Hobbes - Altervista

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TOMMASO SCAPPINI
APPUNTI DI STORIA DELLA FILOSOFIA
Thomas Hobbes
Indice generale
1. Notizie bio-bibliografiche
Le principali opere di Hobbes
2. La teoria della conoscenza
2.1. La conoscenza originaria
Struttura della conoscenza
2.2. Il linguaggio
La funzione dei nomi
2.3. La conoscenza derivata
2.4. Il convenzionalismo epistemologico
Il linguaggio scientifico
2.5. La filosofia come epistemologia
Le scienze e il movimento
3. L’ontologia materialista
3.1. L’epistemologia materialista
3.2. La teologia e la psicologia materialiste
3.3. L’etica materialista
4. La filosofia politica: il De cive e il Leviatano
Il contesto storico
4.1. Il convenzionalismo in filosofia politica
4.2. La natura umana
4.3. Lo stato di natura
4.4. Il «bellum omnium contra omnes»
4.5. Il calcolo della ragione
4.6. La legge di natura
4.7. Il superamento dello stato di natura
Dallo stato di natura allo Stato civile
4.8. Il patto sociale
4.9. Il potere assoluto
4.10. La giustizia
4.11. Il Leviatano
4.12. Il sovrano
4.13. Il potere religioso
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1. Notizie bio-bibliografiche
Thomas Hobbes, figlio di un parroco, nacque il 5 aprile 1588 in Inghilterra, l’anno in cui Filippo II di Spagna inviava contro l’isola di Elisabetta I la «invencible armada». Hobbes studiò a Oxford e, diplomatosi, lavorò inizialmente come precettore privato di famiglie nobili.
Grazie alla frequentazione degli ambienti benestanti e colti poté visitare l’Europa e cono scere i principali intellettuali del Seicento, tra cui Francis Bacon, Galileo Galilei e René Descartes.
TOMMASO SCAPPINI – APPUNTI DI STORIA DELLA FILOSOFIA
I suoi primi studi vertevano anzitutto su opere classiche di filosofia politica e di storia greca
e latina: non a caso egli fu il primo traduttore inglese della Guerra del Peloponneso di Tucidide. In seguito iniziò a occuparsi anche di fisica e di matematica e a coltivare interessi più
strettamente scientifici.
Politicamente filomonarchico e personalmente legato alla famiglia Stuart, Hobbes lasciò
l’Inghilterra nel 1640, alla vigilia della guerra civile, e si rifugiò in Francia, presso l’ambiente
dei monarchici esiliati, risiedendovi fino al 1652. Intanto partecipò in più occasioni al dibattito filosofico europeo intorno alla metafisica di Cartesio. Con la mediazione di padre Mersenne, legato all’ambiente cartesiano parigino, Hobbes scrisse le Obiezioni alle Meditazioni
metafisiche di Cartesio.
Nel 1652 Hobbes decise di tornare in Inghilterra, convinto che il regime repubblicano fosse
ormai sufficientemente maturo per garantire la pace e la stabilità. Tuttavia, dopo il suo ritorno, Hobbes si inimicò la gerarchia ecclesiastica a causa dei suoi scritti che negavano la libertà. Alcune delle sue posizioni, infatti, vennero condannate come eretiche.
Nel frattempo Hobbes aveva scritto vari saggi di argomento politico, tutti ispirati alla difesa
dell’assolutismo monarchico. Alla fine della sua vita Hobbes si dedicò alla traduzione in inglese dell’Iliade e dell’Odissea di Omero. Morì nel dicembre 1679, ormai novantunenne.
Le principali opere di Hobbes
1642 – De cive;
1651 – Leviatano
1655-58 – Elementi di filosofia, divisi nelle sezioni intitolate De corpore e De homine
1656 – The questions concerning Liberty, Necessity and Chance
2. La teoria della conoscenza
Pur appartenendo al clima filosofico noto come «razionalismo», Hobbes concepisce la ragione in maniera diversa rispetto a un esponente canonico di questa corrente come Cartesio. Secondo Hobbes, infatti, la ragione non è la facoltà d’intuire in modo evidente i principi
o le leggi della realtà, ma è invece un calcolo intorno ai nomi e alle definizioni. Per questa
ragione egli considera le diverse scienze come insiemi regolati di convenzioni accettate dalla comunità scientifica. Tuttavia tali convenzioni non possono garantire una corrispondenza all’essenza metafisica o ontologica della realtà.
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Per spiegare la convenzionalità epistemologica dei saperi umani Hobbes distingue, a livello
gnoseologico, una conoscenza originaria (cioè fattuale e di origine sensibile) e una conoscenza derivata (cioè basata sulla rielaborazione della conoscenza originaria).
2.1. La conoscenza originaria
La conoscenza originaria o fattuale si fonda sulle immagini sensibili dei singoli corpi e delle singole azioni, che vengono generate dall’interazione tra gli organi corporei di senso e i
corpi percepiti in base alle loro proprietà meccaniche e geometriche.
Una volta percepite, le immagini sono conservate nella memoria sotto forma di idee, che
proprio come le immagini hanno un contenuto singolare: la sensazione è sempre singolare,
ugualmente l’immagine che si forma nella nostra mente a partire dalla sensazione, e pure
l’idea che rimane nella nostra memoria a partire dall’immagine.
Struttura della conoscenza
Sensazione (singolare)
[Contatto cosa-corpo]
→
Immagine (singolare)
→
[Contatto corpo-mente]
Idea (singolare)
[Sedimentazione nella mente]
Le idee relative alle varie cose sono utili anzitutto da un punto di vista pratico, perché ci
permettono di ricordare una serie di immagini e le loro associazioni: se siamo abituati a vedere due immagini costantemente correlate, e dunque se abbiamo nella nostra memoria le
relative idee come associate, allora saremo in grado di prevedere alcune relazioni tra eventi
e di comportarci di conseguenza.
Esempio – Se ricordiamo che l’immagine del fumo si presenta costantemente con quella del
fuoco, sapremo che vedendo del fumo, dovremo aspettarci da qualche parte un fuoco.
