Nietzsche e l`eterno ritorno dell`uguale – Tovo Flores

Come lo stesso Nietzsche riconobbe in “Ecce homo”, la dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale gli fu
ispirata da alcuni filosofi stoici, in particolare da Zenone di Cizio e da Cleante di Asso. I quali, a loro
volta, la mutuarono presumibilmente da Eraclito (si vedano i frammenti 10 “…da tutte le cose l’uno,
dall’uno tutte le cose…” e 103 “comune è nel cerchio il principio e la fine”. Tale dottrina prevede
che quando gli astri assumeranno la stessa posizione che avevano all’inizio dell’universo, avverrà
una grande conflagrazione (ecpirosi) e il tempo e il mondo ricominceranno un nuovo ciclo (una
palingenesi, ovvero una “nuova nascita”). Tale ciclo, secondo i filosofi stoici citati, ripeterà
perfettamente tutti gli eventi del ciclo precedente secondo il principio dell’apocatastasi, cioè di un
ristabilimento dell’universo nel suo stato originario.
Ora, quando nelle opere della maturità Nietzsche riproporrà, con contenuti diversi, l’opposizione
Apollo/Dionisio, già presente nelle opere giovanili (in particolare nella “Nascita della tragedia”), egli
identificherà Dionisio con l’eterno ritorno dell’uguale (il complemento di specificazione
“dell’uguale” è fondamentale, per distinguerlo del semplice eterno ritorno circolare), mentre
Apollo, sarà concepito come il principio di incarnazione della volontà di potenza del superuomo. Con
una nuova risoluzione dell’opposizione, che Nietzsche elaborò soprattutto in opere quali “La gaia
scienza”, “Così parlò Zarathustra” e nei frammenti postumi raccolti dalla sorella e da Peter Gast con
il titolo di “La volontà di potenza” , vi è un approfondimento, in senso cosmologico ed ontologico,
del dualismo pensato in gioventù, un dualismo che era stato espresso in termini estetici e più
genericamente culturali, sulla scorta del pensiero del suo grande maestro Burckhart (1). Con tale
ripensamento vediamo che, soprattutto ne “La volontà di potenza” , egli cercherà di superare la
netta antinomia dualistica fra apollineo e dionisiaco, comprendendo i due contrari in una unità
superiore. Lo stesso E. Fink osservò questo sforzo intellettuale di Nietzsche, quando sottolineò con
un finalmente la più profonda penetrazione dell’antico dualismo:
“ Volontà di potenza ed eterno ritorno in rapporto fra loro come l’Apollineo e il
Dionisiaco, o, piuttosto, sono il dualismo, finalmente penetrato da Nietzsche, della sua
antica metafisica dell’artista” (2).
La volontà di potenza viene identificata con la vita stessa, intesa come forza espansiva propria di
tutti gli enti, sempre spinta all’autosuperamento. In altre parole essa si manifesta come legge di
natura, come morale, come politica e come arte e trova la sua più alta incarnazione dinamica nel
superuomo, che non è ueber (super o oltre) solo e perché è oltre l’uomo del passato, ma soprattutto
perché la sua essenza consiste nel continuo oltrepassamento di sé. La vita è intesa, quindi, come
autopotenziamento, autocreazione, una libera produzione di sé che va oltre qualsiasi piano
prestabilito.
Essa, poi, trova il suo culmine o massimo compimento nell’accettazione completa dell’eterno ritorno
dell’uguale, quando cioè il superuomo si libera del peso del passato e “redime” il tempo.
Come si sa Nietzsche definì l’eterno ritorno dell’uguale il suo pensiero più abissale, sul quale, fra
l’altro, si soffermò assai poco, in quanto i brani che esprimono questa teoria sono quelli famosissimi
presenti ne “La gaia scienza”, ovvero l’aforisma n. 341, chiamato “Il peso più grande”, in “Così parlò
Zarathustra” con gli aforismi “La visione e l’enigma” e “Il convalescente”; vi è poi un accenno in
“Ecce homo”, e la presenza di alcuni brani nelle parti seconda e terza dell’ultimo capitolo (il
quarto) della “Volontà di potenza”.
