Solidarietà 62 - Settimane Sociali

Solidarietà
Quadrimestrale
della Fondazione “Alessia” Istituto Euromediterraneo per la Formazione,
Ricerca, Terapia e lo Sviluppo delle Politiche Sociali
Anno XXIV Gennaio - Aprile 2010
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Sociale dei Cattolici Italiani - Regg
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Direttore Responsabile
Vincenzo Sorce
Coordinatore
Luigi Bontà
Comitato di redazione
Calogero Caltagirone, Giovanna Garofalo, Carmelina Gulino, Calogero Iacolino,
Giuseppe Lanza, Antonia Rosetto Ajello, Luigi Bontà
Redazione
Istituto Maddalena Calafato
Via Maddalena Calafato, 12 - 93100 Caltanissetta
Tel. 0934.585063 - Fax 0934.543841
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ordinario € 25,00 - sostenitore € 100,00 - un numero € 10,00
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intestati alla Fondazione “Alessia” - Istituto Mediterraneo per la Formazione, Ricerca,
Terapia e Psicoterapia (specificare la causale)
Reg. Tribunale di Caltanissetta n. 112 del 30 Marzo 1987
Sommario
Prefazione
5
Mauro Buscemi, Le settimane sociali dei cattolici tra antico e moderno:
il ruolo di Giuseppe Toniolo
7
Luigi Bontà, Uno strumento a servizio della Chiesa. Le Settimane sociali
in Sicilia tra memoria e speranza
29
Luigi D’Andrea, Il principio di sussidiarietà tra radice personalistica
e funzione conformativa del sistema normativo
55
Giuseppe Lanza, La reciprocità nell’economia e nella politica
73
Diego Lana, Creare valore nel proprio territorio
89
Antonia Rosetto Aiello, Superare la paura di riaprirsi all’altro:
educare alla fiducia e alla corresponsabilità per costruire una società inclusiva
105
Alessandra Tigano, Educare al riconoscimento culturale
131
Fedele Termini, L’evoluzione del marketing turistico in marketing relazionale
e turismo relazionale integrato
151
Appendice
Documento preparatorio per la 46ª Settimana sociale dei cattolici italiani
169
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olidarietà
62/2010
Prefazione
Vincenzo Sorce
La celebrazione della 46ª Settimana sociale dei cattolici italiani che si
terrà a Reggio Calabria, dal 14 al 17 ottobre 2010, ha offerto l’occasione
all’associazione «Casa Famiglia Rosetta», nata a Caltanissetta all’inizio degli
anni ’80 a servizio dei nuovi poveri con centri operativi spirituali, culturali e sociali presenti in Europa, America latina ed Africa, di offrire un contributo di riflessione a più voci mediante la rivista «Solidarietà», edita dalla
propria fondazione «Alessia-Istituto Euromediterraneo per la formazione,
la ricerca, la terapia e lo sviluppo delle politiche sociali». L’Associazione e
la Fondazione si inseriscono nel solco della storia sociale dei cattolici italiani e ne esprimono la creatività attuale e feconda nel Meridione d’Italia da
sempre laboratorio di innovazione sul piano culturale, ecclesiale, sociale a
servizio del bene comune:
è il bene di quel “noi-tutti”, formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale. Non è un bene ricercato per se
stesso, ma per le persone che fanno parte della comunità sociale e che solo
in essa possono realmente e più efficacemente conseguire il loro bene. Volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità.
(Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 7)
La nostra riflessione si colloca di fronte all’«agenda di speranza per il
futuro del paese». Questo è il senso degli interventi, questo è l’apporto che
vogliamo dare come atto d’amore responsabile alla Chiesa e al Paese.
5
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olidarietà
62/2010: 7-28
Le settimane sociali dei cattolici
tra antico e moderno:
il ruolo di Giuseppe Toniolo
Mauro Buscemi
1. Tra due epoche della storia: mediazioni e trasformazioni
Le Settimane sociali dei cattolici italiani prendono avvio, nel 1907, sull’ispirazione di un’analoga iniziativa intrapresa dai cattolici francesi nel
1904, anno in cui a Lione si tiene la prima Semaine Sociale. Giuseppe
Toniolo, che in quel periodo riveste l’ufficio di presidente dell’Unione
popolare, se ne fa promotore per ridare impulso culturale e organizzativo
alla presenza sociale dei cattolici italiani in un momento storico difficile
sotto molti profili, perché è segnato dallo scioglimento nel 1904 dell’Opera dei Congressi, dallo spaesamento provocato dalle polemiche moderniste,
dalla sempre più diffusa volontà di inserimento dei cattolici nella vita politica nazionale.1 Si può senz’altro dire che la bio-bibliografia intellettuale di
1 La biografia intellettuale di Giuseppe Toniolo (1845-1918) denota una significativa coerenza teorica. Ciò è dimostrato, in particolare, dall’opera di revisione dello statuto scientifico della sociologia come
sintesi delle scienze sociali e come dottrina dell’incivilimento, dalla concezione della democrazia d’ispirazione cristiana, dall’impostazione di una scienza economica sui legami etici e solidali originati dal valore
della persona umana. Questi aspetti si rendono manifesti nella sua attività didattica, che conduce, tra l’altro, reggendo per un quarantennio la cattedra di Economia politica all’Università di Pisa e permanendo
per lungo tempo al vertice del movimento cattolico italiano. Per approfondimenti sulla bio-bibliografia
tonioliana si vedano, tra quelli pubblicati nel corso di quasi un secolo, gli studi di E. DA PERSICO, La vita
di Giuseppe Toniolo, prefazione del Card. P. Maffi, Gruppo Buona Stampa, Mantova 1928; F. VISTALLI,
Giuseppe Toniolo, Comitato Giuseppe Toniolo, Roma 1954; La figura e l’opera di Giuseppe Toniolo, Vita
e Pensiero, Milano 19682; E. GUCCIONE, Cristianesimo sociale in Giuseppe Toniolo, Ila Palma, PalermoSão Paulo 1972; A. ARDIGÒ, Toniolo: il primato della riforma sociale. Per ripartire dalla società civile, Cappelli, Bologna 1978; P. PECORARI, Giuseppe Toniolo e il socialismo. Saggio sulla cultura cattolica tra ’800 e
’900, Pàtron, Bologna 1981; ID., Toniolo Giuseppe, in F. TRANIELLO-G. CAMPANINI (direttori), Dizionario
storico del movimento cattolico in Italia 1860-1980, II. I Protagonisti, Marietti, Casale Monferrato 1982,
636-644; ID., Toniolo. Un economista per la democrazia, Edizioni Studium, Roma 1991; D. SORRENTINO,
Giuseppe Toniolo. Una Chiesa nella storia, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1987; ID., L’economista di
Dio. Giuseppe Toniolo, Editrice AVE, Roma 2001; ID., La figura di Giuseppe Toniolo, in M. SIMONE (a cura
di), Il bene comune oggi: un impegno che viene da lontano, Atti della 45ª Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, Edizioni Dehoniane, Bologna 2008, 53-68; R. MOLESTI (a cura di), Giuseppe Toniolo. Il pensiero e
l’opera, prefazione di D. Sorrentino, Franco Angeli, Milano 2005, in cui è contenuta una «bibliografia
essenziale» dei contributi dedicati al pensatore trevigiano curata da A. De Vido (279-293).
7
Solidarietà 62/2010
Toniolo si intreccia con la storia complessiva del movimento cattolico tra
Otto e Novecento, da lui portata avanti attraverso il costante e leale riferimento alla parola pontificia di Leone XIII, Pio X e Benedetto XV, come si
evince tanto dall’accoglimento delle encicliche leoniane Rerum Novarum e
Graves de communi re, promulgate nel 1891 e nel 1901, quanto dalla ricerca delle vie per pervenire alla pace durante gli anni della Grande Guerra.
In questo senso il professore pisano propone, con lettera inviata a Benedetto XV nel giugno 1917, la costituzione di un «istituto cattolico di diritto internazionale», che sappia discernere soluzioni e strumenti adeguati alla
pacificazione dei conflitti tra le nazioni.2
Toniolo è uomo di azione cattolica, che si pone di fronte alle gravi questioni del suo tempo con un instancabile spirito di mediazione e prudenza
perché il criterio dell’unità e la parola del pontefice fossero tenuti in conto
nelle decisioni da prendere. Egli ritiene di poter meglio giovare alla causa
del movimento cattolico lavorando come ispiratore e divulgatore di cultura cristiano-sociale e non come uomo direttamente impegnato nella battaglia politica nazionale. Egli è infatti, in via più generale, un pensatore che
media tra due epoche e un cattolico che forma la propria fede durante il
pontificato di Pio IX. Le sue opere, che sono pensate secondo parametri
ottocenteschi, portano nel Novecento – secolo segnato dall’originale contributo politico e sociale di Luigi Sturzo – la tradizione culturale cristiana
di derivazione medievale e neo-scolastica ripensata insieme alla scuola
tardo settecentesca dell’economia civile di Antonio Genovesi e Giandomenico Romagnosi.
Gli anni seguiti allo scioglimento dell’Opera dei Congressi lo vedono
presente nella riorganizzazione del movimento cattolico con un ruolo decisivo e di primissimo piano, che esercita attraverso la presidenza dell’Unione
popolare. Egli contribuisce così alla formazione del laicato, per rispondere
a un’urgenza che nel movimento cattolico è posta accanto a quelle relative
all’organizzazione del settore sociale e al discernimento delle nuove forme
dell’azione politica, cui sono riferite le attività dell’Unione economico-sociale e dell’Unione elettorale presiedute, rispettivamente, da Stanislao Medolago Albani e da Filippo Tolli. Attraverso il pensiero di Toniolo e il ruolo da
lui avuto nell’ambito delle settimane sociali possiamo comprendere, allora,
con quali argomenti e prospettive la cultura cattolica del tempo interpretasse le strutturali modificazioni socio-economiche di inizio Novecento. In par2 Cfr. G. TONIOLO, Lineamenti di un istituto cattolico di diritto internazionale, in ID., Iniziative culturali e di azione cattolica, Opera Omnia di G. Toniolo, Città del Vaticano 1951, 202-214.
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Solidarietà 62/2010
ticolare, Toniolo ha richiamato l’attenzione su tutta una serie di questioni
storiche e culturali che hanno reso critico il percorso del compimento
umano all’ingresso nel nuovo secolo, proponendone una spiegazione che
muove dall’analisi delle trame filosofiche moderne. Una sintesi delle più
profonde ragioni ideali della sua esperienza di pensatore e organizzatore
delle Settimane sociali si può individuare nei giudizi con cui appaiono concatenate l’avvenuta rottura sociale del vincolo che lega l’uomo al proprio
prossimo secondo piani di bene vero e comune e la multiforme espressione
dei limiti demagogici e individualistici della nascente democrazia contemporanea. Nella filigrana dei suoi scritti sembra affacciarsi il ragionamento
secondo cui questa, qualora fosse stata ridotta esclusivamente a fatto di
forme e procedure, avrebbe finito col ridurre le vie per contrastare le contraddizioni evidenziate dal capitalismo come tipo di economia produttrice
di effetti materialistici al pari del comunismo, che s’andava strutturando con
altre accezioni ideologiche e dinamiche economiche. Mette conto fermarsi
sulla trama storica di questo strutturale passaggio ideologico e socio-economico, per individuarvi le connotazioni della Democrazia cristiana pensata
da Toniolo, che Alcide De Gasperi giudica priva di prospettive politiche cui
poteva farsi cenno per anticipare aperture future.3
In effetti, il «limite» della cultura sociale cattolica di fine Ottocento è
visto risiedere nella mancanza di un’efficace saldatura teorica e pratica con
le dinamiche politiche della democrazia come fattispecie di un ordinamento istituzionale che allora, non senza contraddizioni e resistenze, prendeva
forma storica secondo i nuovi parametri moderni. Questo «limite» si trasforma, agli inizi del Novecento, in una questione insuperabile e porta Pio
X allo scioglimento dell’Opera dei Congressi quando al suo interno si
erano affermate tendenze volte a interpretare l’astensionismo come preparazione a un maggiore coinvolgimento nella vita politica. È il momento nel
quale i contrasti tra la vecchia guardia conservatrice e la giovane corrente
democratico-cristiana guidata da Romolo Murri divengono insanabili. Si
era fatta largo l’idea che l’astensionismo si dovesse pensare come un obbligo destinato a essere superato quando i cattolici avrebbero raggiunto una
«coscienza politica autonoma» dalla gerarchia talare. Interpreti di questa
aspirazione sono, in diverso modo e con originali intendimenti, Murri,
Toniolo, Meda, Sturzo.4 La data spartiacque che segna l’apertura del pro3 Cfr. A. DE GASPERI, Premessa a G. TONIOLO, Democrazia cristiana. Concetti e indirizzi, I, Opera
Omnia di G. Toniolo, Città del Vaticano 1949, VII-XIII.
4 Approfondimenti sugli aspetti storici e politici di questa stagione del cattolicesimo italiano, svolti
in modo tale da porre in risalto la figura e l’opera di Toniolo come occasione per trovare un baricentro
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Solidarietà 62/2010
gressivo superamento della posizione intransigente sul piano della partecipazione politica è il 1904, quando vengono eletti i primi “cattolici deputati”. L’anno successivo, con l’enciclica Fermo proposito, Pio X consentirà ai
cattolici di entrare nella vita politica nazionale, se autorizzati dai vescovi
delle rispettive diocesi. Così, tra frenate e accelerazioni, si apre il percorso
che porterà nel 1919 alla nascita del Partito Popolare Italiano e alla definitiva cancellazione nel novembre dello stesso anno, durante il pontificato di
Benedetto XV, del non expedit. Con il non expedit si era inteso imporre ai
cattolici l’obbligo all’astensione dall’elettorato attivo e passivo, attraverso la
forma di diversi pronunciamenti della Sacra Penitenzieria Vaticana intervenuti tra 1871 e 1886, a voler così sanzionare con decreto la formula del
«né eletti, né elettori», che si deve a don Giacomo Margotti e che aveva trovato prima applicazione nelle elezioni politiche del 27 gennaio 1861.
La parabola intellettuale di Toniolo si inserisce a pieno titolo nel quadro
storico e politico in cui tali questioni evolvono e contribuisce, il che è giudizio storiografico ampiamente condiviso, a far accettare nel mondo cattolico la democrazia come «categoria» capace di apportare significativi benefici nella promozione della giustizia sociale.5 Certo, è ben vero che il contributo tonioliano è legato ai giudizi di Leone XIII e Pio X, secondo cui
sarebbe stato opportuno che i cattolici si inserissero nella vita sociale e
amministrativa in maniera graduale e nello spirito della democrazia indicato dall’enciclica leoniana Graves de communi re, cioè quale «benefica azione cristiana a favore del popolo». Non può negarsi, però, che le concrete
declinazioni della democrazia come regolazione-regolamentazione dell’ingresso delle masse nel circuito delle decisioni politiche muovono i primi
passi nello stesso frangente storico. La politica italiana è strutturata sulle
basi poste dallo Statuto Albertino e per il tramite di un suffragio elettorale
assai ristretto, la dimensione partitica di massa è ancora all’orizzonte e, al
momento, si è in presenza di partiti concepiti come luoghi di aggregazione
utili a raccogliere il consenso per un uso politico momentaneo, come docurispetto alle posizioni del periodo, si trovano negli studi di S. TRAMONTIN, Giuseppe Toniolo e il movimento cattolico, in P. PECORARI (a cura di), Giuseppe Toniolo tra economia e storia, Del Bianco Editore,
Udine 1990, 181-213; L. BEDESCHI, Dal movimento di Murri all’appello di Sturzo (nel cinquantenario del
Partito popolare italiano), Ares, Milano 1969; E. GUCCIONE, Cattolici e democrazia. Ventura, Murri, Sturzo e le critiche di Gobetti, Ila Palma, Palermo-São Paulo 1988; S. ZOPPI, Dalla Rerum Novarum alla democrazia cristiana di Murri, il Mulino, Bologna 1991; R. MARSALA, Popolarismo e costituzionalismo in Filippo Meda. Lettere a Giuseppe Toniolo 1890-1917, Ila Palma, Palermo-São Paulo 2007.
5 Un’analisi storica e politica del contributo dato da Toniolo all’evoluzione teorica del concetto di
democrazia in senso cristiano è proposta da G. CAMPANINI, Profilo del pensiero politico di ispirazione cattolica, in F. TRANIELLO-G. CAMPANINI, Dizionario storico del movimento cattolico in Italia 1860-1980, I/1
I fatti e le idee, Marietti, Torino 1981, 212-214.
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menta il fenomeno del trasformismo in quanto metodologia del partito
della “maggioranza”. A queste problematiche fanno da sottofondo il perdurare della «questione romana» e le accentuate tendenze anticlericali diffuse nella cultura e nella politica post-unitaria. Questioni e dinamiche queste con cui l’economista cattolico misura le proprie analisi, che compone
con accentuata sensibilità verso i dati storici e filosofici.
Si può dire che Toniolo, attento com’è al valore pubblico della tradizione, intenda conciliare l’antico e il moderno per pervenire a una lettura di
lungo raggio delle questioni socio-economiche e politiche del suo tempo.
Ecco perché la ricerca delle origini ideologiche della contemporaneità
secolarizzata e desacralizzata lo porta a un giudizio critico della modernità
come epoca del razionalismo. In essa egli vede l’epoca in cui l’uomo, esaltato ogni oltre limite di verità, è separato dal proprio prossimo nella condivisione di un destino di bene comune; il che diviene d’uso politico per il
tramite della Rivoluzione francese, del liberalismo, del socialismo. Non a
caso ricorre molte volte, nelle opere tonioliane, la severa sottolineatura
della modernità come epoca in cui si costruisce una «scienza politica panteistica» che esita la svalutazione dell’identità umana personale e l’elevazione dello stato sulla base di una visione materialistica.6
Giova precisare, a questo proposito, che significati e prospettive della
sua ripresa in chiave economica e sociale del Medioevo si collocano nell’ambito della corrente neoguelfa del Romanticismo e servono a porre in
risalto la rilevante funzione nazionale esercitata dal Papato durante lo svolgimento dei secoli medievali.7 L’inserimento negli studi economici del
metodo storico e filosofico gli è così modo per dimostrare che il progresso
della società è determinato da fattori etici e dalla presenza del cristianesimo ed è finalizzato, innanzitutto, a far sì che la persona pervenga al compimento della sua dignità creaturale secondo le condizioni esperibili lungo
la linea del tempo.8 Una sintesi del suo punto di vista, che del resto è stato
trattato sotto diverse angolature ed è ampiamente noto, può enuclearsi a
6 Cfr. G. TONIOLO, La genesi storica del nostro programma sociale, in A. ROBBIATI (a cura di), La cultura sociale dei cattolici italiani alle origini. Le «settimane» dal 1907 al 1913, vol. I (1907-1908), Vita e
Pensiero, Milano 1995, 418.
7 Una visione storica d’insieme in merito al posizionamento culturale del cattolicesimo italiano tra
Otto e Novecento, con riguardo anche al «pensiero sociale di Giuseppe Toniolo», è presentata da C.
BREZZI, L’azione economico-sociale dei cattolici nella seconda metà dell’Ottocento, in F. MALGERI (diretta
da), Storia del movimento cattolico in Italia, vol. I, Il Poligono Editore, Roma 1980, 317-392.
8 Per approfondimenti sulla centralità rivestita dal «momento antropologico» nel complessivo itinerario intellettuale di Toniolo cfr. F. TODESCAN, Il pensiero politico di Giuseppe Toniolo, in P. PECORA(a cura di), Giuseppe Toniolo tra economia e storia, 109-110.
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partire dal giudizio in base al quale i secoli medievali sono colti come quelli in cui principi e fini della civiltà s’esprimono socialmente in modo unitario e, quindi, senza quella divisione teorica e pratica che troverà poi largo
spazio nella modernità. Il sistema corporativo medievale consente di far
convergere i diversi interessi delle classi, sì da portare benefici per l’elevazione di quelle più deboli. Un punto di vista sulle unioni professionali che
nel corso della lezione tenuta alla VI Settimana di Assisi, il 25 settembre
1911, egli compendia così:
Lo scopo del resto delle Unioni professionali si riassume nel triplice
intento; – di dare una rappresentanza collettiva alla classe lavoratrice, – di
farne valere i diritti e guarentirne i doveri; – di promuoverne il miglioramento materiale, civile, spirituale; tutto ciò dinanzi alle altre classi in equo
coordinamento con esse e cogli interessi finali della intera società; escludendo perciò stesso il proposito socialistico di una sistematica lotta di classe.9
Si tratta di una visione corporativa che in Sturzo, il quale sovente ricorda l’utilità degli studi tonioliani per la formazione del suo pensiero, è superata a vantaggio di una visione incentrata sul metodo della cooperazione e
dell’associazionismo.10 Posto di fronte alla diffusione del socialismo, il cui
metodo di lotta coinvolgeva in termini sempre più stringenti il mondo operaio e, fatto non meno preoccupante al suo sguardo, cominciava a interessare anche quello contadino, Toniolo pone la propria opera di pensatore e
di formatore del movimento cattolico sulle tracce della Rerum Novarum,
interpretando con un radicale criterio di unitarietà le questioni socio-economiche e le istanze religioso-confessionali. Al «rinascimento cristiano delle
dottrine sociali» il pensatore veneto finalizza il programma di lavoro ch’egli,
oltre a cogliere lungo lo svolgimento preparatorio avvenuto nel corso dell’Ottocento, si intesta di svolgere anche nelle otto Settimane sociali seguite
da vicino dal 1907 al 1913.11 Del resto, al cardinale Pietro Maffi, arcivesco9 G. TONIOLO, Le Unioni professionali, in A. ROBBIATI (a cura di), La cultura sociale dei cattolici italiani alle origini. Le «settimane» dal 1907 al 1913, vol. II (1909-1911), Vita e Pensiero, Milano 1995, 272-273.
10 Due tra le fonti che meglio indicano le valutazioni sturziane riguardanti il sistema economicosociale di Toniolo, entrambe risalenti all’inizio del Novecento, sono: L. STURZO, L’organizzazione di classe e le unioni professionali e Indirizzi e concetti sociali all’esordire del secolo XX, ora in ID., Sintesi sociali. L’organizzazione di classe e le unioni professionali, II edizione italiana riveduta, Zanichelli, Bologna
1961, 131-189 e 218-224. La seconda fonte sturziana si riferisce a G. TONIOLO, Indirizzi e concetti sociali all’esordire del secolo XX, Buffetti, Parma 1901, ora in ID., Democrazia cristiana. Concetti e indirizzi, II,
Opera Omnia di G. Toniolo, Città del Vaticano 1949, 1-282.
11 Concetti e sviluppi di questo momento di rigenerazione del pensiero cattolico sono delineati da
Toniolo in modo efficace negli scritti: Ragioni, intendimenti e criteri di un primo congresso per le scienze
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Solidarietà 62/2010
vo di Pisa e presidente della I Settimana sociale di Pistoia, Pio X scrive, il 24
settembre 1907, che proprio questa è l’ispirazione da cui muove l’istituzione delle Settimane, le quali nascono come «apostolato rigeneratore del
popolo» nelle concrete condizioni offerte dalla società contemporanea.12
2. Argomenti, programmi e nuove vie d’azione del movimento cattolico
A segnare principi e finalità delle Settimane sociali è, già al suo sorgere,
una grande aspirazione, che può riassumersi nella tensione a proporre elementi di giudizio rispetto alle grandi questioni del tempo, cui i cattolici italiani intendono partecipare con senso di responsabilità verso il bene comune.13 Alle origini delle Settimane sociali è presente, infatti, l’auspicio a farle
divenire un luogo di comprensione-partecipazione delle urgenze nazionali
strutturato in modo tale da superare l’emarginazione nella vita pubblica e
collegare il movimento cattolico alle altre analoghe esperienze europee. Se
ne può parlare come di un luogo aperto a una prospettiva politica, che
assume una precisa specificità così descritta da Giorgio Campanini:
La linea inaugurata nel 1907 non sarebbe stata sostanzialmente smentita nel corso della successiva storia delle Settimane Sociali, le quali ebbero
sociali e Il compito odierno delle scienze sociali per opera dei cattolici, ora contenuti, rispettivamente, in
Iniziative culturali e di azione cattolica, 329-358 e in Democrazia cristiana. Concetti e indirizzi, I, 175-189.
12 Questo documento pontificio si trova integralmente riportato, tra l’altro, in Settimane Sociali dei
cattolici d’Italia. Cinquantenario1907-1957, Edizioni Settimane Sociali, Roma 1957, 7-8.
13 Si può dire che il fondamentale criterio di una responsabile riflessione sulle questioni riguardanti l’Italia nell’ora presente abbia contraddistinto la scelta delle tematiche individuate nel corso di tutte le
settimane sociali. Ed è con tale caratterizzazione che sono state presentate le Settimane sociali che si terranno a Reggio Calabria dal 14 al 17 ottobre 2010. La ricerca di una risposta condivisa e matura rispetto ai non pochi problemi della comunità nazionale si evince già dal titolo: Cattolici nell’Italia di oggi.
Un’agenda di speranza per il futuro del paese. In un documento proposto il 17 aprile 2009, dal Comitato
Scientifico e Organizzatore delle Settimane Sociali, che si inserisce nell’ottica di un «cammino di discernimento verso la 46ª Settimana Sociale», si trova contestualizzato, proprio all’interno di un paragrafo
intitolato «La speranza orienta il discernimento», questo brano: «Il nostro non è l’invito a una lettura
eticamente neutra della realtà, semmai ancora qualcuno credesse nella possibilità di qualcosa del genere. Al contrario, la lettura cui pensiamo richiede scelte sempre difficili e costose, spesso da correggere,
spesso provvisorie. Tale lettura genera un processo che forma le coscienze e insieme forma alla coscienza: scelte per l’analisi di una situazione complessa e sempre in movimento, scelte che dischiudono altre
scelte, scelte che svelano il nostro non essere mai individui, ma persone in relazione, e scelte che spesso
meglio maturano laddove le relazioni sono più vere e più libere». Attraverso questo percorso s’intende
portare un contributo finalizzato «alla formazione di una nuova generazione di uomini e di donne» che
sappiano concorrere «al servizio del bene comune, un servizio cui in ogni caso va riconosciuta piena
dignità pubblica». Il documento può essere reperito sul sito: www.settimanesociali.it.
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sempre la fondamentale caratteristica di essere un luogo di riflessione “prepolitico”, e, nello stesso tempo, di preparazione e di formazione all’impegno politico, nel quadro di una attenta e approfondita lettura delle dinamiche complessive della società italiana.14
Questo criterio della pre-politicità è il dato caratterizzante lo svolgimento delle Settimane sociali lungo le sue diverse stagioni, che vanno dal
1907 al 1934, dal 1945 al 1970, dal 1991 a oggi.15 Situate nello spazio di un
secolo, esse vanno colte nell’ambito delle trasformazioni sociali e politiche
italiane, di cui sono segno i passaggi attraverso due guerre mondiali, il
mutevole riposizionamento dei rapporti della Chiesa con lo Stato italiano
generato da un difficile processo risorgimentale, un regime dittatoriale e
liberticida, il processo di integrazione europea, l’affermazione della presenza organizzata dei cattolici nella vita politica per il tramite della Democrazia Cristiana, il sempre più marcato riconoscimento del ruolo del laicato.16 Ecco perché, come ha notato Andrea Riccardi, le settimane sociali
assumono un significativo interesse qualora si studino «come osservatorio
della storia del cattolicesimo italiano».17
Toniolo pensa le Settimane sociali come occasione per discernere i segni
dei tempi secondo un’ispirazione capace di calarsi dentro la dimensione
viva dei problemi della comunità nazionale. Il valore da lui attribuito a questi convegni si trova ben compendiato nel discorso pronunciato a Brescia,
il 6 settembre 1908, durante la seduta inaugurale della II Settimana. In questa circostanza egli ricorda ai settimanalisti quali sono le ragioni che danno
origine al congresso, muovendone le dinamiche per cui è chiamato a essere momento legato alle concrete vicende degli italiani.
14 G. CAMPANINI, Un secolo di impegno per il bene comune. La 45ª Settimana Sociale, in «Aggiornamenti Sociali», 4 (2007), 281.
15 Ibidem, 282-285.
16 Per uno sguardo d’insieme sulle diverse fasi delle Settimane sociali che vanno dal 1907 al 1970
cfr. Settimane Sociali dei cattolici d’Italia. Cinquantenario1907-1957, Edizioni Settimane Sociali, Roma
1957; A. ALBERTAZZI, Settimane Sociali, in F. TRANIELLO-G. CAMPANINI (direttori), Dizionario storico del
movimento cattolico in Italia 1860-1980, III/2 Le figure rappresentative, Marietti, Casale Monferrato
1984, 941-953; Le settimane sociali. 90 anni di storia dei cattolici italiani, Edizioni Dehoniane, Roma
1989; Le Settimane sociali nell’esperienza della Chiesa italiana (1945-1970), Vita e Pensiero, Milano 1990;
mentre, per contestualizzare le ragioni dell’interruzione avvenuta nel 1970 e le finalità formative delle
settimane sociali attribuite in ambito ecclesiale dopo la ripresa avvenuta nel 1991, cfr. P. BORZOMATI, Settimane sociali e convegni ecclesiali, in F. TRANIELLO-G. CAMPANINI (direttori), Dizionario storico del movimento cattolico. Aggiornamento 1980-1995, Marietti 1820, Genova 1997, 111-117.
17 A. RICCARDI, Relazione introduttiva, in M. SIMONE (a cura di), Il bene comune oggi: un impegno
che viene da lontano, 33.
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Per una seconda volta […] noi ci troviamo riuniti a congresso, non già nel
significato comune della parola, di adunanza di uomini di azione che discutono sull’atteggiamento e sulle mosse da prendere in taluna circostanza della
vita militante, bensì nel senso ormai consacrato col titolo di Settimane sociali
usato prima di noi all’estero, per cui alcuni volenterosi, sotto la guida di qualche insegnante si adunano ad ascoltare una serie di lezioni intorno ai problemi più vivi della società nell’ora presente, con ufficio pertanto di esposizione
e propaganda di dottrine o teorie scientifiche – certi tuttavia, che il ridestamento sereno del pensiero, che per noi coincide colla illustrazione del programma sociale cristiano, diventerà il lievito di attività pratica, salutare, giusta
la sentenza di G. B. Vico, che il vero si converte nel fatto e il fatto nel vero.18
A Brescia egli espone, approfondendole in tre lezioni, la visione storica e
le riforme legislative riferite all’ambito agrario, che traccia attraverso spunti
tratti dal pensiero economico e sociologico più recente e innovativo.19 Tale
metodologia d’analisi è riproposta nelle lezioni da lui tenute durante le Settimane di Firenze, nel 1909, e Assisi, nel 1911, quando sono poste all’ordine del giorno le principali questioni inerenti al mondo del lavoro, cioè le
tematiche relative alla legislazione sociale e alle unioni professionali.20 Altre
sono le tematiche affrontate dai settimanalisti nei convegni di Napoli e
Venezia, che nel 1910 e nel 1912 concentrano l’attenzione sulla famiglia21 e
sulla scuola.22 Toniolo vi interviene illustrando le positive ricadute sulla civiltà da un cristianesimo reso pagina viva della storia. All’ultima delle Settimane sociali cui egli è presente, cioè quella tenutasi a Milano nel 1913 sul tema
delle libertà civili dei cattolici, la sua partecipazione si riscontra esclusivamente in una riunione indetta in suo onore dalla Direzione diocesana di
Milano per i trent’anni di insegnamento universitario.
18 G. TONIOLO, Discorso, in A. ROBBIATI (a cura di), La cultura sociale dei cattolici italiani alle origini. Le «settimane» dal 1907 al 1913, vol. I (1907-1908), 154.
19 Ibidem, 161-172, 245-250, 277-291.
20 Queste due lezioni di Toniolo, la prima in forma di sintesi – con l’appendice di una discussione
che lo vede dialogare con Agostino Gemelli e Antonio Boggiano sul carattere della sua visione sociologica, da Gemelli ritenuta d’impronta idealistica e poco intessuta della filosofia di san Tommaso –, la
seconda in forma integrale, sono ora contenute in A. ROBBIATI (a cura di), La cultura sociale dei cattolici
italiani alle origini. Le «settimane» dal 1907 al 1913, vol. II (1909-1911), 35-38, 267-280.
21 Ibidem, 179-199.
22 Le considerazioni di Toniolo sulla scuola sono ora riportate, nella forma di sintesi tratta dal discorso pronunciato nella seduta inaugurale insieme a Filippo Grimani e Aristide Cavallari, in A. ROBBIATI (a cura di), La cultura sociale dei cattolici italiani alle origini. Le «settimane» dal 1907 al 1913, vol. III
(1912-1913), Vita e Pensiero, Milano 1996, 15-16.
23 Cfr. G. TONIOLO, Discorso, in A. ROBBIATI (a cura di), La cultura sociale dei cattolici italiani alle
origini. Le «settimane» dal 1907 al 1913, vol. I (1907-1908), 411-414.
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Contributi particolarmente significati Toniolo offre nel corso della Settimana sociale palermitana, che si svolge dal 27 settembre al 4 ottobre 1908,
quando interviene direttamente in due circostanze: la prima, il 27 settembre, per pronunciare uno dei discorsi inaugurali dopo quelli tenuti dal cardinale Alessandro Lualdi, dal presidente del Comitato locale Lucio Lanza
di Scalea, dal presidente della terza Settimana sociale Antonio Boggiano; la
seconda, il 28 settembre, per svolgere la prima lezione sul tema: La genesi
storica del nostro programma sociale. Il breve intervento fatto ad apertura
dei lavori gli è occasione per fare alcune puntualizzazioni: egli ribadisce la
vicinanza sua e dell’Unione popolare al proposito di Pio X di «restaurare
omnia in Christo», ricorda gli insegnamenti a vario titolo ricevuti dai siciliani Emerico Amari, Vincenzo Di Giovanni, Vito D’Ondes Reggio e Giuseppe Alessi e, infine, rimette ancora una volta al centro delle ricerche storico-sociali la dottrina dell’incivilimento come parametro cristiano del progresso dell’intera civiltà, che già allora era insidiato da una pervasiva cultura laicista e da una società in via di secolarizzazione.23 Quando si celebra la
Settimana sociale di Palermo, Toniolo è dunque una figura di primissimo
piano della cultura cattolica italiana, se non addirittura la più autorevole, le
cui idee sul corporativismo e sul cooperativismo come modalità organizzative del mondo rurale e professionale in Sicilia sono riprese e sviluppate da
Giuseppe Traina, Ignazio Torregrossa e Luigi Sturzo. E sono proprio Ignazio Torregrossa, Vincenzo Mangano, Vincenzo Di Giovanni a invitare
Toniolo a Palermo, nell’aprile 1892, perché tenesse un ciclo di conferenze
sugli indirizzi contemporanei del pensiero sociale cristiano, dopo che nello
stesso anno era stato da loro fondato qui il Circolo dei buoni studi, che
intendeva presentarsi come una diretta emanazione della Unione cattolica
per gli studi sociali, da Toniolo fondata nel 1889.
Giova approfondire i contenuti da lui proposti nel convegno di Palermo, perché vi si trovano motivazioni ideali e trame d’indagine storica che
segnano il tracciato culturale del movimento cattolico d’inizio Novecento.
Ciò si evince dalla lezione del 28 settembre, in cui Toniolo svolge una ricognizione storica di lungo periodo, utilizzando le sue tipiche argomentazioni e analisi. Egli si sofferma sui secoli medievali, ritenendoli quelli in cui si
è realizzata una sintesi efficace tra istanze di libertà civili ed esigenze di
eguaglianza sulla base del riconoscimento del valore religioso della persona umana, in cui si è diffuso un associazionismo capace di legare tra loro e
con beneficio di tutti le varie classi sociali e i relativi interessi economici, in
24 G. TONIOLO, La genesi storica del nostro programma sociale, 418.
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Solidarietà 62/2010
cui si è costruito uno Stato organico dove l’amministrazione pubblica è partecipata con senso di comune appartenenza. Non manca, in questa circostanza siciliana, la critica della modernità. Questa gli appare come il tempo
nel quale l’ordine sociale dei secoli precedenti e l’unità della fede cattolica
vanno in frantumi. Il liberalismo, la Rivoluzione francese e il socialismo
sono le diverse conseguenze di una «scienza politica panteistica», che ha
svalorizzato la persona ed ha elevato lo Stato e la dimensione materiale
della vita. Momenti teorici di questo percorso epocale sono, per Toniolo,
«Bacone, Hobbes, Gentili, Campanella, Bruno, Seldeno, che lo Stato
dichiaravano arbitro di tutta la vita privata e sociale sacrificando massimamente il popolo».24 Ecco perché occorre promuovere una cultura delle
scienze economiche e sociali centrata sulla persona umana, impostata su
basi filosofiche, giuridiche, storiche e sviluppata ponendo in circolo virtuoso la storia e le idee. Soltanto se si fossero tenuti presenti questi essenziali criteri, sarebbe stato possibile procedere nella costruzione di una civiltà veramente democratica e cristiana e, in tal modo, rispondere alla questione sociale e alla diffusione dell’economia capitalistica e dell’alternativa
ideologica socialista.25
Uno tra gli elementi di maggior rilievo analitico presente nella lezione
tonioliana alla Settimana sociale di Palermo riguarda senz’altro il ruolo
degli studi storici. Ciò che emerge con chiarezza è il giudizio secondo cui a
essi va data una grande importanza anche nella più generale rigenerazione
delle scienze sociali, perché soltanto così si sarebbe potuta indirizzare nel
verso giusto l’azione del movimento cattolico. Gli studi storici avrebbero
potuto promuovere una cultura centrata sulla verità e sul bene comune
come parametri essenziali del fatto religioso. In tempi di avanzante secolarizzazione sarebbe stato necessario illustrare le verità della fede «colle testimonianze rigorose della storia»,26 come egli scrive nel 1899 sulla «Rivista
internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie» per indicare l’urgenza di divulgare ricerche condotte in modo non apologetico, ma scientifico. Il che sarebbe stato di particolare importanza nella congiuntura italiana d’inizio secolo, in cui sono ancora presenti gli effetti politici e istituzionali della «questione romana», mentre l’organizzazione sociale dei cattolici
25 Per tratteggiare e interpretare la valutazione tonioliana delle questioni socio-economiche e culturali determinate dall’affermazione del capitalismo e dalla definizione ideologica del socialismo cfr. l’ampio
studio di P. PECORARI, Giuseppe Toniolo e il socialismo. Saggio sulla cultura cattolica tra ’800 e ’900.
26 G. TONIOLO, Società scientifica generale fra i cattolici d’Italia, ora in ID., Iniziative culturali e di
azione cattolica, 145-146.
27 Ibidem, 158.
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Solidarietà 62/2010
è chiamata a nuove e originali sintesi, dopo lo scioglimento dell’Opera dei
Congressi decretato da Pio X nel 1904.
Toniolo ritiene che gli studi storici, posti in questo scenario, avrebbero
avuto il compito di far emergere la ricchissima tradizione civile del popolo
italiano, per mostrare il ruolo decisivo esercitatovi dal cattolicesimo. Il percorso che egli indica è finalizzato a promuovere una maggiore sensibilità per
l’elaborazione di una «storia sociale (e non soltanto politica) in cui si riveli
l’intima vita del popolo italiano», perché ciò avrebbe reso manifesto a tutti,
ancora una volta di più, «i germi della storia civile della penisola compenetrati e confusi con quelli della storia della Chiesa e del pontificato».27 In questo senso, e ciò costituisce un suo eminente punto di giudizio storico, sarebbe bastato studiare la vita dei comuni medievali, perché si potessero ottenere contenuti chiarificatori sul fattore principale dell’incivilimento italiano
lungo la linea del tempo, che egli indica nella Chiesa cattolica. L’approfondimento di questo periodo della storia dimostra, secondo lui, che nelle dinamiche socio-economiche può agire in modo determinante il fattore dell’etica.28 Nella sua ermeneutica dell’economia attraverso la storia Toniolo, tra l’altro, richiama Niccolò Tommaseo per sottolineare la necessità di arrivare fino
al municipio e alla famiglia per conoscere veramente la storia d’Italia. Ed è
attraverso il letterato dalmata che egli evidenzia il valore di alcune città italiane rispetto all’incivilimento complessivo del mondo, come si può dire pensando alle città di Milano, Venezia, Firenze, Roma, la cui storia vale «più che
la storia dei maggiori imperi».29 A queste città fautrici di incivilimento Toniolo, quando il 27 settembre 1908 apre la terza Settimana sociale, aggiunge
Palermo e tutta la regione Sicilia, che dice essere «terra misteriosa, sopra di
cui vennero a sovrapporsi le razze originarie mediterranee, quelle fenicie,
elleniche, arabe e normanne, [e che] ci rammenta come la Provvidenza avesse assimilato quivi tutte le più svariate e meravigliose culture per preparare
con la loro fusione il trionfo dell’unica e universale civiltà cristiana».30
Toniolo inserisce il ruolo della conoscenza storica all’interno di un processo di ricerca organicamente rivolto a una comprensione uni-totale dei
fenomeni socio-economici, quale metodologia di un’indagine che ambisce
a non rimanere lettera morta, ma a intendere in profondità la via adeguata
28 Approfondimenti e analisi sul ruolo che Toniolo attribuisce alla storia per una compiuta determinazione delle scienze sociali si trovano in C. VIOLANTE, Il significato dell’opera storiografica di Giuseppe Toniolo nell’età di Leone XIII, in G. ROSSINI (a cura di), Aspetti della cultura cattolica nell’età di
Leone XIII, Atti del convegno tenuto a Bologna il 27-28-29 dicembre 1960, Edizioni 5 Lune, Roma 1961,
707-767.
29 G. TONIOLO, Società scientifica generale fra i cattolici d’Italia, 157-158.
30 G. TONIOLO, La genesi storica del nostro programma sociale, 413.
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al progresso umano nella storia. A questa finalità risponde, nelle intenzioni del pensatore di Treviso, la dottrina dell’incivilimento.
3. «L’incivilimento» come misura della democrazia
Qualora la si studi dal punto di vista d’una storia del lessico delle idee
politiche, la parola “incivilimento” risulta finemente meditata tra la seconda metà del Settecento e la fine dell’Ottocento. Non si può dire che nel
secolo seguente essa abbia ottenuto l’attenzione prima espressasi nel pensiero italiano e francese. Si tratta di una concezione d’ampio spettro prismatico che ha continuato a persistere, magari per il tramite di più ideologie, come tendenziale elemento di un percorso culturale e politico in cui la
convivenza umana è legata all’effettiva promozione e attuazione dei suoi
fattori originali e relazionali. A questa visione integrata delle scienze economiche e politico-sociali, centrata sulla persona umana, impostata su elementi filosofici, giuridici, storici e sviluppata ponendo in circolo virtuoso la
storia e le idee, è mossa la riflessione di Toniolo. Essa contiene l’ultima articolata e coerente trattazione dell’incivilimento, che consegna al pensiero
politico del Novecento concetti d’ambito medievale e neo-scolastico collegati alla scuola tardo settecentesca dell’economia civile di Antonio Genovesi e della filosofia civile di Gian Domenico Romagnosi. Attraverso Toniolo, allora, l’incivilimento permane come un concetto che ha continuato a
essere presente, pur in sottotraccia o con altro lessico, per segnalare che il
percorso verso una civiltà a misura d’uomo si costruisce se tutti i suoi costitutivi fattori ideali e morali sono rispettati e promossi.
Questi argomenti sono sviluppati da Toniolo anche nel corso di diverse
Settimane sociali, con una particolare attenzione in quella che si svolge a
Palermo nel 1908. Nella lezione palermitana del 28 settembre Toniolo
gioca a tutto campo il concetto di incivilimento, alla cui luce egli intende
spiegare il senso della storia e l’organizzazione della società contemporanea. A Brescia, appena tre settimane prima, egli aveva approfondito i contenuti inerenti alle riforme agrarie per il tramite d’una ricostruzione storica
di ampio spettro, in cui la prospettiva dell’incivilimento segnala che nuove
possibilità di progresso sono possibili se i «fattori spirituali signoreggiano
quelli stessi materiali».31 Ciò lo porta a dire che non può non tenersi in
31 G. TONIOLO, La genesi storica dei contratti agrari e loro riforme (continuazione della IV lezione),
in A. ROBBIATI (a cura di), La cultura sociale dei cattolici italiani alle origini. Le «settimane» dal 1907 al
1913, vol. I (1907-1908), 290.
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conto, in ogni complessiva visione storica nazionale, quella sorta di vero e
proprio «misterioso legame storico fra le sorti dell’economia agricolo-fondiaria e quelle dell’incivilimento; e sembra che dal suolo cominci e nel
suolo finisca la ricostituzione di una nazione in ogni momento critico della
sua storia».32 A Napoli, nella lezione con cui si apre la Settimana del 1910,
il pensatore trevigiano lega valori e ruolo della famiglia alla stessa possibilità di generare una civiltà matura e pienamente umana sotto tutti i profili
dell’esistenza. Egli tiene a precisare, in questa direzione, che alla famiglia
non si possono negare «ogni autorità e virtù educativa, per cui essa è coefficiente essenziale e massimo di incivilimento»; diversamente, infatti, i
rischi sarebbero stati quelli di materializzare e abbrutire la dimensione integrale della vita personale e pubblica.33 Si tratta di comprendere, come egli
marca a chiare note, che la famiglia «riproduce e trasferisce ad un tempo
gli elementi vitali della società, e ancora i fattori dell’incivilimento», dal
momento che essa, in definitiva, è «generatrice dell’ordine sociale e misura
di civiltà».34
A giudizio di Toniolo, pertanto, quello dell’incivilimento è un concetto
che appartiene alla vita complessiva dei popoli, perché esso ha a che fare con
le sue istituzioni private, civili e giuridiche, attraverso cui si realizza un ordine sociale organico, cioè impostato su basi etiche e solidali. La «dottrina dell’incivilimento» è il momento teorico originale per mettere in piena luce l’evoluzione storica universale della civiltà e le finalità ultime delle scienze
sociali, perché essa richiama entrambe «alle sue fonti prime, che stanno nei
principi divini dell’evangelo e nella missione evangelizzatrice della Chiesa
cattolica».35 Va detto, a questo proposito, che Toniolo ne accentua notevolmente l’uso lessicale intorno al 1892, come si capisce leggendone gli articoli e i saggi pubblicati in questo periodo. È il momento nel quale l’economista-sociologo trevigiano intensifica il suo lavoro all’interno dell’Unione cattolica per gli studi sociali e avvia nel 1893 la «Rivista internazionale di studi
sociali e discipline ausiliarie». Il 1892 è un anno particolare perché ricorrono allora due circostanze importanti, di cui una ha valore epocale ed è la
commemorazione della scoperta dell’America, mentre l’altra è costituita
dalla celebrazione del I congresso dell’Unione cattolica per gli studi sociali.
32 Ibidem, 291.
33 Cfr. G. TONIOLO, La famiglia nella sua dignità cristiana e nelle insidie contemporanee, in A. ROB(a cura di), La cultura sociale dei cattolici italiani alle origini. Le «settimane» dal 1907 al 1913, vol.
II (1909-1911), 184.
34 Ibidem, 198.
BIATI
35 G. TONIOLO, Ragioni, intendimenti e criteri di un primo congresso per le scienze sociali, 329.
20
Solidarietà 62/2010
Ora, il rilievo culturale di questi due fatti concomitanti è richiamato in tale
circostanza congressuale sia dal presidente patrono dell’Unione, il vescovo
di Padova Callegari, sia dallo stesso Toniolo. Entrambi intendono sottolineare l’impegno culturale che sarebbe stato opportuno mettere in campo
perché gli studi sociali fossero stati in grado di leggere in profondità tutti i
dati raccolti dallo studio della storia e della società.
In un tempo dominato da una visione materialistica della vita, Toniolo
lancia questo programma di studi con una finalità di ampio respiro, che è
quella di mostrare la verità ideale e l’utilità sociale del connubio tra scienza
e fede. Tale finalità propone, con parole chiare, ai settimanalisti di Napoli:
Rimarrà anzi questo il distintivo caratteristico di noi studiosi e cittadini
credenti: che il progresso civile della patria o di qualunque nazione, misureremo ognora dal predominio, sopra gli interessi materiali, delle ragioni e
dei beni spirituali delle popolazioni.36
Ecco perché si tratta di sviluppare un serio lavoro intellettuale, che si
compendia nella forma di una coerente «sociologia cristiana», per confutare il giudizio della «sociologia positivista», secondo cui «tutto l’incivilimento non è che il prodotto cosmico, necessario, fatale di forze materiali».37 Toniolo è consapevole che in quel momento storico, cioè tra Otto e
Novecento, si registra l’avanzata fortissima di un processo di secolarizzazione estrema, che è messo in atto da un positivismo applicato alle scienze
sociali, di cui sono teorizzatori Bain, Comte, Spencer. Egli intravede il
rischio che ciò porti a una progressiva materializzazione dell’esistenza personale e pubblica, per renderle in tutto impermeabili all’azione del sacro,
come risulta anche dalle finalità riscontrabili nell’evoluzionismo, che è dottrina in voga dopo la seconda metà dell’Ottocento grazie all’opera di Charles Darwin. Per Toniolo, occorre sottoporre a lucida analisi la cultura dominante del suo secolo, e per farlo occorre appunto individuare e smascherare la dimensione positivista che vi agisce come parametro di una salvezza
dell’umanità intesa in senso materiale. Tale dimensione egli vede presente
sia nel liberalismo – centrato sul piacere e sull’utile materiale dell’individuo
colto senza relazionali e solidali legami di bene comune –, sia nel socialismo
– che con Saint-Simon, Proudhon, Marx ha progressivamente raggiunto
una forma scientifica presentandosi come pretesa di risposta alla domanda
di compimento definitivo e non appena economico dell’uomo, cioè pre36 G. TONIOLO, La famiglia nella sua dignità cristiana e nelle insidie contemporanee, 181.
37 G. TONIOLO, Ragioni, intendimenti e criteri di un primo congresso per le scienze sociali, 352.
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tendendo di rispondere a tutte le sue questioni morali, civili, religiose, giuridiche, politiche.38
I cattolici avrebbero pertanto dovuto raccogliere la sfida lanciata loro
dalla storia, lavorando per «rifare cristiane tutte le scienze sociali, […] l’etica sociale, il giure privato e pubblico, l’economia non meno che la dottrina politica».39 Si situa in questa chiave interpretativa la sua opera di rigenerazione cristiana e morale della cultura economica, in cui Toniolo inserisce un coerente contributo intellettuale che intende pervenire a un’organica lettura del fatto politico.40 Ecco perché alla visione positivista della società, ch’egli vede come una dimensione tendente a plasmare in modo multiforme la vita culturale del suo tempo, si sarebbe dovuto rispondere con una
complessiva visione cristiana della «dottrina dell’incivilimento». Toniolo ne
parla come di una dottrina impostata sul
triplice carattere: di unità sovrannaturale, per cui l’origine e il termine ultimo della civiltà appariscano trascendere i confini di natura e ricongiungersi in Dio; di spiritualità, per cui l’incivilimento risulti un trionfo progressivo
dello spirito sulla materia, sotto il governo del cristianesimo; di universalità,
per cui l’incivilimento, di cui è suscettiva l’umana famiglia, si aggiri intorno
al centro della Chiesa cattolica destinata ad abbracciare tutte le genti;
insomma l’incivilimento di cui Cristo è l’alfa e l’omega.41
Questo brano esplicita senz’altro il fatto che Toniolo non si nasconde
che si tratta di attuare un programma che possiede una vera e propria natura epocale. E ciò perché attraverso una compiuta sistematizzazione cristiana della dottrina dell’incivilimento il pensiero sociale cattolico contemporaneo si sarebbe potuto riannodare con quello della «enciclopedia scolastica medievale» e avrebbe potuto chiudere «il ciclo distruttivo secolare della
riforma e dell’umanesimo».42
38 Cfr. Ibidem, 340-341.
39 Ibidem, 347.
40 Interpretazioni e percorsi di analisi sull’inserimento del pensiero di Toniolo nel quadro storico
delle trasformazioni economiche e politiche che si snodano tra Otto e Novecento si trovano esposte e
compendiate in F. VITO, Il contributo di Giuseppe Toniolo alla economia politica e A. FANFANI, Il contributo di Giuseppe Toniolo agli studi di storia economica, in La figura e l’opera di Giuseppe Toniolo, 53-74
e 75-98; E. GUCCIONE, Cristianesimo sociale di Giuseppe Toniolo, 35-44; P. BARUCCI, Il pensiero economico italiano durante il pontificato di Leone XIII, in A. ZAMBARBIERI (a cura di), I cattolici e lo stato liberale nell’età di Leone XIII, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Venezia 2008, 225-243.
41 G. TONIOLO, Ragioni, intendimenti e criteri di un primo congresso per le scienze sociali, 350-351.
42 Ibidem, 353-354.
22
Solidarietà 62/2010
Non v’è dubbio che queste analisi critiche connotino a tutto tondo il
pensiero di Toniolo sulla modernità. I secoli moderni gli sembrano un
momento di rottura dell’ordine morale e sociale che s’era invece avuto nel
Medioevo. Di qui la necessità di ristudiare la linea di pensiero rimasta
obliata e minoritaria sotto «l’incesso presuntuoso e rumoreggiante delle
scuole razionalistiche», come egli scrive molte volte.43 Al pari di quanto
sarebbe emerso in seguito nelle approfondite analisi filosofiche di Cornelio
Fabro, Romano Guardini, Augusto Del Noce, Jacques Maritain, si può dire
che per Toniolo il razionalismo sia l’orizzonte teorico prevalente della
modernità, cioè il carattere di un’epoca che porta l’uomo a voler usare la
propria ragione senz’alcun riferimento a quanto ha consistenza di infinito
e di trascendenza. I secoli moderni sono colti come lo spazio storico nel
quale l’uomo si percepisce come «misura di tutte le cose, di quelle che sono
e di quelle che non sono», per dirla con le parole dette venticinque secoli
fa dal sofista Protagora. Toniolo comprende che il razionalismo diverrà nei
secoli moderni e contemporanei l’architrave su cui sarà pensato e impostato il processo di cambiamento della cultura e della società europea, che
dopo la Riforma e la Rivoluzione francese assumerà connotazioni violente.
Va notato, a questo proposito, che l’ispiratore delle Settimane sociali,
scomparso nel 1918, non vide se non i primi momenti della conquista bolscevica del potere e, dunque, non poté vedere all’opera né il comunismo né
il paganesimo trionfante nel fascismo e nel nazismo.
Vi sono allora, secondo Toniolo, fondate ragioni storiche e ideologiche
perché i cattolici si prendano il compito di riannodare le trame spezzate
dell’incivilimento, e svolgano questo compito facendo rinascere cristianamente le scienze sociali. Il professore pisano sovente ribadisce che questo
lavoro di rigenerazione della cultura cattolica contemporanea è già iniziato nel corso dell’Ottocento, passando da tre momenti successivi e da
una fase preparatoria in cui si assiste alla complessiva rigenerazione di
una filosofia della storia ispirata cristianamente, attraverso il lavoro compiuto da Chateaubriand e Frayssinous in Francia, Kenedy Digby in
Inghilterra, Federico Schlegel in Germania, di Joseph De Maistre in Italia. Nella prima fase (1830-1848), che corrisponde all’iniziale definizione
teorica del «dottrinarismo liberale» e del «socialismo teoretico» di SaintSimon, secondo Toniolo il pensiero cristiano rinnova tesi e istanze in tutta
Europa: in Francia con Lacordaire, Montalembert, Ozanam; in Germania con Görres, Walter, Phillips; in Inghilterra con Wiseman, Newman e
43 Ibidem, 333.
23
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il movimento puseista; in Spagna con Balmes e Donoso Cortes, in Italia
con Troya, Balbo, Cantù, Ventura, Rosmini, Gioberti, Taparelli d’Azeglio. Dopo le rivoluzioni del 1848, si ha una seconda fase che culmina nel
1860, in cui artefici di questo rinnovamento sono Périn in Belgio e Ketteler in Germania. Con la terza fase, che ha inizio nel 1870, questo «moto
si fa più militante e universale», soprattutto per la necessità di rispondere a un’avanzata socialista diventata ormai internazionale. Le scienze
sociali si rinnovano adesso all’interno di una comunione di pensiero che
va dall’Europa all’America, che porta il movimento cattolico a prendere
forme soprattutto associative. Ed è in questa fase che si assiste alla rinascita del tomismo come sistema filosofico paragonato all’insieme delle
scienze storiche e sociali.44 Va osservato, in questo senso, che nelle intenzioni di Leone XIII il ricorso alla filosofia di san Tommaso è anche finalizzato a poter intervenire direttamente nella riflessione politica e nella
valutazione dei rapporti tra Chiesa e Stato.45
Nello scenario storico ottocentesco, come il professore pisano sovente
ribadisce, il pensiero italiano ha dato un importante contributo alla più
precisa definizione della sociologia come «dottrina sintetica dell’incivilimento», consentendole di recuperare una capacità aperta di giudizio sui
fenomeni sociali, che era stata sottostimata dai cattolici nel clima del positivismo dell’epoca. Tra coloro che avevano maggiormente contribuito a
questa chiarificazione, facendone sovente il pensatore con cui approfondisce concetti e dinamiche dei propri ragionamenti, Toniolo indica Gian
Domenico Romagnosi. A suo giudizio, infatti, l’autore della Genesi del
diritto penale ha saputo dare connotazione di filosofia civile alla scienza
economica, che altrimenti sarebbe stata ridotta «ad un’arte gretta da banchiere»46 ed ha avuto il merito di avere coniato e divulgato l’uso del termine «incivilimento» nelle scienze sociali.47 Toniolo si adopera a diffondere il
giudizio sull’interscambiabilità dei termini «sociologia» e «incivilimento»,48
44 Cfr. Ibidem, 333-337.
45 A questo proposito si richiamano analisi e indicazioni di ricerca contenute in L. MALUSA, Il neotomismo e gli orientamenti della politica di Leone XIII, in A. ZAMBARBIERI (a cura di), I cattolici e lo stato
liberale nell’età di Leone XIII, 29-68. Su questo argomento era in precedenza intervenuto, tra gli altri, R.
