Cartesio (René des Cartes o Descartes)
Introduzione alla filosofia
Ernesto Riva
Renè des Cartes (Descartes) o Cartesio (1596-1650)
Cartesio è considerato il padre della filosofia moderna per aver proposto un nuovo
metodo di ricerca. Una nuova metodologia doveva, per lui, aprire la possibilità di
una
riforma del sapere connessa con la riforma dell’uomo e con l’instaurazione di una
saggezza troppo a lungo smarrita. La filosofia tradizionale, basata ancora sul
sapere aristotelico, era diventata totalmente estranea alle nuove teorizzazioni e
scoperte. E’ urgente una filosofia che giustifichi la comune fiducia nella ragione:
una filosofia che sia metafisicamente fondata, capace di sorreggere nella ricerca
della verità, e che dia un metodo universale e fecondo. Il metodo che Cartesio
cercò e che ritenne di aver trovato è una guida per l’orientamento dell’uomo nel
mondo. Esso deve condurre ad una filosofia non puramente speculativa, ma
anche pratica, per la quale l’uomo possa rendersi padrone e possessore della
natura. In altre parole, il metodo deve essere un criterio unico e semplice di
orientamento che serva all’uomo in ogni campo teoretico e pratico e che abbia
come ultimo fine il vantaggio dell’uomo nel mondo. Cartesio doveva dunque
formulare le regole del metodo tenendo presente il procedimento matematico, in
cui esse sono già in qualche modo presenti; fondare con una ricerca metafisica il
valore assoluto e universale del metodo; dimostrare la fecondità del metodo nelle
varie branche del sapere.
LE REGOLE DEL METODO
Vi sono quattro regole del metodo. La prima è quella della evidenza, per la quale
non si accetta mai nulla di vero se non è evidente. Ed evidenza vuol dire
intuizione chiara e distinta di tutti gli oggetti del pensiero e l’esclusione di
qualsiasi dubbio. La seconda regola è quella della analisi, per cui un problema è
risolto dapprima nelle sue parti più semplici, da considerarsi separatamente. Las
terza regola è quella della sintesi, per cui si passa dalle conoscenze più semplici a
quelle via via più complesse. La quarta regola è quella della enumerazione e
revisione, per poter "fare in ogni caso enumerazioni così complete e revisioni così
generali da essere sicuro da non omettere nulla". L’enumerazione controlla la
completezza dell’analisi, la revisione la correttezza della sintesi.
Sono regole semplici, che sottolineano la necessità che si abbia una piena
consapevolezza dei passaggi in cui si articola una qualunque ricerca rigorosa.
Cosa comporta l’assunzione di un tale modello? In generale, esso comporta il
rifiuto delle nozioni approssimative, imperfette, fantastiche o anche solo
verosimili che erano tipiche di gran parte del sapere del tempo, troppo astratto e
formale.
IL DUBBIO E IL COGITO
Ora, trovare il fondamento di un metodo che deve essere la guida sicura della
ricerca in tutte le scienze è possibile solo con una critica radicale del sapere già
dato. Cartesio ritiene che nessun grado o forma di conoscenza possa sottrarsi al
dubbio. Si può e quindi si deve dubitare non solo delle conoscenze sensibili ma
anche di quelle matematiche. In tal modo il dubbio si estende ad ogni cosa e
diventa universale (dubbio iperbolico). Ma proprio nel carattere radicale del
dubbio si presenta una prima certezza. Io posso ammettere di ingannarmi o di
essere ingannato in tutti i modi possibili; ma per fare ciò io debbo, per lo meno,
esistere, cioè essere qualcosa e non nulla. La proposizione io esisto è dunque la
sola assolutamente vera perché il dubbio stesso la riconferma: può dubitare solo
chi esiste. Se dubito, vuol dire che penso; e se penso, allora esisto. Cogito ergo
sum, penso dunque sono. D’altra parte, io non potrei certo dire di esistere come
un corpo, giacché non so ancora nulla sull’esistenza o meno dei corpi; posso dire
però di esistere almeno come una cosa che dubita, cioè che pensa, quindi come
cosa pensante, res cogitans . La proposizione "io esisto" equivale dunque a
quest’altra: "io sono un soggetto pensante", cioè spirito o anima. Su questa
certezza originaria, che è nelle stesso tempo una verità necessaria, si può dunque
fondare ogni altra conoscenza.
L’applicazione delle regole del metodo ha così portato ad una verità che, a sua
volta, conferma la validità di quelle regole, le quali si ritrovano fondate e quindi
possono essere assunte a norma di qualsiasi sapere. Le regole sono, in altre
parole, fondate sulla acquisita certezza che il nostro io come realtà pensante si
presenta con i caratteri della chiarezza e della distinzione. D’ora in poi l’attività
conoscitiva dovrà ricercare la chiarezza e la distinzione; così come ogni altra
verità sarà accolta solo se esibirà i connotati della chiarezza e della distinzione.
La filosofia diventa così soprattutto gnoseologia, dottrina della conoscenza, e non
ontologia, dottrina dell’essere. E’ questa la svolta che Cartesio imprime alla
filosofia dell’Occidente, che consiste appunto nella perentoria attribuzione al
pensiero, e quindi al soggetto umano, della capacità e della responsabilità di
fondare la conoscenza. Lasciando alle spalle una tradizione secolare che parlava
dell’essere, Cartesio costituisce il cogito come il principio primo della filosofia.
LE IDEE
Il principio del cogito, però, non mi rende sicuro che della mia esistenza. Infatti io
sono un essere pensante che ha delle idee (a proposito, l’idea è per Cartesio ogni
oggetto del pensiero; è proprio da lui che deriva la nostra accezione del termine).