Tuttavia Hobbes ammette che la memoria umana non è molto salda, e anzi tende a dimenticare ciò che non si ripete di continuo, rendendo quindi incerta l’azione dell’uomo.
2.2. Il linguaggio
Nonostante la memoria sia debole, l’uomo ha trovato un modo per rendere più salde le
idee: attraverso l’utilizzo del linguaggio. I nomi, infatti, raccolgono assieme le singole idee
delle cose individuali raggruppandole in una classe più generale, la quale facilita il ricordo
di un’idea, benché questa diventi più vaga: il nome «cane», per esempio, permette di classificare molte idee, anche assai diverse, sotto un’unica etichetta.
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La funzione dei nomi
Idea singolare di «animale domestico, 4 zampe, alto, nero»
Idea singolare di «animale domestico, 4 zampe, alto, marrone»
Nome «cane» (animale domestico, 4 zampe)
Idea singolare di «animale domestico, 4 zampe, basso, bianco»
Su questi presupposti il nome ha due funzioni principali:
1. è una specie di nota che, nella mente degli uomini che la comprendono, suscita un
pensiero simile a un pensiero già avuto nel passato;
2. è un segno usato nel discorso col fine di comunicare a chi ascolta un determinato
pensiero, suscitato da quel nome.
Grazie ai nomi i collegamenti e i confronti tra immagini si semplificano molto, perché la
nostra mente non è più obbligata a mettere in relazione soltanto idee singolari tra loro assai
varie, ma può mettere in relazione nomi che indicano insiemi di idee accomunate da una
qualche somiglianza.
Come si può facilmente intuire, con la sua teoria Hobbes riprende ed estremizza il nominalismo di Ockham intorno alla disputa sugli universali, cioè sui concetti universali o sui
nomi:
1. ai nomi non corrisponde nulla di reale, perché la realtà è una proprietà esclusivamente dell’elemento singolare;
2. i nomi non esistono neppure come entità mentali stabili:
a) il nome come segno di un concetto è del tutto arbitrario → esempio: in lingue
diverse ci sono nomi diversi per designare un concetto simile;
b) l’associazione di idee diverse prodotta da un nome è ugualmente arbitraria →
esempio: non c’è ragione metafisicamente o ontologicamente fondata per escludere dai «cani», poniamo, le «volpi», che invece vengono escluse solo perché
nel nome «cane» prevale la componente della relazione domestica con l’uomo,
anziché la componente morfologica.
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Per tutte queste ragioni Hobbes sostiene che l’assegnazione di un certo nome a un certo insieme di idee e di conseguenza anche il raggruppamento di queste idee entro un medesimo
insieme non sono fondati nella realtà, ma solo convenzionalmente. Con l’apprendimento di
una lingua i gruppi di uomini si accordano implicitamente sul significato da attribuire a un
certo nome.
2.3. La conoscenza derivata
La conoscenza scientifica o filosofica è di tipo derivato e si avvale di quel sistema conven zionale di segni e significati che è il linguaggio. Tale conoscenza però ha la stessa funzione
della conoscenza originaria, ossia di permettere previsioni utili alla pratica: in particolare
utili a modificare gli oggetti della natura.
La scienza e la filosofia, dunque, sono strumenti per ottenere vantaggi pratici, ancora più
efficaci rispetto a quelli forniti dalla sola conoscenza originaria, poiché la capacità di previsione degli eventi e la capacità di manipolazione dei corpi sono notevolmente accresciute
grazie alle leggi filosofiche o scientifiche. Secondo Hobbes, tanto più evoluta è la scienza
quanto più elevato è il benessere di un popolo.
L’obiettivo della conoscenza derivata scientifica e filosofia è quindi superare il sapere incerto della conoscenza originaria, al fine di stabilire una serie di leggi sulle connessioni necessarie di cause ed effetti, a loro volta vantaggiose in ambito pratico. Per questa ragione,
onde evitare errori, è fondamentale utilizzare un metodo rigoroso, modellato sul metodo
adottato in geometria.
Anche la filosofia dunque, se intende raggiungere la medesima precisione delle scienze,
deve anzitutto definire preliminarmente i nomi che usa, in modo da non generare equivoci o
fraintendimenti. In altre parole, la filosofia deve essere sottoposta a un processo di formalizzazione, che eviti termini ambigui, impropri o metaforici, e che elimini termini il cui significato è nullo, come la maggior parte dei termini utilizzati dalla filosofia scolastica.
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2.4. Il convenzionalismo epistemologico
In generale Hobbes afferma che la conoscenza derivata, si tratti di scienza o di filosofia, è
convenzionale, poiché in maniera preliminare al lavoro scientifico o filosofico devono essere determinati i limiti e le condizioni dell’ambito scientifico o filosofico. La comunità di
scienziati o di filosofi deve quindi convenire sui limiti e sulle condizioni, nonché sulle definizioni dei termini utilizzati, così da garantire l’universalità del sapere in questione.
La comunità scientifica stipula una sorta di patto intorno alle regole e agli ambiti di un determinato campo del sapere. Per questo occorre che tutti i filosofi e gli scienziati che si occupano di quel campo sottoscrivano idealmente una serie di definizioni convenzionali rigorose mediante cui articolare il proprio discorso.
Dal momento che secondo Hobbes la filosofia è lo studio degli effetti attraverso le cause,
sarà necessario definire il significato dei termini che entreranno nello studio delle relazioni
causa-effetto. Inoltre, dal momento che la principale manifestazione di tale relazione è il
movimento, occorrerà stabilire le definizioni di termini come «moto», «corpo», «spazio»,
«tempo» ecc, indipendentemente dalle loro qualità, ma solo a partire dalle loro quantità
geometrico-meccaniche matematicamente misurabili.
Il linguaggio scientifico
Il linguaggio rende possibile il ragionamento perché attua una serie di generalizzazioni utili a prevedere e a cal colare le conseguenze delle azioni. Più nello specifico, il linguaggio rende possibile l’addizione o la sottrazione di
concetti, il cui significato è convenzionale. Ad esempio, «uomo» può essere il risultato dell’addizione di tre concetti come «corpo», «animato» e «razionale», laddove «animale» può essere il risultato dell’addizione di «cor po» e «animato», a cui si sottrae «razionale». Come si vede, un’analisi linguistica di questo tipo, che è alla base
del linguaggio scientifico, ha senso solo per oggetti creati dall’uomo e per significati convenzionali.