AUBERT, Aspects divers du néo-thomisme sous le pontificat de Léon XIII, in G. ROSSINI (a cura di), Aspetti della cultura cattolica nell’età di Leone XIII, Atti del convegno tenuto a Bologna il 27-28-29 dicembre
1960, 133-227.
46 G. TONIOLO, Società scientifica generale fra i cattolici d’Italia, 159.
47 Cfr. G. TONIOLO, Ragioni, intendimenti e criteri di un primo congresso per le scienze sociali, 355.
48 G. TONIOLO, L’Unione cattolica per gli studi sociali in Italia. Intendimenti, costituzione, operato e
programma, in ID., Iniziative culturali e di azione cattolica, 86.
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spingendosi fino a dire che «la dottrina dell’incivilimento» è un’espressione «degna di essere sostituita a quella ibrida di sociologia».49
Ora, non v’è dubbio che Toniolo prenda molte delle sue tesi sull’incivilimento proprio da Romagnosi, che su di esso ha molto scritto e approfondito. Alla stessa maniera, però, è necessario sottolineare il suo utilizzo di
concetti filosofici di Rosmini, in particolare di quelli riguardanti la natura e
le dinamiche della società civile. Ciò si capisce attraverso l’analisi di non
pochi passaggi della teoria economica e sociologica di Toniolo, specialmente laddove si afferma che la conservazione e il progresso civile sono
determinati soprattutto dal «grande moto d’intelletti» che rende «cosciente un popolo dei propri doveri»50 e laddove si precisa che l’ordine sociale
assume criteri di armonia e finalità di bene comune se lega i «fini immediati» ed «esteriori» della società ai «fini generali, durevoli ed essenzialmente spirituali dell’incivilimento», cioè all’«ordine sociale finale».51 Ebbene, in queste due analisi si avvertono chiaramente, pure dal punto di vista
lessicale, le due concezioni rosminiane relative, nel primo caso, al ruolo che
hanno la ragion speculativa degli individui e la ragion pratica delle masse
come fattori di ordine e di progresso dell’umanità e, nel secondo caso, alla
necessità di legare sul piano dell’azione politica i fini prossimi e i fini remoti che si trovano nella società esteriore e nella società interiore. Sono concetti, questi, che in Sturzo si individuano nell’architettura speculativa della
sua sociologia storicista e che si rinvengono, tra l’altro, in qualche passaggio di Chiesa e Stato.52
Rosmini approfondisce questi due concetti in un’opera che pubblica tra
il 1837 e il 1839, la Filosofia della politica, che Toniolo, pur non citandola
in quei passaggi, pone tra le indicazioni bibliografiche essenziali per comprendere «il concetto e le leggi dell’ordine sociale e delle sue crisi» rispetto
all’affermazione storica del socialismo; un argomento trattato in una serie
di articoli apparsa inizialmente sulla «Rivista internazionale di scienze
sociali e discipline ausiliarie» tra il 1899 e il 1902, che era il frutto di lezioni pisane del periodo.53 Altri richiami a Rosmini sono presenti in una breve
49 G. TONIOLO, Ragioni, intendimenti e criteri di un primo congresso per le scienze sociali, 355.
50 G. TONIOLO, L’Unione cattolica popolare italiana. Ragioni, scopi, incitamenti, in ID., Iniziative culturali e di azione cattolica, 27.
51 G. TONIOLO, L’Unione cattolica per gli studi sociali in Italia, 91-92.
52 Per una prima individuazione delle fonti in cui sono contestualizzate tali concezioni cfr. A.
ROSMINI, Filosofia della politica, a cura di M. d’Addio, Città Nuova Editrice, Roma 1997, in particolare
85-97, 178-188, 189-210, 239-331, passim; L. STURZO, Chiesa e Stato. Studio sociologico-storico, I, prima
edizione italiana riveduta, Zanichelli, Bologna 1958, 110.
53 Cfr. G. TONIOLO, Il socialismo nella storia della civiltà, ora in ID., Capitalismo e socialismo, Opera
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Solidarietà 62/2010
nota di uno scritto del 1873, Dell’elemento etico quale fattore intrinseco
delle leggi economiche, in cui Toniolo si riferisce precisamente alla parte
pubblicata nel 1837, cioè Della sommaria cagione per la quale stanno o rovinano le società, e di avervi trovato delle «belle dissertazioni».54 Le riflessioni rosminiane sono congeniali al pensatore di Treviso, al quale interessa
mettere in risalto il fatto che «i sentimenti e le idee» conservano «una grande funzione nel campo degli interessi materiali anche nel secolo speculatore e banchiere» e «non cessano mai dall’esercitare il loro influsso, or temperato, ora violento, sulle vicende economiche».55 In questo scritto, fatto
servire nel 1873 come prolusione al corso di Economia politica tenuto da
libero docente nell’università di Padova, Toniolo di più non poteva dire –
e dopo di lui lo stesso farà Sturzo – forse in ragione degli ostacoli che in
quel momento venivano posti alla diffusione del pensiero rosminiano, che
nel 1888 doveva subire un’altra dura quanto immotivata condanna del Sant’Uffizio con un decreto Post obitum. Il sacerdote-filosofo di Rovereto era
morto nel 1855 e, nei decenni successivi, il suo sistema di pensiero sarà
attaccato in diverse fasi, soprattutto da quei gesuiti neotomisti propensi a
divulgare un ritorno alla filosofia di san Tommaso intesa in modo chiuso e
dogmatico, che invece Rosmini aveva saputo rinnovare secondo parametri
più attuali e originali. È indubbio che le concezioni tonioliane possiedano
una intrinseca e solida coerenza, ma ciò non esclude la loro prossimità a
quelle sviluppate da Rosmini non molti decenni prima. In tal senso il contributo dato da Toniolo alla storia della cultura cattolica consente di comprendere nella profondità dei concetti e nel lungo periodo della storia sia
la filosofia giuridico-politica di Rosmini, che la sociologia storicista di Sturzo; l’una e l’altra stanno in stretta relazione sincronica e diacronica con il
pensiero economico-sociale di Toniolo. Tutt’e tre fanno parte a pieno titolo di quel movimento di vita e di pensiero nel quale la civiltà umana si
costruisce nella ricerca del bene vero e la politica, al pari dell’economia, va
riferita all’orizzonte della morale.56
Omnia di G. Toniolo, Città del Vaticano 1947, 271, in cui è citato anche il saggio rosminiano, inizialmente pubblicato nel 1849, Comunismo e socialismo, che Toniolo legge nella versione ristampata in
appendice al primo volume della Filosofia della politica, edita per i tipi Pogliani, a Milano, nel 1858.
54 G. TONIOLO, Dell’elemento etico quale fattore intrinseco delle leggi economiche, Ed. Sacchetto,
Padova 1874, ora in ID., Trattato di economia sociale e scritti economici, II, Opera Omnia di G. Toniolo,
Città del Vaticano 1949, 287.
55 Ibidem, 286-287.
56 Alcune puntualizzazioni di Mario d’Addio sul rapporto che lega la politica e l’economia alla
morale nelle opere di Toniolo, Sturzo e Capograssi sono contenute in un intervento al dibattito seguito
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Solidarietà 62/2010
Si può dire che il “neoguelfo” Toniolo – il quale si sentirà sempre cattolico e italiano – ha voluto far notare quale sia il valore oggettivo del genio
italiano nella storia della civiltà. E il genio italiano, per lui, è tale soprattutto perché ha radici cristiane e perché riferisce il tracciato dell’incivilimento
alle più profonde dimensioni dell’umano; basterebbe pensare, per citare
alcuni dei nomi spesso richiamati nelle sue opere, a san Francesco d’Assisi,
san Tommaso, Dante, Giotto, Galileo, Vico, Rosmini. E non è un caso, in
questo senso, che ai giovani della Fuci egli indirizza, l’11 marzo 1915, una
lettera in cui li invita a concepire la loro attività come «ricostruttrice di
quella civiltà sempre antica e nova, nella quale la filosofia della storia, da
Agostino a F. Schlegel, era usa a riconoscere e adorare il misterioso intreccio del divino e dell’umano».57 Si distingue, in questo brano, il programma
di tutta una vita spesa per riannodare il cattolicesimo alle vicende storiche
dell’Italia secondo finalità di bene comune. A questo programma di lavoro
sono chiamate a rispondere anche le Settimane sociali. Toniolo le pensa, in
definitiva, proprio come lo strumento attraverso cui poter rinnovare le
matrici culturali del movimento cattolico mettendo in dialogo la tradizione
con i molteplici cambiamenti socio-economici e politici del periodo contemporaneo.
Summary
The “social weeks” of the catholics now and in the past:
the role of Giuseppe Toniolo
In this essay the role of Giuseppe Toniolo is described in the foundation and
promotion of the “social weeks” of the Italian Catholics, which began in 1907
thanks to his contribution. The work of Toniolo is decisive in re-organizing the
social presence of Italian Catholics during the difficult historical and political
moment at the end of the 19th Century and beginning of the 20th, and in order to
alla relazione proposta da Francesco Vito sul tema: Giuseppe Toniolo e la cultura economica dei cattolici
italiani. Relazione e intervento si trovano in G. ROSSINI (a cura di), Aspetti della cultura cattolica nell’età
di Leone XIII, Atti del convegno tenuto a Bologna il 27-28-29 dicembre 1960, 9-34, 42-47.
57 G. TONIOLO, Il dovere dei giovani. Lettera aperta agli egregi giovani della Federazione universitaria cattolica italiana, in ID., Iniziative culturali e d’azione cattolica, 470.
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Solidarietà 62/2010
understand the multiple ideological and socio-political transformations which characterized the transition from one century to the other. In this sense, he finds himself having to face, amongst many other problems of the time, the question of the
role of Catholics in the Italian society resulting from the Risorgimento. Through
the “social weeks” he meant to renew the cultural matrix of the Catholic movement
along lines which enabled tradition to dialogue with the social-economic and political changes of the contemporary world. (traduzione di Peter Cipolla)
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S
olidarietà
62/2010: 29-54
Uno strumento a servizio della Chiesa.
Le Settimane Sociali in Sicilia
tra memoria e speranza
Luigi Bontà
Introduzione
Le Settimane sociali sono luoghi di formazione dei cattolici e per i cattolici. Un luogo dalle molteplici relazioni: dalla produzione di idee alla
riflessione, dall’incontro-dibattito al confronto, dall’elaborazione culturale
al rilancio della dottrina sociale della Chiesa, dal senso di giustizia all’azione caritativa civile. Una sintesi, dunque, delle posizioni del laicato italiano
sulle questioni sociali, ed una testimonianza nell’incarnare un cristianesimo che accompagna l’uomo lungo i sentieri della vita, attraverso la dottrina sociale, esplicitata nelle numerosissime encicliche, a partire dalla Rerum
novarum di Leone XIII, passando dalla Quadragesimo anno di Pio XI, alla
Mater et magistra di Giovanni XXIII, alla Populorum progressio di Paolo
VI, sino a giungere alle grandi encicliche di Giovanni Paolo II, Sollicitudo
rei socialis, Centesimus annus, e di Benedetto XVI Caritas in veritate.
Le Settimane nascono nel solco della tradizione associativa ed in particolare nell’alveo del movimento cattolico; esse presero forma all’indomani
dello scioglimento dell’Opera dei congressi nel 1904, rimasta su posizioni
intransigenti rispetto ai cambiamenti della società del tempo; mentre, al suo
interno, la linea “minoritaria” vantava un certo attivismo e rivendicava
maggiori aperture sulle problematiche sociali, una condizione che difficilmente poteva raccordarsi con le direttive della presidenza, che, invece,
rimanevano arroccate su un terreno di intransigentismo astensionista. «La
soppressione dell’Opera permetterà una graduale attenuazione del non
expedit, alla quale certamente il papa già da tempo andava pensando».1
Una decisione, quella di Pio X, dunque che segna un punto di non ritorno
nel processo di avvicinamento nelle scelte socio-politiche e poneva le basi
per un nuovo corso sul ruolo e sull’azione laicale da svolgere nell’ambito
1 F. FONZI, La Chiesa e lo stato italiano, in E. GUERRIERO-A. ANNIBALE ZAMBERBIERI, La Chiesa e la
società industriale, Storia della Chiesa, vol XXII/1, San Paolo, Cinisello Balsamo 1990, 315.
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Solidarietà 62/2010
della società. Certamente, la strada ancora da percorrere era lunga e tortuosa, non priva di ostacoli, e spettava ai magisteri di Leone XIII e del suo
successore, Pio X, dettare la tabella di marcia per riaffermare i principi e i
valori della fede in una situazione storica in continuo mutamento. E il
mondo laicale rimaneva al servizio della Chiesa e ubbidiente alle indicazioni ecclesiastiche, benché stesse maturando nuovi approcci ed innovative
forme di partecipazione alla vita sociale del paese, al fine di convogliare ed
ampliare il respiro della vita della Chiesa sul fronte socio-politico e di alimentare il ricco dibattito particolarmente animato dalle punte più avanzate del cattolicesimo democratico.
Indubbiamente, le Settimane sociali dei cattolici sono state avviate dalla
necessità di colmare un vuoto storico di rappresentanza socio-politica della
realtà e di fornire ai cattolici risposte e soluzioni per poter meglio agire con
responsabilità e testimonianza intorno alle grandi e alle più specifiche questioni dibattute nella società civile. Sono state istituite quindi «per essere lo
strumento o uno degli strumenti offerti ai cattolici per prepararli ad agire
nella società civile come portatori di valori capaci di promuovere la crescita delle persone e della collettività».2
Un itinerario che attraversa il Novecento in una prospettiva di servizio
alla Chiesa e alla società italiana, interpretato dagli intellettuali cattolici e
destinato a svolgere un ruolo significativo nella vita sociale e politica, pur
con tante difficoltà; si pensi, soltanto, alle tensioni politiche dell’età liberale o a quelle sociali nel secondo dopoguerra o ancora ai momenti di grande travaglio che ebbero a vivere le Settimane nella fase sessantottina. Un
bagaglio culturale che fa parte della tradizione cattolica e ci spinge ad interrogarci sul peso avuto nella storia della Chiesa italiana e della società.
Quale influenza le Settimane abbiano esercitato sul popolo di Dio e se l’impronta lasciata dagli incontri permane in modo duraturo. Ed ancora, se le
Settimane sociali rappresentano pienamente le organizzazioni cattoliche e
qual è la percezione che le stesse assumono per le chiese locali. Numerose
domande cui l’esercizio della risposta non è agevole e va comunque differenziato per aree culturali, né in questa sede si daranno adeguate risposte.
Interrogativi comunque che appaiono ancor più legittimi e pertinenti se li
inseriamo in un tempo di preparazione della 46ª Settimana sociale che si
terrà in ottobre a Reggio Calabria, il cui tema di fondo richiama «il bene
comune», una categoria assai cara al mondo cattolico e in parte compromessa dall’abuso fatto in alcuni ambiti della società. Un leitmotiv scanda2 A. COVA, Sulla ripresa delle Settimane sociali, in «Vita e pensiero», 12 (1987), 818.
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Solidarietà 62/2010
gliato a fondo dalla Gaudium et spes e più volte ripreso dal magistero pontificio e dalla pubblicistica cattolica.
Una nozione indubbiamente influenzata dalle grandi e continue trasformazioni della società e costretta a ripensarne gli ambiti e i modi in una prospettiva oramai antropologica, «cercando di elaborare insieme un neo-personalismo solidale che consenta di “andare oltre” l’individualismo libertario oggi dominante e di fare unità nella diversità». E continua Sorge che il
bene comune «non va confuso né con il bene privato, né con il bene pubblico. Nel bene comune, il vantaggio che ciascuno trae per il fatto di far
parte di una certa comunità non può essere scisso dal vantaggio che altri
pure ne traggono».3 «Un bene comune globale» sgranato in «un’agenda di
speranza per il futuro del paese», per orientarsi nella contemporaneità e
stabilire le linee di indirizzo per i prossimi anni sul fronte delle grandi problematiche del nostro tempo.
In ultima analisi bisogna interrogarci sui risultati raggiunti, sugli obiettivi invece mancati e sulle prospettive da cercare e da aprire da più parti,
tenendo conto che uomini e donne si sono mossi nell’intento di promuovere la persona umana, il cittadino in tutte le sue dimensioni, al fine di conseguire il primato della fede.
1. Le fonti
Ricostruire storicamente le Settimane sociali pone una serie di interrogativi e di questioni che investono innanzitutto il rapporto tra la gerarchia
ecclesiastica e il laicato e in second’ordine la dialettica tra le istituzioni civili e il mondo cattolico.
A livello storiografico, le ricerche sulle Settimane sociali dei cattolici
occupano un posto non di rilievo, soprattutto per quanto riguarda l’analisi
complessiva degli incontri e la puntuale contestualizzazione degli stessi
all’interno di un quadro sociale, politico ed economico dell’Italia.
Un dibattito che fatica a trovare una platea più vasta e che rimane confinato in determinati ambienti accademici, le cui ricadute si riflettono sui
contribuiti che qua e là vedono la luce, ma che sovente sono deficitari di
un’indagine dettagliata sull’incidenza storica delle Settimane. Perché dunque sono poco studiate e trovano un limitato spazio anche tra la carta stampata cattolica e dai media? Anche nell’ambito della ricerca sul movimento
3 B. SORGE, La settimane sociali: confrontarsi sul bene comune, in «Aggiornamenti Sociali», 6 (2007),
411-412.
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Solidarietà 62/2010
cattolico l’interesse rimane piuttosto circoscritto e ancora si attende uno
studio analitico delle Settimane che faccia emergere la reale incidenza sulla
vita del mondo cattolico, sebbene siano state avviate da qualche tempo tentativi per comprendere il fenomeno nel suo complesso.4
Una delle conseguenze di questo stato di cose è dovuto alla scarsissima
presenza, nei testi di sintesi e nei manuali, degli incontri periodici che
hanno avuto almeno due aspetti rilevanti da considerare: l’accensione della
luce sulle forze più significative dell’ambiente cattolico e il contributo dato
dai cattolici alla vita sociale e politica del paese.
Ma a ben guardare gli studi su tale argomento salta agli occhi un tributo storiografico incentrato essenzialmente sulle origini del fenomeno e in
particolare sui principali protagonisti delle Settimane, sul contesto storico
entro cui fiorirono e le ragioni che portarono la gerarchia ecclesiastica a sollecitare e sostenere siffatto progetto; mentre le lacune si accentuano allorché si vogliano seguire gli sviluppi interni, «i momenti ed i periodi di più
intensa capacità propositiva, di maggiore incidenza sul terreno culturale,
sociale, economico e politico».5 È stata avanzata l’ipotesi che
Il disinteresse degli studiosi è dovuto probabilmente al fatto che le S.S. non
furono una realizzazione autonoma bensì un’iniziativa dell’azione cattolica,
anche se fra le è più importanti per continuità e incidenza e per il costante controllo che vi esercitò la gerarchia ecclesiastica, particolarmente nel secondo
dopoguerra. Sono state viste perciò come prive di una loro autonomia perché
facenti parte di un più ampio disegno strategico della cattolicità italiana.6
Altri, invece, ritengono che le cause vadano ricercate nell’organizzazione
dell’Unione popolare e nelle iniziative da essa intraprese, e anche nelle difficoltà di accedere ai testi integrali, almeno per la fase iniziale delle Settimane sociali, poiché furono pubblicati soltanto brevi sintesi degli interventi.7
Una ricerca più attenta e completa è quanto mai urgente e non più
4 Cfr. A. ALBERTAZZI, Settimane sociali, in F. TRANIELLO-G. CAMPANINI, in Dizionario storico del
movimento cattolico in Italia (1860-1980), III, Marietti, Casale Monferrato 1984, 941-953; P. BORZOMATI, Settimane sociali e convegni ecclesiali, in Dizionario storico del Movimento Cattolico. Aggiornamenti
1980-1995, Marietti 1820, Genova 1997, 111-116. G. DI CAPUA (a cura di), Le settimane sociali dei cattolici italiani (1907-1991), Ed. Ebe, Roma 1991.
5 A. ROBBIATI, 1907-1913. I primi passi tra indifferenza e ostilità, in Le Settimane Sociali. 90 anni di
storia dei cattolici italiani, Ed. Dehoniane, Roma 1989, 100.
6 G. ROMANATO, Le Settimane sociali. Un’istituzione poco studiata, 15-16.
7 Cfr. A. ROBBIATI, 1907-1913. I primi passi tra indifferenza e ostilità, in Le Settimane Sociali. 90 anni
di storia dei cattolici italiani, 100.
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Solidarietà 62/2010
rimandabile; va invocata per decifrare e per comprendere il pieno significato e la portata delle Settimane, così da restituirci la giusta collocazione
delle stesse nella storia della Chiesa e nel rapporto con la società civile e da
assegnare il doveroso riconoscimento ai laici per il contributo che hanno
offerto alle gerarchie ecclesiastiche.
Uno sguardo che deve accogliere le interviste, i documenti ufficiali, le
relazioni dei partecipanti agli incontri, le memorie dei protagonisti e gli stessi commenti dei partecipanti, ma anche le foto che documentano e sintetizzano i momenti salienti dell’evento, grazie alla capacità del fotografo di fissare un frammento di mondo: figure, volti, gruppi e attimi vengono immortalati nel tentativo di cogliere il clima del periodo e riconsegnare la spazialità e la corporeità dei protagonisti.
«L’impatto dell’immagine sull’immaginazione storica» ci mette nelle
condizioni di trarre una vivida fotografia del passato per adoperare una
felice espressione di Francis Haskell. Del resto, il valore documentale della
fotografia è oramai un dato acquisito. Analoghe considerazioni possono
svilupparsi per i documentari e in genere per i prodotti filmici. Un altro
genere di fonti assai utili appare l’uso delle testimonianze orali nella ricostruzione delle vicende che hanno portato all’organizzazione e alla celebrazione delle Settimane sociali. Difatti, la raccolta di informazioni personali
degli organizzatori e dei relatori può rivelarci aspetti inediti che le fonti
scritte non sono in grado di illuminare, aprendo così nuovi terreni di ricerca e gettando fasci di luce su particolari situazioni difficilmente ricostruibili dagl’altri documenti. Sarebbe auspicabile anche l’utilizzo delle interviste
per integrare gli avvenimenti e i vuoti della documentazione scritta. Ed è
anche vero che l’intervista – pur incontrando oggettive difficoltà dovute
alla deformazione temporale, alla memoria, alle emozioni dell’intervistato
–, assume un carattere di fonte a tutti gli effetti con legittimità e valore pari
a quella della produzione scritta, nonostante siano molti gli elementi della
soggettività che interagiscono tra loro e la relativa affidabilità della fonte.
Tuttavia è interessante l’organizzazione dei pensieri dell’intervistato-testimone secondo una propria scala di valori ai fini di individuare il ruolo dello
stesso all’interno della struttura. Difatti, la storia orale non è una semplice
raccolta di testimonianze sui fatti e sugli avvenimenti storici, ma «una complessa costruzione dialogica di narrazioni in cui l’intervistatore è altrettanto in gioco, altrettanto coinvolto dell’intervistato […]. Non si può fingere
che un dialogo sia un monologo».8
8 G. DE LUNA, La passione e la ragione. Fonti e metodi dello storico contemporaneo, La Nuova Italia, Milano 2001, 137-138.
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Solidarietà 62/2010
Ovviamente le fonti orali devono essere vagliate in modo combinato con
quelle scritte, quelle visive e, per ultimo, con quelle on line. Su quest’ultime si aprono nuovi scenari e la loro applicazione senza dubbio incrementa la possibilità di ricerca storica e facilita il reperimento di documenti non
sempre di facile accesso. Sarebbe opportuno, a tal riguardo, costruire un
data base sotto il diretto controllo della CEI per far sì che venga raccolto il
materiale prodotto e trattarlo adeguatamente per facilitarne la memorizzazione e l’elaborazione.
Compete comunque allo storico individuare i documenti ritenuti più
significativi e farli parlare da differenti punti di vista in una dimensione
interdisciplinare e con una visione della realtà complessa, mettendo in
scena temi, attori e protagonisti anche quelli minori, sovente esclusi dalla
storia, scritta utilizzando qualsiasi testimonianza degli uomini. In definitiva, tutti i documenti hanno uguale dignità, dagli scritti ufficiali ai giornali,
dalle fotografie al cinema, dalla televisione ad internet, dalle lettere private
alle espressioni artistiche in genere, per raccontare eventi e misurarsi con il
passato e leggerli in un quadro di riferimenti compiuti.
2. Il lungo cammino delle Settimane sociali
Le Settimane nascono nel 1907 sull’esempio della Francia, che qualche
anno prima aveva inaugurato l’iniziativa. L’Italia cattolica accoglieva l’idea
di proporre degli incontri per dare risposte al paese, seguendo gli insegnamenti della Chiesa e cercando di dare voce ai propri pensieri.
Il titolo da assegnare ai periodici incontri, promossi dall’Unione Popolare, non fu suggerito da Giuseppe Toniolo, fondatore, assieme al cardinale Pietro Maffi, delle Settimane sociali. Essi avevano battezzato gli appuntamenti con il nome «Congressi di Studi sociali»; fu invece Pio X indirettamente a spingere i promotori ad assegnare il nome con cui passeranno
alla storia, allorché nel messaggio augurale inviato al cardinale Maffi, presidente del convegno, ebbe ad adoperare l’espressione a noi famigliare.
Nel ripercorrere la storia delle Settimane si possono leggere le vicende,
gli avvenimenti di un’Italia che, nel corso di un secolo, ha assistito a profonde trasformazioni e intrapreso strade accidentate e prive di sbocchi speranzosi per il bene dell’Italia stessa. È sufficiente anche osservare la mappa
geografica delle città, che hanno ospitato le Settimane, per confermare l’esistenza di dislivelli socio-culturali-economici dell’Italia: il Nord ha accolto gli
incontri per ben venti volte, un po’ meno il Centro che si attesta a quattor34
Solidarietà 62/2010
dici ed infine dodici volte il Sud, incluso l’incontro di Reggio che avverrà nel
2010. Questi semplici dati rimandano alla suddivisione sociologica delle tre
Italie e ci ricordano antiche questioni irrisolte e povertà anche culturale di
un Sud che stenta a decollare nel ripensare la propria collocazione all’interno non solo dell’Italia, ma direi anche dell’intera area mediterranea.
Per capire la portata storica delle Settimane occorre preliminarmente
prendere in considerazione l’intero arco cronologico in cui sono avvenuti
gli incontri e dipanarlo in blocchi, così da risultare più immediata la lettura di questi appuntamenti che hanno assunto, a seconda dei contesti e del
tempo, diverso valore all’interno della Chiesa e della società civile italiana.
Si possono individuare due grossi blocchi. Il primo parte dalle origini,
cioè dal 1907 fino al 1970; l’altro, invece, dopo un periodo di transizione in
cui furono sospesi, racchiude un lasso di tempo che va dal 1991 ad oggi. A
sua volta il primo periodo lo si può suddividere in tre fasi: dal 1907 al 1913;
dal 1920 al 1934; dal 1945 al 1970. Periodi comunque attraversati da un filo
rosso legato alla tematica del bene comune che stava alla base della costruzione di un futuro certo per le nuove generazioni e più in generale dell’Italia secondo un’ottica cristiana: le proposte di idee, le soluzioni dei problemi sociali, economici, culturali e politici erano obbiettivi da poter raggiungere seguendo i principi del Vangelo e della dottrina sociale della Chiesa.
Nella prima fase, l’influenza di Giuseppe Toniolo fu piuttosto rilevante.
Abbraccia il periodo che parte dalla Settimana di Pistoia del 1907 e si conclude nel 1913 a Milano con il tema Le libertà civili dei cattolici, che cadeva, non a caso, per il XVI centenario dell’Editto di Costantino. Sotto il pontificato di Pio X le Settimane ebbero una funzione di stimolo operativo e i
cattolici si attrezzarono per destinare le proprie forze a sostegno delle
masse e nel contempo contrastare le ideologie materialiste, laiciste e massoniche. Una risposta certo non strettamente politica, ma sociale dettata
dalla consapevolezza che l’ostilità verso lo Stato liberale non poteva precludere un’articolata azione di recupero delle masse se non attraverso una
ramificata rete organizzativa solidale e mutualistica.
Delle prime otto Settimane possiamo individuare alcuni campi di indagine e di riflessione. In continuità con l’Opera dei congressi, l’Unione
popolare s’impegnò ad approfondire la difficile realtà dell’istruzione pubblica, un settore a cui la Chiesa aveva sempre guardato con particolare interesse, a differenza dello Stato che, pur avendo avviato una politica per l’istruzione, era ancora ben lontano nel debellare l’alto tasso di analfabetismo
presente nella società italiana, specie al sud. Il problema della scuola veniva esaminato nelle singole lezioni e addirittura diventò oggetto di studio,
35
Solidarietà 62/2010
come tema monografico, nella Settimana di Venezia del 1912 dove furono
numerosi gli argomenti toccati, tra cui la preparazione delle giovani leve al
lavoro mediante le scuole professionali. E più in generale, le tematiche delle
Settimane oscillavano dalle questioni legate al mondo del lavoro – contratti, organizzazione sindacale, cooperazione, economia e agricoltura – alla
famiglia, alla cultura, alla libertà civile dei cattolici. Una serie di argomenti
affrontati con grande spirito di servizio per l’interesse della patria, nonostante gli ostentati sentimenti anticlericali dei governi del tempo. Un’ulteriore conferma dunque di un sentire comune che investiva direttamente il
laicato, stimolato dalla tensione morale e dalla difesa dei valori cristiani.
L’incontro di Assisi del 1911 vide una nuova rimodulazione delle Settimane, poiché si decise di affrontare un solo tema, a differenza dei precedenti incontri in cui gli argomenti posti sul tappeto erano diversi e comunque vertevano sulle priorità del momento.
In questa fase le Settimane raccolsero le fila di un mondo cattolico composto in prevalenza da laici e dal clero proveniente dal movimento democratico cristiano, uomini dotati di un robusto outillage culturale e mossi da
un forte stimolo all’azione sociale.
Lo scoppio della grande guerra interruppe tale esperienza che riprese
vigore subito dopo la fine del conflitto con il nome di Congresso di Studi
Sociali, per poi ritornare al tradizionale titolo delle Settimane sociali: dal
1920 al 1934 si indissero ben dieci appuntamenti e le ampie tematiche spaziavano dall’educazione alla famiglia, dalla produzione alla carità, dalla
moralità professionale all’unità religiosa. Questa seconda fase coincise con
gli anni della nascita del Partito Popolare e del sindacato CIL, con l’operato di p. Agostino Gemelli, nonché con l’affermazione del regime fascista e
con il papato di Pio XI, anni difficili per l’Italia e la Chiesa, compressi dal
sistema del regime fascista, teso ad occupare campi sino ad allora egemonizzati dalla Chiesa; il caso dell’Azione Cattolica, ridimensionata nel 1931
dalle imposizioni del regime, costituisce un esempio eclatante e testimonia
i rapporti altalenanti tra il mondo cattolico e il Fascismo. Tra le vittime
eccellenti, per così dire, ritroviamo anche le Settimane che si chiusero con
il 18º incontro di Padova nel 1934 dove la discussione verteva intorno alla
Moralità professionale. Difatti i forti condizionamenti e le tensioni tra il
regime fascista e alcuni apparati della Chiesa convinsero gli organizzatori a
sospendere l’esperienza, poiché venivano meno le condizioni necessarie
per poter svolgere, con i dovuti margini di libertà, un serrato confronto e
un reale dibattito del mondo cattolico per le sorti dell’Italia.
Con la fine della seconda guerra mondiale si ripristinarono le Settimane
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Solidarietà 62/2010
che furono preparate dall’Azione Cattolica per alcuni anni e in seguito
ritornarono ad essere dirette dalla Santa Sede.
Nella fase ultima, che va dal 1945 al 1970, si aprì un dibattito sulla ricostruzione economica-sociale del paese, dopo il ventennio fascista e la disastrosa guerra. In questo periodo occuparono la scena personaggi di
primo piano del mondo cattolico e politico: La Pira, Lazzati, De Gasperi,
esponenti del partito di maggioranza, la Democrazia cristiana, legato alla
gerarchia ecclesiastica. Sono anche gli anni del cardinale Giuseppe Siri,
presidente delle Settimane dal 1949 al 1970.
Le Settimane ebbero inizio con un tema civilmente profetico Costituzione e costituente (1945). Una tematica, per quel tempo, di grande attualità che per certi versi anticipava questioni, riprese successivamente dalla
Costituente. E si chiusero a Brescia con il tema Strutture della società industrializzata e loro incidenza sulla condizione umana, in cui la dignità dell’uomo era posta davanti al progresso tecnologico.
Con il Concilio vaticano II e il movimento di contestazione giovanile
si entrava in una nuova dimensione della realtà. A questo complesso
mutamento delle mentalità, la stretta collaborazione dell’Università cattolica di Milano – sotto la direzione di p. Agostino Gemelli e di Francesco Vito, che ebbero responsabilità istituzionali nella realizzazione delle
Settimane sociali –, non risollevò le sorti degli incontri. Il patrimonio
accumulato in decenni di attività veniva messo in discussione e anche la
formula, sino ad allora proposta, mostrava tutti i segni di stanchezza e
scarsa aderenza alle grandi questioni della società contemporanea. La
necessità di un profondo rinnovamento, di calarsi nel vivo delle cose e
della vita sociale e di ripensare ad una nuova formula costrinse gli organizzatori a sospendere le Settimane. Una lunga parentesi peculiare in un
processo di riordino in cui l’esperienza non fu del tutto dimenticata se
l’Università cattolica di Milano, rifacendosi idealmente alle Settimane,
continuò negli Settanta e Ottanta gli incontri formativi e di studio sulla
vita culturale del paese.
Si riprese a discutere in maniera insistente sul destino e sull’importanza
delle Settimane per i cattolici dopo l’appuntamento di Loreto nel 1985,
allorché Giovanni Paolo II diede nuovo impulso a riprendere l’antica tradizione. A Loreto, infatti, il papa invitava i cattolici ad operare umilmente
e con coraggio per una piena ed attiva presenza della fede nella società pluralistica e secolarizzata ed a ripensare le Settimane in una nuova visione e
più vicina alle esigenze e ai bisogni della società; la CEI, in tal senso, si
operò a riformulare l’iniziativa con lo scopo di «corrispondere alle esigen37
Solidarietà 62/2010
ze attuali dei cattolici italiani e di affrontare, e possibilmente anticipare, i
temi dell’odierno dibattito socio-culturale, in grado quindi di far opinione
collettiva dentro e fuori il mondo cattolico italiano».9 Uno strumento e
un’occasione di confronto e di analisi ben evidenziata dalla nota pastorale
della CEI che tracciava le finalità e gli scopi che dovevano assolvere le Settimane:
la chiesa italiana […] vuole con la ripresa delle Settimane Sociali non solo
garantirsi uno strumento d’ascolto e di ricerca, ma anche offrire ai centri e
agli istituti di cultura, agli studiosi e agli operatori sociali occasioni di confronto e d’approfondimento su quel che sta avvenendo e su quel che si deve
fare per la crescita globale della società.10
In questo modo si voleva avviare un processo di riaggregazione intorno
alla CEI per assicurarsi una maggiore efficacia comunicativa che avrebbe
assicurato un riavvicinamento verso la società civile. Così, dopo un lungo
ripensamento, Roma potè dare il via alla fase in cui stiamo vivendo. Era il
1991 e il tema in discussione riguardava I cattolici e la nuova giovinezza dell’Europa. Con l’elaborazione di un nuova formula e con il coagularsi di forze
intorno al Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane, si ripartiva
nel tentativo di consegnare ai cattolici le aspirazioni profonde di un cristianesimo rivolto a tutti e di proporre alla società un modello di convivenza
finalizzato alla ricostruzione etico-morale del paese. L’impronta riformatrice
della CEI tentava e tenta di far affiorare, in una prospettiva antropologica
ed identitaria, il sostrato più profondo dell’italianità su cui impiantare la vita
di uomini e donne nella speranza di un futuro migliore.
Una fase dettata da una serie di fattori di carattere organizzativo e di
programmazione dell’evento che riservava al laicato compiti ancor più marcati e di responsabilità rispetto alle precedenti edizioni. Un riconoscimento ecclesiastico maturato dall’assunzione di consapevolezza del processo
d’emancipazione laicale che il Vaticano II aveva contribuito a rivalutare.
Per quanto riguarda la gestione, nel primo periodo storico, fu direttamente controllata dalla Curia Romana, il Presidente e il Segretario erano di
nomina pontificia; mentre nella seconda fase spettò alla Conferenza Episcopale Italiana organizzare e gestire le Settimane. Un’altra differenza consisteva nella volontà della CEI di raccordarle e pianificarle con le linee
9 F. CHARRIER, Ripristino e rinnovamento delle Settimane sociali dei cattolici italiani, in «Vita e pensiero», 6 (1989), 403.
10 Ripristino delle «Settimane Sociali dei Cattolici Italiani», «Aggiornamenti sociali», 1 (1989) 40, 73.
38
Solidarietà 62/2010
pastorali e più in generale con il cammino complessivo della Chiesa italiana. Anche il ruolo giocato dal laicato, in quest’ultimi anni, appare più significativo e rilevante, tant’è che il livello complessivo si presenta più omogeneo, poiché «fondato più sulla qualità dei contenuti che sulla formale autorevolezza dei relatori laici».11 A tale situazione si lega anche un altro aspetto certamente non secondario che risiede nella
concorrenzialità delle iniziative in atto, anche in ambito sociale, a opera di
associazioni e movimenti cattolici. In una lunga stagione del passato le Settimane sono apparse come “il” luogo privilegiato della riflessione dei cattolici sul sociale; oggi sono piuttosto “un” luogo che – al di là del prestigio
dato dall’eredità di un lungo passato – deve di volta in volta conquistare sul
campo i “galloni” attraverso lucidità delle analisi, la capacità di cogliere il
senso delle trasformazioni sociali in atto, l’attitudine a fare incontrare le
migliori espressioni della cultura di ispirazione cristiana, senza, peraltro,
aprioristiche chiusure nei confronti della migliore cultura “laica”.12
3. Gli incontri isolani
Delle 45 Settimane sociali, celebratesi in Italia, solo tre hanno avuto
come sede la Sicilia: nel 1908, sotto il pontificato di Pio X, unico caso nella
storia delle Settimane in cui si progettarono due incontri, il primo a Brescia
e l’altro a Palermo; nel 1953, all’epoca di Pio XII, sempre a Palermo, e nel
1968 a Catania, quando sul soglio pontificio sedeva Paolo VI. La scelta di
toccare diverse città aveva lo scopo di abbracciare l’intero stivale e coinvolgere anche quelle aree del paese, come ebbe a dire Lucio Lanza di Scalea nella Settimana palermitana del 1908, «più trascurate».
Con l’appuntamento di Palermo, corrispondente alla 3ª Settimana e
svoltosi dal 27 settembre al 4 ottobre 1908, si cercò di dare uno sguardo ai
problemi della lunga Italia. La tematica scelta riguardava le Questioni del
lavoro e dell’economia. Problemi agricoli. Programma sociale e organizzazioni cattoliche.
L’argomento individuato rifletteva la difficile situazione del tempo, caratterizzata – come si è già detto – da un forte contrasto verso lo Stato liberale
e da un acceso dibattito intorno al ruolo dei cattolici in campo socio-politi11 G, CAMPANINI, Un secolo di impegno per il bene comune, La 45ª Settimana Sociale, in «Aggiornamenti sociali», 58 (2007) 4, 285.
12 Ibidem.
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Solidarietà 62/2010
co ed infine dall’avanzata dei socialisti tra le masse dei lavoratori e dei contadini. Nel discorso inaugurale pronunciato dal cardinale di Palermo, Alessandro Lualdi, non potevano mancare riferimenti al clima sociale dell’Italia,
all’anticlericalismo strisciante se non aperto e aggressivo, indicando i mali
presenti nell’«organismo civile: dottrine anticristiane, utilitaristiche, corruttrici, frutto di falsa filosofia, le quali ora stanno depositate come in ristagno,
agendo tuttavia sottilmente e insidiosamente sulla vita intellettuale, morale
ed anche economica della società». E continuava polemicamente nell’analisi accusando, senza mai indicare la fonte, di «gonfi[are] questo popolo, con
dottrine superbe, con promesse seducenti, con illusioni vane di un avvenire
pieno di luce e di felicità, e le dottrine e le promesse e le illusioni convennero da più parti in triste ammasso sino ad esaltarlo al punto da reputarsi
sovrano».13 Chiari riferimenti alla borghesia liberale e al movimento socialista, accusati di costruire una società lontana dai valori e dai principi cristiani e di contrastare l’azione pastorale della Chiesa, “uscita dalle sacrestie” e
pronta a realizzare un ampio progetto sociale a favore delle masse contadine e dei lavoratori. L’alto prelato non si limitava ad individuare i mali della
società, ma proponeva anche ricette e indicazioni utili per guarirne. In tal
senso le sue parole assumevano un valore determinante:
Non basta studiare, agguerrirci di cultura sociale profonda, ma bisogna
che noi, rivolgendo le nostre speciali attenzioni al popolo, scendiamo in
mezzo a lui, non per abbassarci ma per prendere per mano l’inferno e innalzarlo ad uno stato di benessere morale e materiale. Prenderlo per mano, con
l’insegnamento della dottrina cristiana, colla propaganda di stampe e letture oneste, colle casse rurali, con le cooperative, unioni professionali ed altre
istituzioni suggerite da bisogni veri ed urgenti; ecco l’azione alla quale dobbiamo tenerci pronti a sacrificarci dopo i nostri studi.14
Siamo nel periodo più fruttuoso del movimento cattolico con le fondazioni di casse rurali, con l’istituzione di cooperative ed affittanze. È la risposta della Chiesa alle politiche dei governi liberali e alle dinamiche interne
della società del tempo. La Chiesa, tracciando una linea modernizzatrice, si
proiettava verso settori socio-economici inesplorati per rimanere vicino alle
masse contadine e per promuovere un effettivo ammodernamento del sistema agricolo locale. Sul terreno politico, il non exspedit rimaneva valido,
precludendo così la partecipazione dei cattolici alla vita politica, ma non
13 Resoconto del discorso inaugurale del card. Alessandro Lualdi, in A. ROBBIATI (a cura di), La cultura
sociale dei cattolici italiani alle origini. Le “settimane” dal 1907 al 1913, I, Vita e Pensiero, Milano 1995, 401.
14 Ibidem, 402.
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certo a quella civile del paese. L’idea che i cattolici potessero ricoprire un
ruolo nella vita politica, organizzandosi in un vero e proprio partito aconfessionale, cioè autonomo rispetto alle direttive della gerarchia ecclesiastica, non era ancora praticabile. Già Leone XIII, con l’enciclica Graves de
Communi del 1901, e Pio X con le indicazioni generali per le elezioni politiche del 1904 e con l’enciclica Il fermo proposito dell’anno dopo, ribadivano un principio in cui si tolleravano poche eccezioni: i cattolici avevano il
dovere di rispettare le direttive della Chiesa che sul fronte politico non si
distanziavano da quelle emanate da Pio IX. In un discorso, tenuto nel
dicembre 1905 a Caltagirone, don Luigi Sturzo, con grande senso pratico
e critico nei confronti dei democratici cristiani, affermava che i tempi per
formare un partito democratico di ispirazione cattolica aconfessionale non
erano ancora maturi ed era necessaria, quindi, una lunga e prudente azione preparatoria da svolgere in campo amministrativo.
È evidente che la Chiesa non disponeva di un’attrezzatura culturale di
ordine politico sufficientemente sviluppata, tale da interloquire con i gruppi di potere civile e dare risposte incisive e pienamente adeguate al sistema
di relazioni generali. Essa rimaneva sostanzialmente a ricoprire il tradizionale ruolo di «servizio religioso pubblico» destinato ad «una società che
allora aveva una morale pubblica quasi coincidente con quella cattolica».15
La presidenza della 3ª Settimana fu assegnata a Giuseppe Toniolo, leader riconosciuto dell’Unione popolare. I relatori provenivano da esperienze democratico-cristiane e dal movimento cattolico e rappresentavano i più
autorevoli studiosi e attivisti del mondo cattolico del tempo. In particolare
comparivano i preti sociali Michele Sclafani, Angelo Gurrera, capi dei due
movimenti cattolici rispettivamente della diocesi di Agrigento e di Caltanissetta, l’avv. palermitano Vincenzo Mangano e il calatino Luigi Sturzo, già
leader indiscusso dei democratici e fondatore qualche anno dopo del Partito popolare. Il 1908 si rivelò un anno piuttosto fecondo per il movimento cattolico siciliano in quanto al V congresso regionale cattolico, tenutosi
a Catania nel mese di agosto, in “sintonia” con l’Unione popolare, si tentò
di riordinare e coordinare le iniziative sociali.16 Si trattava, mediante una
cabina di regia, di avviare un processo di riorganizzazione della vasta ed
articolata rete di casse rurali, consorzi agrari, affittanze collettive ed altro,
che conduceva al superamento delle numerose difficoltà incontrate in ordine alla concorrenza interna tra le diverse realtà, alle strategie da adottare e
15 A. RICCARDI, Relazione introduttiva, in M. SIMONE (a cura di), Il bene comune oggi un impegno che
viene da lontano, Atti della 45ª Settinana Sociale dei Cattolici Italiani, Ed. Dehoniane, Bologna 2008, 36.
16 Cfr. F. PIVA- F. MALGERI, Vita di Luigi Sturzo, Ed. Cinque Lune, Roma 1972, 157-172.
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agli indirizzi da perseguire. In tal modo si cercava di operare in un’unità
d’azione istituendo tre segretariati di cui Luigi Sturzo ebbe quello elettorale, a don Angelo Gurrera toccò quello economico, mentre Francesco Parlati si occupò della propaganda e dell’organizzazione. In questo clima di
“riconciliazione”, il mese successivo, i democratico-cristiani siciliani si
recarono alla Settimana sociale, dove ebbero un ruolo di primo piano.17
Gli argomenti si sintetizzarono in quattro filoni: problematiche del
mondo del lavoro, l’educazione, l’economia e la finanza, i rapporti tra Stato
e Chiesa. Il primo occupava un posto assai rilevante e la qualità e la quantità dei contributi svelava gli indirizzi dibattuti all’interno dell’Unione
popolare. Agostino Gemelli, con una relazione sulle «Malattie dei lavoratori in rapporto con la legislazione sociale odierna», entrava nel merito
della medicina sociale intesa come
il prodotto degli intimi rapporti che si sono andati stabilendo tra le meravigliose conquiste delle scienze sperimentali, che sono a base della medicina,
e le dottrine sociologiche, cosicché quei progressi scientifici vennero riguardati nella loro importanza economico-sociale.18
L’intervento di Antonio Pottier, docente di sociologia nel Collegio leonino di Roma, era centrato sulla «Cooperazione di lavoro e di produzione»,
un sistema in cui si «metteva nelle medesime mani il lavoro ed il capitale»
e toglieva così la possibilità di conflitto fra le parti, fra imprenditore e lavoratori.19 Sempre sui rapporti sindacali verteva la relazione di Giovanni
Maria Longinotti, «Le organizzazioni professionali», soffermandosi sulla
funzione svolta da esse per la «difesa dei lavoratori dall’eventuale sfruttamento capitalista e dalla insidia anticristiana del socialismo»; azione che
sarebbe dovuta essere tutelata dall’istituzione dei sindacati, chiamata a tradurre le istanze dei lavoratori sotto una prospettiva cristiana; difatti, continua l’oratore «non è possibile concepire simili forme di associazione completamente sprovviste di un contenuto morale-religioso, tale che serva a
tener saldi i criteri dell’equità e della giustizia, del dritto e del dovere per
quel che riguarda l’azione verso le classi padronali».20 Mentre Emilio Cot17 Un resoconto della Settimana palermitana, in «L’Aurora», periodico del movimento cattolico nisseno, 37 (1908), ristampa anastatica, Centro Studi Cammarata, San Cataldo 1989.
18 A. GEMELLI, Le malattie dei lavoratori in rapporto con la legislazione sociale odierna, in A. ROBBIATI (a cura di), La cultura sociale dei cattolici italiani alle origini. Le “settimane” dal 1907 al 1913, 430.
19 A. POTTIER, La cooperazione di lavoro e di produzione, 475.
20 G. M. LONGINOTTI, L’organizzazione professionale, in A. ROBBIATI (a cura di), La cultura sociale
dei cattolici italiani alle origini. Le “settimane” dal 1907 al 1913, 550.
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tafavi si soffermava sul «Coordinamento delle varie forme di cooperazione» per incidere maggiormente sulla rete solidale e raggiungere uno sviluppo tale da estendere l’esperienza in tutta Italia.
Tra gli oratori compariva anche Cristina Giustiniani Bandini (1866-1959),
appartenente alla prima generazione di donne cattoliche, protagoniste nella
Chiesa e nella società nel nuovo ruolo di laiche, fortemente impegnate nel difendere gli ideali della famiglia e della religione.21 Reduce dallo strappo di Milano,
dove si era tenuto nel maggio dello stesso anno un congresso femminile che
aveva sancito la fuoruscita delle donne cattoliche dal movimento unitario, la
Bandini aveva costituito, poco dopo, un nuovo organismo l’«Unione tra le
donne cattoliche d’Italia», che guiderà come presidente dal 1909 al 1917. La sua
relazione mirava a far emergere il ruolo femminile come madre, attivista, donna
di fede e di cultura. E riteneva fondamentale la formazione della donna:
1º perché lo studio tende intellettualmente e moralmente ad esercitare
una spirituale maternità sulle anime – devono essere non solo buone, ma
anche colte: l’educazione del cuore è troppo connessa coll’educazione dell’intelligenza per separare la coltura dalla bontà; 2º perché lo studio, specie
negli anni giovanili, non può distogliere la donna da doveri più importanti
che ancora non ha: non tutte le donne sono chiamate alla maternità naturale e in ogni caso quali che siano i doveri a cui una donna sarà chiamata, la
cultura acquisita nei giovani anni la renderà più idonea a compierli.
In tal senso l’istituzione di circoli femminili cattolici rappresentarono un
adeguato strumento di formazione e di piena partecipazione alla società
civile e alla vita della Chiesa.
Di tutt’altra materia si occupava Antonio Boggiano-Pico, professore
dell’università di Genova. Con il suo intervento, dal titolo «Le banche in
relazione all’industria, al commercio e all’agricoltura», analizzava il sistema
del credito a favore delle attività produttive e proponeva come modello l’esperienza tedesca che vedeva protagoniste della rinascita industriale proprio le banche. Tra gli estimatori del modello tedesco, sia pure in un settore diverso, incontriamo l’avvocato palermitano Francesco Parlati, appartenente ad ambienti democratico-cristiani e neosegretario per la propaganda
ed organizzazione del movimento cattolico isolano. Il tema illustrava «Le
scuole superiori di religiosi», e rilevava l’importanza dell’insegnamento
della religione per il progresso dello Stato; difatti, asseriva che
21 Cfr. C. DAU NOVELLI, Cristina Giustiniani Bandini, in E. ROCCELLA - L. SCARAFFIA (a cura di),
Italiane. Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma
2004, 101-103.
43
Solidarietà 62/2010
quando l’insegnamento della religione avrà acquistato il suo posto, se non nell’ordinamento ufficiale dell’insegnamento di Stato, nella coscienza delle classi
colte, l’effetto ne sarà immancabile; un impulso di rinnovata giovinezza al progresso della civiltà italiana, che non può concepirsi altrimenti che cristiana.22
La Settimana palermitana raccoglieva le forze più avanzate e intellettualmente meglio attrezzate del mondo cattolico siciliano, che misero in
campo, sollecitati dalla Rerum Novarum, un progetto per sostenere ed elevare socialmente le masse contadine, risollevando così un ceto tradizionalmente vicino alla Chiesa e tentando di riequilibrare antichi squilibri sociali ed economici. Rimase un argomento assai dibattuto, tanto da sviluppare
un filone di pensiero robusto sostenuto da figure di una straordinaria forza
morale e vivacità intellettuale, un gruppo che aveva già intrapreso un cammino di battaglie legate al movimento cattolico attraverso anche l’istituzione di una Lega democratica cristiana siciliana, fondata nel 1899, «in casa
Mangano a Palermo, con la partecipazione di Sturzo, Torregrossa, Licata di
Sciacca, Sclafani di Girgenti, Gurrera di Caltanissetta, Scrimali di Licata».23
La Settimana non poteva certo non esaminare la società siciliana di inizio secolo, una società legata prevalentemente alla terra, al sottosuolo e
all’artigianato. In modo particolare la terra assorbiva gran parte della forza
lavoro, ma la crisi di fine Ottocento, la poca disponibilità di terre e il perdurare del latifondo costituivano dei forti deterrenti per continuare a svolgere un lavoro scarsamente remunerativo. Solo l’industria solfifera, per
tutto l’Ottocento, coinvolse un numero crescente di lavoratori, raggiungendo il picco nei primi anni del secolo successivo. Non a caso, tra il 1902
e il 1904, i comuni ad alta emigrazione transoceanica appartenevano a quelli a vocazione esclusivamente agricola,
mentre i paesi zolfatai sono toccati dal fenomeno emigratorio in maniera
meno evidente […]. Dopo il 1905 non solo il fenomeno dell’occupazione
transoceanica si estese maggiormente nelle zone agricole già fortemente colpite dall’esodo, ma coinvolse anche i comuni solfiferi, che sino al censimento precedente avevano registrato saldi migratori passivi contenuti.24
22 Resoconto della relazione di F. PARLATI, Le scuole superiori di religiosi, in A. Robbiati (a cura di),
La cultura sociale dei cattolici italiani alle origini. Le “Settimane” dal 1907 al 1913, 471.
23 F. MALGERI, Cattolici, cultura e politica nella Sicilia contemporanea, Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma 2002, 68.
24 S. LAUDANI, Popolazione e movimenti migratori delle provincie nissena ed agrigentina (1860-1950),
in G. BARONE-C. TORRISI (a cura di), Economia e società nell’area dello zolfo (XIX-XX), Sciascia editore,
Caltanissetta-Roma 1989, 441.
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Solidarietà 62/2010
Sia gli interventi di Chiri e di Gurrera, incentrati sulla realtà zolfatara,
sia quelli di Sclafani attinenti al latifondo, si collocavano sul medesimo
sfondo sociale e rivelavano istanze ideologiche e organizzative del movimento democratico. Il mondo del lavoro siciliano, analizzato dai due relatori, si poggiava su due pilastri, l’agricoltura, ancorata più che mai a sistemi prevalentemente arcaici e l’attività solfifera. Quest’ultima era concentrata nelle province di Agrigento, Caltanissetta ed Enna, centri che detenevano il più alto indice di produzione a livello mondiale. Spettò a don Angelo Gurrera (1870-1949) delineare le problematiche relative agli zolfatari e
tracciare un quadro solido ed articolato.25 Nella sua relazione, infatti, il
prete nisseno affrontò il mondo zolfataro, dopo l’ondata dei grandi scioperi del 1903-1904 che avevano paralizzato l’attività lavorativa, ponendo l’accento prevalentemente sulle rivendicazioni contrattuali e previdenziali.
Dotato di un solido pragmatismo, sostenuto dalla letteratura scientifica e
conoscitore delle realtà locali, il Gurrera fu attento ad affrescare una situazione dai contorni definiti e «non manc[ò] l’attenzione ai processi sociali e
psicologici che accompagnano e spesso spiegano le situazioni di disagio
economico ed insieme limitano e bloccano la capacità collettiva ad emergerne».26 Ma «l’intento primario restava di natura religiosa: mirava, nella
più tradizionale linea tridentina della cura animarum, al recupero degli zolfatai ad una pratica religiosa più convinta e più intensa».27 Un’ottica, quella del Gurrera, focalizzata sull’azione politico-sindacale ed affiancata da
una sensibilità pedagogica e da una tendenza moralizzatrice necessaria
verso uomini che mostravano
l’assenza completa di una coscienza, per cui si son visti una domenica andare in corteo per deporre lo loro brava corona al mezzobusto di Rossini, e la
domenica appresso in corteo ad onorare il vescovi novello; un primo maggio a riposare per la festa del lavoro socialistico, un altro maggio per il lavoro cristiano con pellegrinaggio al Redentore.28
Nonostante l’impegno profuso, il movimento cattolico non attecchì tra
gli zolfatari e i frutti migliori che i preti democratici poterono raccogliere
25 Sulla vita e l’attività del Gurrera, cfr. C. NARO, Dizionario biografico del movimento cattolico nisseno, Centro Studi Cammarata - Ed. del Seminario, San Cataldo-Caltanissetta 1986, 67-68.
26 C. NARO, Introduzione, in R. LA MARCA - A ARNONE - A. GURRERA, Preti e zolfatai a Caltanissetta agli inizi del Novecento, a cura di C. NARO, Ed. del Seminario, Caltanissetta 1984, 15-16.
27 Ibidem, 16.
28 A. GURRERA, Gli zolfatari siciliani nell’ordinamento del lavoro, in R. LA MARCA - A ARNONE - A.
GURRERA, Preti e zolfatai a Caltanissetta, 76.
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Solidarietà 62/2010
riguardarono soltanto le masse contadine con iniziative sociali nel campo
della cooperazione e del mutualismo. Su quest’ultime esperienze fu chiamato a relazionare, non a caso, il sacerdote Michele Sclafani, presidente
della Federazione diocesana delle Opere economiche di Girgenti. Il titolo
dell’intervento, «Delle Unioni agricole e degli affitti collettivi» aveva l’obbiettivo di rilevare i vantaggi creati dalla rete delle varie sedi dell’Unione
agricola che, a sua volta, doveva avere il compito «di agevolare lo sviluppo
della piccola proprietà, e di rendere meno dannosa l’esistenza del latifondo».29 E smentiva, non senza una venatura polemica, l’indole individualista
isolana quando asseriva che
in Sicilia la così calunniata regione italiana, dove per giustificare l’inerzia dei
governanti e dei maggiorenti si diceva impossibile ogni spirito di associazione, è stato possibile invece, per opera specialmente, anzi unicamente del
clero siciliano, che in massima parte è figlio del popolo, e ne conosce tutti i
bisogni, e ne sente tutti i palpiti, in Sicilia non solo è stato possibile creare
in un decennio ben 300 cooperative agricole a solidarietà illimitata […], ma
si è potuto felicemente creare una Banca regionale anche a solidarietà illimitata per la cieca fiducia del popolo nel clero e nel laicato cattolico, per cui
milioni di lire sono rifluiti alla nostra agricoltura.30
La Settimana si chiudeva con un’inconsueta relazione dell’archeologo
Antonio Salinas sulle «caratteristiche dell’arte cristiana in Sicilia». Nel
ripercorre i tratti salienti della storia dell’arte isolana «dal diffondersi del
cristianesimo in Sicilia» sino al Seicento, con delle incursioni sull’arte
«industriale coi mosaici, le oreficerie, gl’intagli in legno, i merletti, le stoffe, le ceramiche, le immaginale industrie trapanesi del corallo, dell’ambra e
dell’alabastro», mostrava la ricchezza di un patrimonio storico-artistico e
confermava le salde radici cristiane dell’Isola.