Ma come poter dimostrare che esistono le altre cose, oltre a me stesso? Per
rispondere, Cartesio comincia col suddividere le idee in tre gruppi: vi sono le idee
innate (nate con me, presenti in me fin dalla nascita), le idee avventizie
(provenienti dalle cose fuori di me) e le idee fattizie (trovate, inventate da me). Al
primo tipo appartiene la capacità stessa di pensare e di avere idee; al secondo
appartengono le idee delle cose naturali; al terzo le idee delle cose inventate o
fantastiche. Ora, per scoprire se a qualcuna di queste idee corrisponde una realtà
esterna, non c’è altro da fare se non chiedersi qual è la causa di esse e… tirare in
ballo Dio stesso. Cartesio ritiene infatti che, per quanto riguarda le idee delle cose
naturali, esse non contengano nulla di così perfetto che, eventualmente, non
possa essere stato prodotto da me. Per quanto riguarda invece l’idea di Dio,
secondo Cartesio, non posso averla inventata io stesso. Io infatti non ho tutte
quelle perfezioni che l’idea di Dio rappresenta (si tenga presente che per Cartesio
la causa di un’idea deve avere sempre almeno tanta perfezione quanta è quella
che l’idea stessa rappresenta). La causa dell’idea di una sostanza infinita quale è
Dio non posso essere io che sono finito; questa causa deve appunto essere una
sostanza infinita che, pertanto, deve esistere.
LE PROVE DELL’ESISTENZA DI DIO
La semplice presenza in me dell’idea di Dio dimostra l’esistenza di Dio: questa è la
prima prova che può dimostrare l’esistenza di Dio. In secondo luogo, per
dimostrare l’esistenza di Dio posso considerare la finitudine del mio io: io sono
finito e imperfetto, come è dimostrato dal fatto che dubito; se fossi la causa di me
stesso, mi sarei dato le perfezioni che concepisco nell’idea di Dio; è dunque
evidente che non mi sono creato da me e che ha dovuto crearmi un essere che ha
tutte le perfezioni di cui io ho la semplice idea. Come terza prova, Cartesio prende
di nuovo spunto dall’argomento ontologico: come non è possibile concepire un
triangolo che non abbia gli angoli interni uguali a due retti, così non è possibile
concepire Dio come non esistente. infatti l’essere perfettissimo non può essere
privato della perfezione dell’esistenza; l’esistenza gli appartiene con la stessa
necessità del triangolo. In altre parole, Dio esiste in virtù della sua stessa
essenza, per la sovrabbondanza di essere, quindi di perfezione, che lo costituisce.
In una battuta: che essere perfettissimo sarebbe se non esistesse?
L’ERRORE
Una volta riconosciuta l’esistenza di Dio, il criterio metodologico dell’evidenza
trova la sua ultima garanzia. Dio infatti non può ingannarmi: la facoltà di giudizio
di cui mi ha dotato non può essere tale da farmi sbagliare, se viene adoperata
rettamente. Dio è dunque per Cartesio il principio e il garante di ogni verità. Tutto
ciò che appare chiaro ed evidente deve essere vero perché Dio lo garantisce come
tale. Se quindi ho l’idea di cose corporee che esistono fuori di me (e a questo
punto torniamo alla questione che si chiedeva se esistono delle cose fuori di me) e
che agiscono sui miei sensi, questa idea non può essere ingannevole, e dunque
devono esistere veramente delle cose corporee corrispondenti alle idee che noi ne
abbiamo. L’evidenza di questa idea consente quindi di eliminare il dubbio che era
stato avanzato sulla realtà delle cose corporee e risponde alla domanda da cui
eravamo partiti.
Ma allora come è possibile l’errore? Esso dipende dalla volontà umana, che è
libera e quindi assai più estesa dell’intelletto, che è limitato e procede a fatica
nella conoscenza. In questa possibilità di affermare o di negare quello che
l’intelletto non riesce a percepire chiaramente, risiede la possibilità dell’errore. Lo
si può evitare soltanto se ci si attiene alle regole del metodo e in primo luogo a
quella della evidenza.
LA RES EXTENSA
Abbiamo visto che per Cartesio esiste la sostanza pensante e anche il mondo
esterno. Ora, di tutto quello che mi viene dato dai sensi, come poter distinguere
quello che appartiene veramente alle cose da quello che invece è accidentale? Lo
posso fare applicando il solito metodo delle idee chiare e distinte, e cioè
ammettendo come reali solo quelle proprietà che riesco a concepire in maniera
distinta. La conclusione è che, del mondo materiale, si può considerare come
essenziale solo la proprietà della estensione (= occupare spazio), perché solo
questa è concepibile in modo chiaro e distinto dalle altre. Infatti tutte le altre
proprietà come il colore, il sapore, il peso ecc. sono secondarie, perché di esse
non è possibile, secondo Cartesio, averne un’idea chiara e distinta. Il mondo delle
cose materiali è così ridotto alla estensione: ogni cosa è res extensa, contrapposta
alla res cogitans, al pensiero.
Cartesio ha così diviso la realtà in due parti ben distinte: da un lato la sostanza
pensante, cioè l’io consapevole, libero, spirituale; dall’altro la sostanza estesa, che
è spaziale, inconsapevole e, soprattutto, meccanicamente determinata.
E’ questo un punto di immensa portata rivoluzionaria, e da esso dipende la
possibilità di avviare un discorso scientifico rigoroso e nuovo.
IL MONDO
Il mondo naturale è infatti concepito da Cartesio come un’immensa macchina,
come un enorme meccanismo in cui tutto può essere spiegato con cause naturali,
meccaniche, fisiche e con poche leggi fondamentali, escludendo così ogni
intervento sia magico che soprannaturale. Cartesio ammette certo Dio, che al
principio ha creato la materia con una determinata quantità di quiete e di moto
ed ha dato inizio al movimento, ma a parte quello Egli non interviene altrimenti e
quindi l’universo "se la cava da sé", avendogli Dio dato delle leggi immutabili che
possono spiegare ogni evento. Queste leggi, per Cartesio, sono tre : il principio di
conservazione, per cui la quantità di moto rimane costante; il principio di inerzia,
per cui ogni cosa persevera nel suo stato se non interviene una causa esterna a
farla cambiare; infine il principio per cui ogni cosa tende a muoversi in linea
retta.
IL CORPO UMANO, IL PENSIERO, LA VITA
Non solo l’universo fisico ma anche le piante, gli animali e persino il corpo umano
è un meccanismo. Ciò che chiamiamo vita, non dipende da alcun autonomo
principio vitale ma è riducibile ad elementi sottilissimi e purissimi (gli spiriti vitali
, che sono le forze meccaniche che agiscono nel corpo), i quali, portati dal cuore al
cervello per mezzo del sangue, si diffondono per tutto il corpo e presiedono alle
principali funzioni dell’organismo. Insomma l’anima, per Cartesio, è pensiero e
non vita, e la sua separazione dal corpo non provoca dunque la morte, che è
determinata da cause fisiologiche.