2.5. La filosofia come epistemologia
In quest’ottica la filosofia ha un compito precisamente epistemologico, perché deve determinare le definizioni fondamentali di ogni scienza: geometria, meccanica, fisiologia, morale e
filosofia civile sono tutte discipline basate su leggi di movimento.
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Le scienze e il movimento
Geometria
→
studia i movimenti (a) di un corpo puntiforme che genera una linea, (b) di una linea che
Meccanica
→
studia gli effetti dei movimenti dei corpi su altri corpi.
Fisiologia
→
studia le sensazioni generate dai moti di alcuni corpi.
Morale
→
studia i moti degli animi.
genera una figura bidimensionale, (c) di questa figura che genera un solido.
Filosofia civile →
basata sulla morale, studia le cause delle costituzione di una comunità.
Inoltre la filosofia deve spiegare lo statuto delle scienze della natura intese come saperi
convenzionali, ovvero deve rispondere a questa domanda: se la scienza in generale è frutto
di convenzioni e si esercita come calcolo logico su definizioni date, allora come può rappor tarsi con l’esperienza sensibile e quindi con la realtà?
Per Hobbes, a partire dalle definizioni convenzionali di cui si costituisce la geometria, ma
anche l’etica e la filosofia, è possibile dimostrare a priori, quindi indipendentemente dall’esperienza, tutte le proposizioni geometriche, etiche e filosofiche: infatti i significati concettuali alla base di queste discipline sono invenzioni dell’uomo, sulle quali è possibile un’ana lisi linguistica calcolativa e deduttiva.
Tuttavia questo non è possibile per le scienze della natura, per le quali si conoscono a priori soltanto le proposizioni più generali legate immediatamente alle definizioni convenzionali. Per queste scienze, tra cui la fisica, i fenomeni particolari possono essere conosciuti solo
a posteriori sulla base dell’osservazione: infatti le cose naturali, oggetto della fisica, non
sono state create dall’uomo ma da Dio, né per loro è possibile individuare le cause in maniera univoca. Per tale motivo la conoscenza della natura può essere solo di tipo induttivo e
osservativo.
Coerentemente Hobbes considera ciò una limitazione alla certezza a cui tali scienze aspira no: a livello epistemologico, esse raggiungono soltanto un certo grado di probabilità, laddove le conoscenze geometriche, etiche o filosofiche aspirano a conclusioni certe e necessarie.
3. L’ontologia materialista
3.1. L’epistemologia materialista
Secondo Hobbes, in base all’oggetto di conoscenza la ragione si esercita con un grado di verso di efficacia:
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Efficacemente solo su oggetti di cui è conoscibile la causa produttrice o efficiente, cioè su
oggetti generati o generabili dall’uomo;
Meno efficacemente sugli oggetti naturali che non sono stati generati dall’uomo ma da Dio,
e che nondimeno appartengono all’ambito degli oggetti generati;
Inefficacemente, invece, sugli oggetti ingenerati, come le cose incorporee, gli angeli e Dio.
Questo significa che la ragione ha modo di esercitarsi con una qualche efficacia solo sugli
oggetti generabili (dall’uomo o da Dio), di cui si possono conoscere (a priori o a posteriori) le
cause. Ma questi oggetti sono solo quelli estesi e materiali. La conseguenza necessaria è
che per la ragione esiste solo ciò che è materiale: questa posizione si chiama «materialismo». Inoltre il materialismo, come posizione metafisica, ontologica e fisica, è anche una
teoria monista, perché contempla l’esistenza di una sola regione dell’essere, cioè quella della materia1.
3.2. La teologia e la psicologia materialiste
Gli oggetti esistenti sono dunque quelli corporei, dato che «incorporeo» è per la ragione
umana un termine privo di significato. Questa concezione ha ricadute teologiche, perché
deve affrontare lo statuto ontologico di Dio: se Dio è incorporeo, non può esistere; se invece esiste, come crede Hobbes, anch’esso deve essere corporeo e materiale. La stessa concezione ha ricadute anche psicologiche, perché l’anima dell’uomo, per esistere, deve essere
ugualmente corporea.
Secondo Hobbes la teoria del cogito di Cartesio attua una deduzione razionale erronea nel
momento in cui essa afferma che l’io dubitante indubitabilmente esistente deve essere una
res cogitans. Hobbes è d’accordo con l’esistenza indubitabile di una cosa che pensa, ma non
ritiene che questa cosa pensante debba essere una sostanza diversa da ogni altro genere di
sostanza: secondo lui la cosa pensante è una cosa materiale come le altre. Ciò che pensa, infatti, può essere senz’altro materiale, cioè corporeo, e non puro pensiero.
Pertanto l’anima umana è una cosa materiale che aziona movimenti nel corpo: se non fosse
materiale, non potrebbe avere alcun contatto col corpo [↦ problema della ghiandola pineale in Cartesio].
1 Il monismo di Hobbes si contrappone naturalmente al dualismo di Cartesio, per il quale invece
esistono due regioni dell’essere: la res extensa (l’estensione materiale) e la res cogitans (il pensiero).
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3.3. L’etica materialista
Poiché le scienze e la filosofia si occupano di oggetti convenzionali che esse hanno inventato, anche l’etica, che riguarda il bene e il male, tratta un campo del tutto soggettivo e arbitrario. Non esistono né un bene assoluto né un male assoluto, ma solo beni e mali relativi
alla situazione e all’individuo che li valuta.
In base tali presupposti, il bene è solo ciò l’individuo desidera, e il male ciò che l’individuo
odia, cosicché il bene verrà ricercato e il male evitato. La ragione allora è soltanto uno strumento volto al conseguimento del maggior bene, cioè del bene maggiormente desiderato, e
ha come fine ultimo solo quello della sopravvivenza dell’individuo.
Quando la ragione appronta diversi progetti alternativi circa l’accrescimento del proprio
bene, ma non sa definire con certezza quale di questi progetti sia il più efficace, allora entra
il gioco la volontà che sceglie più o meno casualmente uno dei progetti razionali.
Da quest’analisi discende che la libertà umana non esiste come libero arbitrio, ma solo
come assenza di impedimenti. La volontà infatti è solo l’interruzione delle incertezze legate
al calcolo delle conseguenze, ma dunque la volontà risulta pur sempre da un calcolo, anche
se non del tutto razionale. Per la volontà non esiste alcun tipo di libertà, perché c’è sempre
una motivazione più o meno razionale alle deliberazioni della volontà: se si può individuare
una qualche causa per la volontà, allora la volontà non è libera.
Hobbes invece parla di libertà solo come libertà di azione, e non come libertà del volere:
se un uomo non è in gabbia, cioè non è ostacolato da una parete, allora è libero.
4. La filosofia politica: il De cive e il Leviatano
Negli intenti di Hobbes il libro intitolato De cive doveva rappresentare una delle tre parti in
cui si sarebbe articolato il suo sistema filosofico: 1. una parte relativa al corpo, 2. una relati va all’uomo, e 3. una relativa al cittadino.
In base a questo disegno la teoria politica riguardante il cittadino doveva essere il corona mento di un’analisi fisica e metafisica sui corpi e in particolare sul corpo umano, seguita da
un’analisi più specificamente antropologica. Fisica e antropologia dovevano fornire i presupposti teoretici per fondare una teoria politica compiuta incentrata sul cittadino.
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Il contesto storico
In realtà Hobbes pubblicò per prima questa terza sezione del suo sistema. La motivazione di questa accelerazio ne dei suoi progetti è rivelata da Hobbes stesso nella seconda prefazione al De cive, dove ammette l’urgenza del
tema politico a causa della situazione inglese: la seconda edizione esce tra il ’47 e il ’48, quando la tensione tra
parlamento e corona era altissima e i protagonisti della scena politica erano i levellers e i diggers.
L’obiettivo del De cive è francamente reazionario, ossia la giustificazione del potere monarchico. Tale giustificazione viene ideata da Hobbes proprio in concomitanza con i vari tentativi di delegittimazione che in Inghilterra
trovavano sempre maggior consenso. Tuttavia la legittimità della monarchia non è difesa a partire da un qualche mandato divino, né è motivata da un qualche intento apologetico, bensì è sostenuta sulla base della sua necessità. Hobbes ritiene che l’unico deterrente capace di scongiurare l’anarchia caotica del «tutti contro tutti»
sia il potere monarchico assoluto.
Dal punto di vista letterario il De cive segna una rottura con la tradizione filosofica precedente, poiché si presenta come un tentativo di fondare una teoria politica scientifica, rigorosa, geometrica, ribadendo così l’adesione di Hobbes al clima della «rivoluzione scientifica».
4.1. Il convenzionalismo in filosofia politica
Come in geometria non possiamo decidere liberamente della validità o della non validità
dei teoremi, allo stesso modo, negli intenti di Hobbes, neanche nelle questioni politiche, se
sono poste in maniera corretta le basi, è possibile fraintendere i concetti-cardine di «giusto»
e di «equo». Tuttavia secondo Hobbes, tanto le regole della geometria quanto quelle della
politica sono convenzionali, cioè poste dall’uomo: ed è proprio per questa ragione che, una
volta accettate le regole, il ‘gioco’ politico dovrà andare in una direzione necessaria.
La concezione della convenzionalità delle scienze si deve applicare anche all’ambito politico, sicché i termini chiave dell’etica e della politica, in quanto indipendenti da un riscontro
reale, vanno considerati solo come nomi imposti in maniera convenzionale, e più precisamente come prescrizioni stabilite da chi comanda e ne pretende l’obbligatorietà.
Per una posizione di questo tipo si parla di «legalismo etico», nel senso di una teoria che
fonda la correttezza di un’azione nel comando che la prescrive, in modo che il bene è ciò
che la legge ordina.
4.2. La natura umana
Grande conoscitore di Tucidide e dei pensatori classici, Hobbes desume proprio da Lucrezio, il quale riprendeva a sua volta Tucidide, la formula per descrivere i ‘normali’ rapporti
tra esseri umani: «homo homini lupus» (l’uomo è un lupo per l’altro uomo). Da un punto di
vista psicologico nella mente dell’uomo prevale l’istinto dell’egoismo che determina le azio10
TOMMASO SCAPPINI – APPUNTI DI STORIA DELLA FILOSOFIA
ni nelle relazioni sociali. Da un punto di vista antropologico la posizioni di Hobbes è radicalmente pessimista, registrando tra gli uomini una competitività estrema e una lotta continua.
L’uomo, immerso nelle relazioni sociali oppure isolato, rimane condizionato dall’egoismo
che determina i suoi pensieri e le sue azioni. Si può afferma che il tratto distintivo della natura umana è secondo Hobbes proprio l’egoismo, al punto da determinarsi come vera e
propria legge di natura.
Il tema della «legge di natura» era diffuso da tempo nel pensiero politico, ma in genere indicava un insieme di contenuti etici e giuridici universalmente condivisi dagli uomini, cioè
naturalmente acquisiti in quanto costitutivi dell’essenza umana. Per Hobbes, invece, le leggi
di natura indicano regole di prudenza, di condotta e di calcolo in sé non-etiche e pre-giuridiche che accomunano ogni uomo entro lo stato di natura.
4.3. Lo stato di natura
Hobbes non è d’accordo con la tradizione politica precedente, ispirata soprattutto ad Aristotele, secondo la quale le società si fondano grazie all’istinto sociale dell’uomo (inteso appunto come «animale politico»). Al contrario, Hobbes ritiene che questo istinto non sia affatto presente nell’uomo e che pertanto, in assenza di un’altra ragione o di una necessità
stringente, l’uomo non sia naturalmente portato ad accomunarsi e ad associarsi.
I prodromi di quello che si chiama «Stato» o, per gli antichi, «polis» non sono le forme associative intermedie (la famiglia, la tribù ecc.), come riteneva la tradizione aristotelica e scola stica, bensì l’unico punto di partenza possibile è l’individuo isolato all’interno di una condizione pre-sociale.
In tale stato pre-sociale o naturale l’uomo non tende alla socievolezza, perché è naturalmente spinto a temere l’altro uomo, in quanto potenziale competitore e nemico entro un
ambiente dalle risorse inevitabilmente limitate. Benché uno stato di natura così connotato
non sia direttamente riscontrabile nella realtà, rimane in ogni caso ipotizzabile e ricostrui bile a partire dalle osservazioni quotidiane sulla psicologia umana.
Inoltre Hobbes tiene in grande considerazione la descrizione della stasis (guerra civile) dell’isola di Corcira, com’è raccontata nella Guerra del Peloponneso di Tucidide: nelle situazioni
in cui il potere politico viene meno e la socialità non appare più conveniente, lo stato di na tura si ripresenta in tutta la sua violenza anarchica.
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4.4. Il «bellum omnium contra omnes»
Egoismo e individualismo paiono gli elementi più primitivi del comportamento umano, in
conformità all’osservazione dei popoli ‘selvaggi’ e delle consuetudini sociali dei meno selvaggi. Lo stato naturale è quindi un’ipotesi molto solida che si manifesta ogniqualvolta il
freno inibitore delle ragioni sociali e civili allenti la sua presa sugli uomini. In altre parole
Hobbes sostiene che al di di sotto della patina ‘urbana’ e garbata delle società moderne cova
sempre l’indole della natura bestialmente umana volta alla sopraffazione e alla lotta2.
Secondo Hobbes lo stato di natura emerge ancora oggi in alcune occasioni marginali:
1. le società primitive non ancora organizzate politicamente manifestano una dimensione prestatale;
2. le situazioni di anarchia e di guerra civile mostrano il caso di una dimensione antistatale;
3. le rivalità economiche, politiche e diplomatiche esistenti tra gli stati indicano una
dimensione agonica interstatale, di per sé ineliminabile.
Queste distinte dimensioni non-statali sono attraversate a diversi livelli dal fenomeno del
bellum omnium contra omnes (la guerra di tutti contro tutti), cioè da una condizione di perenne belligeranza in cui ciascun individuo o ciascuna fazione non gode di piena sicurezza
circa la propria vita e i propri beni. Queste dimensioni infatti rievocano lo stato di natura,
dove ogni individuo vive assecondando solo la propria indole asociale, egoista e violenta,
volta esclusivamente all’autoconservazione e all’accrescimento della propria potenza.
Poiché l’unico fine dell’individuo è conservare la vita e, nei limiti del possibile, accrescere la
potenza come condizione per incrementare le chance di sopravvivenza, e poiché allo stato
brado l’uomo, il cui desiderio è per natura senza limiti, vive entro un ambiente che invece
2 Questa concezione della natura umana, civilizzata solo in parte e un po’ contro la propria inclinazioni, ha suggestionato secoli di cultura moderna. Il pessimismo antropologico di Hobbes influenzò la stesura della Costituzione degli Stati Uniti d’America attraverso le idee dei Padri Fondatori,
ma investe ancora oggi ampi settori della cultura occidentale. Basti pensare alla lunga serie di romanzi che paventano il venir veno dei lacci della civiltà e il ritorno di una condizione semi-barbarica quale risultato della vera essenza dell’umanità [↦ W. Golding, Il signore delle mosche]; oppure, più recentemente, si scorrano i titoli di film più o meno catastrofici in cui le società umane
riguadagnano uno stato pre-civile inteso come ‘naturale’.
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pone dei limiti fisici in fatto di risorse e di spazio, allora non esiste alcun diritto naturale
tranne quello conquistato con la forza e la relazione normale tra uomo e uomo è quella della guerra [↦ Lettura de Il leviatano, § 13].
4.5. Il calcolo della ragione
Lo stato di natura è anche una condizione di paradossale uguaglianza: dal momento che
nessuno gode di alcun diritto, né vige alcuna garanzia, non esiste disuguaglianza, in quanto
tutti vivono nella medesima instabilità e insicurezza. Neanche il forte (che Hobbes esemplifica con la figura biblica di Golia) è esente dai rischi e dalla insidie derivanti dal debole (che
Hobbes esemplifica con la figura di Davide), tanto più che un gruppo di deboli può raggiun gere un accordo temporaneo per eliminare il forte. La spietata competizione miete ugual mente vittime ritenute forti e vittime ritenute deboli.
Tuttavia tra le capacità umane è inclusa anche la ragione, come abilità di calcolo che mira a
escogitare strategie di autoconservazione. La ragione ha diversi livelli di profondità e di applicazione, tutti volti a prescrivere all’uomo le azioni migliori in base al calcolo delle conseguenze. La ragione è in grado di calcolare l’utile secondo prospettive più o meno lontane
nel tempo e nello spazio, prendendo in considerazione catene di nessi causa-effetto più o
meno ampi.
Se la ragione umana si sviluppa così in profondità da cogliere una prospettiva sufficientemente ampia, deve concludere che ciò verso cui ogni suo calcolo tende, cioè l’autoconservazione, è implacabilmente ostacolato dalla stato di natura. Da questa prospettiva, allora, l’azione più efficace per garantire la sopravvivenza è superare tale stato d’insicurezza.
Lo stato di natura non è né buono né cattivo, da un punto di vista etico o metafisico, poiché
non esiste etica o scienza in generale senza una società che individui le definizioni convenzionali su cui accordarsi. Cionondimeno, lo stato di natura è razionalmente un male secondo la logica calcolativa dell’utile: in tale stato infatti la vita è continuamente messa in dub bio e il fine della vita (la sopravvivenza, la prosecuzione della vita) è incerto. Risulta dunque
irrazionale proseguire l’esistenza in uno stato che mette in discussione l’esistenza stessa.
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4.6. La legge di natura
Il principio fondamentale che presiede all’esistenza dell’uomo, così come a quella di ogni
vivente, è la ricerca spasmodica della sopravvivenza. Egoismo e individualismo sono manifestazioni di questa legge di natura, allo stesso modo in cui ne è espressione anche lo stato
di natura. Tuttavia la legge di natura, che prescrive la conservazione a ogni costo, sprona la
ragione umana, che è una facoltà messa a disposizione dell’uomo per adempiere alla legge
stessa, a escogitare una strategia per conservare al meglio la vita dell’individuo.
In questo senso la legge di natura diventa incompatibile con lo stato di natura, perché il comando della sopravvivenza risulta disatteso dalla permanenza nello stato del «tutti contro
tutti». Ogni strategia razionale, infatti, appare inefficace entro la stato naturale e richiede
pertanto l’abbandono di questo stato.
Nello stato di natura vige l’uguaglianza del diritto, poiché tutti hanno diritto a tutto nella
stessa misura e senza vincoli. Ma la legge naturale riconosce attraverso la ragione che que sto diritto di tutti a tutto è un ostacolo al fine dell’autoconservazione, perché genera necessariamente lotte e dissidi fatali.
La conseguenza più razionale entro questa situazione contraddittoria è l’adempimento di
una legge naturale fondamentale, elaborata dalla ragione in base all’esame dello stato di natura. La prescrizione della legge è la seguente:
•
ricercare la pace in ogni occasione;
•
se ciò non porta a risultati, cercare alleanze per la guerra.
A partire da questa legge fondamentale di natura, Hobbes ricava secondo una deduzione
geometrica altre venti leggi. Ogni legge, fondamentale o dedotta, risulta sempre da un calcolo razionale utilitaristico, che diventa prescrizione mirante al fine indiscusso dell’autoconservazione.
Per esempio, una delle leggi dedotte prescrive di abbandonare il diritto di tutti a tutto, come
unica possibilità per evitare nell’immediato la guerra. Un’altra legge dedotta afferma che
pacta sunt servanda (i patti vanno mantenuti), poiché il loro mancato rispetto genera una situazione d’instabilità e d’insicurezza deleterie per la sopravvivenza degli individui [↦ Lettura de Il leviatano, § 14].
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4.7. Il superamento dello stato di natura
Nonostante la deduzione razionale delle leggi di natura, e nonostante la maggior parte degli
individui sappiano dedurre razionalmente queste leggi, la legge di natura nel suo complesso
è di difficile osservazione all’interno dello stato di natura.
In tale stato, infatti, non c’è alcuna garanzia che ogni individuo implicato osservi questa
legge: siccome l’obbedienza alla legge di natura è in primo luogo un’autolimitazione che
l’individuo impone al proprio desiderio e al proprio diritto di natura, essa è in un primo
momento sconveniente per l’individuo che la rispetta (cede il suo diritto a tutto), ma virtualmente conveniente sul lungo periodo (ha più chance di sopravvivere). Al tempo stesso
però, nella situazione di ipotetico rispetto generalizzato, risulta vantaggioso per il singolo
non rispettarla: in tal modo non paga il prezzo dell’autolimitazione ma gode dei vantaggi
che il rispetto della legge da parte degli altri comporta3.
3 La filosofia politica e morale del XX secolo ha studiato molto a fondo questi problemi, esaminando il «caso del free rider» e il «dilemma del prigioniero». (A) Il problema del free rider impone
di riflettere sul caso esemplificato dall’obbligo razionale oppure irrazionale di pagare il biglietto
per un mezzo pubblico: è razionale (nel senso di calcolo dell’utile) o irrazionale sborsare il prezzo
del biglietto, considerato che l’autobus o il treno passa ugualmente? La regolarità del servizio
pubblico naturalmente è garantita dalla vendita dei biglietti: se nessuno pagasse il biglietto, il servizio cesserebbe d’esistere. Tuttavia il free rider (colui che viaggia gratis) è un singolo individuo
che nella situazione di generale rispetto del pagamento si sottrae all’esborso della somma per il
viaggio. (B) Il dilemma del prigioniero, invece, ipotizza questa situazione: due prigionieri complici
di un medesimo crimine sono tenuti separati e interrogati, uno all’oscuro delle scelte dell’altro;
essi infatti si trovano di fronte a due sole possibilità, confessare oppure non confessare. [1] Se A
confessa e B non confessa, A viene liberato mentre B è condannato a moltissimi anni di prigione;
[2] se A confessa e B confessa sono condannati entrambi a molti anni di prigione; [3] se né A né
B confessano, sono condannati entrambi a pochi anni di prigione. Il dilemma di ciascun prigioniero consiste nell’essere all’oscuro della scelta del complice, poiché la situazione migliore per cia scuno sarebbe la propria confessione e il silenzio del complice. Ma come essere certi che il complice non confessi? Infatti se entrambi confessano sono condannati a molti anni di prigione, mentre se non confessano sono condannati solo a pochi anni di prigione.
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Tutto ciò comporta che nello stato di natura la legge di natura sia violata molto facilmente
e molto di frequente, non potendo garantire una sicurezza d’ottemperanza tale da salvaguardare la vita dell’individuo. Per questa ragione, secondo Hobbes, è necessaria un’istituzione che obblighi tutti all’osservanza delle legge: se infatti qualcuno è libero di non osservarla, come accade nello stato di natura, essa è di fatto nulla.
L’uomo non è adatto alla vita in società, ma il calcolo razionale gli mostra i vantaggi oggettivi derivanti dall’associazione in una res publica o in un Commonwealth. Le società si formano allora per convenzione, sottoscrivendo un contratto o un patto tra un certo numero di
contraenti che decidono di uscire dallo stato di natura.
Dallo stato di natura allo Stato civile
stato di natura
↓
bellum omnium contra omnes
↓
diritto di tutti a tutto
↓
alleanze di convenienza
↓
alto tasso di mortalità
→
→
→
→
→
legge di natura
↓
prescrizioni razionali
↓
abbandono dei diritti naturali
↓
pacta sunt servanda
↓
sottoscrizione di un patto sociale
↓
res publica = Stato civile
⇒
rispetto delle leggi di natura
basso tasso di mortalità
pace duratura
4.8. Il patto sociale
L’origine della società e dello stato va cercata quindi nella ricerca razionale di una strategia
efficace contro l’insicurezza dello stato di natura. Il patto sociale che ne deriva istituisce
una realtà innaturale, ossia artificiale, che è chiamata «Stato». I contraenti di questo patto
sono i singoli individui che accettano di rinunciare ai loro diritti naturali per ottenere la garanzia di una pace duratura. La pace è garantita dal rispetto delle leggi di natura, ma il rispetto delle leggi di natura non è garantito entro lo stato di natura, pertanto occorre l’apparato statale che costringa al loro rispetto.
Affinché sia istituita un’organizzazione civile di questo tipo, occorre che:
1) tutti gli individui cedano simultaneamente i loro diritti naturali,
2) si uniscano così in una società,
3) deleghino a un individuo terzo, non contraente il patto, il loro ius in onmia (il diritto
a tutto).
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Queste azioni, che devono avvenire contemporaneamente, sono raggruppate da Hobbes nella stipula di un unico contratto detto «pactum unionis». Questo patto implica al suo interno due patti distinti, il pactum societatis e il pactum subiectionis: il patto di unione è un
patto di società perché nello stato di natura non esistono società e pertanto è necessario un
contratto, cioè un accordo, che accomuni i contraenti in una società artificiale; inoltre il
patto di unione è anche un patto di soggezione perché ogni individuo, associandosi, rinun cia al suo ius in omnia delegandolo a un terzo con cui contrae un obbligo di obbedienza.
4.9. Il potere assoluto
Il terzo a cui i contraenti delegano il loro diritto a tutto è un sovrano, rappresentato da un
singolo oppure da un’assemblea. Tale istituzione possiede ogni diritto necessario a mantenere la sicurezza, ossia ha potere su tutti e su ogni ambito (economico, esecutivo, legislativo, giudiziario, poliziesco ecc.). Il sovrano è l’unico all’interno della società a non cedere lo
ius in omnia, e anzi riceve su di sé lo ius in omnia di tutti gli associati: solo così può garantire a ciascuno la sicurezza e quindi l’autoconservazione.
Il sovrano diventa perciò l’istituzione che nello stato di natura mancava affinché la legge di
natura fosse osservata universalmente. Il timore della punizione da parte del sovrano costringe gli individui a seguire la razionalità della legge naturale.
La sovranità del sovrano o dell’organo sovrano è (a) irrevocabile, per due ragioni:
1. dal momento che la delega di ogni diritto al sovrano è stabilita dal patto unanime di
unione, occorrerebbe un’unanimità del medesimo tipo per revocare tale delega, ma
in tal caso verrebbe meno il patto di unione stesso;
2. inoltre il patto di unione non è solo una rinuncia volontaria ai diritti dei singoli
contraenti, ma è anche la stipula di un contratto, il patto di soggezione, in favore
del sovrano, che quindi non può essere più destituito senza il suo consenso.
Inoltre la sovranità del sovrano è anche (b) assoluta: gli individui infatti trasferiscono integralmente il proprio ius in omnia al sovrano, di conseguenza non conservano alcun tipo di
diritto, eccetto il diritto alla vita di per sé inalienabile. Il potere deve essere assoluto per due
ragioni:
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1. affinché nessuno possa resistere alla sua opera di pacificatore e di stabilizzatore nei
confronti di una situazione di precarietà → solo così sono garantiti quei diritti che
il sovrano concede, e nessun altro può revocarli;
2. inoltre il sovrano è assoluto, cioè legibus solutus (svincolato dalle leggi), perché è
egli stesso l’origine delle leggi civili dello stato, e dunque nessuna legge ha valore
effettivo su di lui, né esiste alcune entità che possa obbligarlo.
Nella difesa dell’assolutismo Hobbes non è affatto in sintonia con la tradizione inglese del
suo tempo, che invece, contro lo strapotere degli Stuart, difendeva il common law, cioè la
legge consuetudinaria, espressione delle posizioni parlamentari. Secondo Hobbes, però, non
ha senso che la legge consuetudinaria limiti l’assolutezza del sovrano, il quale è l’unica fon te del diritto e della legalità: se non ci fosse il sovrano, la legge consuetudinaria non avrebbe alcun valore [↦ Lettura de Il leviatano, § 17].
4.10. La giustizia
Secondo Hobbes la legge è solo «l’insieme delle parole enunciate da chi comanda». In base
a questa definizione la legge naturale non è una vera e propria legge normativa, perché nello stato di natura non c’è nessuno che riesca davvero a comandare sugli altri. Il compito del
sovrano è proprio rendere normativa la legge di natura attraverso le leggi civili.
Inoltre, poiché la ragione, fondata nella legge di natura, non fornisce alcun criterio circa il
bene e il male, ma solo regole utilitaristiche circa il conveniente e lo sconveniente, i concetti
di Bene e di Male sono di esclusiva pertinenza del sovrano, il quale quindi definisce il giusto e l’ingiusto. In definitiva, l’azione buona e giusta è quella che il sovrano comanda, l’azione cattiva e ingiusta è quella che il sovrano vieta4.
Anche il sovrano però, a cui gli individui delegano i loro diritti, ha un dovere ben preciso:
mirare alla conservazione della vita dei sudditi. Il patto di unione era stipulato proprio con
questo fine. Lo Stato dunque, incarnato e rappresentato dal sovrano, non è fine a se stesso.
4 Si può notare qui un’applicazione del volontarismo, tipico della concezione teologica scolastica, al
campo della politica. Per il volontarismo il Bene è soltanto ciò che Dio vuole, mentre il Male è ciò
che Egli vieta. Parallelamente, Hobbes sovrappone questa concezione all’ambito politico, sostituendo il sovrano a Dio e definendo come Bene ciò che il re comanda e come Male ciò che egli
proibisce.
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Tuttavia il dovere del sovrano non viene onorato in una sola occasione, che costituisce anche l’unico motivo per cui il suddito potrebbe legittimamente rifiutare il sovrano e non ob bedirgli: qualora il sovrano metta in pericolo la vita del suddito.