Il secondo incontro svoltosi in Sicilia, sempre a Palermo, si celebrò a
fine settembre ed inizio ottobre del 1953, in pieno clima di guerra fredda,
in una fase di reinserimento dell’Italia nel contesto internazionale. Un‘Italia alle prese con la ricostruzione postbellica, con la crescita economica e
con lo sviluppo della società che aveva imboccato la via della modernizzazione e della secolarizzazione. Anni in cui si stava preparando il cosiddetto
«miracolo economico», e l’Inchiesta sulla miseria in Italia e sui modi per
29 Resoconto dell’intervento di M. SCLAFANI, in A. Robbiati (a cura di), La cultura sociale dei cattolici italiani alle origini, 424.
30 Ibidem, 423.
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Solidarietà 62/2010
combatterla e l’Inchiesta sulla disoccupazione, ambedue promosse nel 1951,
ci consentono di avere una fotografia chiara e nitida della società italiana.
A livello strettamente politico sono gli anni caratterizzati dal centrismo,
inaugurato da De Gasperi e ritenuto da lui indispensabile per garantire la
governabilità del paese, tanto che nel 1953 si tentò, con una legge elettorale maggioritaria, di continuare a garantire lo status quo. Sono anche gli anni
in cui si assiste al fallimento di una politica radicale per un progetto di
società in senso cristiano. Difatti, in seno alla D. C., Giuseppe Dossetti nel
1951 si ritirò dalla scena politica, atto che inevitabilmente portò allo scioglimento della stessa corrente da lui capeggiata.31 Ma la D. C. rimaneva il
partito di riferimento dalla gerarchia ecclesiastica, sempre pronta ad affermare che «la politica dei cattolici doveva essere, prima di tutto, al servizio
della Chiesa e dei suoi disegni di recupero cristiano della società».32
Il tema, a differenza dell’altro incontro, fu monotematico ed ebbe
carattere internazionale: «I problemi della popolazione». La questione
demografica della sovrappopolazione del globo, intrecciata con le politiche
di controllo delle nascite e con il problema della razionalizzazione delle
risorse e dell’ambiente, costituivano il banco di prova della Chiesa italiana
che volgeva lo sguardo al di là dei confini nazionali, pur rimanendo radicata nel suo territorio quando l’argomento riguardava i flussi migratori.
Nonostante i problemi da affrontare, una fiducia generalizzata nel futuro attraversava la società del tempo e si rifletteva sulla 16ª Settimana la cui
tabella di marcia veniva dettata dal cardinale Giuseppe Siri, presidente del
Comitato permanente delle Settimane, il quale delineava tre motivi che avevano spinto gli organizzatori a tale scelta:
Il primo è ovvio, impressionante e contingente: ed è interesse che esso
rappresenta per il nostro Paese sovrappopolato rispetto alle sue risorse economiche attuali.[…] Il secondo motivo […] richiama alcuni dei più grandi
principi regolatori della morale e del diritto.[…] Il terzo motivo per cui l’argomento interessa è che esso obbliga a trattare di alcune grandi leggi della
storia. Queste sono più grandi delle leggi biologiche, in quanto non hanno
come alveo dei corpi viventi, ma altresì delle libertà operanti e delle infinite concatenazioni a noi sfuggenti.33
31 Cfr. F. MALGERI, La stagione del centrismo. Politica e società nell’Italia del secondo dopoguerra
(1945-1960), Rubbettino, Soveria Mannelli 2002, 109-113.
32 Ibidem, 322.
33 G. SIRI, Il diritto alla vita, in I problemi della popolazione, XXVI Settimana Sociale dei cattolici
italiani, Edizioni ICAS, Roma 1954, 19.
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Solidarietà 62/2010
La natura della Settimana dunque rimaneva ancorata al «diritto alla
vita» in tutte le sue diverse articolazioni e ricadute etico-morali, economiche e sociali. Una Settimana segnata da una fede nel progresso e nella
scienza, avallata dalle nuove scoperte in campo tecnico-scientifico e
sostenuta dalla capacità degli uomini di migliorare le proprie condizioni
di vita, grazie all’aumento della produzione, tale da poter sfamare tutti gli
uomini della terra, anche coloro che vivevano una situazione drammatica
attraverso
una razionale utilizzazione delle risorse mondiali e di una più razionale distribuzione delle medesime, non perdendo mai di vista il sacro principio che
la destinazione dei beni della terra a tutti gli uomini è antecedente a qualsiasi privato possesso e impone qualche dovere anche dopo che è avvenuta
la delimitazione di proprietà rispetto a persone fisiche od enti.34
Una concezione decisamente aperta alla dimensione sociale – come la
tradizione cristiana imponeva – con una particolare attenzione ai poveri del
«Terzo Mondo», termine coniato proprio in quel periodo, e ai deboli,
ricorrendo «alla solidarietà umana su piano mondiale» e «alla scienza tecnica che toccherà il compito di metodicizzare le risorse per trarne il massimo utile, dopo aver meglio definito i limiti dei problemi».35
In questo clima si condannavano fermamente le proposizioni neo-malthusiane e il controllo delle nascite mediante pratiche contraccettive e nel
contempo si ricorreva all’educazione e alla dottrina della Chiesa sulla procreazione per un pieno rispetto della vita e sul matrimonio, quale “luogo”
consacrato da Dio per la vita di coppia. Il programma fu strutturato in cinque sezioni in cui venivano esaminati diversi aspetti. Il primo demograficostatistico fu affidato a Livio Livi – ordinario di Statistica all’università di
Roma – e a Bernardo Colombo, docente dell’Istituto superiore di Economia e Commercio di Venezia; per quello medico-biologico, invece, furono
chiamati Luigi Gedda e Agostino Gemelli, rispettivamente presidente
generale dell’A. C. – nominato nel 1952 da Pio XII ed esecutore del progetto socio-religioso portato avanti dal pontefice – e rettore dell’Università
cattolica di Milano; l’aspetto economico-sociale proponeva ben quattro
relatori: Silvio Golzio, presidente del Movimento Laureati ACI, Innocenzo
Gasparini, docente universitario, Francesco Vito vice-presidente del Comi34 Discorso di chiusura della XXVI Settimana sociale dei cattolici da parte del card. Giuseppe Siri,
in I problemi della popolazione, 275.
35 Ibidem, 276.
48
Solidarietà 62/2010
tato Permanente delle Settimane sociali, e Tommaso Salvemini, docente
universitario. L’argomento politico-morale fu sviluppato da mons. Francesco Carpino, arcivescovo di Monreale, e quello metafisico-morale fu riservato ai sacerdoti Angelo Perego e Gaetano Corti.
Il terzo appuntamento isolano avvenne a Catania tra il 21 e il 26 settembre 1968. Era la 39ª Settimana e trattava dei «Diritti dell’uomo ed educazione al bene comune», una scelta, forse, dettata dalla ricorrenza dei vent’anni dalla Dichiarazione universale dei diritti umani. Un incontro nel
pieno della tempesta sessantottina. L’evoluzione della società contemporanea era attraversata da un tumultuoso agitarsi di forze sociali e dalla contestazione contro il sistema educativo: ideali antimperialisti, antiautoritari e
antiborghesi alimentavano la protesta che dilagava nelle università e più in
generale nel mondo giovanile. Sul fronte del mondo cattolico, le sollecitazioni del Concilio vaticano II avevano dato risposte ai fermenti religiosi e
offerto nuove speranze alle forze più sensibili a leggere «i segni dei tempi»
e a confrontarsi con la contemporaneità e con il sistema internazionale oramai stabilizzatosi nei due blocchi. Dalle linee generali del Concilio si dipanarono una serie di nodi relativi all’interpretazione dei documenti conciliari difficilmente riconducibili ad unità e il tentativo di mostrare un’unica
visione del cristianesimo sembrava del tutto tramontata. Nuovi spazi si
aprivano nella Chiesa e il rapporto che ne conseguiva con la società sanzionava nuovi indirizzi e mutamenti dottrinali. In questo quadro le Settimane risentirono del clima del tempo e faticarono ad assorbire il pluralismo religioso, cosicché la loro capacità di incidere sul corpo della Chiesa si
affievolì: nuovi gruppi e movimenti, infatti, costellavano la galassia cattolica e la sperimentazione della fede vissuta trovava modelli interpretativi che
produssero tensioni e scontri tra fedeli e preti innovatori da una parte e la
gerarchia ecclesiastica dall’altra. Il tema della Settimana rivelava la propria
natura sociale e si soffermava sul bene comune declinato nei diversi campi
del vivere civile, trovando la fonte ispiratrice nell’enciclica Gaudium et spes.
Un bene comune che «si concretizza[va] nell’insieme di quelle condizioni
sociali che consent[iva]no e favori[va]no negli esseri umani, nelle famiglie
e nelle associazioni il conseguimento più pieno della loro perfezione».36 Un
argomento, all’epoca, del tutto nuovo che aveva trovato ospitalità soltanto
nella Settimana di Pescara del 1964, quando Vittorio Bachelet sosteneva
l’importanza della formazione e invitava i cattolici «alla partecipazione attiva alle istituzioni politiche». Concetto ripreso e con forza sottolineato nel
36 Gaudium et Spes, 74.
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Solidarietà 62/2010
1968 da Giuseppe Lazzati, il quale sollecitava ad intraprendere l’impegno
politico e ad operare nell’unità dei cattolici e a diffidare da
uomini divisi interiormente ed esteriormente, interiormente perché incapaci di fare unità tra i valori religiosi e i valori naturali; esteriormente perché
incapaci di tenere sul piano esteriore della loro organizzazione una identica coscienza nel momento in cui operavano in una associazione di carattere
religioso e nel momento in cui operavano in una associazione di carattere
sociale, temporale, politico, economico e via di seguito.
E chiudeva il passaggio con un forte invito all’unità: «si deve avere un’unica coscienza cristiana, e non invece una coscienza politica, da un lato, e
una coscienza religiosa, dall’altro».37
Con la presenza del card. Giuseppe Siri, presidente del Comitato Permanente delle Settimane sociali, si metteva in evidenza la continuità nella
gestione degli incontri e si confermava il «calendario dei lavori meno fitto»,
oltre alla «tendenza […] a trasformare le Settimane in giornate di studio a
livello universitario».38
Le Giornate si articolarono secondo uno schema già collaudato che
risiedeva nell’individuare nuclei omogenei all’interno della tematica generale del bene comune. Pertanto, i punti da approfondire vedevano protagonisti Renato Dell’Andro, intento a sviluppare l’argomento «Il gruppo
famigliare educatore al bene comune»; Gabrio Lombardi fu invitato a trattare «La scuola formatrice della coscienza del bene comune»; Giuseppe
Lazzati tematizzava le «Forme associative religiose e bene comune»; Giuseppe Mira si interessò di analizzare gli «Organismi e aggruppamenti economici e professionali e bene comune», ed infine Luigi Pedrazzi espose una
relazione dal titolo «Partiti politici e bene comune».
Nell’affermare i tradizionali canali educativi, quali garanti e promotori
di un ordine sociale cristiano, la Settimana di Catania dispiegava tutti i limiti della formula e riproponeva con forza il rinnovo improcrastinabile di un
“luogo” che oramai non rispecchiava più la galassia cattolica e la cui crisi
organizzativa degli spazi sociali appariva nella sua drammaticità. Lo stesso
mons. Agostino Ferrari Toniolo, a conclusione dei lavori, in qualità di
segretario delle Settimane, palesava un certo disagio e l’intento di rinnova37 G. LAZZATI, Forme associative religiose e bene comune, in Diritti dell’uomo ed educazione al bene
comune, XXXIX Settimana Sociale dei cattolici d’Italia, Catania 21-26 settembre 1968, 149.
38 V. BONGINI, 1945-1970 dall’impegno politico al concilio, in Le Settimane Sociali. 90 anni di storia
dei cattolici italiani, 118.
50
Solidarietà 62/2010
re l’articolazione e l’impianto, sollecitato, peraltro, da elementi critici
mostrati «da un rilevante gruppo di giovani» e nello stesso tempo sottolineava che
è assai triste constatare quanto sia faticoso convincere che vale la pena di
accettare una istituzione volta ad elaborare delle idee, per poter poi essere
pronti all’azione; quanto immensa sia la fatica di chi cerca di far superare
una superficialità largamente diffusa fra chi possiede, forse, una visione religiosa della vita, ma che qualche volta si accontenta di una prospettiva finale e non fa lo sforzo dell’interpretazione faticosa della presente, così da
diventare capace di delineare concrete linee di comportamento.
Una punta di polemica veniva in superficie, stemperata dalla necessità
di mettersi in ascolto ed assicurando alla platea che rimaneva «la volontà e
l’atteggiamento spirituale atto a raccogliere la problematica attuale più
vivace; ad abituarci a farla diventare un’occasione di incontro e di aperto e
costruttivo dialogo».39 Indubbiamente gli effetti della contestazione giovanile non risparmiava le Settimane e i motivi della protesta catanese esprimevano una nuova visione del mondo più sfumata e sfaccettata. Si trattava
di elementi critici introdotti nel corpo della Chiesa che davano la cifra del
malessere giovanile e del desiderio di interpretare in chiave democratica
l’organizzazione delle Settimane. L’atmosfera in cui essa era immersa appariva agli occhi di determinati segmenti cattolici anacronistica e non più
compatibile con le aspirazioni di una Chiesa più aperta e meno rigida a
livello istituzionale. Altri elementi poi affioravano dal fronte politico e
denunciavano un quadro profondamente mutato dei rapporti intercorsi tra
gerarchia ecclesiastica e il partito di riferimento d’area cattolica, la D. C., i
cui maggiori rappresentanti erano soliti occupare le prime file della sala del
convegno ed ora invece rimanevano impegnati in altre faccende «data la
loro azione distinta e specifica, che appare loro più strutturata funzionale
che non un incontro di valore orientativo generale come rimangono le Settimane sociali».40 Si assiste, in altri termini, ad un scollamento di prospettiva circa il progetto politico al quale dovevano collaborare cattolici e politici della stessa area, accomunati sì, da un comune patrimonio ideale ed
etico-morale, ma non più per così dire sulla stessa onda di frequenza.
39 A. FERRARI TONIOLO, Conclusione dei lavori, in Diritti dell’uomo ed educazione al bene comune,
333-334.
40 Intervento di A. FERRARI TONIOLO, in Le Settimane sociali nell’esperienza della Chiesa italiana
(1945-1970), Vita e Pensiero, Milano 1990, 136.
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Solidarietà 62/2010
Conclusioni
La cultura cattolica dovrebbe apprestarsi a fare i conti con il corso della
storia delle Settimane: una storia che pesa sul presente nella misura in cui
la piena comprensione del passato non definisca i meccanismi, i limiti, le
resistenze, gli elementi di forza e le scelte prese nel tempo. Ma l’elaborazione e la costruzione di una memoria storica e identitaria collettiva cattolica è ancora un obbiettivo lontano da raggiungere, poiché richiederebbe
un’analisi dettagliata della documentazione. È questo indubbiamente il
punto d’arrivo di un lungo processo che ha visto svolgere un preciso ruolo
delle Settimane nella storia del cattolicesimo e nella storia sociale dell’Italia. Un ruolo che faceva appello alla funzione dialettica, ad una presenza
discreta, visibile, concreta e in alcuni momenti incisiva, capace di cogliere
ed interpretare gli umori delle masse, solerte ad anticipare tematiche di
interesse nazionale e talvolta, internazionale, e a focalizzare l’attenzione su
questioni culturali, sociali, economici e politici per il bene comune, inteso
come «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai
gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più
pienamente e più speditamente».41 Uno spazio aperto sul mondo e in difesa dei valori umani, morali e cristiani; «un luogo di dibattito e di riflessione, ma anche un momento di sintesi quanto più possibile unitaria, e un
punto di riferimento per il cattolicesimo organizzato nelle proprie molteplici espressioni».42
Sin dal loro nascere, le Settimane furono portatori di trasformazione
culturale, e registravano i mutamenti intercorsi nella realtà. Nella prima
fase, i cattolici si preoccuparono progressivamente di entrare nell’agone
sociale e politico, e di esternare un disagio e una protesta nei confronti del
liberalismo prima, del comunismo e del capitalismo dopo, e diedero luogo
a molteplici forme di attività. Nella seconda fase, invece, si metteva a frutto l’ampio dibattito sull’opportunità di riavviare tale esperienza. Con il
ripristino delle Settimane si tracciava un disegno progettuale molto più
ampio e pianificato per dare risposte e indicazioni alla società odierna attraverso un linguaggio e delle chiavi di lettura del contemporaneo specificatamente ecclesiale. Organizzate direttamente dalla CEI, si voleva innestare
un collegamento tra la progettualità della vita della Chiesa italiana, le Settimane e il Progetto culturale orientato in senso cristiano, quest’ultimo avvia41 Gaudium et spes, n. 26.
42 G. ROMANATO, Le Settimane sociali. Un’istituzione poco studiata, in «Studi Sociali», 3 (1987), 25.
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Solidarietà 62/2010
tosi nel 1997. Un salutare intreccio per rafforzare il dialogo tra l’uomo, la
realtà che lo circonda e la proposta cristiana il cui fondamento risiede nella
Parola. Un raccordo che «nella prima e seconda fase […] era mancato per
l’insufficiente autonomia allora raggiunta dall’episcopato italiano e per la
conseguente mancanza di una effettiva collegialità episcopale».43 La grande
tradizione culturale delle Settimane ritrovò così la vitalità nell’esperienza
dialettica con la società del nostro tempo e nella relazione tra «Gesù risorto, speranza del mondo e il cristiano. Un rinnovato sforzo di pensiero, e di
creatività artistica, per far progredire l’intelligenza credente in ogni ambito
dell’attuale realtà che cambia così velocemente».44
In questa prospettiva, le Settimane sociali devono raccogliere molte
sfide, ma una su di tutte incombe e sovrasta le altre, la questione antropologica che, sottolinea Benedetto XVI in un suo messaggio,
abbraccia anche i “temi eticamente sensibili”, in primis “il rispetto della vita
umana e l’attenzione da prestare alle esigenze della famiglia fondata sul
matrimonio tra un uomo e una donna”. Occorre dunque – avverte il Papa
– ricercare il consenso sui valori e principi che non sono confessionali, ma
sono salvaguardia del creato”, se si vuol costruire una democrazia matura a
misura d’uomo; altrimenti si finisce con il compromettere lo sviluppo
autentico e completo della persona e della società.45
Summary
An instrument in the service of the church.
The “Social weeks” i Sicily: memory and hope
The “Social Weeks” represent meeting-debating moment, reflection and elaboration of ideas and programmes in the Catholic world. Born in 1907, with the work
of Giuseppe Toniolo, they have accompanied the life of Catholics and of Italian
society. After a brief historical excursus of these Weeks, the three meetings organized in Sicily are analyzed: the ones held in 1908 and 1953 in Palermo and the
43 G. CAMPANINI, Un secolo di impegno per il bene comune. La 45ª Settimana Sociale, in «Aggiornamenti Sociali», 4 (2007), 284.
44 C. RUINI, Nuovi segni dei tempi. Le sorti della fede nell’età dei mutamenti, Mondadori, Milano
2005, 57.
45 B. SORGE, in «Aggiornamenti Sociali», 12 (2007) 58, 739-740.
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Solidarietà 62/2010
other held in Catania in 1968. What emerges is the wealth and articulation of the
debates of the first period, and then gradually as the social-economic-political context changes, these “weeks” begin to show signs of wear and perhaps of tiredness.
With the revival of this event in 1991, we can note a reversal in the way the different Catholic worlds have started again to talk, thanks to the careful preparatory
work carried out by the CEI. (traduzione di Peter Cipolla)
54
S
olidarietà
62/2010: 55-72
Il principio di sussidiarietà tra radice
personalistica e funzione conformativa
del sistema normativo
Luigi D’Andrea
È assai probabile che se nel nostro Paese si fosse organizzato ancora due
decenni fa un convegno dedicato – come il presente – a «La persona al centro dell’assistenza – Etica dei ruoli in sanità», questo non avrebbe ospitato
nel suo seno una tavola rotonda avente ad oggetto «Il principio costituzionale di sussidiarietà nei servizi alla persona”; ovvero, seppure si fosse trovato spazio in un simile convegno per una riflessione relativa al principio di
sussidiarietà, probabilmente non sarebbe stata previsto l’apporto di uno
studioso di diritto costituzionale, o più in generale, di diritto pubblico. E
ciò non certo perché il principio di sussidiarietà fosse del tutto assente dalla
trama dei valori che struttura ed anima la Carta costituzionale repubblicana entrata in vigore il 1 gennaio 1948: pur non espressamente menzionato,
ad esso si ispiravano alcune norme riguardanti tanto le formazioni sociali
quanto le autonomie territoriali, come, ad esempio, l’art. 30, I e II c., in
ordine ai rapporti tra genitori e figli,1 e l’art. 118, u. c., in relazione alla distribuzione delle funzioni amministrative tra Regioni ed enti locali.2 Tuttavia, l’attenzione dei giuspubblicisti (e segnatamente dei costituzionalisti)
per il principio di sussidiarietà è stata a lungo assai carente, al punto che
fino all’inizio degli anni ’90 era possibile contare sulle dita di una mano gli
scritti dedicati dagli studiosi italiani di diritto pubblico ad esso relativi.3
All’inizio dell’ultimo decennio del secolo (e del millennio…) scorso la
situazione è radicalmente mutata, e grazie ad un prepotente risveglio di
interesse per tale principio, si è venuta accumulando un’ormai assai nutrita riflessione dottrinale sulla caratterizzazione assiologica della sussidiarie1 «È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti».
2 «La Regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative delegandole alle province, ai
Comuni o ad altri enti locali, o valendosi dei loro uffici».
3 Tra questi, si segnala particolarmente E. TOSATO, Sul principio di sussidiarietà dell’intervento statale, in ID., Persona, società intermedie e Stato. Saggi, Giuffrè, Milano 2000, 83 ss. [e già in «Nuova Antologia», 476 (1959), 453 ss].
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Solidarietà 62/2010
tà e sulla sua portata prescrittiva in ordine alla conformazione complessiva
dell’organizzazione dei pubblici poteri e del sistema normativo.4
Naturalmente, un simile mutamento non è stato casuale: è anzi agevole
ravvisare nell’entrata in vigore del Trattato di Maastricht sull’Unione europea (firmato il 7 febbraio 1992) il puntuale momento storico che ha segnato l’autentico spartiacque nel flusso della riflessione giuridica sul tema in
esame. Infatti, tale fondamentale tappa del lungo e complesso processo di
integrazione comunitaria ha collocato in seno ai principi fondamentali del
sistema europeo appunto il principio di sussidiarietà come perno delle relazioni tra istituzioni comunitarie e Stati membri (art 3B del Trattato di Maastricht, oggi art. 5 Trattato CE).5 Per tale via, il principio di sussidiarietà è
stato introdotto, in posizione di centralità, nello spazio costituzionale europeo, e perciò rapidamente esso si è venuto insediando (ed in posizione pari4 Senza alcuna pretesa di completezza, naturalmente, in una letteratura ormai amplissima, qui ci si
limita a segnalare P. CARETTI, Il principio di sussidiarietà e i suoi riflessi sul piano dell’ordinamento comunitario e dell’ordinamento nazionale, in «Quad. cost.», 1993, 16 ss.; G. STROZZI, Il principio di sussidiarietà nel sistema dell’Unione Europea, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1993, 59 ss.; A. SPADARO, Sui principi di continuità dell’ordinamento, di sussidiarietà e di cooperazione fra Comunità/Unione europea, Stato e Regioni,
in «Riv. trim. dir. pubbl»., 1994, 1058 ss.; AA. VV., Sussidiarietà e ordinamenti costituzionali. Esperienze a
confronto (Atti del Convegno di Trieste, 8-9 maggio 1998), a cura di A. Rinella-L. Coen-R. Scarciglia,
Cedam, Padova 1999; P. DURET, La sussidiarietà orizzontale: le radici e le suggestioni, in «Ius», 2000, 95
ss; P. RIDOLA, Il principio di sussidiarietà e la forma di stato di democrazia pluralistica, in AA. VV., Studi sulla
riforma costituzionale, a cura di A. A. Cervati - S. P. Panunzio - P. Ridola, Giappichelli, Torino 2001, 194
ss.; A. POGGI, Le autonomie funzionali “tra” sussidiarietà verticale e sussidiarietà orizzontale, Giuffrè, Milano 2001; A. D’ATENA, Costituzione e principio di sussidiarietà, in «Quad. cost»., 2001, 13 ss.; G. U. RESCIGNO, Principio di sussidiarietà orizzontale e diritti sociali, A. ALBANESE, Il principio di sussidiarietà orizzontale: autonomia sociale e compiti pubblici, E. FERRARI, Lo Stato sussidiario: il caso dei servizi sociali, C.
MARZUOLI, Istruzione e “Stato sussidiario”, in «Dir. Pubbl.»., 2002, rispett. 5 ss., 51 ss., 99 ss., 117 ss.; P.
VIPIANA, Il principio di sussidiarietà “verticale”. Attuazioni e prospettive, Giuffrè, Milano 2002; I. MASSA
PINTO, Il principio di sussidiarietà. Profili storici e costituzionali, Satura, Napoli 2003; O. CHESSA, La sussidiarietà (verticale) come “precetto di ottimizzazione” e come criterio ordinatore, 1442 ss.; G. LOMBARDI-L.
ANTONINI, Principio di sussidiarietà e democrazia sostanziale: profili costituzionali della libertà di scelta, in
«Dir. soc.», 2003, 155 ss.; A. MOSCARINI, Competenza e sussidiarietà nel sistema delle fonti. Contributo allo
studio dei criteri ordinatori del sistema delle fonti, Cedam, Padova 2003; P. DURET, Sussidiarietà e autoamministrazione dei privati, Cedam, Padova 2004; C. MILLON-DELSOL, Il principio di sussidiarietà, Giuffrè,
Milano 2003; AA. VV., Autonomia e sussidiarietà. Vicende e paradossi di una riforma infinita, a cura di L.
Ventura, Giappichelli, Torino 2004; AA. VV., Sussidiarietà e diritti, a cura di V. Baldini, Satura, Napoli
2007; AA. VV., Sussidiarietà e democrazia. Esperienze a confronto e prospettive, a cura di G. C. De Martin,
Cedam, Padova 2008; G. SCACCIA, Sussidiarietà istituzionale e poteri statali di unificazione normativa,
Satura, Napoli 2009.
5 Ai sensi del quale «La Comunità agisce nei limiti delle competenze che le sono conferite e degli obiettivi che le sono assegnati dal presente trattato. Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati al meglio a livello comunitario. L’azione della comunità non va al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi del presente trattato».
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Solidarietà 62/2010
menti centrale) anche negli ordinamenti costituzionali nazionali; in particolare, con riferimento all’ordinamento italiano, è sufficiente osservare in
questa sede che proprio al principio di sussidiarietà si è ispirato il complessivo (e tuttora incompiuto) processo di riforma del sistema delle autonomie locali e dell’apparato amministrativo che faticosamente viene riconformando dagli anni ’90 il nostro ordinamento, e che lo stesso principio è
stato espressamente enunciato prima nell’ambito della legislazione ordinaria (art. 4, III c., lett. a), l. n. 59/97, la c.d. “legge Bassanini-1”),6 e poi in
seno alla stesso testo costituzionale (art. 118, I c. e u.c.).7 Insomma, oggi si
può senza dubbio qualificare la sussidiarietà come uno dei cardini del costituzionalismo contemporaneo.
Naturalmente, il principio di sussidiarietà non ha certo avuto origine
nello scorcio del secolo scorso con la stipulazione del Trattato di Maastricht. Anzi, esso può vantare una storia più che bimillenaria (anche se
solo recentemente si è pervenuti a definirne la formula nei termini attuali):8
affonda le sue radici nel pensiero filosofico della Grecia classica, e precisamente nella riflessione di Aristotele,9 si incontra con la multiforme tradizione liberale,10 si colloca tra le più significative matrici culturali del federalismo politico, conformando i rapporti tra autonomie territoriali e potere centrale (se ne farà un cenno più avanti).11 Ma giova qui porre adeguatamente in evidenza come l’autentica culla del principio di sussidiarietà sia
6 «I conferimenti di funzioni di cui ai commi 1 e 2 avvengono nell’osservanza dei seguenti principi
fondamentali: a) il principio di sussidiarietà, con l’attribuzione della generalità dei compiti e delle funzioni amministrative ai Comuni, alle Province e alle Comunità montane, secondo le rispettive dimensioni territoriali, associative e organizzative, con l’esclusione delle sole funzioni incompatibili con le dimensioni medesime, attribuendo le responsabilità pubbliche anche al fine di favorire l’assolvimento di funzioni e di compiti di rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni e comunità, alla autorità territorialmente e funzionalmente più vicina ai cittadini interessati».
7 «Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. [….] Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni
favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà».
8 Si è osservato che «non si trova traccia della formula lessicale principio di sussidiarietà, quale principio generale di organizzazione sociale, nella letteratura precedente il secolo XIX» (I. MASSA PINTO,
Sussidiarietà (principio di): origini nel diritto della Chiesa cattolica, in www.dircost.unito.it, 5).
9 Al riguardo, si segnalala sintesi che di recente è stata proposta da F. VECCHIO, Declinazioni costituzionali del principio di sussidiarietà, in Forum di quaderni costituzionali, par. 2.
10 Sulla relazione tra pensiero liberale e sussidiarietà, v. le problematiche considerazioni di S. STAIANO,
La sussidiarietà orizzontale: profili teorici, in AA. VV., Sussidiarietà e diritti, 29 ss.
11 Al riguardo, per tutti, A. RINELLA, Il principio di sussidiarietà: definizioni, comparazioni e model-
lo di analisi, in A A. VV., Sussidiarietà e ordinamenti costituzionali, 10 ss.
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Solidarietà 62/2010
stato il pensiero cattolico, e significativamente la profonda riflessione filosofica del doctor angelicus ha offerto una delle più compiute elaborazioni
della categoria in esame.12 Nella lunga parabola della tradizione cattolica, il
principio di sussidiarietà ha avuto un momento di peculiare fortuna (ed in
certo senso di emersione, perché ha ricevuto espressa codificazione) nel
periodo a cavallo tra il XIX ed il XX secolo, allorquando, di fronte alla crescente caratterizzazione laica dello Stato moderno ed al progressivo ed
incontrastabile consolidamento in ambito sociale, politico e giuridico delle
conquiste della modernità,
il Magistero avvertì la necessità di formulare un simbolico neologismo che
consentisse di continuare a sostenere la superiorità assiologia, e dunque
normativa, delle società naturali – alla cui sommità non poteva non collocarsi la Chiesa stessa – rispetto alle organizzazioni artificiali, e allo Stato
moderno in primo luogo.13
Ad una perspicua (ed ormai classica) formulazione del principio di sussidiarietà è pervenuto Pio XI nella Enciclica Quadragesimo anno del 1931:
è certamente vero e ben dimostrato dalla storia, che, per la mutazione delle
circostanze, molte cose non si possono più compiere se non da grandi associazioni, laddove prima si eseguivano anche dalle piccole. Ma deve tuttavia
restare saldo il principio importantissimo nella filosofia sociale che come è
illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e
l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere ad
una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità
si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del
retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento
della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del
corpo sociale, non già distruggerle ed assorbirle (n. 80);
sicché una giusta applicazione di siffatto principio richiede che
l’autorità suprema dello Stato rimetta ad associazioni minori ed inferiori il
disbrigo degli affari e delle cure di minor momento, dalle quali essa del
resto sarebbe più che mai distratta; ed allora essa potrà eseguire con più
libertà, con più forza ed efficacia le parti che a lei sola spettano, perché essa
SOL,
12 Sull’elaborazione di S. Tommaso del principio di sussidiarietà, cfr., tra gli altri, C. MILLON-DELIl principio di sussidiarietà , 40 ss.
13 I. MASSA PINTO, Sussidiarietà (principio di): originini, 4.
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Solidarietà 62/2010
sola può compierle; di direzione cioè, di vigilanza, di incitamento, di repressione, a seconda dei casi e delle necessità (n. 81).14
Già dalla sintetica formulazione magisteriale del principio di sussidiarietà che si è adesso fedelmente riportata, emergono con chiarezza alcuni
aspetti della notevole articolazione interna che lo attraversa e radicalmente
lo connota. Infatti, nel principio di sussidiarietà convivono un profilo – per
così dire – negativo, che si risolve nel divieto di ingerenza delle realtà sociali nell’ambito di ciò che può essere adeguatamente affidato all’attività ed
all’iniziativa del singolo individuo (divieto che si estende anche ai gruppi
sociali di maggiore livello nei confronti dei gruppi sociali «minori e inferiori»), ed un profilo positivo, poiché si attribuisce ad ogni comunità il
compito (dunque, il dovere) di intervenire (appunto, positivamente) allo
scopo di incentivate, aiutare e, ove necessario, sostituire i soggetti, individuali o sociali, incapaci di provvede (ancora una volta, adeguatamente).
Non altrettanto chiaramente è dato evincere dalla definizione offerta dalla
Enciclica Quadragesimo anno la compresenza di due dimensioni della sussidiarietà, pur tuttavia riconducibili nel relativo ambito semantico: infatti,
ben potendo (anzi, dovendo…) considerarsi manifestazioni della natura
relazionale dell’uomo tanto le variegate formazioni sociali e forme associative che si collocano all’interno della società civile, quanto le (parimenti
molteplici, almeno negli ordinamenti pluralistici contemporanei) istituzioni politiche, dotate di potere coercitivo, che strutturano l’organizzazione
dei poteri pubblici, possiamo distinguere la dimensione orizzontale della
sussidiarietà, riferibile alle relazioni tra soggetti della società civile ed istituzioni pubbliche, dalla dimensione verticale della stessa, che afferisce ai
rapporti tra i diversi livelli territoriali di governo della comunità politica (e
dunque, ai rapporti tra Stato ed autonomie locali, come che siano positivamente denominate).
La coesistenza nel principio in esame del dovere di astensione dei grup-
14 Conviene peraltro sottolineare come il principio in esame percorra l’intera parabola della dottrina sociale della Chiesa, dall’Enciclica di Leone XIII che ne ha segnato (in un certo senso) l’inizio (la
Rerum Novarum, ai nn. 11 e 28), fino alla recentissima (29 giugno 2009) Enciclica di Papa Benedetto
XVI (Caritas in Veritate), ove si qualifica il principio di sussidiarietà «manifestazione particolare della
carità e criterio guida per la collaborazione fraterna di credenti e non credenti» e se ne evidenzia l’attitudine a fungere da antidoto efficace contro l’assistenzialismo paternalista (su tale specifico profilo si tornerà più avanti nel testo) ed a governare la globalizzazione orientandola «verso un vero sviluppo umano»
(n. 57). Sulla sussidiarietà nella dottrina sociale della Chiesa,v., tra i tanti, l’ormai classico J. HÖFFNER,
La dottrina sociale cristiana, Roma 1979, 42 ss., e, più di recente, P. VITTORELLI, La sussidiarietà nella dottrina sociale della Chiesa, in AA. VV., Sussidiarietà e diritti, 11 ss.
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pi sociali di più alto livello da ogni intervento che non sia giustificato da
situazioni di insufficienza ed incapacità dei singoli e delle comunità più piccole, e del dovere di positivo di sostenere (appunto, di “sussidiare”…15) o,
in ultima analisi, di sostituire i soggetti (individuali e collettivi) di minore
livello che ne abbiano in concreto bisogno, consente di configurare lo stesso come un punto di incontro e di sintesi di una pluralità di tradizioni filosofiche e di sensibilità politiche. Se il divieto di ingerenza nella vita e nelle
prerogative dei singoli soggetti della società civile si presenta indubbiamente congeniale all’istanza propriamente liberale di limitazione del potere pubblico, in funzione di garanzia delle sfere di libertà individuale e
sociale, il dovere di intervento che grava sullo Stato (e più in generale, su
tutte le istituzioni pubbliche) si pone come funzionale all’istanza solidaristica, richiedendo all’apparato pubblico di assicurare effettiva protezione ai
bisogni ed alle esigenze di tutti i cittadini, specialmente dei più deboli economicamente e socialmente; in un certo senso, può ben sostenersi che, in
ragione di tale profilo positivo, il principio di sussidiarietà si apre “naturalmente” al principio di solidarietà, quasi convertendosi in esso.
Inoltre, forte e ben visibile appare l’impronta della tradizione cattolica
(e segnatamente, del filone cattolico-sociale) in ordine alla conformazione
della categoria in esame (specialmente nella sua dimensione orizzontale)
nella garanzia e nella valorizzazione che il principio di sussidiarietà assicura alle formazioni sociali entro le quali matura e si svolge la personalità di
ogni uomo (sopra definite «società naturali»): come autorevolmente
sostenne l’on. Aldo Moro in Assemblea Costituente, la libertà umana risulta «pienamente garantita, se l’uomo è libero di formare degli aggregati
sociali e di svilupparsi in essi. Lo Stato veramente democratico riconosce e
garantisce non soltanto i diritti dell’uomo isolato, che sarebbe in realtà
un’astrazione, ma i diritti dell’uomo associato secondo una libera vocazione sociale».16 Ancora, evidenti sono le ragioni che hanno indotti i maggiori
teorici del federalismo ad avvalersi della sussidiarietà (questa volta nella sua
15 A. RINELLA, Il principio di sussidiarietà: definizioni, comparazioni e modello di analisi., 4, sottolinea che «il termine ‘sussidiarietà’ deriva dal latino subsidium […] termine che, nel linguaggio militare,
stava ad indicare le truppe di riserva. Poiché subsidium si riferisce all’idea di riserva, di rinforzo, di sostegno, di soccorso, in senso figurato indica anche l’aiuto, l’appoggio, l’assistenza, il rimedio, e, in concreto, un luogo di rifugio e di asilo».
16 Intervento svolto nella seduta pomeridiana del 24 marzo 1947, resoconto sommario, 2416; è
appena il caso di evidenziare come la posizione espressa così chiaramente dall’on. Moro in quella occasione appare icasticamente e splendidamente riassunta dall’art. 2 della nostra Carta costituzionale, ai
sensi del quale «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia
nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».
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dimensione verticale), in considerazione dell’attitudine della stessa a risolvere (o almeno ad impostare in termini corretti) la formidabile questione
che si staglia davanti ad ogni esperienza istituzionale che rechi un’impronta di stampo autenticamente federale (o, in generale, autonomistico): assicurare ad un tempo il rispetto e (ancor di più) la promozione delle competenze e delle prerogative delle soggettività territoriali minori, garantendo
ad un tempo, anche in forza del necessario intervento delle autorità centrali, l’unitarietà e la coesione del sistema mediante la soddisfazione, in condizioni di almeno relativa eguaglianza, dei diritti fondamentali di tutti i cittadini della federazione.17 Infine, non deve sfuggire la presenza nell’ambito
della ratio del principio di sussidiarietà di un’istanza di natura – per così
dire – “efficientista”, essendo la scelta di allocare la competenza ad intervenire allo scopo di soddisfare un interesse nel livello di socialità più vicino al soggetto (o ai soggetti) che di tale interesse è (sono) titolare(i) giustificata dalla consapevolezza (almeno, in via di presunzione…) che, per tale
via, è dato conseguire un utilizzo razionale delle risorse, ottimizzando il
rapporto tra risultati conseguiti e costi sostenuti.18
Come può agevolmente comprendersi già da queste del tutto succinte
notazioni, il principio di sussidiarietà risulta strutturalmente connotato da
un alto grado di complessità, in ragione della compresenza in esso di profili e dimensioni diverse, e talora (almeno potenzialmente) configgenti,
della eterogeneità dei soggetti (singoli, formazioni sociali, enti territoriali…) le cui relazioni è chiamato ad orientare, della pluralità di istanze cui
appare funzionale, della molteplicità di matrici culturali di cui si è nutrita
la sua elaborazione ed il suo inveramento storico.19 Ed una simile complessità appare come una significativa conferma della non occasionale appartenenza del principio in esame al genuino patrimonio assiologico del costituzionalismo contemporaneo, essendo precisamente il pluralismo e la complessità autentiche “cifre” dei sistemi costituzionali del nostro tempo,20 la
cui fisiologia riposa non già nel superamento del pluralismo in direzione di
17 In proposito, con riferimento alla faticosa evoluzione dell’ordinamento autonomistico italiano, si
segnala soltanto G. SCACCIA, Sussidiarietà istituzionale e poteri statali di unificazione normativa.
18 Osserva GIOVANNI PAOLO II (nell’Enciclica Centesimus annus, n. 48) che «sembra […] che conosce meglio il bisogno e riesce a meglio soddisfarlo chi è ad esso più vicino e si fa prossimo al bisognoso».
19 Come ha rilevato S. STAIANO (La sussidiarietà orizzontale: profili teorici., 19), «una definizione
unitaria del principio di sussidiarietà appare molto ardua, per la densità del contesto culturale, per la
stratificazione del dato storico, e per il sovraccarico ideologico dal quale risultano segnate le ricostruzioni teoriche che ne sono state proposte».
20 Sulla complessità come caratteristica peculiare dei sistemi giuridici contemporanei, cfr. A. FALZEA,
Complessità giuridica, in Enc. dir., I, Giuffrè, Milano 2007, 201 ss.
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un modello di stampo monista, ovvero nella forzata ed autoritaria riduzione di tale complessità, ma piuttosto nella capacità dei diversi attori del
sistema (ed in primo luogo dei soggetti titolari di autorità pubbliche) di
intrecciare rispettose (e reciprocamente feconde) relazioni e di individuare
punti di ragionevole equilibrio tra istanze ed esigenze certo in concreto
configgenti, ma tuttavia parimenti meritevoli di convivere all’interno del
sistema.21
La marcata complessità della sussidiarietà che si è adesso posta in evidenza non deve tuttavia occultarne la profonda radice ideale, che (oltre a
rendere ragione di siffatta complessità) vale a conferirle una fisionomia
intrinsecamente unitaria e si configura quale imprescindibile punto di riferimento (si direbbe, un’autentica bussola) di ogni forma di implementazione di tale principio (anche) sul terreno delle relazioni giuridicamente rilevanti; d’altra parte, significativamente, una simile indagine ci conduce al
cuore (o, se si vuole, al fondamento ultimo…) dei sistemi costituzionali
contemporanei. La radice ideale del principio di sussidiarietà è infatti ravvisabile nel principio personalista, in forza del quale ogni persona umana,
nella sua dignità ed irripetibile originalità, si colloca (id est: si deve collocare) al centro dell’intero sistema giuridico, e, più in generale, di ogni manifestazione della convivenza politicamente organizzata.22 Infatti, ogni persona umana non può mai essere concepito come mera parte di un tutto,
essendo un microcosmo in sé compiuto, sicché, secondo la lezione kantiana, non può in nessun caso essere trattato come mezzo, ma sempre come
fine; per altro verso, appartiene ontologicamente ad ogni essere umano
un’apertura sociale, essendo un soggetto intimamente connotato dalla relazionalità (zoon politicòn, nella fortunata espressione di Aristotele). Dunque,
ogni uomo è definito ed incessantemente plasmato dalle realtà sociali alle
quali appartiene, e che egli stesso peraltro concorre costantemente a conformare attraverso il proprio – più o meno rilevante, ma, a ben vedere, mai
del tutto assente – apporto individuale; d’altra parte, ogni persona umana
non può giammai essere ridotta a mera sommatoria delle proprie appartenenze, giacché essa è un “tutto” che, trascendendo tali appartenenze, è
dotato di una irripetibile dignità, al cui servizio ogni realtà sociale, se intende restare fedele alla propria natura, deve porsi. Dunque, il principio personalista consente di superare gli opposti (e parimenti nocivi…) unilatera21 Al riguardo, sia consentito rinviare a L. D’ANDREA, Ragionevolezza e legittimazione del sistema,
Giuffrè, Milano 2005, spec. 250 ss., ma passim
22 Sullo stretto nesso tra principio di sussidiarietà e valore personalista, cfr. da ultimo, V. BALDINI,
Sussidiarietà valore personalista nello Stato costituzionale di diritto, in AA. VV., Sussidiarietà e diritti, 57 ss.
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lismi che risultano propri delle impostazioni individualistiche (attente alla
cura delle sole esigenze dei singoli, avulsi dai relativi contesti sociali di riferimento) e delle tradizioni organicistiche, che invece finiscono per risolvere il valore della singola persona precisamente nell’appartenenza comunitaria, valorizzando congiuntamente ed anzi integrando le “anime” di verità
di cui tanto le prime quanto le seconde sono portatrici: rispettivamente,
l’irripetibile dignità che a ciascuna persona umana deve riconoscersi (anche
da parte delle realtà sociali), la costitutiva relazionalità che connota la natura di ogni essere umano, in forza della quale le istanze e le prerogative
riconducibili alle dimensioni comunitarie (e sociali in genere) si pongono
esse stesse come ineludibile espressione delle dignità umana.23
Naturalmente, tali sintetiche, e, mi rendo conto, un pò apodittiche,
osservazioni schiudono lo sguardo sulla formidabile questione antropologica, che, nella visione cristiana, conduce, secondo la categoria analogica
dell’imago dei, fin nel cuore del mistero divino e del dogma trinitario.24 Ma
il discorso che qui si viene svolgendo non intende certo percorrere i complessi sentieri della riflessione filosofica (né tantomeno teologica) intorno
all’uomo, alla sua natura, al suo mistero. Ai nostri limitati fini, è sufficiente
rilevare come la concezione personalista adesso sommariamente ricordata,
caratterizzata dall’inesauribile tensione dialettica tra la singola persona, con
la sua irripetibile individualità e la sua creativa libertà, e le realtà sociali
costantemente generate e alimentate dalla relazionalità che pure quella singola persona connota, non solo, se non ci si inganna, si presenta come una
preziosa chiave di lettura dell’esistenza umana (tanto nella dimensione indi23 Sull’incidenza delle impostazioni individualistiche e di quelle organistiche sulle concezioni della
Costituzione, cfr. G. ZAGREBELSKY, Società - stato - costituzione. Lezioni di dottrina dello stato degli anni
acc. 1986-1987 e 1987-1988, Utet, Torino 1988, 23 ss.
24 Sull’inscindibile conversione in seno al mistero trinitario della sostanza identitaria di ciascuna
delle tre Persone nella relazione con le altre Persone partecipi dell’unica realtà divina, si richiama qui
soltanto la riflessione cristologica recentemente suggerita da G. RUGGIERI, La verità crocifissa. Il pensiero cristiano di fronte all’alterità, Carocci, Roma 2007, ove si sostiene che è necessario «un superamento
della cristologia della sostanza a favore di una cristologia della relazione»: se nella metafisica classica, «in
una visione che conferisce il primato a una sostanza individua, il soggetto stabilisce a partire da sé, da
ciò che è in se stesso e per se stesso, il rapporto con l’altro», sicché «è l’identità già costituita che si apre,
in seconda battuta, all’altro», nella fede cristiana invece «si rivela […] la relazione intradivina, o, meglio,
una modalità della relazione intradivina, in cui la sostanza non è pensabile senza la relazione e viceversa: l’esse per se è impensabile senza l’esse ad aluid»; nel mistero trinitario, «il Figlio è necessario all’essere del Padre, come lo è lo Spirito. Questa mutua relazione, questo mutuo volgersi l’uno all’altro per essere se stessi, proprio per la non possibilità che in Dio la relazione sia pensabile senza essere sostanza, è
Vita sostanziale, energia sussistente in quanto relazione, in quanto Apertura assoluta, che viene dal Padre
e ritorna al Padre mediante il Figlio e nello Spirito, nel dinamismo stesso della relazione. La relazione è
allora il significato dell’unica sostanza divina e l’unica sostanza divina è l’essere della relazione» (ibidem
rispett. 198, 199 e 201-202).
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viduale quanto in quella comunitaria), ma appare altresì ricca di implicazioni in ordine alla conformazione dell’ordinamento giuridico25 e, più in
generale, della convivenza politicamente organizzata.
La centralità della persona e della sua dignità si lascia apprezzare sotto
due versanti, parimenti rilevanti per una piena comprensione del senso e
della portata del principio di sussidiarietà: in primo luogo, sotto un profilo
– per così dire – “attivo”, ogni persona umana, con la sua intelligenza, la
sua capacità di libera e responsabile autodeterminazione, la sua creatività,
la sua laboriosità, è la prima “risorsa” cui il sistema costituzionale e l’organizzazione comunitaria deve attingere. Il sistema, in linea di principio (e
naturalmente salvo che ostino ragioni relative alle condizioni, costituzionalmente previste, di un’ordinata convivenza), si edifica (intende edificarsi!) in forza del libero e creativo apporto di ogni soggetto che alla comunità appartiene, e di ogni soggetto si impegna a rispettare (ed a far rispettare) il peculiare progetto di vita, le particolari forme di realizzazione e soddisfacimento delle proprie esigenze vitali, insomma «il diritto alla vita, alla
libertà e alla ricerca della felicità» (secondo la icastica formulazione della
Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America del 1776). Tale
fondamentale opzione del sistema si traduce, evidentemente, innanzitutto
nell’adozione della democrazia come principio cardine dell’organizzazione
politico-istituzionale, ma in generale pervade l’intero impianto degli ordinamenti personalistici e liberaldemocratici: per far riferimento della nostra
Carta costituzionale, si consideri la splendida formulazione dell’art. 4, II c.,
in seno alla quale in felice simbiosi coesistono la garanzia e la valorizzazione della libera scelta di ciascuno in ordine all’attività lavorativa e la qualificazione dell’apporto di ciascuno come preziosa (perciò doverosa, nel senso
di esigita dal sistema!) risorsa per il progresso materiale e spirituale del
Paese.26 In secondo luogo, il principio personalista si traduce (su un versante “passivo”) nell’esigenza che ogni manifestazione di pubblico potere,
ogni ipotesi di esercizio di funzione pubblica si ponga come strumento di
protezione e tutela degli interessi dei cittadini, non garantiti, o quantomeno non adeguatamente garantiti, ad opera degli stessi cittadini, neppure in
forma associata; anzi, ancora più precisamente, il principio personalista
richiede che l’intervento delle pubbliche istituzioni e, più in generale delle
25 Tra gli altri, invita a connettere concezioni antropologiche e caratteri degli ordinamenti giuridici
(specialmente a livello costituzionale) G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite. Legge diritti giustizia, Einaudi,
Torino 1992, 98 ss.
26 «Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società».
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realtà sociali, risulti sempre autenticamente sussidiario, cioè funzionale alla
cura ed alla promozione della libertà e della dignità umana, idoneo a generare processi di liberazione e di emancipazione dal bisogno e dalla dipendenza.
Non può sfuggire come l’incidenza (tanto sotto il versante che si è inteso definire “attivo” quanto sotto quello che si potrebbe definire “passivo”)
del principio personalista sul sistema normativo e sulla forma della convivenza organizzata si lasci agevolmente ricondurre ai già illustrati profili
(omissivo e commissivo) ed alle diverse istanze che articolano e strutturano
il principio di sussidiarietà. Conviene tuttavia, giunti a questo punto della
nostra analisi, considerare più attentamente la specifica funzione assolta
dalla categoria in esame sulla complessiva conformazione degli ordinamenti costituzionali contemporanei,27 tanto dal punto di vista strutturale quanto dal punto di vista funzionale (peraltro, come subito si vedrà, fortemente
connessi tra di loro).
Sotto il profilo strutturale, si è già posto in evidenza come il principio di
sussidiarietà si presenti in primo luogo quale criterio in virtù del quale allocare le funzioni pubbliche (ove, naturalmente, non possa provvedere a soddisfare il bisogno lo stesso persona che ne è portatrice) tra soggetti sociali
ed autorità pubbliche,28 preferendo sempre la figura soggettiva maggiormente prossima alle esigenze cui fare fronte (purché in grado di adempiere tale compito adeguatamente, cioè secondo canoni di efficacia ed efficienza); e dunque, nell’ipotesi in cui non fosse possibile la soddisfazione del
bisogno da parte del singolo portatore dello stesso, occorre preferire l’intervento delle formazioni sociali (se adeguato) a quello delle istituzioni
pubbliche, e, ove queste ultime dovessero attivarsi, si deve privilegiare la
devoluzione della relativa competenza al Comune, o comunque al livello
territoriale di governo più basso (ancora una volta, se adeguato) (art. 118
Cost.). Radicando la titolarità della funzione pubblica sull’effettiva attitudine ad un adeguato (id est: efficace ed efficiente) esercizio della stessa, il
27 Sui variegati rapporti (ad alcuni dei quali si è già fatto cenno nel testo) che il principio di sussidiarietà intrattiene con gli altri principi costituzionali, cfr. F. PASTORE, Alcune brevi considerazioni sulle
relazioni tra principio di sussidiarietà in senso orizzontale e principi fondamentali della Costituzione, in AA.
VV., Sussidiarietà e diritti, 93 ss.
28 Non deve sfuggire come il principio in esame legittimi soggetti sociali e strutture private a perseguire fini pubblici. Osserva al riguardo G. PASTORI (La sussidiarietà “orizzontale” alla prova dei fatti
nelle recenti riforme legislative, in AA. VV., Sussidiarietà e ordinamenti costituzionali, 172) che il principio di sussidiarietà in senso orizzontale mira a ribaltare il tradizionale rapporto tra istituzioni pubbliche
e formazioni sociali, rendendo le prime “complementari” rispetto alle seconde «nel perseguimento delle
finalità pubbliche, valorizzando quella ‘soggettività’ e responsabilità sociale che è stata per il passato prevalentemente trascurata».
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principio di sussidiarietà non può non richiedere la predisposizione di procedure, forme e strumenti finalizzati alla sostituzione del soggetto (sia esso
appartenente alla società civile ovvero istituzione pubblica) che si rivelasse
incapace di curare concretamente gli interessi devoluti alla sua cura:29 anzi,
precisamente nella previsione (e nella disciplina) di tale attività di sostituzione riposerebbe, secondo una ricostruzione dottrinale,30 l’autentica portata precettiva del canone in esame. Ma una simile rappresentazione del
ruolo assolto dalla sussidiarietà in ordine alla configurazione della trama
organizzativa dei pubblici poteri appare riduttivo, ed in una certa misura
anche fuorviante:31 lungi dall’appagarsi dell’individuazione del soggetto
volta per volta competente allo svolgimento di un’attività di interesse generale, il principio di sussidiarietà, del tutto conformemente del resto alla sua
(già illustrata) radice etimologica, si traduce nell’esigenza di strutturare
l’ordinamento in forma reticolare,32 in forza di una fitta trama di relazioni
tra i diversi attori (pubblici e privati) del sistema finalizzata a supportare e,
ancora meglio, promuovere le autonome capacità operative dei singoli e
delle realtà collettive (sociali od istituzionali) più piccole, e perciò più vicine ai destinatari dell’azione pubblica. Come si può agevolmente compren29 Ed infatti, la riforma costituzionale operata dalla legge cost. n. 3/2001 ha introdotto (o meglio,
ha codificato sul terreno formalmente costituzionale) non soltanto il principio di sussidiarietà (art. 118),
ma anche il potere sostitutivo nell’art. 120, II c., ai sensi del quale «il governo può sostituirsi a organi
delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di
norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità
e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali. La legge definisce le procedure atte a garantire che i
poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione»; sui poteri sostitutivi, in una letteratura ormai cospicua, si segnala soltanto L. BUFFONI, La
metamorfosi della funzione di controllo nella Repubblica delle Autonomie. Saggio critico sull’art. 120,
comma II, della Costituzione, Giappichelli, Torino 2007.
30 È la tesi autorevolmente sostenuta da G.U. RESCIGNO, Principio di sussidiarietà orizzontale e diritti sociali, 10 ss.
31 La tesi qui presentata in forma sintetica è più ampiamente sviluppata in L. D’ANDREA, Ragionevolezza e legittimazione del sistema, 425 ss.
32 Sulla rete come figura organizzativa della collaborazione, connotata da flessibilità, dinamismo,
interdipendenza, e contrapposta al modello tradizionale dello Stato sovrano, unitario, retto secondo un
principio di rigida gerarchia e autoreferenzialmente chiuso, cfr. AA. VV., L’Europa delle reti, a cura di A.
Predieri - M. Morisi, Giappichelli, Torino 2001; S. CASSESE, Le reti come figura organizzativa della collaborazione, in ID., Lo spazio giuridico globale, Laterza, Roma-Bari 2003, 21 ss. e, più di recente, dello stesso autore, Il diritto globale. Giustizia e democrazia oltre lo Stato, Einaudi, Torino 2009; R. TONIATTI, Il
regionalismo relazionale e il governo delle reti: primi spunti ricostruttivi, in AA. VV., Il “nuovo” ordinamento regionale. Competenze e diritti, Giuffrè, Milano 2003, 167 ss.; D. FERRANTE, L’utilità del concetto
di rete negli studi giuridici, in AA. VV., Scritti dei dottorandi in onore di Alessandro Pizzorusso, Giappichelli, Torino 2005, 215 ss.