Le interpretazioni attorno a questa teoria sono state molteplici, di cui le più importanti sono: 1) la
teoria cosmologica che concepisce lo spazio e la quantità di energia nell’universo come finiti, mentre
il tempo è “infinito”. Il che potrebbe essere in sintonia con la teoria della relatività generale, in
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quanto le combinazioni e le manifestazioni finite in uno spazio finito potrebbero ripetersi tali e quali
in un tempo indefinito. 2) Quella etica, in base alla quale accettare l’eterno ritorno dell’uguale
significa imporre una specie di nuovo “imperativo categorico” che comanda non tanto
razionalmente, ma dionisicamente, di amare la vita passata, presente e futura così come è stata, è e
sarà. 3) Quella ontologico-esistenziale, fortemente legata alla seconda, in cui la morale assume
un’ampiezza semantica maggiore di quanto non avvenga nel linguaggio ordinario: con essa non si
indicano solo i valori vitali che accrescono la volontà di vivere, ma anche quella redenzione rispetto
il tempo lineare, che il filosofo Vattimo nella sua opera “Introduzione a Nietzsche” chiama “la
struttura edipica del tempo”, poiché porsi nell’ottica dell’eterno ritorno significa rifiutare un tempo
inteso come catena indissolubile fra passato-presente-futuro, quasi come se, afferma ancora Vattimo,
fosse un figlio che divora il padre (il momento che lo precede), essendo destinato a sua volta ad
essere divorato dal proprio figlio (il momento che lo segue). Nel tempo lineare, infatti, nessun evento
può assumere valore assoluto, poiché è inevitabile che ogni istante distrugga quello che lo ha
preceduto e che non tornerà mai più.
In effetti la struttura lineare del tempo proposta dal cristiano S. Agostino implicava un inizio e una
fine temporali, all’interno dei quali v’era un disegno prestabilito e una teodicea, scanditi da tappe
necessarie quali Eden – caduta – prima venuta–redenzione- seconda venuta-giudizio universale.
E’ chiaro che Nietzsche non poteva accogliere una simile teoria, poiché in essa l’unica libertà
ammessa è la cognizione della necessità, poiché le tappe sono disegnate. E nonostante il
Cattolicesimo mascheri incredibilmente tale inevitabilità provvidenziale con la teoria del libero
arbitrio, qui si palesa quella idolatria del fatto che toglie ad una qualsiasi persona e, a maggior
ragione al superuomo, la libertà di creare il proprio destino.
Nell’ultima parte dello “Zarathustra” e precisamente ne “Il canto d’ebbrezza” egli fa proclamare al
protagonista il verso “… ogni piacere vuole profonda, profonda eternità” (3). Tuttavia l’eternità
amata da Zarathustra non è l’eternità senza tempo o trascendente del pensiero metafisico classico e
cristiano.
Infatti nella tradizione metafisica l’eternità viene concepita come ciò che è atemporale, al di là di
ogni
determinazione e strettamente connessa con l’Infinito e come tale
è solo intellettualmente intuibile dal pensiero umano, ma non da esso definibile. L’eternità invocata
da Nietzsche è una “eternità”, che si potrebbe definire sferica, immanente, finita ed “indefinita” in
senso temporale. Abbiamo detto sferica e non circolare, perché nell’aforisma “La visione e
l’enigma” Zarathustra, adirato, rimprovera il nano che portava sulle spalle di essere troppo
superficiale, quando questi, di fronte alla porta maestra sulla quale era scritto “Attimo”,
condannava con disprezzo la visione lineare del tempo, affermando che “il tempo stesso è un circolo”
(4). Zarathustra critica il nano proprio perché il semplice eterno ritorno circolare non coglie la
verità profonda dell’essere. Su questo punto Heidegger dirà allora che “…ciò che è più difficile e più
proprio della dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale…” è “…che l’eternità è nell’attimo” (5).
L’istante in quanto tale non è misurabile da nessun orologio, perché nell’ente umano il tempo può
rivelarsi come, dice sempre Heidegger, “…temporalità dell’attimo” (6).
Vedere l’attimo secondo l’ottica dell’eterno ritorno dell’uguale significa allora che bisogna stare
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dentro nell’attimo. L’essenza della dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale sta qui. Ecco perché la
logica che la caratterizza è di una rotondità sferica e non circolare: nel circolo si ripetono solo le
costanti, cioè le età, perché il tempo scorre sul bordo della circonferenza; nella sfera, pensa
Nietzsche, tutto può ripetersi, sia per ciò che è stato e sia per ciò che sarà perché il tempo scorre al
di dentro di essa.
