controllata dai nostri stereotipi; che le 125 prove che si offrono alla nostra ragione sono soggette a illusioni di difesa, prestigio, moralità, spazio, tempo e campionamento. Ora è il caso di notare che le opinioni pubbliche, dopo questo vizio iniziale, incontrano ulteriori limitazioni, perché in una serie di fatti visti per lo più attraverso degli stereotipi siamo pronti a considerare una successione o un parallelismo come un rapporto di causa ed effetto. È tanto più probabile che questo accada quando due idee, che sorgono contemporaneamente, suscitano lo stesso sentimento. Se sorgono insieme è probabile che suscitino lo stesso sentimento; e anche quando non arrivano insieme è probabile che il forte sentimento connesso a una di loro risucchi dagli angoli della memoria tutte le idee che abbiano un tono sentimentale più o meno eguale. Così tutto ciò che è doloroso tende a connettersi in un sistema di causa ed effetto, e lo stesso accade a tutto ciò che è piacevole. 11 novembre 1675. Quest’oggi sento che Dio ha scoccato un dardo nel centro di questo Paese. Il vaiolo è in un esercizio all’insegna del Cigno, il nome dell’oste dell’esercizio è Windsor. La figlia di costui è colpita dal male. È da osservare che questo male comincia in un’osteria, a testimoniare il dispiacere di Dio per il peccato dell’ubriachezza e per il moltiplicarsi delle osterie!1 Così scriveva Increase Mather, e così nell’anno 1919 scriveva un noto professore di Meccanica Celeste a proposito della teoria di Einstein: «Può ben essere che […] le insurrezioni bolsceviche siano in realtà le manifestazioni visibili di un qualche profondo disturbo mentale sottostante, di carattere mondiale […] questo stesso spirito di inquietudine ha invaso la scienza»2. Quando odiamo violentemente una cosa, noi facilmente le associamo come causa o effetto la maggior parte delle altre cose che odiamo o temiamo violentemente. Possono esser non più legate tra loro di quanto lo siano il vaiolo o le osterie, o la relatività e il bolscevismo, ma sono avvinte nella stessa emozione. In una mente superstiziosa, come quella del professore di Meccanica Celeste, il sentimento è un flusso di lava fusa che travolge e incorpora tutto ciò che trova sulla sua strada. Quando vi si scava dentro si trova, come in una città sepolta, ogni genere di cose buffamente intrecciate. Ogni cosa può essere messa in rapporto a ogni altra cosa, purché desti lo stesso sentimento. E una mente che si trovi in questo stato non può rendersi conto di quanto ciò sia assurdo. Antiche paure, rafforzate da paure più recenti, si coagulano in un viluppo di paure, dove ogni cosa che si paventa è la causa di ogni altra cosa che si paventa. Di solito tutto ciò culmina nell’edificazione di un sistema del male, e di un altro, che è il sistema del bene; allora si rivela il nostro amore 126 dell’assoluto. Infatti non abbiamo simpatia per gli avverbi che qualificano e limitano3, poiché ingombrano le frasi, e ostacolano il sentimento irresistibile. Preferiamo massimo e maggiore, minimo e minore, non ci garbano le parole come piuttosto, forse, se, oppure, ma, verso, non del tutto, quasi, temporaneamente, parzialmente. E tuttavia quasi tutte le opinioni sulle questioni pubbliche hanno bisogno di un ridimensionamento di questo genere, ma quando non ci controlliamo, tutto tende a comportarsi in modo assoluto: cento per cento, dappertutto, per sempre. Non basta dire che la nostra parte ha più ragione di quella avversaria, che la nostra vittoria gioverà alla democrazia più della sua. Si deve pretendere che la nostra vittoria porrà fine per sempre alla guerra, e salverà il mondo alla democrazia. E quando la guerra è finita, pur avendo abbattuto un male maggiore di quelli che ancora ci affliggono, la relatività del risultato svanisce, l’assolutezza del male presente sopraffà il nostro spirito, e ci sembra di essere impotenti perché non siamo stati irresistibili. Il pendolo oscilla tra l’onnipotenza e l’impotenza. Lo spazio reale, il tempo reale, le quantità reali, le responsabilità reali vanno perduti. La prospettiva e lo sfondo e le dimensioni dell’azione vengono ritagliati e congelati nello stereotipo. 1 Cfr., ad esempio, E. Locard, L’enquête criminelle et les méthodes scientifiques, Flammarion, Paris 1920. Negli ultimi anni è stato raccolto parecchio materiale interessante sulla credibilità del testimone, ed esso dimostra, come dice un acuto recensore del libro del dottor Locard nel supplemento letterario del «Times» di Londra del 18 agosto 1921, che la credibilità varia a seconda delle categorie di testimoni e delle categorie di avvenimenti e anche a seconda del tipo di percezione. Così le percezioni tattili, olfattive e gustative servono poco ai fini della testimonianza. Il nostro udito è difettoso e arbitrario quando giudica la fonte e la direzione del suono, e nell’ascoltare la conversazione di altre persone «le parole che non vengono udite verranno fornite in perfetta buona fede dal testimone. Avrà una sua opinione a proposito del senso della conversazione, e organizzerà i suoni che ha udito in modo che vi si accordino». Anche le percezioni visive vanno soggette a gravi errori di identificazione, di riconoscimento, di valutazione della distanza, di valutazione quantitativa, come ad esempio l’entità di una folla. Il senso del tempo dell’osservatore comune varia molto. Tutte queste debolezze originarie vengono poi complicate dagli scherzi della memoria e dall’incessante creatività dell’immaginazione. Cfr. anche C. S. Sherrington, The Integrative Action of the Nervous System, Constable and Co., London 1906, pp. 318-27. Il professor Hugo Münsterberg ha scritto su questo argomento un libro di successo, intitolato On the Witness Stand. 2 James, Principles of Psychology cit., I, p. 488. 3 J. Dewey, Come pensiamo, a cura di A. Guccione Monroy, La Nuova Italia, Firenze 1961, pp. 221-2; ed. or. How We Think, D. C. Heath & Co., Boston 1910, p. 121. 127 Ibid., pp. 247-8; ed. or. p. 133. 5 A. Van Gennep, La formation des légendes, Flammarion, Paris 1910, pp. 158-9 (trad. it. Le origini delle leggende. Una ricerca sulle leggi dell’immaginario, trad. di V. Cucchi, Xenia, Milano 1992, pp. 108-9). Citato da F. van Langenhove in The Growth of a Legend, G. P. Putnam’s sons, New York-London 1916, pp. 120-2 (ed. or. Comment naît un cycle de légendes. Franc-tireurs et atrocités en Belgique, Paris 1916). 6 B. Berenson, The Central Italian Painters of the Renaissance, G. P. Putnam’s sons, New York-London 1909, pp. 60 sgg.; trad. it. I pittori italiani del Rinascimento, Hoepli, Milano 19422. 7 Si veda anche il suo commento su Le immagini visive di Dante, e i suoi primi illustratori. «Noi non possiamo fare a meno di vestire Virgilio come un romano antico, e di dargli un “profilo classico” e un “portamento statuario”, ma l’immagine visiva che Dante aveva di Virgilio era probabilmente non meno medievale, non più basata su una ricostruzione critica dell’antichità, di quanto lo fosse tutta la concezione del poeta romano. Gli illustratori del Trecento danno a Virgilio l’aspetto di un dotto medievale, e non c’è motivo per cui l’immagine visiva che ne aveva Dante dovesse essere diversa da questa». B. Berenson, The Study and Criticism of Italian Art, G. Bell and sons, London 1920, prima serie, p. 13. 8 Id., The Central Italian Painters cit., pp. 66-7. 1 Citato da E. H. Bierstadt, in «New Republic», 1° giugno 1921, p. 21. 1 Nel testo: «He is from Back Bay»: area di Boston nella quale erano concentrati gli wasp [n.d.t.]. 1 Wallas, Our Social Heritage cit., p. 17. 1 A. E. Zimmern, Greek Commonwealth politics and economics in fifth century Athens, The Clarendon Press, Oxford 1915, p. 383, nota; trad. it. Il commonwealth greco. Politica ed economia nell’Atene del V secolo, Il Saggiatore, Milano 1967. 2 Aristotele, Politica, 1. I, cap. V, trad. it. di R. Laurenti, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 11-2. 1 Van Langehove, The Growth of a Legend cit. L’autore è un sociologo belga. 2 Ibid., pp. 5-7. 3 Erzberger è stato assassinato dopo che queste pagine erano state scritte. 1 Purtroppo è molto più difficile conoscere questa cultura reale che riassumere e commentare le opere del genio. La cultura reale vive in persone troppo occupate per indulgere alla strana occupazione di formulare le proprie convinzioni. Solo occasionalmente si danno la cura di registrarle, e lo studioso ben di rado può sapere quanto siano tipici i suoi dati. Forse la miglior cosa da fare è quella di seguire il suggerimento di Lord James Bryce (Modern Democracies, Macmillan, New York 191, I, p. 158; trad it. Democrazia motraduzione dovutaderna, Mondadori, Milano 1949): muoversi cioè liberamente «tra tutte le specie e le classi di uomini» per cercare in ogni ambiente quelle persone prive di pregiudizi che abbiano la capacità di dare valutazioni. «C’è un fiuto che solo la lunga pratica e un atteggiamento di simpatia riescono a donare. L’osservatore esperto impara a trarre profitto da piccole indicazioni, proprio come il vecchio marinaio distingue, prima dell’uomo di terraferma, le avvisaglie dell’imminente tempesta». C’è, in breve, una forte componente intuitiva, e non sorprende che gli studiosi amanti della precisione limitino tanto spesso il loro interessamento alle formulazioni di altri studiosi, che appaiono più chiare della realtà. 4 128 Literary Supplement del «Times» di Londra, 2 giugno 1921, p. 352. Il professor Einstein ha dichiarato nel 1921 in America che la gente tendeva a sopravvalutare l’influenza della sua teoria, e a sottovalutarne la certezza. 3 J. B. Bury, The Idea of Progress, Macmillan and Co., London 1920, p. 324. 4 H. T. Tennyson, Alfred Lord Tennyson; A Memoir by His Son, Macmillan, New York 1899, I, p. 195. Citato da Bury, The Idea of Progress cit., p. 326. 1 Penso al trasporto e all’approvvigionamento di due milioni di soldati al di là dell’oceano. Il professor Wesley Mitchell fa notare che il volume della produzione totale di beni dopo la nostra entrata in guerra non superò di molto quello dell’anno 1916; invece la produzione bellica fu molto superiore. 1 G. B. Shaw, Back to Methuselah. A metabiological pentateuch, Brentano’s, New York 1921 (trad. it. Torniamo a Matusalemme, Mondadori, Milano 1960), prefazione. 2 Id., The Quintessence of Ibsenism, Brentano’s, New York 1913; trad. it. La quintessenza dell’Ibsenismo, Monanni, Milano 1928. 1 The Letters of ‘William James Edited by His Son, Henry James, The Atlantic Monthly Press, Boston 1920, I, p. 65. 1 Cfr. Two Years of Conflict on the Internal Front, in «New York Evening Post», 15 gennaio 1921: si tratta della traduzione dovuta a Malcom W. Davis, di un testo pubblicato a Mosca nel 1920 dalla Repubblica federale socialista sovietica russa. 1 James, Principles of Psychology cit., II, p. 300. 2 Si veda in questo senso l’intervista di Charles Grasty con il Maresciallo Foch sul «New York Times» del 26 febbraio 1918. «La Germania marcia attraverso la Russia. L’America e il Giappone, che sono in grado di farlo, dovrebbero andarle incontro in Siberia». Si vedano anche la risoluzione del senatore King dell’Utah, del 10 giugno 1918, la dichiarazione di Taft sul «New York Times» dell’11 giugno 1918, e l’appello rivolto all’America il 5 maggio 1918 da A. J. Sack, direttore del Russian Information Bureau: «Se la Germania si trovasse al posto degli alleati […] entro un anno farebbe combattere un esercito di tre milioni sul fronte orientale». 1 The Letters of William James cit., I, p. 6. 2 James, Principles of Psychology cit., I, p. 638. 3 Citato da H. C. Warren, Human Psychology, Houghton Mifflin, Boston-New York 1922, p. 255. 4 James, Principles of Psychology cit., I, p. 639. 5 Nel cinema questo effetto è ottimamente raggiunto dalla macchina da ripresa ultrarapida. 1 H. G. Wells, The Outline of History, Macmillan, New York 1920, II, p. 605. Cfr. anche J. H. Robinson, The New History. Essays illustrating the Modern Historical Outlook, Macmillan, New York 1912, p. 239. 2 In una recensione di The Salvaging of Civilization, in «The Literary Review of the New York Evening Post», 18 giugno 1921, p. 5. 1 Cfr. C. L. Goodrich, The Frontier of Control, Harcourt, Brace and Howe, New York 1920. 2 Articolo XIX. 1 W. James, Some Problems of Philosophy: a Beginning of an Introduction to Philosophy, Longmans, Green, and Co., New York 1911, p. 224. 2 Id., A Pluralistic Universe. Hibbert Lectures at Manchester College on the Present 2 129 Situation in Philosophy, Longmans, Green, and Co., New York 1909, p. 329; trad. it. Un universo pluralistico, Marietti, Genova 1973. 1 The Heart of the Puritan, a cura di E. D. Hanscom, Macmillan, New York 1917, p. 77. 2 Citato in «The New Republic», 24 dicembre 1919, p. 120. 3 Cfr. le considerazioni di Freud sull’assolutismo nei sogni, in L’interpretazione dei sogni (in Opere, III, Boringhieri, Torino 1966), cap. VI. 130 IV. Gli interessi 131 XI. Suscitare l’interesse 1. La mente umana non è una pellicola che registri una volta per sempre ogni impressione che le giunga attraverso i suoi obiettivi e le sue lenti; la mente umana è infinitamente e persistentemente creativa. Le immagini sbiadiscono o si fondono, sono messe a fuoco qui, condensate là, a misura che ce ne impadroniamo più completamente. Non giacciono inerti sulla superficie della mente, ma invece vengono rielaborate dalla facoltà poetica sino a deviare una nostra espressione personale. Decidiamo il risalto da dare e partecipiamo all’azione. Per fare questo tendiamo a personalizzare la quantità e a drammatizzare le relazioni. Gli affari del mondo vengono rappresentati come una specie di allegoria, tranne in poche menti raffinatissime. Movimenti Sociali, Forze Economiche, Interessi Nazionali, Opinione Pubblica vengono trattati come persone; oppure persone come il Papa, il Presidente, Lenin, Morgan o il Re diventano idee e istituzioni. Lo stereotipo più radicato di tutti è lo stereotipo umano che attribuisce natura umana a cose inanimate o coltivate. La straordinaria varietà delle nostre impressioni, anche dopo che siano state censurate in tutti i modi, tende a costringerci ad adottare il sistema più economico dell’allegoria. La moltitudine delle cose è talmente grande che non siamo in grado di tenerle in mente con vivezza, perciò di solito le nominiamo, e lasciamo che il nome rappresenti tutta l’impressione. Ma un nome è poroso. Vecchi significati ne scorrono via, e altri nuovi vi si infiltrano, e il tentativo di conservare il pieno significato del nome è faticoso quasi quanto quello di richiamare le impressioni originarie. Tuttavia i nomi sono una moneta debole per il pensiero, sono troppo vuoti, troppo astratti, troppo disumani. E così cominciamo a vedere il nome attraverso qualche stereotipo personale, a leggervi dentro e infine a vedervi l’incarnazione di qualche qualità umana. Ma anche le qualità umane sono vaghe e fluttuanti, il miglior modo di ricordarle è un segno fisico e perciò anche le qualità umane che tendiamo ad attribuire ai nomi delle nostre impressioni, tendono a restarci presenti 132 sotto forma di metafore fisiche. Il popolo di Inghilterra, la storia d’Inghilterra, si condensano nell’Inghilterra; e l’Inghilterra diventa John Bull, che è gioviale e grasso, non troppo intelligente, ma assai capace di difendersi. La migrazione di un popolo può parere a qualcuno come il vagare di un fiume, e ad altri come un’inondazione devastatrice. Il coraggio che gli individui mostrano può essere oggettivato in una roccia; i loro intenti possono essere visti come una strada, i loro dubbi come bivii di una strada, le loro difficoltà come solchi e pietre, il loro progresso come una fertile vallata. Se mobilitano le loro corazzate, sfoderano la spada. Se il loro esercito si arrende, sono messi a terra. Se sono oppressi, sono in croce e sotto il giogo. Quando gli affari pubblici vengono popolarizzati in discorsi, titoli di giornale, drammi, film, vignette, romanzi, statue o dipinti, la loro trasformazione in un interesse umano richiede dapprima l’astrazione dall’originale, e poi l’animazione di ciò che è stato reso astratto. Non possiamo provare molto interesse, o essere molto colpiti, dalle cose che non vediamo. Degli affari pubblici ognuno di noi vede pochissimo, e perciò rimangono tediosi e poco appetibili finché qualcuno dotato di qualità artistiche non li traduca in un film. Così l’astrazione, imposta alla nostra conoscenza della realtà da tutte le limitazioni del nostro accesso e dei nostri pregiudizi, viene compensata. Non essendo onnipresenti e onniscienti, non possiamo vedere molto di ciò di cui dobbiamo pensare e parlare. Essendo di carne e sangue, non ci nutriremo di parole e nomi e grigia teoria. Poiché siamo in un qualche modo artisti, dipingiamo quadri, allestiamo drammi, e disegniamo vignette, ricavandoli tutti dalle astrazioni. Oppure, quando è possibile, troviamo uomini dotati che sono in grado di vedere per noi. Infatti le persone non sono dotate tutte nella stessa misura di capacità figurative. Tuttavia si può, credo, affermare con Bergson che l’intelligenza pratica è più strettamente legata a qualità spaziali1. Un pensatore «lucido» è quasi sempre dotato di buone qualità visive, ma per questa stessa ragione, per il fatto che è «cinematografico», è spesso in egual misura esteriore e insensibile. Infatti le persone che hanno intuizione – la quale probabilmente è un altro nome per la percezione musicale o muscolare – spesso apprezzano la natura di un fatto, e l’essenza di un atto, molto meglio di chi ha immaginazione visiva. Comprendono di più quando l’elemento cruciale è un desiderio mai apertamente espresso, o che appare alla superficie solo in un gesto velato o in una cadenza di discorso. Con la chiarezza visiva si può cogliere lo stimolo e il risultato, ma l’intermedio e l’interno spesso vengono malamente travisati dal visivo, 133 così come l’intenzione del compositore viene messa in caricatura dall’enorme soprano che fa la parte della soave fanciulla. Ciononostante le intuizioni, pur avendo spesso una peculiare aderenza, restano in grande misura private e incomunicabili. I rapporti sociali dipendono dalla comunicazione, e se una persona può spesso condurre la sua vita con estrema eleganza, grazie alle sue intuizioni, purtuttavia di solito incontra grandi difficoltà a renderle reali agli altri. Quando ne parla, sembrano una fascia di nebbia. Infatti, mentre l’intuizione dà una più giusta percezione del sentimento umano, la ragione, con il suo pregiudizio spaziale e tattile, può ricavare ben poco da questa percezione. Perciò, quando l’azione presuppone che un certo numero di persone siano d’accordo, è probabilmente vero che in una prima istanza nessuna idea si presterà a una decisione concreta finché non ha acquistato valore visivo o tattile. Ma è anche vero che nessuna idea visiva ha un significato per noi, se prima non ha assorbito un po’ della tensione della nostra personalità. Finché essa non libera o contrasta, deprime o esalta qualche nostro desiderio, resta una cosa priva d’importanza. 2. Le immagini sono, da sempre, il modo più sicuro di trasmettere un’idea; e subito dopo, nell’ordine, le parole che richiamano alla nostra memoria delle immagini; ma l’idea trasmessa non è pienamente nostra finché non ci siamo identificati con qualche aspetto dell’immagine. L’identificazione, ovvero ciò che Vernon Lee ha chiamato empatia1, può essere sottile e simbolica quasi all’infinito. La mimica può manifestarsi senza che ne siamo consapevoli, e talvolta in un modo che farebbe inorridire quelle parti della nostra personalità su cui si fonda la stima di noi stessi. Nelle persone raffinate la partecipazione può essere rivolta non al destino dell’eroe, ma al destino di tutto il concetto al quale sono essenziali sia l’eroe che il malvagio. Nella rappresentazione popolare gli appigli per l’identificazione sono quasi sempre etichettati, si sa subito chi è l’eroe e nessuna opera può sperare di ottenere un facile successo se l’etichetta non è precisa e la scelta chiara2. Ma questo non basta. Il pubblico deve avere qualcosa da fare, e la contemplazione del vero, del buono e del bello non è qualcosa da fare. Per non restare inerte davanti all’immagine – e questo vale per l’articolo di giornale quanto per la narrativa e il cinema – il pubblico dev’essere messo in moto dall’immagine. Ora vi sono due forme di moto che superano di gran lunga tutte le altre, sia per la facilità con cui vengono suscitate, che 134 per l’entusiasmo con cui si cerca di destarle. Esse sono la passione sessuale e il conflitto, e hanno così tanti rapporti tra di loro, si mescolano tra di loro così intimamente, che un conflitto basato sul sesso surclassa qualsiasi altro tema quanto a forza di richiamo. Non c’è nessun altro tema che superi così facilmente le differenze di cultura e le frontiere. Il motivo sessuale non ha quasi posto nelle immagini della vita politica americana. Se si eccettuano certe marginali estasi belliche, qualche scandalo occasionale, o certe fasi del conflitto razziale con i neri e gli asiatici, il solo parlarne sembrerebbe cervellotico. Solo nei film, nei romanzi e in qualche novella di rivista i rapporti di lavoro, la concorrenza economica, la politica e la diplomazia vengono intralciati dalla fanciulla e dall’«altra». Ma il tema del conflitto compare a ogni passo. La politica è interessante quando c’è un conflitto, o, come diciamo, una questione. E per rendere popolare la politica si debbono trovare problemi, anche quando, a onor del vero, non ce ne sono affatto: non ce ne sono, nel senso che le differenze di giudizio, o di principio, o di fatto, non richiedono un ricorso all’aggressività3. Ma dove non è in gioco l’aggressività, quelli di noi che non sono direttamente coinvolti trovano difficile mantener desto l’interesse. Per quelli che sono coinvolti l’assorbimento può essere abbastanza reale per impegnarli anche quando non è in gioco alcuna questione. Possono essere spinti dalla pura gioia dell’attività o da una sottile rivalità o dalla fantasia. Ma in quelli ai quali l’intero problema resta esterno e lontano, queste altre facoltà non entrano facilmente in gioco. Perché la debole immagine della questione significhi qualcosa per loro, debbono avere la possibilità di dar sfogo all’amore per la lotta, la suspense e la vittoria. Miss Patterson4 sostiene che «la suspense […] costituisce la differenza tra i capolavori del Metropolitan Museum of Art e i film del Rivoli o del Rialto». Se avesse chiarito che ai capolavori mancano sia l’elemento della facile identificazione che un tema adatto a questa generazione, avrebbe pienamente ragione di dire che ciò spiega perché le persone entrano nel Metropolitan a gruppi di due o tre e si precipitano al Rialto e al Rivoli a centinaia. Le coppie e i terzetti contemplano un quadro dell’Art Museum per meno di dieci minuti, a meno che non siano studiosi d’arte, critici e intenditori. Le centinaia del Rivoli e del Rialto guardano il film per più di un’ora. Per quanto riguarda la bellezza, non può esserci paragone tra i meriti delle due cose. Tuttavia il film attira più persone e mantiene la loro attenzione più a lungo di quanto non facciano i capolavori, non per il merito intrinseco, ma perché rappresenta degli avvenimenti che si svolgono, e di cui il pubblico attende a fiato sospeso il risultato. Possiede l’elemento della lotta, che non manca mai di suscitar suspense. 135 E allora perché la situazione lontana non resti un grigio sfarfallamento ai bordi dell’attenzione, dovrebbe essere suscettibile di venire tradotta in immagini in cui sia riconoscibile la possibilità dell’identificazione. Finché questo non accade interesserà solo pochi individui, e per breve tempo. Farà parte delle cose viste, ma non avvertite, delle sensazioni che assalgono i nostri sensi, e non vengono riconosciute. Abbiamo bisogno di parteggiare. Abbiamo bisogno di essere in grado di parteggiare. Nei recessi del nostro essere dobbiamo uscire dal pubblico per entrare in scena, e lottare come il protagonista per la vittoria del bene sul male. Dobbiamo infondere nell’allegoria il respiro della nostra vita. 3. E così, a dispetto dei critici, viene pronunciato un verdetto sulla vecchia controversia a proposito di realismo e romanticismo. Il gusto corrente vuole che la vicenda cominci in un ambiente abbastanza realistico da rendere plausibile l’identificazione, e termini in un ambiente abbastanza romantico da apparire desiderabile, ma non tanto romantico da essere inconcepibile. Tra l’inizio e la fine i canoni sono liberali, ma l’inizio verace e il lieto fine sono punti di riferimento obbligati. Il pubblico cinematografico respinge la pura fantasia che si sviluppa in modo logico, perché nell’era delle macchine la fantasia pura non offre alcun appiglio che riesca familiare. Respinge il realismo rigorosamente perseguito perché non gli piace la sconfitta in una lotta che è diventata la sua. Non è stabilito una volta per sempre che cosa sarà accolto come vero, come realistico, come il bene, come il male, come desiderabile. Queste cose sono stabilite da stereotipi, acquisiti dalle prime esperienze e riportati nel giudizio su quelle successive. E, perciò, se l’investimento finanziario in ciascun film e nelle riviste popolari non fosse tanto esorbitante da richiedere un successo instantaneo e larghissimo, gli uomini di spirito e d’immaginazione potrebbero adoperare lo schermo e il periodico così come ci si potrebbe sognare che venissero adoperati: per ampliare e raffinare, per verificare e criticare il repertorio di immagini con le quali lavora la nostra immaginazione. Ma, dati gli attuali costi, gli uomini che fanno i film, così come i pittori di chiese e di corte di altre epoche, debbono aderire agli stereotipi che trovano, o pagare il prezzo dell’avere frustrato le attese del pubblico. Gli stereotipi possono venire modificati, ma non con tanta rapidità da garantire il successo del film che verrà messo in circolazione tra sei mesi. Gli individui che modificano gli stereotipi, gli artisti e i critici di 136 avanguardia, si sentono per forza di cose depressi e adirati verso i produttori e gli editori che proteggono i propri investimenti. Essi rischiano tutto: perché gli altri non lo fanno? Ma ciò non è affatto equo, perché nella loro furia virtuosa dimenticano le proprie ricompense, che oltrepassano di gran lunga tutte quelle che i loro datori di lavoro possono sperare di provare. Non potrebbero e se potessero non vorrebbero scambiare i posti. E dimenticano anche un’altra cosa, nella loro guerra incessante contro il filisteismo. Dimenticano che stanno misurando il loro successo secondo criteri che gli artisti e i saggi del passato non si sarebbero mai sognati di invocare. Chiedono tirature e pubblici che non sono mai stati concepiti dagli artisti fino a poche generazioni fa e quando non li ottengono, si sentono delusi. Quelli che ci riescono, come Sinclair Lewis col suo Main Street, sono persone che sono riuscite a esternare in modo preciso quello che moltitudini di altre persone cercavano oscuramente di dire nella propria mente. «L’ha detto lui per me». Stabiliscono una nuova forma, che poi viene incessantemente ricopiata finché anch’essa non diventa uno stereotipo di percezione. Al nuovo pioniere riesce difficile far vedere al pubblico Main Street in un altro modo e egli, come i precursori di Sinclair Lewis, si mette a litigare con il pubblico. Questa disputa è dovuta non solo al conflitto di stereotipi, ma al rispetto dell’artista di avanguardia per la propria materia. Qualunque piano scelga, su quel piano rimane. Se si occupa dell’interiorità di un fatto, lo segue fino alla sua conclusione, senza curarsi del dolore che provoca. Non tarperà la sua fantasia per aiutare qualcuno, né nasconderà i conflitti laddove ci sono conflitti. Questa è la sua America. Ma i grossi pubblici non digeriscono una tale severità. Essi provano interesse per se stessi più che per qualsiasi altra cosa al mondo. I se stessi per cui provano interesse sono quelli che sono stati rivelati dalle scuole e dalla tradizione. Essi insistono che un’opera d’arte dev’essere un veicolo con un predellino che consenta loro di salire a bordo, e su cui possano andare non seguendo la conformazione di un terreno, ma alla volta di un paese dove per un’ora non vi siano cartellini da timbrare né piatti da lavare. Per soddisfare queste esigenze c’è una classe intermedia di artisti capaci e disposti a confondere i piani, a mettere insieme una misura realistico-romantica derivata dalle invenzioni di uomini maggiori, e, come consiglia Miss Patterson, a dare «ciò che la vita reale fa così raramente: la risoluzione trionfale di una serie di difficoltà; l’angoscia delle virtù e il trionfo del peccato […] trasformati nella glorificazione della virtù e nella punizione eterna del suo nemico»1. 137 4. Le ideologie politiche obbediscono a queste regole. L’appiglio realistico c’è sempre. Nell’argomentazione è riconoscibile l’immagine di qualche male reale, come la minaccia tedesca o il conflitto di classe. C’è una descrizione di qualche aspetto del mondo, che è convincente perché si accorda con le idee abituali. Ma dato che l’ideologia si rivolge a un futuro sconosciuto, oltre che a un presente tangibile, presto attraversa impercettibilmente la frontiera della verifica. Nel descrivere il presente si è legati più o meno all’esperienza comune. Nel descrivere quello che nessuno ha sperimentato per forza si divaga. Si sta, più o meno, ad Armageddon, ma forse ci si batte per il Signore… Un inizio verace, verace secondo i canoni dominanti, e un lieto fine. Il marxista è durissimo riguardo alle brutalità del presente, mentre quasi sempre diventa lirico quando parla del giorno successivo all’instaurazione della dittatura. E così erano i propagandisti bellici: non c’era una qualità bestiale della natura umana che non trovassero dappertutto a oriente del Reno, oppure, se i propagandisti erano tedeschi, a occidente del Reno. Non c’è dubbio che vi fosse la bestialità. Ma dopo la vittoria, pace eterna. Molto di tutto ciò è cinicamente voluto. Infatti l’abile propagandista sa che mentre si deve partire da un’analisi plausibile, non si deve seguitare ad analizzare, perché il tedio del reale lavorio politico distruggerà ben presto l’interesse. Così il propagandista esaurisce l’interesse per la realtà con un inizio tollerabilmente plausibile, e poi attizza l’energia necessaria per un lungo viaggio brandendo un passaporto per il paradiso. La formula funziona quando la finzione pubblica si aggancia a una pressante necessità privata. Ma una volta agganciata, nel calore della battaglia l’io originario e lo stereotipo originario che si sono incontrati possono venire del tutto persi di vista. 138 XII. L’interesse personale riconsiderato 1. Dunque un’identica storia non è la stessa storia per tutti quelli che la sentono. Ognuno ci entrerà in un punto un po’ diverso, dato che non esistono due esperienze esattamente eguali; ognuno la ricreerà a suo modo, e vi trasfonderà i suoi sentimenti. Talvolta un artista di levatura superiore ci costringerà a entrare in esistenze totalmente diverse dalla nostra, esistenze che a prima vista appaiono noiose, repellenti o eccentriche, ma questo è raro. In quasi tutte le storie che colpiscono la nostra attenzione diventiamo un personaggio e recitiamo la parte con una nostra pantomima. La pantomima può essere sottile o grossolana, può essere intonata alla storia o solo rozzamente analoga; ma conterrà quei sentimenti che sono suscitati dalla nostra concezione della parte. E così il tema originario a mano a mano che circola viene accentuato, alterato, ricamato da tutte le menti attraverso cui passa. È come se un dramma di Shakespeare venisse riscritto, ogni volta che viene rappresentato, con tutti i mutamenti di accento e di significato che gli attori e il pubblico vi abbiano infuso. Qualcosa di assai simile sembra essere avvenuto ai racconti delle saghe prima che fossero definitivamente trascritti. Ai nostri tempi il documento stampato, quale esso sia, frena l’esuberanza della fantasia individuale. Ma contro la diceria non esistono o quasi freni, e il fatto originario, vero o inventato, mette fuori ali e corna, zoccoli e becchi, a mano a mano che quell’artista che sta in ogni pettegolo ci lavora su. Il racconto del primo narratore non conserva la sua forma e le sue proporzioni, viene curato e riveduto da tutti quelli che ci giocarono quando l’udirono, che lo usarono per i loro sogni ad occhi aperti, e lo trasmisero1. Di conseguenza, quanto più misto sarà il pubblico, tanto maggiore sarà la varietà delle reazioni. Infatti con l’aumento del pubblico diminuisce il numero delle parole comuni. Così i fattori comuni del racconto diventano più astratti. Questo racconto, privo di un preciso carattere proprio, viene udito da persone i cui caratteri differiscono molto. Ed esse gli danno il proprio carattere. 139 2. Il carattere che si dà a questo racconto cambia non solo a seconda del sesso e dell’età, della razza e della religione e della posizione sociale, ma, entro queste grossolane classificazioni, a seconda della costituzione ereditaria e acquisita dell’individuo, delle sue capacità, della sua carriera, dell’andamento della sua carriera, di un particolare aspetto della sua carriera, dei suoi modi e tempi, o del posto che occupa in uno dei giochi della vita in cui è impegnato. Egli percepisce attraverso i suoi schemi fissi, e ricrea con le sue emozioni, la parte di vita pubblica che arriva sino a lui: qualche riga di stampa, alcune fotografie, aneddoti, e qualche sua occasionale esperienza. Non considera i suoi problemi personale come campioni parziali del mondo in genere. Considera invece i racconti del mondo in genere come un ingrandimento mimato della sua vita personale. Non necessariamente però della vita personale come la descriverebbe a se stesso. Infatti nella sua vita privata le scelte sono ristrette, e molto di se stesso è compresso e nascosto, dove non può direttamente governare il suo comportamento esteriore. E così oltre agli individui normalissimi, che proiettano la felicità delle loro vite in una buona volontà generale, o la loro infelicità nel sospetto e nell’odio, vi sono le persone all’apparenza felici, che sono brutali ovunque fuorché nella propria cerchia, nonché le persone che quanto più detestano le loro famiglie, gli amici, le loco occupazioni, tanto più traboccano d’amore per il genere umano. Passando dalle generalità al dettaglio, diventa più evidente ancora che il carattere con cui gli uomini trattano i loro affari non è fisso. Forse le diverse personalità hanno una radice comune e qualità comuni, ma i rami e i ramoscelli hanno molte forme. Nessuno affronta con lo stesso carattere tutte le situazioni. Il carattere in qualche misura varia per la semplice influenza del tempo e dell’accumularsi della memoria, dato che l’individuo non è un automa. Il carattere varia non solo nel tempo, ma a seconda delle circostanze. La leggenda dell’inglese solitario nei mari del Sud, che invariabilmente si rade e indossa il cravattino nero per la cena, testimonia il suo timore intuitivo e di uomo civilizzato, di perdere il carattere che ha acquistato. E così i diari e gli album di fotografie, e i ricordi, le vecchie lettere e i vecchi vestiti, e l’amore per la routine immutabile, testimoniano tutti la nostra impressione della difficoltà di bagnarsi due volte nel fiume eracliteo. Non vi è un io unico sempre al lavoro. E perciò ha una grande importanza per la formazione di un’opinione pubblica sapere quale io vi 140 sia impegnato. I giapponesi chiedono il diritto di insediarsi in California. È evidente che corre molta differenza tra il vedere la richiesta come un desiderio di praticare la frutticoltura e il vederla invece come desiderio di sposare la figlia del bianco. Se due nazioni si contendono un pezzo di territorio, la situazione è assai diversa a seconda che la gente consideri i negoziati come un affare di proprietà immobiliari, ovvero come un tentativo di umiliarla, o, nel linguaggio eccitato e provocatorio che di solito ottenebra queste discussioni, come uno stupro. Infatti l’io che domina gli istinti, quando pensiamo a limoni o a terre lontane, è molto diverso dall’io che si manifesta quando pensiamo anche solo potenzialmente come se fossimo il capo oltraggiato di una famiglia. Nel primo caso il sentimento privato che entra nell’opinione è tiepido, nel secondo è incandescente. E così, mentre è vero al punto d’essere una mera tautologia il fatto che l’«interesse personale» determina l’opinione, l’affermazione non è illuminante fintantoché non si sappia quale dei molti io sceglie e dirige l’interesse così concepito. L’insegnamento religioso e la saggezza popolare hanno distinto sempre varie personalità in ogni essere umano. Sono state chiamate volta a volta la Superiore e l’Inferiore, la Spirituale e la Materiale, la Divina e la Carnale; e anche se non accettiamo del tutto questa classificazione, non possiamo fare a meno di osservare che esistono delle distinzioni. Invece di due esseri antitetici, un uomo moderno noterebbe probabilmente molti esseri non nettamente separati tra di loro. Direbbe che la distinzione tracciata dai teologi era arbitraria ed esteriore, perché molti diversi io venivano raggruppati sotto l’etichetta «superiore» purché rientrassero nelle categorie del teologo, ma ciononostante riconoscerebbe che anche questo forniva un utile indizio della varietà della natura umana. Abbiamo imparato a notare molti io, e ad essere un po’ meno pronti a emettere giudizi su di essi. Ci rendiamo conto di vedere lo stesso corpo, ma spesso un uomo diverso, a seconda che l’individuo che osserviamo abbia a che fare con un inferiore sociale, con un superiore sociale o con un uguale; a seconda che faccia all’amore con una donna che può sposare o con una che non può sposare; a seconda che corteggi una donna, o che se ne consideri il proprietario; a seconda che si trovi con i suoi figli, i suoi soci, i dipendenti più fidati, il padrone che può farlo o disfarlo; a seconda che si trovi con uno straniero ben visto o con uno disprezzato; a seconda che si trovi in grave pericolo, o in uno stato di perfetta sicurezza; a seconda che si trovi solo a Parigi, o tra la sua famiglia a Peoria. Naturalmente gli individui differiscono largamente nella coerenza del carattere: così largamente che possono coprire l’intera gamma di 141 differenze che passa tra un’anima spaccata in due come quella del dottor Jekyll e un uomo tutto d’un pezzo come Brand, Parsifal o Don Chisciotte. Quando i vari io sono troppo dissociati diffidiamo dell’individuo; se si trovano tutti inflessibilmente collocati su un solo binario, lo consideriamo arido, cocciuto o eccentrico. Nel repertorio dei caratteri, striminzito per gli isolati e gli autosufficienti, molto vario per gli adattabili, c’è un’intera gamma di io, da quello al vertice che vorremmo far vedere a Dio, a quelli che stanno in fondo e che noi stessi non osiamo guardare. Ci sono le ottave che servono alla famiglia (padre, Geova, tiranno; marito, proprietario, maschio; amante, libertino), o all’occupazione (datore di lavoro, padrone, sfruttatore; concorrente, intrigante, nemico; subordinato, cortigiano, snob). Talune non emergono mai alla luce del sole. Altre vengono mobilitate solo da circostanze eccezionali. Ma i caratteri prendono forma sulla base di come l’individuo concepisce la situazione in cui si trova. Se l’ambiente a cui è sensibile è per caso lo smart set, egli imiterà il carattere che considera appropriato. Questo carattere tenderà ad agire come modulatore del suo portamento, del suo linguaggio, dei suoi argomenti di conversazione, delle sue preferenze. Gran parte della commedia della vita sta proprio qui, nel modo in cui le persone immaginano i propri caratteri per situazioni che sono a loro estranee: il professore tra i venditori, il diacono ad una partita di poker, il cockney in campagna, la gemma falsa tra i diamanti veri. 3. Nel processo di formazione dei caratteri di un individuo entra una serie di influssi non facilmente separabili1. L’analisi, per gli aspetti fondamentali, è forse non più sicura di quanto lo fosse nel V secolo avanti Cristo, quando Ippocrate formulava la dottrina degli umori, distingueva i temperamenti sanguigno, melanconico, collerico e flemmatico, e li attribuiva al sangue, alla bile nera, alla bile gialla e alla flemma. Le teorie più recenti, come le hanno formulate Cannon2, Adler3, Kempf4, sembrano seguire più o meno la stessa pista: dalla condotta esteriore e dalla coscienza interiore alla fisiologia del corpo. Ma ad onta dell’immenso miglioramento della tecnica, nessuno sosterrebbe che si sia arrivati a conclusioni sicure, che ci consentano di distinguere la natura dall’educazione, e di astrarre il carattere nativo da quello acquisito. Solo in quelli che Joseph Jastrow ha chiamato i bassifondi della psicologia, la spiegazione del carattere viene considerata un sistema fisso applicabile da frenologi, chiromanti, indovini, lettori del pensiero e qualche professore di 142 scienze politiche. Da loro si sentirà ancora affermare che «i cinesi amano i colori, e hanno le sopracciglia fortemente arcuate», mentre «i crani dei calmucchi sono depressi in cima, ma molto sporgenti ai lati, intorno all’organo che dà l’inclinazione all’acquisizione; e infatti la propensione di questa nazione al furto ecc., è ammessa»5. Gli psicologi moderni sono portati a considerare il comportamento esteriore di un adulto come un’equazione tra un certo numero di variabili, quali la resistenza dell’ambiente, i desideri repressi maturati in varie età e la personalità manifesta6. Essi ci permettono di supporre, benché io non abbia mai visto formulata questa nozione, che la repressione o il controllo dei desideri vengono sempre determinati non in rapporto alla personalità totale, ma più o meno in rapporto ai suoi vari io. Ci sono cose che l’individuo non fa in veste di patriota, e che invece fa quando non sta pensando a se stesso come a un patriota. Senza dubbio ci sono impulsi, più o meno incipienti nell’infanzia, che non si manifestano più nell’intero corso della vita di un individuo, salvo quando entrano oscuramente o indirettamente in combinazione con altri impulsi. Ma anche questo non è certo, dato che la repressione non è irrimediabile. Infatti le situazioni sociali come la psicoanalisi possono portare alla superficie un impulso sepolto7. È solo quando ciò che ci sta intorno resta normale e placido, quando ciò che si aspettano da noi quelli che incontriamo resta stabile, che noi viviamo senza renderci conto di molte nostre inclinazioni. Quando accade l’imprevisto, apprendiamo su noi stessi molte cose che non sapevamo. Gli io che costruiamo con l’aiuto di tutti coloro che ci influenzano, prescrivono quali impulsi, con quale accentuazione, con quale orientamento, siano adatti a certe situazioni tipiche per le quali abbiamo appreso atteggiamenti precostituiti. Per un tipo riconoscibile di esperienza c’è un carattere che controlla le manifestazioni esterne del nostro intero essere. Nella vita civile, ad esempio, l’odio omicida viene controllato. Anche se la rabbia ci strangola, non dobbiamo mai mostrarla come genitori, figli, datori di lavoro, politici. Nessuno vorrebbe esibire una personalità che trasuda odio omicida. La si disapprova, e la gente che ci sta intorno la disapprova anch’essa. Ma se scoppia una guerra è assai probabile che tutte le persone che ammiriamo comincino a ritenere giustificato l’odio e l’assassinio. Dapprima questi sentimenti trovano uno spiraglio molto angusto. L’io che viene avanti è quello che si intona a un vero amor patrio, il tipo di sentimento che si ritrova in Rupert Brooke, nel discorso del 3 agosto 1914 di Sir Edward Grey, e nel messaggio indirizzato il 2 aprile 1917 al Congresso dal presidente Wilson. La realtà 143 della guerra viene ancora esecrata, e si impara solo un po’ alla volta che cosa significhi veramente la guerra. Infatti le guerre precedenti sono soltanto ricordi trasfigurati. In questa fase da luna di miele i realisti della guerra insistono giustamente che la nazione non è ancora desta, e si rassicurano a vicenda dicendo: «Aspetta gli elenchi dei caduti». Gradualmente l’impulso a uccidere diventa la cosa principale, e tutti quei caratteri che potrebbero modificarlo si disintegrano. L’impulso diventa centrale, viene santificato e un po’ alla volta diventa incontrollabile. Cerca uno sfogo non solo nell’idea del nemico, che è tutto ciò che del nemico la maggior parte della gente davvero vede durante la guerra, ma in tutte le persone e oggetti e idee che sono sempre stati odiosi. L’odio per il nemico è legittimo. Questi altri odi si legittimano con una grossolana analogia: un’analogia che, quando torniamo in noi stessi, riconosciamo come assolutamente assurda. Occorre molto tempo per domare un impulso tanto potente dopo che si sia scatenato. E perciò, quando la guerra è di fatto finita, occorrono tempo e sforzi per riconquistare l’autocontrollo e per affrontare i problemi della pace da uomini civili. La guerra moderna, come ha detto Herbert Croly, è implicita nella struttura politica della società moderna, ma nel contempo, è bandita dai suoi ideali. Per la popolazione civile non esiste in guerra un codice ideale di condotta, come quello che il soldato ancora possiede e la cavalleria un tempo prescriveva. I civili sono privi di regole, tranne quelle che i migliori di loro riescono ad improvvisare; le regole che possiedono rendono la guerra una cosa infame. Eppure, anche se la guerra può essere necessaria, nessuna educazione morale li ha preparati ad essa. Solo i loro io superiori hanno un codice e dei modelli, e quando debbono agire con quello che il carattere superiore considera carattere inferiore, ne scaturiscono disturbi profondi. La preparazione dei caratteri per tutte le situazioni in cui gli uomini possono trovarsi è una delle funzioni dell’educazione morale. È chiaro che il suo successo dipende dalla sincerità e dalla consapevolezza con cui l’ambiente è stato esplorato. Infatti in un mondo falsamente concepito i nostri caratteri sono falsamente concepiti, e ci comportiamo male. Così il moralista deve scegliere: deve offrire un modello di condotta per ogni fase della vita, per quanto spiacevoli possano essere talune di queste fasi, oppure deve garantire che i suoi allievi non dovranno mai affrontare le situazioni che egli disapprova. Deve abolire la guerra, o insegnare alla gente come condurla con la massima economia psichica possibile; deve abolire la vita economica dell’uomo, e nutrirlo di polvere di stelle e rugiada, o deve investigare tutte le complicazioni della vita economica, e 144 offrire modelli di condotta applicabili in un mondo dove nessuno è autosufficiente. Ma questo è proprio ciò che la cultura morale dominante si rifiuta generalmente di fare. Nei suoi aspetti migliori è diffidente di fronte alla spaventosa complessità del mondo moderno. Nei suoi aspetti peggiori, è semplicemente codarda. Non ha grande importanza che i moralisti studino economia e scienza politica e psicologia, o che gli scienziati sociali educhino i moralisti. Ogni generazione entrerà impreparata nel mondo moderno, se non le è stato insegnato a concepire il tipo di personalità che dovrà avere di fronte ai problemi in cui con ogni probabilità s’imbatterà. 4. La visione ingenua dell’interesse personale non spiega gran parte di tutto ciò. Dimentica che l’io e l’interesse sono entrambi concepiti in un qualche modo, e che per la massima parte sono concepiti in modo convenzionale. La dottrina comune dell’interesse personale di solito omette completamente la funzione conoscitiva. Insiste talmente sul fatto che gli esseri umani alla fin fine riportano tutte le cose a se stessi, che non si sofferma a notare che le idee degli uomini sulle cose e su se stessi non sono istintive. Sono acquisite. Così può esser abbastanza vero, come ha scritto James Madison nel decimo saggio del Federalist, che «gli interessi dei proprietari agrari, quelli degli industriali, dei commercianti, dei possessori di capitali liquidi insieme ad altri minori crescono, di necessità, nelle nazioni civili e si ripartiscono in diverse classi sollecitate ad agire da vari sentimenti e valutazioni». Ma se si esamina il contesto del saggio di Madison, si scopre qualcosa che secondo me getta luce su quell’atteggiamento di fatalismo istintivo che talvolta viene chiamato l’interpretazione economica della storia. Madison propugnava la costituzione federale, e «tra i numerosi vantaggi dell’unione», egli metteva avanti «la sua tendenza a spezzare e a controllare la violenza della fazione». La faziosità era ciò che preoccupava Madison. Ed egli individuava le cause della faziosità nella natura stessa dell’uomo; e noi le vediamo, ovunque, più o meno operanti, a seconda di quelle che sono le varie situazioni di una società civile. Una appassionata partecipazione a varie opinioni politiche, o religiose, o d’altro genere, su questioni di carattere pratico o su speculazioni teoriche; una devozione per vari capi in lotta per la preminenza e per il potere, o per persone di diverso genere, le cui fortune siano importanti per le umane passioni, hanno, di volta in volta, diviso l’umanità in diversi partiti, infiammando gli uomini di reciproca animosità e rendendoli assai più pronti alla reciproca oppressione e vessazione, che 145 non ad una mutua cooperazione per il raggiungimento di un fine comune. Tale e tanto forte è questa tendenza dell’umanità ad abbandonarsi all’odio reciproco che, laddove siano venute a mancare delle ragioni più solide, sono bastati spunti e distinzioni dei più futili e fantastici per eccitare le malevole passioni e generare i più violenti conflitti. Le fonti più comuni e durature di faziosità sono, tuttavia, fornite dalla varia o ineguale distribuzione delle ricchezze. Perciò la teoria di Madison è che la propensione alla faziosità può essere accesa dalle opinioni religiose o politiche, o dai capi, ma più comunemente dalla distribuzione della proprietà. E tuttavia si noti che Madison sostiene solo che gli uomini sono divisi dai loro rapporti con la proprietà. Egli non dice che la loro proprietà e le loro opinioni siano in rapporto di causa ed effetto, ma che le differenze di proprietà sono le cause delle differenze di opinione. La parola-chiave nel ragionamento di Madison è «diverso». Dall’esistenza di situazioni economiche diverse si può in via di ipotesi inferire una probabile diversità di opinione, ma non si può inferire quali siano necessariamente queste opinioni. Questa riserva incide radicalmente nelle pretese di questa teoria, come di solito essa viene sostenuta. Che la riserva sia necessaria è testimoniato dall’enorme contraddizione tra dogma e pratica esistente tra i socialisti ortodossi. Essi sostengono che il prossimo stadio dell’evoluzione sociale è il risultato inevitabile dello stadio attuale, ma per produrre questo prossimo stadio inevitabile si organizzano e operano per produrre la «coscienza di classe». Perché, ci si chiede, la situazione economica non produce la coscienza di classe di tutti? Non la produce, questo è sicuro. E perciò non regge l’orgoglioso vanto che la filosofia socialista si fondi su un’intuizione profetica della direzione del destino. Essa si fonda su un’ipotesi circa la natura umana1. La prassi socialista si fonda sulla convinzione che, se gli uomini sono economicamente dislocati in vari modi, si può indurli ad avere di conseguenza certi punti di vista. Indubbiamente spesso finiscono col credere, o possono essere indotti a credere, cose diverse, a seconda che siano, ad esempio, proprietari o affittuari, dipendenti o datori di lavoro, operai specializzati o non, produttori o mediatori, esportatori o importatori, creditori o debitori. Le differenze di reddito creano una diversità profonda nei contatti e nelle possibilità. Coloro che lavorano alle macchine tenderanno, come Thorstein Veblen ha così brillantemente dimostrato2, a interpretare l’esperienza in modo diverso da coloro che fanno un lavoro artigianale o commerciale. Se la visione materialista della politica non affermasse altro che questo, sarebbe un’ipotesi di immenso valore, della 146 quale non potrebbe prescindere colui che interpreta l’opinione; ma spesso si troverebbe costretto ad abbandonare la teoria, e in ogni caso dovrebbe stare sempre molto attento. Questo perché, nello spiegare le fonti di una qualsiasi opinione pubblica, solo di rado è ovvio quale dei molti rapporti sociali dell’individuo stia influenzando l’opinione specifica. L’opinione di Smith prende origine dai suoi problemi di proprietario, di importatore, di azionista delle ferrovie, o di datore di lavoro? L’opinione di Jones, che lavora al telaio in una fabbrica tessile, deriva dall’atteggiamento del padrone, dalla conoscenza che egli subisce da parte di nuovi immigrati, dai conti familiari, o dall’incubo della società che gli sta vendendo una macchina e una casa e un pezzetto di terreno a rate? Senza un’apposita indagine non lo si può sapere. Il determinista economico non ve lo può dire. I vari contatti economici dell’individo limitano o allargano la gamma delle sue opinioni. Ma quali di questi contatti, in che forma, per quale ragione, questo la concezione materialistica della politica non lo può prevedere. Può prevedere, con forte probabilità di azzeccarci, che se un uomo ha una fabbrica, questa funzione di proprietario entrerà nelle opinioni che in qualche modo sembrano toccare quella fabbrica. Ma come opererà questa funzione, nessun determinista economico, in quanto tale, può dire. Non esiste un gruppo fisso di opinioni per ognuna delle questioni implicite nel fatto di essere proprietario di uno stabilimento; non esistono opinioni fisse sugli operai, sulla proprietà, sui dirigenti, e tanto meno opinioni su questioni meno vicine. Il determinista può predire che in novantanove casi su cento il proprietario si opporrà ai tentativi di privarlo della sua proprietà, o che appoggerà le leggi che crede possano far aumentare i suoi profitti. Ma dato che nella proprietà non c’è il segreto che consenta a un uomo d’affari di sapere quali leggi lo renderanno ricco, il materialismo economico non descrive alcuna catena di causa ed effetto che consenta di profetare se il proprietario perseguirà il guadagno immediato o quello a lunga scadenza, se seguirà il metodo della concorrenza o quello della collaborazione. Se questa teoria avesse la validità che così spesso si è preteso che abbia, ci consentirebbe di profetare. Potremmo analizzare gli interessi economici di un popolo, e dedurne ciò che quel popolo è obbligato a fare. Marx lo tentò, e dopo averci azzeccato a proposito dei monopoli, si sbagliò completamente. Il primo esperimento socialista è uscito non, come egli ha predetto, dal culmine dello sviluppo capitalistico occidentale, ma dal collasso di un sistema precapitalistico dell’Est. Perché si sbagliò? Perché si sbagliò il maggiore dei suoi discepoli, Lenin? Perché i marxisti pensavano 147 che la situazione economica degli uomini avrebbe irresistibilmente prodotto una chiara concezione dei loro interessi economici. Ritenevano di possedere loro questa chiara concezione, e che il resto dell’umanità avrebbe imparato ciò che essi sapevano. I fatti hanno dimostrato non solo che una chiara concezione dell’interesse non sorge automaticamente in nessuno, ma che non è sorta nemmeno in Marx e in Lenin. Dopo tutto ciò che Marx e Lenin hanno scritto, il comportamento sociale degli uomini resta ancora oscuro. Non dovrebbe esserlo, se la situazione economica da sola determinasse l’opinione pubblica. Se la loro teoria fosse giusta, la situazione economica non solo dovrebbe dividere gli uomini in classi, ma fornire a ciascuna classe la visione del suo interesse e una coerente politica per realizzarlo. E invece non c’è nulla di più certo del fatto che tutte le classi di uomini sono costantemente incerte su quali siano i propri interessi3. Questo toglie al determinismo economico la sua capacità d’urto. Infatti se i nostri interessi economici sono composti dei nostri mutevoli concetti di questi interessi, allora la teoria, come chiave interpretativa dei processi sociali, fallisce. Questa teoria presume che gli uomini siano in grado di adottare soltanto un’interpretazione del proprio interesse, e che, avendola adottata, procedano fatalmente a realizzarla. Presuppone l’esistenza di uno specifico interesse di classe. E questa presunzione è falsa. Si può concepire un interesse di classe in modo lato o in modo ristretto, egoisticamente o disinteressatamente, alla luce di nessun fatto, di alcuni fatti, di molti fatti, della verità e dell’errore. E così la panacea marxista per i conflitti di classe si sgonfia. Questa panacea presuppone che se la proprietà potesse essere messa tutta in comune, le differenze di classe scomparirebbero. Questa presunzione è falsa. La proprietà potrebbe esser messa in comune, e tuttavia non venir concepita come un tutto. Nel momento in cui una parte della gente non riuscisse a vedere il comunismo da un punto di vista comunista, si dividerebbero in classi sulla base di ciò che vedono. Per quanto riguarda l’ordinamento sociale esistente, il socialismo marxista addita nel conflitto intorno alla proprietà la fonte dell’opinione; per quanto riguarda la vagamente definita classe lavoratrice, non indica nel conflitto intorno alla proprietà la base delle agitazioni; per quanto riguarda il futuro, immagina una società senza il conflitto intorno alla proprietà, e perciò senza il conflitto di opinioni. Ora nell’ordinamento sociale esistente possono esserci senz’altro più casi, in cui il guadagno di un individuo significa la perdita per un altro, di quanti ve ne sarebbero sotto il socialismo; ma per ogni caso in cui il guadagno di uno significa la perdita di un altro, si hanno casi innumerevoli in cui gli individui semplicemente 148 immaginano il conflitto perché sono ignoranti. E sotto il socialismo, anche se si rimuovesse ogni caso di conflitto assoluto, il fatto che il singolo abbia un accesso solo parziale al complesso dei fatti, creerebbe ugualmente dei conflitti. Uno stato socialista non potrà fare a meno dell’istruzione, della moralità, della cultura umanistica, sebbene dal punto di vista di una concezione rigorosamente materialistica la proprietà comune dovrebbe renderle superflue. I comunisti russi non diffonderebbero la loro fede con un zelo così indefesso se l’opinione del popolo russo fosse determinata esclusivamente dal determinismo economico. 