3 PROPRIETÀ INTENZIONALE DELL`ATTO COGNITIVO.

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PROPRIETÀ INTENZIONALE DELL'ATTO COGNITIVO.
3.1
LA NOZIONE DI INTENIZIONALITÀ NELLA STORIA DEL PENSIERO
FILOSOFICO.
Sfogliando una qualsiasi enciclopedia filosofica alla voce «intenzionalità»
troviamo riportata in linea di massima questa proposizione: «Il riferimento
interno di un atto o uno stato mentale a un determinato oggetto, cioè la
connessione che l'atto o lo stato ha, in virtù della sua identità, con un certo oggetto,
indipendentemente dall'eventuale sussistenza di questo oggetto nella realtà
esterna»1.
Se questa è, di fatto, la definizione generale della nozione di
«intenzionalità», è bene sapere che nel pensiero della storia della filosofia siffatta
nozione ha subito notevoli slittamenti semantici che, pur non intaccando o
contrastando la definizione universale sopra riportata, ne accentuavano
caratteristiche essenziali proprie.
A partire dal neoplatonismo medioevale, in particolare modo per mezzo
delle opere del filosofo persiano Avicenna, la nozione di intenzionalità viene
utilizzata per intendere il rapporto conoscitivo con un oggetto, ossia il modo
d'essere di ciò che è conosciuto nella coscienza. Fu sempre Avicenna a delineare le
prime sfumature della nozione di intenzionalità: egli, distinguendo tra logica e
scienze (fisiche), affermava che queste ultime erano riconducibili alle cosiddette
“prime intenzioni” (intentiones primo intellectae), erano cioè rivolte alle cose reali
(gli enti esistenti ontologicamente per sé); la logica invece era riconducibile alle
“seconde intenzioni” (intentiones secundo intellectae), per il fatto di occuparsi dei
processi cognitivi in quanto tali (quelli privi da ogni contenuto).
Nell'alto medioevo l'intenzionalità fu scandagliata metodicamente dal
domenicano Albero Magno prima, e dal suo discepolo Tommaso d'Aquino dopo. Fu
proprio Tommaso a delineare un profilo più preciso della nozione di intenzionalità,
lo stesso che verrà utilizzato e fatto proprio dalla scolastica. L'intenzionalità per
l'Aquinate corrisponde a ciò che l'intelletto in sé stesso concepisce della cosa
conosciuta2: l'atto cognitivo è una “intentio” in quanto in perenne tensione alla res
significata. Tommaso sosteneva che nelle res – diremmo oggi nei contenuti
intenzionali dell'atto cognitivo – c'è un “verbum interius”, un'essenza, una forma,
così come l'intelletto è capace di apprenderla 3. Non dunque un costrutto mentale è
1 Cfr. la voce «intenzionalità» in: Enciclopedia Filosofia Garzanti, Milano, 1997, 540.
2 Cfr. Tommaso d'Aquino, Summa Contra Gentiles, IV, 11.
3 Cfr. ivi.
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ciò che attira a sé l'atto intenzionale, ma, al contrario, l'essere stesso di ciò che è,
indipendentemente dal soggetto cognitivo che ne fa conoscenza. Tommaso analizza
ulteriormente l'atto intenzionale differenziando l'intenzionalità in «diretta» ed in
«indiretta». L'intenzionalità diretta è più precisamente il dirigersi dell'intelletto
verso l'ente ontologicamente inteso, compiendo così una vera e propria
trascendenza che dal piano del soggetto si pone in quella della res; invece,
l'intenzionalità indiretta è il proiettarsi dell'intelletto verso l'oggetto, che non è
un'entità trascendente il soggetto cognitivo ma una sua rappresentazione.
In età moderna il concetto di intenzionalità viene rivisitato da Brentano il
quale analizza con maggiore acutezza i modi in cui l'atto intenzionale si presenta.
Per Brentano l'intenzionalità è un fenomeno psichico, lo stesso che rende partecipe
la coscienza di esperire, di vivere, il suo proprio contenuto intenzionale. Il
contenuto intenzionale in questa veste non necessariamente ha una propria
esistenza reale (può infatti essere irreale come ad esempio sono le fantasie, i sogni,
le immaginazioni), ma è comunque portatore di un “in sé”, di un senso oggettivo.