Nietzsche immagina, allora, che ogni istante acquisisca in sé valore assoluto, sia se si guarda
all’indietro, sia se si guarda al futuro. L’attimo è quella porta maestra che attira a sé l’ “eterno
passato” e l’ “eterno futuro”. Solo la più radicale eliminazione della trascendenza potrà consentire al
superuomo di dare alla propria vita ed ad ogni proprio istante vissuto eternità ed assolutezza.
L’eterno ritorno dell’uguale è quindi la presenza dell’indefinito temporale in ogni ente finito, è una
“eternità” (meglio sarebbe usare i termini di perpetuità o perennità, in quanto l’eternità, come si
diceva, è atemporale, mentre il perpetuo o perenne sono temporali e indefiniti come insegnava
Guènon) che “pervade” ogni momento dell’esistere.
Come si può notare le difficoltà di questa teoria sono enormi per il pensiero. Se, infatti, Nietzsche
vuole celebrare la vita degli enti in quanto tali, escludendo ogni fondamento che non sia altro che il
tempo che ritorna, ciò vuol dire anche che il nostro fondamento è il nulla (e coerentemente, in
questo senso, egli si dichiarò un nichilista perfetto). Gli enti sono di per sé contingenti, e quindi si ha
che l’essere=tempo=contingenza=nulla. E su questa equazione sorge appunto la domanda
difficilissima per la ragione, ossia se tutto si ripete perennemente nel tempo nella assolutezza di ogni
istante, come è possibile la libertà?
Ne “Il convalescente” (7) il pastorello, sollecitato da Zarathustra, morde, staccandogli la testa, il
serpente, simbolo dell’eterno ritorno dell’uguale. Questo atto di libertà di scelta fattuale inserisce il
pastore, divenuto con questa sua azione superuomo, all’interno stesso dell’ “eternità” temporale.
Ma, ripetiamo, se tutto ciò che avverrà non è altro che un ritorno che non potrà non accadere, che
senso ha, allora, la libertà? Anche Heidegger avvertì che nella dottrina dell’eterno ritorno
dell’uguale vi era in pericolo della distruzione della libertà e quindi della creatività artistica del
superuomo e della sua volontà di potenza.
Il Dionisio che viene rappresentato nelle ultime opere non è più quello delle opere giovanili. Il
Nietzsche giovane, che considerava il dionisiaco come l’amorfo flusso della vita e come il simbolo
della hybris (la dismisura o la sfrenatezza), pensa nelle opere della maturità ad un Dionisio inteso
come dell’eterno ritorno dell’uguale, ad un Dionisio per così dire “parmenideo”, in quanto l’Essere
viene concepito nella sua immutabilità (8).
Una risposta a questa radicale svolta viene data da Heidegger con queste parole:
“…stando alle prime apparenze la dottrina dell’eterno ritorno introduce in tutto l’ente e
nel comportamento umano una smisurata e totale indifferenza, in verità il pensiero dei
pensieri porta nell’ente, per ogni attimo, il sommo rigore e vigore della decisione” (9).
Egli vuol dire che l’eterno ritorno dell’uguale consiste non in un circolo di momenti successivi in sé
indifferenziati, ma nell’attimo di una decisione liberamente presa: “…volere libera” diceva
Zarathustra nell’aforisma “Sulle isole beate” (10).
In ciò dimora l’essenza della libertà, poiché tutto è appeso ad una libera decisione.
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Certamente bisogna rinunciare a credere che questa dottrina abbia le caratteristiche di una ipotesi
scientifica. Essa è, piuttosto, la prospettiva esistenziale più radicale ai fini dell’affermazione della
volontà di potenza. L’eterno ritorno dell’uguale è un invito supremo ad amare la vita così come essa
è, ad accettarne anche gli aspetti tragici e, in questo senso, è la celebrazione del dionisiaco. E’ una
risposta, possiamo dire ideologica, alla concezione del tempo lineare cristiana, che escludeva, come
abbiamo detto, il godimento della pienezza dell’attimo vissuto.
Solo se si vive nella prospettiva dell’eterno ritorno dell’uguale è possibile superare ciò che per la
volontà di potenza sembra un ostacolo insormontabile e immodificabile: l’accettazione del passato.
Nel capitolo dello “Zarathustra” sulla “Redenzione” Nietzsche si scaglia contro lo spirito di vendetta
che è proprio di coloro che guardano al passato, poiché esso, con le sue sofferenze ed atrocità,
favorisce, se sentito come situazione emotiva irripetibile, la nascita e l’affermazione di quelle
dottrine (il Cristianesimo e il comunismo in primis) che spingono al senso del ripudio di questa vita,
con il conseguente richiamo alla punizione, al castigo, al rimpianto e, spesso, alla vendetta.
