La libertà in Rosmini, by Ottonello

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16.4.2015
PIER PAOLO OTTONELLO
LA LIBERTÀ IN ROSMINI1
Intendo proporvi una breve sintesi anzitutto di aspetti e di prospettive in cui si è presentata la libertà lungo
l'arco della storia del pensiero. La prima evidenza è che siamo di fronte a una categoria fondamentale e
straordinariamente ricca di problemi e di formulazioni: di piú, è una realtà certo non secondaria rispetto alla
persona umana; qualcosa di imprescindibile, al punto che non si può in sostanza concepire la persona stessa
senza la libertà. Posso forse pensarmi come assolutamente costretto da necessità? Ogni mio singolo atto — se
appena vi si riflette — alla fin fine risulta frutto anche di una serie di mie scelte. Ecco una prima fondamentale
concezione della libertà: la libertà di scelta. È vero che si possono costruire sempre nuovi argomenti che ci
indicano come, anziché liberi, siamo legati a una serie di necessità: ma per ognuno di questi argomenti ci sono
almeno altrettanti controargomenti. In realtà i miei atti di libertà di scelta si intrecciano con elementi estranei
alle mie scelte, dunque non liberi in quanto realtà che ci si presentano senza che le abbiamo volute e che in
genere percepiamo come casuali. Dunque: libertà e caso; ma, riflettendo, è necessario almeno aggiungere la
necessità. Infatti posso registrare mille e mille realtà che 'troviamo' senza averle assolutamente volute: dal luogo
in cui si è nati o si vive, da un’epoca a un’altra; e in quanto le considero tutte dei 'fatti', sono necessitato ad
accettarli. Già per quest'ordine di motivi la mia libertà, se da un lato è imprescindibile, dall'altro non può essere
assoluta: è invece limitata da impossibilità insormontabili (dato che ad esempio non posso trovarmi in due
luoghi contemporaneamente, o parlare cinese senza averlo imparato!). Al tempo stesso, non sono libero di
scrollarmi di dosso la libertà! Certo posso scegliere di non scegliere, ma solo non compiendo alcune scelte:
dunque entro limiti non superabili né annullabili. Né è una contraddizione affermare che sono 'necessariamente
libero': il che significa, intanto, che ho dei limiti, cosí come ha limiti la qualsiasi realtà che possiamo concepire.
Ma intanto si può osservare che un altro significato di libertà è quello negativo di non costrizione. Un ulteriore
significato è quello di libertà di scegliere ciò che è migliore, o il bene maggiore. Peraltro è noto che gli antichi
greci si consideravano il popolo per eccellenza libero, e invece barbari tutti gli altri, in quanto governati da
sistemi politici tirannici, a fronte della democrazia ellenica. E se consideriamo la concezione cristiana
scopriamo che la verità ci fa liberi: vale a dire che la volontà umana si determina liberamente nelle sue scelte e
la grazia di Dio la libera in modo pieno illuminando l'intelligenza a verità superiori e rafforzando la volontà in
modo da farla capace di scegliere il bene maggiore.
Invece grande parte del pensiero moderno e contemporaneo, specie dal Cinquecento, nega
sostanzialmente la libertà umana, concependo il mondo intero come un insieme di cause ed effetti connessi in
modo necessario. In alcuni casi tale necessità è concepita sostanzialmente secondo un modello fisico: se io
lancio una pietra questa ricade secondo leggi che posso dedurre e misurare ma certo non mutare. Alcuni
importanti pensatori giudicano invece la libertà come il principio e il fondamento, come la legge somma di ogni
realtà, della realtà tutta. E intanto tutto questo ci conferma che la libertà è dimensione fondamentale, sia che la
si problematizzi o la si neghi, oppure la si assolutizzi.