Nel caso dell’uomo, come poter allora spiegare il rapporto tra le due sostanze
nettamente separate, quali sono la res cogitans, il mio io pensante, e la res
extensa, cioè il mio corpo? L’anima è infatti una realtà inestesa, mentre il corpo
occupa spazio. Sono due realtà che non hanno nulla in comune. Tuttavia
l’esperienza ci attesta una costante interferenza tra le due. Come poterla appunto
spiegare? Cartesio introduce, a questo punto, la nozione di ghiandola pineale, che
dovrebbe risolvere il problema. essa sarebbe situata al centro del cervello, dove ha
sede l’anima, cioè il pensiero. essendo l’unica parte del cervello che non è doppia,
essa può unificare le sensazioni che ci vengono dagli organi di senso, e chiarire il
rapporto tra le due res.
LA MORALE
Nell’anima Cartesio distingue tra azioni ed affezioni. Le prime dipendono dalla
volontà, le seconde sono involontarie e sono costituite da percezioni, sentimenti,
emozioni. La forza dell’anima consiste evidentemente dal non lasciarsi dominare
dalle emozioni (tristezza, gioia ecc.), che, comunque, di per sé, non sono nocive.
Esse però tendono sovente a far apparire le cose diverse da come sono e dunque
l’uomo deve farsi guidare non da esse ma dall'esperienza e dalla ragione, e solo
così potrà evitare gli eccessi e distinguere nel giusto valore il bene e il male. In
questo dominio delle emozioni consiste in pratica la saggezza.
Cartesio dà anche alcune regole di comportamento, che possono essere prese a
fondamento di una morale: egli le chiamò le quattro regole della morale
provvisoria. La prima regola è quella di obbedire alle leggi e ai costumi,
conservando la religione tradizionale e seguendo le opinioni più moderate; la
seconda regola è quella di perseverare nelle proprie azioni una volta che sono
state decise e ritenute valide; la terza regola è quella di cercare di vincere se stessi
piuttosto che la fortuna e cambiare i propri pensieri più che l’ordine del mondo; la
quarta regola è quella di progredire il più possibile nella conoscenza del vero.
Comportandosi così, l’uomo può sperare di raggiungere la felicità già in questa
vita.
NOTA BIOBIBLIOGRAFICA
René Des Cartes (latinizzato in Cartesius, da cui l’italiano Cartesio) nacque a La
Haye nella Turenna nel 1596. Frequentò il collegio dei Gesuiti a La Flèche, dove
gli fu impartita un’educazione molto tradizionale. Studiò quindi diritto
all’università di Poitiers. Messi da parte gli studi, si arruolò nel 1618 nell’esercito
di Maurizio di Nassau (la guerra dei Trent’Anni era scoppiata appunto quell’anno)
ed iniziò a viaggiare per l’Europa. Ma neppure la conoscenza di paesi diversi
soddisfece la sua ricerca di un sapere sicuro. Così "un giorno presi la decisione di
studiare me stesso". Il risultato di quel ripiegamento su se stesso fu la stesura di
un’opera in cui Cartesio espresse le sue idee sulla natura e sull’uomo. L’opera si
sarebbe dovuta chiamare Il mondo o Trattato della luce. La condanna di Galileo lo
indusse però a pubblicare solo parti di quel libro più strettamente scientifiche, a
cui premise il Discorso sul metodo (1637). in seguito scrisse le Meditazioni
metafisiche, con le Obiezioni e le relative Risposte (1641-47). Una esposizione
sistematica del suo pensiero la troviamo nei Principia philosophiae (1644-47) e
nelle Passioni dell’anima (1649). Su invito della Regina Cristina di Svezia si
trasferì a Stoccolma e qui morì l’11 Febbraio 1650.
"Le passioni dell'anima" di Descartes
furono pubblicate nel 1649 ad Amsterdam.
In questo articolo presentiamo il contenuto di quell'opera e tentiamo di rifletterci
sopra.
I filosofi si sono occupati del problemi sollevati dalla nozione di mente fin dagli
inizi della disciplina. Uno delle prime utili distinzioni fatte dai filosofi, a proposito
dell'anima, fu la distinzione fra azione dell'anima e passione dell'anima.
L'essere agente o paziente non è qualcosa che spetti in primo luogo alle anime
poiché anche i corpi inanimati possono essere cause di cambiamento o
modificare il loro stato a motivo di qualche causa di cambiamento che agisce su
di essi.
Fin da principio il concetto di passione, ossia di essere paziente, è stato utilizzato
in filosofia per descrivere sia la sensazione che l'emozione, che sono, appunto
due stati in cui l'anima deve subire passivamente ciò che proviene dall'esterno
del corpo o dal corpo stesso.
Attualmente allo studio di questi temi contribuiscono diverse discipline
scientifiche (discipline neurologiche, psicologiche, loro storie e storia della
filosofia) e in secondo luogo la filosofia.
Il libro di Descartes è una via di mezzo fra noi, che ci attendiamo a breve la
comprensione scientifica dell'agire e pensare umano, e il modo di procedere prescientifico; per la precisione potrebbe essere caratterizzato come esempio di un
modo di pensare il problema della mente che sta smettendo di essere filosofico e
sta iniziando a diventare scientifico. Nel lavoro, naturalmente, si trovano dei
risultati che possono ancora oggi essere accettati come scientifici: nella seconda
parte dell'opera, ad es., si trova la teoria della divisione delle emozioni in primarie
(poche e diffuse in maniera intraspecifica) e secondarie (costituite dalla
combinazione di emozioni primarie, come l'odio=rabbia+disgusto); questa teoria è
ancora sostenuti dagli etologi che studiano le emozioni animali e le loro
espressioni.
L'opera di cui ci occupiamo è divisa in sole tre parti (ma gli esperti consigliano di
leggerla insieme al carteggio con la principessa Elisabetta (le "Lettere sulla
morale"), dove molti temi vengono ripresi e di alcuni punti si danno spiegazioni
più generali o che inquadrano l'argomento nell'ambito della restante filosofia
cartesiana).
