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Riassunto Atlante della Letteratura

Atlante della letteratura italiana
A cura di Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà
Volume terzo
Dal Romanticismo ad oggi
L’età di Torino
1813-1861
Durante l’età della Restaurazione, tutto quanto avviene di culturalmente
significativo nella penisola italiana sembra succedere a Milano, o sembra
comunque partire da lì. Dalla Milano in cui una donna straniera, Madame de
Stael, innesca la miccia di un confronto esplosivo tra classici e romantici. Dalla
Milano dove un patriota piemontese, Silvio Pellico, inaugura un’esperienza di
prigioniero che finirà per costare all’Austria più di una battaglia perduta, ma
anche per consegnare all’Italia un genere letterario poco invidiabile, le scritture
dal carcere. Dalla Milano dove una contessina disinvolta, Clara Maffei, fa
salotto con una libertà di movimento delle persone e delle idee che diventa
volontà di cambiamento delle cose.
È a Milano che il genere del romanzo storico partorisce, fra un’imitazione e
l’altra di Walter Scott, I promessi sposi di Manzoni. È a Milano che il Teatro
alla scala sperimenta forme inedite di consumo borghese di una vecchia
passione della sociabilità nobiliare, il melodramma; nella geopolitica della
cultura italiana, l’ex capitale del regno napoleonico sembra dunque rimanere tale
anche dopo il congresso di Vienna, nonostante la Restaurazione assuma nel
Lombardo-Veneto i tratti di un’occupazione militare. La Milano degli anni
venti, e poi trenta e quaranta sembra un passaggio obbligato per scrittori, poeti,
gazzettieri, librettisti, poligrafi.
Nel Quarantotto invece, in seguito ai moti mazziniani, cominciò un’altra storia e
Torino divenne capitale in pectore sia in termini politico-diplomatici, sia in
termini culturali. Il mantenimento dello Statuto albertino fece del regno di
Sardegna l’unico stato della penisola organizzato secondo principi liberali,
seppure entro i limiti di un sistema elettorale censitario. Di lì a poco la comunità
ebraica di Torino si sentirà a tal punto integrata al suo territorio da far progettare
niente meno che la Mole antonelliana. La dinamica storica che rese gli anni
cinquanta dell’Ottocento un decennio di preparazione all’Unità, e rese la Torino
di Vittorio Emanuele II capitale virtuale di quell’Italia imminente, era stata
inaugurata in anticipo sull’estemporaneo fiorire di una primavera dei popoli.
SERGIO LUZZATTO
Milano, gennaio 1816
Povera Italia
Nel gennaio 1816 sulla “Biblioteca italiana”, giornale di letteratura, scienze e
arte compilato da una società di letterati, esce l’articolo di Madame de Stael,
celebrità conosciuta in tutta Europa, che innesca il dibattito tra classici e
romantici. La portata dell’articolo, che s’intitolava Sulla maniera e la utilità
delle traduzioni, è deducibile da alcune parole chiave delle sue argomentazioni:
ripetizione si legga come sinonimo di imitazione, in evidente polemica con i
cascami del classicismo; all’opposto la virtù originale della fantasia, mito
fondante del romanticismo; il prezzo che si paga deprimendo la seconda a favore
della prima è presto detto: povertà, sterilità, ovvero decadenza mentre le parole
magiche per salvarsi sono poesia e nazione, divulgate attraverso la traduzione.
Nello stesso anno Pietro Giordani replica in forma anonima con l’articolo Un
italiano risponde al discorso della Stael. Prima dell’articolo dell’ articolo della
“pitonessa”, così veniva definita Madame de Stael sulla rivista “Lo Spettatore”,
si poteva leggere un Proemio non firmato, ma scritto da Giordani, che iniziava
col classico luogo comune della funesta bulimia di periodici, nel 1816 gli
associati alla “Biblioteca italiana” erano 1596, tra questi figurava il conte
Monaldo Leopardi di Recanati e il libraio Antonio Fortunato Stella e il
diciottenne figlio di Monaldo , Giacomo, destinato a diventare in seguito
collaboratore di Stella, nonché a pubblicare presso di lui nel 1827 le Operette
Morali. L’Iliade di Fiocchi, edita da Sonzogno, era uno dei 240 libri stampati
nel corso del 1816 a Milano, indiscussa capitale editoriale d’Italia. In quell’anno
la fiorente industria tipografica milanese proponeva le poesie dialettali di del
giovane Tommaso Grossi e quelle seicentesche di Carlo Maria Maggi, oltre alle
ristampe del Giorno e delle Odi di Parini.
Questo il clima politico e culturale che vide il ritorno di Madame de Stael in
Italia, a dieci anni di distanza dal suo primo viaggio nella penisola, avvenuto tra
il 1804 e il 1805. Allora si era trattato di un vero e proprio Grand Tour, che le
era valso la conoscenza dei maggiori intellettuali italiani, in particolare di
Vincenzo Monti, nonché la nomina in pompa magna a pastorella dell’Arcadia,
con il patrocinio di Alessandro Verri. Il secondo soggiorno della baronessa,
avvenuto a cavallo tra il 1815 e il 1816, fu invece speso in prevalenza a Pisa,
non prima però di aver fatto tappa a Milano, dove l’accolsero il generale
H.J.J.Bellegarde, conosciuto a Vienna, e il governatore della città, il conte Franz
Joseph Graf von Sarau, vale a dire i due principali promotori della Biblioteca
Italiana.
FRANCESCA SERRA
La polemica classico-romantica in Italia
Nel gennaio del 1816, il primo fascicolo della “Biblioteca italiana” accoglie in
traduzione lo scritto De l’esprit des traductiond Madame de Stael. La scrittrice
francese constata la chiusura che caratterizza il mondo letterario italiano, afflitto
da un progressivo inaridirsi dell’ispirazione poetica e da un conseguente
decadimento delle forme.
Quelli che poco più tardi un Pietro Borsieri perplesso rimarcherà essere semplici
suggerimenti vengono immediatamente percepiti – spesso equivocando, e a
volte distorcendo a bella posta le parole di Madame de Stael- come un
intollerabile attentato alla gloriosa tradizione letteraria italiana.
La risposta dell’ambiente classicista è quindi immediata e piccatissima, condotta
spesso sui temi del risentimento e dell’attacco personale nei confronti della
“vecchia pitonessa”, rea di leso orgoglio nazionale. Giova ben poco a
raffreddare gli animi la controreplica di M. de Stael in cui si specifica che
l’esortazione era a conoscere le moderne letterature straniere, non a imitarle, e a
svincolarsi dagli stereotipi della mitologia antica, non a rinnegare i classici. La
polemica ormai si è accesa e divampa nella Milano della Restaurazione.
Il primo a scendere in campo in difesa del fronte romantico è Ludovico di
Breme, il cui entusiasmo per le idee di Madame de Stael viene rinsaldato da una
conoscenza de visu avvenuta a Milano in occasione del secondo tour italico
della baronessa. Con lo scritto Intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari
italiani, da considerarsi il primo manifesto della nuova scuola romantica in
Italia, Breme indirizza la denuncia dello stagnante panorama culturale italiano
contemporaneo, chiuso in una cappa asfittica di minuzie erudite e priva di un
qualunque “sincero fervore del bello”, verso un fecondo tentativo di
convergenza fra il patrimonio ideologico-culturale settecentesco e sub alpino
che gli è proprio, di sostanziale ispirazione illuministica e le sollecitazioni di
marca idealistica provenienti dalla moderna cultura europea. Il nucleo sintetico
che se ne ricava è un’esaltazione della coscienza individuale come presupposto
di ogni libera e spontanea attività ricreativa.
Una pubblica presa di posizione altrettanto radicale è quella di Borsieri. Nelle
Avventure, concettualmente uno dei più significativi e originali manifesti del
romanticismo italiano, oltre che una narrazione briosa e godibilissima, si
rintracciano molti dei leitmotiv che saranno più spesso riutilizzati nel corso del
confronto polemico.
A chiudere la serie di interventi direttamente rivolti all’articolo staeliano, la
celebre Lettera semiseria di Giovanni Berchet. Alla sua uscita, sul finire del
1816, il pamphlet non suscita molto scalpore, ma a lungo termine avrà una
straordinaria risonanza. Punti focali del codice romantico di Berchet sono:
l’individuazione del quid espressivo della vera poesia in una permanente
esigenza di contemporaneità, che comporta la scelta di temi attuali, attinenti alla
storia in fieri, e per converso l’abbandono del repertorio mitologico grecoromano.
L’articolo di Madame de Stael non resta un casus belli isolato. Infatti se il 1816
segna anagraficamente la nascita della polemica romantica, il 1818 rappresenta
la punta emergente della contestazione. La reviscenza della polemica parte dalla
stroncatura di Giuseppe Acerbi sulla “Biblioteca italiana”, alla quale Breme
risponde dalle colonne dello “Spettatore” con le Osservazioni.
Le Osservazioni di Breme colpiscono anche l’attenzione di un giovanissimo
Leopardi, il quale, nello Zibaldone, vi ravvisa una serie di ragionamenti che
“può imbrogliare o inquietare”. Tipico del complesso gioco di azione e reazione
innescato dai vari interventi è il concrescere di nuovi episodi polemici su nuclei
tematici precedenti. Dimostrare l’inconsistente alterità dei canoni della nuova
poetica rispetto alle linee di sviluppo della tradizione italiana, con dilatazione
del romanticismo sino a farne una categoria extrastorica, diventa quindi la via
più battuta dai mediatori, classicisti e romantici.
Come si è visto il veicolo privilegiato della discussione è costituito dalle riviste
e dai giornali, soprattutto perché la loro cadenza serrata e regolare,
assecondando il rapido contrappuntarsi degli interventi polemici, impedisce che
le questioni poste sul tavolo del dibattito si raffreddino. Riviste, dunque, e per
l’esattezza riviste milanesi. Se è vero che il romanticismo italiano si presenta
come “fenomeno tipicamente piemontese e lombardo”, la querelle coinvolge
soprattutto piemontesi trapiantati a Milano, milanesi e lombardi che ruotano
attorno al capoluogo.
MARCELLO RAVESI
Milano, 13 ottobre 1820
Scritture dal carcere
Se Le mie prigioni è un testo famoso per il suo rifiuto della politica in favore
della storia un po’monotona di un’anima incarcerata, il retroterra è una tipica
biografia romantica in cui gli interessi politici si fondono con quelli artistici e
con quelli amorosi. E in quell’anno 1820, in realtà, la politica non era stato
l’unico interesse dell’autore. Prima del suo arresto Silvio Pellico era vissuto in
una Milano sthendaliana. Il 1820 era stato un anno cruciale e movimentato nella
sua vita.
Resta il fatto che pur deludendo molte aspettative, Le mie prigioni riscossero un
successo immediato. Il testo fu messo all’Indice solo quando stampato insieme
alle Addizioni (1833) di Maroncelli: uno scritto che aveva principalmente il torto
di denunciare il ruolo di Stefano Paulovich, prete istriano che allo Spielberg si
incaricava non soltanto della cura spirituale, quanto gli interrogatori mascherati
da confessioni. Di fatto agli occhi dei posteri, ma anche dei contemporanei, è
come se la fase rilevante della vita di Pellico si fosse chiusa con l’uscita dallo
Spielberg e con la poco successiva pubblicazione delle Mie prigioni. Entrato in
carcere a trentun anni e uscitone a quarantuno, Pellico avrebbe passato i
successivi ventiquattro anni di vita in una posizione di osservatore partecipe ma
serenamente distaccato. Fra le altre numerose testimonianze della carcerazione
in quella fortezza asburgica possiamo ricordare le già citate Addizioni di
Maroncelli, le Memorie di Confalonieri (scritte in realtà prima de Le mie
prigioni), Spielberg e Gradisca del nobile milanese Giorgio Pallavicini,
l’Autobiografia di Gabriele Rosa, un membro della Giovine Italia. Anche le
memorie dal carcere di altri prigionieri politici italiani dell’Ottocento risentono
spesso del modello Pellico, assurto a pietra di paragone. Per esempio due
testimonianze di detenzioni papali lo riecheggiano fin dal titolo: La mia pazzia
di Angelo Frignani e La mia prigionia di Giuseppe Galletti. Ben più famosi sono
altri tesi dalla fisionomia più indipendente: il Manoscritto di un prigioniero di
Carlo Bini, imprigionato a Forte della Stella sull’isola d’Elba e le Ricordanze
della mia vita di Luigi Settembrini.
Se si passa a considerare la ricezione delle Mie prigioni da una prospettiva
europea, e quindi meno legata alle vicende interne del nostro Risorgimento, ci si
accorge che l’accoglienza del libro fu ancora più trionfale: le Mie prigioni fu il
libro italiano di maggior successo dell’Ottocento, e tuttora il più tradotto dopo
l’irraggiungibile Pinocchio. Nel folto di questa fioritura un po’disordinata di
scritture diaristiche e testi di memoria, Le mie prigioni inaugurano un
sottogruppo di ricordi e diari di prigionia che si presentavano in primo luogo
come testimonianze personali, non come dialoghi filosofici o come testi che
cercavano un effetto di realtà soltanto per preparare al meglio un’unica azione
significativa che solitamente è la fuga. Il culto romantico per l’autobiografia e
per i grandi scrittori fa nascere un’insoddisfazione verso i grandi del passato che
non avevano saputo cogliere l’occasione di lasciare ai posteri i loro diari di
reclusioni.
PAOLO ZANOTTI
I luoghi della cultura nella Milano della Restaurazione
La vita culturale nella Milano della Restaurazione si gioca in uno spazio ristretto
, racchiuso entro le cinta delle mura ma soprattutto concentrato nelle piazze e
nelle strade attorno al duomo, nel reticolo disteso tra il Teatro la Scala e il
Palazzo di Brera. È qui che dimorano, a distanza di poche decine di metri l’uno
dall’altro, le figure più significative della stagione romantica, da Luigi Porro
Lambertenghi a Federico Confalonieri, i cui palazzi sono uno di fianco all’altro,
da Silvio Pellico a Giovanni Berchet, da Carlo Porta a Vincenzo Monti. Proprio
nel cuore di questo spicchio di centro cittadino si colloca inoltre, in via del
Morone, a due passi dal teatro La Scala e da quello dei Filodrammatici, la casa
di Alessandro Manzoni: verso la quale quasi quotidianamente giunge Tommaso
Grossi, autore del Marco Visconti e notaio di fiducia del bel mondo milanese.
Lungo l’intero quindicennio che prelude al Quarantotto , quando non si spinge
fino a casa Manzoni Grossi è solito fermarsi qualche portone prima, in piazza
Belgioioso presso casa Maffei, dove la contessa Clara apre il suo salotto quasi
ogni sera. Esiste quindi una rete di contatti e iniziative facente capo ad
un’industria editoriale la cui vivacità rende Milano la capitale culturale europea
dell’Italia della Restaurazione, meta di un pellegrinaggio che attira da ogni
angolo della penisola schiere di giovani letterati in cerca di fortuna. Dopo il
Quarantotto e fino all’Unità d’Italia, Milano- schiacciata dalla repressione del
federrmaresciallo Radrtzky e a lungo sottoposta allo stato d’assedio dovrà
cedere a Torino quel ruolo di capitale culturale della penisola che aveva tenuto
ben saldo durante l’età della Restaurazione.
Milano, agosto 1821
Vera la storia, vera l’invenzione
Mentre Scott si affaccia ufficialmente in Italia, e Manzoni e i suoi amici
riflettono sullo scrivere romanzi, i romanzi da leggere sono merce rara.
L’interesse romantico per la storia e l’imitazione di Scott, cominciano anche a
generare, assieme alle novelle in versi (fortunatissima, per esempio, l’Ildegonda
di Tommaso Grossi, del 1820), narrazioni in prosa dove le vicende sono
ambientate in un passato non più classico bensì medievale o moderno.
Discorrendo qualche decennio più tardi, del romanzo storico, Cesare Cantù ne
rintraccerà gli archetipi italiani, trascurando ogni forma di narrazione
cronologicamente prossima, nel poema cavalleresco in ottave e in Boccaccio.
Sempre nel 1821 viene varato a Milano, presso l’editore Giovanni Pirotta,
un’altra collana, “la biblioteca amena e istruttiva per le donne gentili” il cui
nucleo portante è costituito da romanzi stranieri che si vogliono capaci di
soddisfare bisogni di intrattenimento e istruzione. Primo libro pubblicato, Le
confessioni al sepolcro del prolifico scrittore August Lafontaine. Un titolo che
con le sue suggestioni tenebrose, testimonia della fortuna in Germania di un
gusto ben diffuso anche in Italia, attraverso il duplice canale delle traduzioni
francesi e italiane: quello dei romanzi gotici, la cui principale autrice Ann
Radcliff, fu ammirata da Scott, ebbe su Francesco Domenico Guerrazzi
un’influenza riconosciuta dallo stesso autore e, agì forse sulla concezione del
romanzo manzoniano. Manzoni sarà il primo scrittore italiano ad individuare
due linee di riflessione: moralità di contenuti e modernità della lingua. Al
Fermo e Lucia spetta una primogenitura, se non strettamente cronologica quanto
ideale, poiché la scrittura del romanzo rientra per lui in un progetto culturale più
vasto, ed è sempre sostenuta da una vigile consapevolezza dei doveri, degli
strumenti, degli ostacoli che sono parte della creazione letteraria. Per Manzoni è
chiaro, il romanzo si presenta come un problema da risolvere. C’è un modello,
del quale appaiono evidenti l’interesse e i limiti; c’è un pubblico potenziale, c’è
per contro una corrente di resistenza tenace, armata di morale; e c’è infine un
problema linguistico. Nicolò Tommaseo disse che Manzoni si era abbassato a
scrivere un romanzo, in realtà Manzoni aveva raccolto una sfida.
La tendenza a leggere la produzione narrativa storica come fenomeno collettivo
si giustifica prima di tutto per la diffusa omogeneità tematica, a partire dalla
preferenza per i tempi di mezzo ai quali Giuseppe Mazzini esortava i
romanzieri, in quanto “fecondi, sovratutti di gravi insegnamenti, di memorie
sublimi, e di esempi”. Gli stessi titoli, con la loro frequenza del modulo nomecognome (Margherita Pusterla) costituiscono, nella loro uniformità, un marchio
inusuale nella storia letteraria.
MARIAROSA BRICCHI
Walter Scott in Italia e il romanzo storico
Tra i principali campi di battaglia su cui i romantici e classicisti si affrontarono
negli anni venti dell’Ottocento vi fu una delle nuove forme letterarie perpetrate
nell’Europa meridionale: il romanzo storico, un genere inventato nel 1814 con il
Waverly dello scrittore Walter Scott (1771-1832), all’epoca già famoso come
poeta. Il successo fu rapido e dirompente in tutta Europa.
In Italia i romanzi storici erano arrivati anzitutto grazie alle versioni francesi e
gran parte dei volumi furono tradotti da Gaetano Barbieri, professore di
matematica, massone e liberale, che si prese il compito di accompagnarlo con
delle note.
Per esattezza ad introdurre Scott in Italia era stato Gioacchino Rossini: la sua
Donna del lago venne infatti rappresentato al Teatro San Carlo di Napoli nel
1819. Si trattava di una scelta destinata a fare tendenza in tutta Europa:
soprattutto ci consente di vedere subito uno dei punti di forza dell’opera di
Scott; nella sua prosa dimessa rispetto alla solennità dell’endecasillabo e
dell’alessandrino, Scott offriva degli intrecci perfetti per essere portati in scena.
A parte i non rari adattamenti per il teatro di prosa, da quel momento – e per
almeno un quarto di secolo- i melodrammi ispirati ai testi di Scott avrebbero
rappresentato un fiorente filone dell’opera italiana. Il romanzo settecentesco
aveva appreso molto dalle arti della scena, ma prima di allora nessun narratore si
era spinto tanto avanti su questa strada. Anche in Italia i critici più avvertiti si
accorsero subito di tali particolarità dell’opera di Scott. Così, in uno dei saggi
più intelligenti sul tema, Carlo Varese, al tempo apprezzato autore di romanzi
storici, arrivò a proporre proprio su questa base su una precisa parentela tra la
narrativa di Scott e musica di Rossini.
Anche l’altra grande qualità della prosa di Scott venne subito notata dai primi
lettori. L’autore di Ivanohe era un vero maestro di quella che i francesi
avrebbero chiamato la presentatiòn soprattutto a proposito del suo maggior
discepolo, vale a dire Balzac. Oltre alle opere stampate e vendute conta
soprattutto la penetrazione del modello e la corsa degli autori italiani a imitare lo
scozzese, da subito gli spiriti più sensibili alla propaganda risorgimentale come
Francesco Domenico Guerrazzi non si fecero sfuggire che il romanzo storico
poteva servire a diffondere gli ideali patriottici attraverso la rievocazione delle
sventure nazionali. Nel fiacco scetticismo italiano l’eccezione è rappresentata
chiaramente da Manzoni. Un successo tanto travolgente non era però destinato a
durare; l’andamento delle nuove edizioni e delle ristampe illustra bene il declino
di Scott già nella seconda metà del XIX secolo, dopo un ventennio folgorante,
tra il 1821 e il 1840, e un altro ventennio di alte tirature, in coincidenza con
l’unificazione della penisola, assistiamo ad un crollo verticale. Nel XX secolo le
cose sarebbero andate ancora peggio. I giudizi di sufficienza di Benedetto croce
e di Mario Praz (quando non decisamente ostili, come nel caso di Emilio
Cecchi) dimostrano quanto il clima fosse mutato. I nuovi esperimenti modernisti
relegavano il romanzo storico tra i generi sorpassati, ma anche i pochi autori di
prestigio che nella prima metà del Novecento vi si dedicarono, Riccardo
Bacchelli e Anna Banti, non sembrava aver avuto molto presente la figura di
Scott. Così, anche quando il romanzo storico si trovò ad avere un imprevisto
sussulto di vita, tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta del
XX secolo, il narratore inglese appare completamente fuori dall’orizzonte degli
autori della nuova ondata. Né Il barone rampante di Italo Calvino, né Il
Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, né il Consiglio d’Egitto di
Leonardo Sciascia gli devono nulla; per trovare un vero estimatore di Scott nel
Novecento bisognerà rivolgersi al paradossale Giorgio Manganelli.
ERMINIA IRACE e GABRIELE PEDULLÀ
Milano, 13 agosto 1825
Sul buon uso del mito
Fin dai primi mesi del 1825 Antonietta Costa, marchesa genovese e «tenera
amica» di Vincenzo Monti, ha deciso che le nozze di suo figlio Bartolomeo
vadano immortalate con un epitalamio del grande poeta. Poco importa che, a
conti fatti, il celebre e famigerato Sermone sulla mitologia, abbia ben poco
dell’epitalamio, se si esclude una coda che sa di posticcio, ma Antonietta Costa
aveva ottenuto molto più di quanto fosse lecito aspettarsi, legando la memoria
delle nozze di suo figlio a una poesia destinata a far divampare una delle più
note questioni della storia letteraria italiana.
Nella carriera di Vincenzo Monti il 1825 è un anno tutt’altro che infruttuoso e
trascurabile. Prima del Sermone il poeta ormai settantunenne compone un idillio
mitologico in versi sciolti che gli si apparenta strettamente: le nozze di Cadmo
ed Ermione. Allo stesso anno risale anche la quarta stampa della sua traduzione
dell’Iliade, l’ultima rivista dall’autore.
Ma nel 1825 i giochi sembrano davvero fatti. Quando già si era arrivati
all’insolenza di cui aveva dato prova appena due anni prima il giovane poeta e
drammaturgo Alessandro Manzoni, nella sua famosa lettere Sul Romanticismo
indirizzata al marchese Cesare Taparelli D’Azeglio, riuscirà difficile anche solo
concepire una difesa delle vecchie storie mitologiche in poesia. Questa lettera
sul Romanticismo rimase inedita ma circolò per tutta Milano per cui appare
impossibile che Monti non conoscesse il fondo del ragionamento manzoniano.
Almeno fin dal 1819 la meditazione di Leopardi ha individuato un nesso
fondamentale, quello dell’infanzia e dell’immaginazione mitologica, entrambe
capaci di offrire prospettive veramente inaudite.
Firenze, 9 febbraio 1830
L’anomalia Leopardi
Il 9 febbraio 1830, nella sede fiorentina dell’Accademia della Crusca, si diede
lettura della relazione che attribuiva il premio quinquennale di mille scudi
banditi dall’Accademia. Giacomo Leopardi che di quegli scudi avrebbe avuto un
gran bisogno, partecipò con le Operette morali, che erano state pubblicate a
Milano in coincidenza e per lo stesso editore, Anton Fortunato Stella, con I
promessi sposi di Alessandro Manzoni. Quasi all’unanimità gi accademici della
Crusca assegnarono il premio a Carlo Botta, autore di una Storia d’Italia dal
1789 al 1814 che era stata pubblicata sei anni prima. Leopardi ricevette un solo
voto, probabilmente quello dell’accademico Lorenzo Collini.
Non molto diverse erano state le reazione al di fuori del contesto accademico
soprattutto nell’ambiente romano. Improntato al quieto e sonnolento classicismo
diffuso nell’intero Stato della Chiesa, tra le Marche, l’Emilia, la Romagna e
appunto Roma. Fuori da quei confini ecclesiastici costituiva una vistosa
eccezione l’amico piacentino del poeta, Pietro Giordani, che per primo seppe
intuire la forza e l’eccezionalità della posizione di Leopardi nel panorama
contemporaneo. Quanto all’ambiente milanese, verso il quale si era indirizzato
ancora diciottenne il giovane Leopardi, la ricerca di contatti diretti si era presto
interrotta.
Gioberti pose la questione Leopardi in termini originali: anziché acuire il
conflitto ideologico con condanne e censure, elaborò una strategia di
assimilazione, individuando nel pensiero leopardiano una continuità, rispetto al
pessimismo cristiano e giungendo alla conclusione che l’ateismo non poteva
considerarsi una libera scelta del poeta, sottovalutando quindi la base filosofica
del suo pensiero, ma piuttosto il frutto degli influssi esercitati dall’istigatore
Pietro Giordani.
In Europa, e specialmente in area francese, dove la circolazione dell’opera di
Gioberti sarebbe stata assai significativa, questa interpretazione del poeta
conobbe una diffusione cospicua, decisamente prevalente rispetto all’altra,
ispirata da Pietro Giordani, rispettosa del materialismo leopardiano e con esso
solidale.
Dopo la morte del poeta, quando cominciarono a porsi le basi per l’edificazione
del mito, a Parigi si concentrò una serie di tensioni filo e antileopardiane, quasi a
riassumere i contrasti che si erano verificati in patria durante la vita. In Italia,
invece, sull’operazione vigilava il devotissimo amico degli ultimi anni, Antonio
Ranieri, il quale imponeva la propria supervisione per salvaguardare le ultime
volontà dell’autore, di cui si dichiarava di diritto l’unico depositario.
La censura non omise di intervenire persino dopo la morte sulla filosofia di
Leopardi, colpendone il libro che meglio la dichiarava: nel 1850 al primo posto
dell’Indice dei libri proibiti figuravano infatti le Operette Morali, accompagnati
dalla formula rituale “donec corrigantur”.
NOVELLA BELLUCCI
I luoghi di Leopardi
Nei suoi Ricordi poco più che ventenne Giacomo Leopardi annotava “mio
desiderio di vedere il mondo”. Per oltre ventiquattro anni egli sarebbe in realtà
rimasto relegato laddove era nato, nel 1789, a Recanati, piccola città delle
Marche appartenente allo Stato della Chiesa. Successivamente nella seconda
metà della vita, Leopardi si sarebbe spostato (ma con continui ritorni alla città
natale): a Roma, e poi Bologna, Milano, Firenze, Pisa, Napoli, l’ultima delle sue
città.
La mappa delle pubblicazioni filologiche del giovanissimo studioso pone
Milano in posizione centrale: tra il 1816 e il 1817 compaiono nel capoluogo
lombardo ben undici saggi quasi tutti di traduzioni. Così, all’inizio della carriera
leopardiana, le lettere da Recanati giungevano perlopiù a Milano e a Roma, alla
volta degli editori e letterati da Giacomo ritenuti più importanti: Giuseppe
Acerbi, direttore della Biblioteca Italiana, Vincenzo Monti, Angelo Mai, Pietro
Giordani. A Roma, per anni luogo di un ideale ma mai realizzato trasferimento
del giovinetto recanatese, anche in vista di una sua collocazione lavorativa nel
mondo ecclesiastico, erano uscite alla fine del 1818 le prime due canzoni, le
cosiddette patriottiche, ma nessun’altra opera leopardiana vi avrebbe in seguito
visto la luce.
A occupare una significativa centralità nell’atlante dei luoghi leopardiani è
Bologna, la più dinamica e aperta città dello Stato della Chiesa, letterariamente
legata alla temperie classicistico-erudita: dove si concentrano per Giacomo
interessi editoriali, incontri letterari e amicali.
Firenze entra più tardi nella geografia leopardiana ma con un impatto assai
significativo, anche se le cifre evidenziano un numero minore di rimandi rispetto
ad altre città. Firenze è la città della prima edizione dei Canti e già questo dato
sarebbe sufficiente, ma Firenze a partire dal 1824 è anche la città della relazione
con Giampietro Visseaux, animatore del celebre Gabinetto e direttore
dell’”Antologia”, la più importante rivista letteraria dell’Italia restaurata. Eppure
Giacomo non amò particolarmente nessuna di queste città, né Roma né Bologna
né Firenze. Soltanto Pisa, fra quelle che abitò, gli fu particolarmente cara
occupando un posto speciale nella sua geografia mentale. Gli indicatori dei
luoghi leopardiani si diramano fra molte altre città italiane, piccole e grandi: si
potranno citare almeno Torino, dove conduce l’amicizia con Vincenzo Gioberti,
Piacenza, la città di Pietro Giordani, Macerata. Le lettere di Leopardi superano
anche i confini nazionali e raggiungono, per esempio, Parigi, in lettere
indirizzate all’amico Louis de Sinner a cui Leopardi aveva affidato tutti i propri
manoscritti filologici.
E a completare la mappa leopardiana, i due luoghi in essa fondamentali, quello
della nascita e quello della morte: Recanati e Napoli.
NOVELLA BELLUCCI
I salotti del Risorgimento
Erede della tradizione settecentesca di origine soprattutto francese, di corte o
aristocratica, il salotto ottocentesco presenta- nella sua versione italiana- una
natura più spiccatamente politica, una caratterizzazione borghese, ed è quasi
sempre dominato o promosso da figure femminili. L’esperienza francese, che
alla fine del Settecento si era imposta con un’accezione prevalentemente politica
più che letteraria, valse da modello decisivo anche per l’Italia del nuovo secolo
sia grazie ai suoi echi letterari (Madame de Stael e Stendhal) sia per contatti
diretti (come quelli della principessa Beljoioso con Madame Recamier). E come
è centrale nel salotto francese il ruolo della donna, così il salotto italiano riesce
fondamentale per l’affermazione di un protagonismo femminile che altrove
fatica a trovare spazio. Nelle principali città della penisola è la padrona di casadoviziosa, colta e con sensibilità patriottiche- ad aprire la sua dimora
all’aristocrazia illuminata, ai ceti professionali inclini alle novità, agli
intellettuali, agli scrittori. Il salotto del Risorgimento ha una frequente e spiccata
funzione artistico-letteraria, che si alimenta dell’incontro dell’artista con la
committenza o con i suoi più accesi sostenitori. Il salotto è infine luogo di
approdo di scrittori e artisti stranieri in visita, come al principio del secolo
Madame de Stael, Stendhal, Byron, più tardi Balzac, il pianista Liszt, la
scrittrice Loiuse Colet. Entro un simile contesto, la padrona di casa poteva
assolvere un ruolo da vera e propria agente letteraria: è il caso di Emilia Peruzzi
nella Firenze del secondo Ottocento.
SIMON LEVIS SULLAM
Napoli, 1836
Alla ricerca della lingua moderna
A Napoli Giacomo Leopardi arriva nel 1833 dove viveva il marchese Basilio
Puoti e – per quanto Leopardi non abbia mai descritto alcun incontro col dotto
grammatico purista- è rimasta memoria di di una visita alla scuola di Puoti
grazie ad un allievo, l’allora diciannovenne Francesco de Sanctis. L’incontro
Puoti- Leopardi ha un valore simbolico, non solo perché la pagina di De Sanctis
traccia un filo, tra grammatica e poesia, lungo tre generazioni, ma perché quel
filo attraversa questioni cruciali per la storia della lingua e della letteratura
italiana. Imitazione, tradizione, lingua della prosa e della lingua poesia, parole
antiche
e parole nuove: su questi temi si concentrano, con la ripetitività
martellante di un’ossessione, le riflessioni dei letterati italiani lungo tutto
l’Ottocento.