5. La teoria socialista della natura umana è, come il calcolo edonistico, un esempio di falso determinismo. Entrambi sostengono che le inclinazioni innate producono fatalmente, ma intelligentemente, un certo tipo di comportamento. Il socialista crede che le inclinazioni mirino a promuovere l’interesse economico di una classe; l’edonista crede che mirino a promuovere il piacere e a evitare il dolore. Entrambe le teorie poggiano su una concezione ingenua dell’istinto, una concezione che James1, pur dandole un significato molto limitato, definiva come «la facoltà di agire in modo da produrre certi fini, senza conoscere in precedenza i fini e senza una previa preparazione a questa azione». È dubbio che un’azione istintiva di questo tipo figuri davvero nella vita sociale degli uomini. Infatti, come faceva notare James2, «l’atto istintivo di un animale dotato di memoria deve cessare di essere “cieco” dopo essere stato ripetuto una volta». Quali che siano le doti native, le inclinazioni innate sono immerse sin dalla prima infanzia nell’esperienza, la quale determina quali stimoli le ecciteranno. «Diventano suscettibili – come dice McDougall3 – di essere destate, non solo dalla percezione di oggetti del tipo che direttamente eccita l’inclinazione innata, gli eccitanti naturali o nativi dell’istinto, ma anche dalle idee di tali oggetti, e dalle percezioni e dalle idee di oggetti di altro tipo»4. È solo la «parte centrale dell’inclinazione»5 dice più avanti McDougall, «che conserva il suo carattere specifico e resta comune a tutti gli individui e a tutte le situazioni in cui l’istinto viene eccitato». I processi conoscitivi, e i concreti movimenti fisici attraverso i quali l’istinto raggiunge il suo fine, possono essere infinitamente complessi. In altri termini, l’uomo ha l’istinto della paura, ma l’oggetto della sua paura, e il modo in cui cercherà di evitarlo, è determinato non dalla nascita, bensì dall’esperienza. Se non fosse per questa variabilità, sarebbe difficile concepire 149 l’immensa varietà della natura umana. Ma quando si considera che tutte le tendenze importanti della creatura, i suoi appetiti, i suoi amori, i suoi odi, la sua curiosità, i suoi desideri sessuali, le sue paure e la sua aggressività possono appigliarsi ad ogni sorta di oggetto-stimolo, la complessità della natura umana non è più tanto inconcepibile. E quando si pensa che ogni nuova generazione è la vittima casuale del modo in cui la generazione precedente era condizionata, nonché l’erede dell’ambiente risultante, le combinazioni e le varianti possibili sono innumerevoli. E quindi non esiste alcuna evidenza per ritenere che poiché le persone desiderano una particolare cosa, o si comportano in un particolare modo, la natura umana sia fatalmente costituita per desiderare questo e per agire in quel modo. Il desiderio e l’azione sono entrambi appresi, e in un’altra generazione potrebbero essere appresi diversamente. La psicologia analitica e la storia sociale sono concordi nell’appoggiare questa conclusione. La psicologia indica come sia sostanzialmente casuale il nesso tra il particolare stimolo e la particolare reazione; l’antropologia intesa nel senso più lato corrobora la tesi dimostrando che le cose che hanno eccitato le passioni degli uomini, e i mezzi che essi hanno usato per soddisfare, variano infinitamente da tempo a tempo e da luogo a luogo. Gli uomini perseguono il loro interesse, ma non è fatalmente determinato il modo in cui lo perseguiranno. E perciò, quali che siano i limiti di tempo entro cui questo pianeta continuerà ad ospitare la vita umana, l’uomo non può porre alcuna scadenza alle energie creative umane. Non può pronunciare una condanna di automatismo. Può dire, se proprio ne ha bisogno, che durante la sua vita non vi saranno mutamenti che egli possa considerare buoni. Ma dicendo questo confinerà la sua vita nei limiti di ciò che può vedere con gli occhi, respingendo ciò che potrebbe vedere con la mente; assumerà come misura del bene una misura che è semplicemente quella che per avventura possiede. Se l’uomo non sceglie di considerare l’ignoto come inconoscibile, se non decide di credere che ciò che nessuno conosce non sarà conosciuto da nessuno, e che nessuno potrà mai insegnare ciò che qualcuno non ha ancora appreso, non avrà alcun motivo di abbandonare le sue migliori speranze e di allentare i suoi sforzi coscienti. H. Bergson, L’evoluzione creatrice (Paris 1909-10), La scuola, Brescia 19795, capp. III e IV. 1 Vernon Lee (pseud. di Violet Paget), Beauty and Ugliness, John Lane company, London-New York 1912. 2 Un fatto che influisce moltissimo sul carattere nelle notizie; cfr. parte VII. 1 150 Cfr. F. T. Patterson, Cinema Craftsmanship, Harcourt, Brace and Co., New York 1920, pp. 31-2: «III. Se la trama manca di suspense: uno, si aggiunga un antagonista; due, si aggiunga un ostacolo; tre, si aggiunga un problema; quattro, si dia risalto ad una delle questioni che già stanno nella mente degli spettatori». 4 Ibid., pp. 6-7. 1 Ibid., p. 46. «L’eroe e l’eroina debbono in generale possedere giovinezza, bellezza, bontà, straordinaria abnegazione e una costanza inalterabile». 1 Un interessante esempio è il caso descritto da C. G. Jung in «Zentralblatt für psychoanalyse», 1911, I, p. 81; trad. inglese di Constance Long, in Collected Papers on Analytical Psychology cit., cap. IV. 1 Per un interessante schizzo dei più notevoli tra i primi tentativi di spiegare il carattere, si veda il capitolo intitolato «Gli antecedenti dello studio del carattere e del temperamento», in J. Jastrow, The Psychology of Conviction. A Study of Beliefs and Attitudes, Houghton Mifflin, Boston-New York 1918. 2 W. Cannon, Bodily Changes in Pleasure, Pain and Anger, Appleton and Co., New York-London 1915. 3 A. Adler, Il temperamento nervoso (ed. or. Über den nervösen Charakter, Wiesbaden 1912), Newton Compton, Roma 1971. 4 E. J. Kempf, The Autonomic Function and the Personality, Nervous and Mental Disease Publishing Co., New York-Washington 1918; Id., Psychopatology cit. Cfr. anche L. Berman, The Glands Regulating Personality, Macmillan, New York 1921. 5 Jastrow, The Psychology of Conviction cit., p. 156. 6 Formulata da Kempf, in Psychopathology cit., p. 74 come segue: 3 Cfr. l’interessantissimo libro di E. D. Martin, The Behaviour of Crowds, Harper & Brothers, New York-London 1920. Si veda anche T. Hobbes, Leviatano, parte II, cap. XXV. «Le passioni degli uomini, le quali, disgiunte, sono moderate come il calore di un tizzone, in un’assemblea sono come parecchi tizzoni, che si infiammano l’un l’altro (specialmente quando vi si soffia sopra reciprocamente con le orazioni)» (trad. it. di G. Micheli, La Nuova Italia, Firenze 1976, p. 256). G. Le Bon elabora questa osservazione di Hobbes in Psicologia delle folle (Longanesi, Milano 1980). 1 Cfr. T. Veblen, The Socialist Economics of Karl Marx and His Followers, in The Place of Science in Modern Civilization and Other Essays, Heubsch, New York 1919, particolarmente le pp. 413-8. 2 Id., The Theory of Business Enterprise, Scribner’s, New York 1904; trad. it. La teoria dell’impresa, Franco Angeli, Milano 1970. 3 Di fatto, quando è stato messo alla prova, Lenin ha completamente abbandonato l’interpretazione materialistica della politica. Se si fosse attenuto davvero alla formula di Marx, quando si impadronì del potere nel 1917, avrebbe detto a se stesso: secondo gli insegnamenti di Marx, il socialismo scaturirà da un capitalismo maturo… eccomi qui, a capo di una nazione che entra solo ora nello sviluppo capitalistico… è vero che sono un socialista, ma sono un socialista scientifico… ne segue che per il momento qualunque idea di una repubblica socialista è fuori luogo… dobbiamo promuovere il capitalismo 7 151 perché abbia luogo l’evoluzione che Marx ha predetto. Ma Lenin non ha fatto nulla di tutto ciò. Invece di attendere che l’evoluzione si evolvesse, ha cercato di sfidare con la volontà, la forza e l’istruzione il processo storico che la sua filosofia presupponeva. (Dopo che queste pagine erano state scritte, Lenin ha abbandonato il comunismo giustificando il passo col fatto che la Russia non possiede la base necessaria di un capitalismo maturo. Egli ora dice che la Russia deve creare il capitalismo, il quale creerà un proletariato, il quale un giorno o l’altro creerà il comunismo. Questo elenco è coerente con il dogma marxista. Ma dimostra quanto poco determinismo ci sia nelle opinioni di determinista). 1 James, Principles of Psychology cit., II, p. 383. 2 Ibid., II, p. 390. 3 W. McDougall, An Introduction to Social Psychology, J. W. Luce & Co., Boston 19114, pp. 31-2 4 «La maggior parte delle definizioni degli istinti e delle azioni istintive tengono conto solo dei loro aspetti volitivi […] ed è un errore comune trascurare gli aspetti conoscitivi e affettivi del processo mentale istintivo». Ibid., p. 29, nota a piè di pagina. 5 Ibid., p. 34. 152 V. La formazione di una volontà comune 153 XIII. Il trasferimento dell’interesse 1. Ciò dimostra che vi sono molte variabili nelle impressioni che si hanno del mondo che non si vede. I punti di contatto variano, le aspettative stereotipate variano, l’interesse destato varia ancor più sottilmente. Le vive impressioni di un gran numero di persone sono, in ciascuna, personali in misura insondabile, e in massa sono incontrollabilmente complesse. Come si stabilisce, allora, un rapporto pratico tra ciò che sta nella mente degli individui e ciò che sta nell’ambiente che esula dal loro campo visuale? In che modo, per dirla col linguaggio della teoria democratica, si sviluppa una volontà comune tra tante persone, ognuna delle quali ha un sentimento così privato intorno a un’immagine così astratta? Come emerge da questo sviluppo di variabili un’idea semplice e costante? In che modo immagini così fluttuanti e casuali riescono a cristallizzarsi in quelle cose che chiamiamo la Volontà del Popolo, o la Missione Nazionale o l’Opinione Pubblica? Che si tratti di una difficoltà reale è dimostrato da una rabbiosa tenzone scoppiata nella primavera del 1921 tra l’ambasciatore americano in Inghilterra e un gran numero di altri americani. Parlando durante un pranzo, in Inghilterra, Harvey aveva indicato senza la minima esitazione al mondo quali fossero stati nel 1917 i moventi degli americani1. Questi ultimi, secondo lui, non erano i moventi su cui aveva insistito il presidente Wilson, quando a sua volta aveva annunciato quale fosse il pensiero americano. Naturalmente né Harvey né Wilson, né gli avversari né gli amici di entrambi, né chicchessia, possono sapere quantitativamente e qualitativamente che cosa passasse nella mente di trenta o quaranta milioni di adulti. Ma ciò che tutti sanno è che una guerra è stata combattuta e vinta grazie a una moltitudine di sforzi, stimolati, nessuno sa in quale proporzione, dalle ragioni di Wilson e dalle ragioni di Harvey, e da tutte le possibili combinazioni tra le due. La gente si è arruolata e ha combattuto, lavorato, pagato le tasse, si è sacrificata per un fine comune; e tuttavia nessuno può cominciare a dire con precisione che cosa abbia spinto ciascuna persona a fare le singole cose che ha fatto. Perciò è inutile che 154 Harvey dica al soldato, il quale riteneva che questa fosse una guerra per porre fine alla guerra, che il soldato non pensava affatto questo. Il soldato che lo pensava, lo pensava. E Harvey, che pensava diversamente, pensava diversamente. Nello stesso discorso Harvey ha formulato con eguale chiarezza quello che avevano in mente gli elettori del 1920. È un atteggiamento spericolato, e, se addirittura si dà per scontato che tutti quelli che hanno votato come noi l’hanno fatto per le stesse ragioni, è un atteggiamento insincero. Le cifre indicano che sedici milioni di persone hanno votato per i repubblicani, e nove milioni per i democratici. Hanno votato, dice Harvey, pro e contro la Società delle Nazioni, e a sostegno di questa tesi può richiamare la richiesta di Wilson di indire un referendum, e il fatto innegabile che il partito democratico e Cox sostenevano che il tema delle elezioni era la Società. Ma dire che la Società era il tema non la rendeva il tema, e contando i voti degli elettori non si conosce la reale divergenza di opinioni a proposito della Società. C’erano, ad esempio, nove milioni di democratici. Si ha il diritto di ritenere che siano tutti strenui fautori della Società? Certamente non lo sono. Infatti la conoscenza della politica americana ci dice che molti milioni hanno votato, come fanno sempre, per conservare nel Sud il sistema sociale esistente, e, quali che siano le loro opinioni sulla Società delle Nazioni, non hanno affatto votato per esprimerlo. Senza dubbio quelli che volevano la Società erano contenti che anche il partito democratico la volesse. Quelli a cui non andava a genio la Società forse si turavano il naso mentre votavano. Ma entrambi questi gruppi di sudisti hanno votato per lo stesso partito. Erano più unanimi i repubblicani? Chiunque può estrarre dalla cerchia dei suoi amici un numero di elettori repubblicani sufficiente a coprire l’intera gamma di opinioni che va dall’irriducibile avversione dei senatori Johnson e Knox alle chiare simpatie di Hoover e del capo della Corte Suprema Taft. Nessuno può dire con sicurezza quante persone provassero un determinato sentimento nei confronti della Società, né quante persone abbiano lasciato che i loro sentimenti nei confronti di quel problema determinassero il loro voto. Dato che ci sono due soli modi di esprimere cento diversi sentimenti, non esiste un modo certo di sapere quale sia stata la combinazione decisiva. Il senatore Borah ha trovato nel partito repubblicano una ragione per votare repubblicano, ma anche il presidente Lowell ce l’ha trovata. La maggioranza repubblicana era composta di uomini e donne che ritenevano che la vittoria repubblicana avrebbe ucciso la Società, più quelli che la ritenevano il modo più pratico di garantire la Società, più quelli che la ritenevano il modo più sicuro per ottenere una 155 Società modificata. Tutti questi votanti erano inestricabilmente condizionati dal loro desiderio, o dal desiderio di altri votanti di migliorare la congiuntura economica, o di mettere a posto i lavoratori, o di punire i democratici per essere entrati in guerra, o di punirli per non esserci entrati prima, o di sbarazzarsi di Burleson, o di migliorare il prezzo del grano, o di diminuire le tasse. E tuttavia una decisione è emersa: Harding si è trasferito alla Casa Bianca. Infatti il minimo denominatore comune di tutti i voti era che i democratici dovevano andarsene, e i repubblicani dovevano prendere il loro posto. Era questo il solo fattore che rimaneva dopo che tutte le contraddizioni si erano annullate a vicenda, ma questo fattore è stato sufficiente a mutare l’indirizzo politico per quattro anni. Le ragioni precise, per cui in quel giorno di novembre del 1920 si desiderava un mutamento, non sono registrate nemmeno nella memoria dei singoli votanti. Le ragioni non sono fisse. Si sviluppano e mutano, e si fondono con altre ragioni, sicché le opinioni pubbliche che Harding oggi deve affrontare non sono le opinioni che lo hanno eletto. Si è visto nel 1916 che non c’è un’inevitabile connessione tra un assortimento di opinioni e una particolare linea di azione. Eletto apparentemente al grido di «ci ha tenuti fuori dalla guerra», Wilson dopo cinque mesi portò il paese in guerra. Il funzionamento della volontà popolare ha sempre richiesto, perciò, una spiegazione. Quelli che sono stati colpiti soprattutto dalla stravaganza del suo funzionamento, hanno trovato un profeta in Le Bon, e hanno accolto con favore le generalizzazioni su ciò che Sir Robert Peel definiva «quella grossa mistura di follia, debolezza, pregiudizi, sentimenti sbagliati, sentimenti giusti, ostinazione e trafiletti di giornale che si chiamano opinione pubblica». Altri hanno concluso che, siccome dal flusso e dall’incoerenza emergono però delle mire determinate, deve esserci un misterioso congegno che funziona da qualche parte al di sopra e al di là degli abitanti di una nazione. E perciò parlano di un’anima collettiva, di una mente nazionale, di uno spirito dell’epoca, che impone un ordine all’opinione casuale. Pare che debba esserci una superanima, perché le emozioni e le idee dei membri di un gruppo non rivelano alcunché di tanto semplice e tanto cristallino come la formula che questi stessi individui accetteranno quale veritiera formulazione della loro Opinione Pubblica. 2. Ma io credo che i fatti si possano spiegare in modo più convincente senza l’aiuto della superanima in una qualsiasi delle sue manifestazioni. 156 Dopo tutto l’arte di indurre persone, che la pensano diversamente, a votare nello stesso modo viene praticata in ogni campagna politica. Nel 1916, ad esempio, il candidato repubblicano doveva produrre voti repubblicani traendoli da molte specie di repubblicani. Scorriamo il primo discorso tenuto da Hughes dopo aver accettato la candidatura1. Il contesto è ancora abbastanza chiaro nella nostra mente per non rendere necessarie troppe spiegazioni; e tuttavia i temi non sono più controversi. Il candidato era un uomo insolitamente franco, che da vari anni non faceva politica e non era personalmente impegnato nei problemi del recente passato. Per di più gli mancava quel tipo di doti che possiedono capi popolari come Roosevelt, Wilson o Lloyd George, quel dono istrionico grazie al quale uomini come questi impersonano i sentimenti dei loro seguaci. Per temperamento e preparazione era estraneo a questo aspetto della politica, ma conosceva per calcolo quale sia la tecnica del politico. Era una di quelle persone che sanno bene come si deve fare una cosa, ma che con la migliore volontà del mondo non riescono a farla loro. Spesso sono maestri migliori del virtuoso, nel quale l’arte è talmente una seconda natura che lui stesso non sa come riesce. L’affermazione che coloro che possono, fanno, e coloro che non possono, insegnano, non è poi tanto sfavorevole all’insegnante come sembrerebbe. Hughes sapeva che l’occasione era importante, e aveva preparato il suo manoscritto con cura. In un palco sedeva Theodore Roosevelt, appena tornato dal Missouri. Il teatro era pieno di reduci da Armageddon, in varie fasi di dubbio e di angoscia. Sul palcoscenico e negli altri palchi si potevano vedere gli ex sepolcri imbiancati e gli ex scassinatori del 1912, ovviamente in ottima salute e di buonissimo umore. Al di là delle mura del teatro c’erano forze filotedesche e forze filoalleate; un partito favorevole alla guerra nell’Est e nelle grandi città; un partito favorevole alla pace nel Midwest e nel Far West. C’era molta emozione per i fatti del Messico. Hughes doveva formare una maggioranza contro i democratici riunendo persone divise in tutte le possibili combinazioni sulle questioni Taft o Roosevelt, Germania o Alleati, guerra o neutralità, intervento nel Messico o non-intervento. Naturalmente qui non ci interessano la moralità o la saggezza dell’operazione. Ci interessa solo il metodo con cui il leader di un’opinione eterogenea affronta il problema di assicurare un voto omogeneo. Quest’assemblea rappresentativa è un felice auspicio. Attesta la forza della riunificazione. Attesta che il partito di Lincoln è ricostituito… 157 Le parole in corsivo sono il trait-d’union: in un tale discorso Lincoln non ha naturalmente alcun rapporto con Abraham Lincoln. È soltanto uno stereotipo grazie al quale la reverenza, che circonda questo nome, può venire trasferita sul candidato repubblicano che in questo momento sta al suo posto. Lincoln ricorda ai repubblicani, ai Bull Moose e alla Vecchia Guardia, che prima della scissione avevano una storia comune. Sulla scissione nessuno può permettersi di parlare. Ma resta lì, non ancora sanata. L’oratore deve sanarla. Ora, la scissione del 1912 era stata originata da questioni interne; la riunificazione del 1916 doveva fondarsi, come aveva dichiarato Theodore Roosevelt, sul comune sdegno per il modo in cui Wilson conduceva la politica estera. Ma la politica estera era anch’essa una pericolosa fonte di contrasti. Occorreva un argomento d’apertura che non solo ignorasse il 1912, ma evitasse anche i conflitti esplosivi del 1916. L’oratore scelse abilmente il clientelismo nell’assegnazione degli incarichi diplomatici. «Democratici meritevoli» era un’espressione che screditava, e Hughes la usa subito. Poiché l’evidenza è tale da non ammettere difese, l’attacco viene portato a fondo senza esitazioni. Dal punto di vista logico, era un’introduzione ideale alla formazione di uno stato d’animo comune. Hughes poi passa al Messico, cominciando con un esame storico. Doveva tener conto della diffusa impressione che le cose messicane stessero andando male; e inoltre di un sentimento non meno diffuso che si dovesse evitare la guerra; e di due potenti correnti d’opinione, una delle quali affermava che Wilson aveva ragione di non riconoscere Huerta, e l’altra che preferiva Huerta a Carranza, e l’intervento a entrambi. Huerta era il primo punto dolente della faccenda… Egli era certamente di fatto il capo del governo del Messico. Ma bisognava placare i moralisti che consideravano Huerta un assassino ubriaco. Se dovesse esser riconosciuto o meno era una questione da determinarsi nell’esercizio di una saggia discrezionalità, ma secondo retti principi. E così, invece di dire che si doveva riconoscere Huerta, il candidato dice che si dovevano applicare retti principi. Tutti credono nei retti principi, e tutti, naturalmente, credono di possederli. Per confondere ulteriormente la questione, la politica del presidente Wilson viene definita «intervento». Lo era dal punto di vista giuridico, forse, ma non nel senso che la parola aveva comunemente a quel tempo. Il contrasto tra le due 158 funzioni doveva venire represso stirando la parola sì da farle abbracciare tanto quello che Wilson aveva fatto come quello che volevano i veri interventisti. Avendo superato i due punti esplosivi, «Huerta» e «intervento», col metodo di lasciare che le parole assumessero il significato che ognuno voleva attribuirgli, il discorso si colloca per un po’ su un terreno più sicuro. Il candidato racconta la vicenda di Tampico e Vera Cruz, Villa, Santa Isabel, Columbo e Carrizal. Hughes è dettagliato, o perché i fatti, come si può ricavarli dai giornali, sono irritanti, o perché la vera spiegazione è, come ad esempio nel caso di Tampico, troppo complicata. Un tale racconto non poteva suscitare passioni contrarie. Ma alla fine il candidato doveva prender posizione. Il suo pubblico se l’aspettava. L’accusa era quella di Roosevelt. Avrebbe Hughes adottato il suo rimedio, l’intervento? La nazione non ha una politica di aggressione verso il Messico. Non desideriamo alcuna parte del suo territorio. Desideriamo che abbia pace, stabilità e prosperità. Dovremmo esser pronti ad aiutarlo a fasciare le sue ferite, a sollevarlo dalla fame e dai disagi, a dargli in ogni possibile modo i benefici della nostra disinteressata amicizia. La condotta di questa amministrazione ha creato difficoltà che dovremo superare […] dovremo adottare una nuova politica, una politica di fermezza e coerenza che sole ci consentiranno di promuovere un‘amicizia duratura. Il tema dell’amicizia è per i non interventisti, il tema della «nuova politica» e della «fermezza» è per gli interventisti. Nella parte non controversa la precisione è addirittura opprimente, dove c’è dissidio, tutto viene lasciato al vago. A proposito della guerra in Europa Hughes impiegò un’ingegnosa formula: Sono per il mantenimento inflessibile di tutti i diritti americani in terra e in mare. Per comprendere la forza di questa dichiarazione nel momento in cui fu pronunciata dobbiamo ricordare che ciascuna fazione, durante il periodo di neutralità, era convinta che le nazioni europee da essa osteggiate fossero le sole che violavano i diritti americani. Hughes sembrava dire ai filoalleati: avrei usato la maniera forte con la Germania. Ma i filotedeschi avevano sostenuto che la forza navale inglese stava violando la maggior parte dei nostri diritti. Con la frase simbolica «diritti americani», la formula copre due fini diametralmente opposti. Ma c’era il Lusitania. Come la scissione del 1912, questo era un ostacolo invincibile alla concordia. 159 sono convinto che non si sarebbero perdute vite americane per l’affondamento del Lusitania. E allora ciò che non può essere oggetto di compromesso dev’essere dimenticato. Quando c’è una questione su cui non possiamo sperare di essere tutti d’accordo, fingiamo che non esista. Sulle future relazioni dell’America con l’Europa, Hughes non si pronunciava. Non poteva escogitare nulla che potesse incontrare il favore delle due fazioni inconciliabili di cui doveva cercare l’appoggio. È appena necessario dire che Hughes non inventò questa tecnica, né la impiegò col massimo successo. Ma diede un esempio di come si possa rendere nebulosa un’opinione pubblica fatta di opinioni divergenti; come il suo contenuto si avvicini alla tinta neutrale che si ricava dalla mescolanza di molti colori. Dove l’obiettivo è una concordia superficiale, e la divergenza è la realtà di fatto, il risultato consueto nel rivolgersi al pubblico è l’oscurità. Quasi sempre la poca chiarezza in una giuntura cruciale del dibattito pubblico è sintomo di intenti contraddittori. 3. Ma com’è che un’idea vaga così spesso ha il potere di unificare opinioni profondamente sentite? Per quanto profondamente possano essere sentite queste opinioni, esse, ricordiamolo, non stanno in contatto continuo e acuto con i fatti che sostengono di trattare. Il nostro dominio sul mondo che non vediamo – il Messico, la guerra in Europa – è tenue, anche se il nostro sentimento può esser intenso. Le immagini e le parole, che in origine l’hanno suscitato, non hanno minimamente la forza del sentimento stesso. Il racconto di ciò che è accaduto, al di là della nostra vista e del nostro udito, in un luogo dove non siamo mai stati, non ha e non può mai avere, salvo per brevi attimi, come nel sogno o in una fantasticheria, tutte le dimensioni della realtà. Ma può suscitare tutta l’emozione della realtà, e talora qualcosa di più. Infatti il grilletto può essere fatto scattare da più di uno stimolo. Lo stimolo che in origine ha fatto scattare il grilletto può essere stato una serie di immagini suscitate nella mente da parole pronunciate o stampate. Queste immagini svaniscono e difficilmente restano costanti; i loro contorni e il loro ritmo fluttuano. Gradatamente comincia il processo del capire che cosa si prova, senza essere del tutto certi del perché lo si prova. Le immagini evanescenti sono soppiantate da altre immagini, e poi da nomi o simboli. Ma l’emozione permane, suscettibile ora di venire 160 destata dalle immagini e dai nomi subentranti. Queste sostituzioni avvengono anche nel pensiero rigoroso, perché se un individuo cerca di confrontare due situazioni complicate, ben presto trova estenuante il tentativo di tenerle entrambe in mente in tutti i dettagli. Adopera una stenografia di nomi e segni e campioni. Se vuole fare qualche progresso deve fare così, perché non può portare il bagaglio intero in ogni frase, attraverso ogni operazione che compie. Ma se dimentica di aver sostituito e semplificato, scivola ben presto nel verbalismo, e comincia a parlare di nomi prescindendo dalle cose. E allora non ha più modo di capire quando la parola, scissa dal suo primo oggetto, è entrata in una mésalliance con un’altra cosa. È ancora più difficile guardarsi dalle sostituzioni nella politica quotidiana. Infatti, per ciò che è noto agli psicologi come «reazione condizionata», un’emozione non è legata ad una sola idea. Ci sono innumerevoli cose che possono suscitare l’emozione, e innumerevoli cose che la possono soddisfare. Questo è particolarmente vero quando lo stimolo viene percepito in modo indistinto e indiretto, e quando l’oggetto è parimenti indiretto. Infatti si può associare un’emozione, ad esempio la paura, dapprima a qualcosa di immediatamente pericoloso, poi all’idea di questa cosa, poi a qualcosa di simile a quest’idea, e così via. L’intera struttura della civiltà umana è per un certo verso l’elaborazione degli stimoli e delle reazioni di cui le capacità emotive originarie restano un centro relativamente fisso. Senza dubbio nel corso della storia la qualità dell’emozione è mutata, ma con una velocità e un’elaborazione non paragonabili a quelle che hanno caratterizzato i suoi condizionamenti. Gli individui differiscono notevolmente nella disposizione ad essere influenzati dalle idee. In alcuni l’idea di un bambino affamato in Russia è praticamente viva quanto la vista di un bambino affamato. Altri sono quasi incapaci di venir commossi da un’idea lontana. Tra gli uni e gli altri ci sono molte gradazioni. E ci sono persone che sono insensibili ai fatti, e mosse solo da idee. Ma anche se l’emozione viene suscitata dall’idea, non riusciamo a soddisfare l’emozione agendo noi stessi sul luogo della vicenda. L’idea del bambino russo affamato suscita il desiderio di dar da mangiare al bambino, ma la persona colpita dall’idea non è in grado di farlo. Può solo dare del denaro a un’organizzazione impersonale, oppure a una personificazione che egli chiama Hoover. Il suo denaro non raggiunge quel bambino. Va a un fondo generale con cui viene nutrita una massa di bambini. E così, proprio come l’idea è indiretta, così sono indiretti gli effetti dell’azione. La conoscenza è indiretta, la volizione è indiretta, solo l’effetto è immediato. Delle tre parti del processo, lo stimolo proviene da 161 un punto che è fuori della vista, la reazione arriva in un punto che è fuori della vista, solo l’emozione sta tutta dentro la persona. Della fame del bambino egli ha soltanto un’idea, ma del proprio desiderio di aiutarlo ha un’esperienza reale. È il fatto centrale della vicenda, l’emozione che ha in sé, che è diretto. Entro limiti che possono variare, l’emozione è trasferibile sia per quanto riguarda lo stimolo che per quanto riguarda la reazione. Perciò se tra diverse persone, che possiedono varie tendenze a reagire, si può trovare uno stimolo che susciti la stessa emozione in molte di loro, esso può essere sostituito agli stimoli originali. Se, ad esempio, un individuo detesta la Società delle Nazioni, un altro odia Wilson, e un terzo teme i lavoratori, si può riuscire a unirli se si è in grado di trovare uno stimolo che sia l’antitesi di ciò che essi tutti odiano. Supponiamo che questo simbolo sia l’americanismo. Il primo individuo può intenderlo come la conservazione dell’isolazionismo americano, o, come forse lo chiamerà, dell’indipendenza; il secondo come il rifiuto di un uomo politico che contrasta con la sua idea di come un presidente americano deve essere; il terzo come un imperativo ad opporsi alla rivoluzione. Il simbolo in se stesso non significa letteralmente nessuna cosa in particolare, ma può essere associato a quasi tutto. E per questo può diventare il cemento comune di comuni sentimenti, anche se questi sentimenti in origine erano legati a idee disparate. Quando i partiti politici o i giornali si dichiarano a favore dell’americanismo, del progressismo, della legge e dell’ordine, della giustizia, dell’umanità, sperano di amalgamare il sentimento di fazioni in contrasto che sicuramente si dividerebbero se, invece di questi simboli, venissero invitate a discutere uno specifico programma. Infatti, quando è stata realizzata una coalizione intorno al simbolo, il sentimento confluisce verso il conformismo sotto il simbolo piuttosto che verso il vaglio critico dei provvedimenti. Credo che sia opportuno e tecnicamente corretto chiamare simboliche le espressioni polivalenti come queste. Non rappresentano idee specifiche, ma una specie di tregua o giuntura tra idee. Sono come un nodo ferroviario strategico, dove convergono molte linee indipendentemente dalla loro origine e dalla loro destinazione ultima. Ma colui che cattura i simboli, che per il momento contengono il sentimento pubblico, controlla in corrispondenza le vie alla direzione della cosa pubblica. E fintantoché un particolare simbolo ha il potere di coalizzare, le fazioni ambiziose lotteranno per impossessarsene. Si pensi, ad esempio, al nome di Lincoln o a quello di Roosevelt. Un capo o un interesse che può entrare in possesso dei simboli correnti è padrone della situazione del 162 momento. Naturalmente ci sono dei limiti. Un abuso troppo violento delle realtà che vari gruppi di persone ritengono rappresentate dal simbolo, o una resistenza troppo forte a nuovi fini fatta in nome di questo simbolo, faranno, per così dire, scoppiare il simbolo. In questo modo, nel corso del 1917, l’imponente simbolo della Santa Russia e del Piccolo Padre scoppiò sotto l’urto delle sofferenze e della sconfitta. 4. Le tremende conseguenze del collasso della Russia furono sentite su tutti i fronti e tra tutti i popoli. Condussero direttamente a un sensazionale caso di cristallizzazione in un’opinione comune delle disparate opinioni messe in movimento dalla guerra. I Quattordici Punti si rivolgono a tutti i governi – alleati, nemici, neutrali – e a tutti i popoli. Erano un tentativo di cucire insieme i principali imponderabili di una guerra mondiale. Si trattava per forza di cose di un nuovo orientamento, perché questa è stata la prima grande guerra in cui tutti i membri responsabili del genere umano abbiano potuto venir persuasi a riflettere sulle stesse idee, o almeno sugli stessi nomi per le stesse idee, simultaneamente. Senza cablogrammi, radio, telegrafo e stampa quotidiana, l’esperimento dei Quattordici Punti sarebbe stato impossibile. Era un tentativo di utilizzare i moderni mezzi di comunicazione per promuovere il ritorno a una «coscienza comune» in tutto il mondo. Ma anzitutto dobbiamo esaminare alcune delle circostanze che si presentavano alla fine del 1917. Infatti, nella forma che il documento assunse alla fine, tutte queste considerazioni erano in qualche modo rappresentate. Durante l’estate e l’autunno era accaduta una serie di avvenimenti che influirono profondamente sul morale della gente e sul corso della guerra. In luglio i russi avevano condotto un’ultima offensiva, erano stati disastrosamente battuti ed era cominciato il processo di demoralizzazione che portò alla rivoluzione bolscevica di novembre. Poco prima i francesi avevano subito una sconfitta grave e quasi disastrosa, nella Champagne, che provocò ammutinamenti nell’esercito e un’agitazione disfattista tra i civili. L’Inghilterra soffriva degli effetti delle incursioni dei sommergibili, delle terribili perdite subite nelle battaglie delle Fiandre, e in novembre a Cambray le armate inglesi subirono un rovescio che atterrì le truppe al fronte e i dirigenti in patria. Un’estrema stanchezza pervadeva l’intera Europa occidentale. In realtà il tormento e la delusione avevano scosso l’adesione degli individui all’interpretazione ufficiale della guerra. Il loro interesse non 163 veniva più trattenuto dai comunicati ufficiali, e la loro attenzione cominciò a divagare, fissandosi ora sulle proprie sofferenze, ora sulle mete del loro partito o della loro classe, ora sui risentimenti generali contro i governi. Quella più o meno perfetta organizzazione della percezione ad opera della propaganda ufficiale, dell’interesse e dell’attenzione ad opera degli stimoli della speranza, della paura e dell’odio, che viene detto il «morale», stava sul punto di crollare. Dappertutto le menti degli uomini cominciavano a cercare nuove ancore di salvezza. Improvvisamente videro un dramma impressionante. Sul fronte orientale c’era una tregua natalizia, una cessazione del massacro, una cessazione del frastuono, una promessa di pace. A Brest-Litovsk il sogno della gente semplice si era avverato: era possibile negoziare, per porre fine alla prova c’era un modo diverso del gareggiare vita contro vita con il nemico. Timidamente, ma con un’attenzione rapita, la gente cominciò a rivolgere lo sguardo ad Est. Perché no, si chiedeva? A cosa serve tutto questo? Sanno gli uomini politici che cosa stanno facendo? Stiamo davvero combattendo per quello che dicono? Non si potrebbe ottenerlo senza combattere? Ben poco di tutto questo riusciva ad arrivare sulla stampa, con la censura, ma quando parlò Lord Lansdowne ci fu una reazione che veniva dal cuore. I precedenti simboli della guerra si erano logorati, e avevano perso il loro potere unificatore. In tutti i paesi alleati si stava aprendo sotto la superficie una larga frattura. Qualcosa di simile stava avvenendo nell’Europa centrale. Anche lì l’impulso originario alla guerra si era indebolito; l’unione sacra si era spezzata. Le spaccature verticali lungo il fronte di combattimento erano intersecate da divisioni orizzontali che si allargavano in modi imprevedibili. La crisi morale della guerra era arrivata prima che ne fosse in vista la conclusione militare. Il presidente Wilson e i suoi consiglieri si resero conto di ciò. Naturalmente non avevano una conoscenza perfetta della situazione; ma sapevano quello che ho sommariamente descritto. Sapevano anche che i governi alleati erano legati a una serie di impegni che nella lettera e nello spirito andavano contro la concezione popolare delle ragioni della guerra. Le risoluzioni della Conferenza economica di Parigi erano, naturalmente, di dominio pubblico, e la rete dei trattati segreti era stata pubblicata dai bolscevichi nel novembre del 19171. Le loro clausole erano note solo genericamente ai popoli, ma sicuramente si pensava che non si accordavano allo slogan idealistico dell’autodeterminazione, niente annessioni e niente indennità di guerra. I popoli si domandavano quante migliaia di vite inglesi valessero l’AlsaziaLorena e la Dalmazia, quante migliaia di vite francesi valessero la Polonia 164 e la Mesopotamia. E anche in America si cominciò ad aver sentore di queste domande. La causa degli alleati era stata messa sulla difensiva dal rifiuto di partecipare ai negoziati di Brest-Litovsk. Era uno stato d’animo molto delicato, da cui nessun esperto leader poteva prescindere. La risposta ideale sarebbe stata un’azione congiunta degli alleati. Essa risultò impossibile quando fu presa in considerazione alla Conferenza interalleata d’ottobre. Ma a dicembre la pressione era diventata così forte che Lloyd George e Wilson si sentirono costretti, l’uno indipendentemente dall’altro, a dare una qualche risposta. La forma scelta dal presidente americano fu una dichiarazione che indicava le condizioni di pace in quattordici capi. La numerazione era un artificio per assicurare la precisione e per creare subito l’impressione che si trattasse di un documento pratico. L’idea di formulare le «condizioni della pace» invece che «gli obiettivi della guerra» derivò dalla necessità di creare un’autentica alternativa ai negoziati di Brest-Litovsk. Miravano a richiamare l’attenzione del pubblico, sostituendo allo spettacolo delle conversazioni russo-tedesche lo spettacolo molto più grandioso di un dibattito pubblico mondiale. Avendo suscitato l’interesse del mondo, fu necessario tener unito ed elastico quest’interesse per far fronte a tutte le diverse possibilità implicite nella situazione. Le condizioni dovevano essere tali che la maggioranza degli alleati le considerasse valide. Dovevano incontrare le aspirazioni nazionali di ogni popolo, e tuttavia limitare queste aspirazioni, affinché nessuna nazione si considerasse lo strumento di un’altra. Le condizioni dovevano soddisfare gli interessi ufficiali per non provocare una disunione ufficiale, e tuttavia dovevano venire incontro alle concezioni correnti in modo da prevenire il dilagare della demoralizzazione. In breve, dovevano conservare e confermare l’unità degli alleati nel caso che la guerra dovesse continuare. Ma dovevano anche essere le condizioni di una possibile pace; nel caso in cui il centro e la sinistra tedeschi fossero stati maturi per un’agitazione, essi avrebbero avuto un testo con cui colpire la classe governante. Le condizioni, perciò, dovevano avvicinare i governanti alleati ai loro poli, allontanare i governanti tedeschi dal loro popolo, e creare un terreno di comprensione reciproca tra gli alleati, l’opposizione tedesca e i popoli assoggettati dall’Austria-Ungheria. I Quattordici Punti erano un audace tentativo di levare uno stendardo sotto cui quasi tutti potessero ripararsi. Se un numero sufficiente di nemici erano pronti, ci sarebbe stata la pace; altrimenti gli alleati sarebbero stati in grado di sostenere meglio lo shock della guerra. 165 Tutte queste considerazioni entrarono nella formulazione dei Quattordici Punti. Forse nessuno le aveva tutte in mente, ma tutti gli uomini che vi collaborarono ne avevano in mente qualcuna. Esaminiamo ora alcuni aspetti del documento proiettandoli su questo sfondo. I primi cinque punti e il quattordicesimo riguardano la «diplomazia aperta», la «libertà dei mari», la parità «commerciale», la «riduzione degli armamenti», il divieto delle annessioni imperialistiche di colonie e la Società delle Nazioni. Potrebbero essere definiti la formulazione delle generalizzazioni popolari in cui tutti a quel tempo professavano di credere. Ma il numero tre è più specifico. Puntava consapevolmente e direttamente alle deliberazioni della Conferenza economica di Parigi, e intendeva liberare il popolo tedesco dalla paura del soffocamento. Il numero sei è il primo punto che riguardi una particolare nazione. Intendeva essere una risposta ai sospetti russi verso gli alleati, e l’eloquenza delle sue promesse era intonata al dramma di Brest-Litovsk. Il numero sette si occupa del Belgio, ed è, sia nella forma che nell’intento, tanto impreciso quanto lo era la convinzione di quasi tutto il mondo, compresa una gran parte dell’Europa centrale. Sul numero otto dobbiamo soffermarci. Comincia con una richiesta perentoria di evacuazione e restituzione del territorio francese, e quindi passa alla questione dell’Alsazia-Lorena. La struttura di questa clausola illustra in modo perfetto il carattere di una dichiarazione pubblica che deve condensare in poche parole un’enorme congerie di interessi. «E il torto fatto alla Francia dalla Prussia nel 1871 sulla questione dell’Alsazia-Lorena, che ha turbato la pace del mondo per quasi cinquant’anni, dev’essere riparato». Qui ogni parola fu scelta con cura meticolosa. Il torto fatto doveva esser riparato; perché non dire che l’Alsazia-Lorena doveva essere restituita? Non lo si diceva perché non era certo che tutti i francesi in quel momento avrebbero continuato a combattere indefinitamente per la riannessione, se gli fosse stato offerto un plebiscito; e perché era ancor meno certo che gli inglesi e gli italiani avrebbero combattuto. Perciò la formula doveva coprire tutte e due le possibilità. La parole «riparato» garantiva soddisfazione alla Francia, ma non suonava come un impegno alla semplice annessione. Ma perché parlare del torto fatto dalla Prussia nel 1871? La parola Prussia, naturalmente, intendeva ricordare ai tedeschi del Sud che l’Alsazia-Lorena apparteneva non a loro, ma alla Prussia. Perché parlare di pace turbata per «cinquant’anni», e perché l’uso di «1871»? In primo luogo quello che i francesi e il resto del mondo ricordavano era il 1871. Era questo il punto nodale della loro lagnanza. Ma i formulatori dei Quattordici Punti sapevano che i governanti francesi avevano in progetto qualcosa di più 166 dell’Alsazia-Lorena del 1871. Gli appunti segreti che erano passati tra i ministri dello zar e i governanti francesi del 1916 abbracciavano l’annessione della valle del Saar e una qualche forma di smembramento della Renania. Si progettava di includere la valle del Saar sotto l’espressione «Alsazia-Lorena», perché aveva fatto parte dell’AlsaziaLorena nel 1814, anche se ne era stata distaccata nel 1815, e anche se non faceva affatto parte di questo territorio alla fine della guerra francoprussiana. La formula ufficiale francese per l’annessione della Saar era dunque quella di includerla sotto l’espressione «Alsazia-Lorena», intendendo l’Alsazia-Lorena del 1814-1815. Insistendo sul «1871», il presidente Wilson indicava in realtà in confine definitivo tra Germania e Francia, prescindeva dal trattato segreto e lo scartava. Il numero nove, un po’ meno sottilmente, fa la stessa cosa rispetto all’Italia. «Demarcazioni nazionali chiaramente riconoscibili» sono esattamente ciò che le demarcazioni del Trattato di Londra non erano. Queste demarcazioni erano in parte strategiche, in parte economiche, in parte imperialistiche, in parte etniche. L’unica parte che poteva in qualche modo procurare la simpatia degli alleati era quella che avrebbe recuperato l’autentica Italia Irredenta. Tutto il resto, come sapevano bene tutti quelli che erano informati, non faceva altro che rinviare l’imminente rivolta jugoslava. 5. Sarebbe un errore credere che l’entusiasmo apparentemente unanime che salutò i Quattordici Punti significasse accordo su un programma. Ognuno sembrava trovare qualcosa che gli piaceva, ma nessuno rischiava una discussione. Le frasi, così pregne dei sotterranei conflitti del mondo civile, venivano accettate. Rappresentavano idee opposte, ma suscitavano un’emozione comune. E in questo senso ebbero la funzione di rianimare i popoli occidentali per i disperati dieci mesi di guerra che dovevano ancora sopportare. Fintantoché i Quattordici Punti trattavano di quel nebuloso e felice futuro che sarebbe subentrato alla fine dell’agonia, i reali conflitti d’interpretazione non venivano resi espliciti. Erano piani per il riassetto di un mondo completamente invisibile, e poiché questi piani ispiravano a ciascun gruppo la sua speranza particolare, tutte le speranze confluivano come speranza pubblica. Infatti l’armonizzazione, come abbiamo visto nel discorso di Hughes, è una gerarchia di simboli. A misura che si sale nella gerarchia per potervi includere un numero sempre maggiore di fazioni, si 167 può per qualche tempo mantenere il collegamento emotivo, pur perdendo quello intellettuale. Ma anche l’emozione si assottiglia. Allontanandosi dall’esperienza, si sale sempre più nella generalizzazione o nella sottigliezza. A mano a mano che si sale col pallone, si getta giù un numero sempre maggiore di oggetti concreti, e quando si è raggiunta la cima con qualche frase come i Diritti dell’Umanità o il Mondo Salvato alla Democrazia, si vede in lungo e in largo, ma si vede pochissimo. Tuttavia le persone, le cui emozioni si siano incanalate, non restano passive. A misura che l’appello pubblico diventa, sempre di più, tutto quanto per tutti quanti, e che l’emozione viene destata mentre il significato si disperde, ai loro personalissimi significati viene data un’applicazione universale. Quello che si desidera molto diventa i Diritti dell’Uomo. Infatti la frase ancora più vuota, capace di significare quasi tutto, finisce ben presto per significare pressocché tutto. Le frasi di Wilson venivano intese in ogni angolo della terra in modi infinitamente diversi. Non esisteva alcun documento negoziato, e reso di pubblica ragione, che correggesse la confusione1. E così quando venne il giorno del rendiconto, tutti s’aspettavano tutto. Gli autori europei del trattato avevano davanti a sé un’ampia scelta, e scelsero di realizzare le aspettative di quella parte dei loro compatrioti che deteneva la maggior parte del potere in patria. Scesero, lungo la gerarchia, dai Diritti dell’Umanità ai Diritti della Francia, dell’Inghilterra e dell’Italia. Non abbandonarono l’uso di simboli. Abbandonarono solo quelli che dopo la guerra non avevano radici permanenti nell’immaginazione dei loro elettori. Con l’uso dei simboli mantenevano l’unità della Francia, ma non erano disposti a rischiare nulla per l’unità dell’Europa. Il simbolo Francia era profondamente radicato, il simbolo Europa aveva solo una breve storia. Ciononostante la distinzione tra uno zibaldone come l’Europa e un simbolo come la Francia non è netta. La storia degli stati e degli imperi insegna che vi sono momenti in cui l’ambito dell’idea unificatrice si allarga, e momenti in cui si restringe. Non si può dire che gli uomini siano passati coerentemente da fedeltà più ristrette a fedeltà più ampie, perché i fatti non confermano la tesi. L’Impero romano e il Sacro romano impero si gonfiarono al di là di quelle unificazioni nazionali del XIX secolo, sulla cui base certuni per analogia parlano di uno stato mondiale. Ciononostante, è probabilmente vero che l’integrazione reale è aumentata, a prescindere dal gonfiamento e sgonfiamento degli imperi. 