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dere, in una siffatta prospettiva il ruolo giocato dalla sussidiarietà non risulta in alcun modo confinabile entro il chiuso recinto del momento organizzativo e strutturale, aprendosi naturalmente sui profili funzionali e teleologici del sistema;33 anzi, si può forse osservare come proprio nello stretto,
sinergico legame tra il primo ed i secondi riposi il proprium della portata
normativa della sussidiarietà sul terreno degli assetti costituzionali. Essa
richiede all’organizzazione del pubblico potere di «favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli ed associati», secondo la felice (ed in un certo
senso provocatoria…) formulazione recata dall’ultimo comma dell’art. 118
Cost., esercitando le funzioni ad essa devolute, ove possibile, allo scopo
non già di surrogare a tempo indefinito, ma piuttosto di sostenere e promuovere la capacità dei singoli (e dei gruppi sociali minori, tanto di natura
privata quanto di natura pubblica) di provvedere a soddisfare i propri interessi giuridicamente rilevanti, sostituendosi ad essi soltanto nella misura (e
nei tempi) strettamente necessari.34 Ove l’azione pubblica si manifesti conforme a tale istanza, coniugando virtuosamente il versante negativo ed il
versante positivo del principio di sussidiarietà (o, se si vuole, l’«anima
garantista» e l’«anima solidarista» dello stesso), essa, lungi dallo snaturarsi
in una forma di assistenza parassitaria (di stampo paternalista o, più spesso, clientelare), si rivela funzionale all’autentica promozione dei beneficiari della stessa, innescando processi di emancipazione e consentendo a ciascuno di esprimere liberamente ed effettivamente la propria appartenenza
al tessuto comunitario.35
Le considerazioni fin qui svolte sul principio di sussidiarietà, pur nella
33 Del resto, ha osservato autorevolmente M. NIGRO (Studi sulla funzione organizzatrice della pubblica amministrazione, Giuffrè, Milano 1966, spec., 122 ss.) che in nessun caso può tracciarsi una cesura netta tra organizzazione ed attività sostanziale nella vita di un gruppo, essendo queste «due facce della
stessa moneta, due profili (due modi di essere) dello stesso sistema di istituzione e di regolazione di strumenti e di rapporti idonei a consentire il raggiungimento di determinati fini» (ibidem, 123).
34 Sicché può ben sostenersi che il principio in esame sottende un «criterio di adeguatezza teleologica»: così A. ROMANO TASSONE, Sul valore garantista del principio di sussidiarietà, in L. Chieffi - G. Clemente di San Luca (a cura di), Regioni ed enti locali dopo la riforma del Titolo V della Costituzione fra
attuazione ed ipotesi di ulteriore revisione, Giappichelli, Torino, 2004, 280. Ritiene invece che il principio di adeguatezza (oltre che di differenziazione) si ponga piuttosto come «contraccanto del principio di
sussidiarietà», V. CERULLI IRELLI, Principio di sussidiarietà ed autonomie locali, in L. Chieffi - G. Clemente di San Luca (a cura di), Regioni ed enti locali dopo la riforma del Titolo V della Costituzione fra
attuazione ed ipotesi di ulteriore revisione, 269.
35 Ha sottolineato con forza tale esigenza BENEDETTO XVI nell’Enciclica Caritas in veritate, n. 57,
ove si qualifica la sussidiarietà come «l’antidoto più efficace contro ogni forma di assistenzialismo paternalista» e se ne pone in evidenza la peculiare attitudine «a governare la globalizzazione e a orientarla
verso un vero sviluppo umano», evitando di dare vita ad «un pericoloso potere universale di tipo monocratico».
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forzata sintesi imposta dai limiti della presente riflessione, permettono di
coglierne l’incisiva e multiforme funzione conformativa del sistema normativo complessivo. Esso esprime il rifiuto di un assetto dei pubblici poteri
modellato in base a coordinate formali ed astratte, a favore di un sistema
strutturato sull’attitudine dei diversi soggetti ad effettivamente ed adeguatamente soddisfare gli interessi giuridicamente rilevanti e costantemente
plasmato dall’attività di tali soggetti; dunque, il rifiuto di un sistema rigido,
accentrato, statico ed autoreferenziale, a favore di un ordinamento caratterizzato da una marcata flessibilità (grazie al potere di sostituzione), attraversato ed innervato da incessanti relazioni osmotiche tra i diversi attori del
sistema, in una prospettiva ad un tempo di garanzia per le autonomie
(sociali, territoriali, funzionali)36 e di attiva partecipazione di tutti i cittadini alle dinamiche politiche ed istituzionali. In buona sostanza, il principio
di sussidiarietà si presenta come la solida architrave ideale di un’autentica
democrazia personalista e pluralista.
In conclusione, sembra possibile riassumere la fisionomia ed il senso che
si è inteso qui riconoscere al principio di sussidiarietà proponendo una lettura certo inusuale – ma pure si spera non arbitraria, oltre che convincente – di uno dei brani evangelici più noti e più cari alla tradizione cristiana:
si tratta della parabola37 che una volta era conosciuta come la «parabola del
36 Osserva P. PINNA (La costituzione e la giustizia costituzionale, Giappichelli, Torino 1999, 99) che
«gli ordinamenti democratico-pluralistici non hanno una base, né un vertice. L’immagine che li esprime
è non è quella della piramide, diritta o rovesciata che sia, ma quella della rete […] l’immagine cioè di
una struttura che si compone di tanti nodi, che integrati fra loro, ciascuno per la sua parte, concorrono
alla formazione delle decisioni del sistema. Il sistema è reticolare, è l’organizzazione di molteplici nodi
che dialogano e interagiscono tra loro. È una rete interattiva, l’influenza reciproca tra i nodi genera decisioni di tutto il sistema».
37 Conviene qui riportare (nella versione de La Bibbia di Gerusalemme, Ed. Dehoniane, Bologna
1996, 2234) lo splendido brano evangelico cui si fa riferimento nel testo, che è in Lc 15, 11-32: «Un
uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta.
E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose,
partì per un paese lontano e lì sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe speso tutto,
in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise a
servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. Allora rientrò in se stesso e
disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno
di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Partì e si incamminò verso suo padre.
Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.
Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono degno di essere chiamato tuo
figlio. Ma il Padre disse ai servi: presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo , mettetegli l’anello al
dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chia-
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Solidarietà 62/2010
figliol prodigo» e che recentemente è stata ribattezzata come «la parabola
del Padre misericordioso», al fine di porre in evidenza la centralità della
splendida figura del Padre, eloquente «icona» dell’amore divino, nonché,
come subito si vedrà, di un’autentica sussidiarietà. Come è dato evincere
dalla riflessione svolta, il principio di sussidiarietà innesca ed alimenta
(quasi in essa risolvendosi) una feconda ed inesauribile tensione dialettica
tra l’istanza di libertà ed autodeterminazione del singolo e le esigenze
riconducibili all’appartenenza comunitaria (o meglio, alle appartenenze
comunitarie) da quel singolo generata(e) e che di quel singolo concorre
(concorrono) a definire e conformare l’identità; e le vicende dei due figli
del racconto evangelico mostrano la necessità – per così dire antropologica
– di non separare dicotomicamente, rendendo reciprocamente insignificanti l’uno per l’altro, i due poli di quella dialettica.
La parabola prende le mosse dalla scelta radicale del figlio minore: egli
non intende semplicemente andare a vivere al di fuori della propria famiglia e fare esperienza del mondo, ma piuttosto disconoscere quella appartenenza originaria, operando un taglio drastico con le tradizioni e la mentalità (se si vuole, con la cultura) ivi acquisite, rompendo i legami con gli
altri membri di quella comunità familiare, in nome di un’assoluta libertà
individuale. La sua è un’opzione per un’esistenza da «dissoluto» (nel senso
appunto di soggetto privo di legami), e si rivela un’opzione perdente: sperperate le sostanze («la parte di patrimonio») che aveva acquisito in seno alla
comunità di appartenenza, egli si ritrova in una miserevole condizione di
totale bisogno, invidiando financo le carrube di cui si cibavano i porci che
erano affidati alla sua custodia. In simile stato, egli riscopre la rilevanza ed
il senso dell’appartenenza alla comunità, a qualunque titolo: considera
come gli stessi salariati in casa di suo padre godano di una qualità di vita
incomparabilmente migliore della sua, e si ripromette di chiedere al padre
(dopo aver riconosciuto il suo errore e la sua indegnità rispetto allo status
di figlio) di essere trattato sì come un garzone, ma comunque inserito nella
compagine familiare (un «suo» garzone). La scelta di autorealizzazione di
sé mediante (o comunque a costo di) una radicale rottura (o anche medianmò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: È tornato tuo fratello e il padre
ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. Egli si arrabbiò, e non voleva
entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non
ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici.
Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma
bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed
è stato ritrovato».
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te l’occultamento ed il misconoscimento) dei legami sociali si mostra in
tutta la sua tragica illusorietà. L’opzione per la libertà senza – o addirittura
contro – «gli altri» conduce in ultima analisi alla sconfitta, perché non è in
grado di appagare ineludibili esigenze proprie della condizione umana.
Se le vicissitudini del figlio minore svelano l’impossibilità di garantire la
dignità (e la stessa libertà) dell’uomo senza il pieno riconoscimento dei
legami comunitari che ne definiscono l’identità e ne plasmano la fisionomia, il comportamento gretto (ed in qualche misura rancoroso) del figlio
maggiore svela eloquentemente i gravi (in ultima analisi, esiziali) limiti di
un’appartenenza comunitaria che non mantenga un vitale rapporto con le
(concrete, molteplici e mutevoli) istanze dei singoli che nella comunità
vivono, lasciandosene strutturare, misurare ed anche «provocare». Tornando dai campi, evidentemente al termine di una dura giornata di lavoro, egli
si adira nell’apprendere che nella sua famiglia si sta celebrando una magnifica festa, con il sacrificio del vitello grasso, in onore del fratello che ha
deciso di tornare a casa, dopo aver dilapidato la parte di sua spettanza del
patrimonio di famiglia; ed a tale festa decide di restare estraneo, rifiutandosi di entrare in casa (un’altra scelta di «esilio» dalla comunità familiare,
si direbbe…). Così il fratello maggiore mostra di avere sì vissuto l’intera esistenza all’interno della comunità famigliare, perfettamente ligio alle sue
regole ed assiduo nell’adempimento dei suoi doveri, ma senza maturare
una positiva attitudine relazionale nei confronti degli altri membri della
famiglia. In realtà, la permanenza in seno al gruppo familiare (magari frutto di mancanza di intraprendenza e di spirito di iniziativa, viene da sospettare…) ha finito per occultare nella sua coscienza la consapevolezza del
senso profondo di quella appartenenza. È mancata al fratello maggiore la
capacità di comprendere e di vivere la condivisione dei beni che nella
comunità familiare si realizza («tutto ciò che è mio è tuo», gli ricorda il
padre) e l’orientamento della vita comune al sostegno ed alla valorizzazione di ogni membro del gruppo: pur nella «materiale» (e formalmente
impeccabile…) quotidiana convivenza in seno alla famiglia, il fratello maggiore ignora e misconosce il “cuore” vitale di quella vita comunitaria, rappresentato dall’esigenza di assicurarne e mantenerne il necessario radicamento nell’esistenza dei singoli che ne fanno parte, e dunque di calibrare e
dirigere la dinamica della prima in direzione del supporto e della valorizzazione dei secondi, dei quali vanno rispettati, per quanto possibile, scelte,
attitudini, tempi, percorsi esistenziali. Insomma, se perdente si rivela la
scelta individualista di rompere le relazioni sociali alla ricerca di una libertà «in solitudine», parimenti mortificante per la crescita delle persone risul70
Solidarietà 62/2010
ta l’opzione «organicistica», a favore di una comunità autoreferenziale,
indifferente alle vicende dei singoli componenti, guscio magari protettivo
(per alcuni versi), ma soffocante per la libertà e l’autodeterminazione dei
singoli.
L’istanza di cura e protezione del singolo e della sua capacità di autodeterminazione e l’istanza di valorizzazione dei legami sociali e dell’appartenenza comunitaria, dai due fratelli coltivate separatamente (e perciò infine
radicalmente tradite), trovano piena accoglienza ed integrata realizzazione
nell’atteggiamento e nei comportamenti del padre. Di fronte alla richiesta
del figlio minore di potere «ricercare la felicità» a modo suo, drasticamente rompendo il legame con la comunità primigenia, il padre non impone
coercitivamente l’appartenenza familiare, declinandola come una necessità
indisponibile per il singolo ed un destino ineluttabile. Piuttosto, egli si
mostra rispettoso della libertà del figlio ed asseconda, dividendo il patrimonio di famiglia secondo la richiesta dello stesso e lasciandolo partire, una
manifestazione della stessa che certamente non approva ed anzi è per lui
causa di sofferenza; ma non perciò considera, per parte sua, esaurito il rapporto con questo figlio. Il padre continua, tenacemente, a custodire nel suo
cuore il legame parentale, e resta intento a scrutare l’orizzonte, in attesa di
potere riabbracciare il figlio minore; sicché, appena egli ne scorge all’orizzonte la sagoma, lo riconosce, lo precede sulla strada (gli corre incontro),
gli mostra con calore la sua gioia per il ritorno di un infungibile membro
della famiglia, esercita autorevolmente il suo ruolo di responsabile della
comunità familiare in direzione di una piena reintegrazione del figlio ritrovato, ordinando ai servi di rivestirlo, mettergli l’anello ed i calzari, preparare la festa ammazzando il vitello grasso. Analogamente, di fronte al rifiuto del figlio maggiore di prendere parte alla festa familiare, di fronte alla
sua scelta di stare fuori della casa, egli assume l’iniziativa, andandogli
incontro (anzi, «pregandolo» di entrare), confermandogli la sua appartenenza (con pienezza di dignità e diritti: «tutto ciò che è mio è tuo») alla
comunità, invitandolo – appunto in nome di tale appartenenza – ad unirsi
ai festeggiamenti per il felice ritorno in seno alla comunità di suo fratello.
Davvero nella figura paterna – indiscussa protagonista di questa parabola
lucana – si coniugano in mirabile sinergia i diversi profili e le diverse anime
che convivono in faticoso equilibrio nel principio di sussidiarietà e, perciò, in
seno ai sistemi costituzionali contemporanei: il rispetto per la libertà del singolo, la cura per la dignità che è propria di ogni persona umana, la valorizzazione dell’esperienza comunitaria in una prospettiva di tutela e promozione
appunto della libertà e della dignità di ciascuno e di tutti.
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Summary
The principle of subsidiarity personalistic roots and the conformative function
of the normative system
The principle of subsidiarity goes back more than two thousand years and has
its roots in the philosophical thinking of Classical Greece, but Catholicism must be
considered the authentic cradle of the subsidiarity principle. The author proposes
the “Parable of the Prodigal Son” as an icon of extraordinary ethical-moral value
and importance for contemporary constitionalism.
In fact, the paternal figure of the Lucan parable goes well with the various
aspects and diverse elements merging in a difficult balance in the subsidiarity
principle and, therefore, within our contemporary constitutional systems: the
respect for individual freedom, the care of the dignity of every human person, the
enhancement of the community experience in order to care for and promote the
freedom and dignity of each and everyone of us. (traduzione di Peter Cipolla)
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S
olidarietà
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La reciprocità
nell’economia e nella politica
Giuseppe Lanza
Lo stato e il mercato sono le due grandi istituzioni, a cui la ragione illuministica ha riconosciuto il ruolo onnipotente di risolvere il problema del
sostentamento, inteso come problema economico del soddisfacimento dei
bisogni e dell’organizzazione della produzione, e il problema dell’ordinamento, inteso come il problema della regolazione delle condotte individuali e di predisposizione delle strutture di ordine, di conservazione, di progresso e di giustizia della società.
Concepiti come strutture di organizzazione e di regolazione espresse
dalla sovranità dei cittadini e dalla sovranità dei consumatori, come emanazione del sostrato socioculturale della comunità stessa, hanno finito poi
per acquisire un carattere di autoreferenzialità e di separatezza che per un
verso ha portato all’erosione della base valoriale e relazionale da cui promanavano, e, per altro verso, ad una sorta di abolizione della società civile.
L’impianto dei sottosistemi culturali, valoriali, associativi, relazionali,
religiosi, familiari, vicinali è stato scompaginato per l’egemonia dei sottosistemi economici e politici che hanno trasformato la società civile in società
di mercato e in società di comando.
Si è innescata così la deriva individualistica della modernità che ha
determinato non solo la contrazione etica e relazionale dei rapporti corti
della socialità primaria ma anche la pratica meramente strumentale e funzionale dei rapporti lunghi della socialità secondaria.
1. La società di mercato
L’avvento della rivoluzione industriale nel secolo XVIII ha travolto le
forme dell’economia tradizionale, incorporate nella vita sociale e basate
prevalentemente sui principi economici dell’amministrazione domestica e
della reciprocità amicale e dello scambio non antagonistico.
La società civile diventa società di mercato, un sistema onnivoro che
sconvolge i rapporti sociali di parentela, di status, di amicizia, di cittadinanza riducendoli, spesso, a rapporti di scambio mercificati. Nella società
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Solidarietà 62/2010
di mercato avviene lo sradicamento dell’economia dalla società. Non è più
il sistema delle relazioni sociali a incorporare e influenzare le relazioni economiche, ma sono queste ultime ad egemonizzare, a determinare, e quindi,
a mercatizzare le relazioni sociali. Questo ordine economico si è affermato
con l’avvento di quella che Polany1 definisce la «civiltà del XIX secolo»,
contrassegnata da un assetto economico basato sulla mercificazione del
lavoro umano e dell’ambiente naturale, finalizzato all’arricchimento (economia come crematistica, ossia attività per arricchirsi) e non più alla sussistenza e al ben vivere sociale (economia come oikos nomos, ossia come
amministrazione della famiglia e della città), con la conseguente trasformazione dei legami soggettivi affettivi, relazionali, valoriali e civici in legami
oggettivi, funzionali, sinallagmatici, spersonalizzati.
L’avanzata del mercato porta con sé grave squilibri sociali ed economici (miseria, sfruttamento, distruzione ambientale dissocializzazione, estraniamento) che fanno vacillare il mito della mano invisibile che assicura il
perseguimento spontaneo dell’equilibrio economico (ottimo economico) e
dell’armonia sociale (ottimo sociale). Eventi che mettono in discussione
anche il legame sociale, a cui si era riferito lo Stato moderno mercantile,
liberale e laico, costituito dall’utilitarismo benthamiano, che, appunto, sull’interesse individuale aveva fondato il nuovo ethos pubblico capace di
conservare ordinata e pacifica la società politica, non più cementata da vincoli affettivi e civici da comuni valori religiosi.
2. La società di comando
Lo stato, ancorato alla suggestione hobbesiana di un pactum subjectionis
che risolve nel potere centralizzato il problema della pace sociale, considera le relazioni di subordinazione politica e giuridica come le uniche in
grado di regolare la convivenza sociale. L’imperativismo coniuga il diritto
come un insieme di comandi generali ed astratti, pertanto, avulsi dai contesti vitali e dalle dimensioni umane e sociali dei problemi: la garanzia di
ottemperanza è affidata alla sanzione e alla coercizione. Anche nella concezione kantiana, che pure si apre alla considerazione dell’uomo come fine
e non come mezzo, la legalità della modernità è di ispirazione positivistica,
come tale formalistica e normativistica. La sua sintesi è formulata da Kelsen,2 uno dei più grandi giuristi del secolo scorso.
1 Cfr. K. POLANY, la grande trasformazione, Einaudi, Torino 1944.
2 Per Kelsen, l’esponente più autorevole del normativismo, il diritto è «un ordinamento coattivo
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Solidarietà 62/2010
Per il grande filosofo del diritto, che appunto si ispira a Kant, la legalità va distinta dalla moralità: «Il puro accordo o disaccordo di un’azione con
la legge, senza riguardo al movente dell’azione stessa, si chiama legalità
(conformità alla legge); quando invece l’idea del dovere derivata dalla legge
è nello stesso tempo movente dell’azione si ha la moralità». Secondo Kant
le norme prescrivono soltanto il comportamento ‘esterno’, sono indifferenti ai processi interiori e agli stati motivazionali che determinano la condotta, mentre le norme morali prescrivono solo il comportamento “interno”,
che non esige specifiche azioni ‘esterne’ ma solo la buona volontà e la retta
intenzione.
Questa teoria, che pure esprime un aspetto della realtà giuridica spesso
legata a meccanismi premiali positivi o negativi, non esprime tutta la realtà
del diritto: fondata sull’idea che il diritto consista in «una costrizione generale e reciproca» il cui scopo è quello di stabilire le condizioni per mezzo
delle quali «l’arbitrio dell’uno può combinarsi con l’arbitrio dell’altro» non
riesce a dare conto di coloro i quali, e sono i più, osservano volontariamente, spontaneamente e disinteressatamente la legge.
È l’idea stessa di legame intersoggettivo che si trova interamente affidata
ad un artificio convenzionale, e di conseguenza spogliata di qualsiasi forza
vincolante. L’unica forma di reciprocità ammissibile, a questo punto, nasce
come risultato di un atto che consente di uscire dal caos dello stato di natura, generando uno spazio pubblico per sottrazione delle volontà individuali,
della condotta umana, sul cui valore morale o di giustizia non si esprime alcun giudizio», per cui «ogni
qualsiasi contenuto può essere diritto; non vi è nessun comportamento umano che, come tale, in forza
del suo contenuto, non possa diventare contenuto di una norma giuridica. Una norma vale come norma
giuridica, sempre e soltanto perché si è presentata in un modo particolarmente stabilito, è stata prodotta secondo una regola del tutto determinata, è stata posta secondo un metodo specifico. Il diritto vale
soltanto come diritto positivo, cioè come diritto statuito»
Il punto di vista normativo è un punto di vista formale: in questo senso il normativismo è una teoria formale del diritto. Assumere il diritto come «forma» della società significa considerare il diritto come
una struttura «entro cui si inseriscono determinati comportamenti sociali dell’uomo (e anche determinati fatti naturali) che, una volta inseriti in quella struttura, acquistano qualità di atti (o fatti) giuridici».9
Il diritto, quindi, non si caratterizza per questo o quel contenuto. Indifferente ai contenuti, è come «un
recipiente» che accoglie qualsiasi contenuto, giusto o ingiusto che sia. Secondo questa teoria il dettato
comportamentale, che solitamente è ritenuto il contenuto principale della norma, come tale, diretto a
guidare la condotta dei cittadini («Non uccidere», «Non rubare»), è declassato a semplice «clausola condizionale» di una norma rivolta ai funzionari, il cui contenuto primario è, appunto, «l’ordine rivolto a
quest’ultimi di applicare determinate sanzioni al verificarsi di determinate condizioni».
Il diritto è la norma primaria che stabilisce la sanzione, mentre la norma che ordina il comportamento che evita la sanzione può valere soltanto come norma giuridica secondaria (Cfr. H. KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi,Torino 1952).
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Solidarietà 62/2010
sulla base di una severa delegittimazione di ogni forma di agire cooperativo.
Nel passaggio dall’imperativismo hobbesiano al normativismo di Kelsen si
mantiene e si rafforza la neutralizzazione di ogni possibile rapporto di tipo
intenzionale tra il soggetto e il bene: […] La reciprocità, da condizione costitutiva della vita comune, diventa una variabile relativa alla possibilità di
instaurare, in modo più o meno artificioso, un bilanciamento símmetrico
degli individui in rapporto `all’istituzione di un’autorità super partes.3
3. La reciprocità oltre la nuda economicità e la nuda legalità
L’Illuminismo, a cui si deve riconoscere l’impatto rivoluzionario nella
storia per avere contestato la convinzione allora generalizzata che solo le
autorità religiose e civili avessero il diritto di prendere decisioni, e la rivendicazione per la ragione del ruolo di progettista dell’uomo e della società,
si è affidato ad un doppio contrattualismo, quello microsociale del mercato e quello macrosociale dello Stato, che ha finito per mettere tra parentesi il senso comunitario, la sua sociologia, la sua psicologia e la sua etica,
ossia quegli humus non formali e non procedurali che danno linfa al contesto umano e assicurano all’interdipendenza sociale una carica di reciprocità primaria e secondaria, intesa come cultura ed esperienza della solidarietà e della cooperazione, alimentata non solo atteggiamenti basati su bisogni (interessi materiali), ma anche da atteggiamenti basati su sentimenti e
doveri (interessi morali).
Non che l’Illuminismo ignorasse l’importanza di queste «incorporazioni concrete e reali» come è dimostrato dalla famosa trilogia «libertà, eguaglianza, fraternità». Solo che la fiducia estrema nell’astratta razionalità del
mercato e dello stato ha determinato l’oblio della fraternità, assegnando
poi ad un paradossale «servizio pubblico di solidarietà» (Welfare State) il
compito di supplire ai fallimenti del mercato, a cui hanno fatto seguito specularmente i fallimenti dello Stato.4
In questo contesto era inevitabile che la reciprocità fosse ridotta a nuda
3 L. ALICI, Le forme della reciprocità, Il Mulino, Bologna 2004, 17.
4 Non si tratta pertanto di assumere posizioni pro o contro l’illuminismo, su cui è aperto un dibattito molto vivo e interessante, ma di rilevare come oggi sia diventato necessario riflettere sui destini della
nostra società, e in particolare sulle sue strutture economiche e politiche.
Come fa rilevare Giovanni Sartori anche se è vero che la democrazia si sta estendendo «quanto meno
pro tempore (nello spazio)» essa, in realtà «non avanza (nella sostanza), e rischia di restare un guscio, un
involucro svuotato di sostanza e nella sostanza»; di qui la previsione che «il suo futuro sia a rischio», nonostante essa, come principio di legittimità politica, non abbia alternative. Secondo Sartori il vero punto
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Solidarietà 62/2010
economicità ed a nuda legalità. La riduzione della società civile ad aggregato
funzionale retto dalla moneta5 e dalla norma coercitiva ha creato le premesse
perché nella postmodernità esplodesse la crisi della convivenza umana, del
suo ordine, della sua giustizia, delle appartenenze corte e lunghe.
La legalità senza la linfa dei valori (secolarizzata) e dei legami sociali
(atomizzata) diventa un involucro formale che cerca vanamente di gestire
una complessità sempre più difficile e che soccombe all’invadenza della
globalizzazione che costruisce i suoi fini e le sue leggi a prescindere da ogni
socialità e da ogni statualità. Si determina così la crisi radicale della modernità e l’avvento della postmodernità come incredulità nei confronti dei miti
della modernità.6
Ormai è sempre più diffusa la convinzione che da questa crisi si possa
uscire restituendo alla società civile la sua soggettività sociale e ricostituendo quegli ambiti vitali e relazionali in cui l’identità delle persone intessa in un contesto di reciprocità legami primari affettivamente e socialmente significativi e legami secondari civicamente ispirati al bene comune
per convergere verso una cittadinanza societaria e solidale che attivi una
governance partecipata dal basso (sussidiarietà) che orienti la società verso
uno sviluppo economico più umano e più giusto (ben-vivere). E al riguardebole della democrazia è «l’indebolimento delle idee, la caduta verticale del sapere a tutti i livelli. Per
altro verso c’è la constatazione, che proviene non solo da ambienti religiosi, ma anche laici che la società dei consumi, portando all’eccesso i valori utilitaristici, ha escluso la sfera valoriale dall’orizzonte
umano riducendo l’uomo al solo movente economico. Se per la Chiesa la causa più profonda di questo
vuoto spirituale viene rinvenuto nell’ateismo così come si era sviluppato in seguito alla concezione meccanicistica fomentata proprio dal razionalismo illuministico, per le culture dello sviluppo umano risiede
in una concezione della crescita economica, che si limita solo a perseguire l’aumento della ricchezza e
non la realizzazione della libertà, come condizione perché il progetto di vita di ogni uomo e di ogni
popolo possa realizzarsi in un quadro di umanesimo integrale» (cfr. E. M. LENCI, Le metamorfosi dell’illuminismo, Edizioni Plus, Pisa 2007).
5 L’economia monetaria rientra a pieno titolo nel processo di autonomia crescente degli individui
che distingue le società moderne dalle società tradizionali. A rapporti in cui la personalità era per intero impegnata hanno fatto seguito scambi in cui le personalità diventano intercambiabili, e ne risulta un
progresso della libertà poiché «la libertà è innanzi tutto l’indipendenza rispetto alla volontà di altre persone, ed essa comincia rispetto alla volontà di altre persone ben determinate».’s Ma questa libertà personale conquistata per effetto congiunto della crescita e della divisione del lavoro è paradossale, perché
essa «nega la spontaneità, il singolare, l’eterogeneo. Quel mezzo impersonale che è la moneta reagisce
sulle finalità dell’individuo che perdono ogni colorazione e si esauriscono nella ricerca dell’avere puramente quantitativo. Il pagamento di una merce mette fine agli obblighi reciproci dei partecipanti allo
scambio. Non esiste alcuna esigenza di reciprocità al di fuori della transazione in questione. Idealmente, dopo lo scambio commerciale gli agenti rimangono estranei l’uno all’altro, così come lo erano prima.
Dopo che la transazione si è conclusa essi possono voltarsi le spalle per sempre. In questo modo, pagare una merce equivale a uccidere sul nascere qualsiasi relazione di reciprocità tra i partecipanti allo scambio» (cfr. J. La VILLE, L’Economia solidale, Bollati Boringhieri, Torino 1998).
6 Cfr. J. F. LYOTARD, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1981, 6.
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do non mancano innovazioni sociali importanti a cominciare dalle varie
esperienze di economia del Terzo settore:7 come scrive Donati «la società
civile, intesa come sfera delle solidarietà primarie e secondarie che non agisce né per profitto, né su comando, si è rimessa in moto».8
4. Le forme della reciprocità
La reciprocità è intesa come la forma originaria della relazione interpersonale e quindi dell’intersoggettività. Secondo l’opinione dominante,
riguarda solo i «rapporti corti» della socialità primaria (i rapporti faccia a
faccia) ma non anche i rapporti lunghi della socialità secondaria (rapporti
mediati dalle istituzioni). La crisi del paradigma individualista della modernità ha riproposto la necessità di rivedere questa impostazione e di promuovere una visione solidale e sussidiaria della società. Solo la reciprocità
può infondere il suo spessore relazionale e morale nelle categorie boccheggianti della pura e astratta razionalità delle grandi narrazioni (c.d. ideologie) della modernità e in particolare nel mercato e nello stato.
4.1 La reciprocità nei legami sociali primari
La reciprocità faccia a faccia è alimentata dall’amore, dall’amicizia, dalla
prossimità parentale o vicinale e vive di prestazioni e controprestazioni di
aiuto, autoaiuto, di cura, sostegno morale o materiale, che possono avere
anche contenuto economico. È una reciprocità simmetrica ed equilibrata,
animata da un dinamismo di corrispondenza, scambievolezza e vicendevolezza determina una serie di movimenti pendolari di beni e di servizi che
hanno nell’andare – tornare, nel dare – ricevere, nel donare e restituire il
loro comune denominatore.9
La relazione di reciprocità è un insieme di trasferimenti bidirezionali,
indipendentemente volontari l’uno dall’altro, ma tra loro collegati. La
caratteristica dell’indipendenza implica che ciascun trasferimento è, a sé
considerato, volontario, cioè libero; quanto a dire che nessun trasferimento è condizione per il verificarsi dell’altro, dal momento che non vi è obbligazione esterna alcuna in capo al soggetto.
La bidirezionalità collegata e virtuosa implica un bilanciamento tra ciò
7 Cfr. G. LANZA, Il Ben-vivere. Lineamenti di economia del terzo settore, Edizioni Solidarietà, Caltanissetta 2008.
8 P. DONATI, Pensiero sociale cristiano e società postmoderna, Editrice Ave, Roma 1997, 156.
9 Cfr. L. BRUNI, Reciprocità, Bruno Mondadori, Milano 2006.
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che si dà e ciò che si aspetta (ma non che si pretende) di ottenere in cambio, un bilanciamento che non si manifesta però solo in un ritorno premuroso, o affettuoso, o economico, ma nella promozione del bene comune a
cui tutti possono attingere senza parametri di corrispettività.10
La reciprocità implica una relazione di riconoscimento tra i soggetti,
una relazione interpersonale in cui lo scambio avviene in forma cooperativa tra due «tu».11 Nella reciprocità equilibrata viene accolta quella che Caillè12 chiama la concezione modesta del dono gratuito per chi lo offre e vantaggioso per chi lo riceve, ma anche capace di rispondere a bisogni e aspettative dei donanti.
La reciprocità è chiamata ad alimentare la prossimità relazionale corta
come risposta “samaritana” alla domanda di cura, di aiuto, di fraternità che
può riguardare. La solidarietà delle relazioni di cura e di affetto promuove
il valore di legame che può anche estendersi alle relazioni economiche.
4.2 La reciprocità nei legami istituzionali secondari
La possibilità di riversare la linfa della reciprocità nei canali della socialità secondaria (istituzionale) pur essendo ritenuta auspicabile, nel dibattito morale di stampo postmoderno,è ritenuta impraticabile. Si fa rilevare
infatti che solo i rapporti “corti” (le relazioni affettive e private) possono
essere assunti come “autentici”, mentre i rapporti “lunghi” (le relazioni
pubbliche tra estranei) sono da considerare sempre “inautentici” perché
regolati dalla logica dello scambio (in economia) o del potere (in politica).
La prospettiva di un bene comune o di un ethos condiviso che possa
pure ispirare le relazioni lunghe non viene considerata attendibile. Si sostiene, infatti che
una società liberale non dovrebbe essere fondata su alcuna particolare nozione
della buona vita. L’etica centrale per una società liberale è un’etica del giusto
piuttosto che del bene. I suoi principi fondamentali, cioè, riguardano il modo in
cui la società dovrebbe rispondere alle istanze rivali degli individui ed arbitrare
fra esse. Questi principi includerebbero, ovviamente, il rispetto dei diritti e delle
libertà individuali, ma centrale ad ogni ordinamento che possa essere chiamato
liberale sarebbe il principio della facilitazione massima ed eguale. Ciò non definisce in prima istanza quali beni la società promuoverà, piuttosto come deter10 Cfr. S. ZAMAGNI, Il non profit italiano al bivio, Egea, Milano 2000.
11 S. ZAMAGNI, Del rapporto tra volontariato, economia sociale e civile, in V. BUONOCORE - B. IOSSA,
Organizzazioni economiche non capitalistiche, Il Mulino, Bologna 2003.
12 A. CAILLÈ, Il terzo paradigma, antropologia filosofica del dono, Bollati Boringhieri,Torino 1998.
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minerà, date le aspirazioni e le istanze degli individui che la compongono, quali
beni promuovere. Ciò che è cruciale qui sono le procedure di decisione.13
Il liberalismo procedurale, in effetti, considera i rapporti lunghi delle
relazioni socio-politiche irriducibili alla reciprocità del bene e dell’amore.
Trattandosi di relazioni indirette e asimmetriche esse possono essere regolate solo dallo scambio di mercato e dal potere coercitivo. Da ciò una completa separazione tra rapporto fraterno e rapporto sociale o, secondo la dizione di Ricoeur tra essere prossimo ed essere socio.
E lo stesso Ricoeur a rilevare che se si riconosce come autenticamente personale solo la forma «privata» di intersoggettívita a scapito della mediazione
oggettiva e impersonale, anche se socialmente condivisa, delle forme istituzionali, si rischia non solo di compromettere l’integrità della relazionalità umana,
ma anche di ridurre il politico ad un semplice strumento di regolazione della
convivenza, necessario ma privo della ricchezza dell’umanità personale e soggiogato ai meccanismi di calcolo economico. Allo stesso modo, una definizione di «altro» semplicemente come «prossimo» e l’individuazione dell’amore
come legame sociale ed espressione della coesione civile, non riesce a cogliere
la specificità delle relazioni istituzionalmente mediate e politicamente organizzate, né a individuarne lo specifico spessore etico. L’opportunità che invece si presenta al pensiero contemporaneo è proprio quella di riscoprire e legittimare la connotazione etica del politico e il rimando intrinseco al politico proprio della relazione etica, senza cadere nelle derive utopiche dell’idea comunitaria – che riduce la società e la comunità ad una sorta di estrapolazione
della relazione d’amicizia –, né arrendersi allo scacco di una assolutizzazione
dell’alterità di tipo levinasiano – che si rivela incapace di trovare una mediazione interna fra etica e politíca, fra esigenze etiche e domanda di giustizia –.
Ciò permette anche di riscoprire un differente significato dell’idea di giustizia,
che rivela un insospettato spessore etico e un’intima connessione con l’idea di
bene comune e di promozione dello sviluppo integrale della persona. La giustizia è nella pluralità umana di carattere politico, ciò che l’uguaglíanza è nell’amicizia, e scaturisce dalla medesima radice etica che nelle relazioni intersoggettive si manifesta nella forma della sollecitudine.14
In questa ottica la reciprocità come principio di regolazione della socialità nel sostentamento e nell’ordinamento, si evolve dalla dalla sua acce13 Ch. TAYLOR, Il dibattito fra sordi di liberali e comunitari, in Comunitarismo e liberalismo, Editori Riuniti, Roma 1992, 143.
14 Cfr. S. RICOTTA, Giustizia, intersoggettività, Istituzioni, Ricoeur tra Mounir e Levinas, in L. Alici
(a cura di), Forme della reciprocità, Il Mulino, Bologna 2004, 240.
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zione negativa (homo hominis lupus: «il tuo è mio»), che discende da una
concezione egoistica dell’uomo, alla sua accezione positiva (Homo hominis
homo: «Il mio è mio–il tuo è tuo»), che si rifà a una concezione relazionale
dell’uomo. In questa ottica lo scambio di mercato come «mezzo per contrapporsi senza massacrarsi» (Levi Strass) e la legalità come equilibrio degli
arbitri si riscattano nell’idea di giustizia che secondo Ricoeur si apre su due
versanti: sul versante del legale, che opera attraverso il sistema giudiziario,
e sul versante morale che opera come risposta virtuosa all’appello del bene.
Come fa rilevare Alici
in entrambi i casi, sia che la giustizia venga intesa in senso politico, come
deterrente elementare nei confronti del male (ricavandone l’idea di norme
coercitive come forme istituzionalizzabili del dovere) o in senso morale,
come risposta virtuosa all’appello del bene (ricavandone un’istanza di promozione interpersonale, oscillante tra cura e sollecitudine), essa difficilmente può ritenersi affrancata da un orizzonte di reciprocità cooperativa,
che offre una motivazione etica anche alle sue forme politiche apparentemente più impersonali e neutralizzate. Non a caso, proprio da una giustizia
interessata al bene dell’altro può nascere una relazione autenticamente amicale e quindi ridursi l’idea di assoluta incommensurabilità tra i due livelli;
[…] su tale aspetto, è questo, fra l’altro, il grande lascito di Aristotele, che
invece in larghi settori del pensiero contemporaneo sembra dissolversi in
una divaricazione incommensurabile tra la formalità del giusto e la soggettività del buono.15
Ma la reciprocità può ancora innalzarsi oltre il principio di giustizia, per
accedere alla fraternità agapica in cui l’interazione si configura come un
legame implementato dal bene assolutamente gratuito dell’amore, (homo
nomine deus: «il mio è tuo»).
Se la giustizia tende a bloccare il tasso di erosione nichilistica del male,
l’amore sembra invece in grado di aumentare a dismisura la rete di legami
«buoni», poiché la sua legge è l’eccesso (da non confondere con il disordine): ha senso, infatti, lamentare un deficit di amore, mai un surplus. La rivelazione cristiana, su questo punto, custodisce un irraggiungibile vertice agapico, sul quale si fonda il paradosso del comandamento evangelico, che dal
riconoscimento della fraternità si spinge sino alla gratuità della misericordia
e al perdono del nemico, in un’ottica nella quale Dio stesso è garante e principio di tale relazione: «Beato chi ama te, l’amico in te e il nemico per te».
15 L. ALICI, Le forme della reciprocità, 44.
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In conseguenza di questo, l’amore umano non sopporta più delimitazioni:
«Non c’è più Giudeo né Greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più
uomo né donna» (Gal. 3,28).16
5. Reciprocità ed economia
La reciprocità nelle sue varie forme permette il ritorno all‘economia
civile17 come economia del ben vivere sociale e delle relazioni economiche
di mercato come rapporti di mutua cooperazione e assistenza. L’economia
civile che Antonio Genovesi teorizzò e ispirò nel quadro dell’umanesimo
del Settecento fa proprio il pensiero del Vico per il quale la società deriva
immediatamente dalla «civil natura dell’uomo». Per Genovesi sono inseparabili «amor proprio» e «amore per gli altri», in quanto fattori costitutivi della stessa realtà; e dunque dimensioni fondamentali dell’agire personale. L’economia civile non rinnega il mercato, l’impresa, il contratto ma il
paradigma della razionalità egoistica ed edonistica che professa un’econo16 Ibidem, 47.
17 Per intendere il fondamento e la portata dell’economia civile occorre rifarsi ai teorici del movimento dell’economia civile di scuola napoletana e milanese.
La prima ebbe come suo massimo esponente Antonio Genovesi (1713-1769). Titolare a partire dal
1754 della prima cattedra di economia della storia, nel suo testo Lezioni di commercio ossia di economia
civile, rivendica il ruolo delle virtù per rendere il mercato un’istituzione civile e considera il capitale
sociale (che egli denomina «fiducia pubblica») come condizione per lo sviluppo dell’economia. Inoltre,
intuendo il valore di concetti, che la sociologia successiva avrebbe sviluppato, afferma che la socialità
come interdipendenza fattuale non si trasforma automaticamente in coscienza e atteggiamento cooperativo, ma che occorra coltivare la reciprocità come sentimento e valore di condivisione dell’interesse degli
altri anche come presupposto per la realizzazione del proprio interesse. Per Genovesi «è legge dell’universo che non si può fare la nostra felicità senza far quella degli altri».
A principi analoghi si ispirò la scuola milanese che pose l’accento sulla felicità pubblica come obiettivo dell’economia, nei confronti del quale il ruolo della ricchezza era strumentale (la ricchezza non come
fine, ma come mezzo) e sulla considerazione del ruolo delle leggi e della creatività umana per assicurare un’economia giusta e sviluppata.
Pietro Verri, autore dell’opera Del piacere e del dolore e di altri scritti, fu il fondatore e il leader della
Scuola milanese di economica. «Nel suo pensiero filosofico ed economico ritroviamo non solo la centralità della pubblica felicità, ma tutti i temi tipici che abbiamo incontrato nella tradizione civile italiana,
all’interno dei quali si comincia a sentire anche l’influenza francese (soprattutto di Rousseau e di Montesquieu): il ruolo delle virtù («la sola virtù può farci godere quel poco di felicità di cui siamo capaci»),
la ricchezza come mezzo e non come fine («le ricchezze, sono mezzi di avere i beni, e non beni per loro
medesime»), la lode del commercio come momento civilizzante e pacifico («il bisogno spinge l’uomo talvolta alla rapina, talvolta al commercio»), e la fiducia («la buona fede») considerata come la precondizione dello sviluppo dei commerci. In particolare ai milanesi stanno particolarmente a cuore due temi
della tradizione civile: il ruolo delle giuste leggi per la pubblica felicità e l’importanza attribuita alla creatività e intelligenza della persona nella creazione del valore dei beni» (Cfr. L. BRUNI - S. ZAMAGNI, Ad
ogni buon conto. Lezioni di economia civile, Editoriale Vita, Milano 2002.
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mia lobotomizzata senza valori, senza relazioni, senza sentimenti, senza
identità culturali e territoriali. Così sintetizzata in una celebre definizione
di Robbins
L’economia è lo studio dell’utilizzazione di risorse scarse per soddisfare
gli illimitati bisogni dell’uomo, è indifferente alla natura di questi ultimi e
alla distribuzione sociale dei beni. L’economia civile rifiuta la lettura tradizionale ancora oggi dominante nella storiografia, che ha sempre visto la
nascita dell’economia di mercato come un novum che rompe la christianitas
costruita sulla caritas, sul dono reciprocità e sulla communitas: la cultura del
contratto si affermò spiazzando quella del dono, e la razionalità economica
emerse dalle ceneri di quella della reciprocità. La prospettiva dell’economia
civile non può condividere una tale lettura, ma vede la genesi dell’economia
di mercato come uno sviluppo della cultura della reciprocità, con la quale è
restata in stretto rapporto per secoli, fino alle soglie del Novecento. Il principio di reciprocità viene considerato fondativo sia della cultura del dono
sia della cultura del contratto, per cui il dono e il contratto non sono da considerare come modalità alternative di regolazione dei rapporti umani, ma
come due espressioni diverse, due articolazioni differenti del principio di
reciprocità, il quale fonda la possibilità stessa della convivenza civile.18
L’economia civile non costituisce solo un modello prescrittivo che intende restituire all’attività economica il senso pieno di un’attività centrata sul
rispetto della persona, ma definisce diverse esperienze esistenti nella concretezza spaziale e temporale del mondo di oggi.
Nella società odierna l’economia della reciprocità è presente oltre che
negli ambiti familiari e vicinali (servizi di prossimità, gruppi di acquisto
solidali, ecc.), nelle economie diffuse e informali delle periferie metropolitane del terzo mondo, nell’economia di comunione, nel terziario dei servizi di cura, nel commercio equo e solidale e nella finanza etica, nel microcredito, nell’housing sociale, in tutte le altre forme di economia non profit.
È presente in campo sindacale quando si dà vita ai contratti di solidarietà,
che implicano riduzioni di orario lavorativo per evitare il licenziamento dei
lavoratori in esubero. È presente pure anche nella new economy dove, spesso la condivisione di informazione avviene gratuitamente nelle comunità
virtuali, oppure quando gruppi, organizzazioni e movimenti sociali reperiscono prestazioni di natura volontaria attraverso la rete anche con l’apporto di prestazioni gratuite di artisti, banche, esperti. In un campo più vasto
ormai si configurano diverse tipologie di aziende a movente ideale, non
18 L. BRUNI - S. ZAMAGNI, Economia civile, Il Mulino, Bologna 2004, 32.
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solo nell settore for profit, ma anche in quello for profit socialmente
responsabili. Alcune tipologie, addirittura, non sono più nettamente distinguibili, perché caratterizzate da feconde ibridazioni non profit-for profit.
6. Reciprocità, legalità e statualità
Il principio di reciprocità anche nella dimensione asimmetrica dei rapporti istituzionali deve ispirare una legalità che sia nella sua forma politica
(statualità) che nella sua forma civile (contrattualità) superi l’angustia di
concezioni imperativistiche e normativistiche. Per altro verso la reciprocità
deve radicare la legalità su obbligazioni morali e legami sociali, senza delle
quali essa è destinata a perdere ogni incidenza ed efficacia.
Occorre ribadire che
le sanzioni non sono necessarie come motivo normale dell’obbedienza, ma
come una garanzia che coloro i quali sono disposti a obbedire volontariamente non vengano sacrificati a coloro che sono disposti a farlo. Obbedire,
senza questa garanzia, significherebbe rischiare di essere nella situazione
peggiore. Dato questo permanente pericolo, ciò che la ragione richiede è
una cooperazione volontaria in un ordinamento coattivo.19
La reciprocità nelle relazioni politiche di cittadinanza si presenta sempre
più come una condizione di recupero comunitario delle società moderna. La
democrazia procedurale non è più in grado di reggere alle spinte disgregatrici della complessità moderna. Al riguardo è utile richiamare il modello
tonnesiano di contrapposizione tra comunità e società. Anche se Tonnies
vedeva come inevitabile il passaggio dalla comunità alla società, la sua rappresentazione dicotomica di comunità e società è importante per impostare
un orizzonte di philia e di oblatività nei contesti della vita odierna.
La sua teoria della società muove dalla considerazione di una cerchia di
uomini che, come nella comunità, vivono e abitano pacificamente uno accanto all’altro, ma che sono non già essenzialmente legati, bensí essenzialmente
separati. Secondo Tónnies, nella società non esiste nessuna unità superiore
agli individui ed ogni individuo sta per conto proprio e in stato di tensione
di fronte agli altri; non esiste nessun bene comune ed ogni individuo gode dei
propri beni escludendo gli altri. Nella società i rapporti fra i singoli sono
essenzialmente rapporti di scambio che trovano la loro espressione tipica nel
19 H. HART, Il concetto di diritto, Einaudi, Torino 2000, 230.
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contratto. Questo è considerato come la risultante di due volontà individuali divergenti che si intersecano in un punto ed è analizzato nei suoi elementi
e nel suo fondamento naturale che si riassume nella formula pacta sunt servanda. La teoria della comunità, invece, parte dal presupposto della perfetta
unità delle volontà umane come stato originario o naturale che si è conservato nonostante e attraverso la separazione empirica atteggiandosi in forme
molteplici a seconda della natura necessaria e data dai rapporti tra individui
diversamente condizionati. Secondo Tònnies la comprensione (il consensus)
è un modo di sentire comune e reciproco associativo, che costituisce la volontà propria di una comunità ed è quindi anche la forza e simpatia sociale che
tiene insieme gli uomini come membri di un tutto. La vita della comunità
implica possesso e godimento di beni comuni, amici e nemici comuni, volontà di protezione e di difesa reciproca.
La comunità costituisce il nuovo orizzonte della legalità e della statualità
in una società animata dalla reciprocità e governata dalla sussidiarietà. In
questa prospettiva anche lo scambio contrattuale di mercato può essere
ricondotto nello schema della reciprocità. Il recupero dello scambio di equivalenti nel quadro della reciprocità è conforme alla nuova concezione sociale e promozionale del diritto e della legalità. Il contratto nella giuridicità formalistica e coercitiva aveva lo scopo di stabilire le condizioni per mezzo delle
quali «l’arbitrio dell’uno può combinarsi con l’arbitrio dell’altro»: una teoria
giuridica che discendeva dalla logica hobbesiana (homo hominis lupus) e che
si collegava a quella economica mandevilliana (vizi privati, pubbliche virtù):
in queste lo stereotipo di riferimento era quello dell’uomo asociale, attore di
rapporti basati sull’arbitrio controllato dalla possibile sanzione in caso di inadempimento o di inesatto adempimento. Si misconosceva del tutto lo stereotipo dell’uomo sociale (homo hominis homo) che cerca nella legge un modo
di collaborazione ordinata e garantita con gli altri cittadini, che considera il
contratto come lo strumento per attuare il “dolce commercio” ispirato dall’armonia sociale, in cui la moneta è mezzo di pacificazione sociale (pacatiopacificazione è la radice latina di pagamento).
7. La reciprocità nella Caritas in Veritate
L’enciclica Caritas in Veritate ha assunto in un quadro antropologico e
teologico l’idea e la prassi della reciprocità come giustizia e carità, proiettando anche quest’ultima nella società economica e politica. La carità è
considerata come essenzialmente costitutiva della comunità umana, non è
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succedanea, né marginale, né terapeutica, ma con la sua regola di eccedenza oltrepassa, anche se la comprende la giustizia e la ispira (C. V. par. 34).
Questa dinamica di carità-giustizia instaura una profonda relazione tra rapporto fraterno e rapporto sociale, tra essere prossimo ed essere socio: la
carità così acquista una rilevanza politica e la giustizia si alimenta sempre
da capo dal rinnovamento delle forme elementari del rapporto fraterno. La
carità così viene a costituire l’atmosfera che favorirà i rapporti giusti e l’impegno sociale. La logica del principio di gratuità e del dono devono trovare posto entro la normale attività economica. In particolare si afferma che
è non più possibile ritenere che prima bisogna perseguire la giustizia e
intervenire successivamente e in forma complementare con la carità.
Conseguenza importante del nuovo rapporto tra carità e giustizia è il superamento della razionalità economica dei due tempi, il primo tempo quello
della scatola nera del produzione e della distribuzione e poi il secondo tempo
della redistribuzione. La razionalità economica capitalistica segue, infatti, la
teoria dei due tempi secondo la quale la solidarietà debba comparire dopo che
l’economia ha esplicato il suo compito e completato il suo ciclo. Verrebbe
infatti prima il tempo dell’economia, in cui sono prodotti e distribuiti beni e
servizi. Una volta effettuata la produzione e la distribuzione, giungerebbe il
momento della solidarietà, in cui condividere e aiutare coloro che sono stati
sfavoriti dall’economia e si trovano, quindi, in stato di bisogno. La solidarietà
avrebbe inizio quando l’economia ha terminato il suo compito e la sua funzione specifica. La solidarietà si realizzerebbe con i risultati – prodotti, risorse, beni e servizi – dell’attività economica, ma non sarebbero solidali l’attività
economica stessa, le sue strutture e i suoi processi. Quello che l’enciclica
sostiene è, invece, diverso: la solidarietà deve entrare all’interno dell’economia
stessa e operare e agire nelle diverse fasi del ciclo economico, e cioè produzione, circolazione, consumo e accumulazione. Tutto ciò implica produrre
con solidarietà, distribuire con solidarietà, accumulare e sviluppare con solidarietà. Pertanto rapporti autenticamente umani, di amicizia e di socialità, di
solidarietà e di reciprocità possono essere vissuti, anche all’interno dell’attività economica e non soltanto fuori di essa o «dopo» di essa, perché la sfera
economica non è né eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale. Essa appartiene all’attività dell’uomo e, proprio perché umana, deve
essere strutturata e istituzionalizzata eticamente ( C. V. par. 36).
La reciprocità della carità estesa all’economia e alla politica costituisce
una svolta per ridare un forte orientamento al pensiero debole della postmodernità. Ma si tratta di una svolta in cui grande si profila la responsabilità di tutti gli uomini e di tutti i cittadini, e dei cristiani in particolare, non
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solo perché la reciprocità chiama in causa scelte personali e comportamenti fraterni in ambiti non più riservati alla sola giustizia, ma anche perché
stanno maturando scenari in cui la società civile diventerà decisiva per le
sorti dell’umanità. Il primo riguarda la c.d. società postcrescita, caratterizzata dal protagonismo del consumo, riqualificato in senso critico e sobrio,
il secondo riguarda la società globalizzata, destatalizzata e sussidiaria, caratterizzata dal protagonismo delle comunità locali.20
È arrivato il tempo in cui non è più possibile delegare o rimandare le
scelte per una società più giusta e più buona, in cui i beni deboli (ambiente), ma soprattutto i soggetti deboli, dall’embrione, al bambino, alla donna,
all’anziano, dal disoccupato allo sfrattato, all’ammalato, all’immigrato, senza
distinzione o gerarchia, possano essere non solo protetti ma inclusi e accolti in una umanità fraterna.
Summary
Reciprocity in economics and politics
What we mean by reciprocity is the original form of interpersonal relationship
and therefore inter-subjectivity. Only with reciprocity can we infuse relational and
moral depth to the gasping categories of pure and abstract rationality of the great
ideologies of modernity and in particular of the market and state.
The reciprocity of charity extended to the economy and politics, declared in
Caritas in Veritate, constitutes a turning point, giving the shallow thinking of postmodernity, a powerful direction. But it constitutes a turning point which gives
responsibility to every man, and especially to every Christian, not only because this
sense of reciprocity influences directly personal choices and brotherly behaviour in
domains no longer reserved to justice alone, but also because civil society is emerging as a decisive force in forging the destiny of humanity. Two considerations are
made: firstly this post-boom society has been characterized by consumer protagonism, which has been re- qualified in a more sober and critical sense, secondly the
highly globalized, de-statalized and subsidiary society, is characterized by the protagonism of local communities. (traduzione di Peter Cipolla)
20 Cfr. G. LANZA, Sviluppo meridionale e Fondazione per il sud, in «Solidarietà», 54 (2007), 50-26.
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S
olidarietà
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Creare valore nel proprio territorio
Diego Lana
Premessa
In un momento storico caratterizzato dalla presenza di un mercato globalizzato, dopo la crisi epocale scatenata dai prodotti sub-prime i cui effetti negativi sono ancora in corso, in un’epoca in cui l’Unione Europea
mostra segni di difficoltà politica oltre che economica e sociale, in un periodo in cui il nostro paese, compresa la nostra regione, non vive un buon
momento per quel che concerne l’occupazione ed il reddito delle famiglie
per le difficoltà di molte imprese, sembra opportuno affrontare il tema
delle crisi aziendali per cercare di spiegare perché nascono, come si manifestano, cosa è opportuno fare per limitarne i danni, come si possono evitare,
quali politiche possono mettere in atto lo Stato e gli enti locali territoriali
per stimolare lo sviluppo dell’iniziativa privata dato che per molte aree del
paese, specialmente del sud, questa costituisce ormai l’unica risorsa.
Ciò soprattutto con riferimento alla nostra Sicilia che ha visto da tempo
diradarsi le tradizionali fonti di lavoro dei giovani diplomati e dei giovani
laureati (la regione, le province, i comuni, le banche locali, le banche pubbliche, le ferrovie, le poste, la scuola), fonti che per motivi vari, la saturazione e la crisi finanziaria per gli enti pubblici territoriali, la cessione per le
banche locali private e per quelle pubbliche, la privatizzazione per le ferrovie e le poste, la politica di restrizione per quanto riguarda la scuola, di
fatto, sono venute meno senza essere sostituite da altre.
Le imprese come istituti destinati a perdurare
Giova premettere che negli studi economico-aziendali spesso,1 anche se
non sempre,2 si distinguono le aziende cosiddette di produzione dalle
imprese.
Le prime, pur realizzando processi produttivi come le seconde, affrontano il mercato per cosi dire in modo protetto (si pensi ad esempio ad una
1 Per tutti cfr. E. CAVALIERI, Economia aziendale, I, Giappichelli, Torino 2000, 125.
2 Cfr. T. D’IPPOLITO, Istituzioni di amministrazione aziendale, Abbaco, Palermo-Roma 1963, 19.
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cooperativa per la produzione di vino che vende prevalentemente agli associati), mentre le imprese lo affrontano in regime di assoluta concorrenza,
senza alcuna forma di protezione, alcuna area riservata (si pensi ad un’azienda che produce auto).
Il diverso modo di affrontare il mercato delle aziende cosiddette di produzione rispetto a quello delle aziende che spesso si denominano imprese
non è rilevante solo per la maggiore o minore difficoltà di vendita dei prodotti o servizi ma incide sul significato dei risultati di bilancio delle predette aziende. Per continuare l’esempio di cui sopra l’eventuale equilibrio
economico conseguito da un’azienda che produce auto in un mercato cosi
concorrenziale è molto più significativo di quello eventualmente raggiunto
dalla cooperativa che produce vino prevalentemente per gli associati. Non
solo, ma l’eventuale squilibrio dell’azienda-impresa, che come si è detto
opera in un mercato molto competitivo, è da affrontare con maggiore tempestività, oltre che con minori margini di manovra, di quello eventualmente registrato dall’azienda che affronta il mercato in modo protetto. Da qui
il rilievo che molti attribuiscono alla distinzione, nell’ambito della grande
famiglia delle aziende di produzione, della categoria delle imprese.
Ciò premesso, anche se può apparire superfluo, è necessario ricordare
che le aziende in genere e le imprese in particolare sono istituti economici,
ossia creazioni dell’uomo governate con una logica di medio e lungo termine secondo la legge del minimo mezzo e/o del massimo risultato, enti
che realizzano processi di produzione e/o di consumo per la soddisfazione
dei bisogni umani di colui o di coloro che le istituiscono e di coloro che in
vario modo vi collaborano.3
L’uomo è dunque condizione obiettiva finalistica dell’attività aziendale
ma anche condizione obiettiva di funzionamento4 perché quasi sempre
colui che istituisce l’azienda (soggetto aziendale) si avvale per lo svolgimento dell’attività di uno o più collaboratori, dipendenti e/o autonomi.
Gli istituti economici che sostanziano l’azienda sono per definizione
«destinati a perdurare»,5 ossia devono organizzarsi ed amministrarsi in
modo che possano vivere e svilupparsi nel tempo per non dilapidare risorse, che come è noto sono in gran parte limitate e scarse (risorse economiche), e per soddisfare i bisogni (continui) di tutti i partecipanti al processo
produttivo (stakeholders), in primo luogo quelli del soggetto aziendale, dei
3 Cfr. G. ZAPPA, Le produzioni, I ,Giuffrè, Milano 1958, 37.
4 Cfr. M. CATTANEO, Economia delle aziende di produzione, Etas, Milano 1965, 4.
5 G. ZAPPA, Le produzioni, 37.
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Solidarietà 62/2010
lavoratori e dei finanziatori e poi quelli dei fornitori, dei clienti, dello Stato,
della società in genere, bisogni che verrebbero ad essere pregiudicati dal
venir meno di un’impresa funzionante, di un’impresa che produce e distribuisce ricchezza.6
L’esigenza della durabilità delle aziende è dunque posta non solo nell’interesse di coloro che le istituiscono e di coloro che vi collaborano ma è
un’esigenza pubblica di razionale uso delle risorse,7 di tutela dell’interesse
collettivo.
Le condizioni di equilibrio delle aziende
L’esperienza e gli studi economico-aziendali hanno da tempo dimostrato che la “durabilità” si può raggiungere se con la gestione si possono soddisfare due principi fondamentali:8
a) quello dell’equilibrio economico per il quale, almeno nel medio e
lungo andare, i ricavi devono reintegrare i costi effettivi e quelli figurativi9
(equilibrio minimo) e consentire di soddisfare le concordate attese dei partecipanti al processo produttivo,10 compresi quelle relative all’ambiente e
6 In questo senso P. ONIDA, Economia d’azienda, Utet, Torino 1965, 91, aveva già parlato di «massimi simultanei progressivi per quanto riguarda salari, dividendi e autofinanziamento, dinamicamente
insieme combinati e opportunamente contenuti al fine del loro mutuo rafforzamento, pur praticando
prezzi idonei a sostenere e dilatare la domanda».
7 Particolarmente sensibile alla razionalità economica è E. BORGONOVI, Principi e sistemi aziendali
per le amministrazioni pubbliche, Egea, Milano 2002, 8, che convinto delle necessità di questa per massimizzare i fini degli enti ne sostiene l’introduzione anche nelle amministrazioni pubbliche che considera vere e proprie aziende.
8 Tutti gli studiosi di ragioneria e di economia aziendale sostengono tale necessità. Si leggano per
tutti: P. ONIDA, Economia d’azienda, 58; A. AMADUZZI, L’azienda, Utet, Torino 1972, 197; T. D’IPPOLIIstituzioni di amministrazione aziendale, 272; G. AIROLDI - G. BRUNETTI - V. CODA, Lezioni di economia aziendale, Il Mulino, Bologna 1989, 327; P. Saraceno, Il governo delle aziende, Lue, Venezia 1972,
99; M. Cattaneo, Economia delle aziende di produzione, 142; P. Mella, Lineamenti di economia aziendale,
Isdaf, Pavia 1987, 337.
9 Sono i presunti oneri spettanti all’imprenditore per i fattori di produzione da lui forniti gratuitaTO,
mente.
10 Secondo i sostenitori della teoria della responsabilità sociale delle imprese, infatti, la legittimazione economica delle aziende si ha con il raggiungimento del consenso unanime di tutti gli stakeholders
tramite la stipula con loro di un ipotetico “contratto sociale” inteso appunto come criterio di bilanciamento, un accordo vantaggioso per tutti. In proposito si rinvia a D. LANA, Programmare e gestire l’impresa, 2009, 53. La teoria della responsabilità sociale dell’impresa sembra vicina alla Gaudium et Spes,
che prescrive quanto segue: «L’attività economica deve essere condotta secondo le leggi e i metodi propri dell’economia ma nell’ambito dell’ordine morale, in modo che così risponda al disegno di Dio».
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Solidarietà 62/2010
allo Stato (equilibrio ottimo); in questo ultimo caso l’azienda crea valore11
(quindi non solo profitto per l’imprenditore) «nel senso che essendo il valore dell’output superiore al valore dell’input si realizza una differenza positiva che è, o può essere, una ricchezza non solo per colui o coloro che la
controllano finanziariamente ma anche per lo società»;12
b) quello dell’equilibrio finanziario per il quale, in qualsiasi momento,
l’azienda deve essere in grado di far fronte, senza apporti esterni, con le
proprie forze ed in modo non rovinoso, agli impegni finanziari assunti e di
assicurare l’esistenza di un congruo fondo-cassa per eventuali bisogni
imprevisti.13
Il principio dell’equilibrio economico comporta, come corollari, la minimizzazione dei costi e la massimizzazione dei ricavi, sia pure con il limite di
cui si è detto della salvaguardia degli interessi a medio e lungo termine dell’azienda, margini lordi elevati sulle varie produzioni, rendimenti elevati dei
fattori produttivi impiegati.
Il principio dell’equilibrio finanziario comporta, come corollari, la minimizzazione delle uscite, la massimizzazione delle entrate, la correlazione
per entità e per scadenza delle uscite finanziarie con le entrate, l’armonia
qualitativa e quantitativa tra tipi di investimenti, tra tipi di finanziamenti,
tra investimenti e fonti di finanziamento.
Entrambi i principi mirano ad assicurare all’azienda l’autosufficienza
economico-patrimoniale. Essi non sono indipendenti in quanto hanno come
comune denominatore le operazioni aziendali che possono essere considerate nelle cause per cui si verificano le entrate e le uscite finanziarie (aspetto economico) e nelle modalità di loro svolgimento (aspetto finanziario).
Tale comunanza determina che se i ricavi sono inferiori ai costi (squilibrio
economico) le entrate di gestione tendono ad essere inferiori alle uscite
(squilibrio finanziario) e che se le uscite finanziarie sono superiori alle
11 La teoria del valore è nata ad opera di Freeman nel 1984 in America. Nella sua versione originale prescrive che il successo dell’impresa consiste nel soddisfare le esigenze degli stakeholders. In America, dove l’investimento azionario è diffuso, è stata soprattutto riferita all’aumento del valore di borsa
delle azioni. In Italia, dove la Borsa è meno sviluppata, la creazione di valore è riferita a tutti gli stakeholders. «L’assunto, ampiamente confermato dall’esperienza, è che la ricerca della ricchezza degli azionisti si realizzi meglio in un contesto di relazioni armoniche con l’ambiente» (S. Pivato, La gestione dell’impresa come creazione di valore, in S. PIVATO - N. MISANI - A. ORDANINI - F. PERRINI, Economia e
gestione dell’imprese, Egea, Milano 2007, 11).
12 D. LANA, Programmare e gestire l’impresa, 35.
13 Sull’equilibrio e sulle sue implicazioni amministrative si possono leggere D. LANA, Significato
della teoria delle condizioni di equilibrio, in «Rivista Italiana di Ragioneria», n. 1, 3 e D. LANA, L’equilibrio condizione di vita delle aziende. Il ruolo e la tecnica della pianificazione, in «Economia e Credito», 12 (1994).
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entrate prima o poi ne risentirà l’equilibrio economico se non altro per l’incidenza degli interessi passivi determinati dal capitale di prestito necessario
per colmare lo squilibrio.
Il rispetto dei principi predetti sul piano operativo comporta l’efficienza dei processi produttivi, il buon rendimento del personale e degli impianti (se ci sono), una buona organizzazione, continui controlli qualitativi e
quantitativi, oggi, data la globalizzazione dell’economia e la conseguente
maggiore concorrenza, anche strategie tali da creare un «vantaggio competitivo» e quel valore che si è detto necessario per assicurare all’azienda un
equilibrio ottimo.14
Può dirsi in sintesi che l’equilibrio delle aziende presuppone l’esistenza di una serie di condizioni in parte dipendenti dall’imprenditore ed in
parte dall’ambiente in cui l’azienda opera.
Dipendono dall’imprenditore la qualità dell’idea imprenditoriale, la
scelta del prodotto o servizio da realizzare, l’analisi circa il suo mercato, i
concorrenti, i prezzi, la scelta degli investimenti e delle fonti di finanziamento, la selezione del personale eventualmente necessario, il clima organizzativo, la strategia, l’eventuale internazionalizzazione del processo produttivo, la localizzazione dell’impresa, le scelte di marketing, le condizioni
di acquisto e di vendita, le scelte relative al magazzino ecc.
Dipende dall’ambiente (e quindi dalla politica e dalla società in cui l’azienda vive) la disponibilità di adeguati sistemi di trasporto (ferrovie, porti,
aeroporti, strade, autostrade), di efficaci sistemi formativi (scuole professionali, università), di efficienti servizi finanziari (banche ordinarie, banche
d’affari) di funzionali servizi pubblici (trasporti, acqua, energia, ospedali,
pubblica amministrazione), in genere la creazione di un contesto sia economico che culturale favorevole all’impresa, un contesto fatto di norme,
atteggiamenti, valori, consuetudini, rapporti, istituzioni (capitale sociale).15
14 Sul piano contabile il rispetto dei principi e dei corollari predetti comporta la tenuta della contabilità generale, della contabilità analitica e della contabilità finanziaria. La prima, la contabilità generale, serve per ottenere il bilancio, il massimo documento informativo della situazione economico-finanziaria dell’azienda. La seconda, la contabilità analitica, serve prevalentemente per verificare i corollari del
principio di equilibrio economico. La terza, la contabilità finanziaria, serve per ottenere il rendiconto
finanziario utilissimo per l’amministrazione delle imprese dato che la contabilità generale è basata sulla
competenza economica.
15 Ciò interessa soprattutto il sud d’Italia che è largamente sprovvisto del contesto adatto allo sviluppo delle aziende. La situazione è la seguente. Il meridione da solo non può farcela perché gli operatori locali spesso non dispongono del contesto adatto e della necessaria esperienza imprenditoriale.
Hanno bisogno, dunque, degli imprenditori del centro-nord e/o di imprenditori stranieri ma questi non
vengono perché altrove trovano condizioni più favorevoli, si badi bene, non solo e non tanto in termini
di agevolazioni o di sconti fiscali ma in termini di variabili di processo e di variabili di contesto. Allora,
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Solidarietà 62/2010
La situazione di disequilibrio ed il risanamento
Quando mancano le condizioni di cui sopra, quelle riconducibili all’imprenditore e quelle dipendenti dall’ambiente in cui l’azienda opera,
comunque quando la formula imprenditoriale prescelta non funziona più e
si incrinano le condizioni di equilibrio, l’azienda entra in crisi, in una fase
non sostenibile per lungo tempo che richiede un’analisi approfondita della
situazione ed un successivo conseguente intervento.
L’analisi viene fatta di solito partendo dal livello delle perdite patrimoniali ed è rivolta alla identificazione delle cause16 che determinano lo squilibrio, cause che possono essere varie, tecniche, commerciali, finanziarie,
congiunturali ecc.
L’accertamento delle perdite è molto importante ai fini della diagnosi e
della cura. È infatti statisticamente provato che quando l’azienda ha un livello di perdite tali da essere qualificata insolvente, ossia non in grado di pagare i suoi debiti con mezzi normali, o, peggio, in dissesto, ossia con un passivo superiore all’attivo patrimoniale, è difficilissimo, quasi impossibile, che si
possa salvare con un intervento di risanamento. In questi casi non si può
certo invocare la «responsabilità sociale dell’impresa» per mantenerla in
vita, per salvare ad esempio l’occupazione.17 Si potrebbe parlare d’irresponsabilità sociale nella gestione da parte dell’imprenditore, se l’azienda non è
stata governata secondo rigorosi criteri, ma questo è un altro capitolo.
Nei casi predetti, delle situazioni di insolvenza e di dissesto, per motivi
giuridici (le norme sul fallimento), per motivi economici (la mancanza delle
condizioni di equilibrio), per motivi politici, per non dilapidare risorse
anche pubbliche che potrebbero impiegarsi altrimenti ed altrove, l’azienda
deve cessare, in mancanza di altre possibilità, quasi sempre attraverso la
se le amministrazioni pubbliche vogliono fare un discorso realistico sullo sviluppo, devono partire dalla
creazione di un ambiente adatto alla nascita delle aziende, cominciando dallo snellimento delle procedure burocratiche, dai piani regolatori generali e particolareggiati, dall’acqua, dai trasporti, dalla sicurezza, insomma da tutto ciò che rende poco attraente, economicamente, il territorio del sud.
16 In questo senso cfr. L. GUATRI, Un’interpretazione del concetto di ‘crisi aziendale’ collegata alla teoria di creazione del valore, in «Finanza Marketing Produzione», 1 (1995). Sulle crisi aziendali e su come
affrontarle, dello stesso autore, si può leggere Patologìa aziendale, in Trattato di economia delle aziende
industriali, tomo II, Giuffrè, Milano 1992, 399.
17 Di tale problema a lungo si occupa Pietro Onida (Economia d’azienda, 227) «Il peggiore dei modi
nei quali si può affrontare il problema della disoccupazione è proprio quello di levare alle aziende, sistematicamente e durevolmente, la necessaria elasticità nel volume e nella composizione del personale» e
più oltre (230) «come difendere i lavoratori i lavoratori contro il rischio ch’essi e le loro famiglie vengano a mancare dei necessari mezzi di sussistenza per il fluttuare della produzione? A questa difesa può
efficacemente provvedere lo Stato o meglio, l’azione combinata delle aziende di produzione e dello
Stato, a parte la personale previdenza degli stessi lavoratori».
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liquidazione volontaria o fallimentare, ossia con la vendita dei suoi beni ed
il pagamento totale o parziale dei debiti.
Negli altri casi, quando il livello delle perdite è basso e comunque non
elevato si può (si deve) tentare il risanamento cercando, come si è detto, le
cause della crisi. La determinazione di queste è ovviamente molto importante perché solo individuando perfettamente la causa o le cause della crisi
si può approntare la cura.
L’operazione non è facile non solo perché, come si è accennato, le cause
possono essere tante ma anche perché spesso si confondono le cause con
gli effetti della crisi. Per questo conviene ricorrere all’opera di uno o più
professionisti di chiara fama, se l’azienda è di grandi dimensioni di un advisor prestigioso, comunque di persone o enti che per la loro esperienza
diano garanzie a tutti gli stakeholders non solo sulle cause della crisi ma
anche sulla validità della soluzione proposta per risolverla, soluzione che
non può non mirare al ripristino delle condizioni di equilibrio, proprio per
la «responsabilità sociale» che l’impresa ha nel territorio. Infatti solo con
tale ripristino essa può riprendere la sua funzione di creatrice e distributrice di ricchezza.
Il consiglio è di intervenire nel più breve tempo possibile perché il
decorso del tempo può complicare la situazione, può aumentare il livello
delle perdite, può rendere più difficile il risanamento. Ma la decisione non
è sempre facile, né può essere sempre molto rapida. Ciò perché il risanamento, traducendosi in una serie coordinata di provvedimenti di natura
varia (organizzativa, commerciale, finanziaria, ecc), presuppone la predisposizione di un piano18 e la sua approvazione, cosa questa non facile in
quanto gli stakeholders sono chiamati a scommettere sulla ripresa dell’impresa e ad assumersi nuove responsabilità, nuovi rischi, nuovi oneri.
L’imprenditore, infatti, è costretto spesso ad affidare ad altri l’amministrazione per garantire la discontinuità dei criteri gestionali rispetto a quelli che hanno determinato il disequilibrio; il capitalista, che ha già fornito i
capitali dell’impresa, è chiamato spesso a concedere ulteriori finanziamenti; i fornitori e le banche, già esposti verso l’azienda, sono chiamati frequentemente a congelare i loro crediti quando non sono invitati a stralciarli in parte; i lavoratori, che spesso non hanno ricevuto le loro spettanze e
vedono messa a rischio l’indennità di fine rapporto, sono chiamati quasi
sempre a congelarle per un certo tempo; il fisco è spesso chiamato a con18 «Il piano […] è la descrizione programmatica della situazione esistente, degli interventi previsti,
dei mezzi per realizzarli, delle conseguenze attese in termini di recupero di equilibrio» (L. GUATRI,
Un’interpretazione del concetto di ‘crisi aziendale’ collegata alla teoria di creazione del valore, 401).
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cedere dilazioni; i clienti a concedere anticipi o fare ordinazioni per sostenere l’impresa in difficoltà.
Per favorire l’approvazione del piano di risanamento è molto utile la fissazione di traguardi precisi (ad esempio la riduzione delle perdite in un
anno, tornare agli utili entro due anni, tagliare i debiti in tre anni) e la previsione di due scenari, uno relativo al successo dell’intervento ed uno relativo all’insuccesso. È inoltre utile presentare la proposta con un business
plan per favorire la percezione dell’insieme dei provvedimenti.
Da notare che il piano di risanamento può prevedere la cessione di rami
di attività relativamente autonomi e/o la concentrazione nel core business
dell’azienda come anche forme di cessazione relativa quali la fusione o la
trasformazione se l’impresa è retta in forma societaria.
L’importante è fare in modo che si ripristino, sia pure in un lasso di
tempo ragionevole, le condizioni di equilibrio economico-finanziario dell’azienda e quindi l’attitudine di questa a «creare valore» per tutti gli stakeholders.19 In questo senso il rigore della procedura sopra indicata costituisce il modo corretto di esercitare «la responsabilità sociale» dell’impresa che non può esistere, nel contesto capitalistico in cui viviamo e nel quadro dei regolamenti europei, al di fuori dell’equilibrio di cui si è detto. La
pretesa di risolvere le crisi solo con i contributi statali, regionali, ecc. è dunque irrazionale oltre che vietata dall’Ue a meno che essi non servano a
rimuovere la causa della crisi e siano temporanei.
Il contributo dato per motivi sociali se non risolve il problema delle diseconomie è solo uno spreco di risorse, un rinvio del problema, un inganno
per i lavoratori e per i finanziatori oltre che un’irrazionale allocazione di
risorse che prima o poi abbassa la produttività del sistema-paese. In questo
senso prima di decidere eventuali concessioni di contributi ad imprese in
crisi andrebbe verificata la possibile produttività alternativa delle risorse
che si vogliono concedere per salvare l’impresa in crisi, ciò per evitare,
come è avvenuto nella storia del paese, salvataggi eccessivamente onerosi
per la società e per giunta spesso inutili perché non evitano la cessazione
19 Secondo Vittorio CODA (Tappe critiche dei processi di ristrutturazione, in AA.VV., Crisi d’impresa
e strategie di superamento, Giuffrè, Milano 1987, 10 ss.) le fasi di un processo di risanamento si possono
sintetizzare come segue: 1) rinnovamento del sistema di potere che controlla l’impresa spesso realizzato
attraverso il riassetto della proprietà; 2) investimento sulle risorse primarie attraverso il cambiamento del
vertice aziendale e la ricapitalizzazione dell’impresa; 3) rottura del clima di sfiducia all’interno ed all’esterno dell’azienda ed instaurazione di un nuovo clima organizzativo e di un nuovo clima di opinione; 4)
supporto di questo nuovo clima con il capovolgimento dei risultati reddituali conseguiti attraverso uno
sforzo eccezionale delle forze aziendali; 5) riorientamento strategico dell’impresa mediante l’investimento di risorse in prodotti, tecnologie e mercati.
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dell’impresa ma la rinviano. In questo senso sarebbe anche opportuno,
sempre nei limiti di cui si è detto, non preoccuparsi solo delle grandi aziende ma anche valutare la possibilità di aiutare le piccole e medie aziende che
per altro costituiscono gran parte della struttura economica del nostro
paese.
La regola aurea di governo delle imprese, si ripete, è la «creazione di
valore» per i partecipanti al processo produttivo nel rispetto delle condizioni economiche e finanziarie di equilibrio che sole ne garantiscono la
sopravvivenza e la durata, l’attitudine a perdurare, per la soddisfazione dei
bisogni umani di coloro che le istituiscono e di tutti coloro che vi sono in
vario modo interessati.
Eventuali altri interessi quale quello, legittimo e socialmente apprezzabile, della difesa dell’occupazione, al di fuori del contratto ideale che sta
alla base della teoria della responsabilità sociale delle imprese, appartiene
ad un altro campo, quello della solidarietà sociale, e richiede altre soluzioni a carico del sistema pubblico: l’utilizzo degli ammortizzatori sociali, il
finanziamento della transizione dei lavoratori dell’azienda in crisi in altro
settore o in altre aziende dello stesso settore.20
Ciò non significa che il vertice dell’azienda in crisi non debba dare il suo
contributo. La responsabilità sociale dell’impresa comporta che in questi
casi il management deve fare di tutto per alleviare i costi sociali e per favorire soluzioni di ricambio mettendo a disposizione della comunità idee,
strutture e mezzi nell’interesse del territorio.
Esplorate devono essere tutte le vie, esaminate devono essere tutte le
alternative, considerate devono essere tutte le proposte di nuovi modelli
organizzativi compresi quelli suggeriti da coloro che, rifacendosi all’esperienza dell’economia civile, considerano la socialità umana come una realtà unitaria per la quale «l’amicizia e la reciprocità genuina vengono considerate dimensioni da esercitare all’interno anche di una normale vita economica» per accrescere la produttività del lavoro, per migliorare i risultati
economici ed insieme il tasso di soddisfazione (felicità) dei singoli e della
società.21
20 In questo senso si rilegga la nota 17 che riporta quanto scritto da Onida in proposito.
21 Cfr. L. Bruni, Il prezzo della gratuità, Città Nuova, Roma 2006, 36. Ormai sono in molti a contestare il vecchio modello organizzativo. Si è capito che orientare l’attività economica al profitto cosi come
hanno teorizzato gli studiosi dell’economia di mercato non significa perseguire la felicità umana. Poi
molti mettono in dubbio che il benessere di una nazione sia misurato dal prodotto interno lordo (pil) e
che quindi aumentare tale indice significa aumentare la felicità collettiva. Sono anche ormai molti a contestare che l’aumento del reddito individuale fa crescere il tasso di felicità personale. Invece sempre più
oggi si pone l’accento a questo fine sugli aspetti qualitativi della organizzazione della società e delle
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Solidarietà 62/2010
In questo senso può dirsi che non esiste contrasto tra l’economia e
l‘etica.22 Il punto di equilibrio è la durabilità, se si vuole la sopravvivenza
dell’impresa nell’interesse di tutti gli stakeholders.
L’esigenza di un nuovo modello di sviluppo
Ciò che si è detto nei paragrafi precedenti, come si è accennato in premessa, ha come sfondo una economia di mercato globalizzata, vincolata
alle prescrizioni dell’Ue, governata da uno Stato che interviene solo nei settori economici strategici e da enti locali territoriali sensibili ai problemi del
cittadino-consumatore e del cittadino-produttore.
Ma non sempre e non tutti gli enti locali territoriali, bisogna dire, si
sono attenuti a questo quadro. Spesso nelle amministrazioni pubbliche, in
nome di una presunta specificità, il motivo politico, si è ritenuto di utilizzare le risorse, che si è detto sono limitate e scarse, come se tali non fossero, si è ritenuto di amministrare lo Stato, le regioni, le province, i comuni
come se non fossero aziende, le società partecipate e le società controllate
dagli enti pubblici come se non fossero «istituti destinati a perdurare» e
quindi sganciate dall’esigenza di perseguire l’economicità della gestione,
l’efficienza nei servizi, l’efficacia nell’azione amministrativa. E ciò, si badi,
nonostante questi requisiti amministrativi siano prescritti ed ampiamente
raccomandati dal T.U. sugli EE. LL.23
Il risultato di tali condotte è costituito dall’enorme debito pubblico
dello Stato, dalle precarie condizioni finanziarie degli enti locali, alcune dei
quali già trovano difficoltà a pagare gli stipendi ai dipendenti, l’inefficienza della burocrazia statale, regionale, provinciale e comunale, il fallimento
aziende. Per una interessante rassegna delle diverse opinioni sull’economia del benessere da Pigou a
Pareto, da Rawls a Jobson, e sul ruolo che può avere l’economia del terzo settore nel rinnovamento dell’economia politica e dell’organizzazione aziendale, cfr. G. LANZA, Il ben-vivre, Lineamenti di economia
del terzo settore, Solidarietà, Caltanissetta 2007, 30 e segg. Sulla opportunità di passare nell’organizzazione dal management alla leadership, cfr. U. GALIMBERTI, I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano
2009, 130. Per il predetto autore «nel primo caso l’identificazione del gruppo o dell’organizzazione con
il suo capo è basata sul timore, nel secondo caso sull’amore».
22 Dei rapporti etica/economia si occupa largamente Vittorio Coda (I dilemmi di etica d’impresa;
problemi mal posti, in «Lettera dell’Isvi», n. 1/1992) il quale scrive che tali rapporti sono mal posti e che
le valutazioni etiche e le valutazioni economiche, se correttamente intese, non sono necessariamente antitetiche; possono essere anche convergenti.
23 Per una concezione del comune ispirata da tali principi si può leggere D. LANA, Il Comune: lineamenti di organizzazione, gestione e controllo, Canicattì 2006, 65 e segg. e dello stesso autore Il comune
verso nuovi criteri amministrativi, in «Solidarietà», 57 (2008), 23-35.
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Solidarietà 62/2010
di alcune aziende pubbliche partecipate o controllate, con le inevitabili
conseguenze negative per i dipendenti, i creditori ed il fisco, la pletoricità
degli organi pubblici e lo scarso livello di produttività delle amministrazioni, la mancanza di professionalità di molti dipendenti pubblici, l’insoddisfazione del cittadino-consumatore e del cittadino-produttore ai quali le
inefficienze pubbliche determinano aumento di costi oltre che scarsa qualità dei servizi ottenuti.
Da qualche anno, è vero, si sono registrati, sotto la spinta dei debiti crescenti, segni di resipiscenza ma siamo lontani dal concepire ed attuare
gestioni economicamente sane ed equilibrate nel senso che si è detto nei
paragrafi precedenti, da azioni amministrative efficaci, da servizi rapidi ed
efficienti.
Lo Stato, ad esempio, si è ritirato da alcuni settori, quelli del welfare, a
favore delle associazioni, delle fondazioni, dei cosiddetti enti non profit,
ritenuti più adatti, per la mancanza di un utile da dividere ma soprattutto
per la qualità dei soci, a gestirli con risultati migliori. Ma si è dimenticato
che ciò non è possibile senza una struttura adeguata e gli enti predetti non
sempre hanno le forze personali, tecniche e finanziarie necessarie per ottenerli, né lo Stato e gli altri enti territoriali fanno molto per aiutarli.
È anche da rilevare che alcune regioni, alcune province ed alcuni comuni
hanno privatizzato alcuni servizi ed hanno introdotto criteri manageriali nell’amministrazione dei loro enti ma altre, specialmente quelle del sud, guidate da una classe dirigente non all’altezza e spesso dal voto di scambio, hanno
continuato a spendere ed a pubblicizzare settori dell’economia nel vano tentativo di risolvere in questo modo il problema della disoccupazione.
In queste regioni, in queste province, in questi comuni, tra i quali purtroppo si trovano la Sicilia e molti enti siciliani, non si è capito che la vera
occupazione è quella creata dallo sviluppo dell’economia e del territorio,
da attività sane, da enti capaci, con i proventi dell’attività, di rinnovare il
loro ciclo produttivo, di autofinanziarsi, di consolidarsi ed espandersi.24
Non si è capito che le risorse, essendo limitate, prima o poi dovevano, come
sta avvenendo, finire col risultato anche di creare seri problemi agli stessi
occupati. Né si può sperare, come molti superficialmente vanno ripetendo,
nel federalismo fiscale che cosi stando le cose complicherà la situazione
finanziaria di molti enti territoriali del sud non tanto perché il federalismo
sia di per sé da condannare quanto perché si ha il grande dubbio che molti
24 Per una trattazione sistematica dei problemi che ostacolano lo sviluppo del sud con particolare
riferimento alla Sicilia si rinvia a D. LANA, Lo sviluppo del Sud, in «Realtà nuova», 5 (2000), 40.
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enti territoriali meridionali per le insufficienze organizzative di cui si è
detto non saranno in grado, come non lo sono adesso, di far pagare le tasse,
di riscuotere i crediti vantati dagli enti stessi. E siccome hanno strutture
personali pletoriche, non avranno nemmeno i mezzi sufficienti per svolgere le funzioni delegate dallo Stato.
In un solo senso può dirsi che il federalismo fiscale può essere positivo
per il sud: nel senso che finalmente abituerà i meridionali ad avere maggiore senso di responsabilità nelle spese ma bisogna considerare che nel
breve termine la nostra situazione potrà peggiorare.
Per questi enti, per cosi dire non virtuosi, appare opportuno cambiare
il modello di sviluppo:25 non più occuparsi di tutto con aziende ad hoc,
riempire di personale inutile gli uffici, comprare di tutto e senza badare alle
condizioni di acquisto, non più favori e raccomandazioni, ma selezione
della spesa, qualificazione del personale, valorizzazione del merito, infrastrutture, formazione, aiuti alla ricerca, concentrazione nella creazione di
tutte quelle condizioni che possono favorire l’allocazione delle imprese nel
loro territorio,26 programmazione di un sistema economico fatto di poche
aziende grandi e di molte aziende piccole e medie capaci di sfruttare la
peculiarità dei luoghi e di produrre in questo modo occupazione e benessere. È ormai scontato infatti che la competizione si gioca tra sistemi-paese
e dunque su scala più limitata tra sistemi territoriali.27
Per gli enti predetti, ma anche per gli altri, appare anche utile operare
una comparazione e una meditazione sui punti di forza e sui punti di debolezza del settore privato delle imprese, del settore pubblico e del settore
non profit allo scopo di recuperare quanto di meglio ha ciascuno di essi e
quindi accrescere la produttività del sistema attualmente piuttosto bassa
per ciò che si è detto sopra.
25 Da notare che la promozione dello sviluppo non è necessaria solo per ridurre la disoccupazione:
è anche utile per dare valore al patrimonio edilizio, fondiario, culturale, oltre che umano delle nostre
regioni. Forse non si riflette abbastanza sull’enorme offerta inevasa di case e negozi in affitto, di terreni e
case da cedere ed in genere sulla sottoutilizzazione dei beni immobili nel sud, tutti fenomeni che con lo
sviluppo di nuove attività non solo potrebbero attenuarsi ma potrebbero creare valore nel territorio con
i fitti, le rivalutazioni, le ristrutturazioni. Lo sviluppo potrebbe inoltre contribuire alla rivitalizzazione dei
centri storici di molte città spesso oggi decaduti ed a volte transennati per lo stato di pericolo.
26 Secondo ripetute indagini gli imprenditori per il sud chiedono non tanto contributi finanziari e
le agevolazioni fiscali quanto la sicurezza, la snellezza burocratica, i servizi.
27 In questo senso cfr. R. LANZARA, La competitività dell’impresa minore. Problemi attuali e nuove
sfide, in AA. VV., Validità del capitale di rischio e fattori di sviluppo delle piccole e medie aziende, Il Mulino, Bologna 1993, 523-526, che aggiunge: «si è anche capito che per fare sviluppo bisogna far leva sulla
peculiarità dei luoghi».
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Solidarietà 62/2010
Le amministrazioni pubbliche devono cercare di acquisire dal settore
non profit un supplemento di anima nella gestione dei servizi e dal settore
delle imprese il rigore economico, la managerialità, il culto della pianificazione e del controllo, il gusto dell’innovazione e del rischio.
Il settore delle imprese deve cercare di prendere dal settore non profit
il senso degli altri e sviluppare sempre più la propensione ad inserire tra gli
obiettivi di gestione oltre quello del profitto caro all’imprenditore anche gli
interessi degli altri stakeholders.
Il settore non profit deve cercare di mutuare dal settore delle imprese il
rigore finanziario e quello amministrativo allo scopo di accrescere l’autofinanziamento, di raggiungere pienamente gli obiettivi di gestione.28
Conclusioni
In una economia di mercato globalizzata, soggetta ai vincoli dell’Ue, il
modo migliore di affrontare il problema della disoccupazione e migliorare
nei vari territori la condizione degli abitanti è quello di sostenere l’iniziativa privata e di favorire la nascita e lo sviluppo delle aziende.
Le aziende devono impiantarsi e gestirsi in modo da perdurare e soddisfare cosi le attese legittime degli stakeholders, di tutti gli stakeholders, ma
senza pregiudizio per le condizioni di equilibrio economico e finanziario
che ne assicurano la sopravvivenza e lo sviluppo.
Le condizioni predette di equilibrio devono accertarsi al momento della
loro nascita, verificarsi ogni anno e ripristinarsi nel più breve tempo possibile anche per ridurre gli effetti sociali delle situazioni di disequilibrio. Ciò
deve tenersi presente soprattutto in occasione delle crisi che devono essere
risolte con interventi capaci di ripristinare le condizioni di equilibrio perdute e di soddisfare le attese degli stakeholders. Compatibilmente con tale
obiettivo, gli interventi auspicati non devono escludere, anzi devono ricercare nuove soluzioni organizzative che valorizzino anche l’esperienza positiva dell’economia civile e del terzo settore.
Le condizioni di equilibrio delle aziende richiedono l’esistenza di fattori di processo (produttivo), in gran parte connessi a scelte degli imprenditori, e fattori di contesto, in gran parte dipendenti dalle politiche territoriali
delle amministrazioni pubbliche. Tali fattori non possono essere sostituiti
28 Secondo la Caritas in Veritate, promulgata da Benedetto XVI il 29 giugno 2009, «lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio
di gratuità come espressione di fraternità».
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da contributi finanziari, agevolazioni, che non siano integrative di una economicità autonoma delle aziende (queste devono avere i piedi per camminare da sole).
Nella programmazione delle politiche territoriali le amministrazioni
pubbliche devono prendere atto che lo spazio non è più soltanto un fattore di localizzazione fisica dell’impresa ma è diventato una variabile strategica nel processo d’innovazione e che per sviluppare un territorio non basta
l’azione degli imprenditori ma occorre anche quella degli interlocutori istituzionali pubblici se non altro per creare quel «capitale umano» e quel
capitale sociale che secondo l’esperienza delle piccole e medie imprese italiane e secondo la recente analisi economica costituiscono fattori del successo aziendale.
L’obiettivo deve essere un nuovo modello di sviluppo con molto privato e poco pubblico, orientato, più che allo svolgimento diretto da parte
delle amministrazioni pubbliche di attività produttive, a creare il contesto
adatto alla nascita e allo sviluppo delle aziende in modo da avviare a soluzione il problema della disoccupazione, oggi preoccupante, accrescere il
valore del patrimonio immobiliare, oggi svalutato, dare vitalità ai centri storici, oggi molto trascurati.
Per realizzare questo progetto tutti siamo chiamati a fare la nostra parte:
non solo lo Stato, le regioni, le province, i comuni, ma anche le banche, la
chiesa, la stampa, la scuola, le associazioni imprenditoriali, i sindacati, le
università, gli ordini professionali, le camere di commercio, i club-service.
In questa progetto un ruolo fondamentale deve essere svolto dal cittadino che al momento delle elezioni deve valutare gli obiettivi ed i programmi dei vari partiti e movimenti, selezionare quelli ritenuti vicini alle
proprie convinzioni, scegliere gli uomini (politici) più adatti a realizzarli
(non dire sono tutti uguali quindi scelgo l’amico), controllare l’operato del
partito e degli uomini prescelti per stabilire l’eventuale conferma della scelta fatta alle elezioni successive.
Nel valutare uomini e programmi il cittadino deve tenere presente che
le risorse sono per definizione limitate (quindi non può chiedere tutto ma
deve fare delle scelte), deve considerare che esse si ottengono attraverso le
imposte e le tasse (quindi anche nel suo interesse non bisogna sprecarle) e
che si conosce un solo modo per ritrovarsele: fare impieghi produttivi, ossia
impieghi che hanno un ritorno, un risultato positivo, non necessariamente
in termini economici.
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Solidarietà 62/2010
Summary
Creating values in one’s territory
The author, considering the present day economic crisis which has created
many problems for families and for young people who are looking for work, tries
to underline the role that companies can have in the creation of jobs, as producers
and distributors of wealth.
Then he looks at those conditions which enable companies to exist and prosper
highlighting the fundamental role of those so-called contextual factors (geographical).
Finally in relation to the latter, with reference mainly to Southern Italy and
Sicily, he claims that the State and Local Authorities, should combat the worrying
unemployment problem, through a new model of development based on private
initiative and an efficient civil service. (traduzione di Peter Cipolla)
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S
olidarietà
62/2010: 105-130
Superare la paura di riaprirsi all’altro:
educare alla fiducia e alla corresponsabilità
per costruire una società inclusiva
Antonia Rosetto Ajello
«Signore, fa’ che possiamo essere specialisti nell’annunciare un mondo altro, diverso da quello che
stiamo vivendo. Annunciare sì la dimensione escatologica che non deve mancare nella nostra profezia, però dobbiamo essere annunciatori di un
mondo altro. Allora questa nostra terra, piano
piano, cesserà di essere l’atomo opaco del male e
diventerà il giardino in cui possono fiorire le speranze più belle».
(don Tonino Bello)
Educazione alla speranza: un compito «adulto»
Educare alla speranza: un tema chiave per ogni riflessione pedagogica
che voglia fare i conti con i timori delle giovani generazioni e con il loro
diritto di prefigurare e progettare un futuro. Un prefigurare e un progettare che non riguardi soltanto la vita individuale, ma che possa allargarsi fino
ad abbracciare la vita comune, il destino umano.
Sappiamo che quella odierna è, per molti aspetti, una cultura di morte,
nichilista e che essa ha drammaticamente influito sullo stato d’animo dei
nostri ragazzi, sul loro atteggiamento nei confronti del futuro. Nel 1957,
Romano Guardini tracciava un ritratto del giovane nel quale ancora molti
della mia generazione possono riconoscersi, ma nel quale diventa difficile
riconoscere tanti dei giovani di oggi:
Il carattere di questa nuova forma di vita è determinato da due fattori.
Uno è positivo: si tratta della capacità di crescita della personalità che si
afferma e di sviluppo di una dirompente vitalità; l’altro è negativo: è a mancanza di esperienza della realtà.
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Solidarietà 62/2010
Ne segue la sensazione che il mondo gli sia infinitamente dischiuso e che
le energie siano illimitate; da qui l’aspettativa che la vita offra dei doni di
portata incalcolabile, e la certezza di poter fare grandi cose. E’ un atteggiamento rivolto verso l’infinito, l’infinito di quando non si è ancora provato
ad iniziare. Questo atteggiamento ha il carattere dell’incondizionato; della
purezza che sta nel rifiuto del compromesso; della convinzione che le idee
vere e le convinzioni giuste siano senz’altro in grado di cambiare e di strutturare la realtà.1
Per enfatizzare il contrasto vediamo cosa scrive invece oggi Umberto
Galimberti:
Il presente diventa un assoluto da vivere con la massima intensità, non
perché questa intensità procuri gioia, ma perché promette di seppellire l’angoscia che fa la sua comparsa ogni volta che il paesaggio assume i contorni
del deserto di senso.
Interrogati non sanno descrivere il loro malessere perché hanno ormai
raggiunto quell’analfabetismo emotivo che non consente di riconoscere i
propri sentimenti e soprattutto di chiamarli per nome. E del resto che nome
dare a quel nulla che li pervade e che li affoga? Nel deserto della comunicazione, dove la famiglia non desta più alcun richiamo e la scuola non suscita
alcun interesse, tutte le parole che invitano all’impegno e allo sguardo volto
al futuro affondano in quell’inarticolato all’altezza del quale c’è solo il grido
che spezza la corazza opaca e spessa del silenzio che, massiccio, avvolge la
solitudine della loro segreta depressione come stato d’animo senza tempo,
governato da quell’ospite inquietante che Nietzsche chiama «nichilismo».
E perciò le parole che alla speranza alludono, le parole di tutti più o
meno sincere, le parole che insistono, le parole che promettono, le parole
che vogliono lenire la loro segreta sofferenza languono intorno a loro come
rumore insensato.2
E ancora: «La mancanza di un futuro come promessa arresta il desiderio nell’assoluto presente. Meglio star bene e gratificarsi oggi se il domani
è senza prospettiva».3
Ma, come fa notare Galimberti, questa crisi è il segnale di una vera crisi
di cultura:
1 R. GUARDINI, Le età della vita, Vita e Pensiero, Milano 2004, 46.
2 U. GALIMBERTI, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano 2007, 11-12.
3 Ibidem, L’argomento è trattato anche in M. BENASAYAG - G. SCHMIT, L’epoca delle passioni tristi,
Feltrinelli, Milano 2005.
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E che dire di una società che non impiega il massimo della sua forza biologica, quella che i giovani esprimono dai quindici ai trent’anni, progettando, ideando, generando, se appena si profila loro una meta realistica, una
prospettiva credibile, una speranza in grado di attivare quella forza che essi
sentono dentro di loro e poi fanno implodere anticipando la delusione per
non vedersela di fronte.
Non è in questo prescindere dai giovani il vero segno del tramonto della
nostra cultura? Un segno ben più minaccioso dell’avanzare degli integralismi di altre culture, dell’efficientismo sfrenato di popoli che si affacciano
nella nostra storia e con la nostra si coniugano, avendo rinunciato a tutti i
valori che non si riducano al valore del denaro.4
Fin qui le riflessioni sul problema, sulla disperazione di questi giovani in
cui la speranza è soffocata, schiacciati sul presente da una forma di patogenesi sociale: una realtà sulla quale non è più possibile chiudere gli occhi
e che ci interroga in quanto adulti. Perchè infatti in cinquant’anni i giovani sono così cambiati (se non tutti, molti)? Tuttavia, la soluzione prospettata da Galimberti non pare pedagogicamente sufficiente nel momento in
cui, ancora una volta, pare concentrare l’attenzione su una dimensione di
«espansione di se stessi» che rischia di cercare la soluzione nella chiusura
dell’individuo su se stesso, in una forma che non è quella della riflessività,
ma piuttosto l’autoreferenzialità. L’espansione di sé, l’approfondimento
della conoscenza delle proprie potenzialità può dar senso alla vita,5 ad avviso di chi scrive, solo in una proiezione fuori di sé: nella dimensione della
cura, ovvero dell’appartenenza alla comunità umana, o ancora ad una
dimensione trascendente in grado di valorizzare le potenzialità ed aiutare a
sopportare le difficoltà.6
4 U. GALIMBERTI, L’ospite inquietante, 13.
5 Dimensione cara alla cultura giudaico-cristiana che Galimberti dichiara da superare nella direzione di una «arte del vivere» più tipica della cultura greca.
6 Si veda in proposito anche la critica di R. Mantegazza a tanta educazione di oggi: «Un’educazione che educa solamente il singolo: questa la deriva cui sta andando incontro la pedagogia del XXI secolo. Un servizio on demand, a domanda individuale, come la pizzeria a domicilio, che conosce i tuoi gusti
e ti serve con rapidità, efficienza e cortesia, ma soprattutto che non connette mai il tuo caso a quello dell’altro o dell’altra e non ti porta mai a riflettere sul servizio medesimo, sul suo senso, sulla sua connessione con il resto della società. L’istanza di dominio sembra essere più vicina al singolo (lo blandisce, lo
accarezza, vorrebbe risolvergli i problemi) e ne è invece immensamente lontana; da un lato perché la
giungla burocratica non è affatto semplificata da questa demagoga pedagogica; dall’altro perché solamente trascendendo la sfera del singolo e mostrandogli come il suo problema è parte di un problema
collettivo, e collettiva deve essere la soluzione, l’istituzione può essere veramente «vicina» al soggetto.
Quando il problema di X cessa di avere le fattezze di X e diventa problema di una collettività (anche
delle persone più diverse da X che si possano concepire), allora si entra nella dimensione politica»: R.
MANTEGAZZA, I buchi neri dell’educazione. Storia, politica, teoria, Elèuthera, Milano 2006, 62.
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Ma qui torniamo un attimo a Romano Guardini, che con alcune sue
osservazioni ci indica di nuovo una strada:
Forse si può obiettare che quanto affermato circa l’idealismo di questa
età della vita potrebbe andar bene per la gioventù di tempi passati, quando
c’era più sicurezza. La gioventù odierna, qualcuno pensa, non ha illusioni:
essa ha tratto ammaestramento dalla guerra e dal dopoguerra; è una gioventù realistica, anzi scettica, se non cinica.7
Sembra quasi dipingere ciò che si sostiene oggi a proposito della gioventù, eppure continua:
Ciò risulterà in gran parte vero se l’immagine di quel che chiamiamo
«idealismo» viene presa dal passato, collegandola con tendenze utopistiche
ed estetizzanti. Ma qui non ci riferiamo a tale concetto. Per idealismo intendiamo qui il modo in cui si fa esperienza della realtà. L’apparente realismo
può in verità essere del tutto irreale, così come l’apparente scetticismo può
essere idealistico. «Esperienza» non significa sapere quanto spesso il bene
fallisce e quanto male c’è nel mondo; significa invece saperlo nella giusta
maniera, ponendolo nel giusto rapporto con la natura dell’uomo, con la
totalità degli avvenimenti storici e sociali e, soprattutto, con i momenti così
incisivi della mediocrità e della quotidianità. Tutto questo non capita con il
giovane, e, se succede, non si tratta affatto di un giovane, ma di una persona precocemente invecchiata. Purtroppo, quest’ultimo caso può verificarsi,
naturalmente; e oggi può capitare, forse, più frequentemente di prima. Ma
da tale situazione egli non ha alcun motivo di trarre una norma oppure una
teoria, poiché si tratta di una disgrazia che deve convenientemente superare, senza far perdere agli altri il gusto di vivere le loro possibilità.8
È la spontanea attrazione che il giovane ha nei confronti del rischio,
infatti, ciò che gli consente di slanciarsi verso delle scelte (professionali, ma
anche personali e sentimentali) che vanno giocate interamente nell’incertezza.9 Non per nulla sono i giovani ad emigrare, ad abbandonare il proprio
paese alla ricerca di migliori possibilità di vita, abbandonando così il noto
per l’ignoto, i luoghi cari verso un mondo immaginato ma quasi mai ben
7 R. GUARDINI, Le età della vita, 47.
8 Ibidem, 47-48.
9 «D’altronde, è proprio la mancanza di una conoscenza realistica del mondo a rendere possibile il
rischio della scelta. Anzi, questa scelta audace può diventare eroismo se la decisione cade su qualcosa
che trascende gli schemi abituali. In questo periodo il giovane è in grado di intraprendere strade alle
quali in seguito non saprebbe più decidersi»: ibidem, 48-49.
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conosciuto. E questo dovrebbe anche farci riflettere sulle difficoltà che
oggi i giovani occidentali hanno ad affrontare le incertezze legate alla scelta matrimoniale, alla scelta genitoriale.
Ne deriva un’indicazione chiara: non è opportuno coltivare nei giovani
un’adultizzazione precoce, ma è necessario piuttosto assicurare loro le possibilità di slanciarsi verso una dimensione di assoluto e infinito che possa
consentire di guardare la realtà trascendendola e aprendo nuove dimensioni di speranza.
Una tale educazione dovrebbe prendere le mosse fin dalla prima infanzia, passando anzitutto attraverso la tutela di quella dimensione di gioco e
di sogno, di lentezza e di leggerezza in cui i bambini possono cominciare a
sperimentare se stessi e la relazione con gli adulti senza che si pongano loro
anzitempo in volto maschere deformanti. Pur curando l’educazione all’impegno e alla responsabilità, l’infanzia va salvaguardata dalle proiezioni delle
paure degli adulti, dalla tentazione che questi spesso hanno di pressare in
direzione di una precoce acquisizione di comportamenti o atteggiamenti
utili in età adulta10 o, al contrario, di una difesa ad oltranza di un’infanzia
idealizzata che invece per sua natura il bambino stesso aspira a superare.11
Promuovere la crescita del figlio piccolo, con equilibrio e prudenza, vuol
dire in realtà alimentare in lui la fiducia nel futuro: promuoverne la crescita senza schiacciarlo sul modello dell’adulto che noi siamo (magari un adulto indaffarato, preoccupato, ansioso di riempire la «cassetta degli attrezzi»
che riteniamo possa esserci utile nell’adattamento alla vita, oppure disilluso e sospettoso) si traduce nel messaggio che lui potrà diventare un altro
tipo di adulto: il tipo di persona che egli è. Diventa già questo un modo per
spezzare la percezione nefasta di un presente eterno ed immutabile, in cui
la speranza semplicemente non ha senso, per lasciare spazio alla creatività.12
Ma questa educazione ha, accanto ad una dimensione personale, una
rilevante dimensione sociale, dal momento che è proprio da ciò che i giovani vedono accadere attorno a sé che traggono la sensazione di essere essi
stessi, come il mondo che li circonda, senza speranza.
10 Come purtroppo avviene spesso con un’eccessiva enfasi sull’impegno scolastico, che poi dà luogo
a forme di ansia o di difesa/fuga nei confronti dello stesso; o la proliferazione di impegni “formativi” nel
tempo libero, come corsi di ginnastica, musica, lingua straniera intesi non come gioco e accostamento a
modalità espressive ma veri e propri segmenti formativi da accumulare.
11 Cfr. in proposito le lucide osservazioni di R. GUARDINI, Le età della vita, 41.
12 Cfr. A. Rosetto Ajello, Educare la coscienza storica per riaprire alla speranza. Una nuova sfida per
l’educazione personale, sociale e planetaria, in V. SORCE (a cura di), Un vescovo per il nostro tempo. Scritti in ricordo di Cataldo Naro arcivescovo di Monreale, Edizioni Solidarietà, Caltanissetta 2007, 167-189.
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Questa riflessione trova una sua conferma nella visione dei giovani
offerta da don Tonino Bello:
Oggi, grazie a Dio, c’è un sommerso di speranza, di luce e di grazia che
è veramente incredibile. Ed è costituito dai giovani. Ogni tanto questo sommerso esce in superficie. Non si tratta di polarizzazioni effimere dell’entusiasmo giovanile che si articola attorno a determinati luoghi e in determinati tempi per poi dissolversi nel grigiore di tutti i giorni in attesa di ulteriori
sussulti. No. Si tratta, invece, dell’emergere di falde nascoste, concrete e
permanenti, che ogni tanto escono allo scoperto e si visibilizzano, soprattutto nelle forme del volontariato e del servizio nella Chiesa e nel mondo:
forse anche per dare coraggio a coloro, adulti soprattutto, che praticano un
po’ troppo la cultura del lamento. Andando un po’ in giro a parlare, mi
vado accorgendo che nella Chiesa e nella società oggi, alimentata dai giovani, c’è una straordinaria riserva di speranza che prelude a tempi migliori. A
dispetto di tutte le letture di segno negativo che i mass media ci costringono a fare. Peccato che i mezzi di comunicazione non abbiano imparato a
dare resoconti della cronaca bianca: ne rimarremmo travolti!13
Dunque, la speranza è presente nel mondo attraverso quei giovani che
costruiscono un senso al loro vivere nell’interconnessione col mondo, senza
sottrarsi al confronto con le difficoltà che ciò comporta. Loro sono latori di
speranza per il mondo, ma, evidentemente, loro hanno la speranza come
faro della loro azione. Da qui la convinzione che educare alla speranza sia
oggi connesso all’educazione all’interdipendenza, alla responsabilità, alla
convivialità delle differenze, alla politica.
Coniugare il verbo sperare: educare all’appartenenza planetaria
Mai come oggi è stato evidente che l’umanità è una «comunità di
destino». Scrive Hannah Arendt: «da un punto di vista politico, il mondo
moderno, in cui viviamo oggi, è nato con le prime esplosioni atomiche».14
Queste hanno messo in evidenza la potenza distruttrice che può essere
messa in campo da esseri umani, con un impatto devastante in grado di
incidere sul futuro di milioni di innocenti. Hanno scatenato una crisi di
vulnerabilità che mette a repentaglio la possibilità di ciascuno di percepirsi come soggetto attivo della propria vita, come costruttore di futuro.
13 T. BELLO, Le mie notti insonni, San Paolo, Milano 1996, 55.
14 H. ARENDT, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 2003, 5.
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La diffusione di armi chimiche e convenzionali e il continuo proliferare
di conflitti su tutto il pianeta, insieme alle crisi economiche e finanziarie
legate all’attuale modello economico rendono la situazione ancora più
grave. La guerra è diventata guerra di annientamento del nemico, ha
avuto come bersaglio le popolazioni civili, da colpire nel modo più feroce possibile; si è avuto l’alternarsi di periodi di “pace” – nei quali le popolazioni si sono mescolate, le culture si sono contaminate – e deliranti sforzi di “purificazione” che hanno seminato morte e dolore.15 Anche l’Europa è stata teatro di queste vicende e il futuro appare oggi ambivalente e
inquietante.
Il XX secolo ha portato la promessa democratica ed un aumento della
speranza di vita in vaste aree del pianeta, ma insieme ad essa numerose,
eclatanti o subdole, forme di nichilismo. Si sono raggiunti traguardi di ricchezza senza precedenti, ma anche dimensioni di miseria senza precedenti:
si è allargata spaventosamente la forbice tra i ricchi e i poveri e, grazie a
quel modello economico a forte predominanza finanziaria che va sotto il
nome di globalizzazione, oggi il 20% della popolazione mondiale voracemente divora l’80% delle risorse lasciando che il restante 80% si arrangi
con quello che resta: 600 milioni di persone in 43 Paesi possiedono meno
delle tre persone più ricche al mondo.16 L’ideologia neoliberista, tuttavia,
continua, anche dopo la recente crisi finanziaria a ostacolare un cambiamento di rotta:17 il mercato viene preso costantemente come l’unico strumento per portare benessere e ricchezza a tutti gli abitanti del pianeta. Ma,
indipendentemente dalla possibilità che ciò corrisponda al vero, come ci
ricorda padre Arturo Paoli, «Non è mai lecito ammazzare per la speranza
del domani, non posso sacrificare milioni di persone anche se avessi un
progetto certo del quale domani potrebbero approfittare i poveri, non
15 Cfr. G. BOCCHI - M. CERUTI, Solidarietà o barbarie, Cortina, Milano 1994, 37.
16 Cfr. M. SANTERINI, Globalizzazione, educazione, giustizia in AA.VV., Globalizzazione e nuove
responsabilità educative, La Scuola, Brescia 2003, 89. Rileva ancora l’autrice: «Molti Paesi, soprattutto,
sono passati da una situazione di sfruttamento-dipendenza […] ad una posizione d’irrilevanza».
17 Ciò che si continua a ignorare è il bisogno che lo Stato e le istituzioni pubbliche, anche a livello
internazionale, operino per regolamentare e creare le condizioni per garantire effettivamente a tutti le
possibilità di accedere a una migliore qualità della vita e al perseguimento dei propri interessi e all’affermazione personale: cfr. in proposito G. BAZOLI, La globalizzazione: problemi e prospettive, in AA.VV.,
Globalizzazione e nuove responsabilità educative, 25. Ciò senza dimenticare che non si tratta di promuovere lo stile di vita occidentale su tutto il pianeta, cosa che renderebbe di fatto lo stesso invivibile alla
specie umana in pochissimi anni, ma di redistribuire ragionevolmente le risorse in modo che esse possano consentire una vita dignitosa non solo agli attuali 7 miliardi di abitanti, ma anche in un’ottica di
aumento prevedibile (anche se da contenere) della popolazione nei prossimi decenni. Un eventuale
insuccesso in questo senso non sta nella natura delle cose ma nel modo di governare le risorse comuni.
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Solidarietà 62/2010
posso uccidere oggi! È un inganno, un tranello nel quale molte persone
purtroppo cadono».18
L’ideologia neoliberista, che presenta come a-storico un modello economico che ha, nelle sue caratteristiche attuali, non più di trent’anni di vita,
svuota di significato la politica come luogo di discussione/deliberazione
sulla gestione della società e delle sue regole,19 ignorando la diversità del
passato impedisce di cogliere la possibile diversità del futuro.
I giovani sono ben consapevoli del potere che si nasconde dietro questi
meccanismi e sono per lo più convinti che la società italiana degli anni futuri sarà peggiore della presente per quanto riguarda e dimensioni della solidarietà, del benessere, della libertà e della giustizia:20 tutte dimensioni in
grado, loro sì, di fondare il sentimento della sicurezza personale, aprendo
alla possibilità di desiderare e progettare un futuro migliore. Sono altresì
convinti che anche a livello planetario la situazione sia disperata:
La maggioranza […], è convinta, o perlomeno teme, che nel futuro
possa scoppiare una guerra mondiale, che la povertà e la fame nel mondo
non potranno essere sconfitte e che, quindi, le disuguaglianze tra i paesi ricchi e quelli poveri continueranno ad esistere se non ad incrementarsi. Questo sguardo pessimistico nei confronti del futuro dell’umanità è ulteriormente arricchito dalle paure delle catastrofi naturali, degli effetti delle
manipolazioni genetiche e, in generale, dalla convinzione dell’esistenza di
tendenze autodistruttive dell’essere umano.21
Uno sguardo lucido, ma spesso unidirezionale: concentrato solo sulle
negatività, ma senza gli strumenti per comprenderne le dinamiche, senza
cogliere ciò che è possibile fare nella propria esistenza personale per porre
un argine a quello che appare essere un momento fortemente drammatico.
Sembra sempre più inutile anche pendersi a cuore le sofferenze altrui,
dal momento che risulta sempre più difficile capire cosa si può fare per
ridurle, se non per eliminarle. Aumenta anche la condizione di sofferenza
18 A. PAOLI, La gioia di essere liberi, Edizioni Messaggero di Sant’Antonio, Padova 2002, 93.
19 Cfr. U. BECK, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci,
Roma 1999; Z. BAUMAN, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2002; Id. Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Bari-Roma 1999.
20 Cfr. M. POLLO, I labirinti del tempo, Franco Angeli, Milano 2000.
21 M. POLLO, Manuale di pedagogia sociale, Franco Angeli, Milano 2004, 11. Sul’atteggiamento dei
giovani nei confronti della società e della politica cfr. anche A. ROSETTO AJELLO, Giovani, politica e
volontariato: un percorso educativo alla ricerca di un senso per il vivere sociale, «Qualeducazione», 73
(2009); Id. I giovani tra partecipazione e disforia. Percorsi di educazione alla cittadinanza nell’era della globalizzazione, «Solidarietà», 56 (2008), 107-131.
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Solidarietà 62/2010
individuale e questo fa sì che, mostruosamente, alla fine ci si convinca che
la sofferenza o lo squallore siano la condizione normale di vita dell’uomo:
perché dunque fare qualcosa per tentare di cambiare le cose, per se stessi
o per coloro che sono in condizioni peggiori (in fondo solo per intensità)?
Raffaele Mantegazza propone di partire dalla storia:
fare storia per contestare lo sviluppo storico così come si è evoluto, fare storia
per pensare e praticare un altro possibile paradigma di sviluppo e di convivenza umana, significa scegliere di partire realmente dall’altro/a, dove però l’altro/a
è l’escluso e il dimenticato, colui o colei che non è mai stato oggetto di storia.
In questo senso insegnare ai giovani e alle giovani a fare storia significa insegnare loro a piegarsi sull’altro (uomo o donna, animale o pianta) che soffre. In
questo modo la storia ci insegna ad aprire la cifra della sofferenza, cogliendone
i collegamenti con la dinamica storico-sociale e in un certo senso denaturalizzandola. Se la sofferenza dell’altro non è destino o sortilegio ma è una conseguenza necessaria di un non necessario stato di cose, allora insegnare ai ragazzi
e alle ragazze a cercare nella storia la ragione delle sofferenze umane e animali
significa immediatamente mostrare loro che non c’è carattere di necessità in
quelle sofferenze dunque mostrare loro che “non sarà sempre così”.22
Questo ripartire dagli ultimi e dalla sofferenza è dunque la chiave di volta
della riscrittura della storia e della riapertura alla speranza: una prospettiva
fortemente evangelica e che proprio nel XX secolo è stata fortemente sollecitata in reazione al permanere e all’aumento delle ingiustizie sul pianeta.23
Ma questa prospettiva va sviluppata lavorando contestualmente sulla percezione della soggettività attiva da parte dei giovani e dell’appartenenza reciproca tra loro e il mondo, tale per cui loro appartengono a questo mondo e
ciò che in esso avviene influisce sulle loro vite (dunque è bene che ne comprendano i meccanismi, che diventi oggetto di un loro inter-esse politico)24
22 R. MANTEGAZZA, I buchi neri dell’educazione, 34. Sull’importanza della storia nell’educazione alla
speranza cfr. anche A. ROSETTO AJELLO, Educare la coscienza storica per riaprire alla speranza.
23 In ambito cattolico si vedano in primo luogo i documenti del Concilio Vaticano secondo, a partire dalla Gaudium et spes, la Costituzione pastorale su «La Chiesa nel mondo contemporaneo». In essa,
pur individuando benissimo le contraddizioni e le divaricazioni in atto tra le diverse parti del mondo, si
afferma ancora la possibilità di uno scambio bidirezionale tra esse. «va notato come mote nazioni, economicamente più povere rispetto ad altre, ma più ricche di saggezza, potranno aiutare potentemente le
altre”: Ibidem, 15. Questa possibilità si è fatta oggi via via più complicata per effetto della disastrosa tendenza omologante della globalizzazione che punta a minare, attraverso meccanismi di impoverimento e
di misconoscimento, la pluralità delle diverse culture.
24 Cfr. L PIRAINO, Alla ricerca del cittadino perduto. Percorsi ludici di solidarietà, giustizia, legalità,
«Qualeducazione», 73 (2009). Sulla stessa esperienza, nello stesso numero: A. ROSETTO AJELLO, Giovani, politica e volontariato: un percorso educativo alla ricerca di un senso per il vivere sociale.
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e questo mondo appartiene loro (dunque è bene che comincino a prendersene cura, anche chiedendo conto della sua gestione agli attuali potenti della
terra). Angela Perucca individua tra gli obiettivi educativi da porsi:
- creare la consapevolezza della responsabilità di ciascuno nei confronti del
diritto alla vita degli altri, sia pur lontani o futuri;
- proporre quella «conversione» degli uomini che può condurre ad un
nuovo modello di persona sollecita, giusta e solidale;
- favorire l’acquisizione di modelli di «intelligenza emotiva e multipla» e di
«competenza sociale» oltre che cognitiva.25
Uno dei compiti della pedagogia è quello di lavorare sulla dimensione
della connettività, che è uno degli aspetti della società planetaria:26
se si vuole riflettere sulla globalizzazione dal punto di vista pedagogico,
occorre […] guardare a una connettività intesa in senso riflessivo, come al
compito (e all’opportunità) di creare e favorire interrelazioni complesse che
possano collegare il destino del singolo a quello di altri, magari a migliaia di
chilometri di distanza,27
e ancora:
Ciò significa assegnare al pensiero pedagogico e alle prassi educative il
compito di immaginare e sostenere il senso della comune umanità, rafforzare il legame sociale, promuovere il senso di comunità nel pluralismo, coltivare l’arte della convivenza, insomma inventare il vivere insieme in un
mondo divenuto, allo stesso tempo, troppo piccolo e troppo grande.28
In tal senso diventano importanti riflessioni etiche che accentuino l’aspetto del riconoscimento reciproco, come un’«etica ricostruttiva»,29 che
aiuti a ritessere legami tra popoli divisi da laceranti conflitti onorando le
vittime, e un’etica pubblica in cui trovi spazio una «compassione» non staccata dall’intelletto, che si fondi sul riconoscimento reciproco, sulla percezione della «vulnerabilità» che condividiamo in quanto uomini.30
25 A. PERUCCA, Globalizzazione e interventi educativi informali, in AA.VV. Globalizzazione e nuove
responsabilità educative, 58.
26 A. MANGANO - A. MICHELIN-SALOMON (a cura di), La scienza sociale dell’educazione nel contesto
della civiltà planetaria, Lacaita, Bari-Manduria 1998.
27 M. SANTERINI, Globalizzazione, educazione, giustizia, 90.
28 Ibidem, 91.
29 Cfr. J. M. FERRY, L’etica ricostruttiva, Medusa, Milano 2006.
30 M. C. NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, Il Mulino, Bologna 2004, 359 segg.
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Solidarietà 62/2010
(Pluri-)identità e (pluri-)appartenenze
In questo momento storico, nel quale la vita dell’uomo è avvolta nell’incertezza, diventa necessario un riesame della dimensione culturale ed
ideale su cui si è fondato il mondo occidentale a partire dalla fine della
seconda guerra mondiale, ma, ancora più lontano, fin dalla fine delle guerre di religione che hanno dilaniato l’Europa nel Seicento e in seguito allo
sviluppo del pensiero sull’alterità che ha accompagnato la scoperta di
diverse forme di cultura sul pianeta.
Spesso sentiamo invocare la difesa della nostra cultura, della nostra
civiltà, ma rischiamo di avallare una visione riduttiva di cosa essa sia esattamente, dal momento che, com’è ovvio, non è neanche lontanamente riducibile a pochi elementi. Parliamo di cultura europea, ma quanto sappiamo
delle caratteristiche culturali dei paesi dell’est europeo, della loro ricchezza, della loro letteratura, della loro riflessione filosofica, o sociologica?
Continuiamo a dimenticare o ad omettere che le radici della cultura
europea sono antichissime, profonde, variegate: si pensi alle radici ellenistiche, alle influenze egiziane, alla dominazione romana, all’influenza della
cultura araba, alle contaminazioni mitteleuropee e perfino asiatiche.
Allo stesso tempo diamo una lettura superficiale o caricaturale del permanere di identità locali, sopravvissute agli sforzi uniformanti de nazionalismi e della cultura di massa: identità che nulla hanno a che fare con la tendenza all’invenzione di pseudo identità “etniche” di comodo che hanno
sempre accompagnato le logiche coloniali.31 Purtroppo rispetto a questa
pluralità culturale tendono oggi a prevalere atteggiamenti di demonizzazione o di esaltazione, di negazione o di enfasi caricaturale che ostacolano
un reale dialogo, un «agire comunicativo» volto alla comprensione e, ancor
più, l’affermarsi di un’etica ricostruttiva che, assumendo la responsabilità e
il dolore delle sofferenze innocenti del passato, ritessa una storia comune.
Rischiamo così di accentuare i conflitti, sempre in agguato, ispirati alla
“purezza” della “razza”, della lingua, della cultura, della religione. Conflitti che potrebbero ancora una volta portare a milioni di morti, forse stavolta a centinaia di milioni, data la condizione demografica del tutto nuova
nella storia dell’umanità.
31 Si pensi al triste caso dell’invenzione olandese degli hutu e dei tutsi in Ruanda e ad altri irresponsabili giochi analoghi in paesi del Nord del mondo. Per quanto riguarda un’analisi dei fenomeni di
riduzione e espressione delle identità locali in dialettica con le realtà imperiali e con la realtà della globalizzazione, con particolare riferimento anche all’attenzione con cui va trattata la realtà italiana cfr. F.
Blezza, La globalizzazione odierna come problema pedagogico, in AA.VV., Globalizzazione e nuove responsabilità educative.
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Questo rischio richiama alla necessità di ripensare profondamente i
frutti della cultura europea che in questo momento vanno maggiormente
difesi, perché rendono possibile pensare ed operare per migliorare le condizioni di vita dell’uomo nel suo mondo:32 tra questi ricordiamo la ragione
argomentativi,33 il rispetto dei diritti dell’uomo in tutte le sue età e le sue
condizioni di esistenza,34 la coscienza planetaria,35 la coscienza della responsabilità nei confronti dei più deboli e delle generazioni future.36 Un ripensamento che deve coinvolgere la nostra vita a partire dalle microazioni quotidiane, pure senza ingenuità e timori nei confronti della dimensione
macrosociale del potere.
In questo momento, i principali nemici della nostra civiltà non appartengono ad altre culture o ad altre religioni, ma alla nostra, e si concretizzano contemporaneamente nell’incapacità di porre limiti alla nostra voracità materiale - che sta portando ad una grave crisi nel rapporto con l’ecosistema e all’impoverimento costante e drammatico di vaste aree del pianeta - e nella nuova difficoltà a pro-gettarci nell’utopia, che don Tonino Bello
definisce l’«icona della speranza»:
Di qui nasce tutta la forza che sostiene la nostra fatica di viandanti. Di
qui si muove anche tutta la vergogna che ci deve fare arrossire ogni volta che
l’ambiguità del nostro martirio ci fa tentennare di fronte alle exousìe (onnipotenze) del mondo. Di qui trae origine un coraggio che rinnova, nonostante la povertà delle realizzazioni, l’incompiutezza dei nostri disegni, e
l’amarezza di dover constatare che, in fatto di pace, il già impallidisce sempre dinanzi al non ancora.37
Una speranza che, proprio in quanto tale, va coltivata al di là di ogni
ragionevolezza; sono molto chiare in proposito le parole di Simone Weil:
Non c’è alcuna difficoltà, una volta che si è deciso di agire, a conservare intatta, sul piano dell’azione, la speranza che un esame critico ha
32 Per una riflessione sulle relazioni interdisciplinari individuabili nell’alveo della Pedagogia interculturale cfr. A. ROSETTO AJELLO, Riflessioni epistemologiche e teoretiche sulla pedagogia interculturale,
in Intercultura in Italia. Una rassegna bibliografica, in «Studi Emigrazione», 140 (2000), 745-755.
33 In questo appare fondamentale, anche se non esaustivo, il pensiero habermasiano.
34 Si pensi in proposito, ad esempio, alle riflessioni di Martha C. Nussbaum.
35 Edgar Morin e quanto elaborato nell’alveo dell’epistemologa della complessità, della cultura ecologista e di quella pacifista.
36 Hans Jonas, ancora una volta il pensiero ecologista e oggi gli studi e le riflessioni sulla decrescita.
37 T. BELLO, Le mie notti insonni, 42-43.
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dimostrato quasi priva di fondamento; è questa l’essenza del coraggio. E
noi non siamo davvero privi di speranze. Il solo fatto che esistiamo, che
concepiamo e vogliamo una cosa diversa da ciò che esiste, è per noi motivo di speranza.38
E ancora:
Se, com’è fin troppo possibile, dobbiamo morire, facciamo in modo di
non morire senza essere esistiti. Le forze tremende contro cui dobbiamo batterci si accingono a schiacciarci; certo esse possono impedirci di esistere pienamente, cioè di imprimere sul mondo l’orma della nostra volontà. Ma c’è un
ambito in cui esse sono impotenti. Non possono impedirci di lavorare a concepire chiaramente l’oggetto dei nostri sforzi affinché, se non possiamo compiere ciò che vogliamo, l’avremo almeno voluto, e non desiderato ciecamente: e d’altra parte la nostra debolezza può in verità impedirci di vincere, ma
non di comprendere la forza che ci schiaccia. Niente al mondo può impedirci di essere lucidi. Non c’è nessuna contraddizione tra questo compito di chiarificazione teorica e i compiti che la lotta effettiva ci impone; al contrario c’è
correlazione, perché non si può agire senza sapere ciò che si vuole, e quali
sono gli ostacoli da vincere. Tuttavia, dato che il tempo di cui disponiamo è
limitato, si è costretti a dividerlo tra la riflessione e l’azione, o, per esprimersi
più modestamente, la preparazione all’azione. Questa ripartizione non può
essere determinata da nessuna regola, ma solo dal temperamento, dalla forma
mentale, dai doni naturali di ciascuno, dalle congetture di ciascuno sul futuro, dalla casualità delle circostanze. In ogni caso, per noi la più grande sventura sarebbe morire impotenti sia a vincere che a comprendere.39
In queste parole della filosofa francese risuona la difesa della dimensione personale del potere: almeno il potere di comprendere fino in fondo gli
ostacoli che ci stanno davanti, di «concepire chiaramente l’oggetto dei
nostri sforzi», di esercitare la nostra capacità di «volere» un mondo migliore. E questo richiama al dovere che sta in capo agli educatori di aiutare i
giovani a ri-assumere la dimensione del rischio, ma anche a comprendere,
a giudicare correttamente e secondo criteri etici chiari, contrastando la tendenza attuale a mescolare vittime e carnefici, ragione e torto, legalità e illegalità, diritto e sopruso in un nuova «notte in cui tutte le vacche sono
nere». L’educatore deve avere oggi il coraggio di guardare in fondo al dolore e all’ingiustizia che gridano sulla Terra, perché solo in quel modo può
38 S. WEIL, Sulla Germania totalitaria, Adelphi, Milano 1990 194-195.
39 Ibidem, 196.
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aiutare se stesso e gli altri ad affrontarle, a coglierne le possibilità di superamento. Scrive in proposito Raffaele Mantegazza:
è solo non distogliendo lo sguardo dai neri abissi di inumanità e di dolore
inutile che caratterizzano la nostra vita sulla Terra che la pedagogia può
forse contribuire all’emancipazione umana. La pedagogia e l’educazione
possono e devono farsi mimesi della violenza e del negativo proprio osservando il nero e non rifiutandosi di non vederlo. L’occhio che sappia scrutare il nero dell’abisso senza restarne affascinato potrebbe forse contribuire
all’uscita dell’abisso […] proprio in virtù della tenue traccia che ogni accenno di vita provoca quando è strappato alla morte e al nulla.40
Ma questo comporta anche la formazione politica e la capacità dell’educatore di partire dalla propria indubitabile posizione di privilegio per
offrire il proprio servizio all’emancipazione dell’umanità.41
Dalla diffidenza alla convivialità
È sotto gli occhi di tutti che quella che qualche decennio fa appariva
essere una nuova sfida per l’educazione oggi si è trasformata quasi in una
grave emergenza, che richiede una pronta reazione, se si vuole evitare il
peggio. Si pongono oggi con forza alcuni problemi di ordine educativo,
nelle nostre società, in relazione al confronto tra le culture. I flussi migratori attuali sono il frutto sia della maggiore capacità/possibilità di spostamento dei popoli sul pianeta che di un rafforzamento dei meccanismi di
repulsione/attrazione che generalmente si trovano alla base di tutte le scelte migratorie. Una trentina di conflitti armati molto violenti presenti in
varie parti del sud del mondo costituiscono valide spinte espulsive per
uomini e donne giovani desiderosi di vivere con maggiori speranze e possibilità. Il mondo occidentale, pur con tutte le sue contraddizioni, presenta
ancora aspetti di tranquillità, di benessere e di democrazia relative che sono
in grado di costituire forze attrattive notevoli per milioni di persone che
vivono in condizioni squallide, quando non di vero e proprio rischio. Esistono dunque forze che agiscono a livello di macrosistema mondiale che
40 R. MANTEGAZZA, I buchi neri dell’educazione, 8.
41 «Partire da sé: collocarsi nello spazio e nel tempo e soprattutto nella rete di relazioni storicosociali che fanno una società; dire da che posizione si prende la parola; non cadere nell’inganno della
neutralità. Queste a nostro parere le esigenze fondamentali cui deve rispondere l’educatore e l’educatrice per potere praticare l’educazione alla politica nei confronti delle nuove generazioni»: ibidem, 68.
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producono flussi migratori consistenti dalle campagne dalle città e poi dal
sud al nord del mondo e, nei luoghi di arrivo di queste popolazioni, tali
forze macrosistemiche tendono ad essere semplicemente ignorate e la
riflessione si sposta su posizioni irrealistiche di difesa e di chiusura. Si chiudono gli occhi sulle dinamiche di sfruttamento quando non di vero e proprio genocidio che fanno da corollario a questi flussi di persone alla disperata ricerca di condizioni di vita più umane e ci si astiene dall’intervenire
con la fermezza necessaria contro le pericolose derive xenofobe e razziste
montanti nei paesi di arrivo dei flussi. Complessivamente l’impressione è
quella di una società occidentale che non è riuscita ancora a sganciarsi adeguatamente da un approccio meramente predatorio rispetto a vaste parti
del pianeta, non ancora in grado di assumere le responsabilità che l’asimmetria di potere comporta. In questo contesto aumentano rapidamente
situazioni precedentemente scarsamente avvertite, come gli atteggiamenti
razzisti e l’insicurezza percepita. Si riattivano le ancestrali pratiche del
capro espiatorio con lo strascico di banalità, semplificazioni, menzogne e
mistificazioni, che questo comporta: sentiamo ripetere sui rom, sugli immigrati, sui senza fissa dimora le stesse cose che, nel corso dei millenni, sono
state dette su minoranze perseguitate, inclusi i primi cristiani.
René Girard ha illustrato bene42 il funzionamento di questo meccanismo
e ci ha raccontato come nel corso del tempo «capro espiatorio» siano stati
gli ebrei (accusati, ad esempio, nel Medio Evo di provocare la peste, e sterminati per questo), i cristiani, (accusati dai romani dell’ultima fase dell’impero di colpe analoghe, o di mangiare i bambini e nutrirsi di carne umana,
e per questo fatti oggetto di genocidio), le streghe (ancora nel tardo Medio
Evo), interi popoli (vedi i genocidi di massa che hanno caratterizzato vari
periodi della storia, tra cui la nascita degli stati moderni e le guerre di religione nell’Europa del Seicento), i migranti (anche gli italiani, tra l’Ottocento e i primi decenni del Novecento, che hanno vissuto odissee analoghe a
quelle di molti poveri e migranti di oggi: persecuzioni, naufragi e «carrette
del mare» comprese) e via via categorie di soggetti o singoli individui, fino
a tornare ai genocidi di massa durante i totalitarismi del XX secolo (Germania ed Europa sotto il nazismo, Russia e Urss sotto Stalin, l’America latina con i loro colonnelli e i desaparecidos, ecc.) e si potrebbero aggiungere le
vittime dei conflitti e delle pulizie etniche degli ultimi decenni, o il recente
riemergere di conflitti che prendono a pretesto la differenza religiosa, riproponendo drammi che sembravano essere stati ormai posti fuori dalla storia
dalla netta quanto prudente separazione tra religione e politica.
42 Cfr. R. GIRARD, Il capro espiatorio, Adelphi, Milano 1999.
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Se questo è lo scenario macro-sociale e storico, esso trova un completamento naturale nella tendenza al ricorso al capro espiatorio che possiamo
cogliere nelle manifestazioni micro-sociali, anche nell’universo giovanile ma
non solo: le forme di aggressione nei confronti dei disabili o dei più piccoli
e dei più fragili, la violenza sulle donne, l’abuso del corpo e della mente del
bambino, l’uccisione di genitori o di familiari, la violenza nei confronti dei
vicini di casa, i conflitti violenti a margine degli eventi calcistici, le molteplici forme di auto-distruttuvità presenti in molti nostri giovani (anoressia/
bulimia, sfide alla morte ecc.). Tutta la cronaca recente ci parla dell’intensità di questo mal-essere e dei comportamenti distruttivi ed autodistruttivi
che esso provoca.43
La discriminazione e il meccanismo del capro espiatorio, infatti, come
ogni meccanismo che abbia alla base la ricerca della purezza, tende ad una
elevata distruttività, dunque tende a produrre nemici e vittime senza andare troppo per il sottile, tra amici e nemici, soprattutto tra gli innocenti e i
vulnerabili. Sembra che ancora oggi né la ragione né la sensibile cultura
religiosa siano in grado di arginare queste forze: esse anzi vengono spesso
ritorte al servizio delle discriminazioni stesse. Anche questo sembra indicare una pericolosa crisi della nostra civiltà.
Ad un laboratorio in una scuola media una ragazzina di 11 anni vede un
cortometraggio in cui un barbone nero offre un caffè ad un’anziana signora bianca: i volti sono sorridenti, anche se imbarazzati, e l’uomo tira fuori
due bustine dalla tasca e le offre alla signora, che accetta. Alla domanda su
cosa fossero quelle due bustine la bambina risponde sicura: «Veleno!».
Questo tipo di reazione dice molto sulla percezione del povero e del nero
in una società che fino a qualche anno fa si percepiva estranea, evidentemente con una buona dose di ingenuità, rispetto al rischio razzista. Oggi si
assiste ad una semplificazione e riduzione delle culture e delle religioni che
crea un clima di timore e contrapposizione. Un clima allarmista, per certi
aspetti primitivo, che un po’ stupisce, dato che nei decenni scorsi si erano
moltiplicati gli sforzi per elaborare una visione plurale e conviviale delle
relazioni tra diversi, ma anche perché denuncia un drammatico distacco
dalla nostra storia recente e dai suoi dolori.44
43 A. ROSETTO AJELLO, I giovani tra partecipazione e disforia.
44 Scrive Mantegazza: «Siamo forse nella prima epoca astorica della storia dell’umanità. E in quest’era si pascola e si saltella avanti e indietro, si mangia e si digerisce, vivendo solo il presente piacere e
dolore, attaccati al piolo dell’istante e finalmente liberati da ogni eredità e da ogni compito. A chi volesse spacciare questa vita da gregge con la libertà finalmente ottenuta, basterebbe mostrare la montagna
di morti che la storia ha prodotto e continua a produrre; basterebbe sottolineare la continuità della barbarie di oggi con quelle di ieri, evidenziare come le promesse di emancipazione e liberazione umana for-
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I fenomeni di intolleranza razziale non costituiscono che momenti di
emergenza dei problemi e delle caratteristiche implicite nella vita civile
della nostra società: la superficiale adesione ai valori democratici e umanitari, l’individualismo economico, il particolarismo politico, la violenza
come strumento principe per la soluzione dei conflitti e come supporto alla
logica della «sopravvivenza del più forte» (in conseguenza del riemergere
ciclico del «darwinismo sociale» come ideologia politica da adattare opportunisticamente agli interessi economici dei gruppi dominanti), l’assenza di
progettualità, per citare alcuni esempi.
Ogni atto di intolleranza nei confronti di chi è diverso, costituisce un
fallimento per l’intera collettività: un fallimento che mette in discussione le
responsabilità educative della famiglia e della scuola – ma anche di molte
strutture extrascolastiche (laiche e non), inclusi i servizi sociali, che svolgono più o meno implicitamente un ruolo educativo importante. Un fallimento che chiama in causa anche gli organi di informazione, che spesso
con il loro modo di presentare o celare i fenomeni e le «notizie» favoriscono l’aumento della tensione sociale e/o contribuiscono ad indirizzarla verso
facili bersagli che poco hanno a che vedere con i reali problemi della collettività.45
Un paese in cui i sentimenti razzisti trovano modo di attecchire è un
paese in cui si è falliti nel tentativo di realizzare il ben-essere di tutti e di
ciascuno,46 è un paese in cui non si pone al primo posto la vita e il rispetto
umano neanche tra gli autoctoni. L’ostilità nei confronti degli altri, il desiderio di distruggere, nascono da un proprio mal-essere, dal fatto che non si
è trovato il giusto spazio all’interno della propria comunità e si continua ad
avere bisogno di costruire la propria identità positiva attribuendo all’altro
una identità negativa;47 e siccome il bisogno di appartenenza o il senso di
fedeltà al proprio gruppo impediscono di rivolgere la propria aggressività
verso dei «carnefici» che è difficile riconoscere come tali perchè formalmente «uguali» a noi, questa aggressività e questo rancore vengono rivolti
mulate da tutte le grandi ideologie e religioni non sono state mantenute e proprio perciò conservano la
loro straordinaria urgenza e attualità. […] Occorre ovviamente non farsi ingannare: vive nel presente
solo chi se lo può permettere; per i due terzi dell’umanità la storia non è rimovibile e cancellabile semplicemente perché si ripete ogni giorno da millenni sotto la maschera della morte ingiusta»: I buchi neri
dell’educazione, 13.
45 Cfr. G. NALETTO (a cura di), Rapporto sul razzismo in Italia, Manifestolibri, Roma 2009.
46 Queste opinioni sono diffuse anche a livello internazionale: cfr. anche il Rapporto Faure sulle strategie dell’educazione nel mondo, in A. NANNI - C. ECONOMI, Educare alla pace nella scuola, La Scuola,
Brescia 1987.
47 Cfr. E. ERIKSON, Gioventù e crisi d’identità, Armando, Roma 1992.
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verso colui che, ultimo arrivato e portatore dei segni della diversità, aspira
a trovare una collocazione all’interno del nostro gruppo. L’emarginato
autoctono non riconosce all’altro sfortunato (straniero) il diritto di cercare
di uscire dalla sua condizione di disagio e di tentare dove lui stesso ha fallito. Preferisce spesso pensarlo condannato ad una analoga ineluttabile
infelicità; se lo straniero riuscisse a sfuggire alla propria disgrazia non farebbe che rafforzare il suo senso di fallimento.
Ma tutto ciò chiama in causa la responsabilità di ciascuno nei confronti
di questi uomini, tra noi, tanto infelici da odiare lo straniero; i problemi
delle minoranze vanno generalmente analizzati a partire dai problemi delle
maggioranze. E questo principio va tenuto presente sia in relazione al razzismo che in relazione ai conflitti etnici – sempre tenendo conto del fatto
che la definizione di ‘maggioranza’ e ‘minoranza’ va letta non in senso
numerico ma con riferimento alle posizioni di dominio.
Sostiene Santerini, «Davanti all’altro percepito come estraneo si pone la
necessità di elaborare un itinerario pedagogico adeguato al tempo della globalità […] che ricongiunga, senza contrapporli, bensì rendendoli complementari, gli atteggiamenti umani della tolleranza, dell’empatia e del rispetto».48
Eppure il termine «interculturalità» pare essere scomparso dal linguaggio dei media. Oggi si parla di lavorare per diventare una «società d’immigrazione». Ma si tratta, ovviamente, di un problema mal posto, poiché sembra porre come obiettivo qualcosa che è già da un decennio la realtà dei
fatti. Società d’immigrazione lo siamo già, e il termine sposta l’attenzione
dalla politica alla biologia: nulla dicendo circa la qualità delle relazioni da
instaurare. Non dà una direzione per la soluzione dei problemi che la
nuova composizione sociale pone, né per evitare che la diversità si trasformi in discriminazione. È un altro esempio dell’abdicazione della politica di
fronte all’economia, insieme alla timidezza con la quale si difendono i diritti umani, e conquiste democratiche, la pace, la salute dell’ambiente. È un
passo indietro rispetto a una posizione (quella dell’interculturalità) che
aveva una base etica ben precisa, anche se non semplice nè priva di conflittualità: quella della co-fecondazione e del riconoscimento reciproco di
legittimità, entro una cornice negoziata di valori fondamentali.
Appare qui ancora una volta estremamente lucido quanto affermava
don Tonino Bello:
48 M. SANTERINI, Globalizzazione, educazione, giustizia, 95.
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Le differenze sono sempre da comporre non da eliminare. […]. Siamo
infatti alle soglie di un’era in cui le barriere geografiche stano per crollare
come le mura di Gerico, e, purtroppo, non si sta facendo molto perché questa confluenza razziale, culturale, etnica, religiosa, venga vissuta senza traumi.
Le categorie della difesa a riccio sembrano spesso prevalere sulle categorie
dell’apertura e dell’integrazione. La paura dell’altro, del diverso, del marocchino, di chi viene a mettere in discussione sicurezze antiche, produce preoccupanti tossine di rifiuto e mette in crisi, anche nella nostra esperienza cristiana, consolidato concetti di accoglienza. Non è da illudersi: è su questo
fronte che, negli anni immediati, si misurerà la nostra tenuta evangelica.49
Quale educazione alla cittadinanza?
Non si tratta dunque semplicemente di promuovere una conoscenza dei
valori dominanti nelle varie culture, con un’analisi delle differenze e delle
somiglianze. Questa non è certamente inutile, ma basta a creare le condizioni per lo scambio, la condivisione e la convivenza. È oggi necessario
«costruire meta-criteri di carattere universale cui fare riferimento, che possano giudicare i valori stessi»50 e contemporaneamente sviluppare la capacità di mettersi in cammino, incontrarsi con gli altri e cogliere ciò che ci
accomuna.51
La paura, in tal senso, è un ostacolo all’incontro, ma anche una forma di
disumanizzazione dell’uomo: sia di colui che ha paura e deve pertanto inibire la sua naturale apertura all’incontro con l’altro, che colui del quale si
ha paura, che viene privato del contatto con i suoi simili e trasformato in
una cosa o in un animale.
Occorre dunque promuovere un’educazione sociale molto «impegnata», che promuova: una disponibilità alla conoscenza tra le culture e i
popoli che convivono sullo stesso territorio (ormai, in ultima istanza, l’intero pianeta); una disponibilità ad accogliere l’altro con la sua ricchezza, la
sua novità e le sue difficoltà; un pieno riconoscimento reciproco di parità
49 T. BELLO, Le mie notti insonni, 66-67.
50 M. SANTERINI, Educare alla cittadinanza. La pedagogia e le sfide dell’educazione, Carocci, Roma
2001, 130.
51 «Oggi bisogna lasciare la staccionata della rassicurante masseria di famiglia e mettersi con raggio
sulle strade dell’esodo, verso gli incroci dove confluiscono le culture e le razze si rimescolano e le civiltà sembrano tornare l’antica placenta che le ha generate e i popoli ridefiniscono i tratti della loro anagrafe secolare»: T. BELLO, La bisaccia del cercatore. Scarti minimi per il futuro, La Meridiana, Molfetta
(BA) 2007, 16.
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e, dunque, una legittimazione reciproca e convinta; un processo dialogico
che consenta l’inevitabile processo di negoziazione, preludio alla costruzione dei meta-criteri di carattere universale di cui abbiamo parlato più
sopra;52 il riconoscimento del conflitto come dimensione connaturata, seppure da gestire in maniera non distruttiva, nella relazione tra diversi. Scrive in proposito Milena Santerini: «La vera conciliazione avviene solo quando le due parti, o due voci all’interno della stessa coscienza, rinunciano alla
loro parzialità e riconoscono l’altra posizione».53
Per far questo è necessario che tale conoscenza e convivenza cominci fin
dall’infanzia e che la scuola, luogo educativo nel quale per la prima volta di
incontrano e storie personali dei bambini, siano gestite per quello che
potenzialmente potrebbero essere se avessero al centro l’uomo: magnifiche
occasioni di crescita personale. Ma per far questo occorre abbandonare le
logiche efficientistiche, da riservare ai pochi ambiti della vita sociale in cui
abbiano un senso: le imprese economiche. Sentire gli insegnanti e i genitori, o perfino i politici, parlare di quanto gli stranieri «ostacolino» l’apprendimento degli autoctoni ci dà il senso di come oggi si abbiano le idee molto
confuse su cosa sia l’apprendimento e quali siano i suoi meccanismi, ma
anche su quale sia la funzione della scuola non nella crescita del “mercato”,
bensì della persona umana, soprattutto in una società democratica.54
Una funzione sulla quale ci piace soffermarci a partire dal pensiero di
don Lorenzo Milani.
Educare ed istruire per aprire alla sensibilità politica e alla dimensione
religiosa
Il nostro intervento sul mondo avviene soprattutto attraverso una manipolazione simbolica, che compiamo attraverso il linguaggio.
Noi siamo protagonisti di quanto ci accade, siamo protagonisti della
52 «Ogni atto della comprensione può essere inteso come parte di un processo cooperativo di interpretazione che mira a definizioni della situazione riconosciute intersoggettivamente»: J. HABERMAS, Teoria dell’agire comunicativo. Razionalità nell’azione e razionalizzazione sociale, 1, Il Mulino, Bologna 1986,
138.
53 M. SANTERINI, Educare alla cittadinanza.
54 Rispetto al quale, comunque è opportuno precisare che l’attuale funzionamento della scuola è
assolutamente inutile o, se si vuole, “inefficace”. Cfr. A. ROSETTO AJELLO, Armonie e dissonanze: il difficile cammino della scuola dalla promiscuità all’identità, in M. R. PARSI - F. ZAGARELLA (a cura di), Promiscuità Con fusione, pro fusione o diffusione. Analisi a più voci sulla complessità della vita contemporanea, Compositori, Bologna, 2008
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nostra vita nella misura in cui siamo in grado di attribuire un significato a
ciò che ci circonda e a ciò che ci accade. Dobbiamo perciò essere in condizione di percepire e decodificare informazioni, di organizzarle secondo
schemi di significato che abbiano senso per noi.
Oggi molti giovani non hanno gli strumenti per compiere questi atti. Per
motivi diversi dal passato permane una rilevante povertà linguistica che
reca con sé una conseguente povertà concettuale. Avere un linguaggio
ricco, vario, vuol dire avere a disposizione molti strumenti per dare nome
alle cose, alle sensazioni, alle emozioni. Vuol dire avere strumenti per
cogliere le sfumature, le variabilità, le differenze.
Avere un linguaggio povero, essenzialmente dicotomico (vero/falso,
bianco/nero e così via) si traduce in carenza degli strumenti necessari alla
lettura di una realtà dinamica e molto articolata (complessa), come quella
nella quale siamo immersi; induce anche a restringere i propri orizzonti, i
confini della propria esistenza entro un numero ristretto di variabili. Sul
piano dei comportamenti può portare a forme di gregarismo, a cercare di
schierarsi costantemente dalla parte di chi di volta in volta si percepisce
come vincente, anche a costo di far violenza sulle proprie peculiarità, o perfino disconoscendole del tutto.
La povertà linguistica e concettuale contribuisce oggi a bloccare la crescita degli adolescenti e procura loro disagio. Su questi punti rimane un
faro, un punto di riferimento ineludibile quanto lucidamente scritto da don
Milani in Esperienze pastorali. Egli spiega, perché il suo impegno maggiore
consiste nell’impartire un’istruzione civica ad adolescenti e adulti: sebbene,
infatti, lavorare con i bambini sia probabilmente più facile, è anche vero
che se poi il lavoro educativo viene interrotto, i risultati raggiunti si perderanno in pochissimo tempo e nella loro vita adulta non ne resterà traccia.
Questo è dimostrato anche dal fatto che sebbene tutti abbiano ricevuto
un’imponente educazione religiosa nella prima infanzia e nella scuola elementare (ma anche col catechismo), non si può certo dire che nella nostra
civiltà ci sia una cultura religiosa o cattolica profondamente radicata. Tant’
è vero che il materialismo vi ha fatto breccia con enorme facilità.
Egli precisa inoltre: «Resterebbe poi da affrontare il problema della
istruzione religiosa degli adulti come problema a sé, di sana pianta diverso.
È nostra opinione che la sua soluzione dipenda oggi strettamente dalla
soluzione di quello dell’istruzione civile».55
Possiamo trarre da qui alcune indicazioni circa la sua concezione peda55 L. MILANI, Esperienze pastoriali, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1997, 51.
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gogica: innanzitutto riconosce l’assoluta specificità dell’educazione degli
adulti rispetto a quella dell’infanzia. Poi pone l’educazione linguistica e, ad
essa strettamente collegata, quella logica alla base dell’istruzione degli adulti, dei compiti della scuola popolare.
Perché scegliere l’istruzione civica per questo scopo?
Innanzitutto con essa:
• si educa la lingua;
• si educa la logica;
• si forniscono strumenti per la tutela dei propri diritti, anche sul luogo di
lavoro;
• si consente ai poveri di rielaborare la propria cultura in modo da farle
riacquistare dignità rispetto a quella borghese, veicolata dalle scuole statali e private (anche cattoliche);
• si restituisce dignità ai poveri;
• si mette in condizioni gli adulti poveri di comprendere i meccanismi del
sistema democratico e partecipare ad essi con maggior senso critico e
maggior consapevolezza;
• si forniscono strumenti anche per promuovere un eventuale cambiamento, in direzione di un miglioramento di un sistema che, per Milani e
per noi, è ovviamente ben lontano di aver raggiunto la sua perfezione;
• si riconoscono, e non solo a parole, i diritti di libertà di pensiero e di
parola;
• si forniscono ai poveri gli strumenti per guardarsi dai pericoli insiti nei
mezzi di comunicazione di massa.
Molte di queste convinzioni don Milani le condivide con molte altre
figure del suo tempo.56 Ciò che lo distingue e il suo collocare tutto questo
con grande decisione e fermezza nell’alveo dei valori cristiani e del messaggio di Cristo.57
Educare elevando il livello di conoscenze e competenze è senz’altro un
modo fondamentale per fornire alle persone gli strumenti della autonomia
e della scelta:
la coerenza è sì un altissimo privilegio dell’Uomo, ma a patto che l’uomo
abbia quel minimo di cultura senza del quale Uomo non è. Il letterato può
56 Basti pensare a Paulo Freire, o a Danilo Dolci.
57 «L’esperienza fatta nella Scuola Popolare ci dice che quando un giovane operaio o contadino ha
raggiunto un sufficiente livello di istruzione civile, non occorre fargli lezione di religione per assicurargli l’istruzione religiosa. Il problema si riduce a turbargli l’anima verso i problemi religiosi. E questo, col
lungo contatto assicuratoci dalla scuola, ci è risultato estremamente facile» (ibidem).
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essere incoerente se ha cattiva volontà. L’illetterato sarà incoerente anche se
ci mette la miglior buona volontà perché spesso gli manca perfino la capacità di intendere i termini del problema che gli si propone. Quasi sempre è
incapace di condurre e poi tener presente alla mente un ragionamento filato e elevato. Infine l’illetterato preferisce spesso l’incoerenza perché sa che
la coerenza lo condurrebbe a quell’isolamento dal vicino che è una condizione di vita insostenibile per chi non padroneggia la parola e il pensiero.58
Uno degli aspetti più drammatici della nostra epoca è il diffondersi di
questa radice dell’incoerenza, che porta a pericolose forme di gregarismo e
mina le possibilità di pensare/costruire relazioni migliori.
In realtà sembra essere la naturale prosecuzione dell’ideale di uomo
antipolitico che stava alla base del nazismo:
una apoliticità intesa non «come stato passivo ma come atteggiamento altamente attivo, come difesa nei confronti della responsabilità sociale». Si tratta di una persona per la quale la politica è un concetto astratto, costituisce
la radice di tutti i mali; l’affermazione che troviamo più spesso sulla bocca
di queste persone è che «tutti i politici sono uguali», perché «la politica è
una cosa sporca».59 Spesso il tutto è correlato con l’associazione del concetto di politica alla violenza e al pericolo fisico, e a un alto grado di irresponsabilità sociale: la politica non viene sentita come qualcosa che possa risolvere i propri conflitti personali, e dunque viene lasciata ad altri, come affare di professionisti o come arena nella quale vengono giocate le passioni più
violente. È proprio su quest’uomo apolitico che ha fatto breccia negli anni
Trenta la demagogia nazista; perché è proprio quest’uomo apolitico che è
pronto a schierarsi e a mobilitarsi a fianco di quei gruppi o partiti che, confermando l’idea che la politica è associata alla violenza, gli facciano però
credere di prenderlo sotto la loro protezione, di essere «dalla sua parte».60
A questo atteggiamento apolitico, sintetizzato nel fascista «me ne frego»,
don Milani contrapporrà il suo «I care», motto cardine sottolineato nella lettera ai giudici come principio informatore del pensiero e delle azioni di ogni
buon cittadino, il quale dovrebbe avvertire come un dovere la propria partecipazione attiva alla vita politica della società cui appartiene.
La scuola di Barbiana non può costituire un modello per la scuola-isti58 Ibidem.
59 Va notato che tutto il virgolettato è tratto dal testo di W. REICH, Psicologia di massa del fascismo,
Einaudi, Torino 2005.
60 R. MANTEGAZZA, I buchi neri dell’educazione, 48-49.
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tuzione così come essa si sviluppa nelle nostre città, e questo per ovvi motivi: i ragazzi delle nostre città non hanno la condizione di indigenza materiale e culturale che avevano gli allievi di don Milani, o quando hanno condizioni simili non hanno certo la possibilità di un rapporto così esclusivo e
continuativo col docente; naturalmente, poi, non è possibile chiedere per
legge ad ogni docente di avere il carisma e la capacità empatica di don Milani. Alcuni aspetti però devono essere presi seriamente in considerazione:
innanzitutto il fatto che don Milani parte, col suo metodo educativo, esattamente da quelle che sono le condizioni di vita e di deprivazione dei suoi
ragazzi e cerca in tutti i modi di far sì che essi sviluppino le capacità di
diventare buoni cittadini e uomini liberi. Non pensa cioè cose che somigliano al frequente «i giovani d’oggi non sono quelli di una volta», oppure
«i giovani d’oggi sono più superficiali e meno portati allo studio» o altre
simili amenità. Eventualmente, un atteggiamento che si ispiri al Milani educatore è quello che, prendendo atto della deprivazione dei ragazzi di oggi,
di quella deprivazione spesso provocata dalla cultura della «ricreazione»
così come da lui condannata in Esperienze pastorali, e sapendo che giova
loro conoscere e comprendere per essere liberi, le studia tutte, con l’aiuto
della ricerca scientifica, ma anche con l’impegno che nasce dalla passione e
dal desiderio di giustizia, per aiutarli a superare questa condizione di deprivazione.
Questo oggi si chiede forse agli insegnanti di oggi: non solo conoscenze
e formazione professionale, ma la convinzione che la cultura di cui devono
essere veicolo e testimonianza è un fondamentale strumento per aprire ai
ragazzi le dimensioni della libertà e della responsabilità: per un migliore
inserimento sociale, ma non solo.
L’altra indicazione preziosa è quella relativa al lavoro che don Milani fa
espressamente sul linguaggio: per arricchire il vocabolario dei suoi discenti, per svelare la manipolazione delle informazioni, per consentire ai propri
ragazzi di fare l’esperienza del viaggio all’estero e, attraverso questa, l’accostamento alla diversità culturale.61 Il linguaggio è inteso esattamente da
61 «Il priore ci propone un ideale più alto: cercare il sapere solo per usarlo al servizio del prossimo
per esempio dedicarci da grandi all’insegnamento, alla politica, al sindacato, all’apostolato e simili. Per
questo qui si rammentano spesso e ci si schiera sempre dalla parte dei più deboli: africani, asiatici, meridionali italiani, operai, contadini, montanari. Ma il priore dice che non potremo far nulla per il prossimo, in nessun campo, finchè non sapremo comunicare. Perciò le lingue sono, come numero di ore, la
materia principale. Prima l’italiano, perché sennò non si riesce a imparare nemmeno le lingue straniere.
Poi più lingue possibile, perché al mondo non ci siamo soltanto noi. Vorremmo che tutti i poveri del
mondo studiassero le lingue per potersi intendere e organizzare tra loro. Così non ci sarebbero più
oppressori, né patrie, né guerre»”: N. FALLACI, Vita del prete Lorenzo Milani. Dalla parte dell’ultimo, Rizzoli, Milano 2000, 359.
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Solidarietà 62/2010
don Milani come strumento di azione politica: solo chi sa usarlo può difendere i propri diritti, far valere le proprie ragioni e partecipare ai processi
democratici. Il linguaggio, inoltre è lo strumento principe per sviluppare
un atteggiamento critico nei confronti del potere e delle norme, prendendo le distanze da ogni forma di obbedienza acritica e gregaria, dal momento che spesso dietro gravi forme di sopraffazione e violenza non si trova la
tendenza umana all’aggressività, quanto piuttosto la sua tendenza al gregarismo acritico.62
Scrive infine il priore di Barbiana in Lettera ai giudici:
A questo punto mi occorre spiegare il problema di fondo di ogni vera
scuola. […] La scuola è diversa dall’aula del tribunale. Per voi magistrati
vale solo ciò che è legge stabilita. La scuola invece siede fra il passato e il
futuro e deve averli presenti entrambi. E’ l’arte delicata di condurre i ragazzi sul filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità (e in questo somiglia alla vostra funzione), dall’altro la volontà di leggi migliori cioè
il senso politico (e in questo si differenzia dalla vostra funzione).63
Ma anche questa volontà di leggi migliori ci conduce alla dimensione
della speranza, perché chi non l’ha non riesce neanche a ipotizzare di potersi proiettare verso qualcosa di diverso.
Concludendo, dunque, dal punto di vista che qui si è inteso proporre,
un nodo centrale dell’educazione oggi sta nella promozione di quella capacità di sognare, di guardare oltre il modo banale in cui la realtà si presenta
ai nostri giorni, quella capacità di pensare in grande che anche Giovanni
Paolo II, nella Lettera ai giovani del 2000, ha riconosciuto e valorizzato
come la più grande ricchezza di questa fascia di età. Una ricchezza che rappresenta anche la linfa dell’evoluzione sociale, purché gli adulti sappiano
coltivarla e lasciare spazio alla sua espressione; ma una ricchezza, anche
questa, che non è equamente distribuita. Nostro compito, degli educatori
e, in generale degli adulti è dunque operare affinché ciascun ragazzo possa
vivere questa dimensione esistenziale, usando noi come trampolino per
librarsi nel futuro.
62 Cfr. D. NOVARA, Don Milani e l’aggressività, in G. GATTI (a cura di), Don Milani e la Pace, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1988, 122.
63 In Lettera ai giudici, sta in C. GALEOTTI, Don L. L’obbedienza non è più una virtù e gli altri scritti pubblici, Stampa Alternativa, Roma 1998.
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Solidarietà 62/2010
Summary
Overcoming the fear of opening oneself to others: educating trust
and co-responsibility lity in order to build an inslusive society
Educating towards a sense of hope: a key topic for any sort of pedagogic reflection which wants to take into account the fear of the younger generations and their
right to imagine and plan a future for themselves. Imagining and planning which
does not only concern their individual lives, but goes beyond this to involve their
lives in the community and the whole sense of human destiny.
When we educate by raising levels of knowledge and competence we are offering people instruments towards autonomy and free choice.
A central problem of education today is in the promotion of the ability to
dream, to look beyond the somewhat banal way reality is presented today, that ability to think big that also Pope John Paul II, in his Letter to the young in 2000,
recognized and considered the greatest wealth of this age group. A value which
represents the substance of every social evolution, if adults are able to cultivate leaving it room to express itself, but this wealth is not equally distributed. Our task,
of every sort of educator, and in general all adults, is therefore to operate in a way
that enables the young to live this existential dimension, using us as a trampoline
to free themselves towards the future. (traduzione di Peter Cipolla)
130
S
olidarietà
62/2010: 131-150
Educare al riconoscimento culturale
Alessandra Tigano
«Ebbi fame, e mi deste da mangiare; ebbi sete,
e mi deste da bere; fui forestiero, e m’accoglieste. […] Allora i giusti gli risponderanno:
Signore, quando mai t’abbiam veduto aver fame
e t’abbiamo dato da mangiare? O ove ave sete e
t’abbiam dato da bere? Quando mai t’abbiam
veduto forestiero e t’abbiamo accolto? E il Re,
rispondendo dirà loro: In verità vi dico che in
quanto l’avete fatto ad uno di questi miei minimi fratelli, l’avete fatto a me».
(Matteo 25, 31-46)
1. Giustizia e riconoscimento
Nel tentativo di interpretare i versi tratti dal vangelo di Matteo, e scelti
per l’esergo di questo saggio, la questione del riconoscimento dell’altro si
lega al rapporto tra giustizia e bene. Infatti il Re – rispondendo alle domande incalzanti degli uomini giusti che riflettendo sulle loro azioni mettono in
dubbio la loro stessa fede – afferma che il criterio del giudizio finale, a cui
tutti tendiamo nel tentativo di fare esperienza della nostra cristianità nella
pratica della nostra vita quotidiana, non è legato al credere in una verità o
in un Dio. Il giusto è, piuttosto, legato alla verità del riconoscimento degli
sguardi degli ultimi, coloro i quali da sempre nella storia dell’umanità sono
«esclusi dal banchetto delle nazioni […] suscitando nei commensali sgomento e irritazione»1 e, per questo, poiché scuotono le buone coscienze,
ricche e opulente, dei popoli emancipati secondo il modello europeo e
occidentale, vengono rifiutati e vivono in uno stato di sofferenza e di fragilità. Da questo punto di vista il senso del riconoscimento, inteso come azione che si fa prossima all’altro, ovvero che si prende cura dello straniero,
nasconde la ricerca dell’identità dell’uomo giusto e, in ultima analisi quella
dell’Alterità stessa. Un riconoscimento doppio, quindi, poiché se l’uomo è
1 E. BALDUCCI, La terra del tramonto, Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole 1992, 63.
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Solidarietà 62/2010
capace di sostenere lo sguardo dell’estraneità, al tempo stesso, sta narrando la storia di un uomo che, a partire dal piano dell’azione giusta, riconosce il Messia. Quest’ultimo è il senso più ampio, esteso e profondo del valore cristiano del riconoscimento che, nelle prassi, si raggiunge attraverso la
ricerca del linguaggio giusto, della parola che pone fine alla violenza, agli
abusi e ai continui disconoscimenti degli ultimi. Di conseguenza il bene del
riconoscimento è intrinsecamente legato all’interpretazione del giusto e dei
diritti universali dell’uomo e dei popoli, che sembra non trovino ancora
un’adeguata incarnazione nella vita delle nostre comunità democratiche.
Attualizzando l’insegnamento evangelico di Matteo e storicizzando le
questioni che emergono da questi versi mi piace sottolineare come uno dei
valori forti del cristianesimo sia proprio il riconoscimento dell’alterità dell’uomo e, in linea generale, la capacità di saper accogliere la diversità. Ma
si impone una domanda: perché l’Europa che vanta radici e tradizioni spirituali cristiane2 è diventata estranea al valore del riconoscimento e, a fatica, risponde agli appelli dello straniero?
Di fronte alle nuove drammatiche e disperate esigenze sociali di convivenza multiculturale il tema del riconoscimento è diventato oggetto di
riflessione da parte sia di intellettuali di varia provenienza culturale sia
di docenti, formatori e ricercatori che operano nei vari settori scolastici e in ambito universitario. Non sono infrequenti percorsi formativi in
cui la nozione del riconoscimento, intesa come continuo scambio con
l’altro, è interpretata in relazione alle istituzioni che legiferano sulle
complesse “differenze” culturali presenti nella società postmoderna.
Oggi diventa ineludibile domandarsi verso quale società della conoscenza e verso quale esercizio etico dei diritti si sta incamminando l’Europa del terzo millennio. Si ci interroga sul modo in cui le istituzioni, la
corte di Cassazione, il Parlamento e le leggi da esso emanate esercitano
la nozione di riconoscimento - vista come continuo scambio con l’altro –
e se queste garantiscono la dimensione personale e sociale e il rispetto
delle complesse “differenze” culturali presenti nella società multiculturale. Si tratta di affrontare la questione del pluralismo in rapporto al
problema della giustizia e all’allargamento dei diritti soggettivi da attri2 Cfr. G. REALE, Radici culturali e spirituali dell’Europa. Per una rinascita dell’uomo europeo, Raffaello Cortina, Milano 2003. Nell’introduzione l’autore sostiene che l’Europa è «una realtà spirituale,
un’idea nata da radici culturali ben precise: in primo luogo, la cultura greca; in secondo luogo il messaggio cristiano; in terzo luogo, la grande rivoluzione scientifico-tecnica, iniziata nel Seicento e proseguita senza soste con strabiliante velocità e con effetti del tutto imprevedibili». Reale sostiene anche la
tesi secondo cui la socratica «cura dell’anima costituisce quel forte legame morale che fin dalle origini
ha prodotto l’unità spirituale dell’Europa (Ibidem, 3-4)».
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Solidarietà 62/2010
buire a nuove categorie e gruppi. Nell’epoca delle relazioni globali,
afferma Vigna, è «la mescolanza delle culture nello stesso territorio e
soprattutto con rivendicazioni di parità, cioè senza l’egemonia di una
cultura sulle altre, che fa problema».3 Che ne è della giustizia in una
società plurale? Giustizia in una società plurale è, innanzitutto, protezione neutrale e deontologica dei diritti di ciascuno; ma, in ultima istanza, è teleologicamente promozione e cura per ogni essere umano. Giustizia è dunque riconoscimento della dignità di ogni essere umano, delle
sue opportunità di vita e della sua fioritura come persona. Si tratta,
ancora una volta, di mettere in questione il problema della dicibilità
multivoca della giustizia ed esaminare il suo significato formale e deontologico di dovere e diritto insieme a quello etico che si esprime come
bene equo. A mio parere non può esserci ethos separato dalla legge così
come non può esserci legge separata da un fine, da un bene etico che in
filosofia morale chiamiamo giusto. Il diritto non può estraniarsi dalle
riflessioni morali.
Questo non è un problema di poco conto poiché oggi purtroppo assistiamo ad una frattura tra questi due poli, con conseguenze spesso gravi per
la legalità, necessaria e fondamentale per realizzare una convivenza sociale
e democratica delle diversità culturali presenti nella nostra società. Nella
condizione postmoderna, e in una dialettica di identità e differenze sociali,
è necessario mettere da parte tutte le specificità valoriali per assumere una
prospettiva plurale che sappia coniugare il desiderio di vivere bene con il
carattere formale, procedurale e regolativo dei principi di giustizia. Come
afferma giustamente Gadamer, «noi non viviamo né in orizzonti chiusi, né
in un orizzonte unico»,4 gli orizzonti si spostano e apparteniamo ormai a
civiltà differenti; nella sfida postmoderna verso la coesistenza di valori differenti è necessario attraversare i confini e i propri modelli culturali partendo dal riconoscimento delle proprie diversità in continuo dialogo con
gli altri. È necessario inaugurare una nuova relazione storica, rinunciare
alla cultura del ‘sospetto’ reciproco – che vede l’altro come nemico minaccioso – per orientarsi verso una formazione del riconoscimento e della fiducia reciproca. L’orientamento ricœuriano ci indica che il riconoscimento
dell’altro – attraverso la giustizia e le sue leggi – non è né marginale né
secondario rispetto all’incontro fra due diversità poiché «il vivere bene non
si limita alle relazioni interpersonali ma si estende alla vita delle istituzio3 C. VIGNA, Libertà, giustizia e bene in una società plurale, Vita e Pensiero, Milano 2003, 4.
4 H. G. GADAMER, Verità e metodo, tr. it. a cura di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1983, 356.
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Solidarietà 62/2010
ni».5 Esso non si sviluppa soltanto attraverso l’incontro di due sguardi
(fenomeno bipolare che collega un io e un tu legati tra loro dal riconoscimento di regole comuni) poiché dalla relazione interpersonale emerge, a
sua volta, un volto impersonale (le pôle - il), soggetto di diritti e di doveri,
che chiede di essere riconosciuto tramite la specificità del linguaggio che
“dice il diritto”. È a questo tipo di linguaggio che ci si affida quando è
necessario affrontare delle questioni eticamente “fragili”; esso ci consente
di trovare il giusto mezzo per risolvere conflitti politici e sociali; ci può indicare una strada alternativa e non violenta e ci può dire che esiste un luogo
della società in cui la parola prevale sulla violenza. Questi luoghi si trovano all’interno del Parlamento e delle aule dei tribunali, luoghi ermeneutici
di saggezza, ove il diritto è detto hic et nunc per porre fine ai conflitti.
Tali riflessioni diventano ancora più attuali quando si cerca di interpretare il valore etico-morale di una recentissima sentenza della sezione civile
della suprema Corte di Cassazione di Roma.6 Ad una prima lettura della
sentenza viene spontaneo chiedersi qual è il risvolto etico presente in essa
ed in che modo essa sancisce la relazione con l’altro, il diverso, che in questo caso assume le sembianze di un immigrato che nell’interesse dei figli
minori chiede di non essere allontanato da loro perché, è scritto nella sentenza, ciò comporterebbe «un vero e proprio depauperamento sentimentale che andrebbe ad incidere sul loro futuro». Prendo spunto da questa sentenza non per inoltrarmi in considerazioni di carattere politico, ma per
riflettere sull’idea di riconoscimento, intesa non come risultanza di un’integrazione sic et simpliciter, ma come processo costruttivo di adattamento
e di arricchimento reciproco. Il mio interesse teoretico è quello di seguire
il percorso che tale idea compie nel momento in cui si passa dal piano
deontologico e morale a quello teleologico, etico e formativo.
Il riconoscimento esercitato sul piano legislativo – e all’interno di una
società della conoscenza retta da una Costituzione democratica – è esclusivamente legale e finalizzato, in tal caso, verso il «più generale interesse della
tutela delle frontiere» rispetto alla tutela della famiglia, dell’infanzia e dei
diritti fondamentali della persona. Mettendo in primo piano «le esigenze di
5 P. RICŒUR, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993, 290. Il rapporto vis à vis incontra sempre la
realtà dei terzi ed anche questa realtà contiene una forte istanza etica. Pertanto, se il contenuto etico delle
relazioni interpersonali che si stabiliscono tra il pole-je e il pole-tu è la sollecitudine quello del pole-il è
l’uguaglianza. Essa costituisce il contenuto etico della giustizia e porterà ad una nuova determinazione
del sé, quella del ciascuno: a ciascuno il suo diritto. Ed il ciascuno diventa il destinatario di una spartizione giusta.
6 Sentenza della Corte suprema di Cassazione di Roma, sezione I civile, n. 5856, 10 marzo 2010.
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Solidarietà 62/2010
legalità» la sentenza sancisce l’espulsione del clandestino dal territorio
nazionale anche se ha figli minori che studiano in Italia e anche se «l’allontanamento di un genitore o l’impossibilità di vederlo costituisce un sicuro
danno che può porre in pericolo il suo sviluppo psico-fisico». La Corte di
Cassazione, quindi, al fine di garantire l’interesse generale di tutelare le frontiere, non ritiene opportuno prendere in considerazione il riconoscimento
del diritto del migrante all’unità familiare poiché questa tesi, si legge nella
sentenza, «finirebbe col legittimare l’inserimento di famiglie di stranieri
strumentalizzando l’infanzia». Di fronte al caso generale (tutelare legalmente le frontiere) quello particolare del diritto allo studio del minore straniero
che frequenta con profitto la scuola e «che ivi abbia intrecciato stabili amicizie non è circostanza eccezionale né transeunte, poiché la scolarizzazione
dei minori medesimi fino al compimento dell’istruzione obbligatoria rappresenta un’esigenza ordinaria, collegata al loro normale processo educativo-formativo». Ciò significa che, non essendoci il carattere di emergenza, il
diritto allo studio della persona minore e immigrata, interpretato come bisogno ordinario, viene messo tra parentesi. Il giurista applica tale riduzione
fenomenologica perché non sussistono situazioni di contingenza ed eccezionalità, per esempio una grave condizioni di salute del minore che, invece,
avrebbe consentito al genitore di non essere espulso dal territorio italiano. Il
migrante viene, quindi, espulso anche se il figlio minore va a scuola perché
quest’ultima condizione non rientra tra i casi eccezionali che avrebbe potuto legittimare la deroga agli ordinari principi in tema di immigrazione. Il
diritto del migrante all’integrazione, allo studio e all’unità familiare è sacrificato in nome del diritto alla sicurezza. In sostanza il rispetto del diritto
dovuto alle singole persone entra in conflitto con il rispetto dovuto alla formalità della norma universale della legge che non guarda alla particolarità
dei casi e al riconoscimento delle singole situazioni.
Ciò che preoccupa di più – scrivono i co-presidenti dell’organizzazione
umanitaria EveryOne, Roberto Malini, Matteo Pegoraro e Dario Picciau –,
è che questa sentenza «viola tutti gli accordi e le disposizioni internazionali a tutela dei diritti umani. […] Contrapponendosi a tutte le norme che
tutelano i diritti dei migranti e dei rifugiati, nonché alla Convenzione ONU
per i Diritti del Fanciullo e alla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione
Europea, continuano gli attivisti, la Cassazione mette in primo piano la
tutela della legalità delle frontiere rispetto alla tutela della famiglia, dell’infanzia e dei diritti fondamentali della persona».7
7 Gruppo EveryOne, Sentenza Cassazione viola i diritti umani, comunicato stampa dell’11-03-2010,
consultabile su www.everyonegroup.com.
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Solidarietà 62/2010
Tenendo presente che nella sentenza della Cassazione non sono esplicitati i reati per i quali il migrante è espulso dal nostro territorio l’intento di
questo studio è quello di riflettere sulla possibilità di coniugare il riconoscimento legale della sentenza con quello del riconoscimento etico della persona. Certamente la violazione dei diritti della persona rende ancora più fragile la vita quotidiana di una minoranza, quella dei migranti, già duramente
segnata da altri discutibili interventi legislativi che promuovono modelli di
integrazione ispirati a processi formativi di separazione culturale della persona differente.8 Mi riferisco alla mens legis del decreto legge che istituisce
le classi di ‘inserimento’ per quegli alunni stranieri che non superano test e
specifiche prove di valutazione della lingua italiana. Nella mentalità di questo decreto la formazione degli alunni stranieri non avviene in un contesto
globale, multietnico e multiculturale, che, come si è sperimentato già in questi anni, favorisce esperienze reciproche di riconoscimento interculturale,
ma in un contesto formativo isolato e separato dalle classi ordinarie permanenti. È amaro constatare come l’istituzione delle classi di ‘inserimento’ per
alunni stranieri misconosce sul piano pedagogico la metafora del «sé come
un altro». In questo caso il riconoscimento del diritto dell’altro alla propria
diversità culturale è vissuta, sul piano legislativo, non come una ricchezza
con cui interagire nella logica della convivenza costruttiva, ma come un problema che mette in discussione e a rischio la cultura e le ideologie della scuola e della società. Si può tacere di fronte a questi scottanti problemi di convivenza sociale? Il diritto esula dalle riflessioni morali? Quale contributo ci
possono offrire i classici e le riflessioni della filosofia contemporanea intorno al tema dell’educazione al reciproco riconoscimento multiculturale e del
suo rapporto tra istruzione e cittadinanza, ovvero tra istituzione giusta e formazione delle coscienze democratiche?
Nel tentativo di percorrere la strada della «convivialità delle differenze»
e nello spirito di un modello di formazione dell’identità arricchita dalla
contaminazione trovo molto interessanti analisi e le aperture etico-filosofiche di J. Rawls e P. Ricœur. Tali riflessioni, a mio parere, rivolgono lo sguardo verso la costruzione di due società: la prima si dirige verso una «società
8 Decreto legge n.137 convertito in legge il 28 ottobre 2009 con il n. 169 voluto da Roberto Cota,
capogruppo della Lega alla Camera e governatore della regione Piemonte. A mio parere l’istituzione
delle classi di ‘inserimento’ promuove dei processi linguistici chiusi e separati che si allontanano dalle
esperienze di apertura e di integrazione, accoglienti e dialoganti, tipiche delle classi multietniche. La
mentalità di questo provvedimento promuove, quindi, un riconoscimento della cultura della persona differente isolandola dalle classi. Purtroppo queste classi ci ricordano le esperienze pedagogiche delle classi differenziali di una volta soppresse con la legge n. 517 del 1977, ancora considerata all’avanguardia in
tema di integrazione dei diversamente abili.
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Solidarietà 62/2010
concepita» rawlsianamente come distribuzioni di parti che esercita la giustizia secondo parametri procedurali e deontologici, autonomi da qualsiasi
riferimento al bene;9 la seconda, quella ricœuriana, verso una «società concepita come schema di cooperazione» che è qualcosa di più di uno schema
di distribuzione, poiché richiama il senso etico della comunità ed è in essa
che ciascun cittadino riconosce qual è la giusta parte che ivi detiene.10
Trovo molto affascinante l’idea di non arrestarsi all’interno di un’opposizione sterile tra le due forme di società, tra approccio deontologico e
approccio teleologico perché questo studio, al di là di posizioni manichee
non vuole prendere posizione per l’una o per l’altra teoria, vuole, piuttosto,
muoversi fra prospettive diversificate per orientarsi verso l’unione tra la
morale kantiana e l’etica aristotelica superando la teoria della giustizia
Rawls intesa come fairness. Il tentativo è quello di assumere una prospettiva plurale che possa consentire di comprenderci più a fondo e di guardare
l’altro come possibilità di dialogo che ci introduce nel campo della tolleranza e dell’integrazione fra culture diverse, richiamandoci alla condivisione di valori comunitari.11 Di ricondurre, quindi, la prospettiva del riconoscimento legale e deontologico che, come abbiamo visto, non guarda alla
particolarità dei casi, verso la prospettiva del riconoscimento teleologico
della persona. Oltrepassare, quindi, il dovuto riconoscimento legale – esercitato al momento dell’emanazione di una legge o del pronunciamento di
una sentenza – regolato dal predicato dell’obbligatorio e coniugare, a sua
volta, tale connotazione con quella relativa ai tratti del buono e del bene. È
questa l’affascinante posta filosofica in gioco (l’engagement) di una società
che in clima di incertezze dovrebbe cercare di perseguire per il futuro stesso dell’umanità, in un mondo dove i conflitti sociali mettono in serio pericolo la sicurezza e la pace sociale. E, allora, di fronte all’impegno della pace
sociale, che si raggiunge all’interno del vincolo comunitario e di istituzioni
giuste, dobbiamo considerare utopica l’esperienza della giustizia come
riconoscimento etico della persona? Direi proprio di no.
Rawls, com’è noto, sulla scia di Kant guarda al diritto come carattere
universalistico dell’imperativo morale e, così, taglia il legame tra l’idea di
giustizia e l’idea di bene. La cosa più importante è che la società garantisca
a tutti delle condizioni minime di giustizia e concepisca i rapporti tra gli
9 Cfr. J. RAWLS, A theory of Justice, (1971), tr. it. di U. Santini, a cura di S. Maffettone, Una teoria
della giustizia, Feltrinelli, Milano 1982, 21.
10 Cfr. P. RICŒUR, Le Juste, Esprit, Paris 1995, 190-191, tr. it. e note a cura di D. Iannotta, Il giusto,
Sei, Torino 1988, 164-165.
11 U. SCARPELLI, Bioetica. Alla ricerca dei principi, in «Bioetica della libertà», 99 (1987), 11.
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Solidarietà 62/2010
uomini secondo l’idea di conformità alla legge seguendo l’impulso della
filosofia kantiana.12 L’equità è assicurata dalla favola del «velo d’ignoranza»
che non è altro che la «volontà generale» di cui parlava Rousseau.13 Si tratta di rinunciare alla propria volontà particolare e porsi sotto il «velo d’ignoranza» adottando il punto di vista della volontà generale ed azzerando
eventuali vantaggi naturali e sociali.14 Il giusto – che viene così razionalmente costruito dalle parti in causa del contratto – è subordinato non al
bene ma al legale. In una società concepita in tal modo la riflessione filosofica sulla giustizia si arresta sul raggiungimento della finalità a breve termine che una società democratica deve perseguire: pronunciare il giusto legale e garantire la tutela dei diritti generali e formali (nel caso preso in esame
il diritto alla sicurezza delle frontiere). Il concetto di fairness si coniuga,
quindi, con quello di equità legale, equità della situazione originaria che
stabilisce l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge; ma l’engagement delle società multiculturali ci induce ad allargare l’orizzonte rawlsiano di società e di giustizia andando verso un’idea di società vista come
«schema di cooperazione» e verso un’idea di giustizia che non soltanto concepisca i rapporti tra gli uomini secondo l’idea di legalità e di conformità
alla legge, ma che dica il diritto secondo i tratti aristotelici dell’equità e
della giustizia sociale. Si tratta di scommettere sul destino ulteriore della
formulazione di una legge o di una sentenza; dal riconoscimento legale è
necessario passare al riconoscimento di colui che, essendo nello status di
migrante, sta ricostruendo a fatica la sua identità e la sua cittadinanza. Se
l’auspicio ricœuriano è quello di «vivere all’interno di istituzioni giuste» ed
eque non si può rinunciare a tagliare il legame tra la giustizia e l’idea di
bene; in tal modo il senso della giustizia pur conservando il suo radicamento teleologico nell’auspicio della vita buona, trova la sua formulazione
razionale all’interno di norme formali e deontologiche ed accede alla pienezza concreta nel momento in cui il giusto si esercita nel tragico dell’azione. La prospettiva deontologica viene così ricondotta a quella teleologica,
non attraverso il senso strettamente giudiziario dell’atto di giudicare, ma
tramite la reconnaisance; sentimento molto profondo, che non assume la
dimensione di una grandezza giuridica in senso stretto, e non esprime il
risultato di una discussione svoltasi all’interno di un tribunale, ma il senso
ultimo di quest’atto che è quello strettamente etico-morale. Non si tratta
12 Cfr. Ch. TAYLOR, Le juste et le bien, in «Revue de métaphisique et de morale», 93 (1988), 33-56.
13 J. J. ROUSSEAU, Il contratto sociale, libro II, Mondadori, Milano 1997, cap. IV, par. 5.
14 J. RAWLS, Una teoria della giustizia, 28.
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più di applicare una semplice procedura di giustizia, ma di educarsi a condividere il riconoscimento dei diritti; significa approdare al piano morale
della discussione e quindi al riconoscimento di ciascuno della parte che gli
spetta nella ripartizione sancita dalla sentenza.
Pertanto se è vero che l’atto di giudicare raggiunge il suo scopo finale
quando colui che aveva sostenuto ragioni e motivazioni contrarie rigettate
dalla sentenza viene riconosciuto come soggetto di diritto (la sua causa
meritava di essere ascoltata; egli aveva argomenti plausibili e sono stati
ascoltati); il riconoscimento sarebbe completo soltanto se la cosa potesse
essere detta anche da chi, il migrante in questo caso, dovrebbe, a sua volta
poter dichiarare che «la sentenza, che gli ha dato torto, non era un atto di
violenza ma di riconoscimento».15 È attraverso questa fondamentale riflessione filosofica che Ricœur ci conduce ad una visione della società intesa
come schema di cooperazione ove ciascun cittadino, attraverso il reciproco
riconoscimento, riconosce qual è la giusta parte che detiene all’interno
della società. È dunque l’idea di riconoscimento, assente in Rawls ma presente nelle riflessioni di Ricœur, che costituisce il valore etico-morale della
giustizia ed il contenuto profondo di quella finalità a lungo termine dell’atto del giudicare che è la pace sociale, meta utopica della filosofia del diritto e meta finale di una filosofia, che percorre il cammino della costruzione
della cittadinanza multiculturale.
La società europea essendo interessata a profondi cambiamenti e dovendo risolvere, con estrema urgenza, il problema della convivenza multiculturale dovrebbe avere l’audacia di percorrere la via indicata dalla filosofia
del diritto poiché la pace sociale è l’utopia finale della filosofia del diritto.
Di questo orientamento sono debitrice nei confronti di Ricœur, il quale nel
ricercare e approfondire la nozione di riconoscimento all’interno della sua
etica intersoggettiva a tre poli, coniuga il criterio kantiano di universalizzazione della norma con quello aristotelico di phronesis e di giusto mezzo.16
La giustizia ha un posto nobilissimo all’interno di uno Stato di diritto e soltanto la parola che acquista un senso e che «dice il diritto» in modo equo
può affrontare la dialettica della complessità postmoderna. In una società
complessa come la nostra il diritto è chiamato a confrontarsi con tutte le
nuove questioni giuridiche sollevate dalle esperienze immigratorie e da una
società sempre più multiculturale. Ma non solo. Anche le scienze pedago-
15 P. RICŒUR, Il giusto, 164 e 174.
16 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, VI, 1139b, 20, traduzione, introduzione e note di C. Natali,
Laterza, Bari-Roma 1999.
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giche sono chiamate a riflettere con responsabilità sui processi di formazione alla cultura dell’accoglienza per mettere fine al respingimento della
persona fragile e all’esclusione sociale e simbolica dalla città.
Nel termine riconoscimento17 troviamo quindi una doppia logica, quella
di equivalenza che, in ambito giuridico, si articola come riconoscimento di
un diritto, e una logica di sovrabbondanza che si articola, invece, come
riconoscimento etico del valore di un individuo, ovvero come riconoscimento della singolarità insostituibile e della dignità di una persona. Per
questi motivi il riconoscimento non appartiene solo al linguaggio del diritto – che si rivolge sostanzialmente al rispetto della legge più che a quello
delle persone, ritenute esse stesse espressione di un’umanità astratta – ed
assume un valore sovra-giuridico.
La struttura duale del riconoscimento consiste dunque nella connessione tra l’allargamento della sfera dei diritti riconosciuti alle persone e l’arricchimento delle capacità che questi soggetti riconoscono a se stessi. Questo
allargamento e questo arricchimento sono il prodotto di lotte che scandiscono l’iscrizione nella storia di questi due processi solidali tra loro.18
Il riconoscimento, inteso con questo doppio significato,
interpreta delle situazioni in cui possono verificarsi delle correlazioni tra
riconoscimento di validità sul piano delle norme e riconoscimento di capacità sul piano delle persone. […] L’allargamento della sfera normativa dei
diritti, cui risponderà immediatamente l’estensione delle capacità possedute dalla persona giuridica, può essere osservata secondo due prospettive, da
una parte sul piano dell’enumerazione dei diritti soggettivi definiti dal loro
contenuto, dall’altra sul piano dell’attribuzione di questi diritti a nuove
categorie di individui o di gruppi.19
La plurivocità del riconoscimento ha, quindi, una ricaduta etica e morale
sulla giustizia e ci offre l’occasione di «pensare di più e altrimenti» il confronto tra le differenze e l’universalismo del diritto. Con esso si supera la fragilità
dell’agire da parte di un uomo che, considerato straniero e pur essendo capa17 Dal latino recognoscere, composto di re-intens e cognoscere «conoscere» significa identificazione,
presa d’atto dell’esistenza e della validità di qualcuno o qualcosa che già si conosce. Nel senso lessicale
del termine riconoscimento significa ritenere valido, fare attestazione di validità. Nel caso della persona
riconoscere significa identificarla libera e uguale ad ogni altra persona.
18 P. RICŒUR, Percorsi del riconoscimento, tr. it. di F. Polidori, Raffaello Cortina, Milano 2005, 223.
19 Ibidem, 224.
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ce e responsabile, vive l’affievolimento dei tradizionali requisiti di cittadinanza
poiché con la nascita delle società multietniche e le possenti ondate migratorie
si verifica una vera e propria dissociazione tra cittadinanza e nazionalità. Infatti i crescenti flussi migratori incrinano e mettono in crisi il quadro consolidato
del concetto di appartenenza nazionale, i meccanismi identitari e gli strumenti
di tutela giuridica dei cittadini. È proprio questa discrepanza antropologica che
costituisce la fallibilità umana e che salda insieme la capacità di fare qualcosa
nel mondo con la fragilità di quel fare stesso; il riconoscimento bene s’inserisce
in questo circolo fragile dell’agire e della responsabilità dell’uomo e punta, in
via di principio, alla ricostituzione dell’integralità personale, di un cittadino
straniero che chiede l’allargamento dei diritti civili e giuridici.
Attraverso il reciproco riconoscimento si accetta e si apprezza la diversità dell’altro. Si impara che siamo fatti per costruirci l’uno con l’altro, per
la condivisione, per l’interdipendenza. Il riconoscimento, esercitato dapprima attraverso la legge, arriva quindi al suo compimento solo se ci si
addentra nella sfera della coscienza e dell’incontro con l’altro seguendo un
modello di correlazione tra legge e coscienza, tra riconoscimento legale e
riconoscimento della persona. In questo orizzonte di senso l’immigrato non
è riconosciuto solo legalmente come capitale utile all’economia della nostra
società, ma come soggetto di diritto e come persona che desidera integrarsi in una società aperta alla convivialità delle differenze, al rispetto per la
sua cultura e per la sua esperienza immigratoria.
2. Riconoscimento e formazione dei cittadini al multiculturalismo
Queste riflessioni teoretiche, orientative sull’idea di riconoscimento e
dei suoi legami con il concetto di giustizia, sul piano pedagogico si traducono in domande aperte sulla questione della formazione delle coscienze al
multiculturalismo. In tal caso le domande che si possono formulare possono utilmente indagare, ponendo al centro il tema della cittadinanza, la
nozione di tradizione, la formazione del soggetto a partire dalla sua visione
del mondo e il suo rapporto di appartenenza alla comunità politica. Le questioni esplorano, quindi, il nesso appartenenza-soggetto-diritti poiché l’identità della persona e il contesto nella quale essa si sviluppa non è sempre
uguale, ma sottoposto a continue e molteplici modificazioni culturali e
sociali. Di conseguenza il discorso pedagogico sul piano delle buone prassi, che educano ad una formazione aperta all’incontro dell’alterità interculturale, presentano tutte le implicazioni precedentemente richiamate.
141
Solidarietà 62/2010
Finora i percorsi educativi che hanno cercato di far fronte alla sfida del
multiculturalismo si sono ispirati alla costruzione di modelli di formazione
per assimilazione o per integrazione della cultura differente. Tuttavia oggi si
conviene che anche in ambito pedagogico questi due modelli sono superati perché il primo chiede alla persona differente di elevarsi al modo di essere uomo della cultura che accoglie, il secondo chiede all’altro di integrarsi
nella cultura della società che lo ospita e, così facendo, lo si priva della sua
identità e alterità costitutiva. Il diverso diventa come noi, è uno di noi. In
ambedue i casi l’incontro con l’altro avviene a partire da uno sforzo univoco di decostruzione dell’identità. Tanto i processi di assimilazione quanto
quelli per integrazione non accolgono la differenza degli immigrati che,
così, rinunciano alla propria identità sacrificata sull’altare di una tollerata e
accettabile convivenza.
In alternativa a questi due modelli è possibile costruire altre modalità di
convivenza attraverso lo stile educativo del reciproco riconoscimento delle
relazioni multiculturali che non è somma indifferente di identità diverse,
ma sostegno reciproco dell’alterità. Quest’ultima via, certamente la più faticosa e impegnativa, al fine di garantire una felice convivenza chiede a ciascuna identità differente di rinunciare ad una parte della propria identità
originaria.20 Perché, se si vuole costruire una società giusta che crede nella
convivialità delle differenze, non possiamo chiedere all’altro di educarsi a
riconoscere solo la cultura che usa la logica del «vienimi incontro». Qui la
logica è, piuttosto, quella del «veniamoci incontro» reciprocamente, ricercando terreni di intesa e di dialogo comune, imparando così a crescere
insieme, a costruire progetti, condizioni e situazioni di vita futura.21 E allora, per essere all’altezza di questa logica del reciproco riconoscimento della
diversità è necessario costruire dei percorsi di formazione, scolastici e universitari, che incrementano la capacità di riflettere e di giudicare criticamente se stessi e le proprie tradizioni. Per formare dei cittadini capaci di
vivere a contatto con storie molto diverse è necessario che la scuola sappia
educare i suoi allievi ad assaporare «il relativismo della propria cultura,
della propria fede, delle proprie convinzioni, delle proprie persuasioni».22
Ciò vuol dire che se voglio comprendere l’altro devo, almeno un po’, sradicarmi dalla verità contenuta nelle visioni linguistiche e nei pregiudizi
della mia tradizione, evocarla in dubbio, interpretarla con un atteggiamen20 Cfr. C. VIGNA - S. ZAMAGNI, Multiculturalismo e identità, Vita e Pensiero, Milano 2003, in U.
Galimberti, I miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano 2009, 363.
21 B. SPINELLI, Ricordati che eri straniero, Qiqajon, Comunità di Bose 2005, 20-21.
22 U. GALIMBERTI, Educare al relativismo culturale, in I miti del nostro tempo, 379.
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to critico per ri-attualizzarla con intelligenza nel tempo presente.23 Per educare le menti al multiculturalismo è necessario conoscere, approfonditamente, la storia dei popoli che ci hanno preceduto, comprendere le origini
classiche che hanno esercitato un’influenza a livello formativo sulla nostra
stessa democrazia, conoscere le culture non occidentali e il valore delle
minoranze e delle differenze di genere dell’umanità (anche se purtroppo
nella Riforma scolastica italiana i programmi di storia sono stati ridotti
all’essenziale).
Sulle tracce di Nussbaum (studiosa del pensiero antico e sostenitrice dei
diritti umani in ordine ad un ripensamento della giustizia umana) è necessario pensare ad una formazione delle persone
in grado di operare con sensibilità e prontezza come cittadini del mondo».
E per fare questo «possiamo risalire al concetto socratico di “vita esaminata”, alla nozione aristotelica di “cittadinanza riflessiva”, e soprattutto alle
nozioni degli stoici greci e romani sull’educazione, che è “liberale” in quanto libera la mente dalle catene dell’abitudine e della tradizione.24
Dobbiamo, quindi, coltivare delle competenze e capacità che ci possano sostenere a vivere «come esseri umani legati ad altri esseri umani da
interessi comuni e dalla necessità di un reciproco riconoscimento».25 In un
mondo complesso e interdipendente coltivarsi come esseri umani significa,
innanzitutto, concepirsi come cittadini del mondo appartenenti al genere
umano al di là, quindi, del proprio sentire di gruppo o nazionale (italiano,
americano, francese …); sfidare le tradizioni e metterle in gioco accettando
solo le credenze che «resistono alle richieste di coerenza e di giustificazione razionale»; essere capaci come cittadini di «ragionare insieme sulle proprie scelte» superando il gioco delle opinioni fini a se stesse e lontane da un
dialogo vero; «immaginarsi nei panni di un’altra persona, di capire la sua
storia personale, di intuire le sue emozioni, i suoi desideri, le sue speranze».26 Nella mia pratica di insegnante ho avuto modo di sperimentare quanto sia efficace sviluppare quest’ultimo requisito della cittadinanza che Nussbaum definisce «immaginazione narrativa» perché esso permette di com23 Sulla questione della ri-attualizzazione della tradizione mi permetto di rinviare al mio saggio La
cura dell’altro nel dialogo interculturale in FilosoFare, cura e orientamento al valore, a cura di A. Volpone, Liguori, Napoli 2009, 205-216.
24 M. NUSSBAUM, Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo, l’educazione contemporanea,
Carocci, Roma 2001, 23.
25 Ibidem, 25.
26 Ibidem.
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Solidarietà 62/2010
prendere e di identificarsi con la storia dell’altro e, di conseguenza, di giudicare il significato delle azioni e dei discorsi che, altrimenti, rimarrebbero
per noi incomprensibili. Inoltre, coltivare la competenza narrativa del
ragionare insieme significa costruire nuove storie collettive a partire dalla
propria autobiografia, in un contesto di relazione e di scambio dialogico
che esclude i punti fermi e la chiusura del pensiero.27
A questo punto si pone il problema dei modelli di insegnamento a sostegno della promozione di questi requisiti di cittadinanza. Anche l’insegnamento dovrebbe essere socratico, «dovrebbe essere in grado cioè di esercitare a pensare in maniera critica e a costruire argomentazioni valide» attribuendo «un’importanza centrale alla filosofia» e all’importanza del viaggiare che stimola «la capacità di guardare al mondo da punti di vista diversi e permette di avvicinarsi alle conoscenze [multiculturali] con uno spirito
ricco di comprensione».28 La complessità postmoderna e le rapidità di cambiamento del mondo multiculturale in cui viviamo richiedono la formazione di una mente capace di pensare, cioè in grado di scegliere, prendere
decisioni, risolvere problemi. Le attività didattiche di insegnamento non
possono, quindi, limitarsi solo a far acquisire informazioni e conoscenze,
ma devono sviluppare negli studenti la capacità di entrare nei meccanismi
della mente attraverso interventi e strategie specifiche di pensiero. Non si
tratta solo di informare e conoscere molte nozioni, né di privilegiare forme
tecnicistiche ed efficientistiche di insegnamento, che da sole non possono
garantire lo sviluppo delle capacità critiche e riflessive. Nella tradizione
didattica l’insegnamento si concentra prevalentemente sui contenuti da
apprendere e non sui processi di apprendimento, sulle procedure e sullo
sviluppo di un uso consapevole delle abilità di pensiero degli studenti.29 Si
tratta, quindi, di «riconsegnare il pensiero alla sua naturale funzione di
“strumento di civiltà”, di nuova e continua “umanizzazione”».30
In questa direzione il vasto contributo sociologico e psicologico, filosofico e pedagogico dei vari programmi e curricoli che puntano l’attenzione
sull’educare e imparare a pensare possono certamente rappresentare delle
risorse e degli strumenti irrinunciabili e innovativi. Sono molti i modelli che
27 Cfr. A. TIGANO, Autobiografia e tradizione. La questione dell’esserci nella postmodernità, introduzione di F. Pulvirenti, Sciascia, Caltanissetta 2009.
28 M. NUSSBAUM, Coltivare l’umanità, 27.
29 M. SANTERINI, Processi educativi e interazione culturale, F. Angeli, Milano 1996, 16.
30 M. DE BENI, Imparare a pensare: i meccanismi della mente, in «Scuola e didattica», 12 (2010) LV,
54. Dello stesso autore cfr. Imparare a pensare. Percorsi sperimentali, Libera Editrice Universitaria, Verona 2003.
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Solidarietà 62/2010
aiutano a sviluppare e a potenziare i processi di pensiero. Tra quelli più
interessanti – e maggiormente oggetto di attenzioni scientifiche da parte dei
Dipartimenti Universitari di Scienze dell’Educazione e da parte delle scuole per l’applicabilità pratica – , ricordiamo i seguenti programmi: Thinking
di E. De Bono;31 l’Instrumental Enrichment di R. Feuerstein,32 il Mental
Training di C. Cornoldi, R. De Beni, G. Colpo;33 il Productive Thinking Program di M. Covington;34 il Progetto Zero della Graduate School of Education
dell’Università di Harvard35 e la Philosophy for children di M. Lipman.36
A mio parere non c’è dubbio che il contributo della filosofia alla formazione dei cittadini sia decisiva poiché, praticando da anni una formazione che si concentra sulla capacità di interrogare e giustificare problemi che
si muovono intorno alle tematiche della cittadinanza, della legalità e dell’intercultura, nel tempo ho raccolto i frutti di un insegnamento dialogico
che pone in rilievo l’argomentare socratico. A volte ho la sensazione che il
tempo dedicato alle sessioni filosofiche e alle attività del pensare sia speso
inutilmente e a discapito dei programmi scolastici. Tuttavia questo tempo
mi viene restituito in profondità quando i miei allievi, spesso improvvisa31 E. DE BONO, Thinking Cours, (1996), tr. it. Saper pensare, Sovera, Roma 1997. Dello stesso autore: Sei cappelli per pensare, tr. it., BUR, Milano 2001; Come pensare, Il Sole 24 Ore libri, Milano 2007. Il
Programma di E. De Bono è stato applicato presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Verona.
32 R. FEUERSTEIN, Il Programma di Arricchimento Strumentale di Feuerstein, Erickson, Trento 2008.
33 Il gruppo Mental Training opera presso il Dipartimento di Psicologia di Padova. Per una bibliografia essenziale si rimanda a: C. CORNOLDI - R. DE BENI - C. VOCETTI, Gruppo MT, Nuova guida alla
comprensione del testo. Livello A: attività per gli alunni dagli 8 ai 12 anni, Erickson, Trento 2003; C. CORNOLDI - R. DE BENI - B. CARRETTI - C. MENEGHETTI, Nuova guida alla comprensione del testo. Introduzione teorica generale al programma. Prove criteri ali livello A e B, Erickson, Trento 2003.
34 M.V. COVINGTON, The Productive Thinking Program, Merril, Columbus 1974; M. V. COVINGTON
- K. M. TEEL, Prevenire i fallimenti scolastici, Erickson, Trento 1996.
35 Progetto Zero è un gruppo di ricerca sulla formazione della conoscenza che ha sviluppato un
Programma sperimentale sui meccanismi dell’apprendimento, forme di insegnamento e di valutazione
personalizzati. Co-direttori del gruppo di ricerca sono E. O. Wilson, celebre ecologo, e H. Gardner,
principale rappresentante della teoria delle intelligenze multiple.
36 M. LIPMAN, Thinking in Education (2003), tr. it. di A. LEGHI, Educare al pensiero, Vita e Pensiero, Milano 2005. In italiano il curricolo della Philosophy for children di M. Lipman, presentato attraverso una serie di racconti destinati a varie fasce d’età, dalla Scuola dell’infanzia alla Scuola secondaria di
secondo grado, è pubblicato dalla casa editrice Liguori di Napoli. L’obiettivo del Programma è quello di
sviluppare il senso della cittadinanza e di sviluppare nei bambini la competenza del filosofare per diventare gradualmente parte di una comunità di ricerca che è ciò che la società postmoderna chiede ad ogni
cittadino. Per alcune esperienze educative di Philosophy for children nell’ambito dell’intercultura si
rimanda a D. G. CAMHY - U. GLAESER - S. PAAR, Philosophy for children come strategia di prevenzione
contro la xenofobia e il razzismo, in Philosophy for children: un curriculo per imparare a pensare, a cura di
M. Santi, Liguori, Napoli 2005, 111-122. In Italia il curricolo di Lipman è applicato dai Dipartimenti di
Scienze dell’Educazione di Padova, Napoli e Catania.
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Solidarietà 62/2010
mente e sorprendendomi, mi restituiscono dei pensieri eticamente e socialmente orientati, capaci di ricercare il senso di molte questioni importanti
per l’esistenza (l’amore, l’amicizia, la libertà, il rapporto mente-corpo, la
giustizia …). Inoltre nelle cosiddette «micropratiche educative», di volta in
volta, programmate con le colleghe di classe, gli allievi che, da tempo,
hanno sviluppato delle competenze filosofiche dimostrano di essere molto
abili nel costruire interpretazioni e significati ampi e alternativi.
Ultimamente ho sperimentato il Programma della Philosophy for children di M. Lipman in alcune classi e contesti della scuola primaria i cui
destinatari sono stati alunni italiani e rumeni dell’Istituto Comprensivo «L.
Capuana» di Piazza Armerina che, da tanti anno ormai, accoglie bambini
stranieri e adotta la pedagogia interculturale come paradigma che valorizza i molteplici aspetti della diversità umana.37 Una scuola, quindi, al passo
con i tempi, poiché è attenta allo sviluppo dei processi immigratori presenti
nel territorio locale. I bambini si sono avvicinati a concetti come quelli di
identità, somiglianza, differenza, amicizia e amore, pensiero, corpo-mente.
In particolare ci siamo concentrati sul pensiero creativo, cercando di realizzare un concetto di cittadinanza attraverso la pratica dell’immaginazione
narrativa.38 Coniugare la questione dell’educazione alla cittadinanza in un
contesto educativo che guarda ad una felice convivenza tra culture diverse
significa filosofare intorno alle questioni che riflettono sulle tematiche della
persona, dell’uguaglianza e della diversità. E così, attraverso la lettura di
Pixie,39 uno dei racconti che fa parte del curriculum della Philosophy for
children di Mattew Lipman, gli alunni si sono interrogati su alcune questioni cruciali: « - Che cosa vuol dire essere una creatura misteriosa? Possiamo essere uguali e diversi allo stesso tempo? Che cosa significa essere
stranieri? Il mistero ci riguarda? Se noi ci consideriamo normali perché
qualcuno ci considera diversi e misteriosi? Quali sono i sentimenti delle
creature misteriose?».
Pixie è stato un valido pretesto per invitare i bambini a pensare la differenza, le cose e il mondo da diversi punti di vista, per sviluppare la capaci37 Cfr. F. P. MINERVA, L’intercultura, Laterza, Roma-Bari 2004, 14.
38 Il Progetto “Philosophy for children. Educare alla cittadinanza attiva”. Laboratorio filosofico per
l’integrazione interculturale è stato promosso dal Sert di Piazza Armerina (Enna) nell’a.s. 2009/2010 e
nell’ambito del Progetto Immigrazione finanziato dal D.P.R. n.309/1990. Esso è stato patrocinato dall’Assessorato alla Pubblica Istruzione e dall’Associazione culturale Meltemi di Piazza Armerina e dal
Centro di Ricerca per l’Indagine Filosofica (CRIF) di Roma. L’esperienza educativa dimostra quanto sia
importante, per la complessità delle questioni affrontate, costruire un’alleanza tra scuola, istituzioni,
associazioni culturali presenti nel territorio e le famiglie.
39 M. LIPMAN, Pixie, adattamento cura e traduzione di A. Cosentino, Liguori, Napoli 1999.
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Solidarietà 62/2010
tà di mettersi nei panni dell’altro facendo della diversità di tutte le persone
una vera fonte di ricchezza culturale e non di immotivata paura. Alla fine
di ogni sessione filosofica gli alunni hanno sempre valutato positivamente
l’esperienza educativa. Per loro filosofia significa: «pensare con la propria
testa e con quella degli altri», «vivere nuove esperienze» e «pensare insieme», «mettere insieme le idee per raccontare storie nuove», «meravigliarsi», «avere voglia di dialogare e ascoltare»; gli alunni hanno affermato che
la filosofia serve a: «capire le cose», «ad accogliere gli altri», «ad interrogare le domande», «a riflettere» e «fare nuove idee». Ancora una volta questi
piccoli filosofi con i loro sguardi, i loro dubbi, il loro stupore, il loro
domandare radicale insegnano al mondo degli adulti che la via del dialogo
è garanzia di pluralismo. E che la competenza del filosofare getta le basi per
costruire comunità educative pensanti che credono nell’affermazione di
una cultura dell’accoglienza e dell’integrazione. Il lettore attento che avrà
la pazienza di leggere i dialoghi dei bambini40 scoprirà nelle loro interessanti riflessioni che dietro la domanda «Che cosa significa essere una creatura misteriosa?» si nasconde il significato dell’identità della persona, ovvero il bene della diversità. I bambini hanno pensato la creatura misteriosa
come philia perché Pixie, metafora del flusso inarrestabile dell’oralità, è l’amico di tutti che ci sollecita ad utilizzare i saperi in funzione della costruzione di un pensiero elastico, flessibile, critico, capace di ascoltare le ragioni dell’altro. Educare a pensare, quindi, nella prospettiva dell’amicizia
significa impegnarsi a vivere la relazione educativa come rispetto e valorizzazione di tutte le differenze, come cura e attenzione all’altro, come accoglienza di tutte le identità perché l’ospitalità non è un’identità chiusa, ma
identità che trova in sé «lo stesso e l’altro». Educare a pensare significa
vivere la scuola come luogo dove si instaurano relazioni affettive, si fanno
nuove scoperte, si interpretano i linguaggi del sapere e si costruiscono
nuovi racconti per vivere nel mondo insieme ai compagni e con l’aiuto
sapiente dei docenti. Lo scopo è quello di vivere la diversità come luogo di
benessere della persona, promuovere la salute, quindi, e prevenire comportamenti di abuso attraverso processi educativi che sviluppano forme di
collaborazione tra la sanità e la scuola per costruire contesti di relazione
culturale integrati. Intesi in questo senso i processi educativi – che sposano
40 I dialoghi dei bambini sono stati puntualmente registrati. A conclusione del Progetto Immigrazione è stato realizzato un libro scolastico che oltre a documentare le sessioni filosofiche si è rivelato un
utile strumento per analizzare, secondo l’approccio socio-costruttivista, i processi di pensiero attivati
dagli alunni, l’interazione verbale della comunità di ricerca e per autovalutare l’azione di scaffolding del
docente-facilitatore delle sessioni filosofiche.
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Solidarietà 62/2010
la metodologia del filosofare e della maieutica socratica e che guardano con
attenzione ai flussi migratori presenti nel nostro territorio – ridisegnano la
geografia locale in una dimensione globale e costituiscono la migliore
forma di prevenzione della salute e di ogni forma di abuso, di comportamenti devianti dalla socializzazione democratica e di mancanza del rispetto dei diritti di tutti e di ciascuno. È questo il contrassegno formativo della
filosofia con i bambini nella scuola primaria, una scuola che, nonostante le
difficoltà di oggi, scommette nell’educare le menti attraverso la fatica del
dialogo e la costruzione dei saperi. In alternativa alla formazione del pensiero unico il tentativo è stato quello di proporre delle esperienze filosofiche e pedagogiche che valorizzano la ricchezza del dialogo e la pluralità dei
punti di vista. E tutto questo è possibile solo se nella scuola si promuovono dei modelli educativi e di formazione che educano al valore del dialogo
e della riflessione. Questi corsi, insomma, forniscono gli ingredienti essenziali per educarci al bene del riconoscimento della differenza umana in una
società che è, ormai, plurale e multiculturale poiché si concentrano su argomenti di attualità che difficilmente trovano posto nei programmi scolastici.
Infatti, secondo il programma della Philosophy for children diventare buoni
cittadini significa sviluppare le competenze del pensiero critico. Ma significa, anche, qualcosa di più. Imparare a pensare in modo creativo e valoriale, ovvero essere capaci di usare l’immaginazione creativa che aiuta i
nostri studenti a pensare al di là del loro ambiente particolare e della propria tradizione di appartenenza, ed essere capaci di amare e di essere amici
per comprendere persone diverse da loro. Infatti il dialogo che avviene
dentro la classe trasformata in una comunità di ricerca insegna, prima di
tutto, a rispettare le idee e i punti di vista degli altri, ad essere aperti alle
diversità dei contributi culturali e a correggere le proprie credenze e pregiudizi errati chiarendo le argomentazioni.41
Questa è la nuova dignità che dobbiamo restituire a noi stessi, come
docenti-ricercatori e come formatori, e ai nostri studenti: educarci alla
libertà, intesa non solo come riscatto dall’ignoranza socratica, ma soprattutto come riconoscimento che molto spesso non sappiamo pensare insieme perché crediamo, con presunzione, che il nostro sapere e il nostro
punto di vista sia superiore a quello degli altri. E per essere liberi dobbiamo decentrarci per coltivare una visione policentrica della verità che ricerca modelli di pensiero che apprendono nella logica dell’interscambio e
della correzione reciproca. In questo orizzonte di senso educare a pensare
41 Cfr. M. LIPMAN, Il ruolo della comunità di ricerca in educazione, in Educare al pensiero, 109-116.
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Solidarietà 62/2010
è un’opportunità che si offre ai nostri studenti e alle nostre scuole per coltivare la nostra stessa umanità di uomini e donne che scommettono nel dialogo riflessivo, socratico ed ermeneutico per riconoscersi reciprocamente,
vivere felici nel mondo e costruire un futuro di pace. Per promuovere un
nuovo Rinascimento del pensiero. E il pensare diventa, così, quel cammino
capace di superare le ostilità e di testimoniare, incarnandola, l’ospitalità
delle differenze che ci interpellano mettendo in gioco la nostra stessa autenticità. È questa una visione rinnovata della cultura della formazione che si
ispira ai valori della giustizia, del riconoscimento e della democrazia dialogante e partecipativa. Una visione della formazione che non dimentica la
lezione della scuola di Barbiana di don Milani il quale nella sua Lettera ai
giudici scrive:
La scuola è diversa dall’aula del tribunale. Per voi magistrati vale solo
ciò che è legge stabilita. La scuola invece […] è l’arte delicata di condurre i
ragazzi sul filo del rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità (e
in questo somiglia alla vostra funzione), dall’altro la volontà di leggi migliori cioè di senso politico (e in questo si differenzia dalla vostra funzione).42
In questa prospettiva – dove la legalità è continuamente rimandata dal
piano deontologico a quello teleologico, etico e politico, e che assegna alla
scuola un ruolo fondamentale e importante – la formazione è incentrata sul
capitale sociale-relazionale, sulla conoscenza relazionale fra le parti e fra
queste e le istituzioni, sulla capacità di dare risposte efficaci ai problemi
della convivenza multiculturale per impegnarci in una ricerca capace di
produrre benessere personale e collettivo. Si tratta di guardare alla formazione come forza mobilitatrice che sostiene l’educarsi al bene del reciproco riconoscimento per ottenere giustizia e felicità. Coniugare termini come
riconoscimento, giustizia, educare a pensare, cittadinanza, legalità e sicurezza sociale, significa prefigurare una nuova rete in grado di porre la persona al centro di queste relazioni nello spirito autentico della partecipazione e dell’impegno a costruire la ‘casa’ comune. Una persona capace di vivere nell’Europa comunitaria e nel mondo inteso come luogo comprensivo di
tutte le identità nazionali e civiltà che si sono intrecciate e sviluppate in
secoli di storia.
42 L. MILANI, Lettera ai giudici, in M. Gesualdi (a cura di), San Paolo, Cinisello Balsamo 2007, 274.
149
Solidarietà 62/2010
Summary
Educating to the recognition of the other in multicultural society
In our modern global society we often ask ourselves if it is possible to go
beyond the concept of society as a scheme of distribution that conceives justice
exclusively from a legal and deontological point of view. We would like to suggest
a widen perspective according to which society is seen as a scheme of cooperation
based on the Aristotelian idea of the ethic and teleological recognition of cultural
pluralism. This horizon of sense includes the conception of the reciprocal recognition of the person and the capacity to welcome the diversity thanks to people’s
education to multiculturalism. In alternative to the models of assimilation and integration in this essay we suggest the hypothesis of formative processes that promote programmes based on the search of a common dialogue among different identities asked to re-examine their traditions in a Socratic way. The task of post modern
multicultural education is to educate to freedom and to the recognition of the
thought as an instrument of civilisation.
150
S
olidarietà
62/2010: 151-165
L’evoluzione del marketing turistico
in marketing relazionale
e turismo relazionale integrato
Fedele Termini
1. Il marketing turistico agli albori e la nascita del turismo integrato fondato sulla relazione. Il contributo della psicologia del turismo
Il marketing turistico, nonostante si possano rintracciare dei prodromi
nelle iniziative di turismo organizzato per gruppi da Thomas Cook nel
1845,1 nasce e si sviluppa negli ultimi decenni del XX secolo come insieme
di attività e strategie finalizzate ad attrarre e orientare flussi turistici.2 Nel
tentativo di assurgere ad un ambito di dignità scientifica per la comprensione dei fenomeni legati allo spostamento di individui durante il leasure
time e avvertendo la necessità di basare le tecniche su un piano di inquadramento teorico, si affidò esclusivamente alla possibilità di dipendere da
una scienza con tradizioni più antiche e decisamente più forti come l’economia. Questa scelta di campo nel tempo si rivelò riduttiva e limitante e
non è un caso se la definizione di marketing turistico nell’era post-moderna
è stata sostituita con quella di «scienze del turismo», proprio a risaltarne la
vocazione eclettica, multi e interdisciplinare che avrebbe fatto affondare le
sue radici nell’antropologia, nella psicologia, nell’etica, nella statistica ed in
generale, nelle scienze politiche e sociali.
Ma andiamo per ordine. Nella fase iniziale di dipendenza teorica dall’economia, il marketing turistico fonda i suoi principi teorici mutuandoli dall’elaborazione teorica di un economista di fama internazionale, Philippe
Kötler, che con il marketing mix3 stabilisce, come in una ricetta, quali sono
1 Cfr. G. GULOTTA, Psicologia Turistica, Giuffrè, Milano 2003.
2 La parola «marketing», entrata nel linguaggio quotidiano, è spesso utilizzata con accezioni distorsive e limitanti: in alcuni casi è identificato con la pubblicità, la promozione e la vendita e, quindi, con
tutti quei mezzi utilizzati per conquistare i mercati; in altri casi è un insieme di strumenti di analisi che
le grandi imprese dispongono per prevedere ed indagare i bisogni e le esigenze di mercato. Infine, viene
percepito come una fonte di corruzione in quanto origine della società dei consumi.
3 Cfr. P. KÖTLER - G. ARMSTRONG - J. SAUNDERS W. WONG, Principi di marketing, ISEDI, Milano 2002.
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Solidarietà 62/2010
i fattori (gli ingredienti) su cui fare leva per offrire un prodotto turistico. In
questa fase iniziale, infatti, viene applicato al servizio turistico un modello
che è ben lontano dal concepire il marketing come un processo di «costruzione sociale»,4 secondo la definizione che ne dà J. Lambii,5 e che vuole
riduttivisticamente concepire e trattare il servizio con le stesse leggi che
regolano il prodotto. Kötler, infatti, individua nelle quattro «P» (Product,
Price, Place, Promotion) le leve che bisogna azionare e modificare per la
concretizzazione dell’offerta turistica.
Questa visione meccanicistica, poteva solamente constatare le differenze
tra le caratteristiche del prodotto e quelle del servizio, definendo l’uno standardizzato, visibile, tangibile ed immagazzinabile, mentre l’altro, in antitesi,
invisibile, intangibile, inimmagazzinabile e non standardizzabile. A questo
punto necessitava una nuova riformulazione del marketing turistico dal
momento che rimanevano fuori dalla considerazione teorica gli aspetti relativi alla relazionalità del servizio e la necessità di una ubiquità e contemporaneità tra gli interlocutori dell’azione, l’offerente e il fruitore del servizio.
Nel 2002, a distanza di qualche decennio dalle teorie di Kötler, Michel
Archambault, titolare della cattedra di Turismo all’Università del Quebec a
Montreal, nella III sessione del Focus «Turismo integrato nel Mediterraneo
- Medibit», intitolata Comunicazione e nuove tecnologie, proponeva nella
sua relazione, Turismo e Comunicazione, un approccio integrato, molto
interessante e coinvolgente, consistente nel sostituire le quattro «P» classiche del marketing del prodotto con tre nuove leve, le tre «E»: Experience,
Exciting (o Emotion), e Education, sicuramente più vicine alla realtà del
marketing dei servizi ed, in particolar modo, di quello turistico.6 Nella
parte centrale del suo intervento il relatore sottolineava con forza il cambiamento della domanda e della motivazione turistica:
Ciò che vuole la gente nel momento in cui effetua un viaggio o intraprende una vacanza, è ‘experience’, ‘knoweledge’ and ‘passion’. Sono queste
le nuove ‘leve’ che si impongono in un quadro generale di definitivo superamento del turismo di massa: 1) la ‘conoscenza’ come aspetto educativo o
4 Per dare un quadro generale del significato del marketing come campo di studi e di applicazioni,
possiamo riferirci alla definizione che ne dà Jean Jacques Lambin: «Il marketing è il processo sociale
orientato verso la soddisfazione dei bisogni e dei desideri degli individui e delle organzzazioni, che interagisce con la creazione e lo scambio volontario e concorrenziale di prodotti o servizi generatori di utilità per gli acquirenti».
5 Cfr. J. J. LAMBIN, Marketing, Mc Graw-Hill, Milano 1992.
6 Cfr. F. TERMINI, Sistemi familiari, stili di vacanze, pester power e turismo familiare. Una ricerca empirica tra la psicologia clinica e la psicologia del turismo, Franco Angeli, Milano 2007.
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di arricchimento culturale; 2) l’‘esperienza’,7 intesa come possibilità unica,
non di guardare i luoghi turistici “dall’esterno”
nel ruolo di spettatori distanti, ma di vivere in maniera ‘autentica’, la ‘quotidianeità’ dei luoghi e delle popolazioni che si incontrano durante il viaggio, svolgendo in quell’arco temporale le stesse attività e mangiando gli
stessi cibi delle popolazioni autoctone; 3) la sfera ‘affettiva’ ed ‘emozionale’
sono le dimensioni umane intorno alle quali si fonda il potere di attrazione
di un’esperienza turistica concepita come incontro non solo di persone ma
anche e soprattutto di culture ed appartenenze diverse.
Nel marketing dei servizi turistici post-moderno, dove si dovrebbe privilegiare un’integrazione dei due precedenti modelli, quello kötleriano e
quello di Archambault, io propongo, ad ulteriore integrazione un terzo
gruppo di leve, definite le tre «H»: History, Hospitality e Human Relations.
Con «storia» intendiamo la ricerca e la conoscenza storico-antropologico
(non solo di eventi reali della storia passata ma anche di miti e leggende)
del passato dei luoghi visitati da utilizzare come ‘risorse’ di un territorio che
ci possono permettere di ‘trasformare’ il territorio stesso fornendone
immagini e rappresentazioni differenti;8 ma non solo, infatti la ricerca sto7 Il fattore «esperienza», ha anche una valenza antropologica, infatti può riguardare anche la possibilità di rivivere la ‘storia’ e il ‘tempo delle origini’ di un territorio ospitante, con la possibilità di identificarsi in luoghi, riti, eventi che appartengono sì alla storia antica, ma che segnano l’identità del gruppo
sociale a cui sono riferiti. Così come in Nuova Zelanda alcuni servizi turistici (vedi, per esempio, il Tamaki Maori Village) offrono la possibilità di ‘vivere’ per un giorno come gli antichi e valorosi guerrieri
maori, così in Italia potrebbero essere “riconsiderate” le ricorrenze e le festività religiose (vedi processioni e riti) per rivivere la ‘spiritualità’, la ‘sacralità’ dei nostri luoghi, intesi come contesti.
8 Qui il termine rappresentazione ha una valenza psicologica e fa riferimento al diverso modo di
‘percepire’ il sito turistico attraverso una ‘riscoperta’ della sua storia; nel castello Manfredonico di Mussomeli in provincia di Caltanissetta, per esempio, troviamo una storia estremamente interessante, che
presenta elementi di verità storica che successivamente si trasformano in leggenda: è una bellissima storia d’amore tra Guiscardo Della Portas, mercenario spagnolo assoldato dall’esercito aragonese in Sicilia,
e la stupenda Esmeralda, figlia di un nobile siciliano. In quel periodo i nobili siciliani fungevano da ago
della bilancia nell’equilibrio di dominio tra aragonesi e angioini, l’alleanza con loro garantiva ai due
schieramenti di prevalere l’uno sull’altro. Al momento in cui Guiscardo ed Esmeralda si innamorano, la
nobiltà dell’isola è alleata degli angioini: il loro amore è, quindi, ‘impossibile’ sia per la loro differente
condizione sociale, sia, soprattutto, perchè gli schieramenti a cui appartengono sono adesso nemici. Guiscardo viene catturato in un agguato e portato al castello di Mussomeli dove verrà, in catene e sotto torture, fatto morire di inedia. Attualmente il ‘fantasma’ di Guiscardo che si aggira tra le stanze del castello, dopo aver ‘raccontato’ la sua storia all’usciere del sito ha ottenuto la cittadinanza addirittura dal sindaco di Mussomeli; tuttavia nessuno ha pensato di utilizzare questa storia leggendaria come ‘risorsa’ per
offrire una ‘rappresentazione’ innovativa del castello grazie alla quale il servizio ‘monolitico’ del sito
potrebbe essere differenziato in tanti altri servizi turistici quali, un ‘week-end’ con il fantasma, da offrire a segmenti del mercato nord-europeo; ‘a cena’ con il fantasma dove i fruitori indossano gli abiti medievali dell’epoca; il ‘cantastorie’ che intrattiene ed incanta i piccoli visitatori del castello con le sue storie
fiabesche, etc.
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rica può riguardare sia il territorio della società ospitante, sia la storia dell’azienda turistica che offre il servizio, con le sue tradizioni, le origini, il
marchio, l’identità, così come tutto ciò che le appartiene in termini di evoluzione storica e suo ciclo di vita.
Il secondo fattore, l’«ospitalità», presenta una accezione di natura prettamente psicologica e clinica dal momento che non fa riferimento semplicisticamente ai canoni e ai criteri dell’ospitalità turistica (detta anche accoglienza turistica), ma va inteso alla stessa maniera del concetto di «accoglienza» psicologica degli utenti o dei sistemi-clienti, realizzata sulla base
dell’ «analisi della domanda» della richiesta di aiuto. Grazie ad essa noi
professionisti possiamo cogliere dietro la richiesta di aiuto dei pazienti, formalizzata in modo esplicito, verbale ed ufficiale, un’altra che rimane sottesa, implicita e nascosta, che viene rintracciata e fatta emergere per potere
definire gli obiettivi e dare avvio all’intervento potendo in questo modo
completare la fase della consulenza. Allo stesso modo quando un sistemacliente (individuo, coppia, famiglia o gruppo) richiede un servizio turistico9
fa una richiesta esplicita che, per poter essere soddisfatta veramente, deve
soddisfare quella implicita; solo così il sistema cliente si sentirà accolto e
compreso.10
La dimensione delle relazioni umane, infine, può essere considerata l’elemento di maggiore distinzione e differenziazione tra il marketing del prodotto e quello dei servizi, in generale, dal momento che questi ultimi si fondano sulla relazione, qui concepita secondo la pragmatica della comunica-
9 Ricordiamo che anche quello clinico è un servizio e che tra quello clinico e quello turistico possono essere rintracciate delle analogie proprio sulla base del concetto di «accoglienza».
10 Un vecchio sito www.bambiniinriviera.it ci ricorda che l’Assessorato Provinciale al Turismo della
Regione Emilia Romagna in accordo con i principali referenti delle strutture ricettive alberghiere della
riviera romagnola ha ideato e poi puntualmente realizzato, nei primi anni del 2000, un progetto strategico per ‘riposizionarsi’ nel mercato turistico che, a partire dagli anni Settanta, era stato tradizionalmente
rivolto a ‘single’ o gruppi di giovani che frequentatavano le discoteche. I principali interlocutori adesso
diventano le famiglie con bambini (minori da 0 a 10 anni) che al momento dell’arrivo in albergo vengono “accolte” da alcuni operatori turistici che consegnano alla famiglia il ‘kit’ per bambini contenente
strumenti quali, carta-matita per poter disegnare in camera, il fischietto con il salvagente da gonfiare a
forma di draghetto, lo stesso del logo del sito, e altri gadget ancora. In questa ‘accoglienza strategica’
viene colto e soddisfatto il bisogno ‘implicito’ del sistema-cliente famiglia con figli minori che è quello
di far trascorrere il ‘tempo libero’ (leasure time) dei bambini attraverso il ‘gioco’ e la ‘socializzazione’.
Solo così i clienti piccoli in albergo non si trasformeranno nella cosiddetta «variabile impazzita», che
intralcierebbe il fluido e programmato scorrere dei servizi ricettivi. In quest’ottica diventano, anzi, clienti ‘privilegiati’ da ‘coccolare’ per fidelizzare l’intero sistema familiare. F. Termini, Sistemi familiari, stili
di vacanze, pester power e turismo familiare: F. Parenti (a cura di), Manuale di marketing sulle vacanze di
famiglie con bambini, Assessorato al Turismo dell’Emilia Romagna - Provincia di Rimini.
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zione umana,11 quindi in termini prettamente psicologici e all’interno di
una prospettiva sistemico-relazionale.
2. La nascita del marketing relazionale
A seguito delle riflessioni ed evoluzioni che hanno interessato il paradigma tradizionale del marketing in generale e di conseguenza anche di
quello turistico, si sviluppa, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, un approccio innovativo, il Relationship Marketing (marketing
relazionale). Lo spunto proviene da constatazioni, nella fase iniziale prevalentemente di carattere empirico, sull’inadeguatezza del marketing
management ad essere applicato efficacemente sia al settore dei servizi,
turismo compreso, che a quello dei beni industriali. Il marketing relazionale si sviluppa quindi, quasi contemporaneamente, in questi due
ambiti e si propone come obiettivo di iniziare a negoziare e gestire le
relazioni di scambio con gruppi chiave di interesse al fine di perseguire
vantaggi competitivi sostenibili in specifici mercati, sulla base di accordi
a lungo termine tra i clienti e i fornitori. Secondo questa impostazione il
marketing, che andrebbe inteso come management delle relazioni,
dovrebbe essere cioè rivolto a creare, mantenere e gestire un network di
rapporti di lungo periodo.
L’obiettivo di sopravvivenza e crescita dell’impresa viene quindi perseguito, secondo questo nuovo approccio, attingendo al cosiddetto patrimonio relazionale. Elemento innovativo e la centralità e la reciprocità dei rapporti che si sviluppano tra le parti: entrambi gli attori coinvolti riscoprono,
infatti, un ruolo attivo nelle transazioni poste in essere. Il modello di scambio preso a riferimento si caratterizza per la bi-direzionalità, assumendo, in
questo modo, caratteristiche di maggiore complessità in quanto non riguarda più solamente beni e denaro, ma anche informazioni e rapporti di natura sociale. Ulteriore elemento distintivo è l’evoluzione dell’orizzonte temporale di riferimento che in questo ambito si individua nel medio/lungo
periodo in quanto le relazioni richiedono tempo per essere analizzate,
costruite e mantenute. Il nuovo paradigma di marketing relazionale si sviluppa, quasi contemporaneamente, con particolare riferimento a due specifici ambiti di applicazione, che tutt’oggi rimangono i settori in cui si sperimentano le più avanzate evoluzioni di questo approccio: il settore dei ser11 Cfr. P. WATZLAWICK - J. H. BEAVIN - D. D. JACKSON, Pragmatica della comunicazione umana. Studio sui modelli interattivi delle patologie e dei paradossi, Astrolabio, Roma 1971.
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Solidarietà 62/2010
vizi ed il mercato dei beni industriali. Il marketing relazionale ha sperimentato un importante sviluppo nell’ambito dei servizi. Questo è stato
favorito dalla particolare dinamicità ed attenzione alle soluzioni più innovative nel settore dei servizi, in quanto ambito di applicazione nuovo per il
marketing. Inoltre, le caratteristiche strutturali di questo settore rendono
maggiormente evidenti i vantaggi che questo approccio può comportare. I
più recenti studi di marketing relazionale, con riferimento al settore dei servizi, si stanno focalizzando soprattutto sulla tematica della fidelizzazione
della clientela che, dato il mutato contesto competitivo in cui queste aziende si trovano oggi ad operare, riveste per gli operatori un’importanza strategica crescente. In particolare gli operatori devono prendere in considerazione due principali aspetti: il desiderio del cliente di stabilire un rapporto
di lungo periodo con la controparte e il grado di dipendenza sviluppato
con quest’ultima.
3. L’applicazione del marketing relazionale al turismo relazionale integrato
Una consistente parte della domanda turistica nei paesi di prima industrializzazione (secondo gli ultimi dati disponibili circa il 24%) ha manifestato, negli ultimi anni, un crescente interesse per la cultura locale, per gli
usi e i costumi originali, non trascorrendo passivamente la vacanza ma
facendo piena esperienza del luogo che visita. Ciò significa che tali turisti
non sono più tanto interessati a ricevere il servizio turistico standard, bensì
il nuovo turista-viaggiatore, con una molteplicità di motivazioni e aspettative, è più consapevole del reale valore dello scambio con culture differenti e guarda soprattutto a ciò che gli viene offerto dal territorio e dalle comunità locali. Tra le nuove motivazioni che spingono alla scelta di una località rientrano – oltre alla bellezza dei luoghi, al patrimonio culturale, al desideri di svago e divertimento – le “relazioni”. La relazionalità è diventata
una componente talmente rilevante che il turista dopo una prima visita
torna più volentieri laddove risulta soddisfatta la sua domanda di relazionalità. Questa componente relazionale nel turismo si manifesta sia sul fronte della domanda, composta dall’insieme dei nuovi viaggiatori con spiccata
propensione alla relazione e desiderosi di essere considerati come residenti temporanei, sia sul fronte dell’offerta, intesa come l’insieme di risorse territoriali, materiali ed immateriali, e degli attori locali chiamati in gioco e in
grado di stimolare, sostenere e/o costruire relazioni stabili e durature con
l’ospite. Pertanto, la presenza di una relazione tra comunità locale e ospiti
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Solidarietà 62/2010
che visitano un territorio, è la condizione necessaria per poter sviluppare
forme di turismo relazionale integrato.
Attraverso una combinazione di relazioni, innanzitutto interpersonali,
in cui i soggetti generatori di servizi turistici, al di la di un mero orientamento alla vendita, fanno proprio un atteggiamento di sentita e condivisa
ospitalità che permetta di recuperare il gusto di far scoprire la bellezza e la
peculiarità del proprio patrimonio storico, artistico, folkloristico, enogastronomico e soprattutto d’umanità; cambia il ruolo e la posizione dei
fruitori che, da semplici consumatori finali, diventano soggetti generatori
di valore, protagonisti possibilmente chiamati a completare attivamente la
stessa offerta turistica.
Il turismo relazionale integrato può essere definito come «un turismo
che privilegia le relazioni interpersonali e ambientali stimolando la sensibilità storico-culturale e la sostenibilità dello sviluppo nel dialogo tra offerente e ricevente e che integra i settori produttivi e commerciali nella micro
e media dimensione».
Ovvero un turismo radicato nel territorio che fa perno sulla micro
impresa e che valorizza l’immenso patrimonio culturale e naturalistico non
soltanto nei grandi ma anche nei piccoli centri. Inoltre, questo tipo di turismo è strettamente legato alle relazioni umane con un rapporto immediato
e diretto tra chi offre il servizio e chi ne gode. Appare evidente come, nel
turismo relazionale integrato, la relazione umana sia la principale dimensione alla base del processo di scambio tra i soggetti. La relazione con contenuti ben specifici è un certo grado di intensità, riempie di significato uno
spazio dove normalmente avvengono continui contatti tra visitatori e protagonisti dell’offerta turistica. Tuttavia la semplice relazione non diventa
condizione sufficiente per poter definire il T.R.I., dal momento che deve
essere dotata di caratteristiche e specificità tali da renderla un valore
aggiunto per fruitori e utilizzatori, per ospiti ed imprese, per residenti temporanei e comunità locale. La componente relazionale diventa quindi parte
essenziale di un servizio turistico, ovvero elemento di differenziazione, a
condizione che venga percepita ed offerta in maniera spontanea ed articolata secondo modalità chiare ed identificabili.
Il turismo relazionale integrato, supera il tradizionale concetto di offerta e domanda turistica, privilegiando le relazioni interpersonali e ambientali stimolando la sensibilità storico culturale, nel dialogo tra offerente e
ricevente. Attraverso l’integrazione tra i settori produttivi nella micro e
media dimensione, con l’ausilio delle tecnologie avanzate, persegue ed
incoraggia lo sviluppo sostenibile. L’aggettivo integrato sta quindi ad indi157
Solidarietà 62/2010
care che questa tipologia di turismo offre il territorio nella sua interezza,
con la sua storia, la sua geografia, il suo «clima antropico» e i suoi prodotti tradizionali. Il turismo inteso come ‘pacchetto organizzato’, invece, ha
portato ad uno scollamento fra i luoghi visitati e la vita reale che in essi si
svolge quotidianamente, esperienza che ha contribuito in maniera preminente alla costruzione della ‘risorsa territorio’, e che ora diventa il suo ‘valore intangibile’.
Nel turismo di massa il cliente assiste ad una rappresentazione di vita
vissuta inserita in uno scenario ricostruito e controllato dall’imprenditore
tour-operator; la censura generata nelle relazioni fra gli uomini, appare il
riflesso più evidente. Il “turista”, al contrario del viaggiatore/ospite, non è
più una persona con la sua fisicità e le sue caratteristiche di umanità, ma un
tassello di ingranaggio più ampio che non interferisce con la comunità locale. Ciò è in assoluto contrasto con la natura umana, sempre pronta ad istaurare relazioni con altri uomini, e si allontana dalla figura del viaggiatore originario che, proprio su queste relazioni, costruiva la sua esperienza di viaggio. Tra gli obiettivi del turismo relazionale integrato vi è, invece, quello di
mantenere nel territorio il plusvalore turistico, considerando anche gli ulteriori apporti derivanti dalle attività che potremmo definire di “indotto”. Il
turismo relazionale è infatti «integrato» con le attività e le risorse del territorio, cioè assolve un ruolo di stimolo sulla micro economia, seguendo un
processo capillare, proprio a partire dai settori agro-alimentare, artisticoculturale, produttivo-artigianale e storico-antropologico. Per buona parte,
l’ospitalità offerta dal turismo relazionale integrato è un’ospitalità della
stessa tipologia del turismo rurale (casali, bagli, masserie, ville extraurbane,
ecc.), coinvolgendo anche alcune parti dei centri storici delle città, dei borghi e dei paesi e allargando l’offerte a tutto l’ambiente, antropizzato e non,
ai suoi prodotti, alla sua storia e alla sua cultura.
La tipologia delle unità ospitanti, che coincide con un’offerta diffusa di
piccole abitazioni familiari opportunamente attrezzate, consente all’ospite
di maturare una reale consapevolezza dell’ambiente storico-naturale e delle
vocazioni territoriali, in un contesto che coinvolge il normale stile di vita
della comunità locale. Chi realizza la gestione diretta dell’offerta vive nei
luoghi, svolge attività legate alla tradizione e radica redditi nel territorio. Il
turismo relazionale integrato, in altri termini, consente di recuperare le
risorse reali dei territori e di rimetterle in gioco per uno sviluppo auto-centrato, attraverso un processo di innovazione che passa dalle nuove tecnologie, dalla riorganizzazione dell’offerta delle risorse territoriali, dal recupero
delle abilità relazionali dell’uomo, senza tralasciare un adeguato processo
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Solidarietà 62/2010
di formazione/informazione continuo e mirato per i diversi livelli ed attori
del sistema. Proprio in questa direzione di valorizzazione delle risorse reali
e delle caratteristiche intrinseche del territorio, il turismo relazionale integrato può essere inteso come risorsa aggiuntiva per la preservazione del
patrimonio culturale e delle ‘identità culturali’ legate alle caratteristiche
peculiari del luogo.
Le logiche di integrazione tra domanda ed offerta turistica, che in uno
spazio relazionale parti di un unico processo simbolico, stimolano il dialogo ed il confronto soprattutto tra micro realtà imprenditoriali e viaggiatore
ospite, di fatto perseguono linee di sviluppo coerenti e armoniche con la
cultura e l’economia locale della comunità ospitante.
Si delinea quindi un approccio in cui la pianificazione urbanistica e territoriale e le logiche dello sviluppo territoriale, applicate nello specifico del
settore turistico, rappresentano una non trascurabile opportunità per la salvaguardia, la valorizzazione e la rivitalizzazione, in una parola per la riqualificazione creativa ed integrata delle aree marginali e a basso sviluppo. Si
riconosce quindi al T.R.I. il ruolo di reale alternativa di sviluppo all’interno
di strategie che consentano un riequilibrio territoriale fra aree molto urbanizzate (antropizzate) e aree “svuotate” e abbandonate (de-antropizzate),
considerando tutti i fattori necessari al processo di recupero e di riqualificazione (fisici, economici, sociali, culturali) ed evitando di puntare soltanto su aspetti vincolistici e normativi o meramente economici.
Adottando un approccio sistemico, questo modello di sviluppo territoriale basato sulla consapevole responsabilità del singolo e declinato almeno
nelle cinque forme individuate di sostenibilità elementari (le cinque «S»),
può costituire rapidamente una forma innovata di «sostenibilità totale».
Le cinque «S», ossia le cinque tipologie di sostenibilità elementari, individuate dagli studi sul turismo relazionale integrato condotti dai progetti di
sviluppo territoriale sono:
• sostenibilità ambientale, salvaguardare le caratteristiche naturali ed
antropiche del territorio rafforzando quell’equilibrio armonico tramandato dalla storia della comunità.
• Sostenibilità sociale, ridare il giusto valore alle relazioni umane, fra i singoli individui e fra società diverse, nell’ottica della reale conoscenza e
del rispetto rispetto reciproco e recuperare, dove smarrita, la capacità di
dialogo fra le generazioni per la trasmissione dei saperi locali legati alle
identità culturali specifiche.
• Sostenibilità umana, riportare l’uomo al centro delle scelte, delle politiche e delle strategie di azione locale per lo sviluppo e delle iniziative dei
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processi di produzione e consumo in un’ottica di neo umanesimo o umanesimo post-moderno.
• Sostenibilità economico-finanziaria, ripensare al proprio risparmio credito affiancando alle grandi banche nazionali e transnazionali, gli istituti
della banca locale, dell’auto-finanza e del micro credito, come uniche
forme di capitale interessate ad un investimento nel piccolo e coinvolti
nello sviluppo del locale.
• Sostenibilità tecnologica, stimolare l’impiego reticolare delle quattro
micro-tecnologie nel campo della produzione di energie alternative, del
riciclo dei rifiuti, del controllo del ciclo delle acque e della telematica
per l’informazione e la comunicazione; considerando la responsabilità
individuale come chiave di volta per il prossimo futuro.
4. Il valore e la funzione della dimensione estetica nel campo della disabilità
Da molteplici esperienze effettuate a livello di laboratori, comunità terapeutiche, case di accoglienza, etc., emerge che il momento estetico di fronte all’oggetto d’arte, culturale o monumentale (ciò che noi siamo soliti definire il «bello») o l’azione effettuata su trasposizioni simboliche di esso in un
«contesto ludico» (riproduzioni pittoriche, pitture di quadri, disegni, attività manuali creative, ed altro) costituisce un’esperienza con un elevato
potenziale terapeutico, catartico ed espressivo non solo per utenti con
diversabilità, ma addirittura per utenti con diagnosi psichiatrica (vedi le
esperienze a riguardo effettuate da S. H. Foulkes12 durante e dopo la seconda guerra mondiale all’Ospedale Militare di Northfield nei pressi di Londra e le esperienze riabilitative sperimentate nelle strutture manicomiali
con il processo di cambiamento apportato in Italia da F. Basaglia).
L’oggetto storico, artistico, monumentale, parla di sé, ci racconta molte
storie di fatti, eventi o personaggi del passato, che sinteticamente vengono
racchiusi in esso e che in esso devono essere ‘scoperti’, così come avviene
con il ‘bello’ quando viene ‘svelato’; addirittura, in alcuni casi l’«esperienza del bello» può essere costituita dalla scoperta di una ‘verità’ che ri-affiora o da una invenzione scientifica. Il bene culturale ha una potenza evocativa che è pari solo ad una delle espressioni più alte del genere umano in
ambito artistico, la poesia.
Oltre l’aspetto «contemplativo» dell’esperienza estetica, che ritroviamo
12 Cfr. S. H. FOULKES, La psicoterapia gruppoanalitica, Armando editore, Roma 1976.
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Solidarietà 62/2010
in alcune forme di espressione religiosa o in altri campi delle attività umane,
se ci dovessimo addentrare in un’analisi antropologica e psicologica più
approfondita, è presente un’altra possibilità di fruizione del bello che è proprio quella di poterlo ‘creare’ e ‘rintracciare’ in una dimensione di ‘attraversamento’ ludico e, quindi, in un contesto ludico. Qui possiamo subito comprendere come la dimensione ludica ed estetica siano strettamente collegate fra loro per cui attraverso l’una possiamo raggiungere l’altra.
Come afferma C. Genuardi:
Qualsiasi oggetto o qualsiasi performance dei nostri ragazzi è incontestabilmente “bella”, una bellezza che non affiora dal confronto con canoni
precisi dettati dalle varie arti, ma per le sensazioni e i sentimenti che consente loro di evocare. Il concetto del “bello” matura non tanto da un giudizio sulla perfezione o sulla tecnica adoperata, quanto dal fatto che il soggetto si trova là, davanti qualcosa che prima non c’era e vi si specchia, medita e comunica ciò che è parte di sé. Questo qualcosa che era dentro, ha
acquistato una forma ed è diventato creazione.13
Su un versante parallelo, in una ricerca effettuata da psicologi, sulla cittadinanza infantile come esperienza ludica e sulla simbolizzazione degli
adulti e soggettività dei viaggiatori bambini, emerge la necessità di legare
l’esperienza turistica al gioco; prende voce il bisogno di una conoscenza
dell’ambiente che non sia solo intellettiva e visiva ma anche corporea; non
manca, perfino nei piccolissimi, la capacità dei bambini di “empatizzare”
con i monumenti, «sofferenti perché deturpati», per esempio.
È presente una forte identificazione cognitiva ed emotiva nei confronti
della loro città, sia sotto il profilo storico/culturale sia riguardo a quegli
avvenimenti che con alterne vicende l’hanno segnata, desiderio/bisogno
che può essere espresso nel racconto di un’ipotetica passeggiata alla scoperta del territorio con una compagnia ideale da loro scelta, spesso identificata in un coetaneo, o in un personaggio fantastico ma pur sempre capace di guardare il mondo con i loro stessi occhi, come ad esempio ET.
Ci viene a questo punto facile effettuare un’analisi della domanda, intesa appunto in senso psicologico, dei bisogni ‘reali’ di queste due particolari tipologie di utenza turistica: minori, diversabili e, come vedremo più
avanti, le loro famiglie. Che cosa chiedono a noi operatori turistici, le famiglie con figli minori o quelle diversabili? In che modo dobbiamo modificare le strutture, le tecniche e le strategie per ‘accoglierli’?
13 C. GENUARDI, Estetica e Terapia, in «Solidarietà», 41 (2002), 109-136.
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Solidarietà 62/2010
Alcune risposte potrebbero essere le seguenti: utilizzare guide bambine
per visitatori bambini, che raccontino la storia del luogo da visitare attraverso la narrazione delle avventure della vita, dei loro coetanei vissuti lì nel
periodo fondativo; la presenza di uno spazio per la creatività infantile all’interno dei siti monumentali, dove i bambini possano disegnare ciò che stanno scoprendo o farne una ricostruzione a puzzle, magari con il computer,
oppure sporcarsi le mani con la pittura a dita, riproducendo figurativamente il dipinto storico o l’oggetto d’arte, potendolo ‘attraversare’ e conoscerlo meglio, mediante l’attività ludica; la realizzazione di fasce orarie o
aree nelle quali i siti artistici siano riservati a giochi, come la caccia al tesoro, oppure il “nascondino”, tematizzati sul contenuto del sito stesso; la presenza di personaggi in costume che mettano in scena una breve storia
ambientata dentro il monumento, con ‘oggetti parlanti’ e guide/pagliacci
che raccontino in modo spassoso e musicato le informazioni più importanti; la presenza di una stanza che, all’interno del monumento, lo riproduca
con materiali adatti ad essere manipolati e smontati, ed esoneri dal divieto
di toccare le opere d’arte che spesso viene loro rivolto; la possibilità di essere accompagnati da un cantastorie personale che, durante la scoperta del
luogo, immagini per loro di ambientare avventure in musica.
Inoltre, i viaggiatori bambini e/o diversabili vorrebbero la condivisione
dell’esperienza turistica con coetanei del posto che visitano, e la possibilità
di «giocare insieme» nei posti artistici più belli per scoprirli attraverso la
propria creatività.
Non dimentichiamo che il contesto ludico, il ‘gioco’, consente, ad un
bambino o ad un adulto ‘dis-abile’, di diventare ‘divers-abile’.
5. L’importanza strategica del turismo familiare
Non è un caso se molti operatori turistici parlano semplicemente di
vacanze familiari e non tecnicamente di «turismo familiare». Quest’ultimo
pur essendo un dato di fatto, un vero e proprio fenomeno in continua evoluzione, non è ancora considerato una compiuta opportunità di sviluppo
del sistema ricettivo italiano e del più ampio settore turistico che lo comprende.
Eppure il mercato del turismo familiare non rappresenta una piccola
nicchia, ma il più grande segmento del mercato turistico; alcune cifre bastano per farsi un’idea delle dimensioni di questo target: in Italia le coppie con
figli sono oltre dieci milioni e rappresentano il 61,2% del totale dei nuclei
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familiari. In particolare sono quasi due milioni le famiglie al cui interno troviamo bambini sotto la soglia dei tre anni e cinque milioni se si sposta la
soglia di riferimento ai cinque anni. Nel nostro paese, inoltre, i bambini tra
0 e 10 anni sono cinque milioni, il 15%, cioè, della popolazione italiana.14
La grande anomalia del sistema turistico italiano è rappresentata dal
fatto che molte famiglie italiane, anziché scegliere, come avviene in altri
paesi del continente europeo, una struttura ricettiva, quale un albergo, preferiscono le case di proprietà o le case private in affitto, creando così un
altro fenomeno strettamente collegato al turismo familiare che è per l’appunto il turismo sommerso.
L’esigenza di scegliere soluzioni esterne o alternative all’offerta del turismo organizzato e di ‘riprodurre’ in vacanza condizioni molto simili alla
vita familiare quotidiana, utilizzando una casa o un’abitazione privata al
posto di una struttura che offra comodi servizi e vantaggiosi comfort, è
stata dettata, più che da aspetti antropologici legati alle caratteristiche delle
famiglie italiane, da due fattori, uno di carattere economico rappresentato
dal fatto che la spesa da affrontare per un’intera famiglia nelle strutture
ricettive sarebbe eccessiva (i prezzi, ancora oggi nelle strutture alberghiere,
vengono definiti sulla base del numero di persone, non considerando la
camera, per esempio, nel suo insieme, come unità di costo); ed un altro,
legato alla mancanza di servizi di accoglienza adeguati per bambini, che ha
prodotto nel tempo sia un’errata percezione della famiglia in vacanza da
parte degli operatori, sia la conseguente «sindrome di Erode» per cui la
presenza di ospiti più piccoli è vista come motivo e origine di confusione e
addirittura di intralcio al fluido e programmato scorrere dei servizi ricettivi. I figli minori pre-adolescenti, così, anziché dei clienti da coccolare e
fidelizzare, in quest’ottica diventano la variabile ‘impazzita’ che nessuno
riesce più a controllare, proprio perché esce dai rigidi, ed ormai superati,
schemi con i quali concepire le strutture di accoglienza.
Da un’indagine di sociometrica effettuata su un campione di famiglie
italiane è emerso che esiste una differenza di opinioni tra le famiglie che
hanno bambini al di sotto dei cinque anni e quelli che li hanno di età superiore; per i primi l’ostacolo da superare per una maggiore frequentazione
delle strutture ricettive è la mancanza di servizi destinati ai più piccoli (opinione del 17,5%), mentre per il secondo gruppo di famiglie l’ostacolo maggiore è rappresentato dal prezzo del pernottamento (almeno per il 45%).
14 Cfr. A. PREITI - T. ERIKSSON, Il turismo familiare, ricerca di Sociometrica finanziata dall’APT
(Azienda Promozione Turistica) di Roma per conto dell'Assessorato alla Cultura, Sport, Turismo e Spettacolo della Regione Lazio 2003.
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Solidarietà 62/2010
Questa percezione della difficoltà a soggiornare in strutture ricettive
con bambini molto piccoli si collega con la necessità rispetto alle località
turistiche di una maggiore disponibilità di parchi attrezzati, di verde pubblico e di servizi specifici. Tanto sono radicate queste convinzioni delle
famiglie italiane che le ritroviamo persino nella scelta della tipologia di
località: infatti, le famiglie preferiscono le destinazioni balneari, perché le
grandi spiagge, i luoghi aperti che vi sono connessi, le ampie battigie permettono una gestione dei figli più agevole e meno faticosa.
Solo partendo da queste premesse importanti si può comprendere lo
stato attuale delle opportunità disponibili per una famiglia che effettua una
vacanza con figli piccoli. Al momento attuale solo ad un livello teorico possiamo parlare di «turismo familiare», dal momento che ad un livello pratico non esiste, proprio perché se da un lato esistono le famiglie che viaggiano e vanno in vacanza, dall’altro non esistono strutture e strategie adeguate per accoglierle.
Oggi, sempre di più, si avverte la necessità di considerare l’importanza
rappresentata dal segmento delle famiglie con figli minori per lo sviluppo e
la promozione del turismo in Sicilia. A tal fine è necessario conoscere non
solo i bisogni e le motivazioni delle famiglie ma anche e soprattutto l’organizzazione relazionale assunta in funzione delle differenti fasi del loro ciclo
di vita. L’epistemologia sistemico-relazionale, su cui si basa il lavoro sopra
esposto, ci potrebbe permettere di cogliere l’altro aspetto dell’analisi rappresentato dalle strutture e dai servizi turistici e come questi possano
potenziare la loro capacità di accoglienza e migliorare, quindi, la customer
satisfaction.
Summary
The evolution of tourist marketing into relational marketing
integrated relational tourism
There is the increasing need of having an integrated image of tourism, allowing
the contributions of apparently distant sciences such as ethics, history, anthropology, psychology, statistics, economics, social sciences and politics which all can
have an important role. While waiting for the contributions from philosophy and
epistemology, we can say that it is thanks to this inter and multi-disciplinary
approach that today we can talk about what is known as Tourist Sciences or Studies
Moreover a systemic-relational approach, has allowed an evolution of tourist
164
Solidarietà 62/2010
marketing into relational marketing and integrated relational tourism.
Finally, psychology, together with economics, have contributed historically to
the development of marketing in general and of services in particular, with
“demand analysis” transforming the traditional way of conceiving hospitality in the
tourist sector. (traduzione di Peter Cipolla)
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S
olidarietà
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APPENDICE
S
olidarietà
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Cattolici nell’Italia di oggi.
Un’agenda di speranza per il futuro del paese
Documento preparatorio
per la 46ª Settimana Sociale dei Cattolici Italiani
a cura del Comitato Scientifico e Organizzatore
delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani
Introduzione
1. Quando a metà del 2008 il Comitato Scientifico e Organizzatore iniziò a lavorare per la preparazione della 46ª Settimana Sociale, si rese conto
della grande eredità che aveva ricevuto dalla Settimana Sociale del centenario (Pistoia-Pisa, 2007), che aveva richiamato la forza e la piena attualità
della nozione di bene comune maturata nella esperienza storica dei cattolici e nel Magistero della Chiesa. Grande ricchezza abbiamo ricevuto anche
dal IV Convegno Ecclesiale Nazionale (Verona, 2006), che aveva riproposto l’esercizio della speranza cristiana.
Abbiamo avuto poi le parole chiare e forti pronunciate in Sardegna da
Benedetto XVI sull’urgenza di lavorare alla formazione di una «nuova
generazione» di uomini e di donne credenti capaci di assumere responsabilità pubbliche nella vita civile e dunque anche nella vita politica.1
Da quelle eredità e da quel richiamo – ripetuto dal Papa stesso un anno
dopo a Viterbo2 e rinnovato di recente dal Card. Angelo Bagnasco, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana3 – traemmo motivo per dedicare la 46ª Settimana Sociale a uno sforzo di declinazione della nozione di
bene comune con specifico riferimento alla situazione del nostro Paese. Ci
sembrò e ancora ci sembra un modo importante di esercitare, condividere
e testimoniare la speranza cristiana.
Durante questo percorso è ulteriormente maturata la coscienza che la
responsabilità per il bene comune riguarda tutti,4 che non può essere esclu1 Cfr. BENEDETTO XVI, Omelia nel Santuario di N.S. di Bonaria, Cagliari, 7 settembre 2008.
2 Cfr. BENEDETTO XVI, Omelia in occasione della Concelebrazione Eucaristica in Valle Faul a
Viterbo, 6 settembre 2009.
3 Cfr. Prolusione alla sessione del Consiglio Episcopale Permanente, 25-27 gennaio 2010, n. 8.
4 Cfr. COMITATO SCIENTIFICO E ORGANIZZATORE DELLE SETTIMANE SOCIALI DEI
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Solidarietà 62/2010
siva di alcuni settori della pastorale o di individui con particolari cariche
pubbliche. La pubblicazione dell’enciclica di Benedetto XVI Caritas in
veritate ha segnato il momento culminante di questa prima fase preparatoria, con la ricchezza magisteriale di analisi e di nuove prospettive offerte
non solo ai cattolici, ma a tutti coloro che hanno a cuore il primato della
persona umana. Per quanto riguarda poi la vita del nostro Paese, vogliamo
tener presente in modo particolare il recente documento dei Vescovi Per un
Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, che ci tocca da vicino anche
per la scelta, fatta a suo tempo, di celebrare la 46ª Settimana Sociale a Reggio Calabria.
Questo Documento è stato pensato per l’ultima fase del lavoro preparatorio e per avviare le giornate di Reggio Calabria. Esso non pretende di
essere un testo di sintesi o di riepilogare l’insegnamento della Chiesa e l’esperienza sociale dei cattolici. Ciò che vuole offrire e condividere sono
alcune buone ragioni perché proceda l’opera di discernimento necessaria
alla declinazione, oggi, in Italia, della nozione di bene comune.
I. Bene comune globale e questione nazionale
2. Non c’è dubbio che l’accelerazione del processo di globalizzazione è
una delle caratteristiche che marcano più a fondo il tempo e lo spazio in cui
siamo chiamati a vivere.
Le trasformazioni che la globalizzazione comporta in parte provocano e
in parte devono affrontare gravi crisi; nello stesso tempo mettono in discussione equilibri che, prima di rivelarsi inadeguati, avevano assolto positive funzioni. Il caso forse più eclatante è quello della crisi finanziaria e più
in generale socio-economica, che nel biennio appena trascorso ha conosciuto la sua massima evidenza. Certamente parte delle molte cause di questa crisi hanno a che vedere con una cattiva gestione della globalizzazione
delle istituzioni economiche. Tuttavia, la possibilità di un positivo superamento di questo momento suppone non una rinuncia ma un uso coraggioso e innovatore dei nuovi assetti e delle opportunità che la globalizzazione
ha prodotto per le istituzioni e le dinamiche economiche (e dunque anche
finanziarie). Rinunciare alle possibilità offerte da un’economia (e dunque
anche da una finanza) globale è un lusso che solo pochi possono permettersi ed è funzionale esclusivamente a ripristinare le posizioni che alcuni di
CATTOLICI ITALIANI, Documento conclusivo della 45ª Settimana Sociale Il bene comune oggi: un
impegno che viene da lontano, 2008, n. 3.
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Solidarietà 62/2010
questi pochi avevano.5 Anche se la globalizzazione non produrrà spontaneamente le risposte che cerchiamo, la relativa maggiore indipendenza
degli ambiti e dei livelli costituisce una condizione favorevole alla loro realizzazione (cfr. CV 21).
Non meno preoccupante è lo stato di salute in cui si trovano le società
“occidentali” (quelle europee e quelle influenzate dalla cultura europea). Il
loro dinamismo economico e demografico, la loro leadership scientifica e
tecnologica o la coscienza della propria identità e l’intensità del proprio
patrimonio spirituale conoscono affievolimenti e attenuazioni. Il rischio
non è certo costituito da una redistribuzione globale delle forze o da un
qualsiasi mutamento degli equilibri strategici, senza voler considerare quelli “occidentali” come i modelli sociali perfetti. Un rischio molto serio è
invece costituito dal frequente difetto di quel realismo che dovrebbe far
riconoscere in queste società, con tutti i loro limiti e le loro gravi responsabilità, l’offerta migliore finora avvenuta e più facilmente universalizzabile
delle migliori condizioni vita e del maggiore – per quanto mai pienamente
soddisfacente – riconoscimento della dignità della persona umana. Persino
sul piano della sicurezza, inclusivo della dimensione militare, va valutato
con grande prudenza il pericolo costituito dall’avverarsi di uno scenario nel
quale la forza a disposizione di autorità che controllano società meno libere divenga superiore rispetto a quella a disposizione di società più libere. Il
rischio non è solo di veder deperire le condizioni di sicurezza in cui viviamo, ma anche quello di lasciar minacciare e pregiudicare le condizioni in
cui versano interi continenti. È il caso dell’Africa, per il cui sviluppo e la
cui libertà non abbiamo fatto abbastanza in passato e ancor meno stiamo
facendo negli ultimi decenni per cercare di porre freno alla tentazione di
fughe disperate, garantendo nel contempo l’accessibilità e la sicurezza delle
rotte e dei canali attraverso i quali si spostano beni, informazioni e persone. Non c’è né pace, né sviluppo, né giustizia, senza libero commercio, libera comunicazione e scambi intensi.
È in questo scenario che il tema della libertà religiosa, da esercitare e da
tutelare, deve essere riconosciuto come strategico da istituzioni politiche,
scientifiche ed economiche, e certo ancor più dalle istituzioni ecclesiali e
dai cristiani, che sono eredi delle matrici che quella libertà hanno generato, sperimentato, compreso, diffuso e istituzionalizzato.
5 «La società non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest’ultimo comportasse
ipso facto la morte dei rapporti autenticamente umani. È certamente vero che il mercato può essere
orientato in modo negativo, non perché sia questa la sua natura, ma perché una certa ideologia lo può
indirizzare in tal senso» (CV 36).
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Solidarietà 62/2010
3. Sull’accelerazione della globalizzazione, nella nitida coscienza dei
suoi rischi e delle sue sfide,6 l’esperienza dei cattolici e l’insegnamento
sociale della Chiesa hanno maturato un giudizio di fondo positivo che l’Enciclica Caritas in veritate esprime con grande chiarezza: «La novità principale [dei quarant’anni che ci separano dalle pubblicazione della Populorum
progressio] è stata l’esplosione dell’interdipendenza planetaria, ormai
comunemente nota come globalizzazione. Paolo VI l’aveva parzialmente
prevista, ma i termini e l’impetuosità con cui essa si è evoluta sono sorprendenti. (…) Esso [quel processo] è stato il principale motore per l’uscita dal sottosviluppo di intere regioni e rappresenta di per sé una grande
opportunità» (n. 33). Attraverso il riferimento a Paolo VI, si porta a maturazione un’intuizione straordinaria e tempestiva del Concilio Vaticano II.
5 «La società non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di
quest’ultimo comportasse ipso facto la morte dei rapporti autenticamente
umani. È certamente vero che il mercato può essere orientato in modo
negativo, non perché sia questa la sua natura, ma perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso» (CV 36).
Cosciente dei rischi e delle inevitabili ambiguità di questo processo storico, esso aveva colto un “segno dei tempi” nella crescente capacità delle
nostre generazioni di avvertire e di praticare «così lucidamente la sua unità
e la mutua interdipendenza dei singoli in una necessaria solidarietà» (GS
4). La globalizzazione offre nuovi orizzonti e nuove possibilità all’amore.
Chi da cristiano si trova a vivere questo processo non può non essere
interpellato dal doppio richiamo a cui Benedetto XVI ha dato voce proprio
nei mesi in cui più dura si faceva la prova della crisi economico-finanziaria.
In primo luogo, il processo di globalizzazione non mina la possibilità di
continuare a pensare e perseguire lo sviluppo umano in tutte le sue dimensioni e con una portata sempre più inclusiva, anzi offre condizioni favorevoli che rendono più stringente la responsabilità che tutti abbiamo di spenderci in questa direzione (cfr. CV 21ss). In secondo luogo, la nuova situazione non rende desueto, ma anzi esalta il riferimento al bene comune (cfr.
CV 6-7). Proprio questo processo rende infatti manifesta la non perseguibilità del bene comune se non in prospettive che diano il respiro necessario alle articolazioni della sussidiarietà e alle dinamiche della solidarietà
(cfr. CV 57).7 È un doppio richiamo, il cui significato viene compreso sino
6 «Questa spinta planetaria può concorrere a creare rischi di danni sconosciuti finora e di nuove
divisioni nella famiglia umana» (CV 33).
7 Caritas in veritate ci sprona con audacia ad affrontare le crisi – anzitutto economiche – che la glo-
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Solidarietà 62/2010
in fondo solo se si coglie che alla sua radice sta, oggi più che mai, la questione relativa alla persona umana e alla sua dignità, che comincia con il
rispetto della vita dal suo sorgere e attraversa ogni sua fase, sino alla morte
naturale. È un rispetto che si concretizza ulteriormente nel riconoscimento
e nel sostegno della famiglia fondata sul matrimonio di un uomo con una
donna, istituzione fondamentale per ogni società che voglia crescere e svilupparsi, come avevano ben compreso i padri della nostra Carta costituzionale. La globalizzazione, come del resto ogni processo storico, non può
assicurare automaticamente o per necessità la garanzia di quella dignità e il
perseguimento del bene comune.
La direzione del bene comune è quella in cui cresce il valore e la realtà
della vita umana, delle sue relazioni e delle sue differenze, persino delle sue
fragilità.8 «La Chiesa propone con forza questo collegamento tra etica della
vita e etica sociale nella consapevolezza che non può “avere solide basi una
società che – mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace – si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più
diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se
debole ed emarginata”» (CV 16).
4. Benedetto XVI con chiarezza ci pone di fronte alla responsabilità di
cogliere le nuove opportunità create da questa spinta planetaria. «La carità e la verità ci pongono davanti a un impegno inedito e creativo, certamente molto vasto e complesso. Si tratta di dilatare la ragione e di renderla capace di conoscere e di orientare queste imponenti nuove dinamiche»
(CV 33). Siamo così richiamati a «produrre un nuovo pensiero» e a «esprimere nuove energie» (CV 78), a intraprendere un «discernimento» caratterizzato da «realismo» (CV 21), a immaginare «soluzioni nuove» (CV 32).
Ancora una volta abbiamo di fronte nuove «cose nuove» (CA 11) da
riconoscere ed entro le quali cercare le vie della verità dell’amore con realismo, coraggio e generosità. La responsabilità per il bene comune non ci
pone fuori o contro il processo di globalizzazione, ma ci ricolloca al suo
interno, e dentro questo processo ci propone un orientamento.
balizzazione comporta o comunque si trova ad attraversare senza nostalgia per la sovranità assoluta della
politica o per la sua pervasività sociale (big governement), ma restando fedeli all’insegnamento del Magistero sociale della Chiesa, per cui l’intervento politico nelle vicende economiche con caratteri di supplenza deve sempre mantenere i caratteri di eccezionalità (cfr. CA 48).
8 Cfr. CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Testimoni di Gesù Risorto, speranza del
mondo, traccia di riflessione in preparazione al IV Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona, 29 aprile
2005, n. 15 c.
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Solidarietà 62/2010
5. In questo contesto, occuparsi dell’Italia e discernere il bene comune a
partire dal Paese intero non è scontato e dunque chiede ragioni. Per un verso
il processo di globalizzazione procederà (o invertirà il suo cammino) anche
senza attendere il contributo del nostro Paese, e magari anche grazie a contributi di sue singole espressioni locali o d’interesse. Tuttavia, ciò non esclude
che l’Italia unita in questo passaggio critico potrebbe giocare un ruolo che
nessuna sua singola componente potrebbe svolgere da sola. Non dimentichiamo che agli inizi della nostra storia repubblicana, quando la società italiana versava in non minori difficoltà, sapemmo dare un contributo essenziale
all’evolversi delle relazioni internazionali, a partire dallo scacchiere europeo.
In questo momento è ancora una volta urgente riscoprire e sviluppare l’eredità della grande politica estera ed europea dell’Italia del secondo dopoguerra, dell’intuizione che fu alla base della Comunità Europea del Carbone
e dell’Acciaio e ispirò la proposta di una Comunità Europea di Difesa, una
politica e una cultura che – guardando con realismo oltre lo Stato nazione –
immaginarono ed edificarono tra l’altro le fondamenta di quella che oggi è
l’Unione Europea e che nacque come alternativa alla stagione segnata dalle
pretese delle istituzioni politiche ottocentesche, che tanta responsabilità avevano avuto nei drammi della prima metà del Novecento. Rinunciare oggi a
potenzialità effettive della comunità nazionale significa anche rinunciare a
esercitare una fetta di responsabilità per il bene comune globale.
Per altro verso, il processo di globalizzazione investe pesantemente l’Italia. Ne svela le risorse, ma con la stessa chiarezza ne mette in luce le tensioni,
gli errori, le omissioni e i ritardi accumulatisi da molto tempo. La globalizzazione alza il velo sul peso del debito pubblico, sullo stato dei processi di istruzione e della ricerca scientifica e tecnologica, sulla bassa produttività del
sistema economico, sull’attacco continuo ai diritti della persona e della vita,
sulle dinamiche demografiche spesso drammatiche, sul divario tra le opportunità offerte alle donne e quelle di cui godono gli uomini, sulla minaccia
portata di continuo all’istituto familiare, sulla rarefazione dei soggetti educativi, sulla crisi da mancato aggiornamento delle istituzioni politiche, sul dilagare della povertà e delle povertà, sull’incapacità di debellare e a volte anche
solo di fronteggiare con efficacia la criminalità organizzata, sull’abbandono
quando non la devastazione del patrimonio ambientale, artistico e culturale.
Il divario tra Nord e Sud d’Italia è solo una delle possibili prospettive
sintetiche sulle tensioni che la globalizzazione, passivamente subita, aggrava.9 Oltre questa, potremmo ricordare le tensioni tra aree urbane di ben
9 Cfr. CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, 21 febbraio 2010, in particolare n. 5ss.
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Solidarietà 62/2010
diversa qualità civile, il sensibile declino dell’Italia Centrale o dell’area tirrenica rispetto a quella adriatica.
Un altro sguardo sintetico sulla crisi è offerto dai mediamente bassi, e
drammaticamente diversificati, livelli di capitale sociale dei nostri territori:
con questa espressione ci riferiamo alla dotazione di fiducia e di relazioni
di un territorio. Essi riflettono anche gli effetti debilitanti che sui soggetti
hanno avuto il pluridecennale processo di degenerazione assistenzialistica
di un modello di “Stato sociale”, spesso accoppiato al progetto di epurazione dallo spazio pubblico di ogni riferimento a valori condivisi, a meriti
e ad autorità come quella di genitori e insegnanti e di tante tradizioni educative sorte nel mondo cattolico. Come si è potuto tanto a lungo negare lo
specifico e insostituibile cospicuo contributo che alla produzione di capitale sociale può venire dalle famiglie e dalle comunità ecclesiali?
Insomma, l’Italia si trova oggi ad affrontare le prove della globalizzazione da “media potenza declinante”. Questa tendenza non ha nulla di fatale,
ma non può essere negata. Affrontata per tempo, avrebbe potuto essere
contrastata con efficacia e costi minori. Senza indulgere all’enfasi, possiamo però riconoscere che l’Italia è una grande risorsa, un insieme di tante e
varie risorse, o per lo meno chiederci con lealtà se e quanto questo sia ancora vero.
Ciò a cui non possiamo né vogliamo rinunciare, è l’idea che una comunità come quella italiana possa ancora essere perno di una “città”. La nostra
nazione ha saputo generare, sostenere, abitare e dare identità a città davvero aperte e ospitali, e anche a ciò la Chiesa e i cattolici hanno fornito, e ne
hanno ricevuto, un grande apporto.
6. Ciò che intendiamo offrire al confronto ecclesiale e pubblico è un
contributo che, nella prospettiva dell’insegnamento sociale della Chiesa,
provi a definire i contorni e gli interrogativi-base di un’agenda realistica per
la ripresa del Paese.
Lavorando e invitando a lavorare tutti insieme in questa direzione, sappiamo di servire la speranza, almeno nella misura in cui restiamo fedeli a
una nozione adeguatamente vasta e pluridimensionale di bene comune e di
sviluppo, quella speranza cristiana «che è una potente risorsa sociale a servizio dello sviluppo umano integrale, cercato nella libertà e nella giustizia»
(CV 34).10
Con questo spirito, e nella memoria di centocinquant’anni di storia uni10 Cfr. anche BENEDETTO XVI, Lett. enc. Spe salvi, 30 novembre 2007, n. 17.
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Solidarietà 62/2010
taria, torniamo ad affrontare «senza pregiudizi, né preconcetti» la questione nazionale. A quali condizioni, a patto di affrontare e sciogliere quali
nodi, l’Italia può essere ancora una risorsa, un orizzonte di risorse, nell’esercizio della nostra responsabilità per il bene comune in tempi di globalizzazione?
Da cattolici, nell’Italia di oggi, abbiamo ritenuto di dover affrontare e
proporre la fatica di elaborare «un’agenda di speranza per il futuro del
Paese».
II. Orientarsi al bene comune
7. Nessuno può sottrarsi alla domanda su quale orientamento assumere
in questi tempi che, con le parole del testamento di Paolo VI, potremmo
ancora definire «stupendi e drammatici». Ciò vale anche per chi prova ogni
giorno a ridire il proprio «sì» al Dio di Gesù Cristo (2Cor 1, 20), e che si
sente ripetere: «Ascoltate oggi la sua voce: “Non indurite il vostro cuore”»
(Sal 95, 7c-8a). Vale e deve valere per chi ha appreso dalla Chiesa che «la
coscienza può volgersi al bene solo nella libertà» (GS 17).11
Dobbiamo però sapere bene dove e come cercare. Infatti la fede cristiana – accogliendo la rivelazione della dignità della persona umana (cfr. GS
12ss; RH 8) – genera una visione ben diversa da quella delle ideologie e
un’ispirazione ben diversa da quella di una semplice volontà. Questa visione e quest’ispirazione svelano e affermano la dignità della persona umana
nella sua vita (dal suo sorgere e in ogni sua fase) come nelle sue relazioni (a
partire da quelle che nell’amore generoso, stabile e fedele tra una donna e
un uomo, attraverso il matrimonio, generano una famiglia e si aprono a
nuova vita). Questa visione e quest’ispirazione si manifestano decisamente
rilevanti anche per la dimensione sociale della esperienza umana (cfr. CV
11 Così continua il documento conciliare: «I nostri contemporanei stimano grandemente e perseguono con ardore tale libertà, e a ragione. Spesso però la coltivano in modo sbagliato quasi sia lecito
tutto quel che piace, compreso il male. La vera libertà, invece, è nell’uomo un segno privilegiato dell'immagine divina. Dio volle, infatti, lasciare l’uomo «in mano al suo consiglio» che cerchi spontaneamente il suo Creatore e giunga liberamente, aderendo a lui, alla piena e beata perfezione. Perciò la dignità dell'uomo richiede che egli agisca secondo scelte consapevoli e libere, mosso cioè e determinato da
convinzioni personali, e non per un cieco impulso istintivo o per mera coazione esterna. L’uomo perviene a tale dignità quando, liberandosi da ogni schiavitù di passioni, tende al suo fine mediante la scelta
libera del bene e se ne procura con la sua diligente iniziativa i mezzi convenienti. Questa ordinazione
verso Dio, la libertà dell’uomo, realmente ferita dal peccato, non può renderla effettiva in pieno se non
mediante l’aiuto della grazia divina. Ogni singolo uomo, poi, dovrà rendere conto della propria vita
davanti al tribunale di Dio, per tutto quel che avrà fatto di bene e di male».
176
Solidarietà 62/2010
9), al cui centro è posta una libertà responsabile, che nella sua verità tende
alla condivisione e non alla soppressione dell’altra persona.
Alla sorgente di questa visione e di questa ispirazione dobbiamo aprirci
sempre di nuovo con umiltà e coraggio. Da ciò dipende la possibilità del
nostro sperare e del nostro testimoniare la speranza cristiana.12
Anche questo nostro oggi, che siamo chiamati a vivere da battezzati,
come nuove creature in Cristo, viene illuminato dalla visione al cui centro
vi è Gesù Cristo, nel quale il Padre rivela l’uomo all’uomo (cfr. GS 22), e lo
Spirito Santo, che sostiene la nostra comprensione e la nostra obbedienza.
Se, come non si stanca di ripetere Benedetto XVI,13 la fede vive di conoscenza e amore, è in questa conoscenza e in questo amore che siamo invitati a porre noi stessi e il tempo che ci è donato.
8. L’operazione con la quale ci apriamo e partecipiamo a quella visione
e a quell’ispirazione è essenzialmente ecclesiale poiché trova alimento nei
sacramenti, nella Parola da cui la Chiesa è edificata e nei frutti spirituali
della vita nell’amore. A essa, in modi vari e diversi, partecipa tutto il popolo di Dio. La storia del movimento cattolico italiano, e la storia stessa delle
Settimane Sociali, ne costituiscono un esempio importante.
Ponendo all’inizio del nostro cammino verso Reggio Calabria il ricordo
del servo di Dio don Luigi Sturzo,14 non abbiamo fatto altro che tornare a
meditare sullo straordinario contributo che da un credente e da un prete è
venuto a che tutto il popolo di Dio maturasse una più adeguata visione
della società contemporanea e la affrontasse sostenuto da una verace ispirazione cristiana.
9. Nell’intraprendere quest’opera di declinazione, abbiamo trovato di
grande aiuto alcuni aspetti della nozione di bene comune – bene di tutti e
di ciascuno (cfr. CV 7) –, sui quali il Magistero ha insistito in modo crescente a partire dal Vaticano II (cfr. CDSC 164). Fermo restando il primato accordato alla dignità della persona umana e della sua libertà (cfr. PT 5),
una crescente attenzione ha ricevuto il carattere multiforme della socialità
umana (cfr. CDSC 151; 149-150). Nel suo essere cammino verso la comu12 Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo, n. 8.
13 Cfr. ad es. BENEDETTO XVI, Lett. enc. Deus caritas est, 25 dicembre 2005, n. 10.
14 Cfr. COMITATO SCIENTIFICO E ORGANIZZATORE DELLE SETTIMANE SOCIALI
DEI CATTOLICI ITALIANI – DIOCESI DI CALTAGIRONE, … Senza pregiudizi né preconcetti …,
Memoria del novantesimo anniversario dell’Appello ai liberi e forti, in vista della celebrazione della 46ª
Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, Roma 2010.
177
Solidarietà 62/2010
nione, essa deve assumere una pluralità di forme e una molteplicità di
espressioni. La nozione di bene comune non è compatibile con una teoria
della società “al singolare”. La famiglia, le associazioni a scopi economici,
politici, religiosi o ricreativi, e così via, hanno un’originalità che non può
essere eliminata senza danno per il bene comune.15 Le loro logiche devono
essere distinte, ma non possono essere isolate, potendo dar luogo a positive reciproche limitazioni e a positive “ibridazioni” in una società che non
conosca solo scambio tra equivalenti (cfr. CV 38). Dunque, come già affermava la Dignitatis humanae, il bene comune è un insieme di condizioni, la
produzione delle quali «spetta tanto ai cittadini, quanto ai gruppi sociali, ai
poteri civili, alla Chiesa e agli altri gruppi religiosi: a ciascuno nel modo ad
esso proprio, tenuto conto del loro specifico dovere verso il bene comune»
(n. 6). La Caritas in veritate, impegnata a ripensare il sistema di poteri adeguati alla realtà di una sempre più avanzata globalizzazione, giunge a conclusioni molto chiare: «per non dar vita a un pericoloso potere universale
di tipo monocratico, il governo della globalizzazione deve essere di tipo
sussidiario, articolato su più livelli e su piani diversi, che collaborino reciprocamente. La globalizzazione ha certo bisogno di autorità, in quanto
pone il problema di un bene comune globale da perseguire; tale autorità,
però, dovrà essere organizzata in modo sussidiario e poliarchico, sia per
non ledere la libertà sia per risultare concretamente efficace» (n. 57).
10. Una matura coscienza del valore che la pluralità dei legami sociali
acquista alla luce della rivelazione cristiana comporta un’esaltazione del
principio della solidarietà. Tanto maggiore è la valorizzazione delle differenze e delle specificità, tanto più grande è il contributo specifico del condividere, del farsi amici, del sostenersi reciprocamente. La condivisione, e
più in generale l’amore, non è un cumularsi di elementi anonimi, ma è un
sovvenire arricchito da persona che sovviene persona, e da differenza che
dona se stessa al differente. La solidarietà cristiana non nasce né tramonta
nell’omogeneità, ma trae forza e allo stesso tempo alimenta la varietà e la
libertà attraverso l’amore. La famiglia è paradigma e sorgente vivente di
questa realtà e la Chiesa è «consapevole che il bene della società e di se stessa è profondamente legato al bene della famiglia» (FC 3).
L’estensione raggiunta dalla coscienza del principio di sussidiarietà,
nella sua portata – per così dire – “verticale” e “orizzontale”, ci conduce
oltre la stessa idea dei “corpi intermedi”. Quest’idea storicamente preziosissima, che ebbe anche grande e positiva influenza nella redazione della
15 Cfr. ad es. CA 34.
178
Solidarietà 62/2010
Costituzione italiana, lasciava ancora spazio a un potere sovraordinato
chiamato a creare quel collegamento al bene comune che questi corpi – per
l’appunto “intermedi” – di per sé non avrebbero avuto.16 Oggi però comprendiamo meglio che se nessuna delle manifestazioni di quel pluralismo
sociale di cui s’è detto può vantare il monopolio di competenza sul bene
comune (non la politica, non altre), ciascuna ha un contributo specifico da
recare, e che, insieme a tutte le altre, ciascuna partecipa all’incessante opera
di composizione nella quale un certo grado di competizione e persino di
conflitto svolge un ruolo positivo e permanente. In questa prospettiva, persino l’espressione “corpi intermedi” (tra l’individuo e lo Stato) risulta per
tanti versi insufficiente. La famiglia è espressione unica dell’insopprimibile
socialità della persona umana, socialità la cui verità è ultimamente nell’amore come libero dono di sé (cfr. CA 39). La famiglia, che pure può generare la vita, non è autorizzata a possederla, ma è chiamata ad accoglierla per
servirne la crescita nella libertà (cfr. GE 1) e ad accompagnarla anche attraverso le prove più dure, per educare a una libertà vera, che si realizza “nella
carità e nella verità”. In una compiuta prospettiva di sussidiarietà, la famiglia non tollera alcuna subalternità allo Stato, alle imprese o a qualsiasi altro
potere o circuito sociale. Nei limiti della propria specificità, essa travalica
ogni tentativo di reclusione nel privato e gode di una piena dignità sociale
e pubblica. La famiglia è presidio e fattore di bene comune, paradigma di
relazione delle forme sociali alla vita, testimone dell’amore come prima
energia sociale, ostacolo a ogni riduzione dello spazio pubblico a mero spazio statale.
III. Declinare il bene comune: un’operazione di discernimento
11. Grazie al cammino ecclesiale del decennio appena concluso, e non
da ultimo grazie all’esperienza fatta con la preparazione e la celebrazione
del IV Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona, non è stato difficile riconoscere i tratti del discernimento nel compito di declinare l’idea di bene
comune. Interrogarci su come assumere oggi la visione e l’ispirazione al
bene comune ha la forma di una particolare operazione di discernimento
«dell’oggi di Dio» (CVMC 34). In Fil 1,9 l’Apostolo Paolo esorta: «Prego
perché la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni
16 È decisivo non confondere il concetto di bene comune con altri come ‘interesse generale’, ‘interesse nazionale’ o simili. In questi, infatti, alla collettività di riferimento viene attribuito un valore indipendente e spesso superiore a quello delle singole persone e delle loro relazioni.
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Solidarietà 62/2010
genere di discernimento perché possiate distinguere sempre meglio ed
essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo».
Il discernimento pone al credente esigenze di obbedienza e anche di
fatica che vanno oltre quelle dell’“attualizzazione” o “applicazione” della
fede. Esso libera dall’idea che una lettura adeguata della realtà sia già disponibile, elimina l’alibi del ricorso a strumenti scientifici neutrali, non bisognosi essi stessi del vaglio della fede, mette in gioco lo stesso soggetto credente e impone di considerare la storia come luogo in cui Dio agisce e si
manifesta (cfr. DV 2).
È chiaro che per i cattolici il discernimento, operazione spirituale ed
ecclesiale, richiede l’esercizio della funzione del Magistero, ma è stato davvero importante poter sperimentare come tale servizio ci abbia messo a disposizione quella presentazione e quell’approfondimento della nozione di
bene comune cui ci siamo appena riferiti. In queste condizioni, è più facile comprendere come il servizio del Magistero e la libertà e la responsabilità dei credenti impegnati nell’animazione delle realtà temporali si sostengano reciprocamente e crescano insieme.
Peraltro, non è certamente la qualità spirituale ed ecclesiale a rendere il
discernimento un’operazione nella quale i cattolici si isolano dalle donne e
dagli uomini di buona volontà (cfr. GS 40-45). In generale, e in certo senso
a maggior ragione nell’esercizio della responsabilità per il bene comune,
Chiesa e credenti non ignorano quanto ricevono dal mondo contemporaneo: «L’esperienza dei secoli passati, il progresso della scienza, i tesori
nascosti nelle varie forme di cultura umana, attraverso cui si svela più
appieno la natura stessa dell’uomo e si aprono nuove vie verso la verità,
tutto ciò è di vantaggio anche per la Chiesa» (GS 44).
12. Ci è sembrato che la prossima Settimana Sociale possa contribuire
alla declinazione dell’idea di bene comune individuando una breve lista di
problemi con alcune precise caratteristiche. Vale la pena che queste siano
chiarite sin da principio.
Per “problema”, non abbiamo inteso semplicemente e neppure necessariamente indicare una difficoltà. Consideriamo “problema” la compresenza di una determinata situazione e di alternative realistiche, di motivi
ragionevoli e di spazi praticabili per soluzioni diverse. Allo scopo di contribuire al processo di declinazione dell’idea di bene comune, ci è sembrato utile identificare un certo numero di problemi realisticamente implicanti delle possibilità non colte di produrre più bene comune. Questa scelta
pone di fronte a una sfida anche culturalmente ardua, se è vero che si trat180
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ta anche di contestare l’idea di uno spazio pubblico impermeabile alle
ragioni dell’esperienza cristiana.
Su questa base, negli incontri e nei confronti avuti finora abbiamo proposto e abbiamo visto largamente accolta l’indicazione di lavorare all’individuazione di problemi che avessero alcune caratteristiche: (a) fossero identificati anche con riferimento a determinati criteri elaborati a partire dall’insegnamento sociale della Chiesa; (b) fossero affrontabili sulla base di
modelli di analisi affidabili, perché sperimentati e discussi; (c) fossero percepiti come rilevanti da soggetti reali sulla base di propri interessi; (d) collegassero alla circostanza data delle alternative per le quali sono disponibili le risorse necessarie; (e) più di altri problemi, aprissero alla soluzione di
ulteriori problemi.
Una sottolineatura è necessaria: cercare problemi significa anche cercare soggetti. Se per immaginare una qualsiasi alternativa basta anche solo
una teoria, per immaginare un’alternativa realistica è indispensabile la presenza di soggetti reali dotati delle risorse necessarie per concepirla, aderirvi e almeno provare a perseguirla. Come dire: dove la vita, la famiglia, la
dignità della persona, il lavoