ESPERIENZA Pascendi, DH 3477-3478, 3484, 3490, 3500; Gaudium et spes, 44, 46; Fides et ratio, 31, 48, 83. I. La pluralità semantica della nozione di esperienza - II. Aspetti etimologici: l’esperienza come processo conoscitivo pre-scientifico - III. Accezioni e prospettive epistemologiche dell’esperienza nella storia del pensiero filosofico - IV. L’esperienza nella metodologia delle scienze - V. L’esperienza come categoria religiosa e teologica - VI. Una visione di sintesi. Il concetto di esperienza possiede una molteplicità di significati ed entra in gioco in molti ambiti diversi, rendendolo altamente problematico e difficile da codificare. Tuttavia si possono subito identificare con sicurezza, quale premessa della trattazione che seguirà, due sue precise funzioni. In primo luogo l’esperienza costituisce il punto di partenza della nostra conoscenza, in quanto ne fornisce il “dato” che la conoscenza teoretica tenterà di comprendere e spiegare. Questo ruolo appare evidente, in particolare, quando il termine «esperienza» viene preso col suo significato di «conoscenza sensibile della realtà esterna». Ciò vale in particolare per le scienze della natura, ma anche, in maniera diversa, per le scienze umane nella misura in cui esse offrono una sufficiente base empirica; fatta eccezione delle posizioni più radicalmente idealiste (entro le quali potremmo includere quelle razionaliste più astratte), tale priorità dell’esperienza viene riconosciuta praticamente da tutte le correnti filosofiche, che coincidono nel segnalare in essa l’origine di ogni nostra conoscenza. In secondo luogo, all’esperienza viene affidato il compito di “criterio di validità” della nostra conoscenza. In questo caso, ovviamente, non ci riferiamo più alla semplice conoscenza sensibile, ma alla conoscenza teoretica, che costituisce appunto la scienza, in senso ampio. Si pone allora il problema della validità di tale conoscenza, che oltre al “dato” empirico include anche elementi teorici di carattere formale. La questione è allora se, e in quale modo, l’esperienza possa costituire una base che ci consenta giudicare della validità di ogni nostra conoscenza, adesso intesa nella sua accezione più ampia. Si giunge così al fulcro del problema epistemologico: può l’esperienza costituire un fondamento sicuro della scienza? Oppure è la ragione (ratio) soltanto che riesce a cogliere la realtà e le relazioni necessarie di cui si occupa la scienza? E, nella prima ipotesi, può l’esperienza “comunicare” in qualche modo la sua affidabilità alla ragione e alla scienza? Un chiarimento epistemologico della nozione di esperienza, utile per affrontare la questione del rapporto fra scienza e fede, dovrà dunque esplorare anzitutto il campo semantico di questa nozione, allo scopo di delucidare i diversi problemi in essa sottintesi. 1 I. La pluralità semantica della nozione di esperienza Parte del “problema dell’esperienza” è rappresentato dal fatto che il suo campo semantico risulta estremamente ampio. Fra le “esperienze di laboratorio”, l’“esperienza umana” acquisita con l’esercizio prolungato di un’attività pratica o manuale, e l’“esperienza di un dolore” fisico o morale, esiste una notevole diversità, fino al punto che sembra difficile poter ridurre ad un unico senso primario queste diverse accezioni. Nella letteratura filosofica si arriva perciò ad enumerare un’enorme varietà di significati, a seconda della prospettica assunta (epistemologica, psicologica, esistenziale) e della dimensione conoscitiva presa in considerazione. Ne riassumeremo qui alcuni fra i principali. Esperienza e atto di conoscenza. Da un punto di vista più direttamente epistemologico, «esperienza» può fare riferimento ad un certo atto di conoscenza («percezione immediata di un concreto»: Giannini, 1987, p. 12; «conoscenza dell’oggetto particolare»: Kessler et al., 1981, p. 681) o almeno ad una sua parte o dimensione («l’elemento non isolabile di passività che sembra presente in ogni conoscenza umana»: Alquié, 1970, p. 13). Da questo punto di vista resterà aperta la questione di determinare quale tipo di conoscenza è accettata come “esperienza”: se soltanto una conoscenza di tipo sensibile, come spesso si sostiene nell’ambito della filosofia della scienza contemporanea, e in generale nelle posizioni di tipo empirista (l’esperienza sarà allora la «base sensoriale della conoscenza»: F. Dretske, 1995, p. 261) oppure, in maniera più generale, come conoscenza ricavata dalla realtà in modo diretto e immediato («conoscenza diretta, personalmente acquisita e consolidata, d’una certa sfera di realtà»: Enciclopedia Italiana Treccani, vol. XIV, p. 345). Soltanto allora sarà possibile parlare anche di esperienza interna, intellettuale, psicologica, morale, ecc. Esperienza e contenuto ricavato da un atto di conoscenza. Il termine esperienza può essere riferito anche al contenuto ricavato da un atto conoscitivo: si parla allora di “dati di esperienza”. L’esperienza denota in questo caso non tanto il contenuto materiale di tale conoscenza quanto la “modalità” con cui certi elementi di essa si presentano alla nostra conoscenza: affermiamo che sono dati di esperienza, o anche di conoscenze ricavate dall’esperienza e non conclusioni derivate o dedotte da nostre conoscenze di natura diversa, né semplici opinioni o congetture. In questo senso l’esperienza appare come una «autodonazione originaria degli oggetti individuali» (Husserl, 1948, p. 23). Esperienza e ambito di conoscenza. In maniera forse derivata, il termine esperienza sembra indicare anche la realtà stessa, o un certo ambito della realtà, in quanto accessibile alle nostre capacità percettive: “il mondo dell’esperienza” in contrapposizione al mondo del pensiero o delle idee. L’esperienza si presenta allora come la «realtà immediatamente presente ed affermata, per tanto, in base alla sola presenza» (Bontadini, 1995, p. 34). Se questa realtà è però di carattere esclusivamente fisico e sensibile, o include anche realtà più trascendenti, sarà oggetto di discussione fra le diverse correnti di pensiero. 2 Esperienza come divenire esperti. Esperienza può significare anche un processo protratto nel tempo, attraverso il quale possiamo imparare o acquistare una qualche abilità o competenza pratica («l’acquisto di una conoscenza abituale, oggettiva, sicura, attraverso una serie ripetuta di situazioni “vissute”»: Viglino, 1950, col. 600). Corrisponde questo ad uno dei sensi originari del termine esperienza: ogni processo in cui si apprende “per contro proprio”, osservando ed operando e non come conseguenza di un ragionamento teoretico. Si tratterà di un processo complesso, attraverso il quale i diversi contenuti appresi dalla realtà arriveranno a costituire una conoscenza stabile, assimilata e fatta propria dal soggetto. Potrebbe trattarsi di una conoscenza teoretica o pratica, anche se tradizionalmente il termine esperienza viene riferito in maniera specifica a questo secondo caso. In tal senso, l’esperienza non giunge ad indicare un contenuto teoretico universale, ma resta invece a livello di abilità o disposizione pratica per compiere certi atti, giudicare o riconoscere eventi o situazioni, ecc. Esperienza come dimensione pratica. Questa esperienza acquisita può riguardare non soltanto dimensioni strettamente conoscitive ma anche altre di tipo pratico o vitale. Descrive allora una capacità acquisita in relazione con l’attuazione pratica della persona nel mondo: «familiarità con questioni di interesse pratico, fondata su ripetute cognizioni o attuazioni passate» (Heat, 1967, p. 156). È possibile riferire il termine esperienza anche alla totalità della conoscenza o alle disposizioni che essa provoca nel soggetto: «competenza sociale e tecnica» (Kessler et al., 1981, p. 677); «partecipazione diretta ad una serie di situazioni, che comportano generalmente un arricchimento personale di chi le vive» (Mancini, 1996, p. 115); «partecipazione personale a situazioni ripetibili» (Abbagnano, 1998, p. 393). In questo ambito si colloca anche la “esperienza di vita” (resa in tedesco con Erleben). Esperienza come criterio di validità. Su un piano nuovamente gnoseologico, esperienza può anche indicare un metodo o giudizio sulla validità di contenuti conoscitivi: «metodo di verifica delle idee» (Mancini, 1996 p. 116), «criterio ultimo di verità» (Brenner, 1999, p. 400). Attraverso di esso, la scienza “controlla nell’esperienza” le proprie affermazioni e teorie. È questo forse il significato più usuale del termine nel contesto del metodo scientifico, erede della lezione galileiana di una scienza le cui conclusioni provengono «dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie» (Lettera a Madama Cristina di Lorena, 1615, Opere di Galileo Galilei, Firenze 1968, vol. V, pp. 316). Esperienza come dimensione antropologica ed esistenziale. È possibile però fare riferimento all’esperienza anche da un punto di vista antropologico più generale, ed in tal senso essa riguarda non soltanto la dimensione conoscitiva oggettiva di un reale in quanto esterno al soggetto, ma anche una conoscenza personale in quanto “sperimentata” dal soggetto. L’esperienza può essere allora considerata dal punto di vista della coscienza o della consapevolezza del soggetto, anche in relazione alle dimensioni affettive, emotive ed intenzionali, sia in senso concreto (ad es. esperienza di un dolore), che in senso generale (esperienza della vita). Essa viene allora definita come «percezione di contenuti e dati di coscienza» o come «modificazione e determinazione della vita cosciente dell’io» (Viglino, 1950, col. 600). Sempre a livello antropologico, e in relazione a dimensioni più marcatamente trascendenti della 3 persona, si può parlare infine di esperienza morale, esperienza religiosa e di esperienza mistica (➚ MISTICA, II; PREGHIERA, I; RELIGIONE, VI.1). Questa molteplicità di significati e di ambiti rende particolarmente difficile l’analisi filosofica di questa nozione. Alle diverse prospettive che si possono assumere nell’esaminare l’esperienza (l’esperienza come “dato”, come “atto”, come “contenuto di conoscenza”, come “processo” e come “coscienza”), si aggiungono le diverse opinioni filosofiche sulla sua natura e sul suo valore: qualcosa di puramente sensibile, empirico ed immediato, o anche risultato di una elaborazione complessa, che può comprendere una dimensione teorica ed intellettuale; singolare ed incomunicabile, oppure dotata di una certa universalità; passiva e ricettiva, oppure risultato di un’attiva elaborazione da parte del soggetto. Le diverse posizioni sono non di rado in certa contraddizione fra loro, anche per quanto riguarda il significato del termine: c’è chi identifica l’esperienza con la percezione, anche solo puramente sensibile, e chi vede invece nell’esperienza il risultato di un processo complesso ed articolato che coinvolge tutte le capacità e le facoltà umane. I richiami all’esperienza fatti in aree tematiche diverse, come la scienza, la filosofia o la teologia, corrono di conseguenza il rischio di una certa incomunicabilità, non essendovi un accordo fra le caratteristiche essenziali da attribuirvi. Al tempo stesso se ne intravedono la centralità e le potenzialità, trattandosi di una delle principali categorie interdisciplinari, verso la quale ambiti così diversi del sapere mostrano sensibilità ed attenzione. Allo scopo di meglio valutare le basi sulle quali possa eventualmente edificarsi una comprensione comune e non ambigua dell’esperienza, si rende necessario un richiamo alla sua etimologia ed una breve descrizione dell’evoluzione del “problema dell’esperienza” attraverso alcune principali tappe del pensiero filosofico. II. Aspetti etimologici: l’esperienza come processo conoscitivo pre-scientifico 1. I due significati originari di «esperienza». Sebbene non rivestisse inizialmente una speciale valenza filosofica, è opportuno considerare anzitutto il significato originario del termine «esperienza». Il latino experientia (da experior, «mettere alla prova», «tentare»), indica in primo luogo una «prova» o un «tentativo». A partire da questo significato, experiri può indicare, in secondo luogo, anche la conoscenza o abilità che, da tale prova, ne deriva. Experientia indica allora la capacità e la conoscenza acquistate dopo aver provato una certa situazione oppure aver fatto certi tentativi: in tal senso si dice che qualcuno è “esperto” o “sperimentato”. Il campo semantico a cui il termine veniva applicato era molto ampio: vi sono esempi frequenti nella letteratura classica in riferimento alle azioni militari, alla forza o al coraggio personali, all’amicizia, ecc. I due principali significati di esperienza, come “prova” e come “conoscenza o capacità acquisita”, sono già presenti nella voce greca empeiría, (dalla quale deriva il lat. experientia) e nella sua radice peîra («provare», «tentare»). Da quest’ultimo verbo pare siano derivati, in latino, anche l’inusuale perior, da cui periculum (prova o 4 difficoltà), peritus (esperto) e peritia (prova, controllo). Inoltre, sembra certo il rapporto con il verbo greco peíro («passare attraverso»), o in ogni caso con la radice per, comune ad entrambi, che avrebbe appunto il senso di «penetrare» o «attraversare». Experientia richiamerebbe così l’idea di ciò che si è provato in maniera concreta e certa, ma in fondo anche in modo personale, appunto perché il soggetto “è passato” attraverso tale situazione. Siamo di fronte ad una nozione di carattere “prescientifico”, con un significato concreto e pratico, ma d’altra parte assai elastico. 2. I significati di esperienza nel linguaggio ordinario. I due significati originari sono tuttora presenti nel linguaggio ordinario, ove il termine esperienza designa ancora la prova e la conoscenza che da essa si acquisisce, e viene applicato in vari campi dell’attività umana, pratico, sensibile o affettivo. Se il termine pare oggi richiamare in modo principale l’«esperienza scientifica», è perché si intende con ciò segnalare che la scienza rappresenterebbe l’ambito della conoscenza umana in cui quella “prova” viene condotta seguendo una specifica metodologia ed un particolare rigore. Nelle correnti di pensiero ove la conoscenza umana viene identificata con quella scientifica, e come assorbita in essa, il termine esperienza ne soffre una corrispondente riduzione semantica. Tuttavia, la sua valenza antropologica ed esistenziale resta, nella cultura odierna, ugualmente presente e ben rappresentata. È certamente ancora comune, nel linguaggio ordinario, la considerazione dell’esperienza come accumulo di conoscenze o di abilità ottenuto mediante prove o tentativi, sia in senso teoretico che pratico (ad esempio, nello stimare i rischi o la convenienza di una particolare situazione, nell’esprimere un giudizio a partire da alcuni indizi incontrati in circostanze analoghe, ecc.). In sostanza, la portata epistemica dell’esperienza è innegabile: pur presente la dimensione di acquisizione conoscitiva metodica o sistematica, essa non indica tanto un itinerario gnoseologico-concettuale, quanto piuttosto una capacità di intuizione e di scoperta, un modo rapido ed efficace, quasi inconscio, di giungere ad una conoscenza e ad un giudizio, senza dover far ricorso a faticosi ragionamenti e lunghe verifiche. III. Accezioni e prospettive epistemologiche dell’esperienza nella storia del pensiero filosofico 1. L’esperienza nel pensiero greco. Nella filosofia antica la nozione di esperienza entra nel discorso epistemologico attraverso l’idea di disposizione, o capacità, acquisita attraverso le prove ed i tentativi susseguitisi nel tempo. Esso non riveste però un ruolo centrale dal punto di vista gnoseologico, poiché non verrà mai vista come caratteristica dell’autentica conoscenza (epistéme). Per Platone (427-347a.C.) l’esperienza sarà invece più prossima all’opinione (dóxa), e come tale, fonte frequente di errore (cfr. Gorgia, 462-463). Aristotele (384-322a.C.) cercherà invece di inquadrare la nozione di esperienza all’interno della teoria della conoscenza. Si tratta sempre di un’esperienza intesa come arricchimento personale sul piano conoscitivo, ed è vista come risultato della ripetizione di sensazioni, elaborate dalla memoria, sebbene cominci ad assumere un ruolo positivo nella comprensione della conoscenza. 5 L’esperienza (empeiría) appare come momento previo necessario per l’arte (téchne) e per la scienza (cfr. Metafisica, I, 1, 980b-981a; Secondi analitici, II, 19, 100). Non può tuttavia costituire “vera” scienza: l’esperienza non riesce a cogliere la ragione né la necessità di ciò che conosce. Non rappresenta ancora una conoscenza propriamente universale, ma riguarda soltanto la conoscenza dei singolari: «Gli empirici sanno il puro dato di fatto, ma non il perché di esso; invece gli altri conoscono il perché e la causa» (Metafisica, I, 1, 981a, 28-30). Conviene notare che la teoria aristotelica dell’esperienza non corrisponde all’impostazione attuale del problema. Anche se l’esperienza rientra in un piano gnoseologico, lo fa soltanto ad un livello puramente descrittivo. Aristotele non tenta di giustificare la validità della conoscenza ottenuta attraverso l’esperienza, e meno ancora la validità della conoscenza teoretica (arte pratica o scienza) ottenuta in base ad essa. Anche se «gli uomini acquistano scienza ed arte attraverso l’esperienza» (Metafisica, I 1, 981a 1-3), ed essa è anche all’origine dei primi principi, lo sarà geneticamente, ma non in quanto alla loro validità, che viene colta direttamente dall’intelletto, attraverso una sua funzione particolare (➚ METAFISICA, I). D’altra parte, vi è incertezza rispetto al valore da attribuirle: sembra riguardare soltanto l’ambito sensibile, ma in qualche modo si pone fra il singolare e l’universale, dando la capacità di agire in maniera conveniente in ogni circostanza. 2. Il pensiero medievale: l’esperienza come modalità originaria di conoscenza. Considerando l’esperienza nella sua valenza di processo particolare attraverso cui si raggiunge una certa conoscenza, anche se concreta e particolare, nella filosofia antica manca una riflessione sull’esperienza nel suo significato, più astratto, di elemento primario costitutivo dell’atto stesso del conoscere. Per indicare ciò che la scienza o l’epistemologia contemporanee chiameranno «osservare» o «sperimentare», Aristotele usa verbi diversi, tratti dal linguaggio comune, come vedere, considerare o contemplare (cfr. Bourgey 1955, pp. 37-38). In Aristotele non esiste un termine specifico che possa esprimere in maniera generale e astratta l’origine empirica della conoscenza, che invece il medioevo introdurrà proprio come uno dei nuovi significati di esperienza. Oltre a conservare i due sensi presenti nel pensiero greco, la filosofia medievale comincerà a parlare di esperienza per designare gli elementi di conoscenza diretta che generano un accumulo di conoscenza. Vi è in ciò una svolta gnoseologica: l’esperienza non è più considerata soltanto come un grado particolare (poco preciso) di conoscenza, ma si presenta come fondamento della descrizione psicologica e gnoseologica della conoscenza, acquistando pertanto una valenza strettamente epistemologica. Essa rinvia ad un contatto con la realtà, da cui trae il proprio valore. Il termine esperienza comincia così a designare, in maniera astratta, il punto di partenza e l’origine della conoscenza. Da quel momento l’esperienza apparirà principalmente come “modalità” della conoscenza: (➚) Roger Bacon (ca. 1214-1292) distingue tra «conoscenza per argomentazione» e «conoscenza per esperienza» (Opus Maius, VI, 1), differenziando così ciò che è noto per esperienza da quanto si conosce per altra via: con la ragione, 6 grazie all’autorità o alla testimonianza altrui, ecc. Come “modalità” di conoscenza, il termine esperienza corrisponde anche ad un tipo particolare ed elementare di conoscenza, dal quale tutte le altre traggono origine: l’esperienza diviene in tal modo anche il “fondamento” della validità della conoscenza. In questa prospettiva si apre la questione propriamente epistemologica: che cosa caratterizza l’esperienza come tale?, quali sono gli elementi, o le condizioni di un atto (o di un contenuto) conoscitivo, per cui esso è detto «esperienziale»? Nell’ambito della filosofia scolastica le risposte saranno di tipo fondamentalmente empirista, seguendo in ciò le posizioni aristoteliche. L’esperienza appare correlata, già in (➚) Tommaso d’Aquino (1224-1274), principalmente alla conoscenza sensibile (experientia a sensu oritur, l’esperienza nasce dai sensi). La conoscenza ricavata dai sensi costituisce in qualche modo la significazione primaria del termine, in linea con la sua accezione etimologica originale: sperimentare è “provare” qualcosa in maniera palese e manifesta, il che avviene anzitutto nella prova sensibile. Non si tratta però di un’attribuzione esclusiva. Sarà infatti ripetutamente presente, nella filosofia medievale, la distinzione fra due tipi di esperienza: Alessandro di Hales (1185-1245) parlerà ad esempio di «esperienza sensibile» e di «esperienza intellettuale» (cfr. Summa fratri Alexandri, II, I, n. 119, ad 3um), e Roger Bacon di «esperienza sensibile» ed «esperienza di illuminazione interiore» (cfr. Opus Maius, I, 10). Tommaso d’Aquino, affermando con chiarezza la priorità dell’esperienza sensibile, riconosce che «il nome di esperienza si trasferisce anche alla conoscenza intellettuale, come anche i nome dei sensi, come la vista e l’udito» (De Malo, q. 16, a. 1, ad 2um). L’elemento comune fra questi due ambiti, sensi e ragione, che consente l’(➚) analogia dell’esperienza, sarà per Tommaso la “singolarità”. L’intelletto ha, come oggetto proprio, l’universale; tuttavia, è in grado di cogliere anche il particolare, sia nel ritorno alle immagini sensibili della memoria, sia in quanto conosce i propri atti singolari, o l’esistenza di se stesso (cfr. De Veritate, q. 10, a. 8 ad 8um), e anche gli atti delle altre facoltà della persona: affettività, passioni e volontà (cfr. Summa theologiae, II-II, q. 97, a. 2, ad 3um). È possibile quindi parlare anche in senso proprio (ma derivato) di un’esperienza intellettuale interiore, o anche di esperienza personale. Al tempo stesso però, l’esperienza perde il carattere in qualche modo “soggettivo” che possedeva nella filosofia aristotelica, ove l’esperienza acquisita nella pratica era sempre qualcosa raggiunta dal soggetto, un abito o una capacità “vantaggiosi”, che lo disponevano in maniera favorevole ad affrontare altre situazioni simili. La considerazione più astratta dell’esperienza sul piano gnoseologico, come origine e modalità della conoscenza, rende ora l’esperienza in un certo senso più “oggettiva”. Una caratteristica della nozione medievale di esperienza sarà pertanto la sua passività: l’esperienza è una conoscenza in cui il soggetto anzitutto “riceve”, senza espletare una funzione (gnoseologica) propria. Si presenta l’esperienza come “intuizione”, cioè in analogia con la visione sensibile ed in opposizione al ragionamento o alla deduzione. L’oggettivazione dell’esperienza non risulta però assoluta, né riduttiva: lo provano il chiaro riferimento ad un’esperienza interiore o la dottrina della “conoscenza per connaturalità” in Tommaso d’Aquino (cfr. D’Avenia, 1992). 7 3. L’esperienza come origine radicale e giustificazione della conoscenza nell’età moderna. Le caratteristiche acquisite dall’esperienza nella filosofia medievale pongono le basi per la svolta gnoseologica della filosofia moderna. Essa diviene manifesta a partire da Guglielmo di Ockham (1280-1349), per il quale l’esperienza è «conoscenza intuitiva perfetta» e ha necessariamente per oggetto le cose presenti. Oggetto dell’esperienza sarà quindi l’ente singolare e concreto, che sarà sempre più visto come l’oggetto fisico sensibile. Si dà così una sempre più accentuata riduzione dell’esperienza alla percezione sensibile, caratteristica della corrente empiristica dei secoli successivi. Per John Locke (1632-1704) l’intuizione delle cose esterne (“sensazione”) e degli atti interni (“riflessione”) costituiscono i due elementi della conoscenza. Poiché anche la sensibilità esterna, in fin dei conti, non rappresenta nel soggetto altro che uno stato di coscienza particolare, David Hume (1711-1776) arriverà a fondere entrambi elementi nelle “impressioni”, considerando invece le “idee” come riflessi sbiaditi delle prime. Ad eccezione delle idee e dei concetti matematici, soltanto le impressioni potranno ormai garantire una vera conoscenza, ed essere così considerate come contenuto originario dell’esperienza. Questa evoluzione manifesta la radice epistemologica della nozione di esperienza del pensiero moderno (➚ RAGIONE, III). Essa non è più vista come un semplice elemento (anche se originario) della conoscenza, ma come base in grado di giustificarne la validità, logica e razionale, una pretesa assente nell’impostazione medievale del problema. Nel pensiero scolastico, infatti, la determinazione dell’esperienza come base della conoscenza poteva avere lo scopo di “ragionare correttamente” nei diversi ambiti del sapere: si trattava di una nozione di taglio sì epistemologico, ma sul versante metodologico. Nel pensiero moderno siamo invece ormai all’interno di una logica giustificazionista, puramente deduttiva. Facendo seguito al programma cartesiano che pone come valore epistemologico fondamentale la “certezza” (➚ DESCARTES, II), si spera di derivare ogni nostra conoscenza, per deduzione logica, dai dati di partenza (esperienza). La non praticabilità di tale pretesa apparirà in modo drammatico nell’esito ultimamente scettico della filosofia di Hume (➚ HUME, II). In questa prospettiva si opera anche un altro cambiamento di impostazione. Se l’esperienza nel mondo classico era concepita come “processo conoscitivo”, e in quello medievale come “modalità di un atto di conoscenza” (o anche come realtà che si manifesta nell’esperienza), nella filosofia moderna l’accento cadrà particolarmente sull’esperienza come “contenuto mentale”. L’esperienza del soggetto sarà definita propriamente dalle idee o dai concetti direttamente ricavati dalla realtà, senza mediazione alcuna di tipo intellettuale o riflessivo. Queste “unità empiriche elementari” (cfr. Abbagnano, 1998, p. 395) saranno così ciò che la filosofia della scienza del Novecento chiamerà la «base empirica» della scienza, elemento primario e incondizionato chiamato a giustificare la validità dell’elaborazione teorica della scienza. L’età moderna vede però anche lo sviluppo di un’altra nozione di esperienza, che converge con quella propria della prospettiva giustificazionista. Per gli autori il cui interesse si centra nella scienza, come Francis Bacon (1561-1626) e (➚) Galileo 8 Galilei (1564-1642), l’esperienza sarà anzitutto il processo attraverso cui diviene possibile raggiungere una vera conoscenza scientifica. Esperienza diviene allora sinonimo di metodo sperimentale, o più ancora di verifica o prova sperimentale. Ma un processo di natura non soltanto sensibile, in quanto include anche una riflessione astratta e intelligibile, anzi, la capacità di “leggere” il linguaggio matematico in cui è scritto il «Libro della natura» (cfr. Galileo, Il Saggiatore, in Opere di Galileo Galilei, Firenze 1968, vol. VI, p. 232). Galileo è considerato come il primo autore che, in maniera compiuta e consapevole, ha messo in pratica il metodo sperimentale, principalmente nei suoi studi di cinematica (➚ GALILEO, I.5). L’esperienza scientifica, diversa della semplice osservazione comune, esige delle osservazioni accurate, guidate da un progetto teorico, che cerca di determinare gli aspetti rilevanti di un particolare problema. Il metodo sperimentale così concepito, messo in pratica e perfezionato lungo il XVII secolo oltre che da Galileo, da Christian Huygeens (1629-1695), (➚) Robert Boyle (1627-1691), (➚) Niels Steensen (1638-1686), (➚) Blaise Pascal (1623-1662), (➚) Isaac Newton (1642-1727) e da altri ancora, ebbe nell’età moderna il suo primo teorico nella persona di Francis Bacon. L’esperienza non è semplicemente l’inizio della conoscenza (questa sarebbe piuttosto la semplice osservazione, che non è sufficiente però a preservare la conoscenza umana dall’errore), ma è anzitutto “il metodo” per raggiungere una valida conoscenza. «Sed demonstratio longe optima est experientia; modo haereat in ipso experimento» (Novum Organum, I, 70). La forma privilegiata di esperienza sarà allora l’esperimento, esperienza condotta non “per caso”, ma cercata e ordinata con l’aiuto della ragione (cfr. ibidem, I, 82). Bacon tenterà di determinare il metodo preciso attraverso il quale la ragione può arrivare a delle verità certe: raccogliere il maggior numero possibile di casi osservati, selezionare quelli utili, ordinarli e raggrupparli in maniera razionale per mezzo delle tabelle di frequenza (cfr. ibidem, II, 11-13). Anche se da questa prospettiva l’esperienza non rappresenta un contenuto mentale preciso, ma piuttosto un metodo in grado di cogliere gli elementi originari della realtà, emerge progressivamente la sua dimensione “critica”: il metodo di verifica sperimentale diviene ora il criterio per determinare la validità o meno delle conoscenza che riceviamo attraverso fonti diverse, dall’osservazione e dall’attività della ragione. Ciò sarà particolarmente evidente in (➚) Immanuel Kant (1724-1804). Pur facendo uso inizialmente di una nozione di esperienza equivalente a quella empirista, come dato o impressione sensibile, la ricerca di un fondamento affidabile in grado di garantire la validità della conoscenza lo condurrà a far consistere l’esperienza (ora in senso “tecnico”) non più nei “contenuti” passivamente ricevuti dalla mente — secondo la visione empirista della conoscenza — ma nella sintesi fra tale elemento materiale (“l’intuizione empirica”) e un elemento formale capace di operare una sintesi delle percezioni secondo una regola universale (le “categorie a priori”). Le categorie unificano le intuizioni e consentono di formulare giudizi validi, cioè universali e necessari, che egli chiamerà «sintetici a priori»: solo allora potremo affermare di avere “vera” conoscenza. L’esperienza diventa per Kant sinonimo di conoscenza, una conoscenza non più identificabile con la realtà in se stessa, ma conoscenza giustificata. 9 Dopo la parentesi idealista, il programma di vedere nell’esperienza l’istanza ultima di giustificazione delle nostre pretese conoscitive raggiunge la sua massima espressione nel positivismo logico e in gran parte della filosofia della scienza del XX secolo. Il Circolo di Vienna (➚ POSITIVISMO, II) cercherà di unificare la nozione di esperienza puramente empirica sostenuta dai filosofi britannici — Hume in particolare, e poi da Ernst Mach (1838-1916) — con le istanze logico-linguistiche del Tractatus Logico-philosophicus di (➚) Ludwig Wittgenstein (1889-1951). Caratteristica comune è quella di cercare la riduzione dell’esperienza ai dati ultimi originari, e quindi non problematici, perché carenti di ogni componente di pensiero. Hume ridurrà l’esperienza alle impressioni, così puntuali da non poter essere durevoli nel tempo; per Mach saranno le sensazioni a costituire le “unità empiriche fondamentali”, e così saranno anche ricevute, come “fatti” (Sachverhalte), da Wittgenstein. Rudolf Carnap (18911970), principale rappresentate del positivismo logico, cercherà senza successo a più riprese di costruire a partire “dall’esperienza vissuta elementare” (Elementarerlebnis) la totalità della scienza e della conoscenza umana, che avrebbe dovuto escludere, come carente di significato, tutto ciò che non costituiva espressione della pura logica, o non aveva un diretto fondamento nei dati empirici. La visione neopositivista della scienza, malgrado gli insuccessi che hanno costretto i loro fautori a ripetuti ripensamenti delle loro posizioni, assunse nella metà del secolo XX una posizione dominante nella riflessione filosofica sulla scienza (la cosiddetta received view o standard view: cfr. Putnam, 1962; Suppe, 1974), fondata tra l’altro sul postulato della distinzione radicale tra il piano della teoria e il piano dell’osservazione. Il problema epistemologico (ora praticamente ridotto alla comprensione della metodologia della scienza) consiste quindi nel porre in relazione la teoria con il contenuto empirico, dato dall’esperienza. Ma i problemi interni alle loro pretese, insieme ad una sempre più ampia considerazione di altre forme di esperienza e di conoscenza provenienti da nuovi sviluppi filosofici del Novecento (➚ BERGSON, III), costringeranno la filosofia della scienza ad un radicale ripensamento delle proprie posizioni nella seconda metà del XX secolo (➚ EPISTEMOLOGIA, II.2). 4. Aspetti del pensiero contemporaneo: l’esperienza come vissuto personale e la critica al neopositivismo. Attraverso il contributo dell’(➚) idealismo — che esalterà principalmente gli aspetti più soggettivi dell’esperienza — il XIX secolo giungerà a maturare in un forte richiamo all’“unità” dell’esperienza. Da una parte si tributerà maggiore importanza a dimensioni dell’esperienza diverse da quella puramente sensibile, a partire dall’interesse per le “scienze dello spirito” e le loro “forme dell’esperienza” e cominciando così a distinguere fra esperienza interna, sensibile, emotiva, psicologica, religiosa, scientifica, ecc. Dall’altra, specie con il contributo del romanticismo, l’esperienza viene colta come qualcosa di inscindibile, che abbraccia tutti gli aspetti della vita personale, come “esperienza di vita” (Erlebnis) ed esperienza “storica”, che racchiude in sé la totalità di quanto il soggetto vive e sperimenta nel mondo e lungo la (➚) storia. Questa posizione sarà rintracciabile in molte correnti filosofiche del XX secolo, anche fra loro assai distanti: lo spiritualismo, l’esistenzialismo, la fenomenologia, il (➚) pragmatismo, coincidono nell’affermare il carattere unitario e il valore personale 10 dell’esperienza. La rivalutazione del vissuto storico troverà voce e sviluppo, anche in dialogo con le scienze, nel pensiero di (➚) Henri Bergson (1854-1941) e nella sua metafisica dell’esperienza. I pragmatisti americani, come William James (1842-1910), Charles S. Peirce (1839-1914) e John Dewey (1859-1952) hanno insistito sul carattere aperto dell’esperienza, sostenendo che non può essere ridotta alla semplice percezione sensoriale, e nemmeno a ciò che il soggetto riceve sul piano conoscitivo, ma si presenta come la relazione fra l’essere vivente ed il suo intorno fisico e sociale. Nella fenomenologia di Edmund Husserl (1859-1938) si cercherà di tornare ad un’esperienza pura, originaria, in cui gli oggetti dovrebbero darsi con evidenza, come essi sono in realtà; nell’esperienza attuale, invece, non è possibile dissociare la realtà originaria dagli “orizzonti” pre-concettuali che condizionano la loro comprensione. Le correnti esistenziali ed ermeneutiche, e in particolare Martin Heidegger (1889-1976), Hans Georg Gadamer (n. 1900) e Paul Ricoeur (n. 1913), hanno messo nuovamente in evidenza il carattere storico dell’esperienza, che non si dà senza una precomprensione del mondo (oggetto stesso dell’esperienza) e l’aggancio con una tradizione interpretativa (➚ ERMENEUTICA, VI). Anche dall’interno della filosofia della scienza sono sorte altre critiche alla concezione neopositivista secondo cui la scienza avrebbe un momento fondante (l’esperienza) indipendente di ogni assunto teoretico. Già anticipate da (➚) Pierre Duhem (1861-1916) e (➚) Michael Polanyi (1891-1976), queste critiche sono state elaborate con maggiore articolazione, e secondo diverse prospettive, nella seconda metà del XX secolo. (➚) Karl R. Popper (1902-1994), nega la possibilità di una verifica empirica di ogni asserto teoretico e propone invece una nozione congetturale e falsificazionista della scienza. Norwood R. Hanson (1924-1967) ha messo in evidenza che ogni asserto che parte dall’osservazione è in realtà «carico di teoria» (theory laden). Per Thomas S. Kuhn (1922-1996) la scienza opera sempre all’interno di un «paradigma», che è costituito anche da fattori storici, sociali, ideologici. Infine, la critica di Willard V.O. Quine (1908-2000) ai «due dogmi dell’empirismo», nega la possibilità di ridurre il significato degli elementi teorici ad un complesso logico di termini osservativi. Caratteristica comune alle loro proposte è la negazione di una esperienza pura che sia in grado di fondare radicalmente la conoscenza scientifica. Negli ultimi decenni del XX secolo l’influsso delle correnti ermeneutiche si è esteso anche nel campo della filosofia della scienza (➚ ERMENEUTICA, VII), dando origine a posizioni largamente relativiste nel confronto della conoscenza e della sua possibile giustificazione nell’esperienza, di cui sono esponenti Richard Rorty (n. 1931), le correnti decostruttiviste ispirate a Jacques Derrida (n. 1930), e la sociologia della scienza (cfr. Barnes, 1974; Bloor, 1976). L’esperienza non appare più come contatto originale con la realtà, come paradigma dell’oggettività, ma è vista come risultato di una costruzione dovuta ai molteplici condizionamenti di tipo personale e sociale. 11 IV. L’esperienza nella metodologia delle scienze Se la considerazione dell’esperienza è importante in ogni ambito della conoscenza, essa ha un ruolo del tutto particolare nello studio scientifico del mondo, spesso denominato appunto «scienza sperimentale». Come si è già menzionato, nella scienza moderna il ricorso all’esperienza acquista il ruolo di “metodo” attraverso il quale sarà possibile ottenere una conoscenza valida della realtà. Resta però aperta la questione di cosa significa tale “validità”: se una giustificazione logica in senso rigoroso, oppure una “affidabilità” dei risultati, una corrispondenza pratica, ecc. La scienza antica era già fondata sull’esperienza, cioè sul ricorso come punto di partenza ai dati evidenti ricavati attraverso l’osservazione. Tale pratica può essere riscontrata negli scritti del Corpus Hippocraticum (➚ MEDICINA, I.1) che la tradizione fa risalire a Ippocrate di Cos (ca. 460 a.C.), nella biologia aristotelica (➚ BIOLOGIA, II), nella medicina e nell’ottica ellenistiche (cfr. Lloyd, 1996). Anche la metodologia dell’astronomia antica, condensata nell’espressione sóizein tá phainómena (salvare le apparenze), così spesso interpretata modernamente in senso strumentalista, implicava il ricorso all’osservazione come termine necessario di confronto per assumere la validità di un sistema teoretico (➚ ASTRONOMIA, I; COPERNICO, II.3). Il ricorso pratico all’esperienza è stato quindi caratteristica della scienza sin dalla sua nascita. A partire dal XVII secolo però il suo ruolo all’interno del metodo scientifico si trasforma. Da una parte, si darà un progressivo rafforzamento della dimensione “induttiva” della scienza, che vede la teoria come risultato di una generalizzazione a partire dai dati di esperienza. Inoltre, l’esperienza non appare più soltanto come “osservazione”, ma come “esperimento”, acquistando delle caratteristiche nuove. Accenniamo brevemente a due questioni che riguardano un problema fondamentale dell’epistemologia scientifica: quello del rapporto fra teoria ed esperienza (➚ EPISTEMOLOGIA, II.2). A partire dalle correnti illuministe del XVIII secolo è stato abituale presentare la metodologia scientifica come puramente induttiva, secondo cioè il programma teorico presentato da Francis Bacon nel Novum Organum, già citato. Secondo Bacon la metodologia induttiva è l’unica che può fornire una vera conoscenza, poiché essa è l’unica che raggiunge le conclusioni in base soltanto all’esperienza: una “legge scientifica” può dovrà essere ottenuta soltanto come risultato di una generalizzazione empirica, cioè osservando come i fatti si danno nell’esperienza, e estraendo da essi le “regole generali” del loro comportamento. Molti tra i fondatori della scienza moderna avrebbero seguito appunto questa metodologia, a cominciare da Galileo, come testimonierebbero gli esperimenti per la determinazione della legge di caduta dei gravi, e da Isaac Newton, chi esplicitamente afferma di non fare ipotesi (hypotheses non fingo; ➚ NEWTON, IV). La logica del metodo induttivo, tuttavia, è ben lontana dall’essere chiara, e fu già sottoposta a critica da Hume. L’empirismo del XIX secolo, con John Stuart Mill (1806-1873), tentò di rivalutare l’induzione per mezzo dell’introduzione di opportuni 12 “canoni del ragionamento induttivo”, cioè attraverso la considerazione delle “somiglianze”, “differenze”, “variazioni concomitanti” e “residui”, ma le difficoltà di tale metodo, quando applicato isolatamente ed in senso stretto, sono sempre emerse a più riprese. Nel XX secolo sono state fatti diversi tentativi di “giustificazione dell’induzione”, molti di essi ricorrendo ad un’induzione probabilistica, intesa come un metodo atto a determinare il grado di probabilità di conferma di un ipotesi (cfr. Carnap, 1962; Hintikka, 1989). Tuttavia le critiche di Popper (1963) e altri, ma anche la revisione dei presupposti storici che attribuivano un metodo induttivo alla scienza (cfr. Koyré, 1939), hanno condotto generalmente a vedere il ragionamento scientifico secondo lo schema ipotetico-deduttivo, tra l’altro già proposto da autori come C. Bernard (18131878) e P. Duhem. Le teorie scientifiche hanno anzitutto un carattere ipotetico, e dovranno essere controllate posteriormente nel confronto con i dati empirici. Anche in questo caso, tuttavia, l’esperienza costituisce il punto di riferimento necessario per la determinazione della validità della teoria. Nella scienza moderna il ricorso all’esperienza si è anche trasformato nel passaggio dalla semplice “osservazione”, o raccolta di dati empirici casuali o almeno non sistematici, alla “sperimentazione”, che consiste in un’osservazione selettiva e mirata, compiuta in condizioni particolari provocate dallo stesso scienziato, allo scopo di ottenere dei dati empirici particolari, con indipendenza dei possibili fattori che potrebbero modificarli. La sperimentazione, messa in pratica inizialmente da Galileo, è diventata così sinonimo di metodo scientifico. Sarebbe tuttavia erroneo vedere la sperimentazione come un semplice ricorso all’esperienza; essa implica invece una serie di presupposti teoretici la cui importanza è stata riconosciuta sempre con maggior chiarezza lungo la storia della scienza moderna. Si deve riconoscere, in primo luogo, che il ricorso alla logica sperimentale porta con se dei presupposti di tipo epistemologico e metafisico, per esempio circa la “regolarità” della natura o l’esistenza di (➚) leggi naturali che siamo in grado di scoprire e comprendere, oppure circa il valore di un approccio conoscitivo analitico, secondo il quale è possibile conoscere in maniera adeguata e sufficiente un aspetto della realtà con indipendenza di quegli altri aspetti che in realtà si trovano ad esso uniti. Quest’ultimo presupposto, che costituisce un tratto caratteristico ed essenziale della scienza moderna (cfr. Agazzi, 1984), si trova oggi ad essere ridimensionato nello studio dei sistemi complessi, in cui si evidenzia l’importanza della sintesi e di una certa visione olistica (➚ COMPLESSITÀ; RIDUZIONISMO, II-III). Inoltre, è importante notare come la sperimentazione implica in sé stessa una componente teoretica fondamentale. La sperimentazione è sempre guidata da un piano stabilito in vista di certi fini. Così lo sperimentatore pone alla natura certe “domande”, mentre ne tralascia altre; è guidato da certi presupposti teoretici, ad esempio circa gli “elementi di realtà” con cui opera, o circa le condizioni di osservabilità dei fatti che vuole rilevare; deve, infine, interpretare l’esperimento in un quadro teorico particolare. La sperimentazione, quindi, non si pone come elemento previo e indiscutibile della 13 scienza, bensì come momento essenziale della ricerca, in cui si dà un dialogo fra teoria ed esperienza. Da questo punto di vista, le discussioni avute nell’epistemologia del XX secolo circa la “teoricità dell’osservazione” (theory-ladenness) si presentano come importanti, ma corrono il rischio di restare sterili se impostate esclusivamente da un’ottica “giustificazionista”, che parta appunto dal presupposto radicale di una giustificazione della teoria nell’esperienza, intendendola come dato sensibile puramente oggettivo o non interpretato. La consapevolezza dei molteplici aspetti dell’esperienza dovrebbe consentire una comprensione del metodo della scienza che non la riduca ad elaborazione logico-formale di una base empirica puramente oggettiva, ma che presenti il compito dello scienziato come la ricerca di una sempre più profonda comprensione della realtà, capace di saper integrare gli aspetti oggettivi e personali dell’esperienza scientifica (➚ POLANYI, II-III). V. L’esperienza come categoria religiosa e teologica La problematicità, ma anche le virtualità riconosciute nell’esperienza come nozione filosofica (gnoseologica ed esistenziale), trovano ampio riflesso sul piano teologico, nel linguaggio religioso e nell’ambito della vita della (➚) fede. Si registra in questo caso un’ambivalenza: da un lato la necessità di non ridurre la religione a pura esperienza soggettiva, in quanto essa, specie nel caso della tradizione ebraico-cristiana, reclama anche un aspetto oggettivo, legato al contenuto di ciò che è proposto alla fede dei credenti e, in ultima analisi, a quanto Dio ha rivelato nella storia mediante parole ed opere (cfr. Dei Verbum, 2); dall’altra, l’esigenza di sottolineare l’aspetto personale dell’esperienza religiosa, che si realizza e si esprime attraverso un profondo vissuto esistenziale, come mostra, ad esempio, il ricorso a nozioni quali conversione, salvezza, gioia, pentimento, consolazione, libertà, amore, ecc. 1. L’esperienza del sacro. La fenomenologia della religione parla di una “esperienza del sacro” come di un «elemento fondamentale della struttura della coscienza umana» (cfr. Eliade, 1979; ➚ RELIGIONE, VI.1). La storia delle religioni, in particolare, si è domandata se il sensus religiosus fosse riferibile alla struttura originaria dell'esperienza umana o non sorgesse piuttosto come il prodotto di scelte culturali, suggerite o imposte dalla stessa evoluzione della società umana (➚ RELIGIONE, II-III). Vi è stato chi ha interpretato l’esperienza religiosa umana in termini “evoluzionisti”, come passaggio da un'assenza di Dio, al feticismo-totemismo (culto della natura, degli animali e delle cose), all'idolatria, all'antropomorfismo ed infine ad una idea di divinità trascendente; o anche in termini “funzionali”, ipotizzando che l’idea e l’esperienza del divino siano mutate nel corso della storia accompagnando l'evoluzione storico-sociale degli uomini dalla caccia, all'agricoltura, alla pastorizia fino alle società organizzate. All’interno di un approccio fenomenologico (in tal caso, oggetto della ricerca non è l'uomo in quanto soggetto di evoluzione o di trasformazioni, ma l'uomo in quanto uomo), che pare essere oggi il più corretto, quando si cerca di capire in quali momenti e perché appare il senso religioso nella 14 storia umana, si conclude attribuendo ad esso uno statuto originario: l’homo sapiens si presenta infatti sulla scena del mondo come un essere religioso e culturale al tempo stesso (➚ UOMO, IDENTITÀ BIOLOGICA E CULTURALE, III-IV). Appartengono all'esperienza religiosa, generalmente intesa, esperienze comuni ad ogni essere umano. Fra le principali vi sono: la percezione della propria contingenza, derivata a sua volta dall'esperienza di realtà naturali ed oggettive, quali la forza dei fenomeni naturali, i limiti della propria vita fisica, la ricchezza o la scarsezza dei frutti della terra, ecc., tutti eventi dei quali l’uomo non è arbitro; un senso di dipendenza e di attesa, che nasce dall'incapacità di dare una risposta ai perché ultimi sulla propria origine e sul proprio destino, sul senso della propria vita e sul desiderio che questa possa perdurare oltre la (➚) morte; localizzare nella sfera della trascendenza (➚ CIELO, I.1), ma anche riconoscere ed invocare, l’esistenza un divino-Assoluto (➚ DIO, I) che possegga le risposte a quei perché ultimi e, proprio per questo, si ponga come “Totalmente altro” o “Totalmente diverso” rispetto a quanto l’esperienza umana può conoscere e sperimentare. Esperienza religiosa è anche l’esperienza della propria coscienza morale, nella quale ogni uomo legge il giudizio delle proprie azioni, riconoscendovi l’imperativo di compiere il bene e di evitare il male. Esiste infine, secondo alcuni autori (cfr. Cantore, 1988), una percezione del sacro, partecipe anch’essa di un’esperienza religiosa, che nasce dallo studio scientifico della natura come manifestazione della apertura del ricercatore al senso del mistero e della trascendenza (➚ MISTERO, IV). 2. Esperienza e rivelazione biblica. Non v’è dubbio che la Rivelazione ebraicocristiana, a motivo del suo carattere storico-salvifico, possegga al suo interno un forte appello all’esperienza. Il popolo di Israele giunge alla consapevolezza dell’esistenza di Dio e dei suoi attributi principalmente (anche se non esclusivamente) attraverso ciò che la teologia biblica chiama «esperienza dell’Esodo»; più in generale, le grandi tappe storiche della Rivelazione sono segnate da parole ed azioni divine compiute «in modo tale che Israele sperimentasse (experiretur) quale fosse il piano di Dio con gli uomini» (Dei Verbum, 14). Il messaggio centrale del cristianesimo, l’incarnazione del Verbo di Dio con la sua morte e resurrezione, viene compreso dagli apostoli e dai discepoli di Gesù attraverso una singolare “esperienza di Cristo” (cfr. 1Gv 1,1-3) e poi vissuto e trasmesso nella Chiesa col conforto di una “esperienza dello Spirito” (cfr. At 2,1-11; 1Cor 12,2-3). La Tradizione apostolica viene sempre meglio conosciuta ed approfondita nel tempo, con l’aiuto dello Spirito, grazie al magistero ecclesiale, allo studio della parola scritta e trasmessa, ma anche per quella «più profonda esperienza delle cose spirituali» vissuta dai credenti (Dei Verbum, 8). La Rivelazione riproduce le due dimensioni caratteristiche, oggettiva e soggettiva, dell’esperienza. La parola di Dio e gli insegnamenti che essa trasmette vengono predicati con il loro specifico contenuto, ascoltati e compresi — anche grazie alla testimonianza di vita — come qualcosa di cui si ha esternamente esperienza; ma esiste anche una parola non proferita, suggerita dallo Spirito, che rivela interiormente e fa accogliere nella sfera personale del soggetto quanto egli ascolta o vede fuori di sé. Nel suo studio divenuto ormai classico, Jean Mouroux (L’expérience chrétienne, 1952) esponeva le modalità con cui i grandi temi dell’esperienza cristiana attraversano 15 i libri del Nuovo Testamento. Esperienza di vocazione come chiamata di Cristo destinata a segnare profondamente, nell’immediato e lungo tutto l’arco della vita, coloro che si uniscono alla sua sequela; esperienza del pentimento e della conversione, originata dalla predicazione di Gesù, rivolta ai singoli e alle folle; l’esperienza della gioia, che caratterizza in modo inequivocabile chi accoglie la parola divina e comincia a viverne le esigenze. Particolarmente significativa la 1ª Lettera di Giovanni, nella quale si presenta l’esperienza cristiana nel suo carattere inscindibile ed integrale: esperienza di comunione fra gli uomini e con Dio, quale fonte di una gioia intima che deve essere trasmessa agli altri (cfr. vv. 1,3-4); esperienza di sapersi peccatori di fronte a Dio e di avere in Gesù Cristo una salvezza più grande dei nostri peccati (cfr. vv. 1,82,2); esperienza di una filiazione divina, dei diritti e delle esigenze che essa comporta (cfr. vv. 3,1-2); esperienza della presenza dello Spirito Santo come fondamento della vita morale cristiana e di quest’ultima come rivelativa dello Spirito (cfr. vv. 4,11-13). Nelle lettere di s. Paolo, lo Spirito Santo compare in singolare sinergia con la vita cristiana, mediante azioni ed attribuzioni che coinvolgono l’esperienza viva e sensibile del credente: lo Spirito inabita nei corpi santificandoli (cfr. 1Cor 6,19), li “sigilla” e vi presiede quale caparra di un’eredità futura (cfr. 2Cor 1,22; Ef 1,14), guida l’intero agire dei figli di Dio (cfr. Rm 8,14), prega, geme e invoca per bocca dei cristiani (cfr. Rm 8,15.26), opera un’autentica trasformazione-conformazione di cui il cristiano sperimenta gli effetti e che produce dei frutti sensibili (cfr. Rm 8,11.29; Gal 5,22). Ai fini di un discorso epistemologico sull’esperienza, va notato che l’esperienza cristiana si propone con i canoni di una “conoscenza”. Aver fatto l’esperienza del Cristo (Giovanni) o vivere secondo un’esperienza dello Spirito (Paolo), si traducono in un autentico sapere del soggetto: «Egli sa! Sa di essere passato dalla morte alla vita. Conosce Dio e conosce l’amore. Sa di essere di Dio, di essere in Dio e che Dio è in lui, sa di essere nella verità e di possedere la vita eterna. E se riflette, sa di conoscere Dio» (Mouroux, tr. it. Brescia 1956, p. 159). Aver fatto l’esperienza della croce di Cristo, nelle sofferenze e nelle contraddizioni, così come nello scandalo di una predicazione ritenuta follia, consente a Paolo di penetrare la logica profonda del messaggio di Gesù, comprenderne il mistero (cfr. 1Cor 1,21-25; 1Cor 2,6-15), conoscerlo e quindi comportarsi di conseguenza senza timore alcuno (cfr. Fil 1,21; Fil 3,8; Col 1,24). Apice di questa esperienza, alla quale ogni credente è chiamato, è la consapevolezza di non essere più lui a vivere, ma Cristo a vivere in lui (cfr. Gal 2,20). L’esperienza religiosa delineata dal messaggio cristiano intende mantenere un chiaro legame con l’universalità dell’esperienza esistenziale umana e dunque poggiare su quest’ultima la sua comunicabilità. La trasmissione dell’annuncio evangelico è sì trasmissione di un’esperienza — l’esperienza di Cristo e del suo Spirito — ma non secondo canoni soggettivisti: è piuttosto la rivelazione dell’uomo all’uomo (cfr. Gaudium et spes, 22), che si propone di illuminare in lui la verità delle sue esperienze più profonde e le risposte che queste trovano in Cristo. Il valore dell’esperienza nel linguaggio biblico non conduce tuttavia alla conclusione che si possa parlare di una “esperienza di Dio”, nel senso empirico o immediato attribuito a questa espressione. La Scrittura, coerente con se stessa, mantiene anche nel Nuovo Testamento l’insegnamento sull’invisibilità di Dio e sulla sua non esperibilità (cfr. Gv 1,18), trattandosi, anche nell’incarnazione del Verbo, di 16 un’esperienza che incontra la mediazione dell’umanità di Gesù. Dunque non si può parlare, in senso stretto, di esperienza di Dio, ma la vita di fede è senza dubbio associata ad una vera esperienza di conoscenza di ciò che è di Dio e a Dio appartiene. La vita dei santi — basti per tutti ricordare l’itinerario agostiniano delle Confessioni — fornisce basi sufficienti per affermarlo. Ad essa non è estranea una contemplazione ed un’esperienza delle cose divine che la teologia chiama (➚) mistica. 3. Esperienza e teologia. L’impiego della nozione di esperienza in teologia ha conosciuto, nel corso della storia, alterne vicende. Rompendo l’equilibrio con cui era stata trattata nella tradizione patristica e medievale, (➚) Lutero (1483-1546) ne spostò la comprensione verso categorie soggettiviste, opponendo una lettura personale ed esistenziale (in qualche modo esperienziale) della Scrittura ad una lettura ecclesiale guidata dal Magistero e sottraendo ai sacramenti della Chiesa la capacità salvifica della grazia, per confinarla nell’ambito di un rapporto personale ed esclusivo del fedele con Dio. Da questa dottrina si distanziò decisamente il Concilio di Trento, affermando che un’esperienza singolare e privata non poteva essere assunta come criterio ultimo e definitivo della propria salvezza (cfr. DH 1564). La filosofia della religione sorta nel clima della Riforma, alimentatasi successivamente delle prospettive idealiste e romantiche, condusse a dare priorità all’esperienza religiosa dell’umanità in senso storicista, assegnando al cristianesimo, prima con Kant e poi con Schleiermacher, il ruolo di apice ideale dello sviluppo storico della religione. Parallelamente, sul piano gnoseologico, si fa strada con Friedrich Jacobi, e per certi versi con lo stesso Kierkegaard, l’idea che il sentimento rappresenti il criterio fondamentale di verità, un sentimento ed un’esperienza che nel secolo successivo il già citato William James (Le varietà dell’esperienza religiosa, 1902) potrà agevolmente inquadrare in una metafisica pluralista e pragmatista. In area cattolica, parte di questi orientamenti troverà sbocco nel movimento modernista, che se poté avere il merito di rivalutare l’aspetto esistenziale e personale della Rivelazione, volle però vederlo erroneamente in opposizione con il suo contenuto dogmatico, e riducendo l’intera Rivelazione ad esperienza suscitò la giusta disapprovazione dell’enciclica Pascendi (8.9.1907) di poco preceduta dal decreto Lamentabili (3.7.1907), ambedue dovuti al magistero di s. Pio X (1903-1914). Nella prima metà del Novecento il tema dell’esperienza troverà in teologia un duplice sviluppo: da una parte nella teologia protestante, attraverso la proposta di una esegesi esistenziale (Bultmann) o la radicalizzazione della priorità dell’esperienza della fede in Cristo come unico criterio di comprensione della Rivelazione (Barth); dall’altra, con il contributo di numerosi pensatori cattolici, i quali a partire da Blondel (1861-1949), ma in realtà ancor prima con (➚) Newman (1801-1890), cercheranno pazientemente di ricostruire una visione più equilibrata degli aspetti esistenziali e personalisti della fede. Da questi ultimi sorgeranno gli importanti contributi del personalismo francese, specie con Mounier, Mouroux, Bouillard, Marcel, ed anche ulteriori successivi sviluppi, come nella filosofia dialogica dell’ebreo Martin Buber. I documenti del Concilio Vaticano II (1962-1965), la Gaudium et spes in particolare, offriranno le basi per un graduale recupero del tema dell’esperienza, visto ormai non più nella luce del soggettivismo o del semplice sentimentalismo, ma in quella 17 dell’impegno e della risposta integrale della persona, con tutte le sue potenzialità spirituali, psicologiche ed emotive, alla chiamata di Cristo. Fra i principali orientamenti della teologia contemporanea al riguardo ne vanno segnalati almeno due, entrambi sorti in area teologico fondamentale come esigenza di giustificazione e di comunicazione della fede (cfr. Blanco, 1996). Il primo muove dall’“esperienza dell’uomo” ed intende ancorare le risposte della fede alle domande della coscienza umana, anche se talvolta rischia di restare confinato all'interno di un orizzonte antropologico finito. Rappresentano tentativi in tal senso il metodo delle correlazioni di P. Tillich, secondo il quale l’uomo può cogliere il significato della Rivelazione solo nella misura in cui ha fatto esperienza delle correlative domande di senso; la proposta di G. Ebeling di ricondurre all’esperienza religiosa ogni autentica esperienza umana; la dottrina di K. Rahner circa l’esistenza di un’esperienza trascendentale in ogni uomo, che punta in modo atematico verso Dio, canone fondamentale della sua apertura all’infinito (➚ IDEALISMO, VI.2); la giustificazione della fede secondo W. Pannenberg, come risposta all’esperienza della totalità di senso. Il secondo orientamento, di taglio meno sistematico, parte dall’“esperienza di Cristo” o, più precisamente, dall’“esperienza dell’uomo con Cristo” ed intende mostrare che la vita della fede è anch’essa suscettibile di esperienza, nasce dall’accendersi di un’esperienza, quella dell’incontro con Cristo, e si trasmette mediante esperienze vissute, quelle riconoscibili nella testimonianza della Chiesa e dei credenti. Oltre al già citato Jean Mouroux (1901-1973), fra i maggiori interpreti contemporanei va ricordato Romano Guardini (1885-1968). Presente la dimensione dell’esperienza anche in H.U. von Balthasar (1905-1988), sebbene difficilmente riconducibile ad altre scuole, ma ben fondata sulla credibilità dell’amore e sulla capacità di appello che la Rivelazione, con la sua coerenza e bellezza, esercita sull’esperienza estetica dell’uomo (➚ BELLEZZA, IV.2). VI. Una visione di sintesi