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Sulla mietitura e la pesatura del grano 2018.10.06

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Contaminazioni Contadine by www.UrbanTree.it
SULLA MIETITURA E LA PESATURA DEL GRANO NEL GARGANO
di Rocco Sgherzi (*)
NOTE PRELIMINARI
Il presente scritto, lungi dall’essere una ricerca scientifica, è il risultato di note personali che si basano su ricordi di
gioventù confermate dalla raccolta di notizie sul territorio e da materiale bibliografico recuperato soprattutto in
rete. Non mancano interviste presso anziani, documentazione cartacea inviatami da amici e conoscenti sparsi per il
mondo, nonché ricerche in archivi fotografici pubblici e privati.
Il riferimento linguistico dialettale è quello del mio paese d’origine (Vico del Gargano), ma gli usi descritti sono
pressoché estensibili a tutti i comuni del Gargano nord.
Poiché questo lavoro è collegato ad una più ampia ricerca sul dialetto vichese, sono indicati (tra parentesi) i relativi
termini dialettali. Poiché si tratta di dialetto e la translitterazione dei suoni non è assolutamente facile senza l’uso
dell’alfabeto fonetico (IPA) si è cercato di fare una semplificazione che possa permettere alla maggior parte delle
persone un’agevole lettura. Si è cercato di ridurre al massimo l’uso delle vocali accentate e di simboli particolari,
cercando di attingere alle lettere tipiche dell’alfabeto italiano ed adattandole al nostro scopo. Pertanto le
principali regole per leggere i termini dialettali riportati nell’articolo sono le seguenti:
Vocali
7 vocali di base (come l’italiano): a, è (e aperta), é (e chiusa), i, ò (o aperta) ó (o chiusa), u.
1 vocale neutra (in glottologia ə schwa): ovvero la vocale muta, ma presente nella pronuncia, che indichiamo con e.
1 vocale dittonghizzata: æ (a = vocale anteriore quasi aperta non arrotondata) evolvente alla e aperta (è) allungata
(come tutte le vocali in sillaba piana).
2 dittonghi attivi: oi e au tipici del dialetto antico (cafone), evolventi in i e u del dialetto moderno (gentile).
2 semivocali: j (la i di ieri) e û (la w di wood).
La vocale, sia singola che in dittongo, in sillaba piana (la penultima sillaba della parola) assume sempre un suono
allungato, pari a due volte il suono della sillaba nel dialetto cafone o (cantilenato) circa 1,5 volte nel dialetto
gentile.
Consonanti
Occlusive sorde e sonore esplosive: chj, ghj e cchj, gghj
Raddoppio fonosintattico: tendenza a raddoppiare le bilabiali, le fricative e le occlusive
Gruppo consonantico serbo‐croato sck formato da š e ch
Gutturalizzazione dell’h aspirata in inizio parola: ġ
Articolazioni doppie: z (ts = affricata alveolare sorda) e ż (dz affricata alveolare sonora)
SULLA MIETITURA E LA PESATURA DEL GRANO NEL GARGANO.
Se la principale fonte alimentare del popolo italico è sempre stato il pane, per quello garganico
il pane rappresentava la base imprescindibile. L’elaborazione di una miriade di ricette a base di
questo elemento ne è la conferma concreta (ricette, peraltro, che tenevano conto del diverso
grado di indurimento della pagnotta e della stagione). Per cui la coltivazione del grano (ma di
tutti i cereali in genere) era diffusissima e spinta in ogni fazzoletto di terra che potesse
garantirne la coltura. Non era raro fino agli anni ’50 del secolo scorso, vedere “pezze di grano”
coltivate su terreni ripidi e scoscesi, inframezzati da grossi sassi sporgenti (i maurge) in ogni
angolo del territorio garganico: dal mare fino alla Foresta Umbra. Tali terreni erano impossibili
per qualunque forma di meccanizzazione e quindi venivano ancora lavorate a mano dissodando
il terreno con la zappa. Ovviamente più i terreni erano ampi e pianeggianti, maggiore era
l’ausilio degli animali da tiro per la lavorazione dei terreni, dall’asino ai muli, fino ai più
specializzati buoi. Ed a partire dalla primavera fino ai principi di dell’estate, i versanti del
Gargano si mostravano come un’enorme puzzle costituito da un insieme di appezzamenti dalle
dimensioni più varie che cambiavano di colore /dal verde primaverile al giallo oro estivo) ed
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ondeggiavano al vento come tanti piccoli “mari”.
Chiunque avesse un pezzo di terra , anche
minuscolo, seminava questo prezioso cerale e, se
proprio il terreno non era sufficiente per coltivarci
il grano per fare il pane (grani teneri) almeno una
misura (1) dove coltivarci il prezioso “saragolla”, u
græne di maccaraune. Giusto per curiosità, il
Saragolla o Duro di Puglia era un grano molto
diffuso, dal particolare colore giallo scuro che
produceva una farina più grigia, meno bella, ma
eccezionale per la panificazione: da sempre coltivata in Puglia, Basilicata e Abruzzo, derivava da
quel grano khorasan che oggi sembra quasi miracoloso e viene venduto a perso d’oro col nome
commerciale di Kamut! Ma questa è un’altra storia.
Un tempo, quindi, arrivata la fine di giugno, quando i cereali (grano, avena e orzo) arrivavano a
maturazione, cominciava la mietitura e siccome le mietitrebbie nemmeno si immaginavano e le
mietitrici meccaniche non erano ancora arrivate sul Gargano (ovviamente per i piccoli
contadini, perché i “signori latifondisti”, come Don Cecchino Della Bella, avevano già a
disposizione delle mietitrici meccaniche trainate da buoi), ovviamente, si mietevano a mano.
Il contadino, attrezzato con la falce (a fàuce) e la cote
(a ‘ffelatùre), debitamente protetto con i ditali di
canna alla mano di raccolta (i cannèdde), ben riparato
con la maglia di lana cruda (a magghje de læne) e con
il fazzolettone a bandana (ttuccatoìne) sotto il
cappello, per proteggersi dal sudore, cominciava la
sua giornata di lavoro.
Tenendo gli steli del grano (o
dell’avena o dell’orzo) con la
mano protetta dai cannelli,
tagliava con la falce alla base delle piante, ogni paio di falciate, quel
grano che riusciva a tenere in mano lo legava a mazzetto, usando
alcuni steli del grano che componevano il mazzetto stesso. Quel
mazzetto
(jèrmete)
rimaneva appoggiato per
terra ed egli continuava il
suo lavoro di mietitura.
Ogni tanto, si fermava. Un buon sorso d’acqua fresca
dal cìcino di terracotta (u cicene) e ritornava sui suoi
passi. Raccoglieva una decina di fascetti e li legava
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insieme, sempre usando gli steli dello stesso cereale che stava mietendo.
La chiusura della legatura avveniva attorcigliando le teste (i spoīche) e la base degli steli, riuniti
in una sorta di corda naturale. Ne risultavano i “mannocchi” (manaucchje), un fascio grande
tanto quanto poteva essere abbracciato, che venivano
avvicinati uno all’altro e venivano accatastati con ordine
(arregghjete) in gruppi di 10, in modo che,
successivamente potevano essere caricati sull’asino o
sul mulo e portati all’aia. Questa operazione era
chiamata “cerevà” e prendeva il nome da “u
cerevataure”. Quest’ultimo era un attrezzo molto molto
semplice, costituito da due assi di legno di orniello (līna
d’ornë) legati all’estremità con pezzi di corda in modo
che potessero incastrarti tra la parte anteriore (a coreve)
del basto (a varde) e la parte posteriore, in modo da
facilitare l’operazione di carico e trasporto dei
mannocchi (di fatto una regghje rappresentava una
soma, cioè un carico completo).
A Vico del Gargano, gli elementi chiave che segnavano il
passaggio dei cereali dal campo all’aia erano i seguenti:
Jermete(o Mæne): mannella, mannello: quantitativo di
pianta di cerale maturo (stelo e spiga insieme) capace di essere tenuta in una mano del
mietitore.
Manucchje: Mannocchia, mannocchio (lat. maniculum)
costituito da 8‐10 mannelli di cerali legati insieme tra di loro.
fascetto
Regghje: cumulo ordinato costituito da un numero di 10 mannocchi
(anche se poteva variare da 10 a 12 a seconda della capacità di carico
dell’animale da soma utilizzato, in genere asino o mulo) raccolti nel
campo e concentrati nel punto di carico (prob. dal
lat. regere: reggere, governare da cui si origina
regimentum: reggimento, maniera di governare, il
termine è stato usato per indicare
un certo numero di bande armate
riunite in un solo corpo, sotto il
governo di un solo maestro di
campo).
Pegnùne: biche formate da manocchi accatastati, sia in
forma di grosse pigne che in forma di casetta con
doppio spiovente. Le biche erano formate da tutti i
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mannocchi di un singolo proprietario in attesa della trebbiatura. All’aia pubblica, con le prime
trebbie a motore, tutti mannocchi di ogni singolo proprietario venivano indicati come
“partoite” ossia partita. Ogni “partite” poteva essere costituito da tanti “pegnùne” quanti
erano i tipi di cereali da trebbiare (per es. uno di grano, uno di avena, uno di orzo).
Intorno al paese di Vico erano presenti numerose aie permanenti (areje e arejole), alcune
presenti ai limitari del paese ancora poco decenni fa ed utilizzate fino agli anni ’70 (dd’areje da
Bella Vuncenze), alte in disuso, ma ben visibili ancora adesso (dd’areje de Canciàrre), altre ormai
scomparse, ma che permangono come toponimi o ad indicare il quartiere che lì e stato
successivamente costruito (il mio quartiere è “d’areje de
Masce”, cioè l’aia di Mascis).
Tali aie erano realizzate spesso sulla sommità di piccolo
rialzo (tuppe) ed erano di forma circolare e con andamento
pianeggiante; a volte, per renderle pianeggianti, venivano
costruiti dei muri a secco di contenimento. Con una
superficie che variava dai 70 ai 100 metri quadri, erano
pavimentate con lastre di pietra locale “ i chjanchétte” e
delimitate da un cordolo di rafforzo realizzato con le
stesse chjanchette, però infilzate nel terreno per il lato stretto.
Quando, per trebbiare il grano, il tragitto che si doveva fare dal campo all’aia era troppo lungo,
si realizzava un’aia temporanea “d’arjie” nelle vicinanze del campo mietuto o, meglio ancora, in
una posizione utile a servire più campi mietuti, anche se di diversi proprietari. In questi casi
andava bene una qualunque area pianeggiante, purché
ben ventilata. Mentre i “ualéne cerevavene” gli altri
preparavano l’aia: identificato il posto si ripuliva da
tutte le erbacce ed eventuali stoppie (ce streppuniéve),
dopodiché si bagnava il terreno ripulito per tutta la
superficie che doveva fare da aia, si ricopriva tutto di
abbondante paglia e la si schiacciava facendoci “girare”
sopra gli asini, i muli o “le giumente”. In questo modo la
terra bagnata si impastava con la paglia, e con ripetuti
passaggi di bagnatura e passaggio degli animali ‐ a volte anche con l’ausilio dei bambini che,
calpestando a piedi nudi, contribuivano ad
“allisciare” il piano dell’aia – si realizzava, una volta
asciugato, un piano di lavoro duro, liscio e pulito
(dd’astreche) dove poter agevolmente trebbiare il
grano.
Pronta l’aia, nelle prime ore del mattino – quelle più
calde in modo da perdere velocemente l’umidità
accumulata durante la notte – si stendevano i
manocchi: venivano sciolti ed allargati con le spighe
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verso il centro dell’aia (c’attestavene) in cerchi concentrici, fino quasi al centro dell’aia. Per far
si che le spighe rimanessero sempre sopra la paglia, si disponevano a partire dal centro verso
l’esterno, appoggiando le spighe del cerchio esterno sulla paglia del centro interno.
Completata la preparazione dei cereali sull’aia si iniziava la trebbiatura.
“Trebbiare” in dialetto si dice: “pesà” e deriva, probabilmente, dal “pèsele” che era una pietra
larga e piatta, di forma rettangolare irregolare, con un foro nel lato corto a cui veniva fissata
una catena o una corda che attraverso “u velanzoine” (un bastone di legno con un gancio
centrale che si agganciava al pésele, mentre ai bordi del legno erano legate delle cordicelle a
loro volta collegate al collare, o pettorale del
quadrupede che la tirava) veniva trascinata sulle
spighe al fine di liberare il grano o l’orzo (u
græne o d’oreje) dalla pula (a cæme).
Per guidare i quadrupedi (solitamente giumente
o muli, ma anche asini) c’era il cosiddetto
“arejere” che, dopo aver fissato sulla bocca della
bestia “u mussæle” (una sorta di museruola
perché non mangiasse le spighe) li faceva andare
con movimento circolare su tutta l’aia rimando al centro della stessa, facendo schioccare
ritmicamente la frusta (u scriætë). Come se fosse (e lo era, infatti) il perno attorno al quale gli
animali ci muovevano con movimento circolare, l’ arejere, tenendo per la lunga cavezza (a
capézze) l’animale (o gli animali, legati affiancati e sfalsati tra di loro) seguiva costantemente il
loro movimento e, all’occorrenza, allungava o
raccorciava la cavezza, affinché gli animali
potessero calpestare per bene tutte le spighe del
cereale presente sull’aia. Secondo la sua esperienza,
decideva anche quando invertire i giri e quando far
riposare gli animali prima che si “mbriacavene” e
cioè, prima che – a forza di girare in tondo –
perdessero l’equilibrio.
Quando l’arejere giudicava che il cereale era ben
separato dalle spighe “scapuléve”, cioè smetteva di far girare gli animali e li faceva uscire
dall’aia!
A questo punto si cominciava a “muntulìà”, operazione che si faceva col
vento alle spalle: in pratica con un’asta biforcuta (a fòrche) si afferrava la
paglia dall’aia e la si tirava in aria, l’intento era quello di separare la paglia
dal grano ed infatti la paglia, che è più leggera, volava lontano mentre il
grano, più pesante, ricadeva sull’aia.
Separata il grosso della paglia dal grano, rimanevano per terra ancora
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molte spighe con i chicchi attaccati, allora rientrava in gioco l’ariere, ma questa volta con il
pesolo attaccato al quadrupede di turno. Questa volta non c’era bisogno di procedere al trotto,
ma bastava che l’animale andasse al passo, trainando il pesolo, in modo che questo (che poteva
pesare anche una trentina di chili) passando sulle
spighe, staccasse completamente i chicchi dalla pula.
A completamento di questa operazione, uscito per
l’ultima volta l’ariere con l’animale, rientravano a
“ventoliare”, ma stavolta non si usava più la forca,
ma il badile di legno (a pælë de legæme). Con lo
stesso movimento che prima aveva permesso di
separare la paglia dalla granella e dalle spighe, con le
pale, grazie all’aiuto del vento, si separava il cereale
dalla pula e dai rimasugli della paglia e delle reste (i gréste).
Quando si faceva questa operazione era d’obbligo indossare, oltre al cappello di paglia, il tipico
fazzolettone di cotone (bianco e blu o bianco e rosso) avvolto attorno al collo per impedire alle
pagliuzze di infilarsi nella camicia. Solitamente l’aia era collocata sulla parte più elevata del
terreno a disposizione, in quella parte cioè più esposta al vento e possibilmente libera da alberi.
Ma se non c’era vento? E allora si ricorreva al cernetùre, grosso setaccio con il fondo in metallo,
dove con l’aiuto delle mani, si riusciva a separare la granella dalle impurità. Ma intorno, si dava
una mano con i farnere, setacci più piccoli, ma che svolgevano la stessa funzione!
La paglia si raccoglieva e si trasportava nei fienili e nelle stalle con l’aiuto di reti di corda a
maglia larga. La granella, raccolta nei sacchi di canapa (pile de cæne) si trasportava nelle case
contadine, in apposite stanze ben arieggiate e asciutte, dove si conservava all’interno di grossi
sacchi di cotone grezzo, le “ràchene”.
Da lì, sarebbe cominciata un’altra storia, dopo essere passato per il mulino e diventata farina,
sarebbe iniziata la sua trasformazione nel principale degli alimenti, in quell’alimento che per
generazioni ha segnato le sorti di moltitudini di gente che, spesso, ha lavorato al di sopra di
ogni umana immaginazione, quasi in stato di schiavitù, per averne un pezzo: il pane!
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Rocco Sgherzi
Dottore in Scienze Forestali – Arboricoltore e Gestore del verde Urbano.
Esperto in Valutazione della Stabilità degli Alberi, con metodologia visiva e strumentale avanzata.
Svolge attività libero professionale nonché di Consulente e Curatore del Vede (CONI e LUISS).
Cultore di Restauro del Paesaggio e di Restauro di Giardini e Parchi storici (già docente) presso la Prima facoltà di
architettura “L. Quaroni” ‐ Architettura del Paesaggio – UniRoma1 La Sapienza
Cultore di di Selvicoltura Urbana (già docente) presso il DAFNE Facoltà Di Agraria – Università della Tuscia
Autore del Progetto “Contaminazioni Contadine” per il recupero e la diffusione della Cultura Contadina di tutte le
Terre del Mondo.
Ciò che accomuna qualsiasi contadino, di qualunque luogo, vicino o
lontano, è il legame con la sua terra.
E quel legame è universale.
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