La volontà di potenza non può sprigionarsi totalmente se ci si lega al passato. “La volontà non può
volare sul passato; non poter infrangere il tempo e la brama del tempo,- ecco la più solitaria mestizia
della volontà” (11). “Tutto il fu è un frammento, un enigma, un atroce caso – Finchè la volontà
creante non dice: “Ma così io volevo” – Finchè la volontà creante non dice “Ma così voglio! Così
vorrò! “ (12).
Zarathustra, l’annunciatore e il profeta del superuomo, vuole perciò, come ben si capisce dall’ultimo
brano, redimerci dai redentori, vuole liberarci, grazie all’eterno ritorno dell’uguale, dal macigno del
così fu che viene sgretolato e dissolto dal “così volli che fosse”. Vuole sollevarci dal peso più
grande, che è appunto il Cristianesimo. Solo nell’ambito della dottrina dell’eterno ritorno
dell’uguale la volontà di potenza, nelle sue varie forme, può imporsi nella sua pienezza. Essa, se non
compie questa decisione, si manifesta nell’Ente limitato, isolato, finito e proprio per questo essa
produce guerre, scontri, dissidi, in quanto tutti gli enti, anche i più miserrimi, i più ignobili, i più
schiavi la posseggono. E se non possono combattere direttamente, lo fanno con la riproduzione
allargata, espandendo a dismisura il loro sperma. Ma solo pochi, ovvero proprio coloro che vivono
all’interno dell’eterno ritorno dell’uguale possono dare una forma compiuta ed un ordine alla loro
esistenza. Solo costoro, i superuomini, creano e danno un senso all’esistere, anche se essi non sono
la norma, ma l’eccezione. La volontà di potenza vuole infatti la gerarchia, l’ordine dei ranghi, poiché
essa si oggettiva nell’ente umano, attraverso un principio di individuazione che rende ognuno degli
umani, a suo modo, unico. In particolare, diceva Nietzsche, solo il quantum di potenza, e
nient’altro, stabilisce il rango degli uomini. Credere che gli uomini siano uguali rispetto a Dio, come
affermava l’idea cristiana è “…il non plus ultras del cretinismo” e, a maggior ragione credere che
essi siano uguali sulla terra.
Proprio in quanto principio di individuazione la volontà di potenza ripropone il mito di Apollo, del dio
che vuole la Forma, la distinzione, la disciplina forte che forgia, crea e differenzia, ma può farlo solo
quando decide di vivere all’interno dell’eterno ritorno dell’uguale. Perciò Nietzsche, nella quarta
parte de “La volontà di potenza”, comprende che l’apollineo è strettamente connesso con il
dionisiaco, poiché esso può appunto celebrare se stesso solo nell’eterno ritorno dell’uguale. Il
dualismo, pensa Nietzsche, viene superato attraverso l’unità fra i contrari. La volontà di potenza
(l’apollineo), che è l’essenza stessa dell’ente, viene concepita qui come una dionisiaca volontà della
volontà che attua se stessa nella assolutezza dell’istante dell’eterno ritorno (il dionisiaco) (13).
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La supremazia di Dionisio è qui evidente. Esso è l’Essere vivente che comprende insieme volontà di
potenza ed eterno ritorno dell’uguale, ma senza però estinguere il loro contrasto. La volontà di
potenza, infatti, vuole la Forma, mentre l’eterno ritorno la inghiotte. Il distinto si dissolve
nell’indistinto. Il superuomo è un Giano bifronte.
“Dionisio è l’unità della volontà di potenza come tendenza apollinea e l’eterno ritorno
come profondità dionisiaca del tempo in tutte le cose finite” (14).
La “profondità dionisiaca” del tempo non è però più concepita come una semplice accettazione del
flusso perenne delle cose. Il Nietzsche della maturità vuole redimere lo stesso divenire dal generico
“…e così via”. Il divenire viene mantenuto come divenire, ma in esso viene immessa la stabilità, che
è appunto l’eterno ritorno dell’uguale. L’ente, raffigurato dal pastore, può determinare il carattere
del divenire, ed essere perciò libero. In tal mondo la volontà di potenza, concepita come essenza
stessa dell’ente diviene una volontà di volontà che si autocelebra superomisticamente nell’eterno
ritorno di sé. L’eterno ritorno dell’uguale rappresenta quindi l’apoteosi del superuomo.