6. 168 Una reale integrazione è indubbiamente avvenuta nella storia americana. Nel decennio precedente il 1779 moltissimi individui, a quanto pare, pensavano che il loro stato e la loro comunità erano reali, ma che la confederazione degli stati fosse irreale. L’idea del loro stato, la sua bandiera, i suoi capi più in vista, o qualunque altra cosa rappresentasse il Massachusetts o la Virginia, erano simboli genuini. Erano cioè nutriti di reali esperienze, che risalivano all’infanzia, al mestiere, alla residenza, e via dicendo. Il raggio dell’esperienza degli individui raramente aveva attraversato i confini immaginari dei loro stati. La parola virginiano era associata a quasi tutto quello che la maggior parte dei virginiani avesse mai conosciuto o sentito. Era l’idea politica più ampia che avesse un autentico contatto con la loro esperienza. Con la loro esperienza, non con i loro bisogni. Infatti i loro bisogni sorgevano dal loro ambiente reale, che in quei tempi erano vasti almeno quanto le tredici colonie. Avevano bisogno di una difesa comune. Avevano bisogno di un regime finanziario ed economico vasto quanto la confederazione. Ma fintantoché lo pseudo-ambiente dello stato li racchiudeva, i simboli del loro stato esaurivano il loro interesse politico. Un’idea interstatale come la confederazione rappresentava un’astrazione inefficace. Era un carrozzone, piuttosto che un simbolo, e l’armonia tra gruppi discordi che il carrozzone crea è transeunte. Ho detto che l’idea di confederazione era un’astrazione inefficace. E tuttavia nel decennio precedente la deliberazione della Costituzione il bisogno di unità esisteva: esisteva nel senso che gli affari, se non si teneva conto di questo bisogno di unità, non andavano per il giusto verso. Un po’ alla volta in ogni colonia certe classi cominciarono a superare i limiti dell’esperienza statale. I loro interessi personali portavano, al di là delle frontiere dello stato, a esperienze interstatali, e gradatamente si formava nelle loro menti un’immagine dell’ambiente americano di dimensioni realmente nazionali. Ai loro occhi l’idea di federazione divenne un vero simbolo, e cessò di essere un carrozzone. Il più inventivo di questi uomini fu Alexander Hamilton. Si dava il caso che egli non provasse un attaccamento primitivo per nessuno degli stati perché era nato nelle Indie occidentali, e sin dai primissimi inizi della sua vita attiva si era trovato a contatto con gli interessi comuni di tutti gli stati. Per la maggior parte degli uomini dell’epoca, ad esempio, la questione se la capitale dovesse essere nella Virginia o a Filadelfia era di enorme importanza, perché avevano una visuale locale. Per Hamilton la questione non aveva aspetti emotivi; ciò che egli voleva era l’assunzione dei debiti degli stati, perché questo avrebbe ulteriormente nazionalizzato l’unione proposta. Così egli barattò a 169 cuor leggero la sede della capitale con due voti decisivi di rappresentanti dei distretti del Potomac. Per Hamilton l’unione era un simbolo che rappresentava tutti i suoi interessi e la sua intera esperienza; per White e Lee, del Potomac, il simbolo della loro provincia era l’entità politica più alta da servire, ed essi la servirono pur detestando il prezzo richiestogli. Acconsentirono, dice Jefferson, a mutare i loro voti, «White con una nausea quasi convulsa»1. Nel processo di cristallizzazione di una volontà comune, c’è sempre un Alexander Hamilton al lavoro. 170 XIV. Sì o no 1. Spesso i simboli sono così utili e così misteriosamente potenti che la parola stessa emana un fascino magico. Nel pensare ai simboli viene la tentazione di trattarli come se possedessero un’energia indipendente. Eppure innumerevoli simboli che una volta mandavano in estasi hanno completamente cessato di influire sulle persone. I musei e le opere di folklore sono pieni di emblemi e di incantesimi morti, dato che nel simbolo non c’è alcun potere se non quello che esso acquista, per associazione, nella mente umana. I simboli che hanno perduto il loro potere, e i simboli, incessantemente suggeriti, che riescono a radicarsi, ci ricordano che se abbiamo sufficiente pazienza per studiare in dettaglio la diffusione di un simbolo, cogliamo una storia priva di aspetti sacri. Nel discorso elettorale di Hughes, nei Quattordici Punti, nel progetto di Hamilton vengono impiegati dei simboli, ma vengono impiegati da qualcuno in un momento particolare. Le parole stesse non sono la cristallizzazione di sentimenti occasionali; le parole debbono essere pronunciate da persone che occupano posizioni strategiche, e debbono essere pronunciate al momento opportuno: altrimenti non sono altro che aria. I simboli debbono essere contrassegnati. Infatti in se stessi non significano nulla, e la scelta dei possibili simboli è sempre così vasta che dovremmo, come l’asino che stava equidistante tra due balle di fieno, morire d’indecisione tra i simboli che concorrono a richiamare la nostra attenzione. Ecco, ad esempio, le ragioni con cui alcuni privati cittadini giustificavano il loro voto ad un giornale alla vigilia delle elezioni del 1920. Per Harding: I patrioti di oggi, uomini e donne, che votano per Harding e Coolidge, saranno considerati dai posteri come i firmatari della nostra Seconda Dichiarazione di Indipendenza. Wilmot, inventore. Egli farà sì che gli Stati Uniti non entrino in «alleanze intralcianti». Washington, 171 come città, trarrà vantaggio dal passaggio del controllo governativo dalle mani dei democratici a quelle dei repubblicani. Clarence, commesso. Per Cox: Il popolo degli Stati Uniti si rende conto che il nostro dovere, giurato sui campi di battaglia di Francia, è di aderire alla Società delle Nazioni. Dobbiamo assumerci la nostra parte dell’onere di assicurare la pace in tutto il mondo. Mary, stenografa. Perderemmo il rispetto di noi stessi e quello delle altre nazioni se ci rifiutassimo di entrare nella Società delle Nazioni per ottenere la pace internazionale. Spencer, statistico. I due gruppi di dichiarazioni sono egualmente nobili, egualmente veri e quasi reversibili. Avrebbero Clarence e Wilmot ammesso anche solo per un attimo che essi intendevano mancare al nostro dovere, giurato sui campi di battaglia di Francia, o che non desideravano la pace internazionale? Certamente no. Avrebbero Mary e Spencer ammesso di essere favorevoli ad alleanze intralcianti, o a rinunciare all’indipendenza americana? Avrebbero sostenuto che la Società era, come la definì il presidente Wilson, un’alleanza svincolante, nonché una dichiarazione di indipendenza per tutto il mondo, e in più una dottrina di Monroe per l’intero pianeta. 2. Dal momento che l’offerta di simboli è così generosa, e il significato che gli si può attribuire è così elastico, in che modo un particolare simbolo si radica nella mente di una particolare persona? Ve lo pianta un altro essere umano, che la persona riconosce autorevole. Se viene piantato abbastanza profondamente, può darsi che in seguito diremo autorevole la persona che sbandiera quel simbolo davanti ai nostri occhi. Ma in un primo momento i simboli ci sono resi congeniali e importanti perché ci vengono presentati da persone congeniali e importanti. Infatti non usciamo da un uovo già diciottenni e dotati di un’immaginazione realistica; siamo ancora, come ricorda Shaw, nell’era di Burge e Lubin, nella quale durante l’infanzia dipendiamo per tutti i nostri contatti da esseri più maturi. E così stabiliamo i nostri collegamenti col mondo esterno attraverso certe persone amate e autorevoli; sono loro il primo ponte verso il mondo invisibile. E anche se gradualmente riusciamo a dominare con le nostre forze molte fasi di questo mondo più vasto, ne 172 resta sempre uno ancora più vasto che è sconosciuto. A questo continuiamo a collegarci attraverso delle autorità. Quando tutti i fatti sono là dove non li possiamo vedere, un resoconto veritiero e un errore plausibile suonano uguali e hanno la stessa carica emotiva. Tolte poche materie nelle quali siamo ben preparati, non siamo in grado di scegliere tra racconti veri e racconti falsi. Perciò scegliamo tra i cronisti degni di fiducia e cronisti non degni di fiducia1. In teoria dovremmo scegliere il più esperto in ogni materia. Ma la scelta dell’esperto, quantunque sia assai più facile della scelta della verità, è pur sempre difficile, e spesso impossibile. Gli esperti stessi non sono minimamente certi su chi, tra loro, sia il più esperto. E con tutto ciò l’esperto, anche quando riusciamo a identificarlo, è probabilmente troppo occupato perché lo si possa consultare, o è addirittura inaccessibile. Ma ci sono persone che possiamo identificare abbastanza facilmente, perché sono le persone che dirigono. I genitori, gli insegnanti e gli amici autorevoli sono le prime persone di questo genere che incontriamo. Non è necessario affrontare la difficile questione del perché i bambini si fidano di un genitore piuttosto che dell’altro, dell’insegnante di storia piuttosto che dell’insegnante di catechismo. Né del modo in cui la fiducia gradualmente si allarga, per il tramite di un giornale o di un conoscente che si occupa di affari pubblici, a personaggi pubblici. La letteratura psicoanalitica è ricca di ipotesi suggestive. Comunque ci troviamo ad avere fiducia in certe persone, che costituiscono i nostri mezzi di collegamento con quasi tutto il regno delle cose sconosciute. A volte, stranamente, questo fatto è ritenuto per sua natura poco dignitoso, quasi fosse una prova della nostra natura gregaria o scimmiesca. Ma una completa indipendenza nell’universo è semplicemente impossibile. Se non potessimo dare quasi tutto per acquisito, dovremmo passare la vita perdendo tempo dietro a mille banalità. La cosa più prossima a un adulto completamente indipendente è un eremita, e il raggio d’azione di un eremita è brevissimo. Agendo solo per se stesso, può agire solo entro un ambito minuscolo e per fini semplici. Se ha tempo per pensare grandi pensieri, possiamo star certi che ha già accettato senza obiezioni, prima di diventare un eremita, un intero repertorio di nozioni faticosamente acquisite sul come riscaldarsi e sul come lenire la fame, e anche su quali siano i grandi problemi. In tutti i campi – salvo pochissimi, e per brevi periodi della nostra vita – la massima indipendenza che possiamo esercitare è quella di moltiplicare le autorità alle quali prestiamo benevola attenzione. Da dilettanti congeniti, la nostra ricerca della verità consiste nello 173 stimolare gli esperti e nel costringerli a rispondere a una qualsiasi eresia che abbia però l’accento della convinzione. In questo dibattito siamo spesso in grado di giudicare chi abbia conquistato la vittoria dialettica, ma siamo praticamente impotenti di fronte ad una premessa falsa, che nessuno dei partecipanti abbia messo in dubbio, o di fronte a un aspetto poco noto, che nessuno di loro abbia portato in discussione. Vedremo in seguito come la teoria della democrazia parta dal presupposto contrario, e presuma, ai fini del governare, l’esistenza di un numero illimitato di individui autosufficienti. Le persone da cui dipendiamo per i nostri contatti con il mondo esterno sono quelle che sembrano dirigerlo2. Può darsi che dirigano solo una piccolissima parte del mondo. La balia nutre il bambino, gli fa il bagno e lo mette a letto, ma questo non fa della balia un’autorità nel campo della fisica, della zoologia e dell’alta critica. Il signor Smith dirige o almeno ingaggia la persona che dirige lo stabilimento, ma questo non lo rende un’autorità in fatto di Costituzione degli Stati Uniti, né in materia di effetti della tariffa doganale Fordney. Il signor Smoot dirige il partito repubblicano nello stato dello Utah. Ciò di per sé non dimostra che sia l’uomo più indicato per dare pareri in materia d’imposizione fiscale. Ma la balia può nondimeno determinare per qualche tempo la zoologia che il bambino imparerà, il signor Smith avrà molto da dire su ciò che la Costituzione significa per sua moglie, per la sua segretaria e forse anche per il suo parroco; e chi definirà i limiti dell’autorità del senatore Smoot? Il prete, il signore feudale, i capitani e i re, i capi dei partiti, il mercante, il padrone, comunque vengono scelti, per nascita, per eredità, per conquista o per elezione: sono loro e il loro seguito organizzato che amministrano gli affari umani. Sono loro gli ufficiali, e benché lo stesso uomo possa essere generale a casa, sottotenente in ufficio, e soldato semplice in politica, benché in molte istituzioni la gerarchia di rango sia vaga o occulta, tuttavia in ogni istituzione che richiede la collaborazione di molte persone esiste una tale gerarchia3. Nella politica americana la chiamiamo macchina, oppure «l’organizzazione». 3. Ci sono varie importanti distinzioni tra i membri della macchina e la base. I capi, il comitato direttivo e la cerchia degli intimi sono in contatto diretto con il loro ambiente. Naturalmente possono avere una nozione molto limitata di ciò che dovrebbero definire l’ambiente, ma non sono persone che trattino quasi esclusivamente di astrazioni. Ci sono persone 174 precise che sperano di vedere elette, situazioni precise che desiderano vedere migliorate, obiettivi concreti che debbono venire raggiunti. Non voglio dire che sfuggono alla propensione umana alla visione stereotipica. Gli stereotipi spesso li rendono assurdamente abitudinari. Ma i capi, nonostante i loro limiti, sono in reale contatto con qualche parte fondamentale di questo mondo più vero. Sono loro che decidono. Sono loro che danno ordini. Sono loro che contrattano. E qualcosa di preciso – forse nulla di quello che immaginavano – accade davvero. I loro subordinati non sono vincolati a loro da una convinzione comune. Vale a dire, i membri minori di una macchina non dimostrano la loro fedeltà secondo un autonomo giudizio circa la saggezza dei capi. Nella gerarchia ciascuno dipende da un superiore ed è a sua volta superiore a una qualche categoria di dipendenti. Ciò che tiene insieme la macchina è un sistema di privilegi. Essi possono variare a seconda delle occasioni e dei gusti di coloro che li cercano, in relazione al nepotismo e al favoritismo in tutti i loro aspetti, allo spirito di corpo, al culto della personalità o all’idea fissa. Variano in base al grado militare negli eserciti, alla terra e ai servizi in un sistema feudale, agli incarichi e alla notorietà nella moderna democrazia. Ecco perché si può spezzare una determinata macchina abolendone i privilegi, ma la macchina, credo, deve per forza riformarsi in ogni gruppo unito. Infatti il privilegio è assolutamente relativo, e l’uniformità è impossibile. Si immagini il più assoluto comunismo di cui la mente sia capace, in cui nessuno possieda un oggetto che non possiedano anche tutti gli altri; e tuttavia, se il gruppo comunista dovesse prendere una qualsiasi iniziativa, il semplice piacere di essere l’unico di colui che sta per fare il discorso che assicurerà il maggior numero di voti, sarebbe sufficiente, a mio avviso, a cristallizzargli intorno un’organizzazione di iniziati. Non è necessario, perciò, inventare un’intelligenza collettiva per spiegare come mai i giudizi di un gruppo siano di solito più coerenti e logici dei commenti dell’uomo della strada. Una sola mente, o poche menti, possono svolgere una linea di pensiero, ma un gruppo che cerchi di pensare insieme può, come gruppo, fare poco più che assentire o dissentire. I membri di una gerarchia possono avere una tradizione corporativa. Quando sono apprendisti imparano il mestiere dai maestri, che a loro volta lo hanno imparato quando apprendisti. E in ogni società stabile il ricambio del personale entro le gerarchie che governano è abbastanza lento da permettere la trasmissione di certi grandi stereotipi e modelli di comportamento. Certi modi di vedere e di fare vengono insegnati dal padre al figlio, dal prelato al novizio, dal veterano al cadetto. Questi modi 175 diventano familiari e sono riconosciuti come tali dalla massa degli estranei. 4. Solo la distanza conferisce un fascino all’opinione che in una questione complessa possano collaborare masse di persone senza una macchina centrale manovrata da pochissimi individui. «Nessuno – dice Bryce1 – che abbia fatto un’esperienza durata qualche anno del modo in cui opera un’assemblea legiferante, o un’amministrazione, può avere mancato di osservare come sia estremamente piccolo il numero di persone da cui è governato il mondo». Si riferisce, naturalmente, agli affari di stato. Ovviamente, se si considerano tutti gli affari umani, il numero delle persone che governano è notevole, ma se si prende un’istituzione qualsiasi, sia essa un corpo legislativo, o un partito, o un sindacato, o un movimento nazionalista, o una fabbrica o un club, il numero di quelli che governano è una percentuale piccolissima di coloro che in teoria dovrebbero governare. Un trionfo elettorale può espellere una macchina e sostituirla con un’altra; le rivoluzioni talvolta aboliscono del tutto una specifica macchina. La rivoluzione democratica ha instaurato due macchine alterne, ciascuna delle quali nel corso di alcuni anni raccoglie il vantaggio derivante dagli errori dell’altra. Mai però la macchina scompare. In nessuno caso la teoria idillica della democrazia si realizza. Certamente non nei sindacati, non nei partiti socialisti, non nei governi comunisti. C’è una cerchia di iniziati, circondata da circoli concentrici che sfumano gradatamente nella base, la quale non si interessa o non viene cointeressata. I democratici non hanno mai voluto fare i conti con questo luogo comune della vita di gruppo. L’hanno invariabilmente considerato un’idea perversa. Infatti vi sono due visioni della democrazia: la prima presuppone l’individuo autosufficiente; l’altra una Superanima che regola tutto. Delle due la Superanima ha qualche vantaggio, perché almeno riconosce che la massa prende delle decisioni che non nascono spontaneamente nel seno di ciascun membro. Ma se concentriamo la nostra attenzione sulla macchina, la Superanima, come genio che presiede a un comportamento collettivo, è un mistero superfluo. La macchina è una realtà assolutamente prosaica. Si compone di esseri umani che vestono panni e abitano in case, che possono essere nominati e descritti. Sono loro che svolgono tutti i compiti di solito attribuiti alla Superanima. 176 5. La ragione d’essere della macchina non è la perversità della natura umana. È che nessuna idea emerge di per sé dagli orientamenti personali di un gruppo. Infatti il numero dei modi in cui una moltitudine di persone può agire direttamente su una situazione, che sta al di là del loro controllo, è limitato. Alcuni di loro possono trasmigrare, in una forma o nell’altra, possono scioperare o fare il boicottaggio, possono applaudire o fischiare. Con questi mezzi possono occasionalmente opporsi a quello che non gli piace, o fare pressioni su quelli che ostacolano i loro desideri. Ma in realtà nulla può essere costruito, escogitato, negoziato o amministrato mediante l’azione di massa. Un pubblico in quanto tale, senza una gerarchia organizzata intorno alla quale raggrupparsi, può rifiutarsi di comperare se i prezzi sono troppo alti, o rifiutarsi di lavorare se i salari sono troppo bassi. In uno sciopero un sindacato può, con l’azione di massa, spezzare l’opposizione, sicché i funzionari sindacali possono negoziare un accordo. Può conquistare, ad esempio, il diritto al controllo misto. Ma non può esercitare questo diritto se non attraverso un’organizzazione. Una nazione può invocare la guerra, ma quando va in guerra deve mettersi agli ordini di un comando generale. Il limite dell’azione diretta è, a tutti i fini pratici, il potere di dire Sì o No di fronte a una questione presentata alla massa1. Infatti solo nei casi più elementari una questione si presenta nella medesima forma spontaneamente e approssimativamente, e nello stesso momento, a tutti i componenti un pubblico. Ci sono scioperi e boicottaggi non organizzati, e non soltanto industriali, in cui la rivendicazione è così semplice che praticamente anche senza una guida la medesima reazione si manifesta in molte persone. Ma anche in questi casi elementari ci sono persone che capiscono quello che vogliono fare più rapidamente delle altre, e che diventano capi improvvisati. Dove non compaiono, la folla si assieperà senza scopo, sospinta da tutte le varie mire personali, o sosterà fatalisticamente, come ha fatto l’altro giorno una folla di cinquanta persone, a guardare uno che si sta suicidando. Infatti ciò che noi ricaviamo dalla maggior parte delle impressioni che ci arrivano dal mondo invisibile è una specie di pantomima rappresentata come in sogno. Sono pochissime le volte che prendiamo consapevolmente una decisione riguardante avvenimenti che stanno al di là della nostra visuale, e ognuno di noi ha scarso senso di ciò che potrebbe realizzare se tentasse. Raramente si presenta una questione pratica, e perciò si è poco abituati alla decisione. Ciò sarebbe più evidente se la maggior parte delle 177 notizie non arrivasse a noi già con un’aura di suggestione sul modo in cui dovremmo accoglierle. Abbiamo bisogno di questa suggestione, e se non la troviamo nelle notizie, ci rivolgiamo agli editoriali o a un consigliere fidato. La fantasticheria, se ci sentiamo implicati, è scomoda fintantoché non sappiamo in che posizione stiamo, ossia fintantoché i fatti non siano stati formulati in modo da consentirci di pensare un Sì o un No nei loro confronti. Quando varie persone dicono tutte Sì, possono avere le ragioni più diverse per dirlo. E generalmente le hanno. Infatti le immagini che sono nelle loro menti variano, come abbiamo già notato, nei modi più sottili e intimi. Ma questa sottigliezza resta all’interno delle loro menti; pubblicamente viene a essere rappresentata da varie frasi simboliche, che esprimono il sentimento individuale dopo aver eliminato la maggior parte dell’intenzione. La gerarchia, o, se c’è concorrenza, le due gerarchie, associano i simboli a un’azione precisa, a un voto che si esprime in un Sì o in un No, a un atteggiamento pro o contro. Quindi Smith, che era contrario alla Società delle Nazioni, e Jones, che era contrario all’articolo dieci, e Brown, che era contrario a Wilson e a tutta la sua opera, ciascuno per un suo motivo, tutti in nome di una frase simbolica che è più o meno la stessa, danno un voto contro i democratici votando per i repubblicani. È stata espressa una volontà comune. Si doveva presentare una scelta concreta e la scelta doveva venire collegata, trasferendo l’interesse attraverso i simboli, all’opinione individuale. I politici professionisti lo hanno appreso molto tempo prima dei filosofi democratici e così hanno organizzato quel comitato ristretto che viene chiamato caucus – l’assemblea per la designazione del candidato – e quell’organo che si chiama comitato direttivo, come mezzi per la formulazione di una scelta precisa. Tutti quelli che vogliono realizzare qualcosa che richieda la collaborazione di un gran numero di persone seguono il loro esempio. Talvolta la cosa avviene piuttosto brutalmente, come quando la Conferenza della pace si ridusse al Consiglio dei Dieci, e il Consiglio dei Dieci ai Tre o a Quattro Grandi; e redassero un trattato che gli alleati minori, i loro elettori e il nemico potevano soltanto prendere o lasciare. Di solito è possibile e opportuna una consultazione maggiore di quella che si è avuta in questo caso. Resta il fatto essenziale che un piccolo numero di cervelli presenta una scelta a un vasto gruppo. 6. Gli abusi del comitato direttivo hanno portato a proposte come quelle 178 per l’iniziativa popolare, il referendum e l’elezione primaria diretta. Ma queste proposte hanno semplicemente rimandato o oscurato la necessità della macchina, complicando le elezioni ovvero, come disse una volta H. G. Wells con scrupolosa precisione, le selezioni. Infatti non è con il numero delle votazioni che si può ovviare alla necessità di creare una questione – si tratti di un provvedimento o di un candidato – sulla quale i votanti possano dire Sì o No. Non esiste, in realtà, il «legiferare» diretto. E infatti, che cosa accade quando si suppone che esista? Il cittadino va alle urne, riceve una scheda su cui sono stampati vari provvedimenti, quasi sempre in forma abbreviata, e se esprime il suo voto, lo esprime dicendo Sì o No. Può venirgli in mente il più brillante emendamento del mondo, ma egli vota Sì o No su quel progetto di legge, e nient’altro. Si deve far violenza alla lingua inglese per chiamare ciò «legiferare». Non sostengo, naturalmente, che non presenti dei vantaggi, comunque si voglia chiamare il processo. Ritengo che per certi problemi presenti anzi dei precisi vantaggi, ma la necessaria semplicità di una decisione di massa è un fatto importantissimo, data l’inevitabile complessità del mondo in cui operano queste decisioni. La forma più complicata di votazione che sia stata proposta è, ritengo, la scheda con le preferenze. Tra vari candidati presentati al votante, questo sistema richiede, non di dire Sì a un candidato e No a tutti gli altri, bensì di dichiarare l’ordine di priorità della propria scelta. Ma anche in questo caso l’azione della massa, pur essendo enormemente più elastica, dipende dalla qualità delle scelte offerte1. E queste scelte vengono offerte dalle vigorose cricche che corrono in giro con ordini del giorno, e che raggruppano i delegati. I Molti possono eleggere dopo che i Pochi hanno designato. 179 XV. I capi e i seguaci 1. Data la loro importanza pratica decisiva, i capi affermati hanno sempre trovato il tempo per coltivare i simboli che organizzano il loro seguito. I simboli costituiscono per la base quello che i privilegi sono per la gerarchia: mantengono l’unità. Dal palo totemico alla bandiera nazionale, dall’idolo ligneo a Iddio il Re Invisibile, dalla parola magica a qualche versione annacquata di Adam Smith o di Bentham, i simboli sono stati tenuti cari dai capi – che spesso non ci credevano affatto – perché erano punti focali in cui scomparivano le differenze. L’osservatore distaccato può disprezzare il rituale «stellato» che circonda il simbolo, forse proprio come il re che diceva a se stesso che Parigi valeva bene una messa. Ma il capo sa per esperienza che solo quando i simboli hanno fatto la loro opera egli ha uno strumento con cui muovere la folla. Nel simbolo l’emozione viene scaricata sul bersaglio comune, e le peculiarità delle idee concrete vengono cancellate. Non sorprende che egli detesti ciò che chiama critica distruttiva, chiamata talvolta dagli spiriti liberi l’eliminazione delle parole vuote. «Soprattutto – dice Bagehot – i nostri reali devono essere riveriti, e se si comincia a curiosarci intorno non si riesce a considerarli con riverenza»1. Infatti il curiosarci intorno, cercando definizioni precise e dichiarazioni franche, è utile a tutti i fini più alti noti all’uomo, tranne all’agevole conservazione di una volontà comune. Il curiosare, come tutti i capi responsabili subodorano, tende a impedire il trasferimento dell’emozione dalla mente del singolo al simbolo istituzionale. E il primo risultato di ciò è, come essi dicono giustamente, il caos dell’individualismo e delle fazioni in lotta. La disintegrazione di un simbolo come la Santa Russia o il Ferreo Diaz, è sempre l’inizio di un lungo sconvolgimento. Questi grandi simboli possiedono per trasferimento tutte le minute e dettagliate fedeltà di una società antica e stereotipata. Suscitano il sentimento che ciascun individuo prova per il paesaggio, per il mobilio, i volti, le memorie che sono la sua prima e, in una società statica, la sua sola realtà. Questo nucleo di immagini e di devozione, senza le quali egli non riesce a immaginare se stesso, è la nazionalità. I grandi simboli raccolgono 180 queste devozioni, e possono suscitarle senza richiamare le immagini originarie. I simboli minori della vita pubblica, la più occasionale conversazione sulla politica, si riallacciano sempre a questi protosimboli, e quand’è possibile vi alludono esplicitamente. La questione della giusta tariffa di una metropolitana municipale viene rappresentata come un conflitto tra il Popolo e gli Interessi, e quindi il Popolo viene inserito nel simbolo Americano, sicché alla fine, nel calore della campagna elettorale, una tariffa di otto cents diventa anti-Americana. I padri della Rivoluzione morirono per impedirla, Lincoln soffrì perché non venisse approvata, l’opposizione ad essa era implicita nella morte di coloro che riposano nei cimiteri francesi. Il simbolo, col suo potere di risucchiare l’emozione dalle idee precise, è tanto un meccanismo di solidarietà quanto un meccanismo di sfruttamento. Consente alle persone di operare per un fine comune, ma proprio perché i pochi che stanno in posizione strategica debbono scegliere gli obiettivi concreti, il simbolo è anche uno strumento mediante il quale i pochi possono ingrassarsi a spese dei molti, deviare le critiche e persuadere gli individui ad affrontare sofferenze per scopi che non comprendono. Molti aspetti della nostra sottomissione ai simboli non sono affatto lusinghieri, se vogliamo immaginarci come personalità realiste, autosufficienti ed autonome. Eppure è impossibile arrivare alla conclusione che i simboli siano totalmente strumenti del demonio. Nel regno della scienza e della contemplazione essi sono indubbiamente il Maligno in persona, ma nel mondo dell’azione possono essere benefici, e talvolta sono una necessità. La necessità spesso è immaginata, il pericolo è fabbricato; ma quando servono a risultati immediati, la manipolazione delle masse attraverso i simboli può essere il solo mezzo rapido per realizzare una cosa d’importanza cruciale. Spesso è più importante agire che capire. Talvolta è vero che l’azione fallirebbe se tutti la capissero. Ci sono molte faccende che non possono aspettare un referendum, o reggere alla pubblicità, e ci sono tempi, durante la guerra ad esempio in cui una nazione, un esercito, ed anche i suoi comandanti debbono affidare la strategia a pochissimi cervelli; in cui due opinioni in conflitto, quantunque una delle due sia giusta, sono più pericolose di un’opinione sola sbagliata. L’opinione sbagliata può avere cattivi risultati, ma le due opinioni possono portare al disastro distruggendo l’unità2. E così Foch e Sir Henry Wilson, che previdero il disastro incombente sull’armata di Gough come conseguenza della divisione e dispersione delle riserve, tennero nondimeno le loro opinioni entro un circolo molto ristretto, sapendo che persino il rischio di una grossa sconfitta era 181 certamente meno distruttivo di un’agitata discussione sui giornali. Infatti ciò che conta nei momenti di tensione, come quello che si ebbe nel marzo 1918, è meno la giustezza di una particolare mossa che la sicurezza circa la continuità del comando. Se Foch fosse «andato al popolo», avrebbe potuto vincere la disputa; ma assai prima di poterla vincere, le armate che doveva comandare si sarebbero dissolte. Infatti lo spettacolo di una lite sull’Olimpo è distraente e distruttivo. Ma lo è anche una congiura del silenzio. Dice il capitano Wright: È nell’alto comando, e non in linea, che l’arte della mimetizzazione è praticata di più, e raggiunge le massime altezze. Ovunque i capi vengono ora dipinti dallo zelante lavoro di innumerevoli pubblicisti, sì da poter essere scambiati per Napoleoni: alla lunga […] diventa quasi impossibile spostare questi Napoleoni, per grande che sia la loro incompetenza, a causa dell’enorme seguito pubblico creato nascondendo o attenuando gli insuccessi, ed esagerando o inventando i successi […] ma il peggiore e più insidioso effetto di questa falsità così bene organizzata lo subiscono gli stessi generali: modesti e patrioti come perlopiù sono, e come generalmente si deve essere per scegliere e seguire la nobile professione delle armi, essi stessi vengono alla fine suggestionati da queste illusioni universali, e leggendole ogni mattina sui giornali, si persuadono di essere fulmini di guerra e infallibili, anche se falliscono, e che la loro permanenza al comando è un fine così sacro da giustificare l’uso di qualsiasi mezzo […] queste varie condizioni, che raggiungono il massimo in questo grande inganno, alla fine liberano tutti i comandi generali da qualsiasi controllo. Non vivono più per la nazione: la nazione vive, o piuttosto muore, per loro. La vittoria o la sconfitta cessano di essere l’interesse primario. Ciò che importa a queste corporazioni semisovrane è se alla loro testa ci sarà il caro vecchio Willy o il povero vecchio Harry, o se il partito di Chantilly prevarrà sul partito del Boulevard des Invalides3. Tuttavia il capitano Wright, che riesce a essere così eloquente e così acuto a proposito dei pericoli del silenzio, è costretto nondimeno ad approvare il silenzio tenuto da Foch per non distruggere pubblicamente le illusioni. C’è qui un complicato paradosso, derivante, come vedremo meglio in seguito, dal fatto che la visione democratica tradizionale della vita è concepita non per i momenti di emergenza e di pericolo, ma per quelli di tranquillità e di armonia. E così quando masse di persone debbono collaborare in un ambiente incerto e sconvolto, di solito è necessario assicurare unità ed elasticità senza un vero consenso. E questo lo fa il simbolo. Esso oscura l’intento personale, neutralizza la capacità di distinguere e offusca le mete individuali. Immobilizza la personalità, ma nello stesso tempo rafforza enormemente l’intenzione del gruppo e impegna il gruppo stesso, come in una crisi nessun’altra cosa riesce a impegnarlo, all’azione risoluta. Pur immobilizzando la personalità, rende 182 mobile la massa. Il simbolo è lo strumento mediante il quale per un breve periodo di tempo la massa sfugge alla propria inerzia, l’inerzia dell’indecisione o l’inerzia del movimento precipitoso, e viene resa capace di essere guidata lungo i tornanti di una situazione complicata. 2. A lungo andare però tra i capi e i seguaci s’impone la necessità di reciproche concessioni. Il termine più spesso adoperato per definire lo stato d’animo della truppa verso i suoi capi è «il morale». Si dice che è buono quando gli individui svolgono la parte loro assegnata con tutta la loro energia; quando tutte le forze di ciascun individuo vengono suscitate dagli ordini impartiti dall’alto. Ne segue che ogni capo deve tener conto di ciò quando pianifica la sua politica. Deve considerare la sua decisione non solo «nel merito», ma anche nei suoi effetti sulla parte del seguito del cui appoggio continuativo ha bisogno. Se è un generale che fa il piano di un attacco, egli sa che i suoi reparti militari organizzati, qualora la percentuale delle perdite diventasse troppo alta, si disgregherebbero in folle disordinate. Nella grande guerra i calcoli preventivi vennero sconvolti in misura straordinaria, poiché «ogni nove uomini che andarono in Francia, cinque caddero sul campo»1. Il limite della resistenza fu molto maggiore di quello che si fosse immaginato, ma ci doveva pur essere un limite. E così, in parte per l’effetto sul nemico, ma in gran misura per l’effetto sulle truppe e sulle famiglie, in questa guerra nessun comando ha osato pubblicare un franco resoconto delle sue perdite. In Francia gli elenchi dei caduti non sono mai stati pubblicati, in Inghilterra, in America e in Germania la pubblicazione delle perdite subite nelle grandi battaglie è stata diluita in lunghi periodi di tempo per impedire un’impressione globale del totale. Per molto tempo solo gli iniziati seppero quant’era costata la Somme, o la battaglia delle Fiandre2, e indubbiamente Ludendorff aveva di queste perdite un’idea molto più precisa di quanto potesse avere un qualsiasi cittadino di Londra, Parigi o Chicago. Tutti i capi dell’uno e dell’altro campo fecero del loro meglio per limitare la quantità di guerra che il singolo soldato o il singolo civile riuscissero a concepire con chiarezza. Ma naturalmente i vecchi veterani, come le truppe francesi del 1917, sanno della guerra assai di più di quanto arrivi mai a saperne il pubblico. Un tale esercito comincia a giudicare i suoi comandanti dalle proprie sofferenze. E quindi, quando un’altra stravagante promessa di vittoria si dimostra la solita sconfitta sanguinosa, si può scoprire che un ammutinamento è scoppiato in seguito a 183 un errore relativamente minore3, come l’offensiva di Nivelle del 1917, perché è un errore che viene ad accumularsi ad altri. In genere le rivoluzioni e gli ammutinamenti scoppiano in seguito a un piccolo campione di una grossa serie di mali4. Il raggio di azione di una politica determina il rapporto tra capo e seguaci. Se coloro di cui ha bisogno per il suo piano sono lontani dal luogo in cui avviene l’azione, se i risultati vengono celati o rimandati, se l’impegno dei singoli è indiretto o non immediatamente richiesto, e soprattutto se il consenso implica un’emozione piacevole, il capo probabilmente avrà mano libera. I programmi che hanno immediatamente successo sono quelli, come il proibizionismo tra gli astemi, che non incidono subito nelle abitudini personali dei seguaci. E qui sta una delle grandi ragioni per cui i governi hanno mano libera in politica estera. La maggior parte degli attriti fra due stati s’imperniano su una serie di contese oscure e prolisse, di quando in quando sulle frontiere, ma assai più spesso su regioni delle quali le geografie scolastiche non hanno fornito alcuna idea precisa. In Cecoslovacchia l’America è considerata il Liberatore; nei giornali e nelle commedie musicali americane, e nella conversazione americana in generale, non è mai stato deciso del tutto se il paese che abbiamo liberato è la Cecoslavia o la Jugoslovacchia. Negli affari internazionali l’incidenza della politica si limita per lunghissimi periodi di tempo a un mondo che non si vede. Nulla di quello che vi accade è avvertito come del tutto reale. E così, dato che nel periodo prebellico nessuno deve combattere e nessuno deve pagare, i governi tirano avanti secondo i loro umori, senza tener molto conto del loro popolo. Negli affari locali il costo di una politica è più chiaramente visibile. E perciò tutti i capi, fuorché quelli davvero eccezionali, preferiscono politiche in cui i costi siano per quanto possibile indiretti. Non amano la tassazione diretta. Non amano il pagamento alla consegna. Prediligono i debiti a lungo termine. Amano far credere all’elettore che pagherà lo straniero. Sono sempre stati costretti a calcolare la prosperità dal punto di vista del produttore, piuttosto che da quello del consumatore, perché il peso che ricade sul consumatore è distribuito su moltissime piccole voci. I capi sindacali hanno sempre preferito un aumento dei salari monetari a una diminuzione dei prezzi. La gente si è sempre molto più interessata dei profitti dei milionari, che sono visibili ma relativamente privi di importanza, che degli sprechi del sistema industriale, che sono enormi ma sfuggenti. Un’assemblea legislativa che affronti una situazione di penuria degli alloggi, come quella esistente nel momento in cui queste pagine vengono scritte, conferma questa regola, in primo luogo non 184 facendo nulla per aumentare il numero degli alloggi, in secondo luogo tagliando le gambe al rapace proprietario, in terzo luogo investigando sui costruttori che hanno realizzato guadagni illeciti e sui lavoratori. Infatti una politica costruttiva affronta questioni remote e non interessanti, mentre un proprietario rapace o un idraulico profittatore sono visibili e immediati. Ma mentre la gente facilmente crederà che in un futuro imprecisato e in luoghi invisibili una certa politica le recherà dei vantaggi, il concreto svolgersi di una politica segue una logica diversa da quella che s’immagina. Una nazione può essere indotta a credere che l’aumento delle tariffe ferroviarie per il trasporto delle merci farà prospere le ferrovie. Ma questa convinzione non farà prospere le ferrovie, se il peso di queste tariffe sugli agricoltori e sugli spedizionieri è tale da provocare un prezzo del prodotto superiore alla capacità d’acquisto del consumatore. La decisione del consumatore di pagare o meno questo prezzo dipende non dal fatto di aver annuito nove mesi prima alla proposta di elevare le tariffe per salvare l’economia, ma dal fatto se ora desidera un cappello nuovo o un’automobile nuova a tal punto da essere disposto a pagarli di più. 3. I capi spesso fingono di avere semplicemente scoperto un programma che esisteva già nelle teste del loro pubblico. Quando lo credono, di solito s’ingannano. I programmi non nascono contemporaneamente in una moltitudine di cervelli. E questo non perché una moltitudine di cervelli siano necessariamente inferiori a quelli dei capi, ma perché il pensiero è la funzione di un organismo, e una massa non è un organismo. Questa realtà non appare chiaramente perché la massa è costantemente esposta a suggestioni. Non legge le notizie, bensì le notizie avvolte in un’aura di suggestione, indicante la linea d’azione da prendere. Ascolta resoconti non oggettivi come sono i fatti, ma già stereotipati secondo un certo modello di comportamento. Così il capo apparente scopre spesso che il capo reale è un potente proprietario di giornali. Ma se, come in un laboratorio, si potessero eliminare tutte le suggestioni e le influenze dall’esperienza di una moltitudine, si scoprirebbe, credo, qualcosa di questo genere: una massa esposta agli stessi stimoli manifesterebbe reazioni che in teoria potrebbero essere rappresentate in un poligono di errori. Vi sarebbe un certo gruppo che manifesterebbe una reazione abbastanza omogenea per poter essere classificato insieme. Vi sarebbero varianti di reazione alle due estremità. Queste classificazioni tenderebbero a cristallizzarsi a mano mano che gli individui entro ciascuna categoria 185 dessero voce alle loro reazioni. Vale a dire, quando le vaghe emozioni di coloro che abbiamo sentito in modo vago fossero state messe in parole, essi comprenderebbero in modo più preciso ciò che hanno sentito e allora lo sentirebbero più precisamente. I capi che si mantengono a contatto con l’umore popolare si rendono rapidamente conto di queste reazioni. Sanno che i prezzi elevati fanno pressione sulla massa, o che certe categorie di individui stanno diventando impopolari, o che il sentimento verso un’altra nazione è amichevole o ostile. Ma, sempre prescindendo dagli effetti della suggestione la quale è nient’altro che l’assunzione di una funzione di guida da parte del cronista, nel sentimento della massa non ci sarebbero elementi atti a determinare fatalmente la scelta di una politica piuttosto che di un’altra. Tutto ciò che il sentimento della massa pretende è che la politica elaborata ed esposta si riallacci, se non logicamente, per analogia e associazione, al sentimento originario. Così, quando si deve lanciare una nuova politica, si comincia con un appello preliminare alla comunione dei sentimenti, come nel discorso di Marc’Antonio ai seguaci di Bruto1. Nella prima fase, il capo dà voce alle opinioni prevalenti nella massa. Si identifica con gli atteggiamenti comuni del suo pubblico, talvolta raccontando una barzelletta efficace, talvolta sbandierando il suo patriottismo, spesso toccando una rivendicazione. Stabilito che ci si può fidare di lui, la moltitudine che stava vagando qua e là può incanalarsi verso di lui. Ci si aspetterà allora che esponga un piano d’azione, ma egli non troverà questo piano negli slogan che esprimono i sentimenti della massa. Questi slogan spesso non lo indicheranno nemmeno. Dove la politica incide molto alla lontana, quello che è essenziale è che il programma all’inizio si riallacci verbalmente ed emotivamente a quello a cui la moltitudine ha già dato voce. Gli uomini che riscuotono fiducia svolgendo il loro ruolo riconosciuto possono, sottoscrivendo i simboli accettati, fare molta strade per conto loro senza spiegare la sostanza del loro programma. Ma i capi avveduti non si accontentano di questo. Se capiscono che la pubblicità non rafforzerà eccessivamente l’opposizione, e che la polemica non rimanderà troppo a lungo l’azione, cercano di ottenere una certa misura di consenso. Mettono a parte dei loro progetti, se non l’intera massa, i subordinati della gerarchia, nella misura sufficiente a prepararli a ciò che potrebbe succedere, e per dargli l’impressione di aver liberamente voluto il risultato. Ma per quanto sincero possa essere il capo, quando i fatti sono molto complicati c’è sempre in queste consultazioni una certa dose di illusione. Infatti è impossibile che tutte le circostanze siano chiare 186 all’intero pubblico quanto lo sono ai più esperti e ai più dotati di intuito. Una percentuale piuttosto grande di individui è destinata ad acconsentire senza aver avuto il tempo, o senza avere la preparazione, per apprezzare le scelte che il capo presenta loro. Nessuno, tuttavia, può pretendere di più. E infatti solo i teorici lo pretendono. Se siamo stati per un momento alla ribalta, se quello che avevamo da dire ha trovato udienza, e se poi ciò che viene fatto in seguito riesce bene, la maggior parte di noi non si sofferma a domandarsi in quale misura la nostra opinione abbia influito sulla decisione in questione. E perciò se i poteri costituiti sono sensibili e bene informati, se manifestamente si sforzano di andare incontro al sentimento popolare, e rimuovono effettivamente alcune delle cause di insoddisfazione, non importa se procedono lentamente: purché sembri che procedono, hanno ben poco da temere. Occorrono colossali e persistenti errori, e una mancanza di tatto quasi infinita, per provocare una rivoluzione dal basso. Le rivolte di palazzo, le congiure di gabinetto, sono una cosa diversa. E lo è pure la demagogia. Questa si limita ad allentare la tensione esprimendo il sentimento. Ma l’uomo di stato sa che questo sollievo è temporaneo e, se ci si ricorre troppo spesso, poco sano. Perciò sta attento a non suscitare sentimenti che non abbia modo di dirottare in un programma attinente ai fatti a cui i sentimenti si riferiscono. Ma non tutti i capi sono uomini di stato, nessun capo vuole dimettersi, e la maggior parte dei capi è riluttante ad ammettere che le cose non andrebbero peggio di come vanno se ad occuparsene fosse il loro oppositore. Non stanno passivamente ad aspettare che il pubblico senta il peso della politica, perché a sua volta il peso di questa scoperta pende in genere sulle loro teste. Perciò ogni tanto si preoccupano di mettere a posto le loro difese e di consolidare la loro posizione. Il rafforzamento delle difese consiste nell’offrire un qualche capro espiatorio, nel soddisfare qualche piccola rivendicazione di un individuo o di una fazione potente, nel redistribuire certi incarichi, nel placare un gruppo di persone che vogliono un arsenale nel loro paese, o una legge per eliminare i vizi di qualcheduno. Si studi l’attività quotidiana di un qualsiasi personaggio pubblico elettivo, e sarà facile allargare l’elenco. Ci sono parlamentari, rieletti un anno dopo l’altro, che non si sognano mai di sprecare le loro energie negli affari pubblici. Preferiscono fare un piccolo favore a molta gente per molte piccole cose, piuttosto che impegnarsi a cercare di fare un qualche grande servizio laggiù nel vuoto. Ma il numero di persone alle quali un’organizzazione può fare vantaggiosamente dei servizi è limitato, e i politici astuti stanno molto attenti a favorire sia la 187 persona influente, sia qualcuno che appaia così manifestamente privo di influenza che l’occuparsi di lui diventi segno di sensazionale magnanimità. La grande maggioranza che non può essere agganciata con favori, la moltitudine anonima, riceve la propaganda. In ogni organizzazione i capi indiscussi hanno grandi vantaggi naturali. Si crede che abbiano migliori fonti di informazione. I libri e le carte stanno nei loro uffici. Hanno preso parte alle riunioni importanti. Hanno conosciuto le persone importanti. Hanno responsabilità. Perciò a loro è più facile assicurarsi l’attenzione e parlare in tono convincente. Ma hanno anche un forte controllo sull’accesso ai fatti. Ogni pubblico ufficiale è in qualche misura un censore. E siccome nessuno può sopprimere le notizie, nascondendole o dimenticando di citarle, senza un’idea di quello che desidera far sapere al pubblico, ogni capo è in qualche misura un propagandista. Trovandosi in una posizione strategica, costretto spesso a scegliere nel migliore dei casi tra gli ideali egualmente potenti, sebbene in conflitto, della sicurezza dell’istituzione e della franchezza verso il suo uditorio, il pubblico ufficiale si troverà a decidere sempre più consapevolmente quali fatti, con quale contorno, in quale guisa, permetterà al pubblico di conoscere. 4. Nessuno negherà, credo, che la fabbricazione del consenso è suscettibile di grandi raffinatezze. Il processo attraverso il quale si formano le opinioni pubbliche è certamente non meno intricato di quanto sia apparso in queste pagine, e le possibilità di manipolazione, che si offrono a tutti coloro che comprendono questo processo, sono abbastanza evidenti. La creazione del consenso non è un’arte nuova. È un’arte vecchissima, che era stata data per morta quando apparve la democrazia, ma non è morta. In realtà ne è stata migliorata enormemente la tecnica, perché ora si fonda sull’analisi piuttosto che sulla pratica. E così, per effetto della ricerca psicologica abbinata ai moderni mezzi di comunicazione, la prassi democratica ha fatto una svolta. Sta avvenendo una rivoluzione, infinitamente più significativa di qualsiasi spostamento di potere economico. Nel corso della vita della generazione che ora controlla il mondo, la persuasione è diventata un’arte deliberata e un organo regolare del governo popolare. Nessuno di noi è in grado di vederne tutte le conseguenze, ma non è azzardato pensare che la conoscenza dei modi per creare il consenso 188 altererà tutti i calcoli politici e modificherà tutte le premesse politiche. Sotto la pressione della propaganda, non necessariamente nella sola accezione sinistra della parola, le vecchie costanti del nostro pensiero sono diventate variabili. Non è più possibile, ad esempio, credere nel dogma originario della democrazia: cioè che le conoscenze necessarie alla condotta degli affari umani sorgano spontaneamente dal cuore umano. Quando operiamo sulla base di questa teoria, ci esponiamo all’autoinganno, e a forme di persuasione che non siamo in grado di verificare. È stato dimostrato che se vogliamo affrontare il mondo che sta al di là della nostra immediata sfera personale, non possiamo affidarci all’intuizione, alla coscienza o agli accidenti dell’opinione casuale. «New York Times», 20 maggio 1921. 1 Pronunciato alla Carnegie Hall di New York il 31 luglio 1916. 1 Nel suo colloquio con i senatori il presidente Wilson dichiarò di non avere mai sentito parlare di questi trattati prima di arrivare a Parigi. Questa dichiarazione è sconcertante. I Quattordici Punti, come il testo dimostra, non avrebbero potuto essere formulati senza la conoscenza dei trattati segreti. La sostanza di questi trattati era nota al presidente quando questi e il colonnello House prepararono il testo definitivo dei Quattordici Punti. 1 L’interpretazione americana dei Quattordici Punti venne spiegata agli statisti alleati appena prima dell’armistizio. 1 T. Jefferson, Works, IX, p. 87. Citato in C. A. Beard, Economic Origins of Jeffersonian Democracy, Macmillan, New York 1915, p. 173. 1 Si veda un vecchio libro interessante e piuttosto curioso: G. C. Lewis, An Essay on the Influence of Authority in Matters of Opinion, J. W. Parker, London 1849. 2 Cfr. Bryce, Modern Democracies cit., II, pp. 544-5. 3 Cfr. M. Ostrogorsky, Democracy and the Organization of Politicai Parties, Macmillan, New York 1908, passim; R. Michels, La sociologia del partito politico (1911), il Mulino, Bologna 1966; e Bryce, Modern Democracies cit., soprattutto il cap. LXXV; e anche E. A. Ross, The Principles of Sociology, The Century Co., New York 1920, capp. XXII-XXIV. 1 Bryce, Modern Democracies cit., II, p. 542. 1 Cfr. James, Some Problems of Philosophy cit., p. 227. «Ma per la maggior parte delle nostre situazioni di crisi le soluzioni frammentarie sono impossibili. Solo di rado possiamo agire frammentariamente». Cfr. A. L. Lowell, Public Opinion and Popular Government, Longmans, Green and Co., New York 1913, pp. 91-2. 1 Cfr. H. J. Laski, Foundations of Sovereignty, and Other Essays, Harcourt, Brace and Co., New York 1920, p. 224: «La rappresentanza proporzionale […] portando, come sembra portare, al sistema di gruppo […] può privare gli elettori della possibilità di scegliere i capi che preferiscono». Il sistema di gruppo tende indubbiamente, come dice Laski, a rendere più indiretta la selezione dei dirigenti, ma non c’è dubbio che tende anche a produrre delle assemblee legislative in cui le correnti di opinione sono rappresentate in modo più aderente. Non si può stabilire a priori se ciò sia un bene o un 1 189 male. Ma si può dire che per conseguire la collaborazione e la responsabilità in un’assemblea, che sia più fedelmente rappresentativa, occorre un’organizzazione di intelligenza politica e di costume politico migliore di quella necessaria in una Camera rigidamente bipartitica. È una forma politica più complicata e perciò può funzionare molto bene. 1 W. Bagehot, The English Constitution, D. Appleton & Co., 1914, p. 127; trad. it. La costituzione inglese, il Mulino, Bologna 1995. 2 Vale la pena di leggere attentamente il libro del capitano Peter S.Wright, vicesegretario del Consiglio supremo di guerra, At the Supreme War Council, G. P. Putnam’s sons, New York-London 1921. Le pagine più interessanti sono quelle sulla segretezza e l’unità di comando, anche se nei confronti dei capi alleati l’autore conduce un’appassionata polemica. 3 Ibid., pp. 98, 101-5. 1 Ibid., p. 37. Il capitano Wright ha tratto queste cifre dal compendio statistico della guerra esistente negli archivi del War Office. Le cifre si riferiscono apparentemente alle sole perdite inglesi, forse alle perdite inglesi e francesi. 2 Ibid., p. 34. Nella battaglia della Somme le perdite ammontarono a 500 000 unità; nelle offensive di Arras e delle Fiandre, del 1917, le perdite inglesi ammontarono a 650 000 unità. 3 Gli alleati hanno subito sconfitte molto più sanguinose di quella di Chemin des Dames. 4 Cfr. il racconto di Pierrefeu, G.Q.G. Secteur 1 cit., I, parte III sgg., circa le cause degli ammutinamenti di Soissons, e il metodo adottato da Pétain per affrontarli. 1 Analizzato eccellentemente da Martin, The Behaviour of Crowds cit., pp. 130-2. 190 VI. L’immagine della democrazia Confesso che in America ho visto più dell’America; cercavo l’immagine stessa della democrazia. Alexis de Tocqueville 191 XVI. L’uomo egocentrico 1. Poiché si ritiene che nelle democrazie l’Opinione Pubblica sia il primo motore, sarebbe ragionevole attendersi di trovare una vastissima letteratura sull’argomento. Ma in realtà non esiste. Ci sono opere eccellenti sul governo e sui partiti, ossia sui congegni che in teoria registrano le opinioni pubbliche dopo che si sono formate. Ma sulle fonti da cui queste opinioni pubbliche scaturiscono, o sui processi dai quali vengono derivate, c’è relativamente poco. L’esistenza di una forza chiamata Opinione Pubblica è di solito data per acquisita, e gli scrittori politici americani si sono interessati soprattutto di scoprire il modo per far esprimere al governo la volontà comune, o quello per impedire alla volontà comune di sovvertire i fini per cui pensano che esista il governo. A seconda delle loro tradizioni, hanno desiderato addomesticare l’opinione oppure obbedirla. Così il curatore di una notevole serie di libri di testo scrive che «la questione più difficile e più importante del governare [è] come trasferire la forza dell’opinione individuale nell’azione pubblica»1. Ma certamente c’è una questione ancora più importante: la questione di come convalidare le nostre personali interpretazioni della vita politica. C’è, come tenterò di dimostrare in seguito, la prospettiva di un radicale miglioramento mediante uno sviluppo di principi già in atto. Ma questo sviluppo dipenderà dalla nostra capacità di apprendere ad adoperare la conoscenza del modo in cui le opinioni vengono costruite per sorvegliare le nostre opinioni quando sono in costruzione. Infatti l’opinione comune, essendo il prodotto di contatti parziali, di tradizioni e di interessi personali, non può davvero accogliere volentieri un metodo di pensiero politico che si fonda su documenti precisi, misurazioni, analisi e confronti. Proprio quelle qualità della mente, che determinano che cosa apparirà interessante, importante, familiare, personale e drammatico, sono le qualità che l’opinione realistica frustra sin dall’inizio. Perciò, se nella collettività, presa nel suo complesso, manca una crescente consapevolezza del fatto che il pregiudizio e l’intuizione non sono sufficienti, l’elaborazione dell’opinione realistica, che richiede tempo, denaro, fatica, sforzo 192 cosciente, pazienza ed equanimità, non troverà appoggi sufficienti. Questa consapevolezza cresce a mano a mano che aumenta l’autocritica, e ci rende coscienti delle parole vuote, ci fa disprezzare noi stessi quando le impieghiamo, e ci fa stare all’erta per scoprirle. Senza un’inveterata abitudine ad analizzare le opinioni quando leggiamo, parliamo e decidiamo, la maggior parte di noi non sospetterebbe la necessità di idee migliori, non se ne interesserebbe quando apparissero, e non riuscirebbe a impedire che si manipolasse la nuova tecnica dell’informazione politica. Tuttavia le democrazie, se dobbiamo giudicarle dagli esempi più vecchi e più efficaci, hanno reso misteriosa l’opinione pubblica. Ci sono stati organizzatori di opinione, capaci di intendere il mistero abbastanza bene per riuscire a creare delle maggioranze al giorno dell’elezione. Ma questi organizzatori sono stati considerati dalla scienza politica delle basse creature, o dei «problemi», e non i possessori delle conoscenze più efficaci sul modo di creare e adoperare l’opinione pubblica. La tendenza delle persone che hanno espresso le idee della democrazia, anche quando non ne hanno diretto l’azione, la tendenza degli studiosi, degli oratori, dei giornalisti, è stata quella di vedere l’Opinione Pubblica come gli uomini di altre società vedevano le forze arcane a cui attribuivano l’ultima parola nella determinazione degli avvenimenti. Infatti in quasi tutte le teorie politiche c’è un elemento inscrutabile, che nel momento in cui le teorie stesse furoreggiano non viene esaminato. Al di là delle apparenze c’è un Fato, ci sono degli Angeli Custodi, o dei Comandi ad un Popolo Eletto, una Monarchia Divina, un Vicario del Cielo o una Classe dei Bennati. Gli angeli, i demoni e i re più ovvi sono scomparsi dal pensiero democratico, e tuttavia perdura la necessità di credere che ci siano dei poteri di riserva. Perdurava in quei pensatori del Settecento che tracciarono la matrice della democrazia. Avevano una divinità pallida, ma cuori ardenti, e trovarono nella dottrina della sovranità popolare la risposta al loro bisogno di attribuire un’origine infallibile al nuovo ordine sociale. Il mistero era lì, e solo i nemici del popolo potevano toccarlo con mani profane e curiose. 2. Non sollevarono il velo, perché erano politici pratici impegnati in una lotta aspra e incerta. Essi stessi avevano sentito l’aspirazione alla democrazia, che è sempre tanto più profonda, intima e importante di qualsiasi teoria del governo. Erano impegnati, contro il pregiudizio di secoli, nell’affermazione della dignità umana. La loro molla non era l’idea 193 che John Smith avesse opinioni sensate sulle questioni pubbliche, bensì quella che John Smith, discendente da un ceppo che era stato sempre considerato inferiore, d’ora in avanti non avrebbe piegato il ginocchio davanti a nessun altro uomo. Era questo spettacolo che rendeva una beatitudine «l’esser vivi in quell’alba». Ma tutti i critici sembrano sminuire questa dignità, negando che tutti gli uomini siano sempre ragionevoli, o istruiti o informati, notando che le persone vengono ingannate, che non sempre conoscono i propri interessi, e che non tutti gli uomini sono egualmente adatti a governare. Questi critici riuscivano graditi quanto può esserlo un bambino munito di un tamburo. Ognuna di queste osservazioni sulla fallibilità dell’uomo veniva sfruttata fino alla nausea. Ammettendo che c’era della verità in uno qualsiasi degli argomenti aristocratici, i democratici avrebbero aperto una breccia nelle proprie difese. E così, proprio come Aristotele doveva insistere che lo schiavo era schiavo per natura, i democratici dovevano insistere che l’uomo libero era legislatore e amministratore per natura. Non potevano indugiare a spiegare che un’anima umana poteva non avere ancora, o anzi avrebbe potuto non avere mai, questo corredo tecnico; e che nondimeno aveva il diritto inalienabile di non essere adoperata come pedina non consenziente da altri uomini. Le persone superiori erano ancora troppo forti e troppo prive di scrupoli per astenersi dal far tesoro di una dichiarazione così candida. E allora i primi democratici sostenevano che una rettitudine ragionata scaturiva spontaneamente dalla massa degli uomini. Tutti speravano che fosse così, molti di loro credevano che lo fosse, sebbene i più avveduti, come Thomas Jefferson, nutrissero privatamente molte riserve al riguardo. Ma una cosa era certa: in quell’epoca tutti ritenevano che la pubblica opinione sarebbe sorta spontaneamente o non sarebbe sorta affatto. Infatti, sotto un aspetto fondamentale la scienza politica su cui si basava la democrazia era la stessa scienza che Aristotele aveva formulato. Era la stessa scienza per il democratico e l’aristocratico, il monarchico e il repubblicano, poiché la sua premessa maggiore postulava che l’arte di governo fosse una dote naturale. Gli uomini rivelavano opinioni radicalmente diverse allorché cercavano di indicare gli uomini forniti di questa dote; ma era d’accordo nel pensare che la questione più grossa era quella di trovare coloro nei quali la saggezza era nata. I monarchici erano certi che i re fossero nati per governare. Alexander Hamilton riteneva che pur «essendoci forti intelletti in tutti i campi […] il corpo rappresentativo, con eccezioni troppo poco numerose per avere un’influenza sullo spirito del governo, sarà composto di proprietari terrieri, di commercianti e liberi 194 professionisti»1. Jefferson riteneva che le doti politiche venissero depositate da Dio negli agricoltori e nei proprietari di piantagioni, e talora parlava come se si potesse trovarle in tutti gli individui2. La premessa principale era la stessa: governare era un istinto che appariva, a seconda delle proprie preferenze sociali, in un solo uomo o in pochi eletti, in tutti i maschi, o in tutti i maschi bianchi di età superiore ai ventun anni, o magari in tutti gli uomini e in tutte le donne. Nel decidere chi fosse più adatto a governare, la conoscenza del mondo era data per scontata. L’aristocratico riteneva che quelli che maneggiavano affari importanti possedevano l’istinto; i democratici affermavano che tutti gli uomini possedevano l’istinto, e perciò erano in grado di trattare gli affari importanti. In nessun caso faceva parte della scienza politica il problema di spiegare come far arrivare la conoscenza del mondo al governante. Se si era per il popolo, non c’era alcun bisogno di risolvere la questione del modo in cui tenere informato l’elettore. All’età di ventun anni questi aveva le sue facoltà politiche. Ciò che contava era un buon cuore, una mente raziocinante, un punto di vista equilibrato. Sarebbero maturati con l’età, ma non era necessario preoccuparsi di come informare il cuore e nutrire la ragione. Gli uomini assorbivano i fatti così come assorbivano l’aria. 3. Ma i fatti che gli uomini potevano giungere a possedere in questa maniera, che non richiedeva sforzo, erano limitati. Potevano conoscere i costumi e le caratteristiche più evidenti del luogo in cui vivevano e lavoravano. Ma il mondo esterno dovevano immaginarselo, e non se lo immaginavano istintivamente, né potevano assorbirne una conoscenza attendibile per il solo fatto di vivere. Perciò il solo ambiente in cui era possibile la politica spontanea era quello compreso nell’ambito della conoscenza diretta e certa del governante. Non si può sfuggire a questa conclusione ogniqualvolta si fondi il governo sull’ambito naturale delle facoltà dell’uomo. «Per decidere questioni di giustizia e per distribuire le cariche secondo il merito – come diceva Aristotele1 –, è necessario che i cittadini si conoscano a vicenda nelle loro qualità, poiché, ove ciò non si avvera, di necessità le faccende riguardanti le cariche e le sentenze giudiziarie vanno male». Ovviamente, questa massima era valida per tutte le scuole di pensiero politico. Ma presentava difficoltà particolari per i democratici. Quelli che credevano nel governo di classe potevano ragionevolmente sostenere che alla corte del re, o nelle ville dei signori, gli uomini conoscevano i 195 rispettivi caratteri, e finché il resto dell’umanità restava passivo, i soli caratteri che occorreva conoscere erano i caratteri degli uomini della classe governante. Ma i democratici, che aspiravano a elevare la dignità di tutti gli uomini, si trovavano alle prese con le enormi dimensioni e con la confusione della loro classe governante: l’elettorato maschile. La loro scienza gli diceva che la politica era un istinto, e che l’istinto operava in un ambiente limitato. Le loro speranze li spingevano a sostenere che tutti gli uomini compresi in un vastissimo ambiente potevano governare. In questo micidiale conflitto tra i loro ideali e la loro scienza, l’unica via d’uscita era quella di postulare senza troppe discussioni che la voce del popolo era la voce di Dio. Il paradosso era troppo grande, la posta troppo grossa, il loro ideale troppo prezioso per un esame critico. Non potevano dimostrare in che modo un cittadino di Boston potesse, restando a Boston, capire le opinioni di un virginiano, in che modo un virginiano, stando nella Virginia, potesse avere delle reali opinioni sul governo di Washington, in che modo i parlamentari, stando a Washington, potessero avere opinioni sulla Cina o sul Messico. Infatti a quel tempo solo pochi individui erano in grado di estendere il raggio del giudizio al mondo che non vedevano. S’erano fatti dei progressi, naturalmente, dai tempi di Aristotele. C’erano alcuni giornali, e c’erano libri, e strade probabilmente migliori, e navi migliori. Ma non c’era un grande progresso, e i postulati politici del Settecento dovevano in fondo essere quelli che avevano dominato la scienza politica per duemila anni. I primi democratici non possedevano gli strumenti per risolvere il conflitto tra ciò che si sapeva essere il campo d’attenzione dell’individuo e la fede illimitabile nella sua dignità. I loro postulati erano antecedenti non solo al giornale moderno, alle agenzie mondiali, alla fotografia e ai film, ma, ciò che importa di più, erano antecedenti alle misurazioni e ai documenti, all’analisi quantitativa e comparativa, ai canoni dell’evidenza, e alla capacità dell’analisi psicologica di correggere e far la tara sui pregiudizi del testimone. Non voglio dire che i nostri documenti siano soddisfacenti, che la nostra analisi sia priva di pregiudizi, che le nostre misurazioni siano sicure. Quel che voglio dire è che le invenzioni-chiave sono state fatte per portare il mondo lontano entro il raggio del giudizio. Non erano state escogitate al tempo di Aristotele, e non erano ancora abbastanza importanti per venir notate dalla teoria politica al tempo di Rousseau, Montesquieu e Thomas Jefferson. Più avanti credo che si vedrà come anche nell’ultima teoria della ricostruzione umana, quella dei socialisti corporativi inglesi, tutte le premesse più importanti siano state tratte da questo antico sistema di pensiero politico. 196 Questo sistema, quando era competente e onesto, doveva sostenere che nessun individuo poteva avere altro che una parzialissima esperienza della vita pubblica. Nel senso che può dedicarle solo poco tempo, questo postulato è ancora vero, ed è pregno di conseguenze. Ma la teoria antica era costretta a sostenere non solo che gli uomini potevano dedicare scarsa attenzione alle questioni pubbliche, ma che l’attenzione disponibile avrebbe dovuto limitarsi alle questioni immediatamente a portata di mano. Sarebbe stato utopistico, allora, pensare che sarebbe venuto un tempo in cui si sarebbero potuti riferire, analizzare e presentare fatti lontani e complicati in modo tale che un dilettante potesse fare una scelta realmente valida. Questo tempo è ora in vista. Non c’è più alcun dubbio che l’informazione continua sul mondo che non si vede è una possibilità pratica. Spesso questo viene fatto malamente, ma la circostanza stessa che lo si faccia dimostra che può esser fatto, e la circostanza che cominciamo a capire che spesso è fatto male, dimostra che può esser fatto meglio. Con gradi diversi di capacità e onestà, ogni giorno situazioni lontane complesse vengono esposte da tecnici e contabili a industriali o uomini d’affari, da segretari e funzionari ad autorità pubbliche, da ufficiali dei servizi segreti allo Stato maggiore generale, da alcuni giornalisti ad alcuni lettori. Sono inizi grossolani, ma radicali. Assai più radicali, nel senso letterale di questa parola, della ripetizione di guerre, rivoluzioni, abdicazioni e restaurazioni; radicali quanto il mutamento spaziale avvenuto nella vita umana, e che ha reso possibile a Lloyd George di discutere delle miniere del Galles a Londra dopo la prima colazione e del destino degli arabi prima di cena a Parigi. Infatti la possibilità di portare entro il raggio del giudizio un qualsiasi aspetto delle cose umane, spezza l’incantesimo che pendeva sulle linee politiche. Ci sono stati naturalmente moltissimi individui che non si sono resi conto che il raggio dell’attenzione era la premessa principale della scienza politica. Hanno costruito sulla sabbia. Hanno dimostrato nelle proprie persone gli effetti di una conoscenza limitatissima ed egocentrica del mondo. Ma nei pensatori politici che hanno contato qualcosa – da Platone e Aristotele, attraverso Machiavelli e Hobbes, fino ai teorici della democrazia – la riflessione si è imperniata sull’uomo egocentrico, che doveva vedere il mondo intero mediante qualche immagine che aveva in testa. 197 XVII. La comunità autosufficiente 1. È sempre stato evidente che i gruppi di individui egocentrici, venendo a contatto tra loro, avrebbero ingaggiato una lotta per l’esistenza. C’è almeno questo di vero in quel famoso brano del Leviatano, in cui Hobbes afferma che anche se non ci fosse mai stato un tempo in cui i particolari fossero in condizione di guerra l’un contro l’altro, tuttavia in tutti i tempi i re e le persone dotate di autorità sovrana, a causa della loro indipendenza, si trovano ad avere continue gelosie, ad essere nello stato e nella posizione di gladiatori che stanno con le armi puntate e gli occhi fissi l’uno sull’altro1. 2. Per aggirare questa conclusione una grande corrente di pensiero, che ha avuto ed ha molte scuole, procedeva in questo modo: concepiva un modello idealmente giusto di rapporti umani, in cui ciascuna persona aveva funzioni e diritti ben precisi. Se svolgeva coscienziosamente il ruolo assegnatole, non importava se le sue opinioni erano giuste o sbagliate. Faceva il suo dovere, il suo vicino lo faceva pure, e tutte le persone ligie al dovere formavano insieme un mondo armonioso. Tutti i sistemi di casta sono un’illustrazione di questo principio; lo si trova nella Repubblica di Platone e in Aristotele, nell’ideale feudale, nelle sfere del Paradiso di Dante, nel socialismo di tipo burocratico, e nel laissez-faire, e in misura sorprendente nel sindacalismo, nel socialismo corporativo, nell’anarchismo e nel sistema di diritto internazionale idealizzato da Robert Lansing. Tutti, senza eccezione, presuppongono un’armonia prestabilita, ispirata, imposta, o innata, per opera della quale la persona, la classe o la collettività egocentrica viene orchestrata insieme al resto dell’umanità. I più autoritari immaginano un direttore di questa sinfonia, che bada a far suonare a ognuno la sua parte; gli anarchici son propensi a pensare che se ciascun suonatore improvvisasse a piacimento, si sentirebbe un’armonia più divina. 198 Ma ci sono stati anche filosofi che si infastidivano di questi schemi di diritti e doveri, che davano per scontato il conflitto e cercavano di capire in che modo si poteva far uscire vincente la loro parte. Sono sempre apparsi più realisti, anche quando parevano allarmanti, perché non avevano da fare altro che generalizzare l’esperienza a cui nessuno sfuggiva. Machiavelli è il classico di questa scuola, un uomo spietatamente calunniato, perché gli capitò di essere il primo naturalista che usasse un linguaggio semplice in un campo sino allora occupato dai soprannaturalisti1. Ha una nomea peggiore di ogni altro pensatore politico di ogni tempo, e più discepoli di ogni altro. Descrisse in modo veritiero la tecnica di esistenza dello stato autosufficiente. Ecco perché ha dei discepoli. Ha una cattiva nomea soprattutto perché ammiccò alla famiglia Medici, sognando di notte nel suo studio, quando indossava i suoi «panni curiali», di esser lui, Machiavelli, il Principe; e trasformò una pungente descrizione del modo in cui le cose vengon fatte in un elogio di questo modo di fare. Nel suo capitolo più famigerato2 scrisse che debbe adunque avere uno principe gran cura che non li esca mai di bocca una cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità, e paia, a vederlo et udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto relligione. E non è cosa più necessaria a parere di avere, che questa ultima qualità. E li uomini in universali iudicano più alli occhi che alle mani; perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi. Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’; e quelli pochi non ardiscano opporsi alla opinione di molti, che abbino la maestà dello stato che li difenda; e nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio da reclamare, si guarda al fine. […] Alcuno principe de’ presenti tempi, quale non è bene nominare, non predica mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra è inimicissimo; e l’una e l’altra, quando e’ l’avessi osservata, li arebbe più volte tolto o la reputazione o lo stato. Questo è cinico. Ma è il cinismo di un uomo che vedeva chiaro, senza sapere del tutto perché vedeva quello che vedeva. Machiavelli pensa alla generalità degli uomini e dei principi «che iudicano più alli occhi che alle mani», che è il suo modo di dire che i loro giudizi sono soggettivi. Era troppo pratico per pretendere che gli italiani del suo tempo vedessero il mondo con fermezza, e che lo vedessero intero. Non voleva indulgere a fantasie, e non aveva le basi per immaginarsi una razza di uomini che avessero imparato il modo di correggere la loro visione. Il mondo, come gli si presentava, si componeva di persone la cui visione difficilmente poteva esser corretta; e Machiavelli sapeva che tali persone, vedendo tutti i rapporti pubblici da un punto di vista privato, sono perpetuamente in conflitto. Ciò che vedono è la loro interpretazione 199 personale, di classe, dinastica o municipale, di cose che in realtà arrivano molto al di là dei limiti della loro visione. Vedono il loro aspetto. Lo vedono come quello giusto. Ma incrociano altre persone che sono parimenti egocentriche. E allora la loro stessa esistenza è in pericolo, o almeno ciò che essi, per insospettate ragioni private, considerano la propria esistenza, e ciò che giudicano un pericolo. Il fine, che si fonda ineluttabilmente su un’esperienza reale, quantunque privata, giustifica i mezzi. Sono disposti a sacrificare uno qualsiasi di questi ideali per salvarli tutti… «si guarda al fine». 3. I filosofi della democrazia si sono trovati di fronte a queste verità elementari. Consapevolmente o no, avvertivano che il raggio della conoscenza politica era limitato, che l’area dell’alto governo avrebbe dovuto essere limitata, e che gli stati autosufficienti, venendo a contatto tra di loro, assumevano pose gladiatorie. Ma avvertivano con altrettanta certezza che negli uomini c’era la volontà di determinare il proprio destino, e di trovare una pace che non fosse imposta con la forza. Come potevano conciliare il desiderio e la realtà? Si guardarono attorno. Nelle città-stato della Grecia e dell’Italia trovarono una storia di corruzione, intrighi e guerra1. Nelle proprie città videro faziosità, artificiosità, febbrilità. Non era questo l’ambiente in cui l’ideale democratico poteva prosperare, non era questo il posto in cui un gruppo di individui indipendenti e di pari competenza poteva condurre i propri affari comuni spontaneamente. Guardarono più in là, forse guidati in qualche modo da Jean-Jacques Rousseau; guardarono ai remoti e incorrotti villaggi rurali. Quel che videro fu sufficiente a convincerli che là era la patria del loro ideale. Jefferson in particolare lo sentì, e Jefferson più di ogni altro formulò l’immagine americana della democrazia. Il potere che aveva portato la rivoluzione americana alla vittoria era venuto dai borghi. Dai borghi dovevano venire i voti che portarono il partito di Jefferson al potere. Là nelle comunità rurali del Massachusetts e della Virginia, se si riusciva a distogliere lo sguardo dagli schiavi, si poteva vedere con l’occhio della mente l’immagine di ciò che la democrazia doveva essere. «Scoppiata la rivoluzione – dice de Tocqueville2 – il dogma della sovranità del popolo uscì dal comune e si impadronì del governo». Certamente prese possesso delle menti di quegli uomini, che formularono e resero popolari gli stereotipi della democrazia. «Il nostro principio era la 200 cura del popolo» scrisse Jefferson3. Ma il popolo che egli curava era composto quasi esclusivamente di piccoli proprietari coltivatori: Quelli che lavorano la terra sono il popolo eletto di Dio, se mai Egli ha avuto un popolo eletto, il cui petto Egli ha fatto scrigno di ogni forte e genuina virtù. È il focolare in cui Egli tien vivo quel sacro fuoco che altrimenti potrebbe fuggire dalla faccia della terra. La corruzione morale della massa dei coltivatori è un fenomeno di cui non si sono avuti esempi in alcun tempo e in alcuna nazione. Una parte di questa esclamazione certamente si spiega con la voglia del ritorno romantico alla natura, ma non manca anche una dose di solido buon senso. Jefferson aveva ragione di pensare che un gruppo di agricoltori indipendenti si avvicina più di qualsiasi altra società umana a soddisfare i requisiti della democrazia spontanea. Ma se si vuole mantenere l’ideale, è necessario isolare queste comunità ideali dalla ignominie del mondo. Se debbono amministrare i loro affari, gli agricoltori debbono limitarsi a questi affari che sono abituati ad amministrare. Jefferson tirò tutte queste conclusioni logiche. Disapprovava l’industria, il commercio estero, la marina, le forme intangibili di proprietà e in teoria ogni forma di governo che non si incentrasse nel piccolo gruppo autogovernante. Ai suoi tempi ebbe degli oppositori: uno di loro notò che «avvolti nella pienezza della nostra importanza e sufficientemente forti, in realtà, per difenderci da qualunque invasore, potremmo godere di un’eterna rusticità e vivere per sempre apaticamente e volgarmente sotto il riparo di un’egoistica e soddisfatta indifferenza»4. 4. L’ideale democratico jeffersoniano, consistendo in un ambiente ideale e in una classe scelta, non era in conflitto con la scienza politica del suo tempo. Era però in conflitto con la realtà. E quando l’ideale venne formulato in termini assoluti, in parte per entusiasmo e in parte per fini elettorali, si dimenticò ben presto che la teoria era stata concepita in origine per situazioni particolarissime. Diventò il vangelo politico, e fornì gli stereotipi attraverso i quali gli americani di tutte le tendenze hanno visto la politica. Questo vangelo fu imposto dal fatto che al tempo di Jefferson nessuno avrebbe potuto immaginare opinioni pubbliche che non fossero spontanee e soggettive. Perciò la tradizione democratica cerca sempre di figurarsi un mondo in cui gli individui si occupino esclusivamente di cose, le cui cause e i cui effetti operino tutti nell’ambito della regione in cui abitano. La 201 teoria democratica non ha mai potuto immaginarsi nel contesto di un ambiente vasto e imprevedibile. Lo specchio è concavo. E i democratici, pur ammettendo di essere in contatto con affari esterni, vedono con sicurezza che tutti i contatti oltrepassanti il gruppo autosufficiente sono una minaccia alla democrazia, come è stata originariamente concepita. Questo è un timore saggio. Se la democrazia deve essere spontanea, gli interessi della democrazia debbono restare semplici, comprensibili e facili ad amministrarsi. Se si deve lasciare l’informazione all’esperienza casuale, le condizioni debbono avvicinarsi a quelle delle comunità rurali isolate. L’ambiente deve restringersi a quello di cui ogni individuo ha una conoscenza diretta e certa. Il democratico ha compreso ciò che l’analisi dell’opinione pubblica sembra dimostrare: che nei rapporti con un ambiente lontano, che non si vede, le decisioni sono chiaramente prese a caso, il che ovviamente non dovrebbe accadere1. Perciò ha sempre cercato in un modo o nell’altro di minimizzare l’importanza di questo mondo lontano. Temeva il commercio estero perché il commercio comporta rapporti con l’estero; diffidava delle fabbriche perché creavano grandi città e ammassavano folle; se comunque ci dovevano essere fabbriche, allora pretendeva il protezionismo nell’interesse dell’autosufficienza. Quando non riusciva a trovare queste condizioni nel mondo reale, andava con passione verso le terre nuove a fondare comunità utopiche, lontane da contatti con lo straniero. I suoi slogan rivelano i suoi pregiudizi. È per l’Autogoverno, l’Autodeterminazione, l’Indipendenza. Nessuna di queste idee comporta un’idea di consenso o di comunità oltrepassanti le frontiere dei gruppi che si autogovernano. Il campo dell’azione democratica è un’area circoscritta. Entro confini protetti, l’obiettivo è stato quello di conseguire l’autosufficienza e di evitare i legami. Questa regola non si limita alla politica estera, ma è particolarmente evidente nel suo caso, perché la vita al di fuori dei confini nazionali è più chiaramente estranea di qualsiasi vita che si svolga entro di essi. E come dimostra la storia, generalmente le democrazie in politica estera hanno dovuto scegliere tra lo splendido isolamento e una diplomazia che violava i loro ideali. In realtà le democrazie più riuscite, la Svizzera, la Danimarca, l’Australia, la Nuova Zelanda, e fino a poco tempo fa l’America, non hanno mai avuto una politica estera nel senso europeo di questa espressione. Persino un precetto come la Dottrina di Monroe è sorto dal desiderio di aggiungere ai due oceani uno spalto di stati che fossero sufficientemente repubblicani per non avere alcuna politica estera. Mentre il pericolo è una grande, forse indispensabile, condizione 202 dell’autocrazia2, la sicurezza è stata vista come una necessità per il funzionamento della democrazia. Si deve turbare il meno possibile la premessa di una comunità autosufficiente. L’insicurezza comporta delle sorprese. Essa significa che ci sono persone che agiscono sulla nostra vita, sulle quali non abbiamo alcun controllo, con le quali non possiamo consultarci. Significa che si è in presenza di forze che turbano la consueta routine, e presentano problemi insoliti per i quali occorre prendere decisioni rapide e insolite. Ogni democratico sente nelle ossa che le crisi pericolose sono incompatibili con la democrazia, perché sa che l’inerzia delle masse è tale che per poter agire rapidamente solo pochissimi debbono decidere, e il resto deve venir dietro piuttosto ciecamente. Non è che questo abbia reso i democratici rinunciatari, ma ha fatto sì che tutte le guerre democratiche siano state combattute per fini pacifisti. Anche quando le guerre sono, in realtà, guerre di conquista, si crede sinceramente che siano fatte in difesa della civiltà. Questi vari tentativi di recingere una parte della superficie della terra non sono stati ispirati da viltà, da apatia, o da quella che un oppositore di Jefferson chiamava la propensione a vivere sotto una disciplina monacale. I democratici avevano intravisto un’abbagliante possibilità, quella che ogni essere umano raggiungesse la sua piena statura, liberato dai limiti creati dall’uomo stesso. Con quello che conoscevano dell’arte di governo, potevano, come Aristotele prima di loro, concepire una società di individui autonomi solo a patto che fosse conchiusa e semplice. Non potevano scegliere un’altra premessa, se dovevano arrivare alla conclusione che tutti gli individui erano in grado di amministrare spontaneamente i loro affari pubblici. 5. Avendo adottato questa premessa, perché era necessaria alla loro più cara speranza, trassero anche altre conclusioni. Dal momento che per avere l’autogoverno spontaneo ci si doveva tenere nei limiti di una comunità autosufficiente, davano per acquisito che un individuo era competente quanto il suo vicino ad amministrare questi affari semplici e autosufficienti. Questa logica, quando il desiderio è padre del pensiero, è convincente. Inoltre la dottrina del cittadino onnicompetente è vera, a quasi tutti gli effetti pratici, nella comunità rurale. Nel villaggio tutti, presto o tardi, mettono mano a tutto quello che il villaggio fa. Nelle cariche si avvicendano uomini che sanno fare un po’ di tutto. La dottrina dei cittadini onnicompetenti andava benissimo finché lo stereotipo 203 democratico non veniva applicato universalmente, e gli uomini, di fronte ad una civiltà complicata, continuavano a vedere un villaggio conchiuso. Il singolo cittadino non solo era adatto ad occuparsi di tutti gli affari pubblici, ma era costantemente pervaso di spirito civico e dotato di un interesse che non cedeva mai. Nella comunità rurale, dove conosceva tutti e si interessava delle faccende di tutti, aveva abbastanza senso civico. L’idea di sufficiente per la comunità rurale si trasformò facilmente nell’idea di sufficiente ad ogni effetto, poiché, come abbiamo notato, il pensare quantitativamente non si addice agli stereotipi. Ma si fece un altro passo in là. Poiché si dava per acquisito che tutti si interessassero a sufficienza degli affari importanti, finirono per sembrare importanti solo quegli affari di cui tutti si interessavano. Ciò volle dire che gli individui si formavano la loro immagine del mondo esterno sulla base delle immagini incontestate che avevano nelle loro menti. Queste immagini arrivavano a loro convenientemente stereotipate dai genitori e dagli insegnanti, e la loro esperienza le modificava poco. Solo poche persone avevano affari che le portassero oltre i confini del loro stato. Ancor meno avevano ragioni per andare all’estero. La maggior parte degli elettori vivevano tutta la vita in un solo ambiente, e dovevano concepire il mondo più vasto del commercio e della finanza, della guerra e della pace, col solo ausilio di pochi deboli giornali, di qualche opuscolo, di qualche discorso politico, della loro preparazione religiosa, e di voci. Il numero delle opinioni pubbliche fondato su una documentazione obiettiva era piccolissimo rispetto a quelle fondate sulla fantasia. E così nel periodo formativo l’autosufficienza è stata per molte svariate ragioni un ideale spirituale. L’isolamento fisico della comunità locale, la solitudine del pioniere, la tradizione protestante e i limiti della scienza politica, hanno tutti contribuito a far credere agli individui che dovevano estrarre la saggezza politica dalle loro coscienze. Non è strano che la deduzione di leggi da principi assoluti abbia assorbito tanta parte delle loro energie libere. La mente politica americana doveva vivere sul proprio capitale. Nella stretta aderenza alla legge trovò un corpo di regole collaudato, dal quale potevano essere derivate nuove regole senza la fatica di apprendere nuove verità dall’esperienza. Le formule divennero tanto stranamente sacre che tutti i migliori osservatori stranieri si sono stupiti del contrasto tra l’energia pratica dinamica del popolo americano e lo statico dottrinarismo della loro vita pubblica. Questo costante amore per i principi stabiliti era semplicemente il solo modo conosciuto di conseguire l’autosufficienza. Ma questo significava che le opinioni pubbliche delle 204 singole comunità sul mondo esterno consistevano soprattutto in poche immagini stereotipate ordinate in un modello dedotto dai loro codici legali e morali, e animato dal sentimento destato dalle esperienze locali. Perciò la teoria democratica, partendo dalla sua bella visione della fondamentale dignità umana, fu costretta, dalla mancanza di strumenti di informazione sul proprio ambiente, a ripiegare sulla saggezza e sull’esperienza che si erano casualmente accumulate nell’elettore. Dio, secondo Jefferson, aveva fatto del petto degli uomini «lo scrigno di ogni forte e genuina virtù». Queste persone elette nel loro ambiente autosufficiente avevano davanti a sé tutti i fatti. L’ambiente era così familiare che si poteva dare per scontato che gli individui parlassero sostanzialmente delle stesse cose. Perciò i soli veri disaccordi potevano consistere nei giudizi sugli stessi fatti. Non c’era alcun bisogno di garantire le fonti dell’informazione. Erano ovvie ed egualmente accessibili a tutti gli individui. E non c’era nemmeno bisogno di preoccuparsi dei criteri di fondo. Nella comunità autosufficiente si poteva presupporre, o perlomeno di fatto si presupponeva, un codice morale omogeneo. Perciò le differenze d’opinione avevano luogo soltanto nell’applicazione logica di norme accettate a fatti accettabili. E dato che la facoltà raziocinante era anch’essa fortemente standardizzata, un errore di ragionamento veniva messo a nudo rapidamente nel libero dibattito. Ne derivava che la verità poteva essere raggiunta liberamente entro questi limiti. La comunità poteva dare per scontata la sua provvista di informazioni; i suoi codici li trasmetteva attraverso la scuola, la chiesa e la famiglia, e il potere di trarre deduzioni da una premessa piuttosto che la capacità di trovare la premessa, veniva considerato il fine principale dell’educazione intellettuale. 205 XVIII. Il ruolo della forza, del favoritismo e del privilegio 1. È avvenuto – scrisse Hamilton1 – proprio quel che si sarebbe dovuto prevedere. I deliberati dell’Unione non sono stati eseguiti, la disubbidienza degli Stati, poco per volta, è giunta a tali estremi da finir per inceppare completamente le ruote del governo centrale, riducendole in condizioni miserevoli. Infatti «nel nostro caso occorre che ben tredici volontà sovrane e separate si trovino d’accordo, in seno alla Confederazione, perché si possa dar corso ad un provvedimento di qualche importanza che venga deciso dall’Unione». E come poteva essere altrimenti?, si chiedeva: I governanti dei singoli Stati-membri, cominceranno ad entrare nel merito delle misure stesse e a giudicarle, sia che ne abbiano diritto da un punto di vista costituzionale, sia che non lo abbiano. Essi vorranno considerare la questione che viene loro proposta o imposta alla luce dei propri immediati interessi e dei propri scopi particolari, ed alla luce dei vantaggi o degli svantaggi contingenti che sarebbero determinati dall’adozione del provvedimento. Tutto ciò avverrebbe in uno spirito di egoistica e sospettosa inquisizione, senza quella conoscenza delle circostanze d’indole nazionale o delle ragioni di Stato che sarebbero essenziali ad un equo giudizio e con quella particolare attenzione, invece, alle questioni di carattere locale che non può fare a meno di sviare la decisione. Lo stesso modo di vedere si ripeterà per ogni membro componente la Confederazione suddetta, onde l’esecuzione dei provvedimenti, elaborati dalle assemblee generali, sarà sempre alla mercé delle opinioni prevenute o male informate di ciascuna parte. Coloro che ben conoscono i procedimenti delle assemblee popolari, che hanno visto come sia spesso difficile, allorché non sussista una qualche situazione oggettivamente impellente, che esse giungano ad accordarsi su deliberazioni relative ad argomenti di capitale importanza – comprenderanno assai facilmente come debba essere del tutto impossibile il riuscire a far sì che un certo numero di assemblee del genere, che operano e deliberano in luoghi ben distanti l’uno dall’altro ed in momenti diversi e sotto la spinta di diverse impressioni, non possano cooperare a lungo in una unanimità di intenti e di principi. Più di dieci anni di agitazione e tensione con un Congresso che era, diceva John Adams2, «solo un’assemblea diplomatica», avevano fornito ai 206 capi della rivoluzione «una lezione istruttiva ma penosa»3 su ciò che accade quando varie comunità autosufficienti si trovano a operare entro uno stesso ambiente. E così, quando nel maggio del 1787 andarono a Filadelfia, apparentemente per rivedere gli articoli della Confederazione, essi si trovavano in realtà in piena ribellione contro la premessa fondamentale della democrazia del Settecento. I capi non solo erano consapevolmente contrari allo spirito democratico del tempo, convinti, come diceva Madison, che «le democrazie sono sempre state spettacoli di turbolenza e contesa», ma entro le frontiere nazionali erano decisi a controbilanciare per quanto possibile l’idea della comunità che si autogoverna in ambienti autosufficienti. Gli scontri e gli insuccessi della democrazia concava, in cui gli individui spontaneamente amministravano tutti i loro affari, erano davanti ai loro occhi. Il problema, a loro avviso, era di restaurare il governo in contrapposizione alla democrazia. Intendevano per governo il potere di prendere decisioni nazionali e di farle applicare in tutta la nazione; ritenevano che la democrazia fosse l’attaccamento delle comunità locali, e delle classi, all’autodeterminazione secondo i loro interessi e fini immediati. Non potevano tener conto, nei loro calcoli, della possibilità di un’organizzazione dell’informazione tale da permettere alle singole comunità di agire simultaneamente sulla base della stessa interpretazione dei fatti. Cominciamo appena adesso a concepire questa possibilità per certe parti del mondo, in cui ci sono la libera circolazione delle notizie e un linguaggio comune, e anche qui solo per certi aspetti della vita. Tutta l’idea di un federalismo volontario nell’industria e nella politica mondiale è ancora così rudimentale che, come vediamo nella nostra esperienza, incide solo raramente e assai modestamente nella politica pratica. Gli autori della Costituzione non avevano alcuna ragione di concepire anche solo vagamente quello che noi, a più di un secolo di distanza, riusciamo a concepire solo come un incentivo a uno sforzo intellettuale di generazioni intere. Per poter costituire il governo nazionale, Hamilton e i suoi colleghi dovevano fare dei piani poggiando non sulla teoria che gli individui avrebbero collaborato perché avevano il senso dell’interesse comune, ma su quella che gli individui avrebbero potuto essere governati se gli interessi particolari fossero stati mantenuti in equilibrio con un sistema di freni e contrappesi. «L’ambizione – diceva Madison4 – deve essere usata come antidoto all’ambizione». Non intendevano, come hanno creduto certi scrittori, dare a ogni interesse un contrappeso sicché il governo si trovasse in un perpetuo 207 impasse. Intendevano neutralizzare l’interesse locale, e di categoria, per impedirgli di ostacolare il governo. «Nell’organizzare un governo di uomini che dovranno reggere altri uomini – scrisse Madison5 – qui sorge la grande difficoltà: prima si dovrà mettere il governo in grado di controllare i propri governanti, e quindi obbligarlo ad autocontrollarsi». Sotto un aspetto molto importante, quindi, la dottrina dei freni e contrappesi era il rimedio dei capi federalisti per il problema dell’opinione pubblica. Non vedevano altro modo di sostituire «la mite influenza della magistratura» all’«opera cruenta della spada»6 che quello di escogitare un ingegnoso meccanismo per neutralizzare l’opinione locale. Non capivano come si potesse manipolare un vasto elettorato, come non vedevano la possibilità di fondare il consenso comune sull’informazione comune. È vero che Aaron Burr diede a Hamilton una lezione che lo colpì moltissimo, quando nel 1800 conquistò il controllo di New York City con l’aiuto di Tammany Hall. Ma Hamilton fu ucciso prima di poter tenere conto di questa nuova scoperta, e, come dice Ford7, la pistola di Burr fece saltare le cervella del partito federalista. 2. Al tempo in cui la Costituzione veniva scritta, «la politica poteva ancora svolgersi mediante riunioni e accordi tra gentiluomini»1, e fu ai gentiluomini che Hamilton si rivolse per formare un governo. Si pensava che avrebbero amministrato gli affari nazionali quando i pregiudizi locali fossero stati neutralizzati dai freni e dai contrappesi costituzionali. Non c’è dubbio che Hamilton, che apparteneva per adozione a questa classe, aveva un pregiudizio sentimentale a loro favore. Ma questo di per sé è una magra spiegazione della sua arte di governo. Certamente non si può mettere in dubbio la sua struggente passione per l’Unione, e credo che sia un capovolgimento della verità sostenere che abbia fatto l’Unione per proteggere i privilegi di classe anziché dire che usò i privilegi di classe per fare l’Unione. «Dobbiamo prendere l’uomo così com’è – diceva Hamilton – e se vogliamo che si dedichi alla cosa pubblica dobbiamo interessare le sue passioni a questo scopo»2. Aveva bisogno che governassero uomini, le cui passioni potessero essere avvinte con la massima rapidità a un interesse nazionale. Questi erano i proprietari terrieri, i creditori pubblici, gli imprenditori, gli spedizionieri e i commercianti3, e probabilmente nella storia dell’adattamento di mezzi astuti a fini chiari non esiste un esempio migliore della serie di misure fiscali con cui Hamilton legò i notabili di provincia al nuovo governo. 208 Sebbene l’assemblea costituente lavorasse a porte chiuse, e sebbene la ratifica fosse manovrata dal «voto di probabilmente non più di un sesto dei maschi adulti»4, non ci si nascondeva dietro false apparenze. I federalisti si battevano per l’Unione, non per la democrazia, e la parola repubblica aveva un suono sgradevole per George Washington, anche quando era già da due anni un presidente repubblicano. La Costituzione era un chiaro tentativo di limitare la sfera del governo popolare; l’unico organo democratico che si pensava che il governo dovesse avere era la Camera, fondata su un suffragio molto limitato da requisiti di censo. E anche così si riteneva che la Camera sarebbe stata una parte così licenziosa del governo che si pensò bene di neutralizzarla con i freni e i contrappesi del Senato, del collegio elettorale, del veto presidenziale e dell’interpretazione del potere giudiziario. E quindi, nel momento in cui la rivoluzione francese accendeva il sentimento popolare in tutto il mondo, i rivoluzionari americani del 1776 si davano una Costituzione che risaliva, per quanto le condizioni lo consentissero, al modello della monarchia inglese. Questa reazione conservatrice non poteva durare. Gli uomini che ne erano stati i protagonisti erano una minoranza, i loro moventi erano sospettati e quando Washington si ritirò, la posizione dei gentiluomini non era abbastanza forte per resistere all’inevitabile lotta per la successione. Il divario tra il piano originario dei Padri e il sentimento morale dell’epoca era troppo grande per non essere capitalizzato da un abile uomo politico. 3. Jefferson definiva la sua elezione «la grande rivoluzione del 1800», ma più che altro era una rivoluzione del modo di vedere. Nessuno dei grandi indirizzi fu modificato, ma si stabilì una nuova tradizione. Infatti fu Jefferson che per primo insegnò al popolo americano a considerare la Costituzione uno strumento di democrazia, e fu lui a stereotipare le immagini, le idee e anche molte delle frasi con cui da quel momento in poi gli americani hanno definito tra di loro la politica. La vittoria mentale fu così completa che venticinque anni dopo de Tocqueville, che veniva ricevuto nei salotti federalisti, osservava che anche quelli che erano irritati per il suo perdurare, non di rado si mettevano a «vantare pubblicamente la mitezza del governo repubblicano e i vantaggi delle istituzioni democratiche»1. Nonostante tutta la loro sagacia, i padri della Costituzione non erano riusciti a capire che una costituzione francamente antidemocratica non 209 sarebbe stata tollerata a lungo. Lo sfacciato rifiuto del governo popolare doveva per forza offrire il fianco all’attacco di un uomo come Jefferson, che sul piano delle opinioni costituzionali non era affatto più disposto di Hamilton ad affidare il governo alla volontà «grezza» del popolo2. I capi federalisti erano stati uomini di convinzioni decise e di linguaggio franco. C’era poca discordanza effettiva tra le loro opinioni pubbliche e quelle private. Ma la mente di Jefferson era una massa di ambiguità, non soltanto a causa dei suoi difetti, come hanno creduto Hamilton e i suoi biografi, ma perché credeva nell’Unione e credeva nelle democrazie spontanee, e nella dottrina politica del suo tempo non esisteva un modo soddisfacente di conciliare le due cose. Jefferson era confuso nel pensiero e nell’azione, perché intravedeva una nuova e grandiosa idea sulla quale nessuno aveva ragionato fino in fondo. Ma la sovranità popolare, pur non essendo capita chiaramente da nessuno, pareva implicare un miglioramento così grande della vita umana che nessuna costituzione, che la negasse apertamente, poteva resistere. I netti rifiuti furono perciò espunti dalla coscienza, e si parlò e pensò del documento, che all’apparenza è un onesto esempio di democrazia costituzionale ristretta, come di uno strumento di governo popolare diretto. Jefferson arrivò davvero al punto di credere che i federalisti avessero pervertito la Costituzione, della quale nella sua fantasia essi non erano più gli autori. E così la Costituzione fu, nello spirito, riscritta. In parte con veri e propri emendamenti, in parte con la prassi – come nel caso del collegio elettorale – ma soprattutto vedendola attraverso un altro sistema di stereotipi, alla facciata non fu più consentito di apparire oligarchica. Il popolo americano arrivò a credere che la sua Costituzione fosse uno strumento democratico, e come tale la trattò. Esso deve questa finzione alla vittoria di Thomas Jefferson, ed è stata una grande finzione conservatrice. È facile ipotizzare che se tutti avessero sempre visto la Costituzione come la vedevano i suoi autori, essa sarebbe stata violentemente rovesciata, perché la fedeltà alla Costituzione e la fedeltà alla democrazia sarebbero apparse incompatibili. Jefferson risolse questo paradosso insegnando al popolo americano a leggere la Costituzione come un’espressione di democrazia. Personalmente egli non andò oltre. Ma nel corso di venticinque anni, o giù di lì, le condizioni sociali erano mutate così radicalmente che Andrew Jackson portò a compimento la rivoluzione politica per la quale Jefferson aveva preparato la tradizione3. 4. 210 Il nucleo politico di questa rivoluzione fu la questione del favoritismo. Dagli uomini che fondarono il governo la carica pubblica era considerata una specie di proprietà, da non importunare con leggerezza, e indubbiamente essi speravano che le cariche sarebbero rimaste nelle mani della loro classe sociale. Ma la teoria democratica aveva tra i suoi principi fondamentali la dottrina del cittadino onnicompetente. Perciò quando il popolo cominciò a vedere nella Costituzione uno strumento democratico, era certo che la permanenza in carica sarebbe apparsa antidemocratica. Le ambizioni naturali degli uomini coincidevano qui con il grande impulso morale del loro tempo. Jefferson aveva reso popolare l’idea senza metterla in pratica rigorosamente, e le rimozioni per ragioni di partito furono relativamente poche sotto i presidenti virginiani. Fu Jackson che fondò la prassi di trasformare la carica pubblica in favoritismo. Per quanto possa sembrare strano, il principio dell’avvicendamento nelle cariche a breve distanza di tempo fu considerato una grande riforma. Non solo riconobbe la nuova dignità dell’uomo medio, trattandolo come se fosse idoneo a qualsiasi carica, non solo distrusse il monopolio di una piccola classe sociale e sembrò aprire le carriere all’ingegno, ma «erano secoli che veniva invocato come il rimedio sovrano per la corruzione politica», e come il solo modo di impedire la creazione di una burocrazia1. La prassi del rapido avvicendamento nelle cariche pubbliche fu l’applicazione a un grande territorio dell’immagine della democrazia derivata dal villaggio autosufficiente. Naturalmente non ebbe nella nazione gli stessi risultati che aveva nella comunità ideale su cui si fondava la teoria democratica. Produsse risultati del tutto inaspettati, perché creò una nuova classe politica in sostituzione degli ormai sommersi federalisti. Senza volerlo il favoritismo fece per un vasto elettorato quello che le misure fiscali di Hamilton avevano fatto per le classi superiori. Spesso si stenta a rendersi conto di quanta parte della stabilità del nostro governo sia dovuta al favoritismo. Infatti fu il favoritismo che svezzò i capi naturali da un eccessivo attaccamento alla comunità egocentrica, fu il favoritismo che indebolì lo spirito campanilistico e unì in una sorta di collaborazione pacifica gli stessi uomini che, come notabili provinciali, in assenza di un senso dell’interesse comune avrebbero disfatto l’unione. Ma naturalmente non era inteso che la teoria democratica producesse una nuova classe di governo, e infatti essa non si è mai adattata al fatto. Quando il democratico aspirava ad abolire il monopolio delle cariche, ad avere l’avvicendamento e mandati brevi, aveva in mente la comunità dove chiunque poteva ricoprire un incarico pubblico e poi ritornare umilmente 211 alla sua fattoria. L’idea di una classe particolare di politici era proprio quello che al democratico non piaceva. Ma non era in grado di avere quello che gli piaceva, perché la sua teoria era tratta da un ambiente ideale, ed egli viveva in un ambiente reale. Quanto più profondamente sentiva l’impulso morale della democrazia, tanto meno era pronto a capire la profonda verità dell’affermazione di Hamilton, che le comunità deliberanti lontane l’una dall’altra e sotto impressioni diverse non potevano collaborare a lungo in comunanza di vedute e di fini. Infatti questa verità rimanda la piena realizzazione della democrazia nella vita pubblica al momento in cui l’arte di ottenere il consenso comune sia stata radicalmente migliorata. E così, sebbene la rivoluzione sotto Jefferson e Jackson abbia prodotto il favoritismo, che ha creato il sistema bipartitico, che ha creato a sua volta un sostituto al governo dei gentiluomini e una disciplina per regolare l’impasse dei freni e contrappesi, tutto ciò è accaduto, per così dire, in modo invisibile. Così l’avvicendamento nelle cariche poteva essere la teoria apparente, ma in pratica le cariche oscillavano tra gli accoliti. La carica poteva non essere un monopolio permanente, ma il politico di professione era permanente. Il governo poteva essere, come disse una volta il presidente Harding, una cosa semplice, ma vincere le elezioni era un’impresa complicata. Le prebende potevano essere ostentatamente modeste, come le stoffe di Jefferson fatte in casa, ma le spese dell’organizzazione del partito e i frutti della vittoria erano grandiosi. Lo stereotipo della democrazia controllava il governo visibile; le correzioni, le eccezioni e gli adattamenti del popolo americano ai fatti reali del suo ambiente dovevano essere per forza invisibili, anche quando tutti sapevano tutto al riguardo. Sono state solo le parole della legge, sono stati i discorsi degli uomini politici, i programmi e l’apparato formale dell’amministrazione, che hanno dovuto uniformarsi all’immagine pristina della democrazia. 5. Se si fosse chiesto a un democratico portato alla meditazione in che modo dovessero collaborare queste comunità autosufficienti, dal momento che le loro opinioni pubbliche erano così egocentriche, egli avrebbe additato il governo rappresentativo incarnato nel Congresso. E nulla l’avrebbe sorpreso più della scoperta del costante declino del prestigio del governo rappresentativo, di pari passo con l’aumento del potere della Presidenza. 212 Alcuni critici hanno fatto risalire la cosa alla consuetudine di mandare a Washington solo dei notabili locali. Secondo loro, se il Congresso potesse essere composto degli uomini di prestigio nazionale, la vita della capitale sarebbe più brillante. Lo sarebbe, naturalmente, e sarebbe un’ottima cosa se i presidenti uscenti, insieme ai membri del loro gabinetto, seguissero l’esempio di John Quincy Adams. Ma l’assenza di questi uomini non spiega il dilemma del Congresso perché il suo declino è cominciato quando era relativamente la branca più eminente del governo. È anzi più probabile che sia vero il contrario, e che il Congresso abbia cessato di attirare le persone eminenti a mano a mano che ha perduto l’influenza diretta sulla formazione della politica nazionale. La ragione principale del suo discredito, che è mondiale, va ricercata, mi pare, nel fatto che un Congresso di rappresentanti è essenzialmente un gruppo di ciechi in un mondo immenso e sconosciuto. Salvo poche eccezioni, il solo modo riconosciuto dalla Costituzione, o dalla teoria del governo rappresentativo, in cui il Congresso può informarsi, è quello di scambiarsi le opinioni formatesi nei collegi elettorali. Non esiste per il Congresso un modo sistematico, adeguato e autorizzato di apprendere quel che succede nel mondo. La teoria è che l’uomo migliore di ogni collegio porti il meglio della saggezza dei suoi elettori a un luogo che sta al centro, e che tutte queste saggezze messe insieme costituiscano tutta la saggezza di cui ha bisogno il Congresso. Ora non è necessario mettere in dubbio la validità del fatto di esprimere opinioni locali e di confrontarle. Il Congresso ha un grande valore come foro di una nazione che copre tutto un continente. Nei guardaroba, negli atri degli alberghi, nelle pensioni di Capitol Hill, ai tè delle mogli dei congressmen, e grazie a visite periodiche ai salotti internazionali di Washington, si aprono nuove prospettive e più vasti orizzonti. Ma anche se la teoria venisse applicata, e i collegi elettorali mandassero sempre i loro uomini più saggi, la somma o la combinazione delle impressioni locali non sarebbe una base sufficientemente ampia per la politica nazionale, e non sarebbe affatto una base per il controllo della politica estera. Dato che gli effetti reali della maggior parte delle leggi sono sottili e occulti, non possono essere compresi filtrando esperienze locali attraverso stati d’animo locali. Si può capirli solo mediante la documentazione controllata e l’analisi obiettiva. E proprio come il capo di una grande fabbrica non può conoscere l’efficienza di quest’ultima parlando col capo reparto, ma deve esaminare le singole voci dei costi e gli altri dati che solo un contabile può procurarsi, così il legislatore non arriva a un quadro veritiero dello stato dell’Unione mettendo insieme un mosaico di immagini locali. Ha bisogno di conoscere le immagini locali, ma se non 213 possiede strumenti per calibrarle, un’immagine vale l’altra e forse è anche migliore. Il presidente viene in aiuto del Congresso pronunciando messaggi sullo stato dell’Unione. È in grado di farlo perché presiede a un vastissimo insieme di uffici e di funzionari, i quali non solo agiscono, ma forniscono notizie. Ma egli dice al Congresso quello che ha deciso di dirgli. Non può esser sottoposto a domande imbarazzanti, e il potere di scegliere che cosa sia o non sia compatibile con l’interesse pubblico spetta a lui. È un rapporto assolutamente unilaterale e delicato, che raggiunge talora tali vette di assurdità che il parlamento per avere un documento importante deve ringraziare l’intraprendenza di un giornale di Chicago o l’indiscrezione calcolata di un funzionario subordinato. Il contatto dei legislatori con i fatti indispensabili è così lacunoso da costringerli ad affidarsi o a confidenze private o a quell’atrocità legalizzata, l’investigazione parlamentare, con la quale i congressmen, privati del legittimo cibo della loro mente, procedono ad una caccia all’uomo selvaggia e febbrile, e non si fermano nemmeno di fronte al cannibalismo. Se togliamo il poco che rendono queste investigazioni, le comunicazioni occasionali dei ministeri, i dati interessati e disinteressati raccolti dai privati, i giornali, i periodici e i libri che possono leggere i parlamentari, e la nuova e eccellente pratica di chiamare in aiuto gruppi di esperti come la Interstate Commerce Commission, la Federal Trade Commission e la Tariff Commission, la creazione dell’opinione parlamentare è incestuosa. E allora succede che la legislazione a carattere nazionale viene preparata da pochi iniziati informati, ed è approvata grazie al potere di una parte, o che la legislazione viene spezzettata in una serie di provvedimenti locali, ognuno dei quali viene votato per ragioni locali. Livelli dei dazi doganali, basi navali, caserme, fiumi e porti, uffici postali ed edifici federali, pensioni e favori, sono queste le cose che vengono ammannite alle comunità concave quale prova tangibile dei benefici della vita nazionale. Essendo concave, riescono a vedere l’edificio di marmo bianco che sorge dai fondi federali per elevare i valori immobiliari locali, e dare lavoro agli appaltatori locali, con maggiore facilità di quanto possano giudicare il costo cumulativo di questo grasso che cola. Si può dire che in una grande assemblea, in cui ogni membro ha una conoscenza pratica soltanto del suo distretto, le leggi concernenti le questioni extralocali vengono respinte o accettate dalla massa dei parlamentari senza alcuna partecipazione creativa. La loro partecipazione si limita a quelle leggi che si prestano ad essere trattate come un fascio di problemi locali. Infatti un corpo legislativo privo di mezzi efficaci di informazione e di analisi deve 214 necessariamente oscillare tra una cieca regolarità, temperata ogni tanto da qualche impennata, e l’intrallazzo. Ed è l’intrallazzo che rende la regolarità sopportabile, perché è con l’intrallazzo che un parlamentare dimostra ai suoi elettori più attivi che sta curando i loro interessi come essi li concepiscono. Di ciò il singolo parlamentare non ha colpa, a meno che non vi indulga deliberatamente. Il parlamentare più capace e più industrioso non può sperare di capire anche solo una frazione dei progetti di legge che è chiamato a votare. La miglior cosa che può fare è specializzarsi su qualcuno di essi, e per il resto ascoltare qualcun altro. Ho visto parlamentari studiare, mentre si preparavano su un argomento, come non avevano mai più studiato dopo aver superato gli ultimi esami scolastici, con molte tazze di caffè nero, asciugamani bagnati e via dicendo. Dovevano scovare i fatti, sudare per verificarli ed organizzarli, cosa che, in un governo consapevolmente organizzato, avrebbe dovuto essere facilmente accessibile in una forma atta a consentire di prendere decisioni. E anche quando conoscevano davvero un argomento, le loro ansietà erano appena all’inizio. Infatti nel collegio i direttori di giornale, la camera di commercio, la centrale sindacale e i circoli femminili si erano risparmiati queste fatiche, e si limitavano a guardare l’azione del parlamentare attraverso una lente locale. 6. Ciò che il favoritismo ha fatto per legare i maggiorenti politici al governo nazionale, l’infinita varietà delle sovvenzioni e dei privilegi locali lo fa per le comunità egocentriche. Il favoritismo e il denaro amalgamano e stabilizzano migliaia di opinioni particolari, malcontenti locali, ambizioni personali. Esistono due sole altre alternative. Una è il governo del terrore e dell’obbedienza, l’altra è il governo fondato su un sistema così sviluppato di informazioni ed analisi che «la conoscenza delle condizioni nazionali e delle ragioni di stato» è evidente a tutti gli individui. Il sistema autocratico è in decadenza, il sistema volontario è ancora nella sua primissima fase di sviluppo; e così, nel calcolare le prospettive di associazione tra grandi aggregati umani – una Società delle Nazioni, un governo industriale o un’Unione federale di stati – la misura in cui esiste la base di una coscienza comune determina fino a che punto la collaborazione dipenderà dalla forza, o da quella più mite alternativa alla forza che è il favoritismo e il privilegio. Il segreto dei grandi edificatori di stati, come Alexander Hamilton, è che essi conoscono il modo di tener 215 conto di questi principi. 216 XIX. La vecchia immagine in una forma nuova: il socialismo corporativo 1. Ogni volta che le dispute dei gruppi egocentrici stavano diventando insopportabili, i riformatori del passato si sono trovati nella necessità di scegliere tra due grandi alternative. Potevano prendere la strada di Roma, e imporre una pace romana alle tribù in guerra. Potevano prendere la strada dell’isolamento, dell’autonomia e dell’autosufficienza. Quasi sempre sceglievano la strada che conoscevano meno bene. Se avevano provato la micidiale monotonia dell’impero, erano portati a preferire sopra ogni altra cosa la semplice libertà della loro comunità. Ma se avevano visto questa semplice libertà dissipata in gelosie campanilistiche, desideravano ardentemente lo spazioso ordine di un grande e potente stato. In ogni caso la difficoltà fondamentale era la stessa. Se le decisioni venivano decentrate, ben presto annegavano in un caos di opinioni locali. Se venivano centralizzate, la politica dello stato veniva a basarsi sulle opinioni di un piccolo ambiente sociale situato nella capitale. La forza era comunque necessaria per difendere un diritto locale contro un altro, o per imporre la legge e l’ordine alle comunità locali, o per opporsi al governo di classe al centro, o per difendere l’intera società, centralizzata o decentralizzata, contro la barbarie esterna. La democrazia moderna e il sistema industriale nacquero entrambi in un’epoca di reazione contro il re, il governo della corona e un regime di stretti controlli economici. Nella sfera industriale questa reazione assunse una forma di estremo decentramento, nota come l’individualismo del laissez-faire. Ogni decisione economica doveva esser lasciata all’individuo titolare della proprietà in questione. Dato che quasi tutto era posseduto da qualcuno, c’era per ogni cosa qualcuno che l’amministrava. Era la sovranità pluralistica portata all’estremo. Era il governo dell’economia dal punto di vista di qualsiasi filosofia economica, anche se lo si riteneva controllato da leggi immutabili di economia politica che alla fine dovevano produrre l’armonia. Produsse molte splendide cose, ma anche altre cose abbastanza sordide e terribili per 217 provocare controcorrenti. Una di queste fu il trust, che instaurò una specie di pace romana nell’industria, e fuori di essa un imperialismo romano predatorio. Il popolo si rivolse al parlamento per essere difeso. Invocò il governo rappresentativo, fondato sull’immagine dell’agricoltore di paese, per controllare le aziende semisovrane. La classe lavoratrice si affidò all’organizzazione sindacale. Seguì un periodo di crescente centralizzazione, e una specie di corsa agli armamenti. I trust si associarono, i sindacati di mestiere si federarono e confluirono in un movimento operaio, il sistema politico diventò più forte a Washington e più debole negli stati, mentre i riformatori cercavano di fargli fare prove di forza contro il padronato. In questo periodo praticamente tutte le correnti socialiste, dalla sinistra marxista al Nuovi Nazionalisti raccoltisi intorno a Theodore Roosevelt, consideravano la centralizzazione come il primo stadio di un’evoluzione che sarebbe sfociata nell’assorbimento di tutti i poteri economici semisovrani da parte dello stato politico. L’evoluzione non ebbe mai luogo, tranne per pochi mesi durante la guerra. L’esperienza però è basata, e si è avuta una reazione contro lo stato onnivoro a favore di varie forme nuove di pluralismo. Ma questa volta la società non doveva ritornare all’individualismo atomistico dell’uomo economico di Adam Smith, e dell’agricoltore di Thomas Jefferson, ma a una sorta di individualismo molecolare di gruppi volontari. Un aspetto interessante di queste oscillazioni teoriche è che ciascuna di esse promette a turno un mondo in cui nessuno dovrà seguire Machiavelli per sopravvivere. Si fondano tutte su una qualche forma di coercizione, tutte esercitano la coercizione per conservarsi, e tutte alla fine vengono scartate proprio a causa della coercizione. Tuttavia non accettano la coercizione – sia questa la forza fisica o una posizione particolare, il favoritismo o il privilegio – come parte del loro ideale. L’individualista diceva che l’interesse personale illuminato avrebbe portato alla pace interna ed esterna. Il socialista è certo che i moventi che portano all’aggressività scompariranno. Il nuovo pluralista spera che scompariranno1. La coercizione è l’irrazionale per quasi tutte le teorie sociali, tranne quella di Machiavelli. La tentazione di ignorarla, in quanto assurda, inesprimibile e incontrollabile, diventa soverchiante in ogni individuo che cerca di razionalizzare la vita umana. 2. Fino a che punto un uomo intelligente arrivi a volte a spingersi per 218 sfuggire al pieno riconoscimento del ruolo della forza si può ricavare dal libro di Cole sul socialismo corporativo. Lo stato attuale, egli dice, «è principalmente uno strumento di coercizione»1; in una società socialista corporativa non ci sarà alcun potere sovrano, ma ci sarà un organo coordinatore. Egli chiama quest’organo il Comune. Elenca poi i criteri di quest’organo, che, ricordiamo, anzitutto non deve essere uno strumento di coercizione2. Compone le vertenze sui prezzi. A volte fissa i prezzi, dispone delle eccedenze o distribuisce le perdite. Dispone delle risorse naturali, e controlla l’emissione del credito. Inoltre «dispone delle forze di lavoro comunali». Ratifica i bilanci delle corporazioni e dei servizi pubblici. Impone tasse. «Tutte le questioni attinenti al reddito» ricadono sotto la sua giurisdizione. «Assegna» il reddito ai membri non produttivi della collettività. È il giudice supremo di tutti i conflitti di indirizzo e di giurisdizione che sorgano tra le corporazioni. Approva leggi costituzionali che stabiliscono le funzioni degli organi operativi. Nomina i giudici. Conferisce alle corporazioni poteri coercitivi, e ratifica i loro regolamenti per le parti in cui comportano la coercizione. Dichiara la guerra e stipula la pace. Controlla le forze armate. È il rappresentante supremo della nazione all’estero. Decide sulle questioni di delimitazione territoriale all’interno dello stato nazionale. Istituisce nuovi organi operativi, o distribuisce nuove funzioni ai vecchi. È a capo della polizia, stabilisce le leggi necessarie a disciplinare la condotta personale e la proprietà personale. Questi poteri vengono esercitati non da un solo comune, ma da una struttura federativa di comuni provinciali e locali, con un Comune nazionale al vertice. Naturalmente Cole può sostenere che questo non è uno stato sovrano, ma se esiste un potere coercitivo dello stato moderno, che egli abbia escluso dal suo elenco, vorrei sapere qual è. Egli ci dice, tuttavia, che la società corporativa sarà non-coercitiva: «Noi vogliamo edificare una nuova società che sarà concepita nello spirito non della coercizione, ma del libero servizio»3. Tutti quelli che condividono questa speranza, cioè la maggior parte degli uomini e delle donne, esamineranno perciò con cura il piano socialista corporativo per capire che cosa vi sia che prometta di ridurre la coercizione ai minimi termini, anche se i corporativisti d’oggi hanno già riservato ai loro comuni i più ampi poteri coercitivi. Ammettiamo subito che la nuova società non può essere instaurata con il consenso universale. Cole è troppo onesto per eludere la questione della forza necessaria per effettuare la transizione4. E pur non potendo ovviamente predire quanta guerra civile potrebbe esserci, dice chiaramente che dovrebbe esserci un periodo di azione diretta da parte 219 dei sindacati. 3. Ma lasciando da parte i problemi della transizione, e la questione del suo possibile effetto sulla loro azione futura, una volta che gli uomini si siano aperti il varco verso la terra promessa, cerchiamo di immaginarci la società corporativa in atto. Cos’è che la fa funzionare come una società non-coercitiva? Cole ha due risposte per questa domanda. Una è la risposta marxista ortodossa, secondo cui l’abolizione della proprietà capitalistica eliminerà l’impulso all’aggressività. Tuttavia non ci crede davvero neanche lui, perché se lo credesse non si preoccuperebbe, più di quanto si preoccupi il marxista medio, del modo in cui la classe lavoratrice debba governare, una volta arrivata al potere. Se la sua diagnosi fosse giusta, il marxista avrebbe assolutamente ragione: se il male fosse la classe capitalista e solo la classe capitalista, la salvezza seguirebbe automaticamente alla sua estinzione. Ma Cole si preoccupa enormemente del problema se la società successiva alla rivoluzione debba essere governata dal collettivismo di stato, dalle corporazioni o dalle cooperative, da un parlamento democratico o dalla rappresentanza delle categorie. In realtà, è proprio come una nuova teoria del governo rappresentativo che il socialismo corporativo attira l’attenzione. I corporativisti non s’aspettano che la scomparsa dei diritti proprietari capitalisti produca come risultato un miracolo. Essi pensano, e naturalmente a ragione, che i rapporti sociali, se la regola fosse l’eguaglianza dei redditi, risulterebbero profondamente modificati. Ma, per quanto posso capire, essi differiscono dal comunista russo ortodosso in questo: il comunista propone di instaurare l’eguaglianza con la forza della dittatura del proletariato, nella convinzione che una volta che gli individui venissero parificati nel reddito e nei servizi, verrebbero meno gli incentivi all’aggressività. I corporativisti propongono anche loro di instaurare l’eguaglianza con la forza, ma sono abbastanza avveduti per capire che allo scopo di consentire un equilibrio è necessario approntare istituzioni adatte. Perciò i corporativisti si affidano a quella che ritengono una nuova teoria della democrazia. Il loro obiettivo, dice Cole, «è di indovinare il meccanismo giusto, e di adattarlo per quanto possibile all’espressione delle volontà sociali dell’individuo»1. A queste volontà è necessario dare la possibilità dell’autoaffermazione nell’autogoverno «in tutte le forme possibili di 220 azione sociale». Dietro queste parole c’è il vero impulso democratico, il desiderio di esaltare la dignità umana, nonché il tradizionale postulato secondo cui questa dignità umana viene contraddetta se la volontà del singolo individuo non entra nell’amministrazione di tutto ciò che lo riguarda. Perciò il corporativismo, come il democratico delle origini, cerca un ambiente in cui questo ideale dell’autogoverno possa realizzarsi. Sono passati più di cento anni dai tempi di Rousseau e Jefferson, e il centro dell’interesse si è spostato dalla campagna alla città. Il nuovo democratico non può più cercare l’immagine della democrazia nella comunità rurale idealizzata. Si rivolge ora all’officina. Si deve dare libero gioco allo spirito di associazione nella sfera in cui riesce meglio ad esprimersi. Questa sfera è evidentemente la fabbrica, nella quale gli individui hanno l’abitudine e la tradizione di lavorare insieme. La fabbrica è l’unità naturale e fondamentale della democrazia industriale. Ciò implica non solo che la fabbrica deve essere libera, per quanto è possibile, di amministrare i propri affari, ma anche che l’unità democratica della fabbrica deve diventare la base della più vasta democrazia della corporazione, e che gli organi dell’amministrazione del governo corporativo debbono fondarsi largamente sul principio della rappresentanza di fabbrica2. Fabbrica è, naturalmente, una parola molto generica. E Cole ci invita a comprendervi anche le miniere, i cantieri navali, le attrezzature portuali, le stazioni e tutti i luoghi che sono «centri naturali di produzione»3. Ma una fabbrica intesa in questo senso è una cosa del tutto diversa da un’industria. La fabbrica, come la concepisce Cole, è un luogo di lavoro in cui gli uomini hanno realmente contatti personali, un ambiente abbastanza piccolo per poter essere direttamente conosciuto da tutti i lavoratori. «Se dev’essere reale, questa democrazia deve toccare ogni singolo membro della corporazione, ed essere direttamente esercitabile da lui»4. Questo è importante, perché Cole, come Jefferson, cerca un’unità naturale di governo. La sola unità naturale è un ambiente perfettamente familiare. Ma un grande stabilimento, un sistema ferroviario, un grande giacimento di carbone non sono in questo senso unità naturali. Se non è davvero una piccolissima fabbrica, quello a cui Cole in realtà pensava è l’officina. È qui che si può immaginare che gli individui abbiano «l’abitudine e la tradizione di lavorare insieme». Il resto dello stabilimento, il resto dell’industria è un ambiente inferito. 4. 221 Chiunque è in grado di rendersi conto, e quasi tutti ammettono, che l’autogoverno negli affari puramente interni dell’officina è governo di affari che possono essere afferrati d’un sol colpo1. Meno facile è accordarsi su quali siano gli affari interni di un’officina. Ovviamente gli interessi più grossi, come i salari, le norme di produzione, l’acquisto di materiale, la vendita del prodotto, la pianificazione generale del lavoro, non sono affatto puramente interni. La democrazia di officina ha una libertà che soggiace a enormi condizioni limitative esterne. Può organizzare in una certa misura il lavoro assegnato all’officina, può tener presente l’umore e il temperamento degli individui, può amministrare una giustizia industriale spicciola, e servire da tribunale di prima istanza nelle dispute individuali un po’ più importanti. Soprattutto può operare come un’unità nei suoi rapporti con altre officine, e forse con lo stabilimento nel suo insieme. Ma l’isolamento è impossibile. L’unità della democrazia industriale è del tutto coinvolta negli affari esterni. Ed è la condotta di queste relazioni esterne che costituisce il test della teoria socialista corporativa. Debbono essere amministrate attraverso un governo rappresentativo ordinato in una federazione che va dall’officina allo stabilimento, dallo stabilimento al settore industriale, dal settore industriale alla nazione, con raggruppamenti regionali intermedi di rappresentanti. Ma tutta questa struttura deriva dell’officina, e tutte le sue peculiari virtù vengono ascritte a questa origine. I rappresentanti che scelgono i rappresentanti che finalmente «coordinano e controllano» le officine vengono eletti, afferma Cole, da una vera democrazia. Dal momento che provengono in origine da un’unità che si autogoverna, l’intero organismo federale sarà pervaso dallo spirito e dalla realtà dell’autogoverno. I rappresentanti mireranno ad attuare la «vera volontà (dei lavoratori) come la intendono loro»2, cioè come la intendono gli individui nelle officine. Un governo condotto letteralmente secondo questo principio sarebbe, se la storia può insegnarci qualcosa, o un intrallazzo perpetuo, o un caos di officine in guerra tra loro. Infatti, mentre il lavoratore dell’officina può avere una vera opinione su cose che si svolgono totalmente entro di essa, la sua «volontà» circa il rapporto tra l’officina e lo stabilimento, il settore industriale e la nazione è soggetta a tutte le limitazioni di accesso, stereotipo ed egoismo che racchiudono qualsiasi altra opinione egocentrica. Nella migliore delle ipotesi, la sua esperienza dell’officina è in grado di portare alla sua attenzione solo qualche aspetto dell’insieme. Può raggiungere una sua opinione su ciò che è giusto all’interno dell’officina grazie ad una conoscenza diretta dei fatti essenziali. La sua 222 opinione su ciò che è giusto nel grande, complicato ambiente che esce dal suo campo visuale è più facilmente sbagliata che giusta, se è una generalizzazione tratta dall’esperienza della singola officina. Sul piano dell’esperienza, i rappresentanti di una società corporativa scoprirebbero, proprio come scoprono oggi i massimi dirigenti sindacali, che per un gran numero di questioni su cui essi debbono decidere non esiste alcuna «vera volontà come la intendono» le officine. 5. Tuttavia i corporativisti sostengono che questa critica è cieca perché trascura una grande scoperta politica. Si può aver ragione, direbbero, si pensare che i rappresentanti delle officine dovrebbero decidere da soli su molte questioni su cui le officine non hanno alcuna opinione. Ma in questo modo non si fa che impigliarsi in un antico errore: si sta cercando uno che rappresenti un gruppo. Non è possibile trovarlo. Il solo rappresentante possibile è colui che agisce per «una particolare funzione»1, e perciò ogni persona deve concorrere a scegliere tanti rappresentanti «quanti sono i gruppi essenziali di funzioni da svolgere». Immaginiamo allora che i rappresentanti parlino, non per gli individui delle officine, ma in nome di certe funzioni a cui questi individui sono interessati. Essi, è bene tenerlo presente, sono sleali se non attuano la volontà del gruppo a proposito della funzione, così come l’intende il gruppo2. Questi rappresentanti funzionali si riuniscono. Il loro compito è di coordinare e disciplinare. Con quale criterio ciascuno giudicherà le proposte dell’altro, se presumiamo, come dobbiamo presumere, che esista un conflitto di opinioni tra le officine, dato che se non ci fosse non ci sarebbe alcuna necessità di coordinare e disciplinare? Senonché si sostiene che la virtù peculiare della democrazia funzionale sia il fatto che gli uomini votino francamente secondo i propri interessi, che si suppone conoscano per quotidiana esperienza. Essi possono farlo all’interno del gruppo autosufficiente. Ma nelle sue relazioni esterne il gruppo nel suo complesso, o il suo rappresentante, affronta questioni che trascendono l’esperienza immediata. L’officina non arriva spontaneamente a una visione della situazione complessiva. Perciò le opinioni pubbliche di un’officina sui propri doveri e diritti nell’industria e nella società sono una questione di educazione e di propaganda, non il prodotto automatico della coscienza di officina. Eleggano un delegato, ovvero un rappresentante, i corporativisti non sfuggono al problema del democratico ortodosso. O il gruppo nel suo insieme o il portavoce eletto, devono allargare la mente al 223 di là dei limiti dell’esperienza diretta. Devono votare su questioni provenienti da altre officine, e su problemi che hanno origine al di là delle frontiere dell’industria nel suo insieme. L’interesse primario dell’officina non si estende nemmeno alla funzione di una specializzazione industriale. La funzione di una specializzazione, una grande industria, un distretto, una nazione, sono concetti, non esperienze, e non debbono essere immaginati, inventati, insegnati e creduti. E anche quando si sia definita la funzione con la maggior cura possibile, una volta che si ammette che l’opinone di un’officina su questa funzione non coinciderà necessariamente con l’opinione di altre officine, si sta dicendo in sostanza che il rappresentante di un interesse è coinvolto nelle proposte fatte da altri interessi. Si sta dicendo che egli deve concepire un interesse comune. E nel votare per lui si sceglie un individuo che non rappresenterà le opinioni che si hanno delle opinioni di altri a proposito di questa funzione. Si vota in modo indefinito, proprio come il democratico ortodosso. 6. Nella loro mente i corporativisti hanno risolto la questione del modo di concepire un interesse comune giocando sulla parola funzione. Immaginano una società in cui il lavoro più importante sia stato analizzato e ridotto a funzioni, e queste funzioni a loro volta siano state sintetizzate armoniosamente1. Presuppongono un accordo fondamentale circa i fini della società nel suo complesso, e un accordo essenziale circa il ruolo di ciascun gruppo organizzato nel perseguimento di questi fini. È stato quindi un nobile sentimento quello che li ha indotti a trarre il nome della loro teoria da un’istituzione sorta nella società feudale cattolica. Ma dovrebbero ricordare che l’ordine di funzioni che i saggi di quell’epoca postulavano non era costruito da mortali. Non è chiaro come i corporativisti pensino che quest’ordine possa esser costruito e reso accettabile nel mondo moderno. A volte sembrano sostenere che l’ordine si svilupperà dalle organizzazioni sindacali, altre volte che i comuni definiranno la funzione costituzionale dei gruppi. Ma sul piano pratico fa una grande differenza che essi credano o meno che i gruppi definiscano le proprie funzioni. Nell’uno e nell’altro caso Cole presume che la società possa essere portata avanti da un contratto sociale fondato sull’idea comune di «gruppi fondamentali di funzioni». Come si fa a riconoscere questi gruppi fondamentali? Per quanto posso capire, Cole ritiene che la funzione sia ciò a cui si interessa un gruppo di persone. «L’essenza della democrazia funzionale è che un individuo deve contare tante volte quante sono le 224 funzioni a cui è interessato»2. Però ci sono almeno due significati nella parola «interessato». Si può usarla per intendere che un individuo è coinvolto, o che la sua mente è occupata. John Smith, ad esempio, può aver provato un enorme interesse per il caso di divorzio Stillman. Forse ha letto ogni parola che sia stata scritta al riguardo dai giornali. Invece il giovane Guy Stillman, della cui legittimità si discuteva, non si preoccupava affatto. John Smith si interessava di un processo che non toccava i suoi «interessi»; e Guy non si interessava di un processo che avrebbe determinato l’intero corso della sua vita. Cole, temo, tende verso John Smith. Così risponde alla «sciocchissima obiezione» che per votare per funzioni si deve votare molto spesso: «Se un individuo non prova abbastanza interesse per votare, e se non c’è modo di destare in lui un interesse sufficiente a spingerlo a votare su, poniamo, una dozzina di materie diverse, egli rinuncia al suo diritto di voto e il risultato non è meno democratico che se votasse ciecamente e senza interesse». Cole pensa che l’elettore impreparato «rinuncia al suo diritto al voto». Da ciò deriva che i voti dei preparati rivelano il loro interesse, e il loro interesse definisce la funzione3. «Brown, Jones e Robinson debbono avere perciò non un voto ciascuno, ma tanti distinti voti funzionali quante sono le distinte questioni, richiedenti un’azione associata, alle quali sono interessati»4. Resto in gran dubbio se Cole ritenga che Brown, Jones e Robinson debbono aver diritto di votare ad ogni elezione in cui affermano di essere interessati, oppure che qualcun altro, non specificato, sceglie le funzioni a cui essi hanno il diritto di essere interessati. Se mi si chiedesse di dire che cosa, secondo me, pensa Cole, sosterrei che ha scavalcato la difficoltà grazie al sottinteso stranissimo che sia l’elettore impreparato a rinunciare al suo diritto al voto; e arrivando alla conclusione che se la votazione funzionale è organizzata da un potere superiore, o «dal basso» in base al principio che un individuo può votare quando gli interessa votare, solo il preparato voterà in ogni caso, e quindi l’istituzione funzionerà. Ma ci sono due specie di elettore impreparato. C’è colui che non sa e sa di non sapere. In genere è una persona illuminata. È lui l’individuo che rinuncia al suo diritto al voto. Ma c’è anche colui che è impreparato e non sa di esserlo, né gli importa. Può sempre essere portato alle urne, se l’organizzazione di partito funziona bene. Il suo voto è la base della macchina. E dato che i comuni della società corporativa hanno ampi poteri in materia di tassazione, salari, prezzi, credito e risorse naturali, sarebbe assurdo pensare che le elezioni non verrebbero combattute perlomeno con la stessa passione delle nostre. Il modo in cui gli individui manifestano il loro interesse non delimiterà 225 quindi le funzioni di una società funzionale. La funzione potrebbe essere definita in almeno due altri modi. O dai sindacati che abbiano combattuto la battaglia per creare il socialismo corporativo. Una tale lotta coagulerebbe dei gruppi di persone in una qualche specie di rapporto funzionale, e questi gruppi diventerebbero allora gli interessi costituiti della società socialista corporativa. Alcuni di loro, come i minatori e i ferrovieri, sarebbero fortissimi e con ogni probabilità sarebbero profondamente attaccati alla visione della loro funzione appresa durante la battaglia con il capitalismo. Non è affatto improbabile che certi sindacati situati in posizioni strategiche diventerebbero in uno stato socialista il centro dell’unità e del governo. Ma una società corporativa faticherebbe inevitabilmente a tenerli al loro posto, perché l’azione diretta gli avrebbe fatto capire qual è il loro potere strategico, e perlomeno alcuni dei loro capi non sarebbero tanto disposti a immolare questo potere sull’altare della libertà. Per «coordinarli», la società corporativa dovrebbe radunare le sue forze, e ben presto si scoprirebbe, secondo me, che la sinistra, nel regime corporativo, chiederebbe comuni abbastanza forti per delimitare le funzioni delle corporazioni. Ma se si arriva al punto in cui dev’essere il governo (comune) a delimitare la funzione, le basi della teoria scompaiono. Perché le officine autosufficienti si mettessero volontariamente in rapporto con la società, la teoria aveva dovuto immaginare che l’ordine delle funzioni fosse ovvio. Se non c’è un ordine fisso di funzioni nella mente di ciascun elettore, questi in un regime di socialismo corporativo non è in grado di trasformare un’opinione egocentrica in un giudizio sociale meglio di quanto possa fare nella democrazia ortodossa. E naturalmente non può esserci un tale ordine fisso, perché, anche se Cole e i suoi amici ne escogitassero uno buono, le democrazie di officina, da cui deriva tutto il potere, giudicherebbero l’ordine in atto secondo quel che ne vengono a sapere e secondo quel che possono immaginare. Le corporazioni lo vedrebbero in modo diverso. E così invece di avere una situazione in cui l’ordine sarebbe lo scheletro che tiene insieme la società corporativa, anche in questo regime, come negli altri, la principale questione politica sarebbe quella di definire ciò che l’ordine debba essere. Se potessimo concedere a Cole il suo ordine di funzioni, potremmo concedergli quasi tutto. Purtroppo ha inserito nei suoi presupposti proprio ciò a cui la società corporativa dovrebbe portare5. 226 XX. Una nuova immagine 1. Mi sembra che la lezione sia piuttosto chiara. In mancanza di istituzioni e di un’istruzione, grazie alle quali l’ambiente venga rappresentato tanto bene che le realtà della vita pubblica si staglino nettamente contro l’opinione egocentrica, gran parte degli interessi comuni sfuggono completamente all’opinione pubblica e possono essere amministrati soltanto da una classe specializzata i cui interessi personali oltrepassino l’ambito della comunità locale. Questa classe è irresponsabile, perché agisce sulla base di informazioni che non sono di dominio pubblico, in situazioni che il pubblico in genere non si immagina, e può essere chiamata al rendiconto solo a fatto compiuto. Poiché non ammette che le opinioni egocentriche non bastano a procurare il buon governo, la posizione democratica si trova in perpetuo conflitto tra la teoria e la pratica. Secondo la teoria, la piena dignità dell’individuo richiede che la sua volontà, come dice Cole, debba esprimersi «in tutte le forme possibili dell’azione sociale». Si suppone che l’espressione della propria volontà costituisca l’ardente passione degli individui, perché si presume che essi possiedano per istinto l’arte di governare. Ma la comune esperienza insegna che l’autodeterminazione è solo uno dei molti interessi della personalità umana. Il desiderio di essere padroni del proprio destino è un forte desiderio, ma deve adattarsi ad altri desideri egualmente forti, quale il desiderio di una vita comoda, della pace, di liberarsi dai problemi. Nelle teorie originarie della democrazia si sosteneva che l’espressione della volontà di ciascun individuo avrebbe spontaneamente soddisfatto non solo la sua aspirazione all’autoaffermazione, ma anche il desiderio di una vita comoda, perché l’istinto di esprimersi in una vita comoda era innato. Perciò si è sempre insistito sul meccanismo per esprimere la volontà. L’Eldorado democratico è sempre stato un ambiente perfetto, e un perfetto sistema di votazione e di rappresentanza, in cui l’innata buona volontà e l’istintiva arte di governo di ciascun individuo avrebbero potuto tradursi in azione. In zone circoscritte e per brevi periodi l’ambiente è stato così 227 favorevole – ossia così isolato – e così ricco di possibilità che la teoria ha potuto funzionare abbastanza bene per confermare gli individui nel pensiero che fosse buona per tutti i tempi e per tutti i luoghi. Poi, quando l’isolamento è cessato, e la società è diventata complessa, e gli uomini hanno dovuto adattarsi reciprocamente gli uni agli altri con la massima cura, il democratico ha cominciato a dedicarsi all’impresa di escogitare sistemi elettorali più perfetti, nella speranza, come dice Cole, di poter in qualche modo «azzeccare il meccanismo giusto, e adattarlo per quanto possibile alle volontà sociali degli individui». Ma occupandosi di questo, il teorico della democrazia era assai lontano dagli effettivi interessi della natura umana. Un solo interesse lo assorbiva: l’autogoverno. Gli uomini invece si interessavano di tutt’altre cose, dell’ordine, dei loro diritti, della prosperità, della vita intorno a loro, e non volevano annoiarsi. Nella misura in cui non soddisfa gli altri loro interessi, la democrazia spontanea appare quasi sempre alla maggior parte degli uomini una cosa vuota. Poiché l’arte del buon autogoverno non è istintiva, gli uomini non ambiscono alla lunga all’autogoverno per se stesso. Lo desiderano per i risultati. Ecco perché l’impulso all’autogoverno raggiunge sempre il suo culmine nella protesta contro insoddisfacenti condizioni di vita. L’errore dei democratici è stato quello di preoccuparsi dell’origine del governo piuttosto che delle procedure e dei risultati. Il democratico ha sempre dato per scontato che il potere politico, se si fosse riusciti a derivarlo nel modo giusto, sarebbe stato benefico. Ha rivolto tutta la sua attenzione alla fonte del potere, dato che è ipnotizzato dalla convinzione che la cosa importante è esprimere la volontà del popolo, anzitutto perché l’espressione è l’interesse più alto dell’uomo, e in secondo luogo perché la volontà è istintivamente buona. Ma nessun controllo di un fiume alla sorgente potrà regolare completamente il suo corso, e i democratici, lasciandosi assorbire dal tentativo di trovare un buon meccanismo generatore del potere sociale, cioè un buon meccanismo di elezione e rappresentanza, hanno trascurato quasi tutti gli altri interessi dell’uomo. Infatti non importa che sorga il potere, perché l’interesse cruciale sta nel modo in cui il potere viene esercitato. Ciò che determina il tono della civiltà è l’uso che si fa del potere. E quest’uso non può essere controllato alla fonte. Se si cerca di controllare completamente il governo alla fonte, inevitabilmente si rendono invisibili tutte le decisioni fondamentali. Infatti, dato che non esiste alcun istinto il quale generi automaticamente decisioni politiche che producano una vita comoda, gli individui che effettivamente esercitano il potere non solo non esprimono la volontà del popolo, giacché su moltissime questioni non esiste alcuna volontà, ma esercitano il potere 228 secondo opinioni che restano celate all’elettorato. Se allora si estirpa dalla filosofia democratica tutta la premessa, in tutte le sue ramificazioni, secondo cui il governo è istintivo, e perciò può essere amministrato secondo opinioni egocentriche, che cosa succede della fede democratica nella dignità dell’uomo? Riprende vitalità solo se la si ricollega alla personalità intera, invece che a un misero aspetto di essa. In realtà il democratico tradizionale fondava, con qualche azzardo, la dignità dell’uomo su un solo assunto assai precario, e cioè sul concetto che quest’ultimo avrebbe manifestato istintivamente questa dignità sotto forma di leggi savie e di buon governo. Ma gli elettori non l’hanno manifestata, e così fatalmente il democratico è stato fatto apparire un po’ sciocco dai duri realisti. Ma se invece di far dipendere la dignità umana da quel solo postulato dell’autogoverno, si sostiene che la dignità dell’individuo richiede un tenore di vita in cui le sue capacità abbiano adeguate possibilità di venir esercitate, il problema cambia completamente. I criteri di giudizio che in questo caso si applicano al governo diventano altri: si cerca di verificare cioè se esso assicura un minimo livello sanitario, un minimo di alloggi decorosi, un minimo di cibo e vestiario, di istruzione, di libertà, di divertimenti, di bellezza, oppure se, sacrificando tutte queste cose, si limita a vibrare alle opinioni egocentriche che si trovano a vagare nelle menti degli individui. Nella misura in cui questi criteri possono esser resi esatti e oggettivi, la decisione politica, che inevitabilmente spetta a relativamente poche persone, viene davvero messa in rapporto agli interessi degli individui. Non esiste alcuna prospettiva che in un futuro prevedibile l’ambiente invisibile diventi tutto così chiaro agli individui da consentirgli di arrivare spontaneamente a opinioni pubbliche sensate su tutto ciò che riguarda il governo. E anche se ci fosse una tale prospettiva, è estremamente dubbio che molti di noi vorrebbero dedicare del tempo o prendersi la briga di formarsi un’opinione su «tutte le forme di azione sociale» che ci riguardano. La sola prospettiva non visionaria è che ognuno di noi, nella sua sfera, agirà sempre più in base a un quadro realistico del mondo invisibile, e che avremo un numero sempre maggiore di individui esperti nel mantenere realistiche queste immagini. Fuori del raggio piuttosto ristretto della nostra possibile attenzione, il controllo sociale dipende dall’invenzione di condizioni di vita e di metodi di verifica con cui misurare le azioni delle autorità pubbliche e dei dirigenti industriali. Non possiamo noi stessi ispirare o guidare tutte queste azioni, come il democratico mistico si è sempre figurato. Ma possiamo regolarmente accrescere il nostro controllo effettivo su queste azioni, pretendendo che 229 debbano essere tutte chiaramente documentate, e che i loro risultati vengano tutti obiettivamente misurati. Dovrei dire forse che possiamo progressivamente sperare di pretendere. Infatti lo sviluppo di queste condizioni di vita e di queste verifiche è appena cominciato. A. B. Hart, nella nota introduttiva a Lowell, Public Opinion and Popular Government cit. 1 Il federalista, a cura di M. D’Addio e G. Negri, trad. di B. M. Tedeschini Lalli, il Mulino, Bologna 1980, nn. 35 e 36, p. 267. Cfr. il commento di Henry Jones Ford nel suo Rise and Growth of American Politics. A Sketch of Constitutional Development, Macmillan, New York 1898, cap. V. 2 Si veda più avanti, p. 241. 1 Politica, l. VII, cap. IV, trad. it. cit., pp. 231-2. 1 Hobbes, Leviatano cit., cap. XIII. «Della condizione naturale dell’umanità per quanto concerne la sua felicità e la sua miseria», trad. it. cit., p. 122. 1 F. S. Oliver, nel suo Alexander Hamilton, G. P. Putnam’s sons, New York 1920, così dice di Machiavelli (p. 174): «Presumendo che le condizioni esistenti – la natura dell’uomo e delle cose – siano immutabili, procede in modo calmo e amorale, come un conferenziere che parli di rane, a dimostrare come un governante valoroso e sagace possa volgere nel migliore dei modi gli avvenimenti a proprio vantaggio e a vantaggio della sicurezza della sua dinastia». 7 2 Il principe, Einaudi, Torino 1972 , pp. 87-8, cap. XVIII: «Quomodo fides a principus sit servanda». 1 «Le democrazie hanno sempre offerto spettacolo di turbolenza e di dissidi […] e hanno vissuto una vita che è stata tanto breve, quanto violenta ne è stata la morte». Madison, in Il federalista, n. 10 (trad. it. cit., p. 93). 2 La democrazia in America, a cura di G. Candeloro, Rizzoli, Milano 1982, I, p. 66. 3 Citato da Beard nel suo Economic Origins of Jeffersonian Democracy cit., cap. XIV. 4 Ibid., p. 426. 1 Cfr. Aristotele, Politica, l. VII, cap. IV. 2 Fisher Ames, terrorizzato dalla rivoluzione democratica del 1800, scrisse nel 1802 a Rufus King: «Noi abbiamo bisogno, come tutte le nazioni, di avere sul perimetro del nostro territorio la pressione di un vicino formidabile, la cui presenza possa in ogni momento suscitare timori più forti di quelli che i demagoghi possono ispirare al popolo nei confronti del loro governo». Citato da Ford, Rise and Growth of American Politics cit., p. 69. 1 Il federalista, n. 15 (trad. it. cit., p. 134). 2 Ford, Rise and Growth cit., p. 36. 3 Il federalista, n. 15. 4 Il federalista, n. 51, citato da Ford, Rise and Growth cit., p. 60. 5 Ibid. 6 Il federalista, n. 15. 7 Ford, Rise and Growth cit., p. 119. 1 Ibid., p. 144. 2 Ibid., p. 47. 1 230 Beard, Economic Interpretation of the Constitution, passim. 4 Ibid., p. 325. 1 Tocqueville, La democrazia in America cit., p. 266. 2 Cfr. il suo piano per la Costituzione della Virginia, le sue idee di un Senato di proprietari, e le sue opinioni sul veto della magistratura. Beard, Economic Origins of Jeffersonian Democracy cit., pp. 450 sgg. 3 Il lettore che abbia qualche dubbio sulla portata della rivoluzione che separava le opinioni di Hamilton dalla prassi di Jackson dovrebbe vedere il citato Rise and Growth of American Politics di Henry Jones Ford. 1 Ibid., p. 169. 1 Cfr. G. D. H. Cole, Social Theory, F. A. Stokes, New York 1920, p. 142. 1 Id., Guild Socialism, F. A. Stokes, New York 1921, p. 107. 2 Ibid., cap. VIII. 3 Ibid., p. 141. 4 Ibid., cap. X. 1 Ibid., p. 16. 2 Ibid., p. 40. 3 Ibid., p. 41. 4 Ibid., p. 40. 1 Aristotele, Politica, l. VII, cap. IV. 2 Cole, Guild Socialism cit., p. 42. 1 Ibid., pp. 23-4. 2 Cfr. parte V, «La formazione di una volontà comune». 1 Cole, Guild Socialism cit., cap. XIX. 2 Id., Social Theory cit., pp. 102 sgg. 3 Cfr. il cap. XVIII di questo libro. «Siccome si riteneva che tutti fossero abbastanza interessati agli affari importanti, finirono per sembrare importanti solo quegli affari per cui tutti provavano interesse». 4 Cole, Guild Socialism cit., p. 24. 5 Mi sono occupato della teoria di Cole piuttosto che dell’esperienza della Russia sovietica perché, pur esistendo solo testimonianze frammentarie, tutti gli osservatori competenti sembrano convenire che la Russia del 1921 non è un esempio di stato comunista in pieno funzionamento. La Russia è ancora in rivoluzione, ed essa può insegnare soltanto com’è fatta una rivoluzione. Si può apprendere ben poco su come sarebbe una società comunista. Tuttavia è straordinariamente significativo che i comunisti russi, prima come rivoluzionari e poi come esponenti pubblici, si siano affidati non alla democrazia spontanea del popolo russo, ma alla disciplina, all’interesse particolare e al senso di responsabilità di una classe specializzata: i fedeli e indottrinati membri del partito comunista. Nel periodo di «transizione», al quale, mi pare, non è stato posto alcun limite, la cura applicata al governo di classe e allo stato coercitivo è rigorosamente omeopatica. Ci si può anche chiedere perché ho scelto i libri di Cole piuttosto che l’assai più rigoroso Constitution for the Socialist Commonwealth of Great Britain di Sidney e Beatrice Webb, Longmans, Green, and Co., London-New York 1920. Ammiro moltissimo questo libro; ma non sono riuscito a convincermi che sia qualcosa di diverso da un tour de force intellettuale. Cole mi sembra assai più autenticamente nello spirito del movimento socialista, e perciò un miglior testimone. 3 231 VII. I giornali 232 XXI. Il pubblico come consumatore 1. L’idea che gli uomini debbano andare a studiare il mondo per poterlo governare ha giocato una parte assai marginale nel pensiero politico. Non ha avuto molto spazio, perché i sistemi per informare sul mondo in modo utile al governare hanno fatto relativamente pochi progressi dal tempo di Aristotele all’epoca in cui sono state gettate le basi della democrazia. Perciò se si fosse chiesto a un democratico degli inizi da dove dovesse venire l’informazione su cui avrebbe dovuto basarsi la volontà del popolo, la domanda lo avrebbe messo in imbarazzo. Sarebbe stato un po’ come chiedergli da dove venissero la sua vita o la sua anima. La volontà del popolo – egli avrebbe per lo più sostenuto – esiste sempre; il compito della scienza politica era di elaborare le invenzioni della consultazione elettorale e del governo rappresentativo. Se venivano elaborate bene e applicate nelle condizioni giuste, come quelle che esistono nel villaggio autosufficiente o nell’officina autosufficiente, il meccanismo avrebbe in qualche modo superato l’ostacolo, osservato da Aristotele, della brevità dell’attenzione, e anche quello della ristrettezza del suo raggio, che la teoria della comunità autosufficiente tacitamente riconosceva. Abbiamo visto come persino adesso i socialisti corporativi siano stati trafitti dall’idea che una confederazione cooperativa complicata è possibile purché la si costruisca sulla base della giusta unità elettorale e di rappresentanza. I democratici, convinti che la saggezza attendeva solo di essere scoperta, hanno trattato il problema della formazione delle opinioni pubbliche come un problema di diritti civili1. «Chi mai ha visto la Verità soccombere in uno scontro libero e aperto?»2. Ammettendo che nessuno l’abbia mai vista soccombere, dobbiamo credere allora che la verità sia generata dallo scontro, come il fuoco dall’attrito di due bacchette? Dietro questa dottrina classica della libertà, che i democratici americani realizzarono nel loro Bill of Rights, ci sono, in realtà, diverse teorie sull’origine della verità. Una è la fede che, nella competizione delle opinioni, la più vera vincerà perché c’è una forza peculiare nella verità. È una tesi probabilmente ben fondata se si permette che la competizione si 233 protragga per un periodo di tempo sufficientemente lungo. Chi sostiene questa posizione di solito ha in mente il verdetto della storia, e in particolare pensa agli eretici perseguitati in vita e canonizzati dopo morti. La domanda di Milton poggia anche sulla convinzione che la capacità di riconoscere la verità sia innata in tutti gli individui, e che la verità messa liberamente in circolazione conquisterà il consenso generale. Essa deriva anche dall’esperienza, la quale ha dimostrato che gli individui hanno poche probabilità di scoprire la verità se non possono dirla che sotto gli occhi di un poliziotto poco comprensivo. Non è possibile sopravvalutare il valore pratico di questi diritti civili, né l’importanza di difenderli. Quando sono in pericolo, è in pericolo lo spirito umano, e nel caso che venga il momento in cui debbono venir limitati, come durante la guerra, la soppressione del pensiero è per la civiltà un rischio che potrebbe impedirle di riaversi dalle conseguenze della guerra, se gli isterici, che sfruttano lo stato di necessità, fossero abbastanza numerosi per riuscire a far perdurare in tempo di pace i tabù della guerra. Fortunatamente la massa degli uomini è troppo tollerante per compiacersi a lungo degli inquisitori professionali, i quali, un po’ alla volta, sotto il fuoco delle critiche di uomini non disposti a farsi terrorizzare, si rivelano meschine creature che per nove decimi di tempo non sanno di che cosa stanno parlando3. Ma ad onta della sua fondamentale importanza, il diritto civile in questo senso non garantisce l’opinione pubblica nel mondo moderno. Infatti esso presume sempre o che la verità è spontanea, o che i mezzi per ottenerla esistono allorché non c’è alcuna interferenza esterna. Ma quando si ha a che fare con un ambiente invisibile, l’assunto è falso. La verità riguardante questioni lontane o complesse non è di per sé evidente, e gli strumenti per raccogliere le notizie sono tecnici e costosi. E tuttavia la scienza politica, e soprattutto la scienza politica democratica, non si è mai liberata abbastanza dall’assunto originario della politica di Aristotele per riformulare le premesse, affinché il pensiero politico potesse confrontarsi col problema di come rendere visibile ai cittadini di uno stato moderno l’ambiente invisibile. La tradizione è così radicata che fino a pochissimo tempo fa, ad esempio, la scienza politica veniva insegnata nelle nostre università come se i giornali non esistessero. Non mi riferisco alle scuole di giornalismo, poiché queste sono scuole professionali, intese a preparare uomini e donne a una carriera. Mi riferisco invece alla scienza politica come viene esposta ai futuri dirigenti industriali, avvocati, funzionari pubblici e cittadini in genere. In questa scienza uno studio della stampa e delle fonti 234 dell’informazione popolare non ha trovato posto. È un fatto curioso. A chiunque non sia immerso nel trantran della scienza politica riesce quasi inesplicabile che nessuno studioso americano della vita pubblica, nessun sociologo americano, abbia mai scritto un libro sul processo di raccolta delle notizie. Si fanno ogni tanto riferimenti alla stampa, e dichiarazioni che essa non è o dovrebbe essere «libera» e «veritiera». Ma praticamente non riesco a trovare altro. E questo disdegno degli esperti ha il suo equivalente nelle opinioni pubbliche. Si ammette universalmente che la stampa è il mezzo principale di contatto con l’ambiente che sta al di fuori del nostro campo visuale. E praticamente dappertutto si ritiene che la stampa dovrebbe fare spontaneamente per noi quello che la democrazia delle origini si figurava che ciascuno di noi potesse fare spontaneamente per se stesso, che ogni giorno e due volte al giorno ci fornirà un quadro veritiero di tutto il mondo esterno di cui ci interessiamo. 2. Questa persistente e antica fede che la verità non viene conquistata, ma ispirata, rivelata, fornita gratuitamente, si manifesta molto chiaramente nei nostri pregiudizi economici di lettori di giornali. Ci aspettiamo che il giornale ci serva, anche quando non è redditizia, la verità. Per questo servizio difficile e spesso pericoloso, che riconosciamo fondamentale, pretendevamo fino a poco tempo fa di pagare la moneta più piccola fra quante ne vengono coniate dalla zecca. Ora ci siamo abituati a pagare due e persino tre cents nei giorni feriali, e di domenica, per un’enciclopedia illustrata e un supplemento di varietà, ci siamo spremuti fino a pagare cinque e persino dieci cents. Non si pensa neanche per un momento di dover pagare per il proprio giornale. Si attende che le fonti della verità zampillino, ma non ci si impegna in alcun contratto, legale o morale, che comporti il rischio, un costo o qualche fastidio per se stessi. Si pagherà un prezzo nominale quando se ne avrà voglia, e si smetterà di pagarlo quando non se ne avrà voglia, si prenderà un altro giornale quando farà comodo. Qualcuno ha detto molto appropriatamente che il direttore di giornale dev’essere riconfermato ogni giorno. Questo occasionale e unilaterale rapporto tra lettori e stampa è un’anomalia della nostra civiltà; non c’è nient’altro di simile, e perciò è difficile paragonare la stampa a una qualsiasi altra istituzione o impresa. Non è un’impresa pura e semplice, in parte perché il prodotto viene regolarmente venduto sotto costo, ma soprattutto perché la collettività applica una misura etica alla stampa e un’altra misura al commercio o 235 all’industria. Eticamente il giornale viene giudicato come se fosse una chiesa o una scuola. Ma se si cerca di paragonarlo a queste ultime, non si riesce: il contribuente paga per la scuola pubblica, la scuola privata riceve sovvenzioni oppure si mantiene con le rette, per la chiesa ci sono sussidi e collette. Non si può confrontare il giornalismo all’avvocatura, alla medicina o all’ingegneria, perché in tutte queste professioni il consumatore paga per il servizio. Una stampa libera, a giudicare dall’atteggiamento dei lettori, significa giornali praticamente regalati. Eppure i critici della stampa, quando pretendono che questa istituzione viva sullo stesso piano sul quale si ritiene che vivano la scuola, la chiesa e le professioni disinteressate, non fanno altro che esprimere i criteri morali di giudizio della collettività. Ciò è un altro esempio del carattere concavo della democrazia. Non si sente l’esigenza di un’informazione artificialmente acquisita. L’informazione deve venire naturalmente, vale a dire gratis, se non dal cuore del cittadino, dal giornale. Il cittadino pagherà per il suo telefono, il suo biglietto ferroviario, la sua automobile, i suoi divertimenti. Ma non paga visibilmente per le sue notizie. Tuttavia pagherà a caro prezzo il privilegio di far parlare di sé il giornale. Pagherà direttamente per fare la pubblicità. E pagherà indiretta mente per gli annunci pubblicitari di altre persone, perché questo pagamento, nascosto com’è nel prezzo di vendita del prodotto, fa parte di un ambiente invisibile che egli non domina efficacemente. Sarebbe considerato un oltraggio il fatto di dover pagare visibilmente il prezzo di un buon gelato per tutte le notizie del mondo; quantunque il pubblico paghi questo ed altro quando acquista i prodotti propagandati. Il pubblico paga per la stampa, ma solo quando questa spesa è nascosta. 3. La diffusione, quindi, è il mezzo per raggiungere un fine. Diventa un patrimonio solo quando può esser venduta all’inserzionista, il quale la compra con entrate assicurate da un’indiretta tassazione del lettore1. Il tipo di diffusione che l’inserzionista comprerà dipende da quello che ha da vendere. Può essere la «qualità» o la «massa». In genere non c’è una linea netta di demarcazione, perché di fronte alla maggior parte dei prodotti venduti attraverso la pubblicità gli acquirenti non sono né la piccola classe dei ricchissimi né i poverissimi. Sono le persone che dispongono di sufficienti eccedenze rispetto alle necessità primarie, per poter esercitare negli acquisti una certa discrezionalità. Perciò il giornale che entra nelle case delle persone piuttosto agiate è generalmente quello che offre di più 236 all’inserzionista. Può anche entrare nelle case dei poveri, ma, se si eccettuano certi tipi di beni, un agente pubblicitario esperto non dà grande valore a questa diffusione, a meno che, come sembra sia il caso di certi giornali di Hearst, la diffusione non sia enorme. Un giornale che scontenta quelli che fanno guadagnare di più all’inserzionista non conviene a quest’ultimo. E dal momento che nessuno ha mai preteso che la pubblicità sia una forma di filantropia, gli inserzionisti acquistano spazio in quelle pubblicazioni che hanno le migliori probabilità di raggiungere i loro futuri clienti. Non è necessario perdere molto tempo a preoccuparsi degli scandali soffocati dei commercianti di tessuti. Non rappresentano nulla di veramente importante, e gli incidenti di questo genere sono meno comuni di quello che credono molti critici della stampa. Il vero problema è che i lettori di un giornale, non abituati a pagare il costo della raccolta delle notizie, possono essere capitalizzati solo venendo trasformati in diffusione vendibile agli industriali e ai commercianti. E quelli che è più importante capitalizzare sono quelli che hanno più denaro da spendere. Una siffatta stampa deve per forza rispettare il punto di vista del pubblico che può comprare. È per questo pubblico di acquirenti che i giornali vengono redatti e pubblicati, perché senza questo appoggio il giornale non può vivere. Un giornale può maltrattare un inserzionista, può attaccare un potente interesse bancario o commerciale, ma se si aliena le simpatie del pubblico che ha potere di acquisto, perde il solo patrimonio indispensabile alla sua esistenza. John L. Given2, già del «New York Evening Sun», dichiarò nel 1914 che su oltre 2300 quotidiani pubblicati negli Stati Uniti ce n’erano circa 175 stampati in città con più di centomila abitanti. Questi costituiscono la stampa che fornisce le «notizie generali». Sono i giornali-chiave che si procurano le notizie relative ai grandi avvenimenti, e anche quelli che non leggono nessuno dei 175 giornali dipendono in ultima analisi da loro per quanto riguarda le notizie provenienti dal mondo esterno. Infatti essi formano le grandi associazioni della stampa che collaborano nello scambio delle notizie. Ognuno di loro, perciò, non soltanto è l’informatore dei propri lettori, ma è anche il corrispondente locale dei giornali di altre città. La stampa rurale e la stampa specializzata in genere traggono le loro notizie generali da questi giornali-chiave. E tra questi ce ne sono alcuni molto più ricchi degli altri, sicché di solito per le notizie internazionali tutta la stampa della nazione può dipendere dalle corrispondenze delle agenzie giornalistiche e dai servizi speciali di pochi quotidiani di grandi città. Approssimativamente, il sostegno economico della raccolta delle 237 notizie generali sta nel prezzo che pagano per i prodotti reclamizzati i settori discretamente agiati delle città che superano i centomila abitanti. Questi pubblici di compratori comprendono i membri delle famiglie che traggono il loro reddito principalmente dal commercio, dall’industria e dalla finanza. Sono la clientela che rende di più a che fa la réclame attra verso il giornale. Essi detengono un potere d’acquisto concentrato, che può essere minore, come volume, del totale complessivo del potere d’acquisto degli agricoltori e degli operai; ma entro il raggio coperto da un quotidiano sono il capitale più rapidamente realizzabile. 4. Inoltre presentano un duplice richiamo. Non sono soltanto i migliori clienti dell’inserzionista, ma includono anche gli inserzionisti. E perciò l’impressione che i giornali fanno su questo pubblico importa moltissimo. Fortunatamente questo pubblico non è unanime. Può essere «capitalista», ma abbraccia opinioni discordi su cosa sia il capitalismo e su come debba essere condotto. Salvo nei momenti di pericolo, questa rispettabile opinione è abbastanza divisa da permettere considerevoli differenze di indirizzo politico. Queste sarebbero ancora maggiori se non fosse che gli editori sono anch’essi di solito membri di queste comunità urbane, e vedono in buona fede il mondo attraverso le lenti dei loro colleghi e amici. Sono impegnati in un’impresa speculativa1, che dipende dalla situazione generale dell’economia, e più precisamente da una diffusione basata non su un contratto di matrimonio con i lettori, ma sul libero amore. L’obiettivo di ogni editore è perciò quello di trasformare la sua diffusione da un’accozzaglia di casuali compratori di edicola in una devota compagnia di lettori fedeli. Un giornale che possa davvero contare sulla fedeltà dei suoi lettori ha tutta l’indipendenza che un giornale può avere, data l’economia del giornalismo moderno2. Un corpo di lettori che resti fedele, nei tempi buoni come nei cattivi, è una forza maggiore di quella di cui può disporre il singolo inserzionista, e una forza abbastanza grande per spezzare una combinazione di inserzionisti. Perciò ogni volta che ci si imbatte in un giornale che tradisce i suoi lettori per amore di un inserzionista, si può stare discretamente certi o che l’editore sinceramente condivide le opinioni dell’inserzionista, o che ritiene, forse erroneamente, di non poter contare sull’appoggio dei lettori se resiste apertamente all’imposizione. È questione di sapere se i lettori, che non pagano in contanti per le loro notizie, le pagheranno con la fedeltà. 238 XXII. Il fedele lettore 1. La fedeltà del pubblico dei compratori a un giornale non viene sancita da alcun contratto. In quasi ogni altra impresa la persona che pretende di essere servita prende un impegno che pone dei limiti ai suoi umori passeggeri. Perlomeno paga per quello che riceve. Nel campo dei periodici la cosa più vicina ad un impegno a scadenza precisa è l’abbonamento; ma quest’ultimo, credo, non è un fattore importante nell’economia di un grande quotidiano. Il lettore è l’unico e quotidiano giudice della propria fedeltà, e non gli si può far causa per rottura di promessa di matrimonio o per mancata corresponsione di alimenti. Sebbene tutto si imperni sulla costanza del lettore, non esiste nemmeno lontanamente la tradizione di richiamare questo fatto alla mente del lettore. La sua costanza dipende dall’umore in cui si trova, o dalle sue abitudini. E queste ultime dipendono non semplicemente dalla qualità delle notizie, ma più spesso da molti elementi oscuri che solitamente, nel nostro occasionale rapporto con la stampa, non ci diamo la pena di rendere coscienti. Il più importante di essi è che ciascuno di noi tende a giudicare un giornale, quando lo giudica, da come tratta quella parte delle notizie in cui si sente personalmente coinvolto. Il giornale si occupa di una gran quantità di avvenimenti che trascendono la nostra esperienza. Ma si occupa anche di alcuni avvenimenti che vi rientrano. E noi lo approviamo o no, ci fidiamo o rifiutiamo di tenere quel determinato foglio in casa, a seconda di come affronta questi avvenimenti. Se il giornale dà un resoconto soddisfacente di ciò che crediamo di conoscere, la nostra attività economica, la nostra chiesa, il nostro partito, è quasi certo che non lo criticheremo con violenza in nessun caso. Per la persona che legge mentre fa colazione, c’è forse un criterio migliore di preferenza del constatare che l’interpretazione del giornale collima con la sua opinione? Perciò la maggior parte degli individui tende a considerare responsabile il giornale, assai più che come lettori generali, come parti in causa in campi particolari, di cui hanno diretta esperienza. È raro che qualcuno, che non sia parte interessata, sia in grado di 239 verificare l’esattezza di un resoconto. Se la notizia è locale, e se c’è polemica, il direttore sa che colui che giudica il proprio ritratto non equo e inesatto, probabilmente si farà vivo. Ma se la notizia non è locale, le probabilità di una rettifica diminuiscono in proporzione alla lontananza della materia trattata. Le sole persone che possono rettificare quella che ritengono una falsa immagine di sé pubblicata in un’altra città, appartengono a gruppi che dispongono di uffici stampa o di agenti pubblicitari. È interessante notare che il lettore comune di un giornale non può adire le vie legali quando ritiene di essere stato ingannato dalle notizie. È solo la parte offesa che può querelare per calunnia o diffamazione e deve provare di aver subito un danno materiale. La legge riflette la tradizione secondo cui le notizie generali non sono materia di interesse comune1, salvo quando si tratti di argomenti vagamente definiti come immorali o sediziosi. Ma l’insieme delle notizie, anche se non viene controllato come tale dal lettore disinteressato, è composto di singoli elementi su cui i singoli lettori hanno preconcetti molto precisi. Questi elementi formano i dati su cui fondano il loro giudizio, e le notizie che gli individui non leggono con questo criterio personale vengono giudicate con un metro che non è il loro metro di valutazione dell’esattezza. In questi casi la materia che si trovano di fronte è indistinguibile ai loro occhi dal racconto inventato. Il canone della verità non può essere applicato. Se le notizie corrispondono ai loro stereotipi, non provano alcuna perplessità e continuano a leggere purché presentino qualche interesse2. 2. Ci sono giornali, anche nelle grandi città, redatti secondo il concetto che i lettori desiderano leggere di se stessi. Secondo questa teoria, se molte persone vedono il loro nome nel giornale abbastanza spesso, e possono leggere resoconti dei loro matrimoni, funerali, festini, viaggi all’estero, riunioni, premi scolastici, onomastici, compleanni, nozze d’argento, gite e picnic, si potrà contare su una diffusione sicura. La classica formula di un siffatto giornale è contenuta in una lettera scritta il 3 aprile 1860 da Horace Greeley all’«amico Fletcher», che stava per pubblicare un giornale di provincia1: Parta dalla chiara convinzione che l’argomento di più profondo interesse per il comune mortale è se stesso; subito dopo va collocato il suo interesse per i vicini. Nella sua considerazione l’Asia e le isole Tonga stanno a grande distanza da questi interessi […]. Faccia in modo che non si apra una nuova chiesa, o non si associno 240 altri membri a una già esistente, o non si venda una tenuta, o non si edifichi una nuova casa, o non entri in funzione un nuovo mulino, o non si apra un negozio, o non accada qualcosa che interessi una dozzina di famiglie, senza che il fatto sia debitamente, anche se brevemente, riferito nelle colonne del suo giornale. Se un agricoltore abbatte un grosso albero, o produce un’enorme barbabietola, o raccoglie una messe abbondante di grano o granoturco, esponga il fatto nel modo più conciso e sobrio possibile. Ogni giornale, ovunque sia pubblicato, deve in qualche misura adempiere alla funzione, come dice Lee, di «diario stampato del paese natio». E dove, come a New York, i giornali d’informazione generale a grande diffusione non sono in grado di adempierla, esistono piccoli giornali fatti sul modello di Greeley per singoli quartieri cittadini. Nei quartieri di Manhattan e del Bronx, i quotidiani locali sono forse il doppio dei giornali d’informazione generale2. E vengono integrati da tutti i tipi di pubblicazioni particolari a carattere professionale, religioso, etnico. Questi diari si rivolgono a persone che trovano interessanti le proprie vite. Ma ci sono anche moltissime persone che trovano noiose le proprie vite, e vogliono vivere, come Hedda Gabler, una vita più emozionante. Per loro vengono pubblicati giornali interi, e sezioni di altri, dedicati alle vite personali di una serie di persone immaginarie, con i cui vizi sfarzosi il lettore può tranquillamente identificarsi nella sua mente. L’instancabile interesse di Hearst per l’alta società serve a persone che non hanno alcuna speranza di frequentare l’alta società, e tuttavia riescono a trarre qualche godimento dal vago sentimento di far parte della vita di cui leggono. Nelle grandi città il «diario stampato del paese natio» tende a essere il diario stampato dello smart set. E, come abbiamo già notato, ai quotidiani delle grandi città che spetta l’onere di portare le notizie di cose lontane al privato cittadino. Ma non sono le loro notizie politiche e sociali che mantengono in primo luogo la diffusione. L’interesse per queste notizie è intermittente, e pochi editori possono farvi affidamento in modo esclusivo. Perciò il giornale assume tutta una serie di altre funzioni, tutte aventi lo scopo di mantenere unito un corpo di lettori che non sono in grado di essere critici di fronte alle grandi notizie. Inoltre, per quanto riguarda le grosse notizie, la concorrenza in ogni singola comunità non è molto seria. Le agenzie giornalistiche standardizzano i principali avvenimenti; solo ogni tanto si fa il grande colpo; apparentemente non c’è un grosso pubblico di lettori per un servizio di corrispondenza così completo come quello che negli ultimi anni ha reso il «New York Times» indispensabile a persone di tutte le sfumature d’opinione. Per differenziarsi tra loro e assicurarsi un pubblico costante, la maggior parte dei giornali deve uscire 241 dal campo delle notizie generali. Trattano i fatti della società brillante, gli scandali, i delitti, gli sport, i film, le attrici, forniscono consigli ai cuori afflitti, notizie sulle scuole secondarie, pagine per le donne e per i compratori, ricette di cucina, consigli ai giocatori di scacchi e di whist, parlano di giardinaggio, inseriscono fumetti, parteggiano clamorosamente, e non perché gli editori e i direttori si interessino di tutto fuorché delle notizie, ma perché debbono trovare il modo di mantenere la presa su quella presunta schiera di lettori appassionatamente interessati, che certi critici della stampa si immaginano perpetuamente intenti a esigere la verità e nient’altro che la verità. Il direttore di giornale occupa una strana posizione. Le sue iniziative dipendono da una tassazione indiretta imposta dai suoi inserzionisti ai suoi lettori; il favore degli inserzionisti dipende dalla capacità del direttore di trattenere un efficace gruppo di clienti. Questi clienti giudicano secondo le loro esperienze personali e le loro aspettative stereotipate, perché per forza di cose non hanno una conoscenza autonoma della maggior parte delle notizie che leggono. Se il giudizio non è sfavorevole, il direttore si trova per lo meno nel raggio di una circolazione che rende. Ma per assicurarsi questa diffusione, non può affidarsi totalmente alle notizie riguardanti il vasto mondo. Le tratta nel modo più interessante possibile, naturalmente, ma la qualità delle notizie generali, soprattutto di quelle sulla vita pubblica, non è di per sé sufficiente a persuadere grandi masse di lettori a compiere delle scelte tra i quotidiani. Questo rapporto un po’ ambiguo tra giornali e informazione pubblica si riflette negli stipendi dei giornalisti. La cronaca, che in teoria costituisce la base dell’intera istituzione, è il settore giornalistico peggio retribuito, ed è il meno considerato. In genere i capaci vi entrano solo per necessità o per far pratica, e con la precisa intenzione di farsi promuovere il più presto possibile. Infatti la semplice cronaca non è una carriera che offra grandi soddisfazioni. Nel giornalismo le soddisfazioni sono prerogativa dell’attività specializzata, delle corrispondenze firmate che contengono dei giudizi, dei dirigenti e di coloro che abbiano uno stile proprio. Ciò è dovuto, senza dubbio, a quello che gli economisti chiamano la rendita delle capacità. Ma questo principio economico opera nel giornalismo con una violenza così singolare che la compilazione delle notizie non attira minimamente il numero di individui preparati e capaci che la sua importanza pubblica parrebbe esigere. Il fatto che gli individui capaci facciano la «semplice cronaca» con l’intenzione di abbandonarla il più presto possibile è, secondo me, la ragione principale per cui non si sono mai sviluppate in misura sufficiente quelle tradizioni di corpo che danno a 242 una professione prestigio e un senso geloso della propria dignità. Infatti sono queste tradizioni di corpo che danno luogo all’orgoglio professionale, che tendono a elevare i livelli di ammissione, a punire le violazioni del codice e a dare agli individui la forza di difendere la loro posizione nella società. 3. Tuttavia con questo non si arriva ancora alla radice della questione. Infatti, mentre l’economia del giornalismo è tale da deprimere il valore della cronaca, sono convinto che arrestando l’analisi a questo punto si cadrebbe in un falso determinismo. Il potere intrinseco del cronista appare così grande, e il numero di persone molto capaci che possano per la cronaca è così ingente, che dev’esserci una ragione più profonda perché, parlando in senso relativo, sono stati fatti così pochi sforzi per elevare la professione al livello, poniamo, della medicina, dell’ingegneria o dell’avvocatura. Upton Sinclair parla a nome di una vasta corrente di opinione americana1 quando pretende di avere trovato questa ragione più profonda in quello che egli chiama «Il Gettone della Prostituta», o marchetta: Che cos’è la marchetta? Essa sta nella busta collo stipendio, ogni settimana, nella busta di voi che scrivete, stampate e distribuite i nostri giornali e le nostre riviste. La marchetta è il prezzo della vostra vergogna; di voi, che prendete il bellissimo corpo della Verità e lo vendete sul mercato, che date in mano le vergini speranze dell’umanità ai tenitori dello schifoso bordello dei «Pescecani»2. Sembrerebbe, da queste parole, che esista una verità accertata e un complesso di speranze ben fondate che vengono prostituite da una congiuntura più o meno cosciente dei ricchi proprietari di giornali. Se questa teoria è giusta, ne deriva allora una certa conclusione: e cioè che il bellissimo corpo della Verità sarebbe inviolato in una stampa che non fosse in alcun modo legata ai «Pescecani», al Big Business. Infatti, se dovesse accadere che una stampa non controllata dal Big Business, e nemmeno benevola nei suoi confronti, non contenesse il bel corpo della verità, la teoria di Sinclair sarebbe sbagliata. Una siffatta stampa esiste. Strano a dirsi, nel proporre un rimedio Sinclair non consiglia ai suoi lettori di abbonarsi al più vicino giornale di sinistra. Perché no? Se i mali del giornalismo americano risalgono alla marchetta del Big Business, perché il rimedio non consisterebbe nella 243 lettura dei giornali che non accettano neppure lontanamente la marchetta? Perché sovvenzionare un «Notiziario Nazionale», con un ampio comitato direttivo in cui siano rappresentate «tutte le fedi e cause», per stampare un giornale pieno di fatti «senza curarsi di ciò che vien leso, lo Steel Trust, l’International Workers of the World, la Standard Oil Company, o il partito socialista?». Se il male è il Big Business, cioè lo Steel Trust, la Standard Oil o via dicendo, perché non invitare tutti a leggere i giornali socialisti dell’IWW? Sinclair non dice il perché. Ma la ragione è semplice. Non è in grado di convincere gli altri, e nemmeno se stesso, che la stampa anticapitalistica sia il rimedio alla stampa capitalistica. Trascura la stampa anticapitalistica sia nella sua teoria della marchetta che nella sua proposta costruttiva. Ma se si fa la diagnosi del giornalismo americano, non si può trascurarla. Se l’oggetto delle proprie preoccupazioni è «il bellissimo corpo della Verità», non si commette il grossolano errore logico di mettere insieme tutti i casi di malafede e di menzogne che si possono rintracciare in un complesso di giornali, ignorare tutti i casi facilmente reperibili in un altro complesso, e poi additare come causa unica della menzogna la sola caratteristica che si suppone abbia in comune la stampa a cui si è limitata la propria indagine. Se si intende biasimare il «capitalismo» per le colpe della stampa, si ha l’obbligo di provare che queste colpe non esistono se non quando c’è il controllo del capitalismo. Che Sinclair non lo faccia è dimostrato dal fatto che mentre la diagnosi fa risalire tutto al capitalismo, nella cura ignora sia il capitalismo che l’anticapitalismo. Si sarebbe creduto che l’impossibilità di prendere un giornale non capitalista a modello di veridicità e competenza avrebbe indotto Sinclair, e quelli che condividono le sue opinioni, a considerare un po’ più criticamente i loro assunti. Avrebbero dovuto chiedersi, ad esempio, dove sia il bellissimo corpo della Verità, che il Big Business prostituisce, ma che l’avversario del Big Business non sembra raggiungere. Infatti questa domanda conduce, io credo, al nocciolo della questione, al problema di che cosa sia l’informazione. 244 XXIII. La natura delle notizie 1. Tutti i cronisti del mondo, lavorando ventiquattr’ore al giorno, non potrebbero assistere a tutti gli avvenimenti del mondo. Non ci sono moltissimi cronisti. E nessuno di loro ha il potere di essere in più di un luogo contemporaneamente. I cronisti non sono dei chiaroveggenti, non possono vedere il mondo a loro talento guardando in una sfera di cristallo, né sono aiutati dalla telepatia. Eppure la gamma di argomenti che questo numero relativamente piccolo di individui riesce a coprire sarebbe miracoloso se il tutto non fosse un processo standardizzato. I giornali non cercano di tener d’occhio tutta l’umanità1. Hanno osservatori dislocati in determinati posti, come i commissariati di polizia, l’ufficio del coroner, la segreteria della contea, il municipio, la Casa Bianca, il Senato, la Camera dei rappresentanti, e così via. Osservano, o piuttosto, nella maggioranza dei casi, fanno parte di associazioni che assumono persone che tengono d’occhio un numero relativamente piccolo di posti dove si viene a sapere quando la vita di qualcuno […] esce dai consueti binari, o quando accadono fatti degni di esser raccontati. Supponiamo ad esempio che John Smith diventi un agente di borsa. Per dieci anni va avanti in modo normale e nessuno, tranne i suoi clienti e i suoi amici, si interessa di lui. Per i giornali è come se non esistesse. Ma nell’undicesimo anno subisce gravi perdite e alla fine, esaurite tutte le risorse, chiama il suo avvocato e si mette d’accordo per dichiarare fallimento. L’avvocato si precipita alla segreteria della contea, e qui un impiegato riempie le voci del registro richieste. A questo punto entrano in campo i giornali. Mentre l’impiegato scrive il necrologio economico di Smith, un cronista alle sue spalle sbircia il registro e qualche minuto dopo i cronisti apprendono le disavventure di Smith e sono informati sulla sua situazione economica come se avessero tenuto un cronista alla porta del suo ufficio ogni giorno per più di dieci anni2. Quando Given dice che i giornali conoscono «le disavventure di Smith» e «la situazione economica» non intende dire che le conoscono come le conosce Smith, o come le conoscerebbe Arnold Bennett se avesse fatto di Smith il protagonista di un romanzo in tre volumi. I giornali apprendono solo «in pochi minuti» i nudi fatti che vengono registrati 245 nell’ufficio della segreteria della contea. Questo atto pubblico «scopre» la notizia riguardante Smith. Se la notizia avrà o non avrà un seguito è un’altra questione. Sta di fatto che prima che una serie di avvenimenti si trasformi in notizia, di solito deve rendersi osservabile in un atto più o meno manifesto. E di solito in un atto crudamente manifesto. Può darsi che gli amici di Smith sapessero da anni che egli stava correndo dei rischi, può darsi persino che ne sia giunta voce al redattore finanziario, se gli amici di Smith non erano discreti. Ma a prescindere dal fatto che nulla di tutto ciò poteva essere pubblicato perché si sarebbe trattato di diffamazione, in queste voci non c’è nulla di preciso su cui imbastire un pezzo. Deve succedere qualcosa di preciso e inequivocabile. Può trattarsi di una dichiarazione di fallimento, di un incendio, di uno scontro, di un’aggressione, di un tumulto, di un arresto, di una denuncia, della presentazione di un progetto di legge, di un discorso, di una votazione, di una riunione, dell’opinione espressa da un notabile del luogo, dell’articolo di fondo di un giornale, di una vendita, di una tabella salariale, di un ritocco di prezzi, della proposta di costruire un ponte… dev’esserci qualcosa di evidente. Il corso degli avvenimenti deve assumere una certa forma definibile, e finché non arriva alla fase in cui un qualche aspetto sia diventato ormai un fatto compiuto, la notizia non si distingue dall’oceano della verità possibile. 2. Naturalmente le opinioni circa il momento in cui i fatti prendono una forma che può essere riferita differiscono notevolmente. Un buon giornalista scoverà le notizie più spesso di uno scribacchino. Se vede un edificio che ha un’inclinazione pericolosa, non ha bisogno di aspettare che crolli per riconoscere la notizia. Era un grande giornalista quello che indovinò il nome del nuovo viceré dell’India sentendo che Lord Tal-deiTali si stava informando sui climi. Ci sono intuizioni fortunate, ma il numero degli individui in grado di averle è piccolo. Di solito è la forma stereotipata assunta da un fatto in una sede ovvia a far scoprire la notizia comune. La sede più ovvia è quella in cui le faccende dei singoli entrano in contatto con l’autorità pubblica. De minimis non curat lex. È in queste sedi che i matrimoni, le nascite, le morti, i contratti, i fallimenti, gli arrivi, le partenze, i processi, i disordini, le epidemie e le calamità vengono resi noti. Perciò in prima istanza la notizia non è uno specchio delle condizioni sociali, ma la cronaca di un aspetto che si è imposto all’attenzione. La 246 notizia non ci dice in che modo il seme stia germinando nel terreno, ma può dirci quando appare alla superficie il primo germoglio. Può anche farci sapere che cosa una data persona crede che stia accadendo al seme sottoterra. Può anche dirci che il germoglio non è spuntato quando si prevedeva. Più sono i momenti in cui un avvenimento può venire fissato, oggettivato, misurato, nominato, e più sono i momenti in cui può avverarsi una notizia. Sicché se un giorno un’assemblea, avendo esaurito tutti gli altri mezzi per migliorare gli uomini, vietasse di segnare il punteggio delle partite di baseball, forse si potrebbe ancora giocare in qualche specie di partita in cui l’arbitro decidesse secondo il suo concetto di fair play quanto debba durare la partita, quando le squadre debbano avere il loro turno alla mazza, e chi debba essere considerato il vincitore. Se i giornali pubblicassero un resoconto di questa partita, esso consisterebbe nell’elenco delle decisioni dell’arbitro, più l’impressione del cronista sui fischi e gli applausi della folla, più, nella migliore delle ipotesi, una vaga esposizione di come certuni, privi di compiti specifici sul campo, si siano mossi per qualche ora su un terreno non delimitato. Quanto più si cerca di immaginare la logica di una situazione così assurda, tanto più diventa chiaro che al fine di redigere la notizia (per non parlare del fine di giocare la partita) è impossibile fare granché senza un apparato e delle regole per nominare, segnare il punteggio, riferire. E poiché questo meccanismo è tutt’altro che perfetto, la vita dell’arbitro è spesso agitata. Deve giudicare a occhio molte azioni critiche. Si potrebbe eliminare dalla partita anche l’ultimo residuo di controversia, com’è stato eliminato dagli scacchi là dove i giocatori si attengono alle regole, qualora qualcuno giudicasse utile fotografare ogni azione. Sono stati i film che hanno risolto definitivamente certi dubbi – sorti nella mente dei cronisti e dovuti alla lentezza dell’occhio umano – su quale dei pugni di Dempsey abbia messo ko Carpentier. Ogni volta che c’è un buon strumento di registrazione, il moderno servizio d’informazione opera con grande precisione. Ce n’è uno in Borsa, e le notizie sulle fluttuazioni dei prezzi vengono trasmesse per telescrivente con precisione sicura. C’è un apparato per la comunicazione dei risultati elettorali, e quando lo spoglio e il conteggio sono ben fatti, di solito il risultato di un’elezione nazionale è noto la sera dopo l’elezione. Nei paesi civili i decessi, le nascite, i matrimoni, i divorzi vengono registrati e si può conoscerli con precisione se non c’è occultamento o negligenza. L’apparato esiste per alcuni – e solo alcuni – aspetti dell’industria e del governo, e con vari gradi di certezza per i titoli, il denaro e i generi di prima necessità, le operazioni bancarie, la compra247 vendita di immobili, le tabelle salariali. Esiste per le importazioni e le esportazioni, perché queste passano attraverso una dogana, e possono essere direttamente registrate. Esiste in misura molto minore nel commercio interno, e soprattutto in quello al minuto. Si vedrà, credo, che c’è una relazione assai diretta tra la certezza della notizia e il sistema di registrazione. Se si pone mente agli argomenti che formano la principale accusa dei riformatori contro la stampa, si vede che ci sono materie in cui il giornale occupa la posizione dell’arbitro della partita di baseball in cui sia stato abolito il punteggio. Tutte le notizie riguardanti gli stati d’animo hanno questo carattere: così pure tutte le descrizioni del carattere, della sincerità, delle aspirazioni, dei moventi, delle intenzioni, dei sentimenti della massa, dei sentimenti nazionali, dell’opinione pubblica, della politica dei governi stranieri. Così sono quasi tutte le notizie riguardanti avvenimenti che debbono ancora accadere. Così pure le notizie di cose che hanno a che vedere con il profitto personale, il reddito personale, i salari, le condizioni di lavoro, l’efficienza della manodopera, le possibilità d’istruzione, la disoccupazione1, la monotonia, la sanità, le discriminazioni, le ingiustizie, la concorrenza sleale, gli sprechi, i «popoli arretrati», il conservatorismo, l’imperialismo, il sinistrismo, la libertà, l’onore, la rettitudine. Tutte queste cose comportano dati che nella migliore delle ipotesi vengono registrati irregolarmente. I dati possono essere nascosti a causa della censura o di una tradizione di riserbo, possono non esistere in quanto nessuno considera importante registrarli, perché viene ritenuto burocratico, o perché nessuno ha ancora inventato un sistema obiettivo di valutazione. Perciò le notizie riguardanti questi argomenti sono destinate a essere discusse, quando non vengono del tutto ignorate. I fatti che non vengono registrati non vengono considerati notizie, oppure vengono riferiti come opinioni personali e tradizionali. Non prendono corpo finché qualcuno non protesti, o investighi, oppure ne faccia pubblicamente una questione nel senso etimologico della parola. È questa la ragione fondamentale dell’esistenza dell’agente pubblicitario. L’enorme discrezionalità con cui vengono scelti dai cronisti i fatti e le impressioni ha finito per persuadere ogni gruppo organizzato di persone che, se si vuole pubblicità, o si vuole evitarla, non si può lasciare al cronista l’esercizio della discrezionalità. È più sicuro ingaggiare un agente pubblicitario che si collochi tra il gruppo e i giornali. Una volta ingaggiatolo, la tentazione di sfruttare la sua posizione strategica è grandissima. Poco prima della guerra – dice Frank Cobb – i giornali di New York fecero un censimento degli agenti pubblicitari che avevano un regolare incarico e scoprirono 248 che ce n’erano circa milleduecento. Quanti ce ne siano oggi (1919) non ho la pretesa di saperlo, ma quello che so per certo è che molti dei canali diretti alle notizie sono stati chiusi, e l’informazione per il pubblico viene filtrata attraverso agenti pubblicitari. Ne hanno le grandi aziende, le banche, le ferrovie, ne hanno tutte le organizzazioni economiche e sociali e politiche, e sono gli strumenti attraverso cui giungono le notizie. Anche gli uomini di governo ne hanno2. Se la cronaca fosse il semplice recupero di fatti ovvi, l’agente pubblicitario sarebbe poco più di un impiegato. Ma dato che i fatti, in rapporto alla maggior parte dei grandi temi d’informazione, non sono semplici, e non sono affatto ovvi, ma soggetti alla scelta e all’opinione, è naturale che tutti vorrebbero fare una propria scelta dei fatti da pubblicare nei giornali. L’agente pubblicitario fa questo. E nel farlo certamente risparmia molti fastidi al cronista, presentandogli un quadro chiaro di una situazione che altrimenti gli apparirebbe senza capo né coda. Ma ne deriva che il quadro che l’agente pubblicitario prepara per il cronista è quello che vuol far vedere al pubblico. È censore e propagandista insieme, responsabile solo verso i suoi datori di lavoro, e verso la verità intera responsabile solo nella misura in cui è in armonia con la concezione che il datore di lavoro ha del proprio interesse. Lo sviluppo dell’agente di pubblicità è un chiaro segno che i fatti della vita moderna non assumono spontaneamente una forma che consenta di conoscerli. Qualcuno gli deve dare una forma, e siccome nella routine quotidiana i cronisti non possono dare una forma ai fatti, e poiché è ben scarsa l’organizzazione disinteressata dell’informazione, l’esigenza di una qualche elaborazione viene soddisfatta dalle parti interessate. 3. Il buon agente pubblicitario comprende che le virtù della sua causa non fanno notizia, a meno che non siano virtù così strane da uscir fuori dalla routine della vita. Questo non perché i giornali non amino la virtù, ma perché non vale la pena di dire che non è successo nulla quando nessuno si aspettava che succedesse qualcosa. Perciò se l’agente pubblicitario vuole pubblicità gratuita, deve, a rigor di termini, dare inizio a qualcosa. Mette in moto una trovata: blocca il traffico, prende in giro la polizia, riesce in qualche modo a legare il suo cliente o la sua causa a un fatto che faccia già notizia. Le suffragette lo sapevano, e mentre non gli faceva particolare piacere saperlo, agivano in conseguenza, e tenevano la loro causa in cronaca anche dopo che gli argomenti pro e contro avevano perso ogni freschezza e la gente stava per abituarsi a vedere il movimento delle 249 suffragette come una delle istituzioni della vita americana1. Fortunatamente le suffragette, a differenza delle femministe, avevano un obiettivo perfettamente concreto, e semplicissimo. Non è semplice quello che il voto simboleggia, come sapevano i più capaci dei sostenitori e degli oppositori. Ma il diritto al voto è un diritto semplice e ben noto. Nelle vertenze sindacali, che sono probabilmente il capo principale d’accusa contro i giornali, il diritto di sciopero, come il diritto al voto, è abbastanza semplice. Ma le cause e gli obiettivi di un particolare sciopero sono come le cause e gli obiettivi del movimento femminista: estremamente sottili. Supponiamo che le condizioni di vita che portano a uno sciopero siano cattive. Qual è la misura del male? Una certa concezione di un tenore di vita adeguato, dell’igiene, della sicurezza economica e della dignità umana. Può darsi che l’industria sia molto al di sotto del livel lo di vita teorico della collettività, e che gli operai siano troppo miseri per protestare. Può darsi che le condizioni siano superiori a questo livello e che gli operai protestino violentemente. Nella migliore delle ipotesi il tenore di vita è una vaga misura. Tuttavia immagineremo che le condizioni di vita siano inferiori al livello medio, così come questo viene inteso dal direttore del giornale. Talvolta, senza attendere che i lavoratori minaccino, ma sollecitato, poniamo, da un assistente sociale, manderà dei cronisti a investigare, e richiamerà l’attenzione del pubblico sulle cattive condizioni di vita. Ma per forza di cose non può farlo spesso. Infatti queste investigazioni richiedono tempo, denaro, particolari capacità e parecchio spazio. Per rendere plausibile un resoconto che sostenga che le condizioni di vita sono cattive, si deve poter disporre di molte colonne di stampa. Per poter dire la verità sull’operaio delle acciaierie della zona di Pittsburgh, sono stati necessari un’équipe di investigatori, una gran quantità di tempo e vari grossi volumi stampati. È impossibile supporre che un giornale quotidiano possa normalmente considerare come uno dei suoi compiti lo svolgimento dei «Pittsburgh Surveys», o magari degli «Interchurch Steel Reports». Le notizie la cui raccolta richiede una fatica così grande sono al di là delle possibilità di un quotidiano2. Le cattive condizioni di vita come tali non sono notizie, perché il giornalismo, fuorché in casi eccezionali, non è un’esposizione di prima mano del materiale grezzo. È un’esposizione di questo materiale già resa stilizzata. Perciò le cattive condizioni di vita potrebbero diventare notizia se il Board of Health denunciasse un tasso di mortalità insolitamente alto in una zona industriale. Mancando un intervento di questo tipo, i fatti non diventano notizia finché i lavoratori non si organizzano per presentare una 250 rivendicazione ai datori di lavoro. Anche in questo caso, se si sa che la vertenza sarà composta facilmente, il valore della notizia è basso, a prescindere dal fatto se l’accordo risolva o meno il problema delle condizioni di vita. Ma se i rapporti di lavoro precipitano nello sciopero o nella serrata, il valore della notizia aumenta. Se la sospensione del lavoro riguarda un servizio che tocca direttamente i lettori dei giornali, o se comporta un turbamento dell’ordine, il valore della notizia è ancora maggiore. Il problema sottostante appare nella notizia attraverso certi sintomi facilmente riconoscibili, una rivendicazione, uno sciopero, dei disordini. Dal punto di vista dell’operaio, o colui che è alla ricerca disinteressata della giustizia, la rivendicazione, lo sciopero e i disordini non sono altro che episodi di un processo che ai loro occhi è estremamente complicato. Ma poiché tutte le realtà immediate esulano dalla diretta esperienza sia del cronista che del particolare pubblico che appoggia la maggior parte dei giornali, di solito debbono attendere un segnale sotto forma di un atto manifesto. Quando il segnale arriva – attraverso, poniamo, uno sciopero degli operai o una chiamata della polizia – mette in moto gli stereotipi che la gente ha nella mente a proposito di scioperi e disordini. La lotta, che loro non vedono, perde il proprio carattere. Viene registrata astrattamente, e questa astrazione viene poi animata dall’esperienza personale del lettore e del cronista. Ovviamente questa è un’esperienza diversissima da quella degli scioperanti. Questi sentono, diciamo, il cattivo umore del caporeparto, la sfibrante monotonia della macchina, il tanfo deprimente, la fatica delle mogli, il rachitismo dei figli, lo squallore dei loro alloggi. Gli slogan dello sciopero si caricano di questi sentimenti. Ma il cronista e il lettore vedono dapprima solo uno sciopero e alcune parole d’ordine. Li caricano dei propri sentimenti. Magari pensano che il loro lavoro è minacciato perché gli scioperanti bloccano una produzione che serve al loro lavoro, che ci saranno penuria e aumenti di prezzo, che è tutto maledettamente scomodo. Anche queste sono realtà. E quando colorano l’astratta notizia che è stato indetto uno sciopero, è nella natura delle cose che gli operai si trovino in situazione di svantaggio. È nella natura, per meglio dire, dell’attuale sistema dei rapporti di lavoro che le notizie che traggono origine da rivendicazioni o da speranze dei lavoratori debbano essere quasi invariabilmente rivelate da un attacco aperto alla produzione. Ecco dunque la situazione di fatto in tutta la sua dilagante complessità, l’atto manifesto che la segnala, il comunicato stereotipato che rende noto il segnale, e il senso che il lettore gli attribuisce, dopo averlo tratto dall’esperienza che direttamente lo tocca. Beninteso, l’esperienza che il 251 lettore ha dello sciopero può essere in realtà molto importante, ma dal punto di vista del problema centrale, che ha provocato lo sciopero, resta eccentrica. Tuttavia questo significato eccentrico è automaticamente il più interessante3. Penetrare con l’immaginazione nel nocciolo della questione è per il lettore come uscire da se stesso ed entrare in vite molto diverse. Ne segue che nel fare la cronaca degli scioperi, il modo più facile è quello di lasciare che le notizie si manifestino attraverso l’atto palese, e di descrivere il fatto come il racconto di un’intromissione nella vita del lettore. È in questo modo che si desta la sua attenzione e si richiama più facilmente il suo interesse. Buona parte di ciò – la parte cruciale, secondo me – che agli occhi del lavoratore e del riformatore appare come un deliberato fraintendimento da parte dei giornali, è il risultato diretto della difficoltà pratica di scoprire la notizia e della difficoltà emotiva di rendere interessanti dei fatti lontani, a meno che non riusciamo, come dice Emerson, a «percepirli solo come una nuova versione della nostra consueta esperienza» e a «metterci a tradurli immediatamente nella nostra realtà parallela»4. Se si esamina il modo in cui molti scioperi vengono riferiti dalla stampa, si scoprirà molto spesso che i problemi che li hanno provocati figurino di rado nei titoli, a malapena nei paragrafi d’apertura, e talvolta non vengono menzionati mai. Una vertenza sindacale scoppiata in un’altra città dev’essere molto importante perché il resoconto contenga informazioni precise sul suo soggetto. La routine si svolge così, e con qualche modifica si svolge così anche per quanto riguarda le notizie sui problemi politici e sulle questioni internazionali. La notizia è un’esposizione delle fasi manifeste che interessano, e la pressione affinché il giornale si attenga a questa routine viene da molte parti. Viene dal risparmio rappresentato dal fatto di notare solo la fase stereotipata di una situazione. Viene dalla difficoltà di trovare giornalisti che riescano a vedere quello che non hanno imparato a vedere. Viene dalla quasi inevitabile difficoltà di trovare lo spazio minimo in cui il giornalista migliore possa rendere plausibile un’opinione non convenzionale. Viene dalla necessità economica di interessare rapidamente il lettore, e dal rischio economico che si corre quando non si riesce affatto ad interessarlo, o quando lo si offende con notizie inattese insufficientemente o goffamente esposte. Tutte queste difficoltà insieme rendono incerto il direttore quando sono sul tappeto questioni pericolose, e lo portano naturalmente a preferire il fatto incontrovertibile e un atteggiamento che aderisca di più all’interesse del lettore. Il fatto incontrovertibile e il sicuro interesse sono lo sciopero stesso e il disagio del lettore. 252 Nell’attuale organizzazione dell’industria tutte le verità più sottili e più profonde sono verità molto poco sicure. Esse comportano giudizi sul tenore di vita, sulla produttività, sui diritti umani che sono infinitamente opinabili in mancanza di una precisa documentazione e di un’analisi quantitativa. E finché queste ultime non esistono nell’industria, la generalità delle notizie che vi si riferiscono tenderà, come diceva Emerson citando Isocrate, a «fare delle collinette montagne e delle montagne collinette»5. Là dove nell’industria non esiste una procedura stabilita dalla legge, né si ha una valutazione delle testimonianze e delle rivendicazioni da parte di un esperto, il fatto che riesce sensazionale al lettore è il fatto che cercheranno quasi tutti i giornalisti. Data la situazione generale dei rapporti di lavoro, anche quando ci sono trattative o c’è un arbitrato, ma non si ha un vaglio dei fatti disinteressato ai fini della decisione, quello che al pubblico del giornale apparirà come il problema sul tappeto tenderà a essere diverso da quello che è un problema per l’industria. E così pretendere di ottenere un giudizio sulla vertenza attraverso i giornali significa accollare a questi e ai lettori un onere che non possono e non debbono portare. Finché non ci saranno una legge positiva e un ordinamento, il grosso delle notizie, a meno di non venire consapevolmente e coraggiosamente corrette, opererà contro quelli che non hanno un metodo legale e ordinato di affermarsi. I comunicati dal luogo dell’azione faranno notare gli inconvenienti provocati dalla rivendicazione piuttosto che le ragioni che li hanno provocati. Le ragioni sono intangibili. 4. Il direttore si serve di questi comunicati. Sta seduto nel suo ufficio, li legge, di rado vede lui stesso una parte degli avvenimenti. Come abbiamo visto, egli deve attirare ogni giorno almeno un settore dei suoi lettori, perché questi ultimi lo lasceranno senza pietà se un giornale concorrente riesce a colpire la loro fantasia. Lavora sotto un’enorme pressione, perché la concorrenza dei giornali è spesso una questione di minuti. Ciascun comunicato richiede un rapido ma complicato giudizio. Deve esser capito, messo in rapporto ad altri comunicati, anch’essi da capire, e messo in risalto o in ombra a seconda del suo probabile interesse per il pubblico, come lo intende il direttore. Senza una standardizzazione, senza degli stereotipi, senza dei giudizi precostituiti, senza una noncuranza spietata per le sottigliezze, il direttore morirebbe ben presto di agitazione. La pagina definitiva deve avere una dimensione determinata e dev’esser pronta a un 253 momento determinato; può esserci solo un certo numero di sottotitoli nei pezzi, in ciascun sottotitolo dev’esserci un numero determinato di lettere. Ci sono sempre l’urgenza precaria del pubblico dei compratori, la legge sulla diffamazione e la possibilità di infiniti guai. La cosa non riuscirebbe affatto senza una sistemazione, perché nel prodotto standardizzato c’è economia di tempo e di fatica, nonché una garanzia parziale contro l’insuccesso. È qui che i giornali si influenzano a vicenda più profondamente. Così, quando scoppiò la guerra, i giornali americani si trovarono davanti a un argomento per il quale non avevano un’esperienza precedente. Certi quotidiani, abbastanza ricchi per poter pagare le tariffe dei cablogrammi, cominciarono per primi a procurarsi le notizie e il modo in cui le presentavano divenne un modello per l’intera stampa. Ma da dove veniva quel modello? Veniva dalla stampa inglese, non perché Northcliffe possedeva dei giornali americani, ma perché in un primo momento, fu più facile acquistare corrispondenze inglesi, e perché, in seguito, fu più facile per i giornalisti americani leggere i giornali inglesi che gli altri. Londra era il centro dei cablogrammi e delle notizie, e fu lì che si sviluppò una certa tecnica per informare sulla guerra. Qualcosa di simile avvenne per i reportage sulla rivoluzione russa. In questo caso l’accesso alla Russia era impedito dalla censura militare, tanto russa che alleata, ed era impedito ancor più efficacemente dalle difficoltà della lingua russa. Ma soprattutto era precluso a un’informazione efficace dal fatto che la cosa più difficile da esporre è il caos, anche quando è un caos in evoluzione. Di conseguenza la formulazione delle notizie dalla Russia a Helsinki, Stoccolma, Ginevra, Parigi e Londra stava nelle mani di censori e propagandisti. Per molto tempo non subirono limitazioni di sorta. Finché non si resero ridicoli, riuscirono a ricavare, ammettiamolo, da alcuni autentici aspetti dell’immenso maelström russo una serie di stereotipi così carichi di odio e di paura da soffocare per molto tempo anche il miglior istinto del giornalista, il desiderio di andare a vedere per riferire1. 