Ogni parte è divisa in articoli.
La prima parte è costituita dai primi cinquanta.
Inizialmente si parla delle passioni in generale (1-6), della loro relazione con il
corpo (7-16), della loro relazione con l'anima (17-29) e della loro relazione con
l'unione di anima e corpo (30-50). In una lettera alla principessa Elisabetta viene
chiarita questa suddivisione: riguardo al corpo abbiamo come sola idea
inseparabile quella di estensione, riquardo all'anima abbiamo quella di pensiero,
e riguardo al corpo e all'anima presi assieme abbiamo la sola idea inseparabile di
unione fra due sostanze. Così la trattazione nella prima parte segue quest'ordine
di pensieri.
Nell'articolo 1 Cartesio si lamenta dell'insufficienza della scienza tramandata
dagli antichi a proposito delle passioni. Evidentemente gli sarebbe piaciuto vivere
in un epoca più vicina alla nostra, in cui partire da una massa di dati scientifici
maggiori a proposito della mente rispetto a quelli dai quali poteva partire lui. Ad
ogni modo sempre nello stesso articolo ci viene spiegato che "l'azione e la
passione sono sempre una medesima cosa con due nomi, secondo che la si
riferisce ... al soggetto a cui capita ... [o] a quello che lo determina". Così, sembra
suggerirci Cartesio, possiamo pensare le passioni dell'anima come azioni del
corpo, senza perdere in profondità nella nostra analisi.
Ci viene detto che "Per conoscere le passioni dell'anima è necessario distinguere
le sue funzioni da quelle del corpo", e ciò potrà essere fatto nel seguente modo:
"Tutto quello che ci apparirà potersi verificare in corpi completamente inanimati,
dovrà essere attribuito soltanto al nostro corpo [mentre ciò che non appartiene in
nessun modo a un corpo] deve essere attribuito alla nostra anima."
Così sembra che non vi sia posto nella filosofia di Cartesio per qualcosa di
intermedio tra anima e corpo, qualcosa che abbia una natura comune a quella
dell'anima e del corpo. Infatti fra i due lati dell'uomo vi è una frattura
difficilmente conciliabile nella filosofia del Nostro. "Il calore e il movimento delle
membra procedono dal corpo; i pensieri dall'anima" (art. 4). Ognuna delle due
nature procede interagendo con l'altra, ma restandone contemporaneamente
completamente distinta: per il corpo varranno le leggi della fisica e sarà pura
macchina, mentre per la mente varranno le leggi del pensiero e sarà puro spirito.
Il problema della loro interazione sarà risolto in una maniera che fece molto
discutere e di cui parleremo in seguito, perché è contenuta in quest'opera.
Per ora basti sapere che il corpo è solo una macchina (come sono per Descartes
macchine tutti gli animali terrestri non umani, privi del pensiero e quindi
dell'anima) e che causa della morte è un "guasto" della macchina corporea:
"Quando si muore, l'anima se ne va proprio perché quel calore cessa, e gli organi
che servono a muovere i corpi si corrompono". (artt. 5,6)
Dall'articolo 7 all'articolo 16, per spiegare le passioni dal punto di vista del corpo,
si tratta di neurologia. Nonostante il fatto che le idee di Cartesio sono rozze e
sbagliate, per quanto concerne la spiegazione neurologica del movimento e
dell'azione del corpo sull'anima, esse sono scientifiche, e fanno parte della storia
della medicina, che le ha falsificate non poi così tanto tempo fa. Per andare oltre
la neurologia cartesiana si sarebbero dovute avere più conoscenze biochimiche e
relative alla trasmissione dei segnali elettrici.
Nell'art. 7 ci viene spiegato che i NERVI sono "piccoli filamenti o canaletti,
provenienti tutti dal cervello, e pieni, come il cervello, di una certa aria o vento
sottilissimo, a cui si dà il nome di SPIRITI ANIMALI." L'ignoranza dell'anatomia
portò Descartes e molti dei suoi contemporanei a credere che tutti i nervi
originassero nel cervello. L'osservare la loro somiglianza a dei canali li portò
invece a credere nell'esistenza di una "sostanza psichica" trasmessa dai nervi
stessi, che spiegasse il movimento delle membra; tale sostanza fu identificata con
gli spiriti animali, intesi come parti materiali (non bisogna lasciarsi fuorviare
dalla parola "spirito") e sottilissime del sangue che con il loro movimento,
causato o dal corpo o dall'anima stessa, potessero spiegare l'interazione fra
mente e corpo (in primo luogo il movimento e in secondo luogo la percezione e
l'emozione).
Esemplare, a questo proposito, ciò che viene detto nell'art. 11 ("Come avvengono
i movimenti dei muscoli): "La sola causa di tutti i movimenti delle membra è che
alcuni muscoli si accorciano, mentre i loro opposti si allungano [...] e la sola
causa che fa accorciare un muscolo invece del suo opposto, è che giungono ad
esso dal cervello, un po' più spiriti che all'altro". E' così chiarita la visione
meccanicistica del movimento umano.
Poco prima (art. 10) Cartesio aveva spiegato come gli spiriti animali, che sono la
causa materiale di tutte le affezioni dell'anima, sono prodotti nel cervello: il
sangue che esce dal cuore per la grande arteria si dirige verso il cervello "ma
senza potervi entrare del tutto, perché vi sono solo dei passaggi molto stretti;
perciò penetrano soltanto le parti più agitate e sottili [ cioè gli spiriti animali che]
non sono che corpi, e non hanno altra proprietà tranne quella di essere molto
piccoli".
Se qualche contemporaneo di Cartesio avesse scoperto i globuli bianchi o quelli
rossi, Cartesio avrebbe esclamato "ecco gli spiriti animali!".
Dopo essersi occupato delle passioni in generale (artt. 1-6) e del corpo (7-16), ci
si occupa delle passioni dal punto di vista dell'anima o, come diceva Cartesio,
della Res Cogitans, la Sostanza Pensante in quanto distinta dall'altra sostanza
esistente, quella corporea o Res Extensa.
