PSICONCOLOGIA Diagnosi e definizioni Quando basta la parola per influenzare la cura Studi recenti dimostrano che quando si sceglie di chiamare cancro una forma precancerosa (quindi potenzialmente, ma non sicuramente pericolosa) si cambia anche l’approccio alla cura e le scelte del paziente. La chiave, però, resta nel rapporto col medico a cura di AGNESE CODIGNOLA è una contraddizione profonda che attraversa l’idea di tumore presente nella società: da una parte, infatti, è esperienza comune conoscere persone che ce l’hanno fatta, che hanno superato la malattia o che l’hanno trasformata in una patologia cronica, con la quale convivere serenamente, e pensare quindi che tumore non sia più sinonimo di morte certa, come la realtà dimostra. Dall’altra, tuttavia, la parola cancro evoca ancora timori quasi atavici e spinge chi riceve una diagnosi, magari di una forma molto iniziale o di non certa malignità, a intraprendere percorsi fatti di approfondimenti e di terapie non sempre indispensabili. Tutto questo porta inevitabilmente a un eccesso di dia- ’ C gnosi e trattamenti, con indubbie conseguenze negative per tutti: per i malati, che possono andare incontro a effetti collaterali talora molto pesanti, a errori, a rischi di vario genere, oltreché a un carico di stress non sopportabile agevolmente da tutti i pazienti, ma anche per i sistemi sanitari, che rischiano di disperdere risorse preziose in esami e cure che si potrebbero destinare a malati che ne hanno più bisogno. IL NOME FA LA PAURA Partendo dalla constatazione che la medicina moderna spinge sempre più in questa direzione, un gruppo di lavoro del National Cancer Institute statunitense poche settimane fa ha pubblicato su JAMA un documento nel quale propone di cambiare nome alle forme iniziali e potenzialmente non pericolose di “cancro”, definendole IDLE, da Indolent Le- sion of Epithelial Origin (lesione indolente di origine epiteliale), ma anche gioco di parole con Idle, che in inglese significa “minimo”. Secondo gli autori, la parola “cancro” dovrebbe essere usata soltanto per descrivere lesioni che, presumibilmente, se non trattate possono progredire e creare gravi problemi. Non tutti i membri più autorevoli dell ’A m e r i c a n Society for Clinical Onc o l o g y (ASCO), la più importante organizzazione di oncologi statunitensi, e punto di riferimento per il mondo intero, approva la proposta: secondo alcuni, infatti, un declassamento delle lesioni iniziali potrebbe portare almeno una parte dei malati a sottovalutare la situazione e a non aderire a eventuali programmi di cura o anche solo di osservazione attenta e regolare dell’andamento della malattia. RESPONSABILITÀ MEDICA Tra gli scettici si inserisce anche Michele Maio, direttore dell’Unità operativa di immunoterapia dei tumori dell’Ospedale Santa Maria alle Scotte di Siena: “In medicina è indispensabile chiamare le cose con il proprio nome. Modificare la terminologia non serve e, anzi, può essere controproducente. Il medico ha il dovere di esporre al paziente la situazione reale, senza forzature. In altre parole, spetta a noi non creare eccessivi allarmi, ma neppure nascondere la realtà e i pericoli connessi alla malattia. È essenziale esporre la condizione clinica con chiarezza, con parole Il medico è tenuto a spiegarsi con chiarezza GENNAIO 2014 | FONDAMENTALE | 7 PSICONCOLOGIA Diagnosi e definizioni semplici e comprensibili, essendo pronti a rispondere a tutte le domande che vengono poste, e poi prospettare le diverse opzioni terapeutiche, senza tralasciare ovviamente le possibili o probabili conseguenze negative delle cure e senza dimenticare di illustrare i diversi scenari connessi alle scelte differenti. Ciò naturalmente non significa consigliare ogni possibile approfondimento o cura: ciascun paziente va motivato a seguire il giusto programma, cercando sempre di evitare esami o cure inutili o ripetitive”. Quello che conta, in altre parole, per Maio, non è tanto la terminologia utilizzata per descrivere le forme iniziali, ma la completezza e la chiarezza dell’informazione trasmessa, ineludibili se si vuole consentire al paziente di scegliere consapevolmente. Questa posizione di fondo è rafforzata poi da una constatazione di carattere prettamente clinico: “Oggi, purtroppo, non disponiamo di tutti gli strumenti necessari a identificare con chiarezza la natura di una neoplasia. Sud- In questo articolo: definizioni psicologia rapporto medico-paziente dividiamo le lesioni in base al responso dell’anatomopatologo, ma non possiamo dire, tranne che in casi molto limitati, se il tumore che abbiamo davanti si evolverà in un modo piuttosto che in un altro. Per questo non possiamo correre il rischio di sottovalutare nessuna lesione. E per questo dobbiamo intensificare gli sforzi per giungere quanto prima a disporre di marcatori molecolari o di altra natura che ci forniscano delle certezze in merito”. Questo sembra dunque essere il vero problema, che in molti stanno cercando di risolvere. Lo stesso Maio, anche grazie ai fondi ottenuti da AIRC, ha già pubblicato uno studio in cui dimostra che nel melanoma la presenza di un piccolo gruppo chimico, il metile, nel DNA delle cellule malate, è associata a una prognosi peggiore rispetto a quando le stesse cellule, in un altro pazien- te, non sono metilate. In questa direzione si stanno muovendo molti gruppi di studio, proprio perché il punto fondamentale è riuscire a prevedere l’andamento di un tumore prima di prendere qualunque decisione terapeutica. IL PESO DELLA PAROLA Più favorevole a un cambiamento lessicale è invece Gemma Martino, per 30 anni coordinatrice di gruppi di informazione e psicologia della Forza operativa nazionale sul carcinoma mammario (FONCaM), docente della Scuola italiana di senologia (SIS) diretta da Umberto Veronesi e autrice, insieme a Hubert Godard, dell’Université de Paris VIII di Saint Denis, del libro Il disagio in senologia oncologica appena uscito e dedicato a questi temi, in particolare in ambito senologico. Secondo Martino infatti “quando una donna inizia, suo malgrado, l’iter diagnostico-terapeutico, possiede già un bagaglio di informazioni verbali e di altro tipo ricevute nel corso della vita. Le più toccanti sono quelle ricevute nella relazione con amiche, madri, sorelle, zie, passate attraverso l’esperienza dei diversi andamenti della malattia al seno. La malattia dell’altra dà corpo all’idea che si può guarire, convivere e a volte morire di tumore al seno. Ma di certo la storia delle altre non è sovrapponibile i n senso né positivo né negativo: ogni persona ha la propria convinzione e ogni neoplasia al seno è diversa per tipologia e reattività”. La donna e in generale il paziente non giungono dunque mai totalmente ignari all’incontro con la malattia, e già questo può determinare reazioni molto diverse tra per- NON SONO TUTTI UGUALI sona e persona. Poi giunge la diagnosi: “La donna riceve la conferma diagnostica per gradi e in forme diverse. A volte le diagnosi scritte hanno sigle strane, con descrizioni prolisse e poco chiare; gli operatori di frequente usano perifrasi e percentuali; i referti a volte sono consegnati in modo anonimo e frettoloso. Non solo: il linguaggio impiegato è ancora legato a un retaggio di pessimismo, incongruo rispetto a quanto affermano gli stessi medici, e i referti anatomo-patologici, radiologici, clinici sono infarciti di frasi stereotipate che sottolineano inutilmente la gravità diagnostica. Per esempio, il termine “maligno” è abbinato a “tumore” per indicare che questa patologia può ripresentarsi a distanza di tempo e di luogo. Questa specificazione inutile potrebbe essere rimossa, evitando di usare il termine “tumore” per le patologie benigne e lasciandolo solo per le lesioni “maligne”. TERMINI DA CAMBIARE Esistono tra l’altro parole alternative spesso più accurate e specifiche: “Il termine carcinoma” prosegue Martino “non è sinonimo del generico cancro o tumore maligno. È un termine anatomo-patologico che indica cellule neoplastiche che originano dai tessuti epiteliali. Unito ad altre parole (per esempio duttale, lobulare) ci dà l’indicazione più specifica della sede dove il tumore nasce e si sviluppa. Ancora: le espressioni carcinoma duttale in situ – DCIS o lobulare in situ – LCIS, definite anche come “cancro allo stadio zero” (quasi una contraddizione in termini) andrebbero cambiate, in quanto indicano la pre- senza di cellule anomale nei dotti o nei lobuli a rischio di divenire cancro, ma non ancora tali”. Il cambiamento – precisa la senologa – sarebbe non di piccola entità: almeno un quinto delle lesioni osservate nelle mammografie di screening sono DCIS o LCIS. Ma secondo Martino, più in generale, tutta la terminologia andrebbe rivista: “Si pensi, per esempio, alla parola sopravvivenza: non si sopravvive, si vive. È uno scandalo semantico e rende incoerenti le informazioni riguardo alla guarigione, alla riduzione della mortalità e alla qualità di vita usate in abbondanza nelle campagne di educazione sanitaria per aderire allo screening”. Ci sarebbe insomma moltissimo da fare, per rendere il cancro una malattia non solo meno temuta, ma anche vissuta e raccontata con maggiore adesione a quella che oggi è la realtà clinica, anche se non basta certamente modificare le parole per cambiare un approccio culturale consolidato da decenni. Conclude Martino: “La proposta di sostituire la parola ‘tumore’ con ‘neoplasia’ è una delle soluzioni prospettate, ed è stimolante, ma il percorso è più complesso. Si tratta, per i medici, di articolare l’intera diagnosi con espressioni che siano coerenti, senza nascondere il proprio sentimento di gravità e anche la propria speranza nelle terapie”. La strada da percorrere è insomma ancora lunga, e vede nel rapporto tra medico e paziente il cardine di un corretto approccio a una malattia che, pur essendo grave, può e deve essere affrontata con la razionalità che solo la consapevolezza assicura. Per alcuni più che le parole contano i fatti I TUMORI PIÙ A RISCHIO DI SOVRADIAGNOSI E SOVRATRATTAMENTO ia via che le tecniche diagnostiche si affinano e che i programmi di screening di popolazione entrano a far parte della routine dei controlli cui molti cittadini si sottopongono aumenta anche il numero di lesioni piccolissime, a volte di pochi millimetri, identificate. Alcune di queste vengono trattate come malattie conclamate e rientrano in quelle che gli esperti dell’OMS chiamano sovradiagnosi: diagnosi eccessivamente preoccupanti che portano, di conseguenza, a trattamenti inutilmente aggressivi. V Mammella: i tumori duttali o lobulari in situ sono tra le forme più spesso identificate nelle campagne di screening. Secondo diversi senologi non andrebbero operati ma osservati perché in molti casi non sono destinati a evolvere. Ma lo strumento diagnostico per capire quando è veramente così non esiste ancora. Per questo molti altri esperti propendono per un trattamento tempestivo. Prostata: il dosaggio dell’antigene prostatico specifico o PSA ha fatto aumentare in tutto il mondo le diagnosi ma non ha modificato la mortalità. Molto spesso un valore di PSA alterato spinge il paziente a sottoporsi a interventi e cure che non sarebbero necessarie perché il tumore, quando presente, è a crescita molto lenta e a bassa malignità. Per questo da anni si cercano alternative convincenti al test del PSA. Polmone: l’introduzione della TC spirale ha permesso di abbassare il diametro delle lesioni visibili. Tuttavia secondo molti anche in questo caso si tratta di formazioni in molti casi non pericolose, il cui trattamento apporta più effetti negativi che reali benefici. Le linee guida sono quasi tutte concordi nel consigliare questo tipo di test solo ai forti fumatori e non alla popolazione generale. Tiroide: stando ai numeri si potrebbe pensare che in tutto il mondo sia in atto un’epidemia di tumori tiroidei: le diagnosi sono in rapido aumento. Questo accade perché oggi si scoprono formazioni nodulari anche di due millimetri che spesso sono tumori a crescita lentissima, ma per trattare i quali i pazienti vengono sottoposti a terapie anche molto invasive e quasi sempre a una tiroidectomia, un intervento costoso e non privo di conseguenze negative quali l’abbassamento del calcio e il danno ai nervi. Ancora una volta, per contenere gli eccessi si cerca di trovare un marcatore di sicura malignità che aiuti a compiere scelte ragionate. GENNAIO 2014 | FONDAMENTALE | 9