età Flavia Quintiliano Marco Fabio Quintiliano nasce ipoteticamente tra il 35 e il 40 d.C. a Calagurris, nella Spagna Taragonese. In giovane età viene condotto dal padre, professore di retorica, a Roma dove studia presso i più illustri maestri dell’epoca. Nel 60 fa ritorno in patria dove svolge la professione di retore. Nel 68 l’acclamato imperatore Galba lo vuole con sé prima di partire alla volta dell’Italia. Dieci anni più tardi, Vespasiano gli affidò la prima cattedra pubblica di retorica. A Roma ebbe grande influenza culturale: fra i suoi allievi Plinio Il Giovane e forse lo stesso Tacito. Morì entro il 100 d.C. Agli ultimi anni di vita appartiene la composizione dell’opera per la quale resta ancor oggi famoso, Institutio oratoria, un trattato retorico in dodici libri pubblicato nel 96. La retorica, nell’ordinamento romano degli studi, il punto più alto e conclusivo del curriculum scolastico. Dopo aver studiato presso un litterator e un grammaticus, verso i diciassette anni lo studente veniva affidato al rhetor, presso il quale si esercitava, mediante la pratica delle suasoriae e delle controversiae, a divenire un buon oratore. In questo trattato vengono dati quelli che sono i precetti per educare l’oratore fin dalla sua prima infanzia. I due libri d’aperura sono di indirizzo pedagogico e affrontano la prima educazione del futuro oratore, a partire dall’uscita dall’infanzia. Quindi si va dalla scelta della scuola, alle metodologie di insegnamento, alle materie da affrontare (libri I-II). Nei libri successivi, Quintiliano analizza una per una le cinque parti convenzionali della retorica antica: l’inventio, cioè la ricerca degli argomenti più appropriati alla tesi che si vuole sostenere, cui si affiancano le tecniche per argomentare e perorare le proprie idee (libri IV-VI); la dispositio, ovvero l’organizzazione delle idee e dei concetti in uno schema ordinato e coerente (libro VII); l’elocutio, cioè l’elaborazione stilistica del proprio discorso con l’uso di adeguate tecniche retoriche, che si distinguono in figure di pensiero e figure di parola (libri VIII-IX). Qui Quintiliano apre un’importante parentesi sulle letture utili all’oratore per guadagnarsi la facilitas, ovvero l’elasticità e la scioltezza dell’espressione, utili per abbellire la propria espressione e conquistare il giudizio positivo del pubblico. All’interno del decimo libro, in particolare, individua in Virgilio e Cicerone i vertici della poesia e della prosa latine. Dopo questo excursus, Quintiliano riprende la trattazione della retorica, illustrando le tecniche per memorizzare e recitare in pubblico il proprio discorso, cioè la memoria e l’actio (libro XI). L’ultimo libro, affrontando la questione stilistica dell’oratoria e i livelli di stile principali (alto, medio e umile a seconda dell’argomento e del contesto), delinea la figura del buon oratore secondo Quintiliano. Quest’ultimo non sarà solo chi padroneggerà al meglio la tecnica, ma anche colui che fonderà le sue qualità discorsive sull’eccellenza morale della propria condotta di vita e sulla propria formazione culturale d’alto livello. L’Institutio oratoria si fonda sulla convinzione che il restauro della perduta moralità pubblica non possa passare che dalla formazione del buon cittadino e del buon oratore. La riforma del sistema educativo, per Quintiliano, deve quindi estendersi anche al di fuori delle mura scolastiche. Molto importante poi è che i genitori stessi siano di esempio morale al giovane, proprio perché vita pubblica e vita privata sono strettamente connesse nelle dinamiche dell’apprendimento. L’insegnante, dal canto suo, non deve fare attenzione solo al lato didattico della formazione, ma deve essere attento al carattere dello studente e ad aiutarlo a sviluppare la propria intelligenza e le proprie attitudini specifiche, privilegiando, quando è il caso, lo spazio del gioco ed evitando il ricorso alle punizioni corporali. Molto importante anche l’aspetto della socialità e del confronto con gli altri: per questo Quintiliano predilige la scuola pubblica rispetto alla figura di un istitutore privato. La formazione del buon oratore si basa così su modelli letterario-morali: quando nel decimo libro dell’Institutio oratoria Quintiliano propone dei modelli letterari da seguire, sottolineando pregi e difetti di ciascuno, egli si premura anche di ricordare il precetto dell’aemulatio, per cui l’ispirazione alle opere di un autore famoso non deve limitarsi all’imitazione pura e semplice, ma implica piuttosto entrare in competizione con il proprio termine di confronto, da rielaborare e fare proprio con consapevolezza critica. Il panorama culturale entro cui spazia l’analisi di Quintiliano è davvero ampio, sia perché a Quintiliano interessa che il buon oratore abbia una formazione a tutto tondo sia perché ciò gli permette di sottolineare il primato della retorica (rispetto alla filosofia) nella formazione del cittadino ideale. L’obiettivo è quello di incanalare i lettori verso un modello stilisticamente equilibrato e distante dagli eccessi, modellato sulle opere retoriche di Cicerone, contrapponendosi allo stile spezzato e percepito come eccessivamente “moderno” di Seneca. Stazio Publio Papinio Stazio nacque a Napoli tra il 40 e il 50 d.C. Figlio di un maestro di letteratura, prima del 69 si trasferisca a Roma con il padre. D’ingegno precoce, partecipò con successo a importanti gare poetiche, fu apprezzato nell’alta società della capitale ed ebbe il favore dell’imperatore. Intorno al 95 fece ritorno a Napoli. Stazio scrive la Tebaide, probabilmente tra l’80 e il 92, nella quale racconta in 12 libri la celebre vicenda dell’assedio di Tebe, un episodio della più vasta saga tebana che vede coinvolti in una maledizione tutti i discendenti di Edipo. Fonti di Stazio sicuramente le tragedie che trattano della stessa vicenda, Ma probabilmente anche altri poemi epici andati perduti. L’opera è suddivisa in due parti, sul modello dell’Eneide: nella prima sono narrati i preparativi della guerra; nella seconda è rappresentata la guerra stessa. Ma rispetto all’intento celebrativo di Virgilio con l’Eneide, la Tebaide proietta sullo sfondo mitico dell’odio fratricida, il tema della guerra civile come evento in cui trionfa il male. È evidente l’influenza della Pharsalia di Lucano. Nel proemio si ha già l’impressione di un mondo dominato da una forza maligna, da un Fatum che opprime gli uomini e scatena in loro il desiderio di sangue, una visione ben diversa da quella prospettata nel poema virgiliano. Si delinea inoltre una critica del potere riconducibile alla situazione di Roma durante il governo neroniano. Tutta l’opera è racchiusa all’interno di una climax tragica interrotta dall’ultimo libro di carattere positivo ed è sicuramente ispirata al Seneca tragico e alla Pharsalia. Valerio Flacco Gaio Valerio Flacco è autore dell’Argonautica, opera che narra le vicende degli Argonauti, i primi a solcare i mari a bordo della nave Argo. Il precedente letterario più illustre è il poema ellenistico di Appollonio Rodio, ma il mito degli argonauti è molto più antico, ne parlano infatti anche Omero e Pindaro. La narrazione di Valerio Flacco, in otto libri, comincia con la costruzione della nave Argo e il convegno degli eroi che parteciperanno al viaggio. Prima è la parola-chiave del poema, la prima nave a solcare i mari che rappresenta un sovvertimento dell’ordine naturale. Fin dall’inizio il modello virgiliano funge da strumento di romanizzazione di un mito estraneo alla storia di Roma. Flacco riplasma il protagonista Giasone sul modello di Enea e la figura di Medea è essenziale per la riuscita dell’impresa, contrapposta a quella di Didone che rappresenta un indugio. Un tema presente in Flacco, che assume assoluto rilievo in Stazio, è la problematizzazione della volontà degli dei. C’è un Fatum che accieca gli uomini e li induce agli atti più terribili. Valerio, a differenza di Stazio, ha comunque fiducia nel progresso del mondo e nelle possibilità conoscitive dell’uomo. Silio Italico Silio Italico è l’autore dei Punica, scritte a partire dall’88 circa. Il poema di Silio è di soggetto storico e tratta della seconda guerra punica. L’opera comprende 17 libri, in cui è stata vista la realizzazione imperfetta di un progetto originario di 18 libri. Fonte storiografica di Silio è Tito Livio, ma egli si rifà anche all’Eneide virgiliana. La caratteristica stoica del poema è invece di ispirazione lucanea e la presenza di un anti-enea, Annibale. Marziale Marco Valerio Marziale nasce a Bilbili, nella Spagna Tarraconese, tra il 38 e il 40. Nel 64 si trasferisce a Roma. Dopo aver perso i suoi protettori, Seneca e Lucano, nel 65, inizia la vita precaria del cliente. Solo nell’80 raggiunge una certa notorietà come scrittore e Tito lo benefica concedendogli il ius trium liberorum, il privilegio concesso ai padri di almeno tre figli. Ammesso al rango equestre, stringe rapporti con personalità rilevanti che favoriscono il miglioramento del suo livello di vita. Nel 98 torna a Bilbili grazie all’aiuto economico di Plinio il Giovane. Di Marziale ci sono giunti 15 libri di epigrammi. Il Liber de spectaculis fu pubblicato nell’80, durante gli spettacoli organizzati dall’imperatore Tito per l’inaugurazione dell’anfiteatro Flavio. Durante i Saturnali dell’84 e dell’85 furono pubblicati gli Xenia e gli Apophoreta, due libri che portano entrambi titoli greci: xenia significa doni ospitali, quelli che venivano inviati agli amici durante i giorni dei Saturnalia, accompagnati da un bigliettino augurale; apophoreta erano invece i doni estratti a sorte e offerti durante il banchetto agli invitati, doni che venivano poi portati a casa. Gli Xenia comprendono 127 epigrammi: i doni a cui i bigliettini fanno riferimento sono cibi e bevande od oggetti associati al convito. Gli apophoreta comprendono 223 epigrammi: i doni a cui fanno riferimento sono più vari e preziosi. In queste opere Marziale rivela la sua originale attenzione per il mondo concreto e lussureggiante degli oggetti, la ricerca della battuta scherzosa, l’inesauribile ricchezza dell’invenzione linguistica, il gusto del catalogo. I primi undici libri degli Epigrammata furono pubblicati uno all’anno dall’86 al 96. La materia comprende carmi di vario genere. Quasi tutti i libri si aprono con un testo di tono proemiale. I singoli epigrammi sono ordinati in ordine casuale, per dare sensazione di naturalezza e evitare la monotonia. Marziale afferma di voler ritrarre la vita così com’è: uomini di tutti i giorni e situazioni abituali. I suoi obiettivi polemici sono chiari e precisi: l’epos mitologico e la tragedia, generi dai quali la sua poesia si allontana per la forma, per il linguaggio, per i contenuti. Marziale sente ormai la mitologia come pura evasione, qualcosa che gli uomini del suo tempo non riescono più a riconoscersi. Il suo intento è ritrarre la realtà nelle sue molteplici prospettive. Giovenale Scrisse le Satire tra il 100 e il 127. I componimenti sono in tutto sedici, distribuiti in cinque libri. Giovenale chiarisce fin da subito i motivi per i quali si è risolto a scrivere poesia satirica: come grido di rivolta contro le recitationes di poeti epici, drammatici e elegiaci su soggetti lontanissimi dalla realtà, intrisi di logora mitologia. Il poeta assume il modello di Lucillio e presenta la sua opera come una sorta di rivincita. Il topos satirico dell’inadeguatezza dell’ispirazione per i generi poetici alti viene trasformato in un’orgogliosa rivendicazione della necessità morale della poesia satirica. L’indignatio è una fonte di ispirazione la cui potenza può sopperire all’insufficienza del talento. Il poeta non si presenta nella sua veste autobiografica, ma come anonimo romano, difensore della sensibilità morale offesa. Giovenale seleziona soltanto la parte negativa della realtà, presentandola come oggettivamente e assolutamente dominante nei tempi attuali. All’interno di ogni satira, accanto all’argomento principale, compaiono temi e motivi ricorrenti. Un primo tema è il contrasto tra realtà e apparenza, un altro è l’odio contro i Greci, che si fonda in buona parte sulla loro pretesa capacità di fingere, di travestirsi. Un altro tema ricorrente l’individuazione nelle divitiae della radice di tutti i mali. Roma è diventata la sede del lusso e della depravazione. La società romana è degenerata nel tempo, l’intero genere umano è afflitto da un’irrimediabile tendenza al declino morale.