Innanzitutto vengono distinte le azioni dell'anima dalle passioni dell'anima:
1) AZIONI
Le AZIONI dell'anima sono tutti gli atti volontari che vengono direttamente
dall'anima e dipendono da essa sola. Ne troviamo di quattro tipi:
1a) Azioni dell'a. che terminano nell'anima stessa "Come quando vogliamo amare
Dio o rivolgere il nostro pensiero a qualcosa di non materiale"
1b) Azioni dell'a. che terminano nel corpo: "Dal solo fatto che vogliamo
camminare, segue che le nostre gambe si muovano"
1c) Immaginazioni (in un primo senso del termine): come quando immaginiamo
un palazzo incantato o una chimera (ma lo facciamo in maniera attiva, non
subendo le immagini più elementari ma unendole attivamente per formare
immagini più complesse)
1d) Pensieri
2) PASSIONI
Le PASSIONI dell'anima in senso lato o PERCEZIONI sono
2a) causate dall'anima stessa
oppure
2b) causate dal corpo
Per quanto riguarda 2a) Cartesio sostiene che "Benché riguardo all'anima nostra
sia un'azione il volere qualche cosa, si può dire che in essa è una passione
accorgersi di ciò che si vuole".
Per quanto riguarda 2b), le passioni dell'a. causate dal corpo si dividono in
quattro specie:
2b1) riferite ad oggetti esterni, come nella percezione propriamente detta.
2b2) riferite al nostro corpo, come nel caso della fame, della sete o del dolore
2b3) immaginazioni (in un secondo senso): in esse non interviene la volontà; es. i
sogni quando sembrano reali o le fantasticherie fatte da svegli e subite come
qualcosa di passivo dall'anima.
A questo proposito si vede come Cartesio, pur non possedendo il concetto di
INCONSCIO, sia andato molto vicino all'idea che la parte cosciente della mente
possa subire passivamente l'influenza di qualcosa che proviene da un'altra parte
della stessa mente. Tuttavia, voglio ricordartelo, Cartesio avrebbe ritenuto il
fondamentale concetto di volontà inconscia come un concetto contraddittorio.
2b4) riferite solo all'anima, come la gioia o la collera; sono le passioni in senso
stretto
Riepilogando:
Le passioni sono percezioni che si riferiscono all'anima in particolare e che sono
causate, mantenute, rafforzate, da qualche movimento degli spiriti. Cartesio ci
tiene anche a chiarire che le passioni non hanno la caratteristica di alcune idee
di essere "chiare e distinte"; esse passioni, viceversa, a motivo del loro essere
espressione dell'unione di anima e corpo, sono "confuse e oscure".
Cartesio dice proprio così: "Le passioni rientrano in quelle percezioni che lo
stretto legame fra anima e corpo rende confuse e oscure", come se la nozione di
unione fra mente e materia apparisse al nostro ben più problematica della sola
nozione di mente o della sola nozione di materia. E in effetti così è ...
Gli artt. 30-50 trattano delle passioni dell'anima in relazione all'unione di anima
e corpo.
Cartesio si domanda, come fecero anche gli antichi, se l'anima sia diffusa in tutto
il corpo o se abbia una sede in un organo specifico (nella nostra cultura
occidentale sono stati proposti il fegato, il cuore e il cervello).
La sua risposta di Cartesio può suonare strana in relazione al fatto che la sua
dottrina comprende la teoria secondo cui l'anima è immateriale e quindi priva di
estensione. Come può una tale sostanza "interagire con un" o anche
sensatamente "essere in un" corpo?
Senza dare risposta a questi problemi Cartesio afferma che nonostante "l'anima è
unita strettamente a tutte le parti del corpo", "C'è nel cervello una piccola
ghiandola in cui l'anima esercita le sue funzioni più specificamente che non nelle
altre parti": la GHIANDOLA PINEALE (posta alla base del cervello) è tale che "i
suoi più lievi movimenti possono mutare molto il corso degli spiriti, mentre,
inversamente, i minimi mutamenti nel corso degli spiriti possono portare grandi
cambiamenti nei movimenti di questa ghiandola".
La scelta della ghiandola pineale come sede privilegiata dell'anima è dovuta al
fatto che essa sarebbe l'unica parte non doppia del cervello e che "abbiamo d'una
cosa, in un certo momento, un solo e semplice pensiero". Nell'art. 47 si dice: "La
piccola ghiandola posta al centro del cervello può essere mossa, da un lato
dall'anima, dall'altro dagli spiriti animali ... succede spesso che le due spinte
siano contrastanti e che la più forte impedisca l'effetto dell'altra".
Per quanto concerne le azioni dell'anima (art. 41) "tutta l'azione dell'anima
consiste in questo che, per il solo fatto di volere qualcosa, essa fa muovere la
piccola ghiandola, a cui è strettamente legata, nel modo richiesto per produrre
l'effetto connesso con la volontà".
Per quanto concerne invece le passioni dell'anima, si sottolinea che finché dura
l'emozione prodotta "nel cuore, e perciò in tutto il sangue e negli spiriti ... le
passioni restano presenti al nostro pensiero, come gli sono presenti gli oggetti
sensibili fintanto che agiscono sui nostri organi di senso".
Tuttavia non è impossibile per l'uomo domare le passioni, e proprio con questo
tema stoico (art. 50) si chiude la prima parte de Le passioni dell'anima:
"Non c'è anima tanto debole che non possa, ben guidata, acquistare un assoluto
dominio sulle sue passioni". L'abitudine e l'esercizio possono insegnare a
separare certi movimenti della ghiandola pineale prodotti dagli spiriti animali
dalle passioni corrispondenti, come quando, dice Descartes, si addestra un cane
a non scappare se sente lo sparo del cacciatore.
La seconda parte consta degli articoli 51-148 e tratta dei seguenti argomenti:
cause e funzioni delle passioni (51-52)
enumarazione delle passioni (53-68)
le sei passioni fondamentali (69-95)
fisiologia delle passioni (96-136)
sull'uso delle passioni (137-148)
Quanto alle cause delle passioni Cartesio sostiene che sono gli oggetti dei sensi
che provocano "l'agitazione, dovuta agli spiriti, della piccola ghiandola posta in
mezzo al cervello" (così non si danno cause interne delle passioni e non si parla
neanche della variabilità soggettiva nell'esperienza delle emozioni); quanto alla
loro funzione, essa "consiste nel disporre l'anima a voler ciò che la natura indica
come utile" (ad esempio la paura dispone l'anima a fuggire ciò che gli è nocivo).
