MATTEO PERRINI DUE APPROCCI AGOSTINIANI AL PROBLEMA

MATTEO PERRINI
DUE APPROCCI AGOSTINIANI AL PROBLEMA EDUCATIVO1
Manifesto della vita interiore, capolavoro di autobiografia intellettuale, le Confessioni sono
altresì uno dei più alti documenti di pedagogia in azione ed una fonte di straordinaria ricchezza per
chi vuol cogliere l'uomo nella concretezza esistenziale del suo divenire e nelle profondità del suo
spirito
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L'apporto di Agostino alla riflessione pedagogica e all'approfondimento teoretico, psicologico e
spirituale del problema educativo è di una straordinaria vastità e abbraccia di diritto tanta parte
dell'opera di quel grande; sarebbe quindi vana presunzione tentare di costringere il suo pensiero e le
immense potenzialità formative del suo messaggio nello spazio di un articolo. Preferisco, pertanto,
proporre ai lettori un approccio più diretto ai testi di Agostino, puntando solo su due scritti molto
significativi: L'ordine, composto all'indomani della conversione, nel ritiro di Cassaciàco, quando l'exretore si preparava al battesimo (lo riceverà il 19 aprile dell'anno seguente), e le Confessioni, dettate
dodici anni dopo l'evento che aveva cambiato la sua esistenza. L'ordine ha la freschezza dello stile
dialogico, perché Agostino associava alla sua ricerca giovani amici e discepoli. È l'opera prima di un
intellettuale laico – e che tale progettava di rimanere – deciso a vivere sul serio il Vangelo. Le
Confessioni sono scritte, invece, in Africa, a Ippona, quando il laico cristiano si è dovuto piegare da
anni ormai alla volontà del popolo di Dio che lo ha gridato sacerdote e lo ha voluto suo vescovo.
L'ordine è la prima prova del genio di Agostino, le Confessioni ne sono l'espressione più alta. La
prima opera nasce dalla discussione e dalla responsabilità educativa di Agostino, nel fecondo ritiro
dalla campagna lombarda; la seconda è un lungo, appassionato dialogo con Dio e, nella sua luce, con i
compagni di viaggio che sono tutti gli uomini suoi fratelli.
1. La fresca genialità dell'opera prima: «L'ordine»
Per Agostino la prima e la più radicale forma di alienazione è quella dell'uomo nei confronti di se
stesso, perdendo la sua dimensione interiore. La causa più grande di smarrimento sta nel fatto che
l'uomo non si conosce: erroris maxima causa est quod homo sibi ipse est incognitus (De ord. I, 1, 3).
Non può, infatti, vivere una sua vita autonoma e personale chi innanzi tutto non lavora a mettersi in
chiaro con se stesso e non si impegna a individuare e a cauterizzare «le piaghe dei pregiudizi correnti
prodotti dalla banalità quotidiana». Lo spirito, divenuto estraneo a se stesso, si degrada allora a una
reale mendicità perché la sua natura lo stimola a cercare l'unità e la dispersione nel molteplice glielo
impedisce. È sapiente invece chi si rapporta a Dio ed è con Dio poiché ha coscienza della propria
interiorità (sapiens prorsus cum Deo est, nam et seipsum intellegit, II, 2 5). Il procedimento dialogicomaieutico ha una particolare efficacia nel mettere in moto gli spiriti; quando ci si sente «legati dalle
catene del dialogo», tra persone che cercano il vero, anche quelli che sono digiuni di studi possono
imparare ed insegnare qualche cosa agli altri. Occorre, però, nota con molta sagacia Agostino, non
fermarsi al dialogo, facendo seguire ad esso opportune letture di approfondimento e – cosa di non
minor rilievo – momenti di riflessione personale, perché «lo spirito deve imparare a riflettere e prender
l'abitudine di abitare in se stesso» (I, 3, 6). Se non c'è silenzio interiore, l'oblio inghiotte
inesorabilmente anche quello che di bello e di vero abbiamo intravisto e compreso.
1
Scuola Italiana Moderna, 15 aprile 1987.
Il complesso rapporto, che è alla base del processo educativo, tra autorità e ragione è già delineato
con chiarezza. «All'apprendimento – osserva Agostino – siamo condotti necessariamente da un duplice
principio: l'autorità e la ragione. In ordine di tempo viene prima l'autorità, secondo la realtà ha una sua
priorità di valore la ragione (tempore auctoritas, re autem ratio prior est); l'autorità di chi sa è, infatti,
il necessario punto di partenza per coloro che ancora devono istruirsi, mentre la ragione è il criterio più
conveniente per chi è divenuto colto. Ma una persona colta non è stata sempre tale, né sapeva qual
fosse la via migliore per diventarlo. È chiaro, quindi, che soltanto l'autorità può aprire la porta a tutti
coloro che aspirano ad apprendere. Colui che è entrato attraverso quella porta e segue con rettitudine le
regole della ricerca razionale, tende a sua volta ad apprendere per proprio conto e a valutare quanto
fossero fondate le nozioni apprese prima della sua verifica razionale» (II, 9, 26).
Ai giovani bisogna comunicare la gioia della libertà interiore e della generosità, perché solo allora
essi comprendono le ragioni di una vita più alta. Si deve essere padroni di sé soprattutto per meglio
donarsi agli altri. Sono d'ostacolo al recupero e all'attuazione di se stessi nell'amore totale per Dio e il
prossimo la sfrenatezza, il torpore nell'accidia e soprattutto l'avidità. «Si convincano i giovani che
l'amore al denaro è il più sicuro veleno di ogni loro nobile aspirazione» (amorem pecuniae totius suae
spei certissimum venenum esse credant, II, 8, 25).
Gli educatori sono esortati a non porre sulle spalle degli altri pesi che essi stessi non vorrebbero
portare. Agostino ammonisce: «Si guardino nell'usare le sanzioni da ogni eccesso e, nel perdonare, da
ogni difetto. Non puniscano se non giova a migliorare i giovani; non siano indulgenti se può volgere al
peggio; considerino sempre come familiari coloro che sono affidati alla loro responsabilità e al loro
amore».
Il convertito non rifiuta la cultura letteraria ed estetica fino ad allora professata, ma la umanizza e
la eleva a una più alta dignità. «Io, se posso dare un consiglio ai miei, secondo il mio pensiero e il mio
sentimento, ritengo che essi devono essere formati alla pienezza del sapere, se vogliono avere
intelligenza dei problemi» (II, 5, 15). Ma anche un programma d'istruzione modesto e rudimentale, per
nutrire interiormente la persona di chi apprende, ha bisogno d'inquadrarsi in una limpida visione dei
fini a cui è orientato il processo educativo. Visione della vita e delle finalità educative che può essere
lapidariamente espressa in una frase: non il dominio dell'uomo sull'uomo, ma il mondo per l'uomo e
l'uomo per Dio, causa creatrice dell'universo, luce che illumina le nostre anime, fonte a cui si beve la
felicità. La legge di progressione del valore comanda la scelta dei contenuti e l'armonizzazione dei fini
dell'educazione. Di quella legge ci rende consapevoli la filosofia, intesa da Agostino come un esercizio
liberante della ragione che si apre alla fede e che si nutre della fede, nella convinzione, suffragata dal
suo stesso itinerario spirituale, che «la legge razionale è valore che, attuato, ci conduce a Dio» (I, 9, 27)
e che le verità rivelate le quali integrano e oltrepassano le conquiste della sola ragione, liberandoci
dall'incertezza e dall'errore, «non si confondono con le verità razionali, come alcuni dicono, ma non
entrano neppure in dissidio con esse, come altri vorrebbero» (nec confuse, ut quidam, nec
contumeliose, ut multi praedicant, II, 5, 16). Contro questa seconda tesi Agostino è assai esplicito: «Le
divine Scritture non insegnano ad evitare e a schernire gli amatori della saggezza in senso assoluto, ma
gli amatori della saggezza di questo mondo. Chiunque pretende che la filosofia si deve evitare in senso
assoluto, pretende semplicemente che noi non amiamo la saggezza» (I, 11, 32).
2. Il capolavoro: le «Confessioni»
A quarantatré anni, Agostino scrisse le Confessioni «per aprirsi al genere umano, al cospetto di
Dio». Intorno ai settantaquattro anni, quando si volgerà a giudicare le sue opere, dirà delle Confessioni:
«esse mi commuovono ancora quando le leggo, così come mi commuovevano quando le scrivevo»
(Retract. II, 32).
Le Confessioni sono come il De civitate Dei e il De Trinitate l'opera sua più celebre e di più larga
risonanza. Esse costituiscono un'opera unica, di così intensa originalità che invano si tenterebbe di
incasellare in un genere letterario. Manifesto della vita interiore, capolavoro di autobiografia
intellettuale, le Confessioni sono altresì uno dei più alti documenti di pedagogia in azione ed una fonte
di straordinaria ricchezza per chi vuol cogliere l'uomo nella concretezza esistenziale del suo divenire e
nelle profondità del suo spirito. Qui, come mai prima nella storia del pensiero, l'uomo è divenuto per se
stesso motivo di sorpresa e di stupore, a cominciare dal mistero della nascita, dell'infanzia, della
puerizia, della preadolescenza. Con animo trepido Agostino indaga i doni che una nuova esistenza reca
con sé ed insieme le prime manifestazioni difettose («ho visto e considerato a lungo un piccino in preda
alla gelosia: non parlava ancora e già guardava pallido il fratello di latte», I, 7, 11), che bisogna
tollerare con indulgenza, non perché siano inconsistenti, ma perché destinate a sparire col crescere
degli anni.
L'apprendimento del linguaggio avviene in maniera «naturale», mentre le vie dell'apprendimento a
scuola sono «penose», moltiplicando inutilmente la fatica e la sofferenza dei figli degli uomini, senza
che neppure i genitori se ne rendano conto. Agostino denuncia le barbare usanze disciplinari che
imperversavano nelle scuole (I, 9) e altrove precisa che «lo stesso imparare, a cui i fanciulli sono
costretti con castighi, è castigo così grave che talvolta essi preferiscono sopportare il castigo stesso,
anziché imparare» (De civ. Dei XXI, 14). Arriva persino a scrivere: «Se uno dovesse scegliere tra la
morte e il ripercorrere l'infanzia, chi non preferirebbe morire?» (ibid.). Nell'ampia e articolata analisi
alla quale Agostino sottopone la scuola non sono solo condannati i castighi corporali, ma anche i
metodi didattici costrittivi, per cui egli pone in contrasto con tanta parte della forma mentis e della
prassi scolastica dell'antichità greco-romana.
Nella contestazione alla scuola del suo tempo, Agostino avverte – ed è fatto singolare – la
privazione del gioco come il misconoscimento di un diritto del bambino. L'esigenza di una riforma
dell'insegnamento è chiaramente invocata con limpidi principi tratti dalle osservazioni di fatti evidenti.
«Nessuno fa bene ciò che fa malvolentieri» (I, 12, 19), osserva Agostino, e «per imparare vale più la
libera curiosità che la pedante costrizione» (I, 14, 23). Un insegnamento formativo fa leva non sulla
paura, ma sull'interesse effettivo di colui che apprende, sulla sua libera curiositas.
L'amore per il gioco e per le vittorie esaltanti nelle gare, il gusto delle favole e delle narrazioni
poetiche («piangevo la morte di Didone che avveniva per amore di Enea», I, 13, 21), una vivissima
curiosità, le disobbedienze quasi esclusivamente per amore del gioco: sono tratti di una fanciullezza
che non è solo quella di Agostino. Nel preadolescente la passione per gli spettacoli, la smania di imitare
gli attori, il desiderio di riuscire a primeggiare nella recitazione come nello sport si accompagnano ad
una più acuta sensibilità per l'uso della parola («le parole, questi vasi eletti e preziosi», I, 16, 26). È l'età
degli studi medi, della grammatica e della letteratura, nella vicina Madaura, a trenta chilometri da
Tagaste. Indifferenti ai problemi umani dei testi presi in esame, estranei alle attese dei ragazzi, quegli
insegnanti, che Agostino ricorda come lui «avvolti in mantelli» (I, 16, 25), secondo la foggia locale, gli
resero ostico il greco (I, 14, 23) e già nella scuola elementare un insegnamento nozionistico e
meccanico gli aveva fatto aborrire persino la verità bellissima dei rapporti tra i numeri.
Occorre, invece, far leva il più possibile sul naturale aprirsi della mente del discente, senza per
questo elevare i suoi impulsi e interessi a criterio esclusivo del lavoro formativo. L'educazione infatti è
sintesi feconda di spontaneità e obbligo, di libera curiosità e sana disciplina (I, 14, 23), di immediatezza
e integrazione equilibratrice. Pensando al perché da fanciullo amasse il latino, Agostino ne indica il
motivo nel fatto di averlo imparato naturalmente, attraverso il quotidiano commercio con le altre
persone, «con un poco di attenzione, senza bisogno di intimidazioni e torture, anzi fra carezze di
nutrici, festevolezze di sorrisi e allegria di giochi, perché il mio cuore stesso mi sollecitava a dare alla
luce i suoi pensieri» (cum me urgeret cor meum ad parienda concepta sua, I, 14, 23).
La crisi della pubertà, tardiva e violenta, scoppia nel sedicesimo anno e si trasforma in vera e
propria crisi morale, favorita anche dall'ozio forzato cui Agostino è costretto dalla povertà di mezzi in
attesa di proseguire gli studi a Cartagine. Nell'adolescenza il bisogno di amare si manifesta in modo
intenso ed insieme vago, incerto. «Che altro mi dilettava allora se non amare ed essere amato?» (II, 2,
2).
È un sentimento diffuso e senza oggetto: «Non amavo ancora, e amavo già di amare. Amando di
amare, cercavo qualcosa da amare» (III, 1, 1) Rousseau gli farà eco nell'Emilio (1. IV): «Una lunga
inquietudine precede i primi desideri, si desidera senza saper che cosa».
La sensualità disordinata rende la sua esistenza dispersa. È il momento del superbo rifiuto (superba
deiectio) di ogni legge morale, a cui nell'intimo si accompagna un'inquieta stanchezza (inquieta
lassitudo). Contrassegno costante dello smarrimento morale è l'incapacità di distinguere l'azzurro
dell'affetto dalla foschia della libidine (serenitas dilectionis a caligine libidinis, II, 2, 2). È questa l'età
in cui la società dei coetanei è un reale bisogno, che però può essere parassitato e deviato dalla
suggestione del gruppo. Si ride al pensiero di ingannare quanti non sospettano da noi un certo
comportamento e si gode a non agire da soli «forse perché non è facile ridere da soli» (II, 9, 17). «Vi è
dunque un'amicizia inimicissima, una seduzione inesplicabile dello spirito, un'avidità di nuocere nata
dai giochi e dallo scherzo. Uno dice: Andiamo, facciamo – e si ha pudore a non essere spudorati» (sed
cum dicitur: 'Eamus, faciamus' et pudet se non esse impudentem, II, 9, 17).
Agostino ha celebrato in maniera altissima proprio nelle Confessioni l'immanente eticità della
cultura, la sua straordinaria capacità catartica quando racconta che cosa significò per lui, giovane
studente a Cartagine, lontano dalle malefatte dei «demolitori» (eversores), seriamente impegnato nello
studio e, nello stesso tempo, avido di ricchezza, onori, piaceri, la lettura dell'Hortensius di Cicerone.
«Quel libro mutò il mio modo di sentire (ille liber mutavit affectum meum), suscitò in me nuove
aspirazioni e nuovi desideri» (III, 4, 7). «Più delle parole m'interessava – dice Agostino – quello che
esse esprimevano» (ibid.).
Quel libro rivelò Agostino a se stesso, operò la sua prima conversione alla interiorità della
coscienza morale, suscitò in lui quell'ardente passione della verità che costituisce il primo tratto di ogni
personalità autentica. Divenuto, ancor giovanissimo, insegnante di retorica, Agostino non si limitava
affatto a «vendere chiacchiere atte a vincere cause»: egli insegnava tanto ad acuere linguam quanto la
ricerca della vera sapientia. Agostino avvertì sempre il valore positivo del suo far scuola poiché
portava nell'insegnamento la sua «buona fede» (IV, 2, 2); non era tutto fumo, c'era pure qualche
sprazzo di luce nel suo lavoro di professore (ibid.).
Tra i molteplici motivi di grande rilevanza pedagogica che le Confessioni offrono occorre ricordare
come Agostino imposta il rapporto tra scienza e fede e quello tra retorica e filosofia. In polemica con i
manichei – la cui gnosi presumeva di spiegare con assoluta razionalità le realtà divine e i fenomeni
fisici – Agostino denuncia «l'audacia sfrontatissima» (V, 5, 8) di chi incorpora al dato rivelato una
teoria o un'ipotesi scientifica, piegando la Scrittura ad un compito che le è del tutto estraneo. Nuoce e
molto ai cristiani confondere la scienza, vera o presunta che sia, con l'insegnamento religioso e
affermare con sfacciata ostinazione quanto si ignora. Non esiste una rivelazione religiosa dei fenomeni
naturali e pertanto è assurdo attribuire alla Scrittura una rivelazione cosmologica invece che morale e
religiosa. Agostino ribadisce questa stupenda intuizione in altre opere. Che dire?
Se i giudici di Galilei avessero avuto il senso agostiniano della specificità della rivelazione non si
sarebbero certo arrogati un'autorità in un campo in cui erano incompetenti a giudicare. Non meno
importante è la questione del rapporto tra retorica e filosofia.
Nell'antichità la cultura oratoria e letteraria non era in contrasto, come oggi, con quella scientifica,
ma con la filosofia, che poneva al di sopra della eloquenza la serietà e l'impegno del pensiero.
Agostino, ex-professore di retorica e vescovo cattolico, vive più intensamente la tensione drammatica e
la convergenza di retorica e filosofia. Malgrado il ricorso ad espressioni drastiche, sempre originate
dalla vibrata protesta per la vacuità morale che si accompagna all'estetismo e a quella specie di
ignoranza fastosa che è l'erudizione fine a se stessa, Agostino era troppo colto e di animo elevato per
ignorare il valore delle lettere, i diritti della poesia, la funzione umanizzante della cultura e confessava:
«dai versi, dalla poesia posso anche trarre un reale alimento» (versus et carmen etiam ad vera pulmenta
transfero, III, 6, 11).
In realtà la soluzione che Agostino dà del problema rifugge costantemente sia dal sincretismo
compromissorio, sia dagli esclusivismi settari: occorre invece riscoprire e far proprio l'universalmente
umano che brillò anche in epoche pagane, abbandonare al passato il male e valorizzare sempre tutto ciò
che è buono. «Un argomento esposto non deve sembrar vera perché esposto eloquentemente, né falso
perché risuonano confusamente le parole della bocca: ma neppure vero perché espresso rozzamente, né
falso perché forbito il discorso. La sapienza e la stoltezza sono come dei cibi utili e nocivi: possono
essere somministrati con parole ornate o disadorne, così come su piatti signorili o rustici» (V, 6, 10).
Considerazioni vere oggi come lo erano quando furono scritte.