5. Nel momento in cui raggiunge il lettore, il giornale è il risultato di un’intera serie di scelte circa gli argomenti da trattare, la posizione in cui devono essere collocati, la quantità di spazio che ciascuno deve occupare, il tono che si deve dare a ciascuno. Qui non esistono criteri oggettivi. Ci sono convenzioni. Si prendano due giornali pubblicati nella stessa città la stessa mattina. Sul primo campeggia il titolo: «L’Inghilterra promette aiuto 254 a Berlino contro l’aggressione francese; la Francia appoggia apertamente i polacchi». Il titolo del secondo è: «L’altro amore della signora Stillman». Preferire uno o l’altro è questione di gusto, ma non del tutto una questione di gusto del direttore. Si tratta di un suo giudizio su quello che assorbirà la mezz’ora d’attenzione che una certa categoria di lettori darà al suo giornale. Ora il problema di assicurare l’attenzione non equivale affatto a esporre le notizie nella prospettiva prescritta dall’insegnamento religioso, o da qualche forma di cultura etica. È il problema di provocare emozioni nel lettore, di indurlo a provare un senso di identificazione personale con le vicende di cui sta leggendo. La notizia che non dà questa possibilità di inserirsi nella lotta che presenta non può attirare un vasto pubblico. Il pubblico deve partecipare alla notizia, pressappoco come partecipa al teatro, mediante l’identificazione personale. Proprio come tutti trattengono il respiro quando l’eroina è in pericolo, e come aiutano Babe Ruth a ruotare la sua mazza, così in forme più sottili il lettore entra nella notizia. Per potervi entrare deve trovare un appiglio familiare nella vicenda, e questo gli vien fornito con l’uso di stereotipi. Questi ultimi gli dicono che se un’associazione di idraulici viene definita un «monopolio», ha ragione di provare ostilità; se viene definita un «gruppo di autorevoli esponenti economici», l’invito è a una reazione favorevole. Il potere di creare l’opinione risiede nella combinazione di questi elementi. Gli editoriali fanno da rincalzo. Talvolta in una situazione che nelle pagine dedicate alle notizie appare troppo confusa per consentire l’identificazione, essi danno al lettore un indizio che lo aiuti a impegnarsi. E un indizio deve per forza averlo se, come accade alla maggior parte di noi, egli deve afferrare la notizia in fretta. Egli esige un suggerimento di qualche tipo, che gli dica, per così dire, in che punto un uomo come lui, che ha una determinata opinione di se stesso, deve integrare i suoi sentimenti con le notizie di legge. È stato detto – scrive Walter Bagehot1 – che se si riesce a far pensare un inglese di ceto medio alla questione se esistono «lumache su Sirio», egli avrà subito in proposito un’opinione. Sarà difficile indurlo a riflettere, ma se riflette non può restare inerte, deciderà qualcosa. Ed è così, naturalmente, per tutti i problemi comuni. Un droghiere ha tutta una filosofia della politica estera, una giovane ha una teoria completa dei sacramenti, e nessuno dei due ha alcun dubbio in proposito. Tuttavia questo stesso droghiere avrà molti dubbi sulle sue mercanzie, e questa signorina, meravigliosamente sicura sui sacramenti, può aver dubbi di ogni sorta se le convenga sposare il droghiere, e, in caso negativo, se sia corretto accettarne le attenzioni. La capacità di restare inerti implica o una 255 mancanza di interesse per il risultato, o un forte senso delle alternative concorrenti. Nel caso della politica estera o dei sacramenti, l’interesse per i risultati è intenso, mentre i mezzi per controllare l’opinione sono scarsi. Questo è il dilemma del lettore di notizie generali. Se la deve leggere, bisogna che provi interesse, ossia bisogna che entri nella situazione e si preoccupi del risultato. Ma se lo fa non può restare inerte, e finché non esistono mezzi indipendenti per controllare le indicazioni dategli dal suo giornale, il fatto che sia interessato può rendergli difficile l’impresa di raggiungere quell’equilibrio di opinione che forse si avvicina di più alla verità. Quanto più diventa emotivamente coinvolto, tanto più tenderà a infastidirsi non solo di un’opinione diversa, ma di una notiziola importuna. Ecco perché molti giornali scoprono che, avendo onestamente suscitato la partigianeria dei loro lettori, non possono facilmente, ammesso che il direttore ritenga che i fatti lo impongono, mutare posizione. Se un cambiamento è necessario, la transizione deve avvenire con la massima abilità e delicatezza. Di solito un giornale non tenterà un’impresa così pericolosa. È più facile e più sicuro far diminuire e poi scomparire le notizie su quell’argomento, spegnendo il fuoco per mancanza di alimento. 256 XXIV. Le notizie, la verità e una conclusione A mano a mano che progrediamo nello studio della stampa, acquisterà una grande importanza l’ipotesi alla quale ci affidiamo. Se sosteniamo con Sinclair, e con la maggior parte dei suoi avversari, che notizia e verità siano due parole per indicare la stessa cosa, credo che non approderemo a nulla. Dimostreremo che su questo punto il giornale ha mentito. Dimostreremo che su quell’altro punto è il resoconto di Sinclair che non è veritiero. Dimostreremo che Sinclair ha mentito quando ha detto che qualcuno ha mentito, e che qualcuno ha mentito quando ha detto che Sinclair ha mentito. Daremo sfogo ai nostri sentimenti, ma sarà uno sfogo a vuoto. L’ipotesi che a me sembra più feconda è che la notizia e la verità non siano la stessa cosa, e debbano essere chiaramente distinte1. La funzione della notizia è di segnalare un fatto, la funzione della verità è di portare alla luce i fatti nascosti, di metterli in relazione tra di loro e di dare un quadro della realtà che consenta agli uomini di agire. Solo là dove le condizioni sociali assumono una forma riconoscibile e misurabile, il corpo della verità e il corpo della notizia coincidono. Questa è una parte relativamente piccola dell’intero campo dell’interesse umano. In questo settore, e solo in questo settore, i criteri per giudicare le notizie sono sufficientemente esatti per rendere le accuse di distorsione o soppressione qualcosa di più di un giudizio partigiano. Non c’è attenuante né scusa alcuna per dichiarare sei volte che Lenin è morto, quando la sola informazione che il giornale possieda è una segnalazione della sua morte proveniente da una fonte che si è dimostrata ripetutamente inattendibile. La notizia, in questo caso, non è «Morto Lenin», ma «Helsinki afferma che Lenin è morto» E si può pretendere che un giornale si assuma la responsabilità di non fare Lenin più morto di quanto non consenta la fonte della notizia; se c’è un momento nel quale i direttori sono da tenersi più responsabili, questo è il momento in cui giudicano dell’attendibilità della fonte. Ma quando si tratta, ad esempio, di pronunciarsi su articoli che trattano di quello che vorrebbe il popolo russo, un tale metro non esiste. L’assenza di precisi criteri di verifica spiega, mi pare, meglio di qualunque altra cosa il carattere della professione. C’è un piccolissimo 257 corpo di conoscenze esatte, che non richiede alcuna capacità o preparazione eccezionali. Il resto rientra nella discrezionalità del giornalista. Appena egli esce dalla zona, in cui è chiaramente registrato all’ufficio della segreteria di contea che John Smith è andato in bancarotta, scompaiono tutte le regole fisse. Il racconto del motivo per cui John Smith è fallito, delle sue debolezze umane, l’analisi della situazione economica che lo ha fatto naufragare, tutto ciò può essere riferito in cento modi diversi. Non esiste una disciplina di psicologia applicata, come esiste una disciplina nei campi della medicina, dell’ingegneria o della legge, che abbia l’autorità di orientare la mente del giornalista quando questi passa dalla notizia al vago regno della verità. Non esistono canoni per orientare la sua mente, né canoni che indirizzino il giudizio del lettore o dell’editore. La sua versione della verità è solo la sua versione. Come può dimostrare la verità che ha visto? Non può dimostrarla, non più di quanto Sinclair Lewis possa dimostrare di aver detto tutta la verità su Main Street. E quanto più capisce le proprie debolezze, tanto più è pronto ad ammettere che dove non esiste un criterio obiettivo di verifica la sua opinione è fondamentalmente fatta dai suoi stereotipi, secondo il suo particolare codice e secondo l’urgenza del suo interesse. Inoltre sa di vedere il mondo attraverso delle lenti soggettive. Non può negare d’essere anche lui, come osservava Shelley, una cupola di vetro multicolore che macchia il bianco fulgore dell’eternità. E la sua sicurezza viene temperata da questa consapevolezza. Potrebbe avere tutto il coraggio morale del mondo, e talvolta lo ha, ma gli manca la sottostante certezza di una tecnica come quella che ha finalmente liberato le scienze fisiche dal controllo teologico. È stato il graduale sviluppo di un metodo irrefragabile a dare al fisico la libertà intellettuale di fronte a tutte le potenze del mondo. Le sue prove erano così chiare, l’evidenza dei suoi esperimenti così nettamente superiore alla tradizione, che alla fine è riuscito a spezzare ogni controllo. Ma il giornalista non ha un sostegno come questo nella propria coscienza o nella realtà. Il controllo esercitato su di lui dalle opinioni dei suoi datori di lavoro e dei suoi lettori, non è il controllo della verità da parte del pregiudizio, ma di un’opinione da parte di un’altra opinione che non si può dimostrare meno vera. Tra l’affermazione del giudice Gary, che i sindacati distruggeranno le istituzioni americane, e l’affermazione di Gomper, che essi sono strumenti dei diritti dell’uomo, la scelta, in larga misura, dev’essere governata dalla volontà di credere. Il compito di sgonfiare queste controversie, e di ridurle al punto in cui possono esser riferite come notizie, non è un compito cui possa adempiere 258 un cronista. Ai giornalisti è possibile e necessario far capire alla gente il carattere incerto della verità su cui si fondano le sue opinioni, e con la critica e l’attività stimolare la scienza sociale a elaborare formulazioni più utili della realtà sociale e stimolare gli uomini di governo a creare istituzioni più visibili. In altri termini, la stampa può battersi per l’estensione della verità riferibile. Ma con l’attuale organizzazione della verità sociale, la stampa non è in grado di fornire con continuità la dose di conoscenza che la teoria democratica dell’opinione pubblica esige. Questo non dipende dall’Assegno d’Ottone, come la qualità delle notizie pubblicate dai giornali di sinistra dimostra, ma dal fatto che la stampa ha a che fare con una società in cui le forze dominanti sono assai imperfettamente documentate. La teoria secondo cui la stampa stessa può documentare queste forze è falsa. Normalmente può documentare solo quello che è stato documentato per lei dalle istituzioni nel corso del loro funzionamento. Tutto il resto è polemica e opinione, e oscilla con le vicissitudini, l’autocoscienza e il coraggio dell’animo umano. Anche se la stampa non è così universalmente malvagia, né così oscuramente cospiratoria come Sinclair vorrebbe farci credere, è tuttavia molto più fragile di quello che la teoria democratica finora abbia ammesso. È troppo fragile per portare il peso intero della sovranità popolare, per fornire spontaneamente la verità che i democratici speravano fosse innata. E quando pretendiamo che fornisca questo corpo di verità, adoperiamo un criterio di giudizio fuorviante. Fraintendiamo la natura limitata della notizia, la complessità illimitabile della società; sopravvalutiamo la nostra esistenza, il nostro spirito pubblico e la nostra competenza generale. Immaginiamo in noi un appetito di verità non interessanti che nessuna onesta analisi dei nostri gusti rivela. Se i giornali, quindi, debbono essere investiti del compito di tradurre l’intera vita pubblica degli uomini, affinché ogni adulto possa farsi un’opinione su ogni questione controversa, essi falliscono, sono destinati a fallire, in un futuro prevedibile continueranno a fallire. Non è possibile sostenere che un mondo, che si regge sulla divisione del lavoro e sulla distribuzione dell’autorità, possa esser governato da opinioni universalmente condivise da tutta la popolazione. Inconsciamente questa teoria postula il singolo lettore come teoricamente onnicompetente. E accolla alla stampa l’onere di fare tutto quello che il governo rappresentativo, l’organizzazione industriale e la diplomazia non sono riusciti a fare. Si pretende che la stampa, nei trenta minuti in cui agisce ogni ventiquattr’ore sulla gente, crei una forza mistica chiamata Opinione Pubblica, che compensi le manchevolezze delle istituzioni pubbliche. 259 Spesso la stampa ha erroneamente dato a credere di poter fare proprio questo. Pagando un altro prezzo morale, essa ha incoraggiato una democrazia ancora legata alle sue premesse originarie ad attendersi che i giornali forniscano spontaneamente per tutti gli organi di governo, per tutti i problemi sociali, gli strumenti di informazione che essi stessi normalmente non forniscono. Le istituzioni, non essendo riuscite a darsi gli strumenti di conoscenza, sono diventate un fascio di «problemi», che la popolazione nel suo insieme dovrebbe risolvere leggendo la stampa nel suo insieme. La stampa, in altre parole, ha finito per esser considerata un organo di democrazia diretta, investito ogni giorno e su scala assai più ampia, della funzione spesso attribuita all’iniziativa popolare, al referendum e alla revoca. Il tribunale dell’Opinione Pubblica, aperto giorno e notte, deve dettar legge su tutto, continuamente. Ma in realtà non funziona. E se si considera la natura delle notizie, è persino inconcepibile. Infatti la notizia, come abbiamo visto, è precisa in proporzione alla precisione con cui il fatto viene registrato. Se non è possibile nominare, misurare, dar forma, rendere specifico il fatto, o esso non assume carattere di notizia, o è soggetto agli infortuni e ai pregiudizi dell’osservazione. Perciò in generale la qualità dell’informazione sulla società moderna è un indice della sua organizzazione sociale. Quanto migliori sono le istituzioni, tanto più facilmente tutti gli interessi relativi sono formalmente rappresentati, tante più questioni vengono dipanate, tanto più obiettivi sono i criteri adottati, tanto più perfettamente si può presentare come notizia una vicenda. Nella sua espressione migliore la stampa è serva e custode delle istituzioni; nella sua espressione peggiore è un mezzo mediante il quale alcuni sfruttano la disorganizzazione sociale ai propri fini particolari. Nella misura in cui le istituzioni non riescono a funzionare, il giornalista privo di scrupoli può pescare in acque torbide, e quello coscienzioso corre il rischio delle incertezze. La stampa non è un sostituto delle istituzioni. È come il fascio di luce di un lato che si sposta incessantemente, portando un episodio dopo l’altro dal buio alla luce. Gli uomini non possono compiere le loro opere con questa sola luce. Non possono governare la società a forza di episodi, incidenti ed esplosioni. È solo quando operano illuminati da una ferma luce propria che la stampa, quando si rivolge verso di loro, rivela una situazione abbastanza chiara per consentire una decisione popolare. Il male sta a un livello più profondo della stampa, e così anche il suo rimedio. Questo sta in un’organizzazione sociale basata su un sistema di analisi e documentazione, e in tutti i corollari di questo principio; nell’abbandono 260 della teoria del cittadino onnicompetente, nel decentramento delle decisioni, nel coordinamento delle decisioni sulla base di documentazioni e analisi confrontabili. Se nei centri direttivi c’è un controllo continuo, che renda il lavoro intelligibile a quelli che lo fanno, e a quelli che vi sovrintendono, le questioni che sorgono non sono semplicemente scontri di ciechi. E inoltre le notizie si manifestano alla stampa grazie a un sistema di informazione che serve anche da freno alla stampa. Questa è la maniera estrema. Infatti i guai della stampa, come i guai del governo rappresentativo, territoriale o funzionale che esso sia, come i guai dell’industria, capitalista, cooperativa o comunista che sia, risalgono a una fonte comune: al fatto che gli individui che si autogovernano non sono riusciti a trascendere la propria casuale esperienza e i propri pregiudizi, inventando, creando e organizzando degli strumenti di conoscenza. È proprio perché sono costretti ad agire senza un’immagine attendibile del mondo che i governi, le scuole, i giornali e le chiese fanno così pochi progressi nel rimediare alle più ovvie manchevolezze della democrazia, ai pregiudizi violenti, all’apatia, alla preferenza per le quisquilie curiose anziché per le cose noiose ma importanti, e alla fame di baracconi da fiera e di vitelli a tre zampe. Questo è il difetto principale del governo popolare, un difetto implicito nelle sue tradizioni; e tutti gli altri suoi difetti, mi sembra, possono essere ricollegati a questo. Il miglior studio è quello del professor Z. Chafee, Freedom of Speech, Harcourt, Brace and Howe, New York 1920. 2 J. Milton, Aeropagitica, citato all’inizio del libro di Chafee. Per un commento su questa classica dottrina della libertà, come l’hanno formulata Milton, John Stuart Mill e Bertrand Russell, si veda il mio Liberty and the News, Harcourt, Brace and Howe, New York 1920, cap. II. 3 Cfr., ad esempio, le pubblicazioni del Lusk Committee di New York, e le dichiarazioni e le profezie pubbliche di Mitchell Palmer, che fu Procuratore Generale degli Stati Uniti durante la malattia del presidente Wilson. 1 «Un giornale affermato ha il diritto di fissare le sue tariffe per la pubblicità in modo che i suoi introiti netti derivanti dalla diffusione possano essere iscritti tra i crediti nel bilancio dei profitti e delle perdite. Per arrivare agli introiti netti, detrarrei dal totale lordo il costo della promozione, della distribuzione, nonché le altre spese relative alla diffusione». Da un discorso tenuto il 26 luglio 1916 da Adolf Ochs, editore del «New York Times», al congresso di Filadelfia dell’Associated Advertising Clubs of the World. Citato da Elmer Davis in History of the New York Times, 1851-1921, The New York Times, New York 1921, pp. 397-8. 2 J. Given, Making a Newspaper, H. Holt and Co., New York 1907, p. 13; questo è il miglior libro tecnico che io conosca, e tutti quelli che si accingono a discutere intorno alla stampa dovrebbero leggerlo. G. B. Diblee, che ha scritto il volume della Home 1 261 University Library su The Newspaper (H. Holt and Co., New York 1913) dice che «c’è un solo libro eccellente sulla stampa, per chi ci lavora dentro, ed è quello di Given» (p. 253). 1 A volte così speculativa che per assicurarsi il credito l’editore deve mettersi completamente nelle mani dei suoi creditori. È molto difficile procurarsi notizie su questo aspetto, e per questo motivo la sua importanza generale viene spesso assai esagerata. 2 «È un assioma dell’editoria di giornali: “Più lettori, maggiore indipendenza dagli inserzionisti; meno lettori, maggiore dipendenza dall’inserzionista”. Può sembrare una contraddizione (eppure è la verità) affermare: maggiore il numero degli inserzionisti, minore l’influenza che individualmente possono esercitare sull’editore». Adolf S. Ochs, citato in Davis, History of the New York Times cit. 1 Il lettore non deve prendere questa considerazione come una richiesta di censura. Tuttavia potrebbe essere una buona cosa l’istituzione di tribunali competenti, preferibilmente non ufficiali, che potessero esaminare le accuse di falsità e malafede nella presentazione delle notizie generali. Si veda Lippmann, Liberty and the News cit., pp. 73-6. 2 Si noti, ad esempio, quanto sia poco indignato Upton Sinclair con i giornali socialisti, persino con quelli che si mostrano così ingiusti e malevoli verso i datori di lavoro quando certi dei giornali da lui citati si mostrano ingiusti verso la sinistra. 1 Citato da J. M. Lee, in The History of American Journalism, Houghton Mifflin, Boston-New York 1917, p. 405. 2 Cfr. Given, Making a Newspaper cit., p. 13. 1 Hilaire Belloc fa praticamente la stessa analisi per i giornali inglesi. Si veda The Free Press. 2 U. Sinclair, Il gettone della prostituta, trad. di A. Dobelli Zampetti, Casa Editrice Rassegna Internazionale, Roma 1922, p. 479; ed. or. The Brass Check. A study of American journalism, The author, Pasadena (CA) 1919, p. 436. 1 Si veda l’illuminante capitolo su «La scoperta delle notizie» (cap. V) in Given, Making a Newspaper cit. 2 Ibid., p. 57. 1 Si pensi a quante congetture si è fatto posto nelle relazioni del 1921 sulla disoccupazione. 2 Discorso tenuto allo Women’s City Club di New York, l’11 dicembre 1919. Ristampato in «New Republic», 31 dicembre 1919, p. 44. 1 Cfr. I. H. Irwin, The Story of the Women’s Party, Harcourt, Brace and Co., New York 1921. Si tratta non solo di un buon resoconto di una parte fondamentale della grande agitazione, ma di una riserva di materiale su un’agitazione vittoriosa, non rivoluzionaria, non cospiratoria, condotta in una situazione moderna di attenzione ed interesse pubblici e di costume politico. 2 Non molto tempo fa Babe Ruth venne arrestato per eccesso di velocità. Scarcerato poco prima dell’inizio della partita, si precipitò nella sua automobile e recuperò il tempo perduto in carcere violando le leggi sulla velocità lungo il tragitto che portava allo stadio. Nessun poliziotto lo fermò, ma un cronista cronometrò la velocità e la pubblicò l’indomani. Babe Ruth è un uomo eccezionale. I giornali non possono cronometrare la velocità di tutti gli automobilisti. Debbono procurarsi le notizie sugli eccessi di velocità 262 dalla polizia. 3 Cfr. cap. XI, «Suscitare l’interesse». 4 R. W. Emerson, Art and Criticism (trad. it. in Id., Saggi, Bollati Boringhieri, Torino 1962). La citazione è tratta da pagina 87 del libro del professor R. W. Brown, The Writer’s Art by those have praticed, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1921. 5 Ibid. 1 Cfr. W. Lippmann - C. Merz (con l’aiuto di Fay Lippmann), A Test of the News, in «New Republic», 4 agosto 1920. 1 W. Bagehot, Literary Studies. On the Emotion of Conviction, London 1879, III, p. 172. 1 Quando scrissi Liberty and the News, non capivo questa distinzione abbastanza chiaramente per formularla, ma si vedano pp. 89 sgg. 263 VIII. L’informazione organizzata 264 XXV. Il cuneo iniziale 1. Se il rimedio fosse interessante, i pionieri americani come Charles McCarthy, Robert Valentine e Frederick W. Taylor non avrebbero dovuto combattere così duramente per farsi ascoltare. Ma è chiaro perché abbiano dovuto combattere, e perché gli uffici di ricerca del governo, i controlli dell’industria, la compilazione dei bilanci e simili siano i brutti anatroccoli della riforma. Essi capovolgono il processo mediante il quale si costruiscono le opinioni pubbliche interessanti. Invece di presentare un fatto occasionale, un grande schermo di stereotipi e una drammatica identificazione, essi smontano il dramma, spezzano gli stereotipi e offrono agli individui un’immagine dei fatti a loro sconosciuta e impersonale. Quando non è doloroso, tutto ciò è noioso, e quelli a cui riesce doloroso, il politicante intrigante e il fazioso che ha molto da nascondere, spesso sfruttano la noia provata dal pubblico per eliminare il dolore che provano loro. 2. Eppure tutte le collettività complesse hanno cercato l’aiuto di individui speciali, di àuguri, preti, anziani. La nostra stessa democrazia, benché basata su una teoria della competenza universale, ha cercato avvocati che amministrassero il suo governo e aiutassero ad amministrare la sua industria. Si ammetteva che l’individuo fornito di una preparazione speciale era vagamente orientato verso un sistema di verità più ampio di quello che sorge spontaneamente nella mente del dilettante. Ma l’esperienza ha dimostrato che la preparazione tradizionale dell’avvocato non era un aiuto sufficiente. La Grande Società è cresciuta furiosamente, raggiungendo dimensioni colossali grazie all’applicazione delle conoscenze tecniche. È stata costruita da ingegneri che hanno imparato a usare misure precise e l’analisi quantitativa. Gli uomini hanno cominciato a scoprire che non poteva essere governata da individui che ragionassero per deduzione sui 265 diritti e i doveri. Poteva essere posta sotto il controllo umano solo dal tecnico che l’aveva creata e quindi un po’ alla volta le menti direttive più illuminate si sono rivolte a esperti che erano stati preparati, o che si erano preparati, a rendere alcuni settori di questa Grande Società comprensibili a quelli che la dirigono. Queste persone vengono chiamate con vari nomi, statistici, contabili, controllori dei conti, consulenti industriali, ingegneri di varie specie, amministratori aziendali scientifici, dirigenti del personale, ricercatori, «scienziati» e talvolta semplicemente segretari particolari. Ognuno ha portato con sé un suo gergo, nonché schedari, archivi, grafici, agende e quaderni, e soprattutto l’ideale sensatissimo del dirigente seduto davanti a una scrivania piana, con un solo foglio dattiloscritto di fronte a sé, che decide su questioni d’indirizzo presentategli in forma adatta a un’immediata approvazione o a un immediato rifiuto. Tutto questo sviluppo è stato il frutto non tanto di un’evoluzione creativa spontanea, quanto della cieca selezione naturale. Lo statista, il dirigente industriale, il capo partito, il capo di un’associazione volontaria, scoprirono che per poter discutere un paio di dozzine di argomenti diversi nel corso di una giornata, doveva esserci qualcuno che desse loro l’imbeccata. Cominciarono a pretendere dei promemoria. Scoprirono di non poter leggere la loro posta. Pretesero che qualcuno sottolineasse i brani interessanti delle lettere importanti. Scoprirono di non poter digerire le grandi pile di relazioni dattiloscritte che ingiallivano sulle loro scrivanie. Ne pretesero dei riassunti. Scoprirono di non poter leggere colonne interminabili di cifre. Abbracciarono l’individuo che le trasformò in immagini colorate. Scoprirono di non poter davvero distinguere una macchina dall’altra. Assunsero ingegneri per sceglierle e per dir loro quanto costavano e che cosa erano in grado di fare. Si liberarono di un peso dopo l’altro, come colui il quale, quando si sforza di spostare un peso poco maneggevole, comincia a togliersi il cappello, poi la giacca, poi il colletto. 3. Stranamente, però, pur sapendo di aver bisogno di aiuto tardarono a chiamare lo scienziato sociale. Il chimico, il fisico, il geologo ebbero accoglienze più tempestive e più amichevoli. Si istituirono per loro dei laboratori, gli si offrirono allettamenti, perché si erano apprezzate subito le vittorie sulla natura. Ma lo scienziato che ha per problema la natura umana è un caso diverso. Le ragioni sono molte: la principale è che ha ben poche vittorie da mostrare. Ne ha così poche perché, se non si rivolge al passato 266 storico, non è in grado di dimostrare le sue teorie prima di offrirle al pubblico. Lo scienziato fisico può fare un’ipotesi, sottoporla a prove, modificare l’ipotesi centinaia di volte, e, se dopo tutto questo scopre di aver sbagliato, nessun altro deve pagarne il prezzo. Ma lo scienziato sociale non può in alcun modo offrire la sicurezza di una prova di laboratorio, e se il suo consiglio viene seguito, ed è sbagliato, le conseguenze possono essere incalcolabili. Per forza di cose egli è molto più responsabile, e molto meno certo. C’è di più. Nelle scienze sperimentali lo studioso ha superato il dilemma tra pensiero e azione. Infatti può portare un campione dell’azione in un posto tranquillo, dove può essere ripetuto a volontà, ed esaminato comodamente. Mentre lo scienziato sociale si trova continuamente stretto da un dilemma. Se rimane nella sua biblioteca, dove ha tutto l’agio di pensare, deve affidarsi alla scarsa e occasionale documentazione stampata che gli arriva attraverso le relazioni ufficiali, i giornali e le interviste. Se esce nel «mondo» dove accadono i fatti, deve sottoporsi a un lungo, spesso dispersivo tirocinio prima di essere ammesso ai luoghi riservati dove vengono prese le decisioni. Quello che non può fare è tuffarsi nell’azione e poi uscirne a suo talento. Non ci sono osservatori privilegiati. L’uomo d’affari, osservando che lo scienziato sociale conosce solo dall’esterno ciò che egli conosce, almeno in parte, dall’interno e riconoscendo che l’ipotesi dello scienziato sociale non è per sua natura suscettibile di prove di laboratorio, e che la verifica è possibile solo nel mondo «reale», si è fatto un’opinione piuttosto bassa degli scienziati sociali che non condividono le sue vedute sugli indirizzi politici. In cuor suo lo scienziato sociale condivide questo giudizio su di sé. Ha poca fiducia nel proprio lavoro; ci crede solo a metà, e non essendo sicuro di nulla, non trova una ragione impellente per difendere la sua libertà di pensiero. In coscienza, che pretese può avanzare al riguardo?1 I suoi dati sono incerti, i suoi strumenti di verifica lasciano a desiderare, le stesse sue qualità migliori sono fonti di frustrazione. Infatti se ha davvero tempra di critico, ed è imbevuto di spirito scientifico, non può essere dottrinario e scendere sul campo di Armageddon contro gli amministratori delle università, gli studenti, le leghe civiche e la stampa conservatrice in nome di una teoria di cui non è sicuro. Se si va ad Armageddon, è per battersi in nome del Signore, ma lo scienziato politico dubita sempre un po’ che il Signore l’abbia chiamato. Di conseguenza, se tanta parte della scienza sociale è apologetica invece che costruttiva, la spiegazione sta nelle possibilità concrete della scienza sociale, e non nel «capitalismo». Gli studiosi di scienze naturali si 267 sono affrancati dal clericalismo elaborando un metodo che portava a conclusioni che non potevano essere soppresse o ignorate. Convinsero se stessi e acquistarono dignità, sapendo bene per cosa si battevano. Lo scienziato sociale acquisterà dignità e forza solo quando avrà elaborato il suo metodo. Ci riuscirà se sarà capace di tramutare in concrete possibilità il bisogno dei dirigenti della Grande Società di possedere strumenti di analisi che rendano intelligibile un ambiente invisibile e formidabilmente difficile. Ma oggi come oggi lo scienziato sociale trae i suoi dati da una massa di materiale privo di nessi. I processi sociali vengono registrati spasmodicamente, spesso come incidenti amministrativi. Un rapporto al Congresso, un dibattito, un’investigazione, delle comparse legali, un censimento, una tariffa doganale, un elenco di contribuenti; il materiale, come il cranio dell’uomo di Piltdown, va messo insieme per mezzo di ingegnose deduzioni prima che lo studioso riesca ad avere un quadro del fatto che sta studiando. Quest’ultimo, pur riguardando la vita cosciente dei suoi concittadini, è fin troppo spesso di una scoraggiante opacità, e ciò perché colui che sta cercando di generalizzare non ha in pratica alcun modo di controllare i sistemi di raccolta dei dati di cui si serve. Si immagini una ricerca medica svolta da studenti che potessero entrare solo di rado in un ospedale, ai quali venisse negata la possibilità di compiere esperimenti sugli animali, e che perciò fossero costretti a trarre le loro conclusioni dai racconti di ex ammalati, dalle testimonianze di infermiere, ciascuna delle quali avesse un proprio sistema di diagnosi, e dalle statistiche compilate dall’ufficio erariale sui sovrapprofitti dei farmacisti. Di solito lo scienziato sociale deve ricavare quello che può da classificazioni uscite acriticamente dalla mente di un funzionario incaricato di applicare una parte di una legge, o che si proponeva di giustificare, di persuadere, di pretendere o di provare. Lo studioso sa tutto questo, e per proteggersi ha sviluppato delle tecniche per accertare dove i suoi dati siano revocabili in dubbio. Questa è certamente una virtù, ma diventa una virtù di poco conto quando non è altro che un correttivo della posizione malsana in cui si trova la scienza sociale. Infatti lo studioso è condannato a indovinare come meglio può perché mai, in una situazione che non si comprende fino in fondo, possa essere avvenuta una certa cosa. Ma l’esperto che viene impiegato come mediatore tra rappresentanti di parti, e come specchio e misura di funzionalità, ha un ben diverso controllo dei fatti. Invece di essere colui che trae generalizzazioni dai fatti lasciati trapelare dagli uomini d’azione, diventa colui che prepara i fatti per gli uomini d’azione. 268 Si tratta di un profondo mutamento della sua posizione strategica. Non sta più al di fuori a ruminare quello che gli forniscono dei frettolosi uomini d’affari, ma prende posto davanti e non dietro la decisione. Oggi la successione è questa: l’uomo d’affari trova i fatti e decide sulla base di questi; e poi, dopo qualche tempo, lo scienziato sociale deduce eccellenti ragioni sul perché abbia o non abbia deciso saggiamente. Questo rapporto retrospettivo è accademico nel senso peggiore di questa bella parola. La successione logica dovrebbe essere quest’altra: prima l’esperto disinteressato trova e formula i dati per l’uomo d’azione, e successivamente trae tutta la saggezza possibile dal raffronto tra la decisione, che è in grado di capire, e i dati, che egli stesso ha organizzato. 4. Nelle scienze fisiche questo mutamento di posizione strategica ha avuto un inizio lento, ma poi ha assunto un ritmo sempre più rapido. C’è stata un’epoca in cui l’inventore e l’ingegnere erano romantici e mezzo affamati, degli esclusi trattati come maniaci. L’uomo d’affari e l’artigiano conoscevano tutti i segreti del loro mestiere. Poi i mestieri divennero più misteriosi, e infine l’industria cominciò a dipendere da leggi fisiche e da combinazioni chimiche che nessun occhio poteva vedere, e che solo una mente addestrata poteva immaginare. Lo scienziato si trasferì dalla sua nobile soffitta del Quartiere Latino agli uffici e ai laboratori. Solo lui, infatti, era in grado di costruire un’immagine funzionale della realtà su cui l’industria poggiava. Dal nuovo rapporto ha avuto quanto ha dato, forse di più: la scienza pura si è sviluppata più rapidamente di quella applicata, traendo gran parte del suo appoggio economico, della sua ispirazione e della sua utilità da un contatto costante con le decisioni pratiche. Ma la scienza fisica era ancora appesantita dall’enorme limitazione costituita dal fatto che coloro che decidevano avevano per guida solo il loro buon senso. Amministravano senza un’assistenza scientifica un mondo reso complesso dagli scienziati. Ancora una volta dovevano affrontare fatti che non riuscivano ad afferrare, e come una volta avevano dovuto appellarsi agli ingegneri, così ora dovevano appellarsi agli statistici, ai contabili e ad esperti di tutti i tipi. Questi studiosi della vita pratica sono i veri pionieri di una nuova scienza sociale. Sono «ingranati nelle ruote motrici»1 e sia la scienza che l’azione si avvantaggeranno in modo radicale da questo loro connubio operativo: l’azione trarrà benefici dalla chiarificazione dei suoi presupposti; i presupposti la trarranno dalla continua verifica dei fatti. 269 Siamo ancora agli albori. Ma se si ammette che le maggiori forme di associazione umana debbano, per far fronte alle loro difficoltà pratiche, trovare uomini che vedono la necessità di affidare a esperti l’analisi del loro particolare ambiente, allora l’immaginazione ha una base su cui operare. Nello scambio di tecniche e di risultati tra équipes di esperti, si può vedere, mi pare, l’inizio del metodo sperimentale nella scienza sociale. Quando ogni circondario e bilancio scolastico, ogni ripartizione della sanità, ogni fabbrica e ogni elenco di tariffe doganali costituiranno materia di studio e di conoscenza per tutti gli altri, il numero delle esperienze raffrontabili comincerà ad avvicinarsi alle dimensioni del vero esperimento: 48 stati, 2400 città, 277 000 scuole, 270 000 fabbriche, 27 000 miniere e cave offrono un patrimonio di esperienze che attende solo di essere registrato e reso disponibile. E c’è anche la possibilità di fare tentativi ed errori con un rischio veramente minimo: in sostanza si potrebbe dar corso a qualsiasi ipotesi ragionevole senza mettere in pericolo le basi della società. Lo spiraglio è stato aperto, non solo da certi dirigenti industriali e da certi uomini di governo, che avevano bisogno di aiuto, ma anche dagli uffici studi municipali2, dalle biblioteche specializzate in materia legislativa, dai gruppi di pressione specializzati delle grandi aziende, dei sindacati e dei movimenti di riforma, nonché da organizzazioni volontarie come la Lega delle Donne Elettrici, la Lega dei Consumatori, le Associazioni degli industriali: da centinaia di associazioni di categoria e di comitati cittadini; da pubblicazioni come «Searchlight on Congress» e «Survey»; e da fondazioni come il General Education Board. Certamente non sono tutti disinteressati. Ma non è questo il punto. È il fatto che tutti insieme cominciano a dimostrare la necessità di interporre una forma di competenza specializzata tra il cittadino privato e il vastissimo ambiente in cui si trova immerso. 270 XXVI. Il lavoro d’informazione 1. Finora la prassi della democrazia ha sopravanzato la teoria. Infatti la teoria sostiene che l’insieme degli elettori adulti trae decisioni da una volontà che è in ciascuno di loro. Ma proprio come si sono sviluppate gerarchie di governo che la teoria non contemplava, così si sono avuti anche molti adattamenti costruttivi di cui non s’era tenuto conto nel costruire l’immagine della democrazia. Si è trovato il modo di rappresentare molti interessi e funzioni che normalmente restano occulti. Ci rendiamo conto di ciò soprattutto nella teoria dei tribunali, quando spieghiamo i loro poteri e veti legislativi con la teoria che ci sono interessi da tutelare che i governanti eletti potrebbero dimenticare. Ma l’ufficio dei censimenti, quando conta, classifica e raggruppa persone, cose e mutamenti, documenta anche fattori operanti nell’ambiente, tuttavia invisibili. Il catasto geologico rende evidenti le risorse minerarie, il Dipartimento dell’agricoltura rappresenta negli organi nazionali fattori di cui il singolo agricoltore vede solo una parte infinitesima. Le autorità scolastiche, la Commissione per le tariffe doganali, il servizio consolare, l’ufficio erariale, rappresentano persone, idee e obiettivi che non si troverebbero mai automaticamente rappresentati in questa prospettiva per effetto di un’elezione. L’Ufficio per i Minori è il portavoce di tutto un complesso di interessi e funzioni che non sono normalmente visibili all’elettore, e che perciò non possono spontaneamente entrare a far parte delle sue opinioni pubbliche. Così la pubblicazione di statistiche comparate sulla mortalità infantile viene spesso seguita dalla riduzione del tasso di mortalità. I funzionari municipali e gli elettori non avevano, prima della pubblicazione, un posto per questi bambini nella loro immagine dell’ambiente. Le statistiche li hanno resi visibili, come se i bambini avessero eletto un consigliere per dar voce alle loro lamentele. Il governo mantiene al Dipartimento di stato una Divisione per gli affari dell’Estremo Oriente. A che cosa serve? I governi giapponese e cinese hanno entrambi degli ambasciatori a Washington. Non sono qualificati a parlare in nome dell’Estremo Oriente? Sono loro i suoi 271 rappresentanti. Tuttavia nessuno sosterrebbe che il governo americano possa apprendere tutto quello che gli serve sull’Estremo Oriente da questi ambasciatori. Essi, anche ammesso che siano del tutto franchi, restano sempre fonti di informazioni limitate. Ed è proprio per questo che manteniamo delle ambasciate a Tokyo e Pechino, e dei consoli in molte località. Ed anche, immagino, degli agenti segreti. Costoro dovrebbero mandare rapporti al Segretario di stato, passando attraverso la divisione per gli affari dell’Estremo Oriente. Che cosa si attende il Segretario da questa Divisione? So di uno che si attendeva che la Divisione semplicemente spendesse i fondi assegnatile. Ma ci sono anche segretari cui è negata l’ispirazione divina, e che si rivolgono alle divisioni per aiuto. Naturalmente l’ultima cosa di cui hanno bisogno è un’elegante argomentazione che giustifichi l’atteggiamento americano. Hanno bisogno invece che gli esperti portino l’Estremo Oriente sulla scrivania del segretario, con tutti gli elementi organizzati in maniera che egli possa sentirsi in contatto diretto con l’Estremo Oriente. L’esperto deve tradurre, semplificare, generalizzare, ma le decisioni che ne risultano debbono essere pertinenti all’Oriente, e non solo alle premesse del rapporto. Se il Segretario vale qualcosa, non sopporterà nemmeno il sospetto che i suoi esperti abbiano una «politica». Non vuol sapere da loro se giudicano positiva la politica giapponese verso la Cina. Vuole sapere che cosa ne pensano vari ambienti cinesi e giapponesi, inglesi, francesi, tedeschi e russi; e che cosa, di conseguenza, si accingono probabilmente a fare. Pretende che gli si rappresenti tutto ciò come base per la sua decisione. Sarà un Segretario di stato tanto migliore, quanto più fedelmente la Divisione gli illustrerà quello che altrimenti non verrebbe illustrato, né dagli ambasciatori giapponesi o americani, né dai senatori e deputati degli stati che si affacciano sul Pacifico. Può decidere di trarre la sua politica dalla costa del Pacifico, ma la sua opinione sul Giappone la trarrà dal Giappone. 2. Non a caso il miglior servizio diplomatico del mondo è quello in cui è più perfetto il divorzio tra la raccolta dei dati e la formulazione della politica. Durante la guerra in molte ambasciate inglesi e nello stesso Foreign Office inglese ci si imbatteva quasi sempre in uomini, funzionari permanenti o incaricati straordinari, che riuscivano assai bene ad astrarsi dalla mentalità bellica esistente. Evitavano la perdita di tempo di essere pro o contro, di avere delle nazionalità predilette, delle avversioni 272 personali e delle perorazioni non pronunciate in petto. Lasciavano queste cose ai capi politici. Ma una volta a un’ambasciata americana ho sentito un ambasciatore dire che egli non riferiva mai nulla a Washington che non potesse rallegrare i compatrioti. Riusciva simpatico a tutti quelli che incontrava, aiutava i connazionali rimasti al verde, ed era superbo quando si trattava di scoprire monumenti. Non capiva che la forza dell’esperto sta nella capacità di staccarsi da quelli che prendono la decisione, di non curarsi nel suo animo d’esperto della decisione presa. Colui il quale, come questo ambasciatore, prende posizione, e si immischia nella decisione, viene ben presto tenuto in poco conto. Eccolo lì ridotto ad essere l’ennesimo sostenitore di una certa impostazione. Infatti, quando comincia a preoccuparsi troppo, comincia a vedere ciò che vuol vedere e perciò non vede più quello che è da vedere. È lì per illustrare il non visto; rappresenta persone che non sono elettori, funzioni degli elettori che non sono evidenti, avvenimenti fuori del campo visuale, persone mute, persone non nate, rapporti tra le persone e le cose. Ha un collegio elettorale di inafferrabili. E gli inafferrabili non possono essere utilizzati per formare una maggioranza politica, perché l’elezione è in ultima analisi una prova di forza, una battaglia sublimata, e l’esperto non rappresenta alcuna forza immediatamente disponibile. Ma può esercitare la forza interferendo nello schieramento delle forze. Rendendo visibile l’invisibile mette un nuovo ambiente dinanzi a quelli che esercitano la forza materiale, promuove in loro idee e sentimenti, li fa spostare dalle posizioni precostituite, influendo perciò sulla decisione nel modo più profondo. Gli uomini non possono agire per molto tempo in un modo che chiaramente contraddica la loro concezione dell’ambiente. Se si intestardiscono ad agire in un certo modo, debbono ripensare l’ambiente, debbono censurare, debbono razionalizzare. Ma se si trovano di fronte a un fatto così insistente e lampante da non poter essere rimosso con una spiegazione, possono scegliere una di queste tre vie. Possono pervicacemente ignorarlo, anche se così facendo si ritroveranno menomati, finiranno per strafare, e tutto gli andrà male. Possono tenerne conto, ma rifiutarsi di agire; e in questo caso si sentono a disagio e frustrati. Oppure, e io credo che sia il caso più frequente, adattano completamente il loro comportamento all’ambiente allargato. L’idea che l’esperto sia una persona incapace, perché lascia agli altri la decisione, è assolutamente smentita dall’esperienza. Più sottili sono gli elementi che entrano nella decisione, più irresponsabile diventa il potere che egli detiene. Inoltre egli è certo che in futuro eserciterà più potere di 273 quanto abbia potuto esercitare in passato, perché i dati necessari alla decisione sfuggiranno sempre più all’elettore e ai dirigenti. Tutti gli organi amministrativi tenderanno a istituire centri di ricerca e di informazione, che allungheranno dei tentacoli e si espanderanno come è avvenuto per tutti i servizi di informazione di tutti gli eserciti del mondo. Ma gli esperti resteranno esseri umani. Gusteranno il potere, e proveranno la tentazione di autonominarsi censori e di assorbire la funzione decisoria vera e propria. Finché la loro funzione non sarà correttamente definita tenderanno a trasmettere i dati che giudicano convenienti e a dar corso alle decisioni che approvano. Tenderanno, in breve, a diventare una burocrazia. La sola salvaguardia istituzionale sta nel separare il più nettamente possibile il personale che esegue dal personale che indaga. Dovrebbero essere due gruppi paralleli, ma completamente distinti, assunti con metodi diversi, pagati, se possibile, con fondi diversi, responsabili di fronte a capi diversi, gli uni indifferenti al successo personale degli altri e viceversa. Nell’industria, i revisori dei conti, i contabili e gli ispettori dovrebbero essere indipendenti dal direttore, dai sovraintendenti, dai capireparto, e alla lunga, credo, scopriremo che per esercitare un controllo sociale sull’industria il meccanismo di documentazione dei dati dovrà essere indipendente dai consigli d’amministrazione e dagli azionisti. 3. Ma nell’accingerci a costruire i centri di informazione dell’economia e della politica, noi non partiamo da un terreno sgombro. E del resto, dopo avere insistito su questa fondamentale separazione di funzioni, sarebbe inopportuno insistere con troppa precisione sulla forma che il principio dovrebbe assumere nei casi particolari. Ci sono persone che credono nel lavoro d’informazione, e lo adotteranno; ci sono persone che non lo capiscono, ma non possono farne a meno per la loro attività; e ci sono persone che si opporranno. Ma perché il principio faccia strada basterà che si apra uno spiraglio in ogni organizzazione sociale, e il modo di cominciare è cominciare. Nel governo federale, ad esempio, non è necessario dipanare la matassa amministrativa e gli illogici doppioni di un’espansione secolare, per trovare il posto adatto agli uffici d’informazione di cui Washington ha tanto bisogno. Prima delle elezioni si può promettere di gettarsi coraggiosamente nella breccia. Ma quando finalmente si arriva trafelati alla breccia, si scopre che ogni assurdità si fonda su consuetudini, forti interessi e deputati suadenti. Se si attacca su tutta la linea reagiscono tutte le forze della reazione. Si va alla battaglia, 274 come diceva il poeta, e regolarmente si cade. Si può mozzare un ufficio antiquato qui, infilzare un drappello di impiegati là, si possono unire due uffici. E a questo punto ci si trova occupati con le tariffe doganali e le ferrovie, e l’era delle riforme è passata. Inoltre, per attuare una riorganizzazione veramente logica dell’amministrazione, come tutti i candidati promettono di fare, si sarebbe costretti a suscitare più passioni di quante si avrebbe tempo di sedare. E ogni nuovo sistema, supponendo di averne uno pronto, richiederebbe funzionari che lo rendessero operante. Si dica quello che si vuole dei funzionari, ma persino la Russia sovietica è stata contenta di recuperare molti di quelli del vecchio regime; e questi vecchi funzionari, se verranno trattati con troppa durezza, saboteranno persino un’Utopia. Nessun sistema amministrativo può funzionare senza la buona volontà, e la buona volontà nei confronti dei nuovi metodi è impossibile senza una educazione adatta. Il modo migliore è di inserire nel congegno esistente, ovunque si riesca a trovare un appiglio, organi che servano quotidianamente da specchio agli altri. Si può sperare così di rendere il meccanismo visibile a quelli che lo manovrano, nonché ai capi che ne portano la responsabilità e al pubblico esterno. Quando i funzionari cominciano a vedersi – o piuttosto, quando gli estranei, i capi, e i subordinati cominciano a vedere tutti gli stessi fatti, o se si preferisce, le stesse prove schiaccianti – l’opposizione diminuirà. L’opinione del riformatore, che un certo ufficio è inefficiente, è solo la sua opinione; un’opinione che agli occhi dell’ufficio è meno attendibile della propria. Ma basterà che il lavoro di quest’ufficio venga analizzato e illustrato, e poi confrontato con quello di altri uffici e di aziende private, perché il discorso si sposti su un altro piano. A Washington dieci Dipartimenti sono rappresentati nel Gabinetto. Supponiamo che in ciascuno di essi ci fosse un ufficio permanente di ricerca. Quali potrebbero essere le condizioni per renderli efficaci? Soprattutto che i funzionari addetti alla ricerca siano indipendenti sia dai comitati parlamentari competenti per le materie dei rispettivi Dipartimenti, sia dal Segretario titolare del Dipartimento; e che non debbano essere coinvolti nella decisione o nell’azione. L’indipendenza quindi poggerebbe su tre punti: sui fondi, sulle condizioni del rapporto di impiego e sull’accesso ai fatti. Infatti è chiaro che se un’autorità parlamentare o ministeriale può privarli dei fondi, licenziarli, o escluderli dagli archivi, quei funzionari cadono in sua balía. 275 4. La questione dei fondi è importante e difficile. Nessun ente di ricerca può essere davvero libero se dipende dalla carità annuale di quello che può essere un Congresso geloso o parsimonioso. Tuttavia non si può sottrarre al potere legislativo il controllo ultimo dei fondi. Il congegno finanziario deve garantire il personale di ricerca dagli attacchi obliqui, dai trabocchetti e dai codicilli che possono danneggiarlo, da occulte manovre di distruzione; e al tempo stesso deve consentire lo sviluppo dell’attività. Il personale dev’essere così ben trincerato da obbligare chiunque voglia attentare alla sua esistenza a operare alla luce del sole. Forse potrebbe lavorare protetto da uno statuto federale che costituisca un fondo di garanzia, e dall’assegnazione di una percentuale prestabilita dei fondi via via assegnati al Dipartimento di cui fa parte. Ad ogni modo non si tratta di ingenti somme di denaro: il fondo di garanzia potrebbe coprire i costi di impianto e d’esercizio relativi all’organico iniziale, la percentuale potrebbe coprire gli sviluppi. Comunque lo stanziamento dev’essere garantito da ogni rischio, come si fa con qualsiasi obbligazione a lunga scadenza. Questo è un modo molto meno grave di «legare le mani al Congresso» che non sia l’approvazione di un emendamento costituzionale o l’emissione di buoni del Tesoro. Il Congresso potrebbe revocare lo Statuto: ma dovrebbe revocarlo, e non limitarsi a gettare bastoni tra le ruote. Debbono essere inamovibili, debbono godere di una pensione generosa, e di congedi ogni sette anni per studi e ricerche di aggiornamento e di perfezionamento; e il loro eventuale licenziamento deve avvenire solo dopo un giudizio formale pronunciato da un tribunale di colleghi. Debbono valere qui le condizioni che si applicano a tutte le carriere intellettuali che non hanno fini di lucro. Perché il lavoro possa essere rilevante, le persone che lo svolgono debbono godere di una posizione di dignità, di sicurezza, e, almeno ai gradi superiori, di quella libertà intellettuale che si trova solo là dove gli individui non si debbono occupare direttamente delle decisioni pratiche. Il diritto di accesso ai dati e ai documenti deve essere stabilito chiaramente nel provvedimento istitutivo. L’ufficio deve poter esaminare tutti gli incartamenti e interrogare qualsiasi funzionario o estraneo. Indagini continuative di questo genere non avrebbero nulla a che vedere con le sensazionali inchieste parlamentari e le spasmodiche cacce che ancora oggi sono un tratto normale del nostro sistema. L’ufficio deve avere per legge il diritto di proporre al Dipartimento nuovi metodi contabili, e qualora la proposta venga respinta, o violata dopo essere stata accettata, di 276 fare ricorso al Congresso. Anzitutto l’ufficio di ricerca sarebbe l’anello di congiunzione tra il Congresso e il Dipartimento di cui fa parte, un anello, a mio avviso, migliore di quello rappresentato dalla richiesta di chiarimenti ai ministri in sede di Camera di rappresentanti o di Senato; ma questa proposta non esclude poi l’altro sistema. L’ufficio sarebbe un po’ come l’occhio con cui il Congresso sorveglierebbe l’applicazione della sua politica. Sarebbe anche lo scudo del Dipartimento contro le critiche del Congresso. E poi, dato che le attività del Dipartimento sarebbero permanentemente visibili, forse il Congresso non sentirebbe più il bisogno di insistere in quella minuziosa legiferazione, frutto della sfiducia e di una falsa interpretazione della separazione dei poteri, che rende così difficile un efficiente funzionamento dell’amministrazione. 5. Ma naturalmente questi dieci uffici non dovrebbero lavorare a compartimenti stagni. Nei loro reciproci rapporti sta la prospettiva più sicura di quel «coordinamento» del quale si sente tanto parlare e si vede così poco. Evidentemente sarebbe necessario che i vari uffici adottassero, ove fosse possibile, omogenei criteri di valutazione. Si scambierebbero le documentazioni. Così, se il Dipartimento della Difesa e quello delle Poste comprano entrambi legname, ingaggiano carpentieri o costruiscono muri in mattone, non debbono necessariamente farlo per mezzo dello stesso ente, perché questo potrebbe portare a un’ingombrante sovracentralizzazione; ma potrebbero usare la stessa misura per le stesse cose, essere consapevoli dei confronti ed essere trattati come concorrenti. E quanta più concorrenza di questo tipo ci fosse, tanto meglio sarebbe. Infatti il valore della concorrenza è determinato dal valore dei criteri usati per misurarla. E allora, invece di chiederci se crediamo nella concorrenza, dobbiamo chiederci se crediamo nelle cose per cui i concorrenti concorrono. Nessuna persona sensata pretende di «abolire la concorrenza», perché quando l’ultimo vestigio dell’emulazione fosse scomparso, lo sforzo sociale consisterebbe nell’osservanza meccanica di una routine, mitigata nella minoranza dall’aspirazione naturale. D’altronde, nessuno aspira a portare la concorrenza alle sue logiche conclusioni, cioè a una lotta micidiale di ognuno contro tutti. Il problema è di scegliere gli obiettivi della concorrenza e le regole del gioco. Quasi sempre queste ultime saranno determinate dal metro più visibile e ovvio: il 277 denaro, il potere, la popolarità, l’approvazione o lo «spreco ostentato» di Veblen. Quali altri criteri di misurazione offre normalmente la nostra civiltà? In che modo misura l’efficienza, la produttività, il servizio, le cose cioè che continuamente reclamiamo? In genere non ci sono misure, e quindi non c’è molta concorrenza alla realizzazione di questi ideali. Infatti la differenza tra i moventi alti e quelli bassi non è, come gli uomini spesso affermano, una differenza tra altruismo e egoismo1, ma la differenza tra l’operare per fini facilmente comprensibili e l’operare invece per fini oscuri e vaghi. Incoraggiate un uomo a conseguire un profitto maggiore del suo vicino: egli saprà a che cosa mirare. Esortatelo ad essere più utile alla società: e come fa a sapere che cosa sia socialmente più utile? Qual è il punto di riferimento? Qual è la misura? Un sentimento soggettivo, è opinione di qualcuno. Dite a un uomo in tempo di pace che deve servire il suo paese, e avrete pronunciato nient’altro che una pia banalità. Ditegli la stessa cosa in tempo di guerra, e la parola servire acquisterà un significato; significherà degli atti concreti, l’arruolarsi, l’acquistare buoni del Tesoro, il non sprecare il cibo, il lavorare per un dollaro all’anno, e ciascuno di questi servizi sarà ai suoi occhi parte integrante dell’obiettivo concreto di mandare al fronte un esercito più numeroso e meglio armato di quello nemico. E così, quanto meglio si riesce ad analizzare l’amministrazione e a escogitare elementi suscettibili di raffronto, e quanto meglio si riesce a inventare misure quantitative per le qualità che si desidera promuovere, tanto più facilmente si può indirizzare la concorrenza verso fini ideali. Se si riesce a escogitare i numeri indici che vanno bene2, si può creare una situazione di concorrenza tra i singoli operai di un’officina; tra le officine; tra le fabbriche; tra le scuole3; tra i Dipartimenti statali; tra i reggimenti; tra le divisioni; tra le navi; tra gli stati, le contee, le città; e tanto più utile sarà la concorrenza quanto migliori saranno i numeri indici. 6. Le possibilità insite nello scambio di materiale sono evidenti. I Dipartimenti dell’amministrazione pubblica chiedono continuamente informazioni che forse sono già state ottenute da un altro Dipartimento, magari in una forma un po’ diversa. Il Dipartimento di stato ha bisogno di sapere, poniamo, l’entità delle risorse messicane di petrolio, quale percentuale rappresentino delle risorse mondiali, chi possieda attualmente i giacimenti petroliferi messicani, l’importanza del petrolio per le corazzate in costruzione o in programma, i costi comparati di vari giacimenti. Come 278 si procura oggi queste informazioni? I dati probabilmente sono dispersi tra i dipartimenti dell’Interno, della Giustizia, del Commercio, del Lavoro e della Marina. Delle due l’una: o un impiegato del Dipartimento di stato fa una ricerca sul petrolio messicano su un testo specializzato, che può essere preciso come può anche non esserlo, oppure il segretario particolare di qualcuno telefona al segretario particolare di qualcun altro per chiedere un promemoria, e dopo qualche tempo arriva un commesso negro con una bracciata di documenti incomprensibili. Invece il Dipartimento dovrebbe poter invitare il suo ufficio di ricerca e documentazione a raccogliere i dati in forma utile al problema diplomatico che sta sul tappeto. E questi dati l’ufficio di ricerca del Servizio diplomatico li otterrebbe dalla stanza di compensazione centrale1. Questa organizzazione diventerebbe ben presto un centro di informazioni straordinario. E lavorando per essa si acquisterebbe una precisa consapevolezza di ciò che realmente sono i problemi del governare. Si affronterebbero i problemi di definizione, di terminologia, di tecnica statistica, di logica; si attraverserebbe concretamente l’intera gamma delle scienze sociali. Non si vede perché tutto questo materiale, fatta eccezione per alcuni segreti diplomatici e militari, non dovrebbe essere accessibile agli studiosi del paese. È qui che lo scienziato politico troverebbe le vere noci da schiacciare e le vere ricerche da affidare ai suoi studenti. Non è necessario che tutto il lavoro venga fatto a Washington, ma potrebbe essere compiuto tenendo presente Washington. L’organizzazione neutrale avrebbe allora in sé i germi di un’università nazionale. Il personale dei singoli uffici potrebbe essere reclutato da quest’organo centrale tra i laureati. Questi ultimi svolgerebbero tesi scelte previa consultazione tra i dirigenti dell’università nazionale e professori di tutto il paese. Se l’associazione fosse elastica, come dovrebbe essere, si avrebbe, oltre al personale fisso, un regolare avvicendamento di incaricati speciali e temporanei provenienti dalle università, e inoltre le università potrebbero sistematicamente invitare i funzionari degli uffici di ricerca di Washington a tenere dei corsi. In questo modo la preparazione e il reclutamento del personale procederebbero di pari passo. Una parte della ricerca stessa verrebbe svolta da studenti, e la scienza politica delle università verrebbe a collegarsi alla politica del paese. 7. Nei suoi tratti fondamentali il principio è altrettanto applicabile ai governi dei singoli stati regionali e alle amministrazioni urbane e rurali. 279 L’attività di raffronto e interscambio potrebbe essere svolta da federazioni degli uffici di ricerca degli stati; delle amministrazioni urbane e di quelle di contea. E all’interno di queste federazioni si potrebbero organizzare tutte le combinazioni regionali opportune. Molti doppioni potrebbero essere evitati, se i sistemi amministrativi fossero omogenei. Particolarmente opportuno è il coordinamento regionale; infatti le frontiere legali spesso non coincidono con gli ambienti reali. Tuttavia hanno una certa base tradizionale, che costerebbe troppo turbare. Coordinando le loro informazioni, varie circoscrizioni amministrative potrebbero conciliare l’autonomia della decisione con la collaborazione. La città di New York, ad esempio, è già ora un’unità amministrativa troppo grossa perché il municipio possa amministrarla bene. Tuttavia, a molti effetti, come ad esempio quello della sanità e dei trasporti, il distretto metropolitano è l’unità amministrativa ottimale. Questo distretto, però, comprende grandi città come Yonkers, Jersey City, Paterson, Elizabeth, Hoboken, Bayonne. Non potrebbero essere amministrate da un unico centro, e tuttavia dovrebbero svolgere insieme molte funzioni. Forse alla lunga la soluzione più adatta potrebbe essere un sistema elastico di amministrazione locale, come quella che hanno suggerito Sydney e Beatrice Webb1. Ma il primo passo dovrebbe essere il coordinamento, non delle decisioni e delle attività, ma dell’attività di ricerca e documentazione. Occorre che i funzionari delle varie municipalità vedano i problemi comuni alla luce degli stessi fatti. 8. Sarebbe poco realistico negare che una rete siffatta di uffici di ricerca operante nella politica e nell’economia potrebbe diventare un peso morto e una continua fonte di attriti. È facile immaginare il suo potere di attrazione su persone in cerca di sinecure, sui pedanti, sui ficcanaso. Si possono immaginare lungaggini burocratiche, montagne di scartafacci, moduli a non finire, sette copie di ogni documento, controfirme, rinvii, documenti smarriti, l’uso del modulo 136 invece del modulo 29B, la restituzione del documento perché si è usata la matita invece dell’inchiostro, o l’inchiostro nero invece di quello rosso. Il lavoro potrebbe essere fatto anche molto male: nessuna istituzione è mai del tutto protetta dalla stupidità. Ma se ci fosse circolazione in tutto il sistema tra Dipartimenti federali, fabbriche, uffici e università – circolazione di uomini, circolazione di dati e di critica – i rischi della putrefazione non sarebbero poi così gravi. E non sarebbe giusto dire che questi uffici di ricerca complicherebbero la vita. Al 280 contrario, tenderanno a semplificarla, rendendo chiara una complessità che oggi è talmente grande da essere umanamente incontrollabile. L’attuale, fondamentale invisibile sistema di governo è così intricato che la maggior parte delle persone hanno rinunciato al tentativo di tenergli dietro. E siccome non ci provano nemmeno, sono tentate di immaginarselo come relativamente semplice. Invece è elusivo, occulto, opaco. L’impiego di un sistema di ricerca e documentazione significherebbe una riduzione di personale per unità di risultato, perché, rendendo accessibile a tutti l’esperienza di ciascuno, ridurrebbe l’entità degli esperimenti e degli errori; e perché, rendendo visibile il processo sociale, condurrebbe il personale all’autocritica. Non comporta un grande incremento del numero dei funzionari, se si tiene conto del tempo oggi sprecato da comitati speciali di investigazione, giurie inquirenti, procuratori distrettuali, organizzazioni di riforma e autorità disorientate, a cercare una via d’uscita attraverso una nera confusione. Se l’analisi dell’opinione pubblica e delle teorie democratiche, in rapporto all’ambiente moderno, è in linea di principio giusta, non vedo come si possa sfuggire alla conclusione che un’attività di ricerca siffatta è la chiave del progresso. Non mi riferisco ai pochi suggerimenti esposti in questo capitolo: sono soltanto degli esempi. Il compito di elaborare una tecnica spetta a coloro che sono preparati a questo, e nemmeno loro possono oggi prevedere del tutto quali forme assumerà, e tanto meno i dettagli. Ancora oggi sono ben pochi i fenomeni sociali di cui si possieda una documentazione, gli strumenti dell’analisi sono molto rozzi, i concetti spesso sono vaghi e acritici. Ma si è già fatto abbastanza, mi sembra, per dimostrare che gli ambienti non visti possono essere riferiti efficacemente, che possono essere riferiti a gruppi in discordia tra loro in un modo neutrale rispetto ai loro pregiudizi, e capace di indurli a superare il loro soggettivismo. Se questo è vero, allora gli uomini, nel rendere operante il principio della ricerca e della documentazione, troveranno il modo di superare quella che è la difficoltà centrale dell’autogoverno: la difficoltà di affrontare la realtà che non si vede. Proprio a causa di queste difficoltà, nessuna comunità autogovernantesi è riuscita finora a conciliare la sua necessità di isolamento con la necessità di ampi contatti, a conciliare la dignità e l’individualità della decisione locale con la sicurezza e un largo coordinamento, ad assicurarsi capi reali senza sacrificare la responsabilità, ad avere opinioni pubbliche utili senza tentare di avere opinioni pubbliche universali su tutti i problemi. Mancando la possibilità di stabilire interpretazioni comuni delle realtà non viste, misure comuni per atti 281 diversi, la sola immagine della democrazia che potesse funzionare, anche in teoria, è stata quella fondata sulla comunità isolata, le cui facoltà politiche erano limitate, secondo la famosa massima di Aristotele, dal raggio della loro visione. Ma ora c’è una via d’uscita – a lungo termine, beninteso – ma pur sempre una via d’uscita. È fondamentalmente la stessa via che ha consentito al cittadino di Chicago, fornito di vista e di udito non migliori di quelli dell’Ateniese, di vedere e di udire da grandi distanze. Oggi è possibile – e sarà sempre più possibile a misura che crescerà l’impegno – ridurre le discrepanze tra l’ambiente immaginato e l’ambiente reale. A mano a mano che questo si avvererà, il federalismo funzionerà sempre più per consenso, e sempre meno per coercizione. Infatti il federalismo, pur essendo il solo metodo possibile di unione tra gruppi autogovernanti1, oscilla tra la centralizzazione imperiale e l’anarchia campanilistica, qualora l’unione non sia fondata su concetti giusti e comunemente accettati dell’ambito federale. Questi concetti non sorgono spontaneamente: devono esser messi insieme pezzo a pezzo mediante una generalizzazione fondata sull’analisi, e gli strumenti di quest’analisi debbono essere inventati e verificati per mezzo della ricerca. Le riforme elettorali, i rimaneggiamenti territoriali, i mutamenti del sistema di proprietà, non toccano la radice della questione. Non si può ricavare dagli uomini più saggezza politica di quella che hanno. E, per sensazionale che possa essere, nessuna riforma, la quale non fornisca consapevolmente il modo di superare il soggettivismo dell’opinione umana basato sulla limitazione dell’esperienza umana, è veramente radicale. Esistono sistemi di governo, elettorali, e di rappresentanza che rendono di più degli altri. Ma in ultima analisi la conoscenza non deve venire dalla coscienza, ma dall’ambiente con cui la coscienza ha a che fare. Quando gli uomini agiscono in base al principio della ricerca e della documentazione, vanno a cercare i fatti e a formarsi una loro saggezza. Quando lo trascurano, rientrano in se stessi e trovano soltanto ciò che hanno dentro. E così elaborano i loro pregiudizi invece di accrescere le loro conoscenze. 282 XXVII. L’appello al pubblico 1. Nella vita reale nessuno agisce pensando di poter avere un’opinione pubblica su ogni questione pubblica, benché la cosa spesso non appaia, in quanto l’individuo pensa che non ci siano questioni pubbliche dal momento che egli non ha opinioni pubbliche. Ma nella teoria politica continuiamo a pensare più letteralmente di quanto intendesse Lord Bryce che «l’azione dell’Opinione è continua»1, benché «la sua azione […] si riferisca solo ai principi generali»2. E poi, dato che siamo portati a immaginare di avere continuamente delle opinioni, senza però essere del tutto certi di cosa sia un principio generale, accogliamo spontaneamente con uno sbadiglio angosciato una tesi che sembra comportare la lettura di altri rapporti governativi; altre statistiche, altre curve e altri grafici. Infatti tutto ciò a prima vista può confondere quanto la retorica di partito, ed è molto meno divertente. Indubbiamente è piuttosto scarsa l’attenzione disponibile per un sistema in cui si presuma che tutti i cittadini della nazione, dopo essersi dedicati alle pubblicazioni di tutti gli uffici di ricerca, diverrebbero vigili, informati e attenti alla moltitudine di questioni reali che non si inquadrano mai troppo bene in un principio generale. Infatti non si pretende tanto. Innanzitutto l’ufficio di ricerca è uno strumento dell’uomo d’azione, del rappresentante investito di potere decisorio, del lavoratore in sede di lavoro, e se non è utile a loro, alla fin fine non sarà mai utile a nessuno. Ma nella misura in cui li aiuta a comprendere l’ambiente in cui lavorano, rende visibile ciò che fanno. E in quella misura diventano più responsabili verso il pubblico in generale. L’intento, quindi, non è di seppellire ogni cittadino sotto un cumulo di opinioni esperte su tutte le questioni, ma di allontanare da lui questo fardello per metterlo sulle spalle dell’amministratore responsabile. Un sistema di ricerca vale, naturalmente, come fonte di notizie generali, e come controllo sulla stampa quotidiana. Ma ciò è secondario. La sua vera utilità è come aiuto al governo rappresentativo e all’amministrazione sia politica che economica. La richiesta dell’aiuto di cronisti esperti, sotto 283 forma di contabili, statistici, segretarie, e simili, non viene dal pubblico, ma da persone che svolgono attività pubbliche, e che non possono più svolgerle in maniera approssimativa. Per natura, e anche in teoria, è uno strumento per svolgere meglio le attività pubbliche piuttosto che per sapere meglio quali sono le pecche di queste attività pubbliche. 2. Come privato cittadino, come elettore sovrano, nessuno riuscirebbe a digerire questi documenti. Ma chi è parte in causa in una vertenza, o membro di una commissione legislativa, o funzionario governativo, industriale, sindacale, o membro di un’associazione industriale, accoglierà sempre più favorevolmente le documentazioni riguardanti la specifica materia in discussione. Il privato cittadino che si interessa a qualche causa aderirebbe, come fa oggi, ad associazioni volontarie, il cui personale studierebbe i documenti e presenterebbe relazioni utili per controllare le autorità responsabili. Questo materiale verrebbe studiato da qualche giornalista, ma soprattutto da esperti e da scienziati della politica. Ma il profano, e tutti noi siamo dei profani riguardo a quasi tutti gli aspetti della vita moderna, non ha il tempo né l’attenzione né l’interesse né la preparazione per dare giudizi specifici. È sulle persone che stanno addentro alle cose, sempre che le condizioni in cui lavorano siano normali, che le amministrazioni ordinarie delle società debbono poggiare. Il pubblico dei profani può giudicare se queste condizioni siano normali solo sulla base dei risultati delle attività, e della procedura seguita prima dell’atto concreto. I principi generali sui quali l’azione dell’opinione pubblica può svolgersi con continuità sono essenzialmente principi di procedura. Il profano può chiedere agli esperti di dirgli se i dati pertinenti siano stati debitamente considerati; nella maggior parte dei casi non può decidere lui che cosa sia pertinente, o che cosa significhi prendere in debita considerazione. Il profano può forse giudicare se i gruppi interessati alla decisione siano stati opportunamente sentiti, se la votazione, qualora fosse richiesta, si sia svolta correttamente, e forse anche se il risultato sia stato lealmente accettato. Può seguire la procedura quando le notizie indicano che c’è qualcosa da seguire. Può mettere in dubbio che la procedura sia giusta, se i suoi risultati ordinari contraddicono al suo ideale della vita1. Ma se cerca sistematicamente di sostituirsi alla procedura, di fare intervenire l’Opinione Pubblica nel modo in cui lo zio provvidenziale appare nelle crisi delle commedie, complicherà la propria confusione. Non riuscirà a svolgere logicamente una serie di pensieri. 284 Infatti la consuetudine di appellarsi al pubblico per questioni complicatissime tradisce quasi sempre il desiderio di evitare le critiche dei competenti, reclutando una larga maggioranza che non ha avuto alcuna possibilità di informarsi. Si fa dipendere il verdetto da chi ha la voce più forte o più suadente, l’agente pubblicitario più abile o più sfrontato, i contatti migliori per far parlare di sé i giornali. Infatti anche quando il direttore è scrupolosamente equo verso «l’altra parte», l’equità non è sufficiente. Possono esserci varie altre parti, sottaciute dai parteggianti organizzati, finanziati e attivi. Il cittadino privato, assediato da appelli di parte che gli chiedono in pegno la sua Opinione Pubblica, forse si accorgerà ben presto che questi appelli non sono un complimento alla sua intelligenza, ma un abuso della sua buona fede e un insulto al suo senso critico. A misura che la sua coscienza civile gli consentirà di rendersi conto della complessità del suo ambiente, egli si preoccuperà dell’equità e della sensatezza della procedura, ma anche su questo pretenderà nella maggior parte dei casi che la vigilanza sia esercitata in suo nome dal rappresentante che egli ha eletto. Si rifiuterà di accettare l’onere di queste decisioni, e quasi sempre avverserà quelli che, nella fretta di vincere, lasciano il tavolo delle trattative per precipitarsi a dare le prime notizie ai giornali. Solo insistendo perché i problemi non gli vengano sottoposti se non dopo essere passati attraverso una procedura, il cittadino indaffarato di uno stato moderno può sperare di affrontarli in forma comprensibile. Infatti i problemi, come li formula la parte in causa, quasi sempre consistono in una serie di fatti complicata, come la parte stessa li ha visti, circondata da un’abbondante massa di frasi stereotipate pervase dalle sue emozioni. Secondo la moda del giorno, uscirà dalla sala delle trattative sostenendo che ciò che vuole è una nobile idea come la Giustizia, il Bene Comune, l’americanismo, il Socialismo. Con questi stimoli talvolta il cittadino comune può essere indotto alla paura o all’ammirazione, ma al giudizio mai. Prima che egli riesca ad affrontare in qualche modo la questione, si deve depurare quest’ultima di tutti gli elementi superflui. 3. Questo risultato può essere raggiunto qualora i rappresentanti discutano alla presenza di qualcuno, presidente o mediatore, che costringa la discussione ad affrontare le analisi fornite dagli esperti. Dev’essere questa l’organizzazione fondamentale di un organo rappresentativo che affronti questioni lontane. I portavoce delle parti interessate debbono esser 285 presenti, ma debbono trovarsi a confronto con persone, non personalmente coinvolte, che abbiano un sufficiente controllo dei dati di fatto, e possiedano l’abilità dialettica per distinguere ciò che è percezione reale da ciò che è stereotipo, schema e complicazione. È in fondo il dialogo socratico, compresa l’energia che Socrate impiegava per penetrare, attraverso le parole, sino ai significati; e anche qualcosa di più di questo, perché la dialettica nella vita moderna dev’essere esercitata da uomini che abbiano esplorato, oltre alla mente umana anche l’ambiente. Supponiamo, ad esempio, che ci sia una seria vertenza nell’industria dell’acciaio. Ciascuna delle parti pubblica un manifesto traboccante di altissimi ideali. In questa fase la sola opinione pubblica che meriti rispetto è l’opinione che sostiene la necessità che si aprano trattative. Non ci può essere molta simpatia per la parte la quale sostiene che la sua causa è troppo giusta per poterla contaminare con delle trattative, perché tra gli esseri umani non ci può essere una causa come questa. Forse quelli che si oppongono alle trattative non si esprimono proprio in questo modo. Forse dicono che la parte avversaria è troppo malvagia; non possono stringere la mano a dei traditori. Allora tutto quello che l’opinione pubblica può fare in questo caso è di organizzare un’udienza presieduta da pubbliche autorità per ascoltare le prove della malvagità. Non può prendere per buona la parola dei diretti interessati. Ma supponiamo che ci si accordi sull’opportunità di trattative, e supponiamo che ci sia un presidente neutrale, che abbia ai suoi ordini gli esperti consulenti dell’azienda, del sindacato, e, poniamo del Dipartimento del Lavoro. Il giudice Gary dichiara in tutta sincerità che i suoi operai sono ben pagati e non sfruttati, e poi passa a tracciare la storia della Russia dal tempo di Pietro il Grande all’assassinio dello zar. Il signor Foster s’alza, dichiara con altrettanta sincerità che gli operai sono sfruttati, e poi passa a tracciare la storia dell’emancipazione umana da Gesù Nazareno ad Abramo Lincoln. A questo punto il presidente chiede agli esperti le tabelle salariali, per poter sostituire alle parole «ben pagati» e «sfruttati» una tabella indicante le paghe delle diverse categorie. Pensa il giudice Gary che siano ben pagati? Lo pensa. Pensa il signor Foster che siano tutti sfruttati? No, pensa che i gruppi C, M e X siano sfruttati. Che cosa intende per sfruttati? Intende che non viene loro corrisposto un salario sufficiente per vivere. E invece il salario è sufficiente, dice il giudice Gary. Che cosa può comprare una persona con quel salario?, chiede il presidente. Nulla, dice il signor Foster. Tutto quello che gli serve, dice il giudice Gary. Il presidente consulta le statistiche dei bilanci familiari e dei prezzi redatte dal governo1. Decide che il gruppo X può far fronte a un bilancio medio, 286 ma che i gruppi C e M non possono. Il giudice Gary comunica che non considera esatte le statistiche ufficiali: i bilanci familiari sono troppo alti e in ogni caso i prezzi sono scesi. Anche il signor Foster comunica un’obiezione: il bilancio è troppo basso e i prezzi sono saliti. Il presidente decide che questo punto non rientra nella competenza della riunione in corso, che le cifre ufficiali restano valide, e che gli esperti del giudice Gary e del signor Foster dovranno far ricorso al comitato permanente degli uffici di ricerca confederati. E a parte tutto, dice il giudice Gary, se si modificano queste tabelle salariali noi saremo rovinati. Che cosa intende per rovinati?, chiede il presidente: esibisca i suoi libri mastri. Non posso, sono privati, dice il giudice Gary. Quello che è privato non ci interessa, replica il presidente; e perciò redige un comunicato per il pubblico in cui si afferma che i salari dei lavoratori dei gruppi C e M stanno di tanto e tanto al di sotto del minimo vitale ufficiale, e che il giudice Gary si rifiuta di aumentarli per ragioni che preferisce non comunicare. Dopo una procedura di questo tipo, si può avere un’opinione pubblica nel senso elogiativo del termine2. Il valore della mediazione dell’esperto non sta nel fatto che crea un’opinione per forzare le parti in causa, ma nel fatto che disintegra la partigianeria. Il giudice Gary e il signor Foster sono forse tanto poco persuasi quanto lo erano in partenza, sebbene anch’essi dovrebbero ormai esprimersi in un altro tono. Ma quasi tutti gli altri, che non erano personalmente coinvolti, si risparmierebbero di venire coinvolti loro malgrado. Infatti questo tipo di dialettica districa gli stereotipi e gli slogan intralciati e fuorvianti, a cui i loro riflessi sono così pronti a reagire. 4. In molte materie di grande importanza pubblica, e in gradi diversi tra persone diverse anche in materie più personali, i fili della memoria e del sentimento sono aggrovigliati. la stessa parola designa le idee più diverse: le emozioni vengono spostate dalle immagini a cui appartengono a nomi che somigliano ai nomi di quelle immagini. Nelle parti della mente in cui non opera il senso critico avvengono facilmente associazioni per semplice assonanza, contatto e successione. Ci sono attaccamenti emotivi liberi, ci sono parole che erano nomi e sono maschere. Nei sogni, nelle fantasticherie e nei momenti di panico scopriamo una dose di disordine sufficiente per comprendere come sia fatta la mente ingenua, e come si comporti quando non è disciplinata da uno sforzo cosciente e dalle resistenze esterne. Ci rendiamo conto che non c’è più ordine naturale di 287 quanto se ne possa trovare in una vecchia soffitta polverosa. C’è spesso la stessa incongruenza tra il fatto, l’idea e l’emozione, che ci potrebbe essere in un teatro lirico in cui tutti i costumi fossero stati gettati in un mucchio e tutti gli spartiti mischiati assieme, cosicché Madama Butterfly vestita da Valchiria stesse ad aspettare liricamente il ritorno di Faust. Nella stagione natalizia – dice un editoriale – vecchi ricordi inteneriscono il cuore, ci si sovviene di santi insegnamenti e la mente si volge all’infanzia. Il mondo non sembra così malvagio quando lo si vede attraverso il velo del ricordo felice e triste dei cari che hanno raggiunto Dio. Nessun cuore è restato insensibile a quella misteriosa influenza […]. Il paese è crivellato dalla propaganda rossa: ma abbiamo abbondanza di corda, muscoli e lampioni […] finché il mondo lo gira, lo spirito della libertà arderà nel petto dell’uomo. La persona che ha trovato nella sua mente queste frasi ha bisogno di assistenza. Ha bisogno di un Socrate che isoli le parole, lo interroghi finché egli non le abbia definite e rese nomi di idee; e non le abbia legate a un particolare oggetto e a nient’altro. Infatti queste sillabe piene di tensione si sono connesse nella sua mente per effetto di un’associazione primitiva, e sono tenute assieme dai ricordi del Natale, della sua indignazione di conservatore e dai suoi brividi di erede di una tradizione rivoluzionaria. A volte il groviglio è troppo grosso e antico per poter essere rapidamente districato. Altre volte, come nella moderna psicoterapia, ci sono vari strati di memoria che risalgono sino all’infanzia, e che debbono essere separati e identificati. L’effetto di indicare con nomi, l’effetto cioè di dire che i gruppi di operai C e M, ma non X, sono sottoretribuiti, invece di dire che i Lavoratori sono Sfruttati, è incisivo. Le percezioni recuperano la loro identità, e l’emozione che suscitano è specifica, non essendo più rinforzata da connessioni grossolane e casuali con tutto quanto, dal Natale a Mosca. L’idea isolata con un nome proprio è un’emozione che sia stata vagliata criticamente, è sempre molto più aperta alla possibilità di essere corretta da nuovi dati. Era affondata in tutta la personalità, aveva in qualche modo affiliazioni che coinvolgevano tutto l’io: una sfida suscitava reazioni in tutta l’anima. Ma dopo essere stata compiutamente criticata, l’idea non è più me, ma quella. È stata resa oggettiva, ed allora è tenuta a distanza. Il suo destino non è legato al mio, ma al destino del mondo esterno su cui io agisco. 5. 288 Una rieducazione di questo genere contribuirà a portare le nostre opinioni pubbliche a contatto con l’ambiente. È questo il modo per poter liquidare l’immane apparato di censura, di creazione di stereotipi e di drammatizzazione dei fatti oggi esistente. Quando non c’è difficoltà a conoscere qual è l’ambiente pertinente, il critico, l’insegnante, il medico possono sciogliere i nodi della mente. Ma quando l’ambiente riesce oscuro all’analista come lo è l’allievo, la tecnica analitica non è sufficiente. Si rende necessario il lavoro di ricerca e di documentazione. Per quanto riguarda i problemi politici e industriali, il critico come tale può fare qualche cosa, ma la sua dialettica non può andare molto lontano, se non è sicuro di poter ricevere dagli esperti un valido quadro dell’ambiente. Perciò, benché anche qui, come in quasi tutti i campi, l’«educazione» sia il rimedio supremo, il valore di questa educazione dipenderà dall’evoluzione della conoscenza. E la nostra conoscenza delle istituzioni umane è ancora straordinariamente scarsa e impressionistica. La raccolta dei dati sociali è nel complesso ancora occasionale; non è, come dovrà diventare, il normale accompagnamento dell’azione. E tuttavia la raccolta delle notizie non verrà fatta, si può star sicuri, in vista del suo impiego ultimo. Verrà fatta perché la decisione moderna richiede che sia fatta. Ma nel corso di questa raccolta si accumulerà un complesso di dati che la scienza politica può tradurre in generalizzazioni e ordinare a beneficio delle scuole in un quadro concettuale del mondo. Quando questo quadro prende forma, l’educazione civica può diventare una preparazione ad affrontare l’ambiente che non si vede. Quando l’insegnamento comincia ad avere a disposizione un modello operante del sistema sociale, può usarlo per rendere l’allievo adeguatamente consapevole del modo in cui la sua mente agisce di fronte ai fatti ignoti. In mancanza di questo modello l’insegnante non può sperare di preparare pienamente gli uomini al mondo in cui debbono vivere. Ciò che può fare è prepararli ad affrontare questo mondo con un atteggiamento molto più disincantato di fronte ai propri processi mentali. Con l’ausilio del metodo dei casi specifici, può insegnare all’allievo l’abitudine di esaminare le fonti della sua informazione. Può insegnargli, ad esempio, a fare attenzione al luogo di provenienza della notizia stampata nel suo giornale, al nome del corrispondente, al nome dell’agenzia di stampa, all’autorità a cui si appoggia la dichiarazione, alle circostanze in cui la dichiarazione è stata ottenuta. Può insegnare all’allievo a chiedersi se il cronista abbia descritto in passato altri avvenimenti. Può chiarirgli il carattere della censura, dell’idea di segretezza, e fornirgli notizie sulla propaganda precedente. Utilizzando opportunamente la storia, può 289 renderlo cosciente dello stereotipo, e può coltivare in lui l’abitudine all’introspezione riguardo alle immagini suscitate dalle parole stampate. Per mezzo di corsi di storia comparata e di antropologia, può dargli una consapevolezza permanente del modo in cui i codici impongono all’immaginazione uno stampo particolare. Può insegnare agli individui a cogliersi nell’atto di costruire allegorie, di drammatizzare rapporti e di personificare astrazioni. Può mostrare all’allievo in che modo egli si identifichi con queste allegorie, come arrivi a immedesimarvisi, e come scelga l’atteggiamento, eroico, romantico, economico, che adotterà nel sostenere una particolare opinione. Lo studio dell’errore non solo è straordinariamente profilattico, ma serve anche da stimolante introduzione allo studio della verità. A mano a mano che le nostre menti diventano sempre più consapevoli della loro soggettività, troviamo in esse un gusto del metodo obiettivo che altrimenti non ci sarebbe. Vediamo, con una chiarezza che normalmente non avremmo, l’enorme danno e l’irriflessiva crudeltà dei nostri pregiudizi. E la distruzione di un pregiudizio, anche se in un primo momento è dolorosa perché è legato al nostro orgoglio, dà un immenso sollievo e una sottile fierezza quando è compiuta. Si estende in modo radicale il campo dell’attenzione monolitica del mondo. La scienza diventa vivace e piena. Ne segue un forte incentivo a un sincero apprezzamento del metodo scientifico, che diversamente è difficile suscitare ed è impossibile mantenere. I pregiudizi sono molto più comodi e interessanti. Infatti se si insegnano i principi della scienza come se fossero stati sempre accettati, la loro principale virtù morale, che è l’obiettività, li renderà noiosi. Ma se li si insegna in un primo momento come vittorie sulle superstizioni della mente, la gioia della caccia e della conquista può servire a far superare all’allievo quella dura transizione dall’esperienza limitata di se stesso alla fase in cui la sua curiosità è diventata matura, e la sua ragione ha acquistato passione. 290 XXVIII. L’appello alla ragione 1. Ho scritto e scartato vari finali di questo libro. Ma su tutti incombeva quella fatalità dei capitoli conclusivi, in cui ciascuna idea sembra trovare il suo posto e tutti i misteri che lo scrittore non abbia dimenticato vengano svelati. Nella politica il protagonista non vive per sempre felice e contento, né conclude la sua esistenza in modo perfetto. Non c’è capitolo conclusivo, perché in politica il protagonista ha davanti a sé più futuro che non storia documentata dietro a sé. L’ultimo capitolo è semplicemente il punto in cui lo scrittore si immagina che il lettore educato abbia cominciato a dare sguardi furtivi all’orologio. 2. Quando Platone arrivò al punto in cui era il caso di tirare le somme, la sua sicurezza si tramutò in panico al pensiero di quanto sarebbe suonato assurdo ciò che egli sentiva riguardo al posto spettante alla ragione nella politica. Anche per Platone era difficile pronunciare quelle frasi del libro V della Repubblica: sono così assolute e austere che gli uomini non riescono né a dimenticarle né a vivere secondo il loro insegnamento. Così fa dire a Socrate, rivolto a Glaucone, che verrebbe accolto dalle più matte risate se dicesse qual è il minimo cambiamento perché uno stato passi alla forma più vera, perché il pensiero che avrebbe voluto pronunciare, se non fosse sembrato troppo stravagante era che «a meno che o i filosofi non regnino nelle città, o quelli che oggi han nome di re e di sovrani non prendano a nobilmente e acconciamente filosofare, e non vengano a coincidere la forza politica e la filosofia, e i vari tipi che ora tendono separatamente a un dei due campi non ne siano per forza esclusi […] non avran tregua alcuna dai mali le città, anzi credo neppure il genere umano»1. Aveva appena pronunciato queste terribili parole che si rese conto di aver pronunciato un invito alla perfezione, e si sentì imbarazzato per l’irraggiungibile grandezza della sua idea. Così si affretta ad aggiungere che, naturalmente, «il vero esperto pilotaggio» sarà chiamato «uno con la 291 testa per aria, un chiacchierone»2. Ma quest’amara ammissione, pur proteggendolo dall’equivalente greco dell’accusa di mancare di sense of humour, costituiva una coda umiliante a un pensiero solenne. Prende allora un tono di sfida e avverte Adeimanto che bisogna attribuire l’inutilità dei filosofi al difetto di «quelli che non sanno servirsi da loro, non già ai buoni. Non è infatti naturale che un pilota debba pregar lui i marinai di lasciarsi da lui comandare». E con questo gesto altezzoso raccolse in fretta gli strumenti della ragione e scomparve nell’Accademia, lasciando il mondo a Machiavelli. Così, nel primo grande scontro tra la ragione e la politica, la strategia della ragione fu di ritirarsi adirata. Ma intanto, come ci dice Platone, la nave è in mare. Ci sono state molte navi sul mare, dal tempo in cui Platone scriveva, e oggi, sciocco o saggio che sia questo atteggiamento, non potremmo più chiamare qualcuno vero pilota solo perché conosce il modo di occuparsi «dell’anno e delle stagioni, del cielo e degli astri, e dei venti e di ogni altra cosa che spetta alla sua arte»3. Non può trascurar nulla che serva a far salpare favorevolmente quella nave. Dal momento che ci sono a bordo degli ammutinati, non può dire: tanto peggio per noi tutti… non è nella natura delle cose che io debba sedare un ammutinamento… non è nella natura della filosofia che io debba contemplare l’ammutinamento… so navigare…non so far navigare una nave piena di marinai… e se non si rendono conto che sono io che devo guidare, non posso farci niente. Finiremo tutti contro gli scogli, loro in punizione dei loro peccati; io con la sicurezza che avevo ragione… 3. La difficoltà delineata in questa parabola ricorre ogni qualvolta in politica facciamo appello alla ragione. Infatti c’è una difficoltà intrinseca al fatto di usare il metodo della ragione per affrontare un mondo irrazionale. Anche se si assume con Platone che il vero pilota sa ciò che è meglio per la nave, bisogna tener presente che non è tanto facile riconoscerlo, e se questa incertezza fa sì che una gran parte della ciurma non si persuada. Per definizione la ciurma non sa quello che lui sa. E il pilota, affascinato dalle stelle e dai venti, non sa come persuadere la ciurma dell’importanza di quello che sa lui. Non c’è tempo durante l’ammutinamento in mare per far sì che ciascun marinaio diventi un esperto giudice di esperti. Al pilota manca il tempo per consultare la ciurma e scoprire se è davvero tanto saggio come crede di essere. Infatti l’educazione è questione di anni, l’emergenza di ore. Sarebbe quindi del 292 tutto accademico dire al pilota che il vero rimedio è, ad esempio, un’educazione che dia ai marinai criteri migliori per giudicare. Questo, si può dirlo solo ai capitani quando sono a terra. Nei momenti di crisi l’unico consiglio possibile è quello di usare un fucile o di fare un discorso, o di proclamare uno slogan emozionante, o di offrire un compromesso, cioè di impiegare tutti i mezzi disponibili per sedare l’ammutinamento, dal momento che i criteri di giudizio sono quelli che sono. Solo a terra, dove progettano molti viaggi, gli uomini possono – e debbono per la propria sicurezza – permettersi di occuparsi di quelle cause che richiedono molto tempo per essere eliminate. Si occuperanno di anni e di generazioni, e non soltanto di emergenze. E nulla metterà alla prova la loro saggezza quanto la necessità di distinguere le false crisi da quelle vere. Infatti, quando c’è un’atmosfera di panico, e le crisi si susseguono l’una all’altra, e i pericoli reali si mescolano ai timori immaginari, non c’è possibilità alcuna di usare in modo costruttivo la ragione e ben presto un qualsiasi ordine apparirà preferibile al disordine. È solo sulla base di una certa stabilità prolungata nel tempo che gli uomini possono sperare di seguire il metodo della ragione. Questo non perché gli uomini siano inetti, o perché l’appello alla ragione sia utopistico, ma perché l’evoluzione della ragione nel campo politico è ancora nella sua fase iniziale. Nella politica le nostre idee razionali sono ancora grosse e tenui generalità, di gran lunga troppo astratte e rozze per fornire una guida pratica, tranne quando gli aggregati siano abbastanza vasti da cancellare le peculiarità individuali e mostrare vaste uniformità. In politica la ragione è immatura soprattutto nel prevedere il comportamento dei singoli, perché nella condotta umana la più piccola variazione iniziale spesso si traduce nelle più complicate differenze. Forse è per questo che quando cerchiamo di insistere esclusivamente sull’appello alla ragione nell’affrontare situazioni improvvise, ci troviamo subissati dalle più matte risate. 4. Infatti il ritmo col quale la ragione che possediamo può avanzare è più lento del ritmo col quale si deve agire. Allo stato attuale della scienza politica accade che le situazioni si trasformino prima di essere chiaramente intese, per cui la maggior parte della critica politica è semplicemente retrospettiva. Sia nella scoperta dell’ignoto che nella comunicazione di ciò che è stato provato, c’è uno scarto di tempo che dovrebbe interessare il filosofo politico assai più di quanto l’abbia interessato finora. Abbiamo 293 cominciato, soprattutto grazie all’ispirazione di Graham Wallas, a esaminare l’effetto dell’ambiente invisibile sulle nostre opinioni. Non riusciamo ancora a capire, se non un po’ a occhio, l’elemento tempo nella politica, quantunque influisca in modo piuttosto decisivo sull’attuabilità di qualsiasi proposta costruttiva1. Ci rendiamo conto, ad esempio, che in qualche modo la pertinenza di un piano dipende dal tempo che l’operazione richiede. E questo perché dipenderà dal tempo se i dati che il piano accetta resteranno davvero gli stessi2. C’è qui un fattore che gli uomini realisti e ricchi di esperienza già tengono presente; un fattore che li distingue in qualche modo dagli opportunisti, dai visionari, dai filistei e dai pedanti3. Ma al presente non abbiamo cognizioni sistematiche sul modo preciso in cui il calcolo del tempo entra nella politica. In attesa di comprendere più chiaramente queste cose, possiamo almeno ricordarci che c’è un problema teoricamente arduo e pregno di conseguenze pratiche. Ci aiuterà a coltivare l’ideale di Platone, senza condividere la sua affrettata conclusione sulla perversità di coloro che non ascoltano ragione. In politica è difficile obbedire alla ragione, perché si cerca di far marciare assieme due processi che hanno ancora un’andatura e un ritmo diversi. Finché la ragione sarà sottile e volta al particolare, l’immediata lotta politica continuerà a esigere una dose di astuzia naturale, di forza e di fede indimostrabile quale la ragione non può né fornire né controllare, perché i fatti della vita sono troppo indifferenziati per i suoi poteri di comprensione. I metodi della scienza sociale sono così poco perfezionati che in molte delle decisioni gravi, e in moltissime di quelle minori, non esiste ancora altra scelta che quella di giocare con il destino secondo intuizione. Ma possiamo fare della fede nella ragione proprio una di queste intuizioni. Possiamo usare la nostra astuzia e la nostra forza per creare appigli alla ragione. Al di là delle nostre immagini del mondo, possiamo tentare di vedere il panorama meno contingente degli avvenimenti, e qualora sia possibile evadere dal presente che urge, possiamo tentare di inquadrare le nostre decisioni in questo tempo più lungo. E tuttavia, anche quando c’è questa volontà di tener conto del futuro, scopriamo regolarmente di non sapere con certezza come agire secondo i dettami della ragione. Il numero di problemi sui quali la ragione è preparata a imporsi è piccolo. 5. C’è tuttavia una nobile falsificazione in quell’amorevolezza che deriva 294 dalla conoscenza di sé, e una fede indiscutibile che nessun membro della nostra socievole specie è isolato nel suo anelito verso un mondo che gli sia più amico. Una parte così grande degli atteggiamenti che gli uomini prendono gli uni verso gli altri è legata al battito del loro polso, per cui non a tutti bisogna dare importanza. E con tanta incertezza, con tante azioni che vengono condotte sulla base di mere congetture, è già moltissimo quello che si richiede alla semplice correttezza degli individui, e si deve vivere come se bastasse la buona volontà. Non possiamo dimostrare sempre che di fatto basterà, né possiamo spiegare perché l’odio, l’intolleranza, il sospetto, il bigottismo, la segretezza, la paura e la menzogna siano i sette peccati mortali contro l’opinione pubblica. Possiamo solo affermare che non hanno posto nell’appello alla ragione, che alla lunga sono un veleno; e prendendo posizione secondo una visione del mondo che trascende la nostra situazione, e le nostre vite, possiamo coltivare un vigoroso pregiudizio contro di loro. Possiamo riuscirci tanto meglio se non ci lasceremo impressionare dal terrorismo e dal fanatismo al punto di scrollare le spalle infastiditi e di perdere interesse per gli avvenimenti a lunga scadenza, avendo perduto la fede nel futuro dell’uomo. Questa disperazione non è giustificata, perché tutti i se a cui, come diceva James, è appeso il nostro destino, sono ricchi di possibilità, come sempre. Abbiamo visto quel che abbiamo visto di brutalità, e poiché era eccezionale non è stata conclusiva. Si trattava solo di Berlino, Mosca, Versailles dal 1914 al 1919, e non, come abbiamo detto retoricamente di Armageddon. Quanto più realisticamente gli uomini hanno affrontato la brutalità e l’isterismo, tanto più hanno guadagnato il diritto di dire che non è sciocco per gli uomini, per il fatto che un’altra grande guerra ha avuto luogo, credere che l’intelligenza, il coraggio e l’impegno non potranno mai assicurare una vita decente a tutti gli uomini. L’orrore, per quanto grande, non è stato universale. Ci sono stati i corrotti e ci sono stati gli incorruttibili. Ci sono state allucinazioni e ci sono stati miracoli. Si sono dette enormi menzogne; ma ci sono stati uomini decisi a smascherarle. È uno stato d’animo, e non un giudizio, l’affermare che ciò che è vero di alcuni non possa esser vero di un numero maggiore o sufficiente di uomini. Si può disperare di quello che non è mai stato; si può disperare di poter avere tre teste, benché Shaw si sia rifiutato di disperare anche di questo. Ma non si può disperare delle possibilità che potrebbero esistere grazie ad una qualsiasi delle qualità umane già manifestate da esseri umani. E se in mezzo a tutti i mali di questo decennio non abbiamo visto uomini e donne, né conosciuto momenti che vorremmo veder moltiplicati, nemmeno il Signore ci può aiutare. 295 Wading River, Long Island, 1921. Cfr. C. E. Merriam, The Present State of the Study of Politics, in «American Political Science Review», 15, 2, maggio 1921. 1 Cfr. il discorso tenuto il 28 dicembre 1920 dal presidente dell’American Philosophical Association, Ralph Barton Perry. È stato pubblicato negli atti del ventesimo Congresso annuale. 2 Negli Stati Uniti il numero di questi organi è grandissimo. Alcuni sono vitali, altri sono mezzi morti. La loro situazione muta rapidamente. Gli elenchi di cui sono in possesso, fornitimi da varie fonti, ne comprendono varie centinaia. 1 Cfr. cap. XII. 2 Adopero l’espressione non solo nel suo significato tecnico, ma per indicare qualsiasi sistema per la misurazione comparata dei fenomeni sociali. 3 Si veda, ad esempio, L. P. Ayres, An Index Number for State School Systems, Russell Sage Foundation, New York 1920. Il principio della quota è stato applicato con molto successo nelle campagne per le vendite dei buoni del Tesoro durante la guerra, e in circostanze molto più difficili dal Consiglio alleato per i trasporti marittimi. 1 C’è stato un grandissimo sviluppo di questi servizi tra associazioni imprenditoriali. Le possibilità di un impiego scorretto di questi servizi sono state rivelate nel 1921 dall’inchiesta sull’industria edilizia di New York. 1 «The Reorganization of Local Government», in A Constitution for the Socialist Commonwealth of Great Britain cit., cap. IV. 1 Cfr. Laski, The Foundation of Sovereignty cit. Si veda soprattutto il saggio che dà il titolo al libro, nonché quelli sui problemi delle circoscrizioni amministrative, sulla teoria della sovranità popolare e sullo stato pluralista. 1 Bryce, Modern Democracies cit., I, p. 159. 2 Ibid., p. 158, nota a piè di pagina. 1 Cfr. cap. XX. 1 Cfr. l’articolo di Leo Wolman, The Cost of Living and Wage Cuts, in «New Republic» del 27 luglio 1921, in cui è svolta una brillante critica dell’uso ingenuo di tali cifre e «pseudo-princìpi». L’ammonimento è di particolare importanza, perché viene da un economista e statistico che ha fatto molto per conto suo al fine di migliorare la tecnica delle controversie industriali. 2 Nell’accezione usata da Lowell nel suo Public Opinion and Popular Government cit. 7 1 Platone, La Repubblica, l. V, trad. it. di F. Gabrieli, Rizzoli, Milano 1993 , p. 194. 2 Ibid., l. VI, trad. it. cit., p. 211. 3 Ibid. 1 Cfr. H. G. Wells nei primi capitoli di Mankind in the Making, C. Scribner’s son, New York 1904. 2 Quanto meglio si condurrà l’analisi del presente nell’attività di ricerca delle varie istituzioni, tanto meno probabile sarà la prospettiva che gli uomini affrontino i problemi del presente alla luce dei fatti del passato. 3 Non tutte, ma alcune delle differenze tra reazionari, conservatori, liberali ed estremisti si debbono, io credo, a una diversa valutazione intuitiva del ritmo della 1 296 trasformazione sociale. 297 Indice Trama Biografia 3 4 Frontespizio Copyright Indice Prefazione di Nicola Tranfaglia Dedica I. Introduzione I. Il mondo esterno e le immagini che ce ne facciamo II. Accessi al mondo esterno 6 7 8 10 24 26 27 46 II. La censura e la segretezza III. Il contatto e la possibilità IV. Il tempo e l’attenzione V. La velocità, le parole e la chiarezza III. Gli stereotipi 47 54 62 67 77 VI. Gli stereotipi VII. Gli stereotipi come difesa VIII. I punti ciechi e il loro valore IX. I codici e i loro nemici X. La scoperta degli stereotipi IV. Gli interessi 78 88 94 101 111 131 XI. Suscitare l’interesse XII. L’interesse personale riconsiderato V. La formazione di una volontà comune 132 139 153 XIII. Il trasferimento dell’interesse XIV. Sì o no XV. I capi e i seguaci 154 171 180 VI. L’immagine della democrazia 191 XVI. L’uomo egocentrico XVII. La comunità autosufficiente 192 198 298 XVIII. Il ruolo della forza, del favoritismo e del privilegio XIX. La vecchia immagine in una forma nuova: il socialismo corporativo XX. Una nuova immagine VII. I giornali 206 217 227 232 XXI. Il pubblico come consumatore XXII. Il fedele lettore XXIII. La natura delle notizie XXIV. Le notizie, la verità e una conclusione VIII. L’informazione organizzata XXV. Il cuneo iniziale XXVI. Il lavoro d’informazione XXVII. L’appello al pubblico XXVIII. L’appello alla ragione 233 239 245 257 264 265 271 283 291 299