Karate Bougyo

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Karate Bougyo
Nel periodo feudale il popolo giapponese usciva da centinaia d’anni di lotta civile (le quattro fasi del feudalesimo),
per tale motivo raggiunse livelli altissimi di difesa-offesa che in nessun’altro continente asiatico furono mai toccati.
Fino a quel momento, le arti legate alla guerra(bujutsu)venivano tramandate all’interno della casta dei guerrieri
nell’ambito delle casate. Con l’avvento delle armi da fuoco nel XVI secolo e la pace imposta dal regime
Tokugawa nel XVII secolo, lasciando da parte la finalizzazione alla guerra, le arti marziali diedero inizio alla nascita di
sistemi di difesa personale per i civili. Nella quarta fase dell’epoca feudale Tokugawa (1603-1867), tra il delicato
passaggio dal feudalesimo “centralizzato” e il kindai jidai (età moderna), anche se era già in atto il processo
di declino delle capacità belliche dei Samurai, in Giappone non era inconsueto incappare in duelli, sfide, e combattimenti a
pagamento o semplicemente per difendersi: infatti molte sono le narrazioni, anche di famosi karateka dell’epoca,
come Arakaki e Motubu, che si scontravano con altri praticanti di arti marziali, pugili ed esperti lottatori per stabilire quale
fosse l’efficacia della loro tecnica: si narra che Motubu stese con un solo tsuki un pugile, mentre Arakaki uccise,
con una tecnica di sua invenzione, un lottatore colpendolo al torace con un calcio portato con la punta delle dita dei piedi
(tsumasaki).
La creazione di nuovi combattenti attraverso l’allenamento a pagamento diventa un mezzo di sostegno per molti
samurai; i fondatori degli ryuha aprono centri di addestramento e insegnano per professione anche a quelli che non
appartengono alle classi nobili. Per ovvi motivi in quel particolare periodo si ebbe una grande evoluzione delle tecniche di
combattimento, sia a mani nude che con arma bianca, la quale portò ad abbandonare la via del bujutsu, tutto ciò
mescolandosi con lo shintoismo, il buddismo e il confucianesimo sfociò in una nuova via definita “budo”,
quella pratica armigera e rigorosa che serviva a forgiare combattenti pronti a tutto, che per i stretti legami con le religioni
si poneva come un nuovo metodo per arrivare a non dovere più combattere (bu-do, via per fermare la guerra),
paragonabile al motto latino di “si vis pacem, para bellum”. Il guerriero dell’epoca investiva tutta la
propria giornata nella pratica marziale, cercando di “fondere” pensiero-azione e respirazione in un unico
atto, e anche nei semplici gesti di vita quotidiana “tutto riconduceva all’esigenza di lotta e alla capacità di
sopravvivere in tale circostanza”. Tutto ciò influì sul budoka e lo costrinse ad imparare a difendersi usando
l’intelligenza, adottando nuove strategie (heiho) e raffinando metodi differenti per sopravvivere ad ogni tipo di
attacco; in tal senso l’uomo capì che oltre allo studio delle tecniche difensive-offensive, civili e militari doveva
“agire” sugli aspetti istintuali e psicologici che inibivano e frenavano il corpo dinnanzi ad una situazione di
pericolo, tutto ciò che oggi viene classificato sotto il nome di “scienza formativa della difesa personale”.
In questo modo, attualmente, in alcuni ambienti militari e civili hanno applicato alle “antiche strategie”
sistemi moderni di addestramento; includendo alla pratica fisica la psicologia del confronto, la prossemica, studiando e
analizzando tutti quei segnali che il corpo umano emana per la gestione del suo spazio vitale e quali sono i
comportamenti e le tecniche più appropriate per uscire da situazioni di reale pericolo. Per avvicinarsi e ricreare il più
possibile le situazioni di lotta urbana alcuni metodi moderni di autodifesa si sono rivolti anche alle moderne tecnologie
militari applicate negli ambienti e scenari ad alto rischio, quella branca della scienza militare dove, per mezzo di percorsi
particolari, come la stanza di Ames , l’allenamento in acqua, in ambienti semi bui, con maschere che impediscono
la normale respirazione, si lavora sulla psiche e sul soma per “aggiogare” le paure ataviche proprie
dell’essere umano e prepararsi a ricevere attacchi al sistema sensoriale cercando di attivare una reazione più
appropriata possibile alla situazione di pericolo.
Conclusioni:
Apprendere la tecnica di difesa personale non è “cosa facile” nè tanto meno un gioco: bisogna essere
disposti a “ferire e ad essere feriti”, bisogna conoscersi nel carattere e essere in grado, nella necessità,
“di valicare i limiti imposti dalla educazione civile ricevuta”. Questa attitudine agisce sullo stato di
“autoconservazione” che fa superare il “panico di non farcela a mantenere il controllo di sé ”,
aumentando la capacità di resistere ad un evento “stressante” come potrebbe essere uno scontro per la
sopravvivenza o la difesa di una terza persona. Tralasciando il perbenismo che ammanta la civiltà moderna, che cela
l’aggressività con un falso moralismo, sintomo, a mio avviso, di un vacillante lassismo e di una “aggressività
deviata”, e analizzando cinicamente il problema della difesa personale possiamo, in un certo senso, affermare
che lottare per la propria vita rappresenta l’istinto di sopravvivenza più forte e primordiale insito in ogni essere
vivente, pertanto, in un tale evento, esiste l’esigenza di neutralizzare nel più breve tempo possibile e in modo
efficace e definitivo l’oppositore sfruttando questo nostro impulso naturale che, però, attraverso
l’allenamento serio e costante, viene continuamente rivisto, modificato e adattato alle continue e moderne
esigenze. Jigoro Kano diceva: “ l’obiettivo della difesa personale è raggiungere il miglior risultato con il
minor sforzo possibile”. Oggi la nostra società ha delegato allo Stato il compito di difenderci e tutelarci, cosa buona
e saggia, peccato che quando un uomo, una donna o un bambino vengono attaccati, le forze dell’ordine arrivano
sempre un’ attimo dopo che il delitto è stato consumato!
Si può tentare di fare illazioni su alcune risposte, più o meno plausibili, sul tema di “sport, arte marziale, filosofia e
difesa personale”, ragionando al contrario:se un uomo si allena per svago o per vincere un coppa facilitato da un
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“contesto ambientale modellizzato”, cioè creato adhoc, dove l’aggressività e la violenza si esternano
attraverso un codice comportamentale, o precise regole sportive questi principi possono venire applicati, o meglio, sono
in grado, in una circostanza diversa dal dojo, di rispondere alle necessità della difesa personale che non rispetta queste
regole? La filosofia o meglio il “pensiero orientale” legato alla pratica marziale, la quale si intreccia con la
cultura, la filosofia e la storia di un popolo, può in certi frangenti “ divenire un’arma di difesa solamente
rinunciando allo scontro fisico?”, oppure il prevaricatore infuriato l’unico “linguaggio” che
conosce è una risposta violenta e risoluta che lo faccia desistere dal suo intento? La volontà di vivere in pace con gli altri
e di rispettarne la libertà d’azione e di pensiero è
ragione sufficiente per “evitare” possibili aggressioni in un contesto qual’ è quello attuale, o forse
come capita nel mondo animale l’unica vera dissuasione è la determinazione alla difesa che mette il nostro
aggressore in fuga o in condizione di rinuncia?
Quanto l’autodeterminazione personale coincide con la possibilità di “evocare la legittima difesa”
qualora per i motivi su riportati si debba ricorrere all’uso della forza, e ancora, fino a che punto l’uso di
questa è ragionevole e in che misura e circostanza debba essere applicata? Difendersi non è uguale a gareggiare,
poiché nella prima situazione spesso la “dissuasione” non basta per evitare un attacco, occorre
combattere e uscirne vincitore, attenzione, non indenne come da un combattimento sportivo ma solo vittorioso e vivo.
L’allenamento giornaliero deve trasportarci nella dimensione del “sentire l’altro”, quella
dimensione dove ogni piccolo errore dovrà essere ripulito per arrivare un giorno a non commettere errori fatali che
potrebbero costarci la vita, questo è la pratica del karate come metodo di difesa personale (bougyo). Il maestro Gichin
Funakoshi scriveva : “…esiste forse un’arte marziale più elaborata e raffinata del karate che permetta
di difendersi e abbattere un avversario servendosi solamente delle mani nude?
Non vi è pratica più accessibile, efficace e adatta alla situazione di oggi. Nell’attuale clima di riduzione militare,
l’addestramento individuale acquista particolare importanza, fornendo la preparazione necessaria a contrastare
un’aggressione, a prescindere dal giorno, dall’ora e dalla direzione da cui
proviene l’attacco….”.
Nel moderno allenamento al combattimento del karate la ricerca del “punto” adottando protezioni, con
l’avversario posto sempre di fronte e mai di lato o dietro di noi, dove non si contempla l’uso delle armi da
taglio, a mio parere non esistono i presupposti perché tale pratica possa ritenersi idonea alla difesa personale, tutto
questo non si identifica neppure in quello che il Maestro Funakoshi ha scritto nei suoi testi sul karate. Tuttavia, ritengo
che se l’allenamento del karate, del judo, dell’aikido, e di tante altre discipline, viene affrontato con lo
spirito di lotta e sopravvivenza (tokon), immedesimandosi nell’azione di non “commettere errori
mortali” oggi come allora la tecnica marziale sarà utile a sopravvivere anche dinnanzi ad un attacco armato, in altri
termini, invece credo che sia solo una “simulazione di lotta” poco utile a tale fine.
Ciro Varone
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