Invero, è sempre lo stesso oggetto (fenomeno) ad essere esperito (vissuto), non
importa poi sotto quale aspetto intenzionale esso si presenta alla coscienza.
Codesta impostazione teoretica del concetto di intenzionalità sarà poi la
stessa ripresa e condivisa dalla scuola fenomenologica. Husserl, per l'appunto,
sosteneva che l'intenzionalità è il modo proprio del rapporto tra il soggetto e
l'oggetto della coscienza: la correlazione che sussiste tra i due e che rende il
soggetto cosciente di ciò che sta vivendo. I vissuti vertono necessariamente verso i
medesimi correlati di coscienza, verso i propri oggetti di conoscenza: il pensiero, o
vissuto che sia, è sempre pensiero o vissuto di un qualche cosa (in opposizione,
dunque, al cogito cartesiano).
Si può ben notare come il concetto di intenzionalità differisca tra la
tradizione scolastica e la scuola fenomenologica, ma ciononostante le due diverse
concezioni possono dirsi complementari. Il problema di Husserl non era infatti
quello di Tommaso: in Husserl non è la problematicità inerente il passaggio dalla
coscienza all'essere a posizionarsi al centro dell'analisi dell'intenzionalità
(problema caro alla filosofia scolastica), quanto piuttosto quella circa la cognizione
di sapere come il mondo è per me, per l'io, per il soggetto. Il taglio critico assunto
dalla fenomenologia non è quindi rivolto all'essere della cosa bensì al suo modo di
essere conosciuta, al suo senso, e di come esso, di volta in volta, di vissuto in vissuto,
si manifesta. Su questo punto Husserl è abbastanza esplicito nei Discorsi parigini
(cfr. Pariser Vorträge, Den Haag, 1950, 32-34) nei quali puntualizza che
l'oggettualità (esistenza reale) degli oggetti di conoscenza è pre-supposta, è il
sostrato di fondo antecedente ad ogni approccio cognitivo 4. Ciononostante, la
differente analisi sul concetto di intenzionalità che ne usano fare la trazione
4 Questo sta a significare che l'esistenza degli oggetti di conoscenza non è sottoposta a dubbio. Il
dubbio è condizione di un approccio cognitivo. Solo laddove si è già conosciuto qualcosa può
presentarsi il dubbio. Oggetto di dubbio, quindi, non è la condizione esistenziale delle res sunt.
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scolastica e la tradizione fenomenologica, non si presenta come una
giustapposizione dell'una sull'altra, come l'emarginazione di una delle due per far
spazio alla restante; ad emergere è infatti un diverso modo di analisi del concetto
di intenzionalità: nel primo caso riguardo l'essere della cosa, nel secondo riguardo
il suo senso. Entrambe, difatti, hanno la comune convinzione che esiste un mondo
oggettivo ed ontologicamente indipendente dal soggetto conoscente, e che come
tale è in sé portatore di un senso originario che fa sì, a tutti gli effetti, che la
conoscenza sia un atto intenzionale e sopratutto un atto spirituale, e non un
qualcosa di riducibile ad alcunché di materiale.
Una simile concezione dell'intenzionalità (quella che la vede ridotta al
substrato neuronale) è quella che il modo analitico di fare filosofia, memore
dell'impostazione positivista del filosofare, ha tentato di promuovere. I filosofi
analitici hanno concepito l'intenzionalità quasi sempre come la capacità di formare
rappresentazioni e/o contenuti mentali, piuttosto che come la capacità della
coscienza di dirigersi verso un oggetto (concezione presente sì nella filosofia
analitica ma con un più debole utilizzo). Ciò ha fatto sì che l'intenzionalità – ergo il
processo cognitivo – venisse ridotta ad un processo fisico e che la coscienza venisse
in un certo qual modo naturalizzata; ma abbiamo appena detto che la conoscenza è
un atto spirituale, irriducibile in modo alcuno alla materia.
La nozione di intenzionalità nel mondo analitico assume quindi due valori
semantici differenti: in un primo caso essa sta a significare la capacità di formare o
avere rappresentazioni (stati mentali); nel secondo caso vuole significare la
capacità della coscienza di orientarsi verso un oggetto. In linea di massima, però,
nei paesi di lingua anglofona l'intenzionalità è quasi sempre stata concepita come il
primo significato qui vuole intendere, annullando, o semplicemente non mettendo
in luce, il secondo significato di intenzionalità a cui abbiamo appena fatto
riferimento.
Pur non volendo fu Roderick Chisholm, filosofo statunitense del
Massachussets, a indirizzare la nozione di intenzionalità verso questa concezione
riduttivista e naturalista. Egli, infatti, come Brentano non conveniva nella riduzione
dell'intenzionalità ad alcunché di materiale, di fisico; ma attraverso la teoria da lui
stesso promossa finì in un certo qual ad agevolare la naturalizzazione
dell'intenzionalità. La teoria di cui stiamo parlando è quella che spiega
l'intenzionalità in termini di «atteggiamenti proposizionali», ovvero le relazioni che
si instaurano tra soggetto e proposizione. L'atteggiamento proposizionale può
essere spiegato mediante la forma canonica «S crede che a è p», dove «S crede» si
presenta come proposizione principale costituita dal verbo intenzionale (nel caso
specifico quello di credere, ma il discorso è analogo con qualsiasi altro verbo
intenzionale, per esempio: immaginare, desiderare, pensare ecc.), e «a è p» che si
mostra come proposizione che esprime il contenuto proposizionale di «S crede»
mediante la congiunzione «che».
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Il passo dalla considerazione dell'intenzionalità quale atteggiamento
proposizionale a quella che la vede privata della capacità di orientarsi verso
qualcosa fu breve, al punto che un noto filosofo, logico e matematico finlandese, di
nome Jaakko Hintikka, avanzò dure critiche alle capacità intenzionali del mentale
fino a ridurle a semplici proprietà intensionali dello stesso5.
Hintikka fu per certi versi uno dei capostipite della naturalizzazione
dell'intenzionalità; ma, insieme ad Hintikka, anche Hartry Field non accettava la
possibilità di metodi di indagine della mente diversi da quelli offerti dalle scienze
naturali6. Per questi filosofi infatti non esisteva il problema di indagare una
possibile esistenza degli stati mentali, né tanto meno, quindi, veniva loro a
presentarsi la problematicità se codesti stati mentali potevano in qualche modo
essere identificati con gli stati celebrali. Per coloro – ed insieme ad essi per tutti i
filosofi di matrice scientista – tutto il problema circa l'intenzionalità può essere
spiegato in termini scientifici: esistono esclusivamente relazioni neurobiologiche
che in quanto tali sottostanno alle rigide regole delle scienze naturali.
L'intenzionalità (nei termini di capacità di orientarsi verso qualcosa di altro da sé)
non può essere analizzata con certezza, quindi bisogna spostare l'analisi sul
processo neurobiologico e risolverlo applicando i modelli proposti dalle
neuroscienze. Questa è la tesi di fondo di chi riduce (naturalizza) l'intenzionalità.
C'è da dire però che non tutti i filosofi analitici convengono con questa
naturalizzazione dell'azione gnoseologica tanto che alcuni filosofi di fama
internazionale, quali Searle, Putnam, Davidson, ecc., hanno orientato le proprie
ricerche verso quell'idea di intenzionalità quale riferimento di un atto mentale (o
stato mentale) ad uno specifico oggetto, ossia la correlazione che sussiste tra atto
mentale e correlato di coscienza (a prescindere dall'eventuale sussistenza di
quest'ultimo nella realtà trascendente la sfera della psiche). In particolare
possiamo citare la cosiddetta “Chinese Room” di Searle.
Proprio nell'esperimento di Searle7, che si articola sulla distinzione di fondo
tra sintattica e semantica, si avanza una forte confutazione a quell'idea che accosta
la mente umana ad una macchina e, di riflesso, all'intelligenza artificiale forte, la
quale sostiene che determinate forme di intelligenza artificiale, se programmate a
dovere, possono davvero ragionare, risolvere problemi, ed essere coscienti di sé
come una mente umana8. Ma può davvero una macchina essere equiparata ad un
5 Cfr. Jaakko HINTIKKA, The Intentions of Intentionality and Other New Models for Modalities,
Dordrecht, 1975, 192-222.
6 Cfr. Harty FIELD, “Mental representation”, in: Erkenntnis, 13, 78, 9-61.
7 Cfr. John SEARLE, “Mind, Brains and Programs”, in: The Behavioral and Brain Sciences, vol. 3,
1980.
8 Scrive John Searle che: «According to strong AI, the computer is not merely a tool in the study of
the mind; rather, the appropriately programmed computer really is a mind»; ossia che: «Secondo
l'intelligenza artificiale forte, il computer non sarebbe soltanto, nello studio della mente, uno
strumento; piuttosto, un computer programmato opportunamente è davvero una mente» [trad.
mia]. John SEARLE, Ivi.
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organismo biologico? La migliore realizzazione di ingegneria meccanica
riuscirebbe a sanare il divario che sussiste tra umano e macchina, tra mente e
computer?
All'origine delle scienze cognitive e della stessa AI (acronimo che sta per
Artificial Intelligence – Intelligenza Artificiale) è la teoria funzionalista ad aver
designato il background per ogni modello e sistema riduzionista (materialista o
naturalista che sia) della conoscenza e, quindi, della coscienza. Questa teoria,
invero, che fu introdotta (ma poi abbandonata) da Hilary Putnam 9, concepiva la
mente ed il cervello non come due sostanze interagenti, in una costante e
sincronica sinergia, bensì come due funzioni del medesimo sistema fisico, proprio
come il software (la mente) e l'hardware (il cervello) di un computer. Anche se in
un primo momento Putnam sembrava promuovere la concezione che vede
l'intenzionalità schiava delle leggi neuroscientifiche, con l'abbandono del
funzionalismo si indirizzò verso il recupero del significato di intenzionalità quale
condizione dinamica della coscienza. Il professore di Harward University coniò il
termine «aboutness» per sottintendere la necessaria pre-esistenza del contenuto
dell'atteggiamento proposizionale. Invero, Putnam sostiene che il pensare, il
credere, l'immaginare ecc., è sempre il pensare di qualcosa, il credere di qualcosa, e
così dicendo. Se è possibile una qualsiasi azione di pensiero – dice Putnam – è
perché c'è un qualcosa (about) che, informandomi della sua esistenza, fa sì che il
mio atteggiamento proposizionale non sia privo di contenuto.
La difficoltà nel trovare un fondamento epistemico alla problematica appena
posta in essere ha portato a far parlare soprattutto in area analitica di “filosofia
della mente” e, in ultima analisi, del dualismo mente-corpo o, che è la stessa cosa,
psiche-cervello. Ciò che qui chiamiamo mente e/o psiche è ciò che la tradizione
chiamava anima: ma mentre per la filosofia pre-cartesiana il problema di un
dualismo tra anima e corpo non sussisteva (essendo anima e corpo correlati ma
irriducibili), nell'ultimo secolo, per alcuni neuroscienziati il problema è diventato
così invadente da occupare gran parte delle loro speculazioni e ricerche. Di contro
parte alla concezione classica di anima e corpo, per questi neuroscienziati (e con
essi anche i filosofi più scientisti) il binomio mente-cervello o va considerato in una
sterile opposizione dicotomica a causa dell'intrinseca e differente struttura
cellulare, oppure si tende a ridurre la mente al cervello (che in altre parole
possiamo tradurre come la riduzione dell'anima alla corporeità).
Dopo questa delucidazione storica della nozione di «intenzionalità»
vediamo ora a livello teoretico l'effettiva impossibilità dell'atto cognitivo quale atto
9 Hilary Putnam ha promosso il funzionalismo nel saggio: Hilary PUTNAM, “Minds and Machines”,
In: Dimension of Mind, S. Hook (ed.), New York, 1960. Sempre Putnam ha abbandonato
definitivamente il funzionalismo a causa delle motivazioni riportate nel testo: Hilary PUTNAM,
Representation and Reality,
Mit Press, Cambridge (Massachussets), 1988; trad. it.:
Rappresentazione e realtà, Garzanti, Milano, 1991. Attualmente è portavoce del funzionalismo
l'allievo di Putnam Jerry Alan Fodor.
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non-intenzionale10. Analizziamo dunque le tre grandi teorie cognitive che hanno
segnato – in ultima analisi – la storia del pensiero filosofico: realismo,
rappresentazionismo, naturalismo.
Alessandro Belli
10 Con “non-intenzionale” mi riferisco a tutte quelle nozioni di «intenzionalità» che definiscono
l'azione gnoseologica sulla base del rapporto di causa-effetto proprio delle scienze fisiche,
finendo per naturalizzare la coscienza ed eliminare il carattere spirituali tipico dell'atto
intenzionale e della conoscenza tout court.
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