Heidegger in verità intende questa apoteosi come il compimento finale della metafisica occidentale,
intesa come oblio dell’essere.
E’, infatti, un grave errore culturale ritenere che Heidegger sia il continuatore critico della filosofia
nicciana, come invece fu Marx rispetto ad Hegel. La filosofia di Heidegger è molto differente dal
pensiero di Nietzsche, in quanto in essa vi è il rifiuto radicale del nichilismo, inteso come la malattia
mortale del nostro tempo. Il nichilismo
superomistico segna,
secondo Heidegger, il trionfo definitivo del soggettivismo anticomunitario cartesiano e lo
smarrimento completo della differenza ontologica fra Essere ed ente. Zarathustra è uno scettico: il
suo prospettivismo distrugge qualsiasi verità che non sia quella imposta dalla volontà di potenza. Il
superuomo anzi si sostituisce con la sua autoesaltazione all’Essere stesso diventando, o meglio
credendo di diventare, il padrone dell’Essere per mezzo del suo Dispositivo tecnico (il Gestell), che
costituisce la sua massima l’espressione operativa. Un superuomo che, contrariamente al pensiero
nicciano, che lo configurava come l’Artista, si è storicamente incarnato nei padroni delle
multinazionali e nei suoi banchieri, che sono coloro, fra l’altro, che impongono col possesso dei
media le loro verità. Il nichilismo allora costituisce il massimo pericolo per l’umanità.
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L’eterno ritorno dell’uguale è, invero, come s’è scritto precedentemente, un invito a vivere
intensamente, accettando la vita così come essa è. E nient’altro. Le seguenti parole di Guènon
chiudono, a parer nostro, ogni eventuale discussione problematica:
“Essendo l’universo realmente un tutto, o piuttosto un tutto assoluto, un ciclo chiuso non
potrà esistere da nessuna parte: due possibilità identiche sarebbero una stessa e sola
possibilità; perché siano veramente due, è necessario che esse differiscano per una
condizione almeno, di conseguenza non sono più identiche. Nulla può mai ritornare sullo
stesso punto, e questo anche in un insieme soltanto indefinito (e non infinito) come il
mondo corporeo: mentre si traccia un cerchio, si verifica uno spostamento, pertanto un
cerchio si chiude solo in modo illusorio. Questa è una semplice analogia, ma può servire
a capire che, a fortiori, nell’esistenza universale, il ritorno ad uno stesso stato è una
impossibilità” (15).
Nietzsche, che pure dubitava sulla veridicità della dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale, la riteneva
comunque possibile. Ma anche in questo caso è come dire che un quadrato può essere rotondo: il
che è assurdo. Scrive ancora Guènon, “…assurdità e impossibilità sono sinonimi”, ed è impossibile
che l’impossibile sia.
NOTE
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
Si veda il nostro lavoro “Nietzsche e il Discorso” pubblicato su EreticaMente l’8 aprile 2014.
E.FINK, La filosofia di Nietzsche, ed. Mondadori, Milano 1977, p. 186-87.
F.NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, ed. Newton, Roma 1999, p.235.
IDEM, p.123.
M. HEIDEGGER, Nietzsche, ed. Adelphi, Milano, p.264
IDEM, p.336.
F.NIETZSCHE, op.cit., pp.163-167.
A far rilevare la differenza fra il Dionisio eracliteo, tutto basato, secondo il Nietzsche giovane,
sulla conflittualità, e quello dell’eterno ritorno dell’uguale fu A. BAEUMLER, nella sua opera “
Nietzsche filosofo e politico”, Ed. Ar, Padova 2003.
M. HEIDEGGER, op.cit., ed. Adelphi, Milano, p.341.
F.NIETZSCHE, Così…, cit, 77-78.
IDEM, p. 113.
IDEM, p.114.
In realtà in Nietzsche, come ci insegna Guènon nel “Simbolismo della croce”, non vi è mai un
vero superamento del dualismo, poiché il principio che dovrebbe risolvere l’opposizione fra gli
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opposti, cioè Dionisio, è egli stesso finito, e nel finito, a rigor di logica, non è possibile nessuna
risoluzione dei contrari.
14. E.FINK, op.cit., p.190
15. R. GUENON, “L’errore dello spiritismo” , Luni Editrice, Milano 2006, pp. 210-11.
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Tovo Flores
[email protected]
Flores Tovo
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