Pur alla luce della sua complessa vicenda storica, non sarebbe del tutto esatto affermare che la nozione di esperienza sia mutata nel tempo: le diverse prospettive considerate mostrano in realtà come attraverso di essa si sia cercata la risposta a problemi diversi: la conoscenza pratica, non discorsiva o riflessa, di cui l’uomo è capace; il rapporto della nostra conoscenza con la realtà del mondo esterno o con quella della nostra interiorità; il carattere apodittico e necessario a cui la “scienza rigorosa” aspira; il coinvolgimento personale, caratteristico del nostro rapporto con il reale, incluso quando quest’ultimo viene attraversato dai segni del divino. Lungo la storia del pensiero sono state sottolineate, oppure trascurate, dimensioni diverse dell’esperienza e altre ancora non sono state tematizzate, perché date semplicemente per scontate. Non pare qui necessario offrire alcuna nuova “definizione” di esperienza, ma semplicemente riconoscerne il suo carattere certamente analogico ed osservare che qualsiasi approccio non riduttivo dovrà fare i conti con una pluralità di sensi e di 18 tipologie. Al tempo stesso, le diverse prospettive scientifiche, filosofiche e teologiche prima delineate, come pure l’inevitabile pluralità di contesti teoretici (empirico, psicologico, metafisico, metodologico, critico, ecc.) non impedisce di dirigere lo sguardo verso alcune caratteristiche fondamentali dell’esperienza, e quindi verso la comprensione del suo valore all’interno del discorso epistemologico. 1. Caratteristiche comuni ad ogni esperienza. Proveremo qui a riepilogare sei caratteristiche che riteniamo siano comuni ad ogni esperienza: la dimensione personale, l’immediatezza, la singolarità, la comprensione generale, la ripetibilità e l’oggettività. L’esperienza si presenta sempre con una sua “dimensione personale”, vissuta direttamente dallo stesso soggetto, e quindi non condivisibile, almeno in senso stretto: l’esperienza di un evento fisico, di una intuizione, di un dolore, di una conversione religiosa, sono qualcosa di necessariamente limitato al soggetto; egli potrà cercare di comunicarne il contenuto, ma la comunicazione ne farà perdere, appunto, il carattere esperienziale. In senso stretto, nessun soggetto può partecipare dell’esperienza di un altro; più persone possono, al limite, avere contemporaneamente la stessa esperienza di un accadimento (esterno), ma essa sarà colta in modo personale da ciascuno. Ciò è vero anche per l’esperienza religiosa, in quanto parlare di trasmissione della fede come comunicazione di un’esperienza viva vuol dire in realtà offrire le condizioni (ascolto della parola, testimonianza, esempio, ecc.) che possano “riprodurre nell’altro” la stessa esperienza posseduta dal soggetto che intende parteciparla. Appare qui chiaramente anche la seconda caratteristica di ogni esperienza: la sua “immediatezza”. L’esperienza è sempre posseduta da qualcuno in modo immediato, senza che questi abbia bisogno di cercare una mediazione: l’esperienza si presenta come un dato esistenziale. In senso proprio l’esperienza è sempre “esperienza di qualcosa singolare e concreto”; non esiste esperienza dell’universale in senso logico. Tuttavia, quando dell’esperienza si sottolinea l’aspetto di conoscenza pratica raggiunta da un soggetto, essa implica anche una certa “comprensione generale”, che lo disporrà ad agire di conseguenza nei casi analoghi che gli si presenteranno (anche se non si tratterà di una conoscenza “universale” propriamente detta, non essendo il risultato di una inferenza logica intellettuale). Anche quando l’esperienza viene intesa come metodo di conferma di un’ipotesi, essa implica una generalizzazione previa, sebbene la conferma come tale continuerà ad essere strettamente singolare. Appartiene al discorso comune sull’esperienza anche la sua “ripetibilità”. Tale ripetibilità, tuttavia, potrebbe risultare a prima vista meno significativa quando l’esperienza viene vista nelle sue dimensioni personali ed esistenziali, specie se arricchita di valori emotivi. Questi casi, che potremmo chiamare di “esperienza interna”, sembrerebbero presentarsi con un carattere di parziale, se non di totale irripetibilità, avendo essi a che fare con la vita personale del soggetto. Eppure, non sarebbe errato riconoscere che, anche in essi, siamo di fronte ad un’esperienza che può essere, almeno in linea di principio, “ripetuta” anche da altri; ad esempio, nel senso (prima visto a proposito della trasmissione della fede) di porre l’altro in condizione di sperimentare ciò che il soggetto ha già sperimentato. La vita quotidiana potrebbe 19 offrire innumerevoli esempi della nostra fiducia in questa “ripetibilità”, quando desideriamo coinvolgere gli altri in qualcosa che riteniamo esistenzialmente significativo per noi. Ciò suggerisce infine l’idea che l’esperienza implica sempre una certa “oggettività” di contenuto, anche nel caso in cui si tratti di un’esperienza interna o psicologica. Questo non significa affermare la sua totale oggettività, ma semplicemente legittima la conclusione che l’esperienza implichi un porsi del soggetto di fronte a qualcosa di esterno (a se stesso o al proprio atto conoscitivo), e mostra in definitiva che è questa la ragione del perché l’esperienza venga assunta, appunto, come “dato”, come punto di partenza del processo conoscitivo e della comunicazione intersoggettiva. 2. L’esperienza come terreno di dialogo fra teologia e pensiero scientifico. Alcune riflessioni finali riguardano il dialogo fra teologia e pensiero scientifico. Proprio il terreno dell’esperienza era stato visto per lungo tempo come un elemento discriminante per affermare l’oggettività e la comunicabilità universale del sapere scientifico in contrasto con un corpo di convinzioni soggettive come potevano essere, appunto, quelle trasmesse dalle tradizioni religiose. Le diverse dimensioni dell’esperienza fin qui richiamate, sia nei loro aspetti epistemologici che antropologici, paiono a nostro avviso sufficienti per segnalare i limiti di tale visione: l’esperienza scientifica non costituisce un sapere totalmente oggettivante, né può prescindere da elementi personalisti; l’esperienza religiosa, a sua volta, ammette dei canoni di intelligibilità e di comunicabilità che fanno appello all’oggettività della storia e di ogni esistenza personale: nel caso della religione cristiana, ciò assume, come abbiamo visto, alcune caratteristiche specifiche. Ma vi è un’altra modalità di confronto in cui il ricorso all’esperienza può rivelarsi vantaggioso per il dialogo fra scienze e teologia e riguarda in prima istanza l’attenzione che il lavoro teologico può prestare a tale categoria, allo scopo di rendere i suoi asserti maggiormente comprensibili anche nel contesto di una cultura scientifica (cfr. Blanco, 1996, pp. 52-54). Il discorso teologico, anche quando ha Dio per oggetto, ha in fondo inizio da affermazioni (parola rivelata, opere salvifiche, testimonianze trasmesse, ecc.) basate su esperienze controllabili, siano esse individuali o collettive, esperienze storiche e significative e perciò comunicabili. L’attenzione del teologo verso l’esperienza si mostrerà non solo nel rigore metodologico col quale valuterà le affermazioni interne al suo oggetto specifico (la Rivelazione, Dio), ma anche nella cura con cui cercherà di accogliere e fare proprio quel bagaglio di esperienze e di esperienza proveniente da altre fonti di sapere, consapevole della comune base oggettiva (la verità sull’uomo e sul mondo) di cui tale esperienze partecipano (➚ SCIENZE NATURALI, UTILIZZO IN TEOLOGIA). A questa capacità di riconoscere il vero ovunque esso si manifesti e sia stato possibile conoscerlo e sperimentarlo, faceva indirettamente riferimento un noto testo della Gaudium et spes: «L'esperienza dei secoli passati, il progresso delle scienze, i tesori nascosti nelle varie forme di cultura umana, attraverso cui si svela più appieno la natura stessa dell'uomo e si aprono nuove vie verso la verità, tutto ciò è di vantaggio anche per la Chiesa. Essa, infatti, fin dagli inizi della sua storia, imparò ad esprimere il messaggio di Cristo ricorrendo ai concetti e alle lingue dei diversi popoli; e inoltre si sforzò di illustrarlo con la sapienza dei filosofi: allo scopo, cioè, di adattare, quanto conveniva, il Vangelo, 20 sia alla capacità di tutti sia alle esigenze dei sapienti. E tale adattamento della predicazione della parola rivelata deve rimanere legge di ogni evangelizzazione» (n. 44). Rafael Martínez Vedi: EPISTEMOLOGIA; METAFISICA; REALISMO; RIDUZIONISMO; VERITÀ. 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