Le passioni composte sono molte, ma esistono solo sei passioni primitive:
MERAVIGLIA
AMORE-ODIO
DESIDERIO
GIOIA-TRISTEZZA
Riassumiamo quanto sostenuto da Descartes a proposito di queste emozioni.
La meraviglia è "Una sorpresa improvvisa dell'anima, per cui essa si volge a
considerare con attenzione gli oggetti che le sembrano rari ed eccezionali".
Prima gli spiriti producono l'impressione dell'oggetto raro, e quindi degno d'esser
molto considerato; successivamente essi insistono con gran forza sulla zona del
cervello dove si trova questa impressione, per rafforzarla e mantenerla.
Quanto alla fisiologia di questa emozione, Cartesio sostiene che "Gli oggetti di
senso, quando sono nuovi, toccano il cervello in certe parti in cui non è abituato
ad esser toccato, e che l'efficacia del movimento che vi eccitano è più forte,
perché queste parti sono più tenere o meno solide di quelle indurite da
un'agitazione più frequente".
Nello STUPORE gli spiriti animali si rivolgono tutti verso il luogo del cervello dove
è l'oggetto ammirato e non passano più ai muscoli. "Così il corpo resta immobile
come una statua".
Le passioni non sempre sono utili: la meraviglia è utile "per farci apprendere e
conservare nella memoria le cose che prima ignoravamo"; mentre è dannosa se ci
si stupisce "scorgendo cose poco o punto meritevoli d'esser considerate".
"L'amore è un'emozione dell'anima cagionata dagli spiriti, che la incita ad unirsi
volontariamente agli oggetti che sembrano convenirle". Viceversa "L'odio è
un'emozione causata dagli spiriti che incita l'anima a desiderare d'essere
separata dagli oggetti che si presentano ad essa come nocivi".
Viene da credere che sia la ragione a dipingere come convenienti o sconvenienti i
diversi oggetti, e che poi la materia (tramite il moto degli spiriti animali) faccia il
resto.
Di amore ve ne sono di diverse specie:
"affezione" è quell'amore per gli oggetti che stimiamo meno di noi (come un fiore o
un uccello), "amicizia" quell'amore che proviamo per qualcuno che stimiamo pari
a noi, e infine la "devozione" è l'amore verso qualcosa che stimiamo più di noi
(come la divinità o il principe).
Di odio non vi sono altrettante specie.
Il DESIDERIO è "un'agitazione dell'anima causata dagli spiriti che la dispongono
a volere per l'avvenire le cose che essa si rappresenta come convenienti". Esso
non ha un opposto, in quanto l'avversione è un desiderio che tende a sfuggire un
male.
Cartesio considera anche il desiderio sessuale, con argomentazioni che
rimandano a Platone:
"La natura, insieme alla differenza del sesso, che ha messo negli uomini come
negli animali privi di ragione, ha posto in noi anche certe impressioni nel cervello
per cui, a un'età e a un tempo determinati, ci si considera come manchevoli, e
come se si fosse solo la metà di un tutto di cui una persona dell'altro sesso deve
costituire l'altra metà [...] E pur vedendo molte persone dell'altro sesso, non per
questo ne desideriamo parecchie in una volta [...] ma quando in una di quelle si
nota qualcosa che ce la fa piacere più delle altre [...] l'anima è spinta a provare
per quella sola tutta l'inclinazione che la natura le dà verso il bene considerato il
più grande che si possa possedere. [...] L'inclinazione che ne nasce è un desiderio
chiamato amore, più comunemente che non la passione d'amore descritta più
sopra".
La GIOIA è il godimento del bene che le impressioni del cervello le rappresentano
come proprio, mentre la TRISTEZZA è "Il disagio che l'anima riceve dal male, o
dal difetto che le impressioni del cervello le rappresentano come suo proprio"
In questa parte Cartesio tratta della fisiologia delle passioni (spiega attraverso il
movimento del sangue e degli spiriti) e anche dei segni esteriori delle passioni.
Ma la parte più interessante della sezione è costituita dagli articoli finali, così
suddivisi:
Sull'uso delle passioni primitive in quanto si riferiscono al corpo (137-138)
Sul loro uso in quanto appartengono all'anima (139-142)
In quanto si riferiscono al desiderio (143-146)
Emozioni interiori dell'anima e virtù (147-148)
La funzione naturale delle passioni è "spingere l'anima a consentire e a
contribuire alle azioni che possono servire alla conservazione del corpo".
Nonostante ciò possono essere considerate difettose in quanto "molte cose nocive
al corpo non cagionano alcuna tristezza iniziale, e danno persino gioia; mentre
altre sono utili, pur causando all'inizio disagio". Perciò dobbiamo "servirci
dell'esperienza e della ragione per distinguere il bene dal male ... sì da non
rivolgerci a nulla con trasporto eccessivo". Nell'opera torna spesso il tema antico
secondo cui sarebbe un bene la moderazione delle passioni.
Amore e odio, in quanto appartengono all'anima derivano dalla conoscenza, e
"quando siffatta conoscenza è vera, e cioè quando le cose che ci porta ad amare
sono veramente buone, e quelle che ci porta ad odiare veramente cattive, l'amore
è incomparabilmente preferibile all'odio". Anche il desiderio "quando procede da
una conoscenza vera, non può essere cattivo, purché non sia eccessivo e la
conoscenza lo regoli".
Quando le passioni non sono considerate solo per sè, ma anche per l'azione che
producono, esse "eccitano il desiderio, per mezzo del quale regoliamo i nostri
costumi". Infatti esse "non possono determinarci a nessuna azione se non per
mezzo del desiderio che eccitano". Ma siccome "il desiderio è sempre buono
quando segue una vera conoscenza", bisognerà "avere special cura nel regolare
tale desiderio" distinguendo le cose che dipendono completamente da noi (cioé
dal libero arbitrio) da quelle che non ne dipendono. Solo le prime sono
desiderabili. Quanto alle cose che non dipendono affatto da noi bisogna "rifiutare
totalmente la credenza volgare in una FORTUNA fuori di noi, secondo il cui
capriccio le cose accadrebbero o non accadrebbero, e renderci conto che tutto è
guidato dalla PROVVIDENZA divina, il cui decreto eterno è a tal segno infallibile
e immutabile che, eccettuate le cose poste da quel medesimo decreto sotto il
nostro LIBERO ARBITRIO, nulla dobbiamo pensar che ci accada, che non sia
necessario e quasi fatale".
Mentre le passioni sono sempre subordinate a qualche movimento degli spiriti, le
EMOZIONI INTERIORI DELL'ANIMA, da cui dipendono "il nostro bene e il nostro
male", sono "eccitate nell'anima esclusivamente dall'anima stessa". Come quando
il marito piange la moglie morta "che tuttavia gli dispiacerebbe di veder
resuscitare". In questa situazione la tristezza è una passione dell'anima causata
"dall'apparato funerario e dalla mancanza di una persona alla cui conversazione
era abituato", cose che producono le lacrime; mentre l'intima gioia che egli prova
è causata soltanto dall'anima.
Infine vi sono alcune riflessioni sulla virtù che rimandano alla riflessione
ellenistica: contro il potere della passioni l'esercizio della VIRTU' è il rimedio
sovrano. Infatti "se l'anima avrà sempre di che contentarsi nel suo intimo, per
certo nessun turbamento d'origine esteriore potrà nuocerle". "Chiunque abbia
vissuto in modo che la sua coscienza non possa rimproverargli di aver mancato
di fare le cose da lui giudicate migliori (ed è questo che io chiamo seguire la
virtù), prova una soddisfazione così efficace per la sua felicità, che gli sforzi più
violenti delle passioni non avranno mai sufficiente potere da turbare la
tranquillità dell'animo suo".
Nell'ultima parte si propone una classificazione di tutte le passioni a partire dalle
sei principali.
Negli ultimi due articoli (211-212) si parla di un "rimedio generale contro le
passioni". Bisogna partire dal considerare che "per loro natura son tutte buone, e
che ci resta solo da evitarne il cattivo uso e l'eccesso. "Inoltre "quanto si presenta
all'immaginazione tende ad ingannare l'anima e a farle apparire molto più forti
del vero le ragioni che servono a persuaderla dell'oggetto della sua passione".
Pertanto:
a) "Quando la passione persuade di cose la cui esecuzione ammette un certo
indugio, bisogna prender tempo a riflettere... fino a che il tempo e il riposo
non abbiano completamente calmato l'azione del sangue".
b) "Quando infine le passioni incitano ad azioni che richiedono una decisione
immediata, la volontà deve volgersi soprattutto a considerare e a seguire le
ragioni contrarie a quelle presentate dalla passione, anche se appaiono meno
forti".
CARTESIO: PERCHÉ L'ERRORE?
Se tutto il mio essere viene da Dio, si domanda Cartesio nella quarta meditazione,
perché sbaglio?
Dio non m’inganna. Non può, quindi, avermi “dato una facoltà per errare” insieme
alla “facoltà di giudicare”; non può aver messo in me “nessuna causa di errore o
di falsità”. Dove si radica, allora, la possibilità dell’errore?
“Io sono, scrive Cartesio, un termine medio tra Dio e il nulla, cioè posto in tal
modo tra il sovrano essere e il non essere, che, a dir vero, non si trova in me nulla
che possa indurmi in errore, in quanto un sovrano essere mi ha prodotto, ma
che, se mi considero come partecipante in certo modo del niente o del non essere,
cioè in quanto non sono io stesso il sovrano essere, mi trovo esposto ad
un’infinità di mancamenti, di modo che non mi debbo stupire se m’inganno.
Così io conosco che l’errore, in quanto tale, non è qualcosa di reale, che dipende
da Dio, ma è solamente un difetto, e pertanto che io non ho bisogno per errare di
qualche facoltà che mi sia stata data da Dio particolarmente per quest’effetto, ma
che accade che io m’inganni pel fatto che la facoltà, che Dio mi ha dato per
discernere il vero dal falso, non è in me infinita”.
Cartesio adatta qui all’errore la teoria agostiniana, di origine neoplatonica, del
male come non essere.
“Tuttavia – continua Cartesio – ciò non mi soddisfa ancora del tutto; perché
l’errore non è pura negazione, cioè non è il semplice difetto o mancamento di
qualche perfezione, che non mi è dovuta, ma piuttosto è una privazione di
qualche conoscenza, che sembra che io dovrei possedere. E considerando la
natura di Dio, non mi sembra possibile ch’egli m’abbia dato qualche facoltà che
sia imperfetta nel suo genere, cioè che manchi di qualche perfezione che le sia
dovuta; perché, se è vero che più l’artigiano è esperto, più le opere che escono
dalle sue mani sono perfette e compiute, quale essere immagineremo noi essere
stato prodotto da questo sovrano creatore di tutte le cose, che non sia perfetto ed
interamente compiuto in tutte le sue parti? E certo non vi è dubbio che Dio
avrebbe potuto crearmi tale, che io non mi potessi mai ingannare; certo è anche
che egli vuole sempre il meglio: m’è, dunque, più utile errare che non errare?”.
Se Dio c’è, non m’inganna, non ha messo in me la radice dell’errore e “vuole
sempre il meglio”, come si spiegano i miei errori?
Cartesio si riconosce in grave difficoltà, ma attribuisce la cosa alla sua natura
“estremamente debole e limitata, al contrario di quella di Dio che è immensa,
incomprensibile ed infinita”. Si riconosce quindi nell’impossibilità “di scoprire i
fini impenetrabili di Dio”. Deve, però, in qualche modo conciliare la bontà
assoluta di Dio con la propria imperfezione e scrive:
“Di più, mi viene ancora in mente che, quando si cerca se le opere di Dio siano
perfette, non si deve considerare una sola creatura separatamente, ma in
generale tutte le creature assieme. Perché la stessa cosa, che potrebbe forse, con
qualche sorta di ragione, sembrare imperfettissima se fosse sola, si trova essere
perfettissima nella sua natura, se è considerata come parte di tutto questo
universo”.
Cartesio non sa ancora dell’esistenza del mondo. Sa, però, che Dio, nella sua
infinita potenza, può aver creato un mondo nel suo insieme ottimo. Può, quindi,
scrivere: “Non saprei negare che egli abbia prodotto molte altre cose, o almeno
che possa produrne, in modo che io esista e sia posto nel mondo come
appartenente all’università di tutti gli esseri”.
Adesso, la domanda, rimasta inespressa quando Cartesio ha accertato di non
essersi creato da sé, perché, pur avendo l’idea di perfezione, si ritrovava
imperfetto, può venir fuori e trovare risposta nell’idea che la sua imperfezione sia
parte di un ordine perfetto che la rende perfettissima.
Un’idea questa, che lo aiuta a trovare una ragione dei suoi errori e scrivere: “Dopo
di che, guardandomi più da vicino, e considerando i miei errori (i quali soli
testimoniano che in me v’è dell’imperfezione), trovo che dipendono dal concorso di
due cause, e cioè dalla facoltà di conoscere che è in me e dalla facoltà di scegliere,
o libero arbitrio: ossia dal mio intelletto ed insieme dalla mia volontà. Poiché, con
l’intelletto solo, io non affermo né nego alcuna cosa, ma concepisco solamente le
idee delle cose, che posso affermare o negare”.
L’intelletto pensa le idee, ma il potere di “affermare o negare” è della volontà.
Una cosa sono i pensieri dell’intelletto, altra cosa sono i giudizi, le sentenze,
affermative o negative, della volontà.
Mentre, però, l’intelletto ha dei limiti, la volontà non ha limiti, è libera.
Capita così che essa possa esprimere giudizi anche quando l’intelletto non le
metta a disposizioni idee chiare e distinte. Sta in questo potere libero della
volontà la possibilità dell’errore.
Cartesio si vede limitato in tutte le sue facoltà eccetto che nel libero arbitrio.
“Io non posso neppure – scrive – lamentarmi che Dio mi abbia dato un libero
arbitrio, o una volontà assai ampia e perfetta … Non vi è che la sola volontà
[voluntas sive arbitrii libertas ], che io sperimenti in me così grande, che non
concepisco l’idea di nessun’altra più ampia e più estesa: di modo che essa
principalmente mi fa conoscere che reco l’immagine e la rassomiglianza di Dio.
Perché, sebbene essa sia incomparabilmente più grande in Dio che in me, così in
ragione della conoscenza e della potenza, che trovandovisi congiunte la rendono
più ferma e più efficace, come in ragione dell’oggetto, in quanto essa si riferisce
ad un numero infinitamente maggiore di cose, essa non mi sembra, tuttavia, più
grande, se la considero formalmente e precisamente in se stessa. Poiché essa
consiste solamente in ciò: che noi possiamo fare una cosa o non farla (cioè
affermare o negare, seguire o fuggire); o piuttosto solamente in questo: che, per
affermare o negare, seguire o fuggire le cose che l’intelletto ci propone, noi agiamo
in modo, che non ci sentiamo costretti da nessuna forza esteriore”.
“Dunque, donde nascono i miei errori? Da ciò solo, che la volontà essendo molto
più ampia e più estesa dell’intelletto, io non la contengo negli stessi limiti, ma
l’estendo anche alle cose che non intendo, alle quali essendo di per sé
indifferente, essa si smarrisce assai facilmente, e sceglie il male per il bene, o il
falso per il vero. E questo fa sì ch’io m’inganni e pecchi”.
Ma, l’errore si può evitare.
Infatti, “se io mi astengo dal dare il mio giudizio sopra una cosa, quando non la
concepisco con sufficiente chiarezza e distinzione, è evidente che del giudizio fo
un ottimo uso, e non sono ingannato; ma se mi determino a negarla o ad
affermarla, allora non mi servo più come debbo del mio libero arbitrio; e se
affermo ciò che non è vero, è evidente che m’inganno, e quand’anche m’avvenga
di giudicare secondo verità, questo non accade che per caso, e perciò io erro
ugualmente ed uso male del mio libero arbitrio; perché la luce naturale c’insegna
che la conoscenza deve sempre precedere la determinazione della volontà”.
La possibilità dell’errore non è, quindi, un difetto della nostra natura.
“Essendo la volontà – spiega Cartesio – una cosa sola, ed il suo soggetto essendo
come indivisibile, sembra che la sua natura sia tale, che non si saprebbe nulla
toglierne senza distruggerla”.
Una volontà che avesse gli stessi limiti dell’intelletto e fosse da questo
determinata sarebbe del tutto risolta nell’intelletto.
Per Cartesio c’è in Dio e nell’uomo il primato della volontà sull’intelletto, anche se
l’indifferenza della volontà è in Dio, come abbiamo già visto, “prova grandissima
della sua onnipotenza”, mentre nell’uomo lo espone all’errore.
L’uomo può, però, acquisire l’abitudine a non errare abituandosi a non dare mai
l’assenso su cose che l’intelletto non gli presenti con chiarezza e distinzione,
allenandosi a subordinare le decisioni della volontà all’intelletto.
L’uomo assomiglia a Dio soprattutto per la volontà perfetta, libera, senza limiti.
Ciò, però, lo espone all’errore, che egli può evitare solo abituandosi a imporre alla
volontà i limiti dell’intelletto, rinunciando, cioè a decidere come Dio
nell’indifferenza. Assomiglia a Dio, ma è bene che rinunci alla prerogativa della
facoltà che lo avvicina di più a lui.
L’intelletto umano può arrivare ad acquisire idee chiare e distinte, ma i giudizi di
verità o di falsità sono atti della volontà.
La verità è una questione di potere sia in Dio che nell’uomo.
Dio impone la verità e il bene con la sua volontà onnipotente, cioè esercitando
liberamente il suo potere; l’uomo raggiunge la verità se rinuncia a usare la libertà
di pronunciare giudizi di verità quando l’intelletto non lo guidi con chiarezza e
distinzione d’idee, cioè rinunciando a un uso della propria volontà senza vincoli.
Dio crea la verità con la sua libera e onnipotente volontà, l’uomo arriva alla verità
obbedendo, limitando la sua libera volontà ad agire nei rigorosi limiti posti
dall’intelletto.
La prudenza pratica di Cartesio, la sua tendenza a non opporsi all’autorità, trova
nella sua metafisica l’espressione suprema.