La lingua poetica che Leopardi legge ed eredità è una lingua grammaticalizzata,
ad alto tasso di codificazione. Da un punto di vista storico, risalgono infatti al
Cinquecento il differenziarsi tra lingua della prosa e lingua della poesia, e la
percezione della frattura. Il tema si riversa nelle prescrizioni dei grammatici che,
da Pietro Bembo in avanti, distinguono modi e forme per la prosa e per la
poesia; la separatezza teorizzata da secoli si riversa nell’educazione dei giovani,
da un capo all’altro della penisola: Francesco Domenico Guerrazzi, formatosi ad
una rigida scuola purista, rievoca in una lettera l’insegnamento del suo maestro
per insistere sul divario tra parlato e scrittura. Insomma è riconosciuta a tutti i
livelli della società colta che la poesia possiede un proprio repertorio lessicale,
morfologico e grammaticale. Ben diversa la lirica leopardiana, che si
caratterizza per una consapevolezza critica che può essere ben individuata come
il filo per orientarsi nella lingua del poeta. Sul rapporto tra lingua della poesia e
lingua e antichità della lingua Leopardi conduce infatti una riflessione serrata,
secondo un percorso che assume la condivisa constatazione del divario tra
poesia e prosa. I passaggi di questo percorso sono testimoniati dallo Zibaldone,
in riflessioni che si infittiscono negli anni tra il 1821 e il 1823, quando il poeta
ha già composto gran parte degli idilli.
Dal punto di vista lessicale, Leopardi attua una distinzione tra arcaismi e parole
antiche; la distinzione riecheggia la tradizionale coppia di etichette attive nei
vocabolari ottocenteschi che definiscono “voce arcaica” o “arcaismo” una parola
fuori dall’uso, e classificano variamente “voce letteraria” o “non comune” ogni
parola che, pur non ritenuta morta, si considera portatrice di una genealogia
letteraria e appartenente ad un registro alto. Leopardi utilizza un criterio di
selezione di natura squisitamente estetica: seleziona solo termini ed espressioni
dotate della qualità che egli stesso identifica con la poesia: vaghezza ed
eleganza.
Ben altrimenti orientata era, negli stessi anni, la riflessione sul medesimo tema
del Manzoni prosatore. L’autore manifestava a chiare lettere la sua avversione
per le varietà diacroniche della lingua, quando la loro presenza non fosse
giustificata da una precisa necessità comunicativa. Il lume deve guidare
nell’assunzione o nel rigetto delle parole antiche non è dunque per Manzoni, la
loro freschezza e bellezza, ma soltanto la possibilità che queste colmino nella
lingua un vuoto, che rispondono ad un’esigenza di comunicazione altrimenti
risolta.
MARIAROSA BRICCHI
La questione della lingua tra Settecento e Ottocento
La concezione alla base della Crusca introduce una prospettiva destinata ad
incidere su ogni approccio futuro: la lingua è al tempo stesso un patrimonio e
una meta; attorno al 1840, l’autore degli ormai Promessi Sposi avvia la quinta
redazione del saggio Della lingua italiana. Il testo, progettato e mai concluso
come la summa di riflessioni inesauste sulla questione della lingua, si apre
negando l’esistenza dell’oggetto, “se ogni lingua è un mezzo d’intendersi, non
ogni mezzo d’intendersi è una lingua”. Pubblicata e vivacemente discussa sarà
però, trenyt’anni più tardi, la relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi di
diffonderla (1868). In quest’ultimo scritto sul tema linguistico Manzoni risponde
a un quesito sociale e politico: quale debba essere la lingua degli italiani, nello
scritto e nel parlato, per le necessità pratiche e culturali della vita associata.
L’incombere di questa questione sulle vicende italiane coinvolgerà la storia
culturale e sociale del paese non meno di quella letteraria. Nella prima metà del
Settecento, nuovi eruditi, nutriti di sapienza filologica (Fontanini, Mafferi,
Muratori) s’impegnarono allora in ricerche intese a sostituire un’ottica
diacronica alla concezione metastorica della lingua ereditata dal classicismo
cinquecentesco. Un altro aspetto di novità che si manifesta sin dal primo
Settecento è l’intensificarsi del rapporto dell’italiano con le culture e le parlate
straniere, soprattutto quella francese. Tra le sedi deputate alla riflessione
linguistica restano comunque decisivi, di secolo in secolo, i vocabolari. La
pubblicazione della nuova Crusca genera nuove reazioni, in primis sul versante
vocabolaristico, con raccolte che, pur esprimendo formale ossequio, puntano di
fatto l’attenzione su settori del lessico meno frequentati dagli accademici.
Sull’incapacità che il lessico selezionato dalla Crusca manifesta per rispondere
alle esigenze del presente discutono due testi che – per ragioni diverse- contano
tra i più significativi del secolo: la ben nota Rinunzia al Vocabolario della
Crusca (1764) goliardico pamphlet di Alessandro verri maturato nel clima del
giovane illuminismo lombardo; e il Saggio sopra la lingua italiana (1785) del
padovano Cesarotti, fondato su una concezione generale del linguaggio di
matrice sensista. Rappresenta finalmente una novità nel panorama lessicografico
(e, per mole e autorevolezza, una concreta alternativa alla Crusca) il Dizionario
universale critico-enciclopedico di Francesco d’Alberti (1797-1805). Con
d’Alberti si apre una stagione di inaudità fertilità lessicografica: lungo il corso
dell’intero Ottocento non solo si moltiplicano i vocabolari, ma crescono gli
interventi che ne individuano ruoli, finalità e impostazione. Nel Saggio sopra la
lingua italiana Cesarotti aveva stabilito che il compito di un vocabolario è
informare su e quando una voce fosse stata impiegata, senza giudizi sulla sua
bellezza o opportunità. Naturalmente normativo appare l’atteggiamento dei
puristi, realizzato nel dizionario dell’abate Antonio Cesari (1806-1811) che
propone all’uso moderno il patrimonio trecentesco. Impiegando una metafora
molto diffusa, nella sua Proposta di alcune aggiunte e correzioni al Vocabolario
della Crusca, Vincenzo Monti aveva accusato Cesari di “voler sostituire il
Vocabolario de’morti a quello de’vivi”. Mezzo secolo più tardi toccherà a
Manzoni, nella Relazione sull’unità della lingua e sui mezzi per diffonderla,
stabilendo che lo scopo di un vocabolario si biforca in due distinte direzioni: da
una parte “somministrare il mezzo d’intendere gli scrittori di tutti i tempi2,
dall’altra rappresentare “per quanto è possibile l’uso attuale di una lingua”. Il
vocabolario che scaturirà dalle teorie manzoniane, il Giorgini- Broglio (18701897). È indirizzato alla gente , non agli studiosi, e raccoglie parole ed
espressioni dell’uso fiorentino, accompagnate da esempi tratti non dal
patrimonio letterario ma dalla parlata quotidiana. Nella concezione di Manzoni
il vocabolario è infatti un mezzo per la diffusione della lingua. La distinzione
introdotta da Manzoni tra dizionari storici e dizionari dell’uso si rivela
produttiva e genera nel secondo Ottocento una frattura: sulla linea della raccolta
del patrimonio storico stanno la Quinta impressione della Crusca , pubblicata tra
il 1863 e il 1923, e il Tommaseo- Bellini, del 1861-79. Sul fronte dell’uso si
contano fra gli altri il Novo dizionario di Policarpo Petrocchi, del 1887-91, e il
Vocabolario della lingua parlata di Fanfani e Rigutini del 1875.
MARIAROSA BRICCHI
Milano, 1º marzo 1837
I diritti dell’autore: Manzoni e Balzac
Il 1º marzo 1837 nel “salotto rosso” del primo piano dove Manzoni riceveva
ogni sera, tra le otto e le undici, i suoi pochi amici, era atteso un visitatore di
eccezione, quell’Honorè de Balzac che i giornalisti amavano definire “il più
fecondo dei nostri romanzieri”. La fama che lo precedeva non era certo la più
adatta a conciliargli le simpatie della piccola cerchia raccolta intorno all’autore
dei Promessi sposi.
L’autore francese era giunto a Milano perché era stato incaricato da un amico
milanese residente a Parigi, Guidoboni Visconti, di risolvere per lui una
complicata questione ereditaria. Balzac era allora in Italia l’autore francese più
conosciuto, questo spiega i termini più che lusinghieri con cui i giornali italiani
salutarono il suo arrivo. Quella famosa sera del primo marzo in cui Balzac fu
ricevuto nel salotto manzoniano, vi fu condotto dall’amico Felice Carron de
Saint-Thomas, più giovane di Balzac di undici anni e profondo ammiratore di
questi. Conosciuta di seconda mano, da una versione francese inadeguata o dai
riassunti dei recensori, la storia di Renzo e Lucia pareva a Balzac povera
d’intreccio. Il pregiudizio di Balzac sui Promessi Sposi pesò certamente sul suo
incontro con Manzoni , non meno delle riserve morali che Manzoni non poteva
non nutrire nei confronti del collega parigino. Non furono le differenze di
carattere o di educazione a frapporre tra i due romanzieri una barriera
insormontabile, ma l’impossibilità in cui ognuno dei due venne a trovarsi di
apprezzare il valore dell’opera dell’altro, per ragioni ideologiche e culturali.
È stato giustamente notato che la battaglia combattuta da Balzac, per tutta la
vita, a favore dei misconosciuti “diritti del genio” rappresenta il suo vero
impegno politico, di gran lunga più incisivo delle sue professioni di fede
legittimiste.
Difficile pensare che le sue riflessioni su questo problema
potessero apparire “insulse” a Manzoni, che contro le contraffazioni dei
Promessi Sposi dovette lungamente difendersi.
MARIOLINA BONGIOVANNI BERTINI
La fortuna editoriale dei Promessi sposi
“Di un libro eccellente non sono mai troppe le edizioni”, dichiarava nel 1827 il
tipografo luganese Veladini, il primo a pubblicare i Promessi Sposi fuori
d’Italia. Accanto a quella nazionale, il romanzo è
infatti titolare di una
diffusione europea non solo numericamente significativa, ma articolata su due
fronti linguistici: da un lato le traduzioni, dall’altro le edizioni stampate in
italiano all’estero. Troppe edizioni dunque, se non dal punto di vista degli
editori, certamente da quello dell’autore, vittime per decenni di ristampe
sfuggite al suo controllo, che lo danneggiarono sia sul versante economico, in
termini di mancato guadagno, sia su quello intellettuale.
La vicenda delle stampe non autorizzate dei Promessi Sposi è legata
all’inadeguatezza normativa in tema di diritto d’autore e al sistema della
circolazione commerciale delle merci. Il primo problema coinvolge in realtà
tutta l’Europa. L’Inghilterra per esempio, dove esisteva una legge sul copyright
fin dal 1709, fu inondata nel corso di tutto l’ottocento da ristampe illegali
realizzate in Irlanda. Il governo austriaco , che pure introduce nel LombardoVeneto nuove norme circa la concessione della patente agli stampatori e regola
la censura preventiva, non vara alcuna iniziativa in materia di protezione del
diritto d’autore, ignorando i ripetuti appelli del mondo intellettuale.
Proporzionali al gradimento, le edizioni dei Promessi Sposi raggiungono numeri
ben più importanti, che ne fanno il libro italiano più stampato all’epoca. Il
romanzo, edito a Milano presso Vincenzo Ferrario tra il 1825 e il 1827 e
distribuito nel giugno 1827 (la famosa edizione definita “ventisettana”),
esaurisce rapidamente la tiratura . le ristampe si concentrano nelle capitali
culturali (Torino, Firenze, Napoli), con emergenze più limitate in provincia
(Piacenza, Parma, Livorno, Pesaro, Macerata). Di scarso peso le edizioni
romane, due sole tra il 1835 e il 1836, a conferma del carattere asfittico del
commercio librario nella futura capitale, caratterizzato da un inasprimento della
censura. Nel panorama europeo le sorti del romanzo sfuggono a ogni controllo
d’autore.
Il Belpaese
Prima di giungere all’epoca di nascita del turismo e, dopo ancora, all’epoca del
turismo di massa, bisogna precisare che l’età del Grand Tour era già finita nella
prima metà dell’Ottocento, sotto i colpi delle guerre napoleoniche. È possibile
individuare tre mutazioni del Grand Tour coincidenti con tre tradizioni
nazionali. La prima mutazione è il viaggio dei romantici tedeschi, in cui l’Italia
non è vista solo come completamento di un’educazione, ma anche come
esperienza iniziatica del Sud e della classicità. La seconda mutazione è quella
che ha portato sulla penisola i viaggiatori inglesi. In questo caso si passa
dall’ineludibilità del Grand Tour a ciò che è stato chiamato “the lure of Italy”: il
fascino esercitato dall’Italia, che portò molti scrittori inglesi a trasferirsi in
Toscana, al punto che alcuni artisti anglosassoni dell’Ottocento proprio in
Toscana sono nati come il pittore John Singer Sargent. Il lure of Italy non
dipendeva tanto dall’Italia contemporanea quanto dall’Italia immutabile (
paesaggi) e dalle rovine delle città del passato. La terza mutazione del viaggio in
Italia dopo i secoli del Grand Tour è quella di matrice americana. Si tratta della
nuova tradizione meno distante dal Grand Tour classico. Considerata la
lunghezza del viaggio necessaria per arrivare in Europa, gli americani erano
costretti a visitarla tutta insieme, in una sequenza che quasi per forza di cose
cominciava dall’Inghilterra, luogo dello sbarco, proseguiva in Francia e
terminava in Italia. Il viaggio in Italia era spesso affrontato, proprio come il
Grand Tour, da giovani a completamento dei loro studi. Giunsero ventenni in
Italia Washington Irving, Emerson, Longfellow, Henry Adams.
Per secoli, accanto al Grand Tour, l’altra motivazione tipica di trasferimento in
Italia era stata quella lavorativa, che riguardava però soprattutto gli artisti
plastici, ma l’immagine prevalente del nostro Paese rimane comunque quella di
un paese attraente non tanto per le opportunità sociali e professionali quanto per
il suo fascino spirituale e paesaggistico e, non da ultimo, climatico.
Al di fuori delle aree canoniche- Roma, Venezia, Napoli e il suo golfo, la
Toscana, la Liguria, la Sicilia- il resto dell’Italia continua ad essere visitato quasi
per caso, o a seguito di passioni individuali. Aumenta, come prevedibile, il peso
dei soggiorni di vacanza, soprattutto da parte degli intellettuali tedeschi:
Theodor W. Adorno, Walter Benjamin, Ernest Bloch, Siegfried Kracauer.
Quanto ai ritrovi “ufficiali” risulta in calo nel Novecento il peso dei circoli
diplomatici, e in ascesa, a Roma, il ruolo delle accademie nazionali. Sul piano
generale, dobbiamo osservare come l’Italia, a differenza della Francia e degli
Stati Uniti, non sia stata toccata in modo significativo dalle diaspore intellettuali
del Novecento.
PAOLO ZANOTTI
Nel paese del melodramma
La grande stagione del melodramma in musica ottocentesco, a partire da Rossini
fino al verismo di fine secolo, si sviluppa col favore di una straordinaria crescita
delle strutture teatrali lungo l’intera penisola italiana: una smania di costruir
teatri che si diffonde a partire alla fine del Settecento (il San Carlo a Napoli, il
Teatro Regio a Torino, la Scala a Milano, la Fenice a Venezia). Il ruolo culturale
e civile giocato dall’opera nella società italiana del xix secolo difficilmente si
può comprendere senza considerare questa minuziosa diffusione dei teatri.
Il risultato di tale processo costruttivo fittamente diffuso sul territorio italiano fu
censito sette anni dopo l’Unità, nel 1868, da una rilevazione che entro i confini
del regno d’Italia contò 942 sale teatrali attive, distribuite in 650 comuni, due
terzi dei quali sorte dopo il 1815. Le pubbliche autorità non pongono limitazioni
al numero dei teatri, né esistono prescrizioni relative al genere delle
rappresentazioni.
Le vie dell’esilio
Inaugurata dagli esuli delle repubbliche giacobine alla fine del Settecento,
l’esperienza dell’esilio politico italiano nell’Ottocento trova le sue figure
idealmente fondatrici in Filippo Buonarroti e Ugo Foscolo, e si moltiplica poi
nei molti percorsi e destini – noti e meno noti, marginali o decisividell’emigrazione italiana nel Risorgimento.
Foscolo aveva percorso il proprio destino di esule già al principio del secolo,
nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis. Infine, nel 1815-16, da Milano attraverso la
Svizzera raggiunse l’Inghilterra, sua nuova ed ultima patria durante gli undici
anni successivi. Quanto a Buonarroti, rifugiatosi a Ginevra dal 1814 dopo la
stagione rivoluzionaria e imperiale, vi entrò in diverse logge massoniche
capeggiando l’antibonapartista Adelfia.
Negli anni venti fu spesso la penisola iberica ad attrarre gli esuli: in principio,
motore di questa attrazione fu il mito della costituzione liberale di Cadice del
1812, quindi divenne lo scontro tra forze liberali e i cosiddetti miguelisti, più
tardi ancora la guerra civile del 1832-34.
Ma a metà degli anni venti anche un altro campo di battaglia richiamò gli esuli
italiani – specialmente dal loro esilio inglese – in difesa e per l’affermazione
delle nazionalità oppresse: fu la Grecia, dove si recarono tra gli altri, da Londra,
nel 1824 Luigi Porro.
In una terza fase, cioè dopo l’inebriante quanto sfortunata “primavera dei
popoli” del biennio 1848-49, dalla Sicilia costituzionale, dalla Repubblica
democratica di Venezia, dalla Repubblica romana provennero – assumendo ruoli
diversi nel cosiddetto decennio di preparazione dell’Unità italiana – figure di
esuli quali Pasquale Calvi, già ministro degli Interni a Palermo e poi storici della
rivoluzione del 1848 rifugiatosi a Malta; Daniele Manin, in fuga da Venezia via
Corfù e Marsiglia verso Parigi, dove nel 1857, poco prima della morte, fondò la
Società nazionale italiana; Felice Orsini, che visse nella cospirazione tra l’Italia,
la Svizzera, la Francia e l’Inghilterra, recandosi infine a Parigi per compiere
l’attentato contro Napoleone III che nel 1858 gli sarebbe costato il patibolo.
In generale, gli italiani in esilio poterono avvantaggiarsi delle condizioni di
maggiore libertà rispetto al clima oppressivo degli antichi stati peninsulari: ad
esempio in un crocevia come quello elvetico, tappa frequentatissima e porto
sicuro dell’emigrazione politica.
Londra e Parigi rappresentarono le capitali dell’esilio italiano, benché non si
possono trascurare né Bruxelles, né centrali periferiche come Lugano e
Marsiglia. A Londra i comitati filoitaliani fiorirono soprattutto negli anni
cinquanta, con la Society of the Friends of Italy e l’Italian Emancipation Fund
Committee.
A Bruxelles, tra la fine degli anni venti e gli anni trenta si trovavano Buonarroti,
Gioacchino Prati, Luigi Angeloni, Camillo e Filippo Ugoni, Giovanni
Arrivabene, i mazziniani Carlo Bianco e Giuseppe Vitalevi.
Milano, agosto 1840
Fede, bellezza e stroncatura
Nell’agosto 1840 la rivista milanese “Il Politecnico” inserì anonimo- com’era
uso abbastanza comune per l’epoca- un saggio critico attorno a Fede e Bellezza,
il romanzo di Niccoò Tommaseo pubblicato a Venezia nel precedente mese di
maggio: romanzo che aveva ampiamente incuriosito il pubblico e di cui si
conversava in vari salotti alla moda, soprattutto nel Lombardo- Veneto e in
Toscana. Ma anche l’intervento di recensione passò tutt’altro che inosservato:
un “vero libello famoso”, lo avrebbe definito Cesare Cantù, autore di romanzi
popolari e opere di largo respiro nella compilazione storica. In quella tarda
testimonianza Cantù non faceva mistero sul nome dell’impietoso recensore, che
era il milanese Carlo Cattaneo.
Uscito nell’anno in cui Manzoni andava approntando l’edizione definitiva dei
Promessi Sposi, il nuovo romanzo di Tommaseo si discostava dal modulo
largamente in auge del racconto storico, cui lo stesso scrittore dalmata si era
pure dedicato con le sue prime prove narrative. Fede e bellezza presenta chiare
affinità di interessi con l’opera del critico e scrittore francese, che consistono
nella comune propensione allo scavo in una condizione umana ondeggiante sulle
opposte rive della sensualità e del misticismo, alla quale ammicca il titolo stesso
del libro. È la storia di una reciproca confessione di due peccatori: Giovanni,
scrittore italiano riparato in Francia, e Maria, orfana di madre senese e di padre
corso, anch’essa passata in terra francese , che attraverso il sacramento del
matrimonio- e la tragica morte di lei che subito vi fa seguito- arrivano ad espiare
una vita debordante di equivoci trascorsi amorosi.
Al suo primo apparire, Fede e bellezza fece rumore e furore. Dai carteggi
tommaseiani emerge la straordinaria popolarità di quel piccolo libro
elegantemente stampato di 170 pagine di formato ridotto in 8º, posto in vendita
al prezzo di 3 lire e mezza: ricercatissimo in molte città d’Italia , e anche in
Francia, soprattutto in Corsica, dove l’autore aveva lasciato nei mesi precedenti
tanti amici al corrente di quel nuovo lavoro.
Scrittrici dell’Ottocento
Questo studio è condotto su un corpus di 201 autrici, nate tra la seconda metà
del settecento e il 1870 circa. Esse furono diversamente note tra i
loro
contemporanei e operarono a vario titolo nel mondo culturale italiano del XIX
secolo, tra la rivoluzione napoletana del 1799 e l’inizio della prima guerra
mondiale. Oggi si trovano nella quasi totalità escluse dal canone della letteratura
nazionale, in parte per il loro valore non certo eccelso, in parte per la
collocazione marginale rispetto ai circuiti della cultura ufficiale, e finalmente
per una selezione critica in qualche caso ingenerosa.
L’origine delle letterate e la distribuzione geografica delle pubblicazioni
conferma il fruttuoso policentrismo del panorama culturale italiano. In molti casi
le donne intraprendono l’attività letteraria per stabilire relazioni con la comunità
intellettuale, gravitando attorno a riviste specialistiche e collaborando a progetti
collettivi. Tra le città spiccano, per il numero di letterate attive, Milano (10%
soprattutto a partire dalla seconda metà dell’Ottocento: la metropoli lombarda è
nel XIX secolo il più importante centro editoriale in Italia), la Firenze
granducale prima e italiana poi (7%), Bologna, importante sede universitaria
(3%), Torino, in particolare quando è capitale del regno (6%). Al sud si
distingue Napoli, capitale del regno borbonico (6%), seguita da Roma (5%) e
Palermo (3%), dove opera un gruppo di letterate molto attive negli anni
preunitari, animate da sentimenti patriottici e pioniere del genere romanzesco.
Le scrittrici italiane provengono ancora, in maggioranza, dalla nobiltà o dall’alta
borghesia, ma non mancano isolati casi di popolane autodidatte, come ad
esempio la poetessa “pastorella” scoperta da Tommaseo, Beatrice Bugelli (180285), più nota come Beatrice del Pian degli Ontani.
Il livello di istruzione è generalmente medio. La maggior parte delle scrittrici ha
studiato a casa e con un precettore, che ha impartito loro un’educazione
elementare e tradizionale incentrata sullo studio dei classici latini e italiani.
All’istruzione si lega strettamente l’abilità traduttoria di molte autrici,
normalmente privilegiata come esercizio di scrittura ( prescritto anche agli
uomini: basti considerare i consigli di Pietro Giordani al suo Eugenio nella
Istruzione ad un giovane italiano sull’arte dello scrivere, 1821) e , nel caso delle
donne, raccomandata come argine alla propensione per “l’immaginazione”.
Dalla traduzione dei classici, propedeutica all’apprendimento della scrittura in
porosa, si passa alla traduzione dalle lingue europee contemporanee, il francese
in particolare. L’acquisizione di una seconda lingua moderna è parte
fondamentale del curriculum di una ragazza bennata, abilità indispensabile alla
conversazione salottiera, ma anche raffinato strumento di mediazione culturale.
A partire dalla fine dell’Ottocento si diffonde l’uso – mai attestato prima degli
anni ottanta – di firmare le traduzioni con pseudonimi maschili: un fenomeno
che si potrebbe attribuire alla minore familiarità delle donne colte con le lingue
straniere, o alla maggiore considerazione riscossa dall’attività del traduttore, in
ogni caso, uno stratagemma sessista.
La rete di frequentazioni intellettuali di queste letterate è generalmente
determinata dalla famiglia di origine e quindi dal matrimonio, che tali signorine
(con molte eccezioni) iniziano a gestire con maggiore indipendenza rispetto alle
loro madri e al quale (in rari casi) porranno fine con una separazione.
La vita di queste donne si presenta molto diversa dalle loro colleghe
settecentesche, più mondane e meno legate agli obblighi familiari. Molte delle
letterate operanti negli anni tra il 1820 e il 1870 circa, per la maggior parte
poetesse, vengono dipinte come perfette massaie e madri eroiche disposte al
sacrificio della prole per la patria, fedeli al marito come alla causa nazionale. Il
modello celebratissimo è quello di Adelaide Cairoli.
Le letterate sono per la maggior parte ben inserite all’interno della comunità
intellettuale contemporanea: ma il loro forte desiderio di partecipazione diventa
a volte zelo, eccessivo presenzialismo.
Il percorso generale della letteratura femminile italiana nel corso dell’Ottocento
può essere descritto come il progressivo consolidarsi di una ispirazione unitaria
e di uno specialismo romanzesco.
Nel Settecento italiano non vi erano romanzi scritti da donne. È segnalato un
unico caso, l’eccezione che conferma la regola, trattandosi della principessa
Giuseppina di Lorena-Carignano educata secondo un modello francese.
A partire dalla fine degli anni Settanta, e di più tra gli anno ottanta e novanta del
XIX secolo, il romanzo femminile diventa invece un genere di larghissimo
consumo. I volumi di Carolina Invernizio (1851-1916), di Tommasina Guidi
(Cristina Guidicini Tabellini 1833/351903), della Marchesa Colombi vengono
ristampati più volte con grande successo, raggiungendo un pubblico di
affezionati lettori e soprattutto lettrici. Si crea in Italia una fascia di mercato
editoriale espressamente indirizzato alle donne e di cui le donne sono anche
produttrici. Nascono collane apposite, che fanno la fortuna degli editori
abbastanza intraprendenti per lanciarle. Firenze (dove spicca l’editore Salani) e
Milano (con Treves in particolare, ma anche con la Società Editrice La Milano,
l’editore Galli e gli altri) sono le città che dimostrano di saper sfruttare al meglio
il fenomeno: si stampa qui circa il 60% delle edizioni complessive.
Napoli, 1844
La poesia delle lapidi
È noto come la descrizione delle ultime tribolazioni e del decesso di Giacomo
Leopardi a Napoli sia contenuta in Sette anni di sodalizio con Giacomo
Leopardi, che Antonio Ranieri, un uomo da lui cos’ diverso nel carattere
espansivo e nelle idee (di romantico idealista, di patriota liberale e framassone)
da esserne l’antipode, pubblicò ben quarantatre anni dopo la morte del poeta, nel
188°. Libro infarcito di aneddoti e di una minutaglia biografica utile a suffragare
l’immagine di Ranieri nei termini del disinteresse e della magnanimità, i Sette
anni allegano tuttavia un documento, datato 1851, che riferisce alcuni fatti
inoppugnabili tra quelli successivi alla morte del poeta; il referto, con
l’autorevole firma di Michele Ruggiero, indugia sul trasferimento della cassa coi
resti di Leopardi dagli ipogei al vestibolo della chiesa Di San Vitale a
Fuorigrotta avvenuto nel 1844. È da credere che Ranieri fosse il committente
della lapide, come del resto lascia intendere lo clausola. La lapide a firma di
Pietro Giordani rimane comunque il sigillo di una lunga amicizia intellettuale
che un tempo era stata fervida. Solo chi conoscesse nel profondo leopardi
avrebbe potuto infatti cogliere e connettere in appena nove linee i tratti distintivi
della sua costellazione vasta e ancora clandestina per quasi chiunque. Più
anziano di lui di quasi venticinque anni, ex novizio benedettino, già ammiratore
dei giacobini e di Napoleone, nemico dell’ancien regime, scrittore e poligrafo di
fede classicistica, il piacentino Giordani aveva subito intravisto nell’ignoto
giovinetto prima un genio mortificato della Restaurazione nella clausura feudale
di Recanati. Osservandone la lingua e lo stile, si nota nell’epigrafia di Giordani
una ricerca di trasparenza, dal lessico alla sintassi. Del resto, solo una grande
limpidezza intellettuale, di cui è spia la grammatica delle epigrafe, avrebbe
potuto permettere di fissare nel marmo il fatto che Giacomo Leopardi era stato,
contemporaneamente, non solo un ammirato filologo e poeta, ma appunto un
“altissimo” scrittore di filosofia: in pratica è ciò che attualmente si riassume,
grazie alla formulazione icastica di Antonio Prete , nella categoria di pensiero
poetante.
Delle epigrafi in lingua italiana e del fatto che fossero venute di moda nel pieno
Ottocento, diffidava per primo colui che avrebbe messo in mano i libri di
Giordani e Giuseppe Chiarini, nientemeno Giosuè Carducci, il quale pubblicò
sulla “Cronaca bizantina” del 18 ottobre 1881 una feroce stroncatura. Illustre ma
nel complesso sparuta la pattuglia dei precursori (tra cui comunque Bembo,
Varchi, Giovio, Vasari, Speroni, Bartoli, Tesauro).
L’editoria ottocentesca
Nel corso dell’Ottocento l’universo del libro fu segnato da una grande
rivoluzione, che ebbe per protagonista una figura nuova: l’editore moderno, una
professione distinta, per le sue caratteristiche d’iniziativa imprenditoriale e di
progettualità culturale, dai tradizionali mestieri del tipografo e del libraio.
In precedenza, cioè durante l’epoca del cosiddetto antico regime tipografico- che
in Italia così come in Francia, in Germania e in Inghilterra, durò fino agli anni
trenta-quaranta del XIX secolo-, la produzione editoriale era uscita soprattutto
da botteghe artigiane, che lavoravano con torchi manuali pubblicando
prevalentemente testi su committenza. D’altro canto se molti erano i centri
editoriali diffusi nella penisola, fino al termine del XVIII secolo esisteva una
capitale indiscussa: Venezia, che con la sua capacità produttiva dominava
l’intero mercato italiano.
La svolta maturò negli anni della dominazione napoleonica, allorchè si fecero
strada le prime istanze di liberalizzazione del settore librario e della cultura in
generale. La città lombarda diventò il principale punto di riferimento degli
intellettuali e dei collaboratori editoriali, la fucina delle maggiori novità
culturali, le sede dei più intraprendenti operatori del libro.
A partire dagli anni quaranta l’editoria italiana conobbe una lunga stagione
espansiva, che proseguì nei decenni successivi, estendendosi fino al Novecento.
Tutto si accrebbe, soprattutto dopo il 1861: il numero delle stamperie, quello
degli addetti del settore, delle opere pubblicate- libri ma anche testate
periodiche; crebbero infine le tirature.
Produrre per il mercato voleva dire perseguire tre finalità principali. In primo
luogo bisognava ampliare il numero dei lettori, ampliamento da intendersi in
senso geografico e in senso sociale, raggiungendo il pubblico formato dai ceti
popolari in via di alfabetizzazione, dai fanciulli in età scolare, dalle donne:
quest’ultime, fino ad allora lettrici prevalentemente di testi devoti, divennero le
grandi acquirenti dei romanzi, il genere più diffuso della produzione narrativa
ottocentesca. Secondariamente al fine di acquisire nuovi lettori era necessario
abbattere i costi, ossia produrre libri di qualità a prezzi contenuti, in maniera
concorrenziale rispetto agli altri editori, locali e nazionali: questo implicava
modernizzare il processo produttivo adottando i nuovi torchi meccanici,
inizialmente importati dall’estero.
Tuttavia il limite maggiore di tale espansione commerciale e pedagogica fu
rappresentato dai canali distributivi, che per l’intero Ottocento non funzionarono
come si era sperato. Si tentarono svariate soluzioni per mettere nelle mani dei
lettori- anche residenti in periferie remote- i libri e i periodici via via pubblicati,:
una per tutte il coinvolgimento degli uffici postali, preso i quali ritirare i volumi
da pagare in contrassegno, un sistema ideato da Pomba.
I generi letterari più rappresentati nelle varie collane furono sicuramente il
romanzo nei suoi vari generi, d’appendice, storico, d’avventura, fantastico, e le
forme breve del racconto e della novella.
ERMINIA IRACE
Quarto, 5 maggio 1860
Nievo e gli amori garibaldini
L’impresa dei Mille è diventata una favola. Troppo perfetta narrativamente,
troppo necessaria politicamente perché potesse sfuggire a questo destino.
Passata attraverso innumerevoli racconti, assurto a capitolo centrale dell’epopea
risorgimentale, mondata di tutti i suoi non secondari risvolti di guerra civile,
essa si è insieme rarefatta e appesantita.
Giuseppe Cesare Abba visse allora, a ventun anni, l’estate più importante della
sua vita. Così importante da restarne schiacciato: nel viaggio da Quarto al
Volturno il suo rito di iniziazione all’età adulta coincise con la nascita della
nazione. Avrebbe passato i cinquant’anni successivi a rielaborare la storia che in
quei mesi aveva vissuto e subito fermato in poche, laconiche pagine di diario,
via via integrandole, abbellendole, stilizzandole, consegnandole a una
progressione di edizioni e variazioni successive, destinate a proseguire anche
dopo la sua morte.
Eppure c’era tra gli stessi volontari partiti da Quarto chi avrebbe potuto
raccontare la storia dei Mille in un’altra maniera. E in parte lo fece, attraverso le
lettere che sono documenti di intatta freschezza sia per le scelte linguistiche sia
per ricchezza di sfumature, di sentimenti, di situazioni, di penetrazione politica e
psicologica. Ippolito nievo era atteso alla prova della scrittura dai suoi stessi
compagni di viaggio. Abba nelle sue Noterelle lo presenta già l’8 maggio a
Talamone, come “il poeta gentile che canterà le nostre battaglie”. <nessuno
invece aveva ancora potuto leggere il suo capolavoro , Le Confessioni di un
italiano”, che sarebbe rimasto allo stato di manoscritto, fino al 1867, nove anni
dopo che fu concluso e sei anni dopo la morte del suo autore, e poi a lungo
negletto dai lettori e dalla critica.
Il libro dispiacque a molti anche se fu il più bel romanzo del Risorgimento,
ironico e autoironico nello sguardo, politicamente avanzato, laico nell’approccio
alla vita, persino trasgressivo nella rappresentazione di genere, raccontava il
farsi della coscienza nazionale attraverso la vita di Carlino Altoviti narrata dallo
stesso protagonista immaginato alle soglie degli ottant’anni,
Se a Ippolito Nievo è stato accostato Luigi Meneghello, per prossimità
regionale, oltre che stilistica ed esistenziale, non è forse opportuno suggerire che
il Risorgimento italiano, avrebbe potuto trovare in lui anche il proprio Fenoglio,
il narratore di razza, capace di esplorare l’universo sentimentale che sta dentro e
dietro le scelte politiche. Il filtro della scrittura epistolare, ma forse anche
l’autoironia e lo stile, preservano Nievo dalla boria maschilista che pur connota
l’autorappresentazione del volontario in terra di conquista, e che sarà destinato a
scorrere e crescere, per vie interne, dal garibaldinismo al fascismo.
Le lettere sono anche cronaca del governo provvisorio di Garibaldi in Sicilia,
raccontato da chi vi ricopriva una posizione privilegiata: Nievo era stato
incaricato di amministrare la cassa della spedizione, e a palermo aveva ricevuto
il grado di capitano e la nomina a vice intendente generali delle forze armate in
Sicilia. Nei confronti dei meridionali Nievo ha una penna più lieve di tanti suoi
compagni di viaggio, i quali non esiteranno invece a manifestare il proprio
disprezzo per quei semiselvaggi che avevano appena battezzato italiani e fratelli,
ma su cui si specchiavano con evidente ribrezzo. Artista per vocazione, soldato
per scelta e funzionario per spirito di servizio, durante il suo soggiorno a
Palermo Nievo non dimentica di essere anche un intellettuale militante,
interessato ai risvolti e agli esiti politici della spedizione. Il rapporto con i
contadini è centrale per Nievo, sia come artista che come politico. Come
letterato egli risente della cultura del suo tempo, ritiene che nella cultura
popolare siano le radici, cioè il genio particolare della nazione e che il mondo
rurale sia un serbatoio di valori autentici e di un’umanità non corrotta. Sul piano
politico, invece, vede meglio e molto più lontano dei suoi coetanei.
ALESSANDRO CASELLATO
Marx in Italia
Destini singolari quelli dei nomi e dell’opera di Marx ed Engels nell’Italia di
Depretis e Nicotera, di Crispi e di Turati. Legati allo sviluppo della classe
operaria e dell’industria, all’organizzazione e alla modernità, pareva che della
loro diffusione dovevano incaricarsi proprio quelle figure che Marx ed Engels
avevano in odio e combattevano politicamente: gli anarchici e la boheme di
provincia. Le strade percorse dai nomi di Marx ed Engels per divenire
marxismo, infatti, non passarono solo dalle grandi città operaie del Nord.
L’Italia è un paese nel quale la cultura marxista si è sviluppata rigogliosamente e
in profondità. Nel XX secolo, una personalità come quella di Antonio Gramsci
non ha uguali nel panorama europeo, e lo stesso può dirsi di Antonio Labriola.
Il socialismo marxista si era affermato, nell’ultimo quarto dell’Ottocento, come
dottrina dominante nel movimento operaio, come “socialismo scientifico”. Il
quando, dove e il come della penetrazione del marxismo in Italia sono
largamente noti: si tratta degli anni intorno alla formazione del PSI, dell’età
giolittiana e del primo dopoguerra. Ne sono soggetti attivi l’editoria socialista e
la forza propagandistica dei partiti politici socialista prima e comunista poi; la
loro vocazione è nazionale. Altrettanto nota è la fortuna di marx ed Engels e
delle loro opere: discussi come importanti autori di economia e politica, ne sono
sostenitori o avversari Antonio Labriola, Ettore Ciccotti e Achille Loria.
I luoghi della diffusione del nome di Marx e del marxismo sono in parte coerenti
con le dinamiche della politica: sono i centri dell’organizzazione operaia,
Milano, Torino, Genova; sono le grandi città e le capitali, Firenze, Napoli,
Roma. Ma la geografia della conoscenza di Marx negli anni settanta e ottanta ci
conduce invece in un universo insospettabile di piccole città di provincia, nella
quale formicola la democrazia sociale e sovversiva.
FRANCO ANDREUCCI
I luoghi della cultura nella Toscana di Cavour
Lo spettacolo del futurismo
È il 15 gennaio 1909, durante l’intervallo che segue il secondo atto di La donna
è mobile, versione italiana di Poupees èlectriques: un testo che aveva indotto il
critico teatrale de Il Lavoro al commento “non tutti i matti sono in manicomio”.
L’autore, Filippo Tommaso Marinetti, sale sul palco, affronta imperterrito il
pubblico rumoreggiante e lo ringrazia per questa fischiata che mi onora
profondamente “, provocando così un subisso di urla. Ma la scandalosa serata di
cui stiamo parlando non ebbe luogo a Parigi e neppure a Milano, le due città
dove, secondo la leggenda, il Futurismo è stato fondato, bensì al teatro Alfieri di
Torino. In verità il Futurismo fu sin dall’inizio un espressione di una rete
nazionale, i suoi personaggi erano insediati e lavoravano in ogni parte del paese.
I futuristi facevano grande affidamento sulle esibizioni dal vivo. Oltre alla
pubblicazione di manifesti e alle mostre d’arte, organizzavano concerti,
conferenze, simposi, manifestazioni di protesta, spettacoli teatrali, ma
soprattutto quel genere di evento che riuniva tutte queste forme di performance,
la leggendaria serata. In Italia tra il 1909 e il 1915 i futuristi organizzò almeno
115 eventi ma meno di 20 mostre d’arte. Anche nel suo primo anno di vita
dunque, quando l’esistenza del futurismo era legata quasi esclusivamente alle
sue espressioni cartacee, la detonazione del movimento non interessò soltanto
Parigi o Milano ma coinvolse svariate città italiane. È da notare come Napoli
mostri subito un grande interesse per le nuove imprese di Marinetti, con ampie
cronache sullo spettacolo scandalo La donna è mobile, riproducendo il
Manifesto su tre diversi quotidiani, quasi l’annuncio che la capitale partenopea
sarebbe diventata presto, con Roma, un centro focale del futurismo. Oltre a
Torino e Parigi, La Spezia e Trieste furono i luoghi deputati ad ospitare gli
eventi futuristi della prima annata.
Il 1913 portò con sé un’esplosione di eventi, dopo il vuoto totale dell’anno
precedente , dovuto ai numerosi viaggi all’estero dei protagonisti del
movimento. Le manifestazioni non ufficiali si moltiplicarono; a contribuire alla
diffusione si aggiunse l’apertura di due gallerie permanenti da parte di Giuseppe
Sprovieri: la prima a Roma nel dicembre 1913, la seconda a Napoli nel maggio
1914; una terza, progettata a Palermo, non fu mai inaugurata per via della
guerra.
Le performance dal vivo abbinate alle mostre, a Berlino, a Londra e a Parigi,
sottolineano lo sforzo compiuto dal movimento per farsi conoscere nei luoghi
dove poteva ottenere il massimo della pubblicità. Le esibizioni e mostre futuriste
raggiunsero dunque quaranta città italiane e venti città straniere fin dai primi
anni del movimento, mentre l’ampia diffusione delle pubblicazioni e
l’attenzione della stampa fecero sì che il movimento lasciasse il segno anche in
quei luoghi in cui i futuristi non erano nemmeno passati.
PATRICIA GABORIK
Ginevra, Marzo/Aprile 1909
Pascoli, Saussure e gli anagrammi
Il 19 marzo 1909 Ferdinand de Saussure da Ginevra a Giovanni Pascoli per
chiedergli un parere intorno ad alcune questioni di composizione poetica che lo
assillava da tempo. Saussure era uno dei più grandi studiosi di linguistica della
sua epoca. Dopo un brillantissimo periodo d’insegnamento a Parigi, da quasi un
ventennio era attivo presso l’Università di Ginevra, nella Svizzera natale. Tra le
incertezze più pressanti che in quegli anni angustiavano lo studioso svizzero
figurano senz’altro quelle relative ai problemi di una sua vasta ricerca- lasciata
inedita- sugli anagrammi. L’ipotesi sottesa all’intera ricerca di Saussure sugli
anagrammi si può riassumere, schematizzando, nel modo seguente: che alla
composizione poetica nelle antiche lingue indoeuropee presiedesse un principio
di costruzione anagrammatica indipendente dalle altre ragioni di ordine metrico,
ritmico e retorico. Il primo motore del testo poetico sarebbe dunque la
ripetizione cifrata di un nome proprio o di una parola-tema
non nominati
direttamente nel testo medesimo , ma restituiti ora attraverso una permutazione
perfettamente equivalente delle loro lettere consecutive (l’anagramma puro),
ora attraverso la loro disseminazione nell’ambito di uno o più versi successivi
(ipogramma). I quaderni lasciati da Saussure contengono prove di decifrazione
anagrammatica e ancor più ipogrammatica applicate ad Omero e all’antica
poesia latina. Saussure non tardò nell’individuare in Giovanni Pascoli,
successore di Giosuè Carducci e poeta pluripremiato, un interlocutore
eccezionalmente autorevole. Nelle sue raccolte di poesie più significative
l’eccellenza della poesia pascoliana non può essere distinta dalla particolare
ipersensibilità linguistica del poeta. Anche se soltanto attraverso la specola della
poesia in latino, Saussure aveva dunque visto giusto. Pascoli è un grande poeta
della lingua , che nei suoi versi viene mobilitata pressoché ad ogni livello.
È dunque ad un poeta di tale natura che il 19 marzo 1909 Saussure invia la
prima delle sue lettere, alla ricerca di una conferma in merito all’esistenza di un
molto preciso principio di composizione anagrammatica sotteso alla
versificazione poetica. Quelle lettere sono state ritrovate e pubblicate nel 1968,
almeno fino ad oggi la risposta di Pascoli non è stata ritrovata, ma dalla
successiva lettera di Saussure si evince con certezza che non doveva contenere
indicazioni incoraggianti per lo studioso ginevrino. Da Pascoli era arrivata
dunque una sconfessione dell’ipotesi saussuriana relativa alla non intenzionalità
soggettiva e (di conseguenza) agli automatismi imposti dalla rigida osservanza
del metodo di composizione moderna.
ROBERTO GALAVERNI
Napoli, 20 maggio 1909
L’inafferrabile sentimento dell’umorismo
Da quando il 20 maggio 1909 Benedetto Croce stroncò il saggio sull’umorismo
di Pirandello, iniziò una disputa destinata a trascinarsi per ben trent’anni, con un
episodio a decennio; le premesse furono poste proprio all’inizio del secolo. Nel
1902 proprio Benedetto Croce aveva pubblicato la sua Estetica come scienza
dell’espressione e linguistica generale, in cui l’uomo veniva ridotto ad un fatto
empirico e psicologico, in sé privo di valore estetico, meritevole di una
trattazione essenzialmente individuale: “Non c’è umorismo, ma c’è Sterne,
Richer, Heine” avrebbe poi ribadito nel 1903, dedicando all’argomento una
nuova, breve trattazione. Pirandello invece, sin dal titolo della sua prima raccolta
di poesie, Mal giocondo (1889), aveva manifestato una consapevole propensione
ai rovesciamenti, agli scontri tra parole di significato opposto, ai paradossi
semantici e soprattutto logici, propensione di cui troviamo traccia anche in altri
titoli. Del 1904 è anche il romanzo che gli diede la fama, Il fu Mattia Pascal e
qui all’ossimoro celato dall’accostamento tra l’irrazionale del nome e il
razionale del cognome si aggiunge un’altra chiave: il linguaggio burocratico e
ufficiale dell’aggettivo “fu”, etichetta sociale che non aderisce alla verità
dell’individuo. È proprio dalla preoccupazioni patrimoniali seguite alla perdita
della miniera di famiglia che dobbiamo il saggio sull’Umorismo. Entrambi i libri
nascevano in polemica con l’estetica crociana, soprattutto con la crociana
espulsione della dimensione riflessiva dalla sfera estetica. È questa la
dimensione in cui cercare i rapporti tra arte e scienza; è questa soprattutto la
dimensione dell’umorismo: la realtà non è unitaria, quel che è si rispecchia, con
le inevitabili deformazioni, , in quel che vi pare; l’io è scisso. Nell’Umorismo si
dice che l’uomo “è fuori di chiave”, “è a un tempo violino e contrabbasso”, non
può abbandonarsi a un sentimento senza avvertir subito qualcosa dentro che fa
una smorfia e lo turba e lo sconcerta e lo indispettisce”. Condizione comica per
chi l’avverte e, invece, umoristica per chi cerca di penetrarla: “avvertimento del
contrario” e “sentimento del contrario” sono le due formule che Pirandello
escogita per definire rispettivamente il comico e l’umoristico.
La stroncatura crociana del 1908 era stata innanzitutto una dissuasione a
Pirandello dell’inoltrarsi nei territori filosofici, Croce non contesta davvero, nel
merito, la tesi di Pirandello, ma addita la sua irriducibilità nei termini di un
sistema che è poi, ovviamente quello di Croce stesso.
Oggi il saggio di Pirandello per Eco si può leggere in tre modi: come
definizione, imprecisa e fallimentare, dell’umorismo; come enunciazione della
poetica di Pirandello; come dramma grottesco di una definizione impossibile. In
termini più sociologici che semiotici quella tra Eco e Pirandello è forse una
tipica dialettica tra movimento e istituzione, in cui il concetto rinuncia allo
statuto di stella polare., per diventare bussola, sistema di riferimento mobile.
STEFANO BARTEZZAGHI
Firenze, dicembre 1910
Croce e la morte del passato
Il progetto editoriale di “Scrittori d’Italia”, la collezione di autori della
letteratura italiana pubblicata da Laterza a partire dal 1910, ha una gestazione
estiva. Nel 1909 Benedetto Croce è a Raino, ospite della cugina Teresa Petroni
Rossi, in un palazzo al centro di un antico tratturo che dall’Abruzzo porta in
Puglia. È agosto. Croce scrive a Giovanni Laterza e gli chiede di raggiungerlo in
villeggiatura. Gli vuole parlare di un nuovo progetto. Una raccolta di scrittori,
non solo i maggiori, 200 volumi, 350 pagine circa ognuno. Il 28 settembre sul
“Giornale d’Italia”, pochi giorni il ritorno di Laterza a Bari, Croce annuncia il
progetto dell’opera. La questione di un’edizione moderna dei classici italiani era
molto dibattuta in quell’estate del 1909. La concorrenza editoriale su questo
fronte era molto forte. Il 29 settembre Bellonci annuncia la collana “Scrittori
nostri” per Carabba, l’editore abruzzese di Lanciano, un’analoga iniziativa
Milano, giugno 1985
I blog di Pier Vittorio Tondelli
Quando ancora non esistevano i blog, attraverso quali modalità di scrittura si
esprimevano e dialogavano i giovani? Un tentativo di risposta potrebbe
consentirci di ricostruire la trafila dei passaggi essenziali attraverso cui i modelli
di scrittura giovanile sono andati via via acquistando un assetto preciso e
inconfondibile, fino al punto di esprimere attraverso i blog la proprio forma di
espressione privilegiata. Esistono tuttavia delle date che possiedono un rilievo
particolare e non si può trascurare, per esempio, il giugno 1985 quando Pier
Vittorio
Tondelli
dalle
pagine
di
“linus”
trasforma
in
un
invito
all’autonarrazione la proposta, formulatogli dalla rivista, di tracciare un presunto
identikit delle giovani generazioni. L’intervento esce con il titolo emblematico
Gli scarti e costituisce il primo abbozzo di quello che diverrà di lì a poco il
progetto Under 25. Solo qualche mese dopo l’iniziativa riceverà la sua
consacrazione ufficiale, in seguito alle numerose lettere di consenso arrivate alla
rivista. Il progetto, definito da Tondelli, uno “strumento di lavoeo” si presenta
all’insegna di un cantiere della scrittura giovanile. Perché Under 25? Per non
creare la solita confusione tra giovani, esordienti, inediti e opere prime, solo un
ferreo limite di età. Il progetto di Tondelli nasconde non poche insidie nei
confronti dell’istituzione letteraria , i modelli dominanti della letteratura vanno
sovvertiti radicalmente, quanto il diffuso conformismo rivoluzionario che,
mentre aspirerebbe a scardinare l’ortodossia ufficiale, ne segna invece un
preciso rovesciamento speculare. La nuova figura di scrittore auspicata da
Tondelli è colui che legge, scruta i segni impressi nella propria comunità di
appartenenza. Ogni scrittore deve, in prima istanza, essere sempre un lettore, un
attento interprete del proprio influsso esistenziale, come, d’altro canto, ogni
lettore è sempre, a tutti gli effetti, un potenziale scrittore. Tondelli propone
inoltre una nozione decisamente singolare di testualità, che non coincide con il
perimetro tradizionale del libro. I numerosi scrittori che rispondono all’appello
lanciato sulle pagine di “linus2 costringono Tondelli ad una rigida quasi brutale
selezione. Solo un ristretto ventaglio di racconti- precisamente trentanovetroverà posto nei tre volumi di cui si comporrà l’iniziativa, pubblicata con i
seguenti titoli Giovani Blues, Belli & Perversi, Papergang. Gli Under 25
presenti nelle tre raccolte formano una compagine articolata. Si va da scrittori
occasionali ad alcuni giovani narratori che riusciranno negli anni successivi ad
imporsi con evidenza, Andrea Canobbio, Gabriele Romagnoli, Silvia Ballestra,
Giuseppe Culicchia e, probabilmente, Elena Ferrante.
ARTURO MAZZARELLA
Milano, autunno 1995
Bene, è finito un secolo
Nell’autunno del 1995, l’editore Bompiani pubblica le Opere del celebre attore
Carmelo Bene. Compaiono nella serie pregiata dei «Classici», un volume in 8º,
quasi 1600 pagine in carta india, rilegatura in pelle con due nastrini segnalibro,
elegante sopracopertina bianca con un piccolo ritratto in bianco e nero
dell’autore. La veste editoriale riproduce a puntino quella della famosissima
Pleiade francese: la grande collana stampata da Gallimard, il non plus ultra del
genere.
Da trentasei anni Carmelo Bene era considerato un enfant terrible della cultura,
così come Dario Fo ne era lo scatenato giullare. Nell’ottobre del 1997, sarebbe
giunta da Stoccolma la notizia del premio Nobel a Dario Fo e un’ira sorda
avrebbe corso gli establishment letterario italiano.
A partire dalla fine degli anni Sessante, Carmelo Bene aveva pubblicato e
ripubblicato i suoi libri presso Lerici, Longanesi, Sugar, Einaudi, Feltrinelli. Era
molto noto come attore di indiscutibile talento, solitario e geniale, ma non
veniva considerato un vero scrittore. Gli spettacoli teatrali e cinematografici di
Carmelo Bene erano stati tutti o quasi, successi di scandalo, una tra le varianti
dei teatrali trionfi. I suoi punti di riferimento erano shopenauer e Max Stirner, si
annoiava con Brecht, amava Celìne. Si divertiva con Gozzano, Carlo Dossi,
Gadda e Antonio Pizzuto, ma soprattutto con D’Annunzio. Vent’anni dopo i
ribelli del teatro, artisti e intellettuali, lo veneravano. Goffredo Fofi e Piergiorgio
Giacchè si adoperavano con le riviste “Linea d’ombra” e “Lo straniero” a
liberare il fenomeno Bene dalla banalizzazione, dall’aneddotica bizzarra dalle
premeditate esagerazioni. C’erano critici patentati che continuavano a
sbeffeggiarlo trattandolo alla stregua di un Pinocchio o Lucignolo dell’arte,
genialoide e cialtrone. In Francia si era invece da tempo conquistato il ruolo
d’una “scoperta” per numerosi esponenti dell’elite intellettuale, da Gilles
Deleuze a Michel Foucault, da Jaques Derrida a Pierre Klossowsky. Veniva
spesso paragonato ad Artuad. Un abbaglio non privo di giustificazioni, perché
Carmelo Bene era giusto il rovescio di Antonin Artuad.
FERDINANDO TAVIANI