Il suddito, infatti, ha accettato il patto di unione (di società e di soggezione) con l’unico fine
di migliorare le chance di sopravvivenza e di sicurezza, ma se il risultato dell’alienazione dei
suoi diritti naturali a favore del sovrano e dello stato si traduce, per un qualche motivo, in
una condizione ancora peggiore dello stato di natura, allora non c’è ragione (cioè conve nienza o utilità) per il suddito di obbedire alle leggi civili e al sovrano. Nondimeno, secondo
Hobbes, questa situazione si presenta assai di rado, quando, ad esempio, un suddito è condannato a morte. In tal caso egli non ha alcuna motivazione razionale per obbedire; ma in
ogni altra situazione le costrizioni statali, anche se ritenute ingiuste, sono preferibili allo
stato di natura.
4.11. Il Leviatano
Con la pubblicazione nel 1651 del Leviatano, nome che designa un dragone marino mitologico o un mostro generato dal caos primigenio 5, Hobbes perfeziona la sua concezione dello
Stato. L’essere mostruoso indicato col termine «Leviatano» rappresenta la potenza smisurata e tremenda dello Stato, che incarna così una specie di divinità terrena a cui tributare la
propria riverenza.
Hobbes mostra anche in questo scritto la necessità dell’obbedienza allo Stato, stavolta sotto
forma di terrore nei confronti dello Stato-Leviatano, ma ora il metodo geometrico e rigoroso del De cive viene sostituito dalla forma retorica di immagini forti e letterarie: ne è un
esempio l’ultima sezione intitolata «Il regno delle tenebre». In questa sezione Hobbes scredita la filosofia, la metafisica e la religione nella misura in cui rimangono legate a una mentalità magica e rituale, cioè ai temi fasulli delle essenze e delle entità astratte di cui nessuno ha
mai avuto esperienza.
Il Leviatano fu scritto in inglese e non in latino, a differenza del De cive, indicazione questa
del pubblico a cui Hobbes intendeva destinare il suo scritto, cioè non più solo ai filosofi e
agli addetti ai lavori, ma a un uditorio più vasto da convincere e da mobilitare entro il pa norama politico inglese dei primi anni ’50, ossia nell’Inghilterra di Cromwell.
5 Il «Leviatano» è un mostro citato più volte nella Bibbia: cfr. Salmi, 104,25; Isaia, 27,1; Giobbe, 40,25
– 41,26. La versione di Hobbes è quella di Giobbe, il quale parla del Leviatano come di un mostro
terrorizzante, di fronte a cui nessuno sa restare fermo o opporsi.
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4.12. Il sovrano
Se lo Stato è il Leviatano, il suo potere è necessariamente unico, indivisibile, non ripartibile
tra diverse istituzioni. Questa idea è in linea con la concezione assolutistica della monarchia
sostenuta da Hobbes, e contraria invece alla monarchia parlamentare inglese, in cui i diversi poteri non risiedevano in una sola persona, ma erano suddivisi tra monarchia, corti e parlamento.
La monarchia non può accettare la divisione dei poteri, perché altrimenti diminuirebbe le
garanzie date alla pace sociale: infatti, nel caso in cui i diversi organi di potere siano tra
loro in disaccordo, diventa probabile una guerra civile, che è proprio quanto si intendeva
scongiurare con la formazione dello Stato. Al contrario, il potere deve essere demandato a
un unico organo, o meglio ancora, a un’unica persona, tale che sia meno facile un dissidio
intestino.
Ugualmente, secondo Hobbes, non c’è ragione di assegnare al parlamento le competenze fiscali inerenti alla tassazione, poiché accettare ciò significherebbe pronunciarsi a favore della dissoluzione dello Stato: è evidente che chi gestisce i soldi detiene di fatto il potere, il
quale dunque risulta ancora pericolosamente diviso tra re e parlamento.
Inoltre il diritto di proprietà non esiste nello stato di natura ma solo all’interno delle garanzie fornite dalla società: ma se la stabilità dello Stato è a sua volta assicurata soltanto dal
potere e dalla sovranità assoluti del re, allora nessun altro all’infuori del re potrà disporre
delle proprietà dei suoi sudditi, poiché senza di lui nessuno possederebbe nulla. Pertanto
solo il re ha diritto di tassare a sua piacimento, persino secondo il suo capriccio – dal momento che l’alternativa, cioè l’assenza di un re e dello Stato, sarebbe comunque peggiore.
4.13. Il potere religioso
Naturalmente lo Stato nella figura del sovrano non è subordinato al potere religioso, e anzi
è inaccettabile l’esistenza di un potere religioso distinto da quello civile: infatti, in caso di
contrasto, il dissidio genererebbe instabilità. È invece lo Stato a doversi addossare le questioni religiose. In particolare, il sovrano deve stabilire quali sono i libri canonici della Scrittura, qual è il loro senso autentico, quali leggi religiose sono legittime, e così via.
Inoltre il potere ecclesiastico non può arrogarsi alcun potere terreno dato che «il regno di
Dio non è di questo mondo». L’unica funzione del clero può essere quella d’insegnamento e
di educazione spirituale. La ragione di Stato prevale sempre sulle questioni di fede, poiché
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nel momento del pactum unionis l’individuo trasferisce al sovrano anche il diritto di stabilire le modalità del culto, in modo che le leggi religiose volute dal re sono leggi obbliganti
come tutte le altre leggi.
Per queste regioni non può sussistere all’interno dello Stato alcuna libertà religiosa o pluralità di culti, a causa delle dispute e degli odi che verrebbero a crearsi, minando così la sicurezza e il vantaggio dello Stato. Le sette religiose, infatti, esercitano un’azione disgregatrice
nei confronti dell’unità dello Stato e non vanno quindi tollerate. In ogni caso il suddito non
ha motivo di opporsi allo Stato per motivi religiosi, poiché secondo Hobbes la fede non ha
nulla a che fare con la professione, cioè con l’obbedienza esterna a un credo. La fede rimane
personale e inalienabile, mentre la professione è di totale pertinenza dello Stato.
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