Restando ai significati fondamentali della libertà, riscontriamo che quello piú comune corrisponde
all'espressione 'libero arbitrio': che essenzialmente significa che ogni mio atto è libero in quanto mi faccio
arbitro, cioè scelgo, di volta in volta, fra diverse possibilità; e posso scegliere soltanto in base ad un qualche
criterio, dunque in base ad un giudizio. Ad esempio, nel gioco del calcio l'arbitro giudica in base alle regole del
gioco: il suo criterio di giudizio è dunque costituito da tali regole e i giocatori restano liberi di rispettarle oppure
di violarle, ma in ogni caso quelle regole costituiscono il criterio rispetto a tutte le loro libere scelte. E non può
sussistere nessuna forma di società senza un insieme di norme che le consentano di funzionare regolando le
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Testo della conferenza rivisto dall’Autore tenutosi a Brescia il 16.4.2015 su iniziativa dalla Cooperativa Cattolico-democratica di
Cultura.
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relazioni tra le libere scelte dei suoi componenti. Dunque non è pensabile una libertà assoluta, dove assoluta
significhi sciolta da tutte le possibili regole: in ogni caso la libertà si determina in rapporto a norme, e nella
società in senso ampio in rapporto a leggi. Norme e leggi sono comunque condizioni, nonché misura, degli atti
liberi; i quali, quando si svolgano violandole, o ignorandole, vengono giudicati non leciti, e in quanto tali
eventualmente vengono sanzionati. In questa direzione sono sostanzialmente due i significati piú correnti e
dominanti della libertà: il primo si riferisce alla persona come singolo individuo, e il secondo all'individuo come
componente di una società. Potremo considerare il primo come libertà morale e il secondo come libertà
politica. È evidente che si tratta di una distinzione tanto piú importante quanto piú per sua natura comporta
infinite forme di reciproche relazioni e intersecazioni. Ma restano comuni la volontà del singolo e le leggi della
società. D'altro lato le leggi sono pur sempre risultati, nelle loro formulazioni concrete, di un insieme di accordi,
di mediazioni e di convenzioni sociali, che hanno come fine principale la migliore convivenza tra le volontà
individuali: in altri termini il loro fine non può essere se non quello della società stessa, il suo maggior ordine
possibile. E non c'è nessuna forma di ordine, che riguardi l'individuo o la società, che non si identifichi in
sostanza con il conseguimento del bene maggiore in relazione tanto all'individuo quanto alla società stessa.
Ecco perché il maggior grado di libertà politica non può non corrispondere al maggior grado della libertà
personale. Ogniqualvolta queste due libertà entrano in conflitto, significa che non si è assunto in misura
adeguata come fine l'ordine stesso, senza il quale non sussiste nessuna forma di libertà.
D'altra parte l'ordine come fine comune tanto dell'individuo quanto della società altro non è che il bene
maggiore di entrambi: ossia quello che si è soliti sintetizzare in termini tanto di perfezione quanto di felicità.
Resta ovvio che non può non trattarsi di fini conseguibili soltanto in misura limitata e mai piena, totale, già per
la costitutiva limitatezza, in molteplici forme, dell'essere umano. In questo senso è del tutto inconcepibile una
libertà assoluta. Ma il punto fondamentale resta quello delle relazioni fra me stesso, come dotato di qualche
misura di intelligenza e di volontà, e i fini che di volta in volta scelgo nel mio pensare e nel mio agire. Il livello
e la qualità dei fini in qualche misura posso giudicarli dai frutti del mio intelligere e del mio operare: certamente
non potrò pervenire a nessun grado di appagamento e tanto meno di tranquillità e di felicità se i fini del mio
operare sono quelli che la qualsiasi società normalmente considera delitti. Ma nel caso io respinga come
convenzioni o come finzioni tutte le leggi che connettono come tale la qualsiasi società, e dunque mi consideri
in assoluto libero dalla qualsiasi forma di legge, in questo caso mi collocherò nella posizione che è propria
dell'anarchia: termine di radice greca che in sostanza significa senza nessun principio e nessuna norma che io
riconosca valide come tali. Ma in sostanza non è concepibile nessun atto umano che sia privo di fine, che
assolutamente non riconosca nessun principio o norma: nel caso dell'anarchico è evidente che egli concepisce la
propria libertà come orientata di volta in volta dalle passioni che inevitabilmente lo attraversano, senza
frapporre ad esse nessun tipo di limite. Ma siccome quello che vale per il singolo vale su piú ampia scala per le
singole società, la traiettoria sia dell'anarchico sia della società che non abbia come suo fine sommo il bene
maggiore come bene comune — come avviene nei dispotismi e nelle tirannie — non potrà che compiersi con
esiti di dissolutezze e di dissoluzioni. Se ne può concludere, intanto, che tutte le possibili forme di libertà del
singolo come libertà politiche, ossia della società, fondamentalmente si sostanziano e si traducono in termini di
libertà di vivere, di informazione, di insegnamento, di fede: non può sussistere nessuna forma di vita e di vero
progresso di una società se questa non assume come suo fine ultimo il bene maggiore dei suoi membri, che
infine coincide con la loro maggiore felicità.
Cercherò ora di raccogliere in estrema sintesi la concezione che Rosmini ha della libertà. Anzitutto
occorre tenere presente che Rosmini, fra l'altro lettore sterminato, possiede per intero il panorama storico delle
diverse interpretazioni della libertà. E si può aggiungere che la sua vastissima opera — l'edizione nazionale
critica dei suoi scritti che è in corso prevede almeno cento grossi volumi — contiene anche un intero trattato
sulla libertà. Rosmini a proposito della libertà anzitutto parla di una «specie di mistero filosofico»: per
sottolinearne l'importanza e la complessità, che è quella stessa della persona.
Rosmini giudica necessario premettere, quasi a "manifesto" del proprio sistema filosofico, la connessione
fra libertà e verità, dispiegandola in apertura dell’Introduzione. Se ne può individuare il nucleo nella seguente
tesi: «l'unione intima dell'uomo colla verità è naturale»; «l'operare secondo questa unione è consentaneo alla
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libertà umana. Ma poiché — prosegue — la libera volontà può opporsi all’umana natura, quindi da essa
procede la volontaria servitú dell'uomo (…) che ritorce la terribile potenza della propria libertà contro se
stesso». La filosofia può dunque dispiegarsi come libertà sempre più pienamente in atto solo in quanto anzitutto
smaschera le "servitù" di volta in volta dominanti e ne dimostra confutatoriamente la natura profonda, la sua
distruttività, al limite estremo, di ogni sapere, dell'uomo stesso.
Rosmini fonda la libertà umana come il potere della volontà di determinarsi nelle singole volizioni come
scelte. Per se stessa la volontà è «l’appetito che tende al bene conosciuto»: nessuno e niente può forzarla, se non
la persona stessa volente, che può esercitare violenza su di essa, determinandosi dunque a scegliere il male o il
bene minore.
L'intelligenza mi presenta indefinite realtà e altrettante possibilità che io ho di porle in relazione e
diversamente ordinarle. Ad esempio distinguendole in ordine all'importanza che attribuisco loro. La mia libertà
nella sua pienezza è frutto della mia scelta di ciò che per me è il bene maggiore fra quelli di cui ho intelligenza:
posso chiamarla volontà superiore e posso connetterla con la felicità o identificarla con essa. In ogni caso, la
libertà connette principalmente due elementi: un elemento soggettivo e un elemento oggettivo: nel confronto di
due ordini di bene, uno immediato e sensibile e un altro bene, di ordine morale, che è in sé un bene maggiore. Io
resto comunque libero di scegliere un bene minore oppure un bene maggiore: ma solo se scelgo il bene
maggiore accresco la mia libertà. Infatti nel primo caso non valuto la ragione sufficiente per scegliere fra
sensazioni, mentre invece nel secondo caso la mia scelta la pongo in atto alla luce di ragioni oggettive. Infatti il
piano delle sensazioni include beni certamente inferiori ai beni colti mediante l'intelligenza. La differenza
sostanziale tra i due piani si può contrassegnare il primo con l'immediatezza e il secondo con la coscienza. Ora,
se io abitualmente mi limito a scegliere quello che immediatamente 'mi va', scartando tutto quello che
immediatamente 'non mi va', tendo a ridurre la mia libertà ad un livello sostanzialmente animalesco, che diventa
'normale' e tende ad escludere ogni alternativa a se stesso quando da sé si imprigioni non obbligandosi a seguire
una norma, ma invece passivamente adeguandosi ad un'abitudine, viziosa e non certo virtuosa. Vero e proprio
vizio si ha quando non ci si pone nemmeno piú alcun problema né possibilità di tutt'altro genere di scelte,
cancellando dall'orizzonte dell'intelligenza qualsiasi forma di bene maggiore: la libertà, in queste condizioni,
non si attua come morale, ma opera scegliendo di rinunciare ad ogni scelta che sia altra da quelle di ordine
'istintivo'. Rosmini distingue in modo netto fra istinto animale e istinto spirituale — questa terminologia è sua
—, e fra giudizio teoretico e giudizio pratico. Le sensazioni e i desideri che non si filtrano attraverso giudizi
dell'intelligenza morale, la quale sempre di nuovo distingue fra beni minori e beni maggiori, dominando in
modo totale tutte le residue forme di scelta, finiscono collo schiavizzare la persona: all'estremo si sfiora lo
scegliere di non scegliere, facendosi per cosí dire scegliere di volta in volta dal gusto o dal desiderio piú
immediati. Uno solo è il rimedio sostanziale a tale 'demoralizzazione', quasi una schiavitú, che può percepirsi
come tale: nutrire senza sosta e senza limiti l'amore della verità, non mutilata o snaturata ma autentica e intera.
Infatti in ogni caso la libertà consiste nello scegliere tra diverse volizioni alla luce dell’intelligenza e al di
fuori da ogni violenza o necessità. È tanto piú grande quanto maggiore è il bene che sceglie, avendone
intelligenza. Sceglierlo è amarlo ed esserne felice: è attuare la libertà morale, il maggior ordine fra i beni che si
è capaci di riconoscere. La libertà si riduce a menzogna se si illude di poter scegliere in modo indiscriminato fra
tutte le possibili volontà. Il diritto primo e assoluto della persona è aderire alla verità nell’intelligenza e
nell’agire: è il supremo diritto alla virtú e alla felicità. Non può esserci nessun diritto di scegliere violando la
libertà morale e dunque la coscienza: ogni legge che non la riconosca e non la rispetti è falsa e non valida, frutto
non di libertà ma di schiavitú, di ingiustizia e di tirannia.
Per tutte queste ragioni, di fronte alla tesi, posta come ovvia nell’illuminismo, nonché spesso oggi,
secondo la quale solo l’ateo si trova nello stato di «liberamente filosofare», in quanto «libero dal giogo della
verità» e «da quello dell’errore», «dal vincolo del dovere e della virtú» e «da quella del vizio», Rosmini
conclude che in realtà costui altro non fa che perdere il senso di se stesso, ignorando la propria natura e la
natura umana: ma chi «non conosce né manco una sola verità (…) non sarebbe uomo». Conseguenza
fondamentale è dunque che è «la piú grande assurdità il sostenere, che le verità possedute (…) sieno un
impedimento (…) al suo libero pensiero». La contiguità di scetticismo e di ateismo, specie dove vengano
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assunti come la condizione necessaria alla libertà del filosofare, impone che se ne dimostri la natura di
«prevenzioni e persuasioni erronee», causa logica della perdita della vera libertà, dei traviamenti da essa: il che
è pienamente possibile solo esercitando «quel coraggio ed ardire filosofico, col quale tanto facilmente si
confonde la presunzione e la temerità» e che invece è intrinseco, come «condizione indispensabile», al
filosofare, ossia l’incondizionato «amore della verità». Infatti — sottolinea fortemente Rosmini — «la prima di
tutte le leggi del pensiero è la coerenza», ossia il riconoscimento teoretico e pratico della «necessità logica e
morale», che è il «diritto della verità», intrinseco alla qualsiasi sua forma: tale riconoscimento è la grandezza e
la gloria somme della filosofia e della persona, così come il suo disconoscimento ne è la dissoluzione. E la
verità oggettiva prima e fondante ogni altra, che costituisce ontologicamente l’intelligenza umana, è la presenza
dell’essere nella sua forma ideale. La filosofia svolge il proprio compito se ne mette in luce la costitutiva
necessità ontologica, e le sue conseguenze, ossia la ontologica capacità di verità oggettiva che sostanzia la
persona e la fa capax Dei, cosí come di ogni altro vero.
Il pregiudizio razionalistico che Rosmini giudica dominante — e noi ne siamo figli — è l’errore radicale
che proclama «il ragionamento qual unico mezzo di conoscere la verità», avendo scartato lo statuto metafisico
della persona, e che per necessaria coerenza conduce all’antifilosofia, «che i moderni s’ostinano a chiamare
Filosofia». La filosofia tedesca in testa, «per un lunghissimo e tortuosissimo cammino», ha «condotto il
pensiero umano in trionfo al suo estremo supplizio» — scrive Rosmini —, avendo concluso con il «decreto
vericida» secondo il quale la «ragione teoretica è impotente a conoscere qualunque siasi verità in sé
medesima»: è la «rivoluzione filosofica» in cui la filosofia è ridotta ad affidarsi a postulati indimostrabili della
ragione pratica e nel circolo vizioso dell’essersi “liberata” dalla sua intrinseca capacità di verità oggettiva. La
libertà dell’intelligenza è invece «altissima e nobilissima» in quanto si uniforma «al mondo oggettivo ed
assoluto». Ne derivano le conseguenze fondamentali, che Rosmini argomenta e determina in particolare nella
Filosofia del diritto, sul piano sia gnoseologico sia morale: ossia, per l’uomo, al tempo stesso, «non esiste un
diritto (…) di acconsentire ad un errore conosciuto per errore», né «di fare un’azione vietatagli dalla legge
morale».
Sul piano dell’antropologia filosofica, Rosmini fonda la libertà come il potere sulla volontà che la
determina nelle singole volizioni come scelte. Per se stessa la volontà è «l’appetito che tende al bene
conosciuto»: nessuno e niente può forzarla, se non la persona stessa volente, che può esercitare violenza su di
essa, determinandola dunque a scegliere il male o il bene minore. Di fronte alle possibili volizioni, che sono
«altrettante, quanti i beni (…) che l’intelletto propone», la volontà «non può essere indifferente»: perché sempre
traduce la ragion sufficiente, che inerisce a ciò che l'intelligenza manifesta come amabile, in ragione sufficiente
e forza pratica di operare, o attuando la libertà morale, per «realizzare tutto quell'ordine che è nell'idealità» e
che consegue «all'idea della somma perfezione»; oppure negando praticamente intellezione e libertà, quando ne
violi la necessità oggettiva con atti di arbitrio, ossia di libero autoasservimento. In forza di tutti questi elementi
l’intera opera e attività di Rosmini si dispiega coerentemente sulla base della più profonda consapevolezza che
l'umanità può indefinitamente progredire in modo sostanziale e intero in tutti i suoi ordini soltanto mediante la
connessione di ontologia, teologia speculativa e cosmologia, e moralmente come filosofia del diritto e della
politica, in integrazione con psicologia, etica e pedagogia.
Rosmini determina con estrema chiarezza l'inalienabilità dei diritti costitutivi della persona, in forza del
suo essere «il diritto sussistente»: diritti costitutivi sono la proprietà, a cominciare dalla propria vita, la libertà e
il suo esercizio pieno, il perfezionamento nell’ordine intellettuale spirituale temporale, con il conseguente
appagamento dell'intera persona. Tali diritti sono antecedenti rispetto alla qualsiasi società civile e alla sua
legiferazione: in questo senso la loro sfera è extra-sociale. Il che comporta, essenzialmente, che «se le leggi
civili — scrive Rosmini — non offendono i diritti, che sono ad esse precedenti, e si limitano a proteggerne
1'esercizio (...) sono giuste»; sicché la qualsiasi forma di governo che legiferi difformemente a tale principio
della giustizia ontologica, non è se non «tiranno», e genera solo forme di libertà «finta e bastarda». Infatti, sul
piano della società civile, la libertà si determina come «1'esercizio non impedito dei propri diritti». L'ultimo atto
della buona battaglia di Rosmini colpisce con estrema determinazione e determinatezza le legiferazioni fondate
sulla subdola incastellatura di sofismi concentrati entro un presunto diritto di libertà di coscienza: in realtà —
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scrive — «divenuta una coperta e uno strumento d'interessi egoistici e di passioni irreligiose e immorali»; a tal
punto che deve concludere con il giudizio di «ateismo della legge», cioè delle legiferazioni che stavano
formulandosi in quel periodo, agli antipodi rispetto alle condizioni necessarie all’autentica libertà di coscienza,
ossia, anzitutto, «che la legge civile non s’opponga mai né direttamente né indirettamente alla coscienza
religiosa dei cittadini».
Forse mai come oggi il globalizzarsi dell'ingovernabilità si fonda sulla "cristianofobia" fecondata dalla
riduzione neoilluministica della libertà religiosa alla "sfera privata", tragico corrispettivo
dell’onnisocializzazione: come se ogni atto, il più "privato", per sé stesso non generasse conseguenze, positive o
negative, sui singoli membri di micro e macrosocietà. Non certo a caso, nel trentesimo anniversario della
Dignitatis humanae, il Papa, nel congresso sul secolarismo e la libertà religiosa, ha additato tale riduzione come
«più subdola di un'aperta persecuzione»: in realtà si affianca alle aperte persecuzioni e le incrementa; è peraltro
di tale portata da contribuire in modo sostanziale allo svuotamento di ogni reale significato della qualsiasi forma
di democrazia. Ne è controprova drammatica il fatto che i piú coerenti sostenitori degli autentici diritti umani,
da altri lati conclamati nominalisticamente, sono martiri, insieme, dei crescenti economicismi e settarismi.
Leggo ora una serie di brevissime espressioni di Rosmini, che liberamente antologizzo e adatto sul piano
della lingua. Li scelgo dal paragrafo intitolato "Libertà del filosofare" che fa parte dell'opera Introduzione alla
filosofia.
Il maggior numero degli atti della vita vengono diretti da prevenzioni e da credenze assunti
arbitrariamente come segni e generali indicazioni del vero. Il compito della filosofia, cosí come di ogni persona,
è anzitutto distinguere in essi il vero e il falso, il che costituisce un'immensa difficoltà. Perciò è necessario il
coraggio che libera da restrizioni e ingiusti vincoli e che nasce dall'amore della verità, che è la condizione
indispensabile. E la prima verità che è necessario riconoscere è lo stesso lume dell'intelligenza: la cognizione
diretta e costitutiva dell'essere come idea. Il filosofo svolge su tale fondamento tutt'intera la sua attività di
riflessione. Deve scegliere sempre fra la verità e l’errore: il punto che li divide è il nulla dell'intelligenza.
Riguardo ai pregiudizi, ad esempio il filosofo non cattolico vuole creare una filosofia senza mai cercare se il
cattolicesimo sia un errore o una verità. Invece, nel filosofo cattolico l'intelligenza sempre precede e
accompagna la fede, dato che vi sono ragioni che precedono la fede e che il credere è anch'esso un atto del
pensiero che ubbidisce alla ragione, benché non sia solo questo.
Ed ecco il mio altrettanto breve commento.
La tesi fondamentale è che la vita umana non è vissuta né in pienezza né in libertà se cerca di sottrarsi al
combattimento continuo, immensamente difficile, arduo, contro l'infinita serie dei pregiudizi, degli arbitri, delle
deformazioni, delle limitazioni alle quali crocifigge la verità: cosí si condanna a sempre nuove schiavitú. Può
costruire sempre nuovi strumenti per calcolare e per comunicare: ma se vive nella dimensione dell'immediato
impulso, escludendo tutto il resto sotto il vessillo globalizzato delle indifferenze, innesca ed alimenta una serie
di omissioni e di errori: non meno che abissale e sulla traiettoria dell'autodistruzione.
Rosmini intesse un insieme enciclopedico di opere nella direzione piú costruttiva, in forza del suo totale
amore della verità. Restando al problema della libertà, sviluppa in modo sistematico non solo una fondamentale
filosofia morale, ma anche una filosofia della politica e una filosofia del diritto.
La Filosofia del diritto di Rosmini (1841-1843) è una delle sue opere in cui, attraverso il ripercorrimento
critico del pensiero da Platone a Hegel, la libertà viene collocata come valore metafisicamente costitutivo della
persona, dunque come sua dignità oggettiva, intangibile, in quanto è possibilità di ordinarsi all’essere assoluto e
infinito: dignità necessariamente connessa con la costitutiva capacità di contemplare la verità, e culminante
nella costitutiva capacità di godere la beatitudine del possesso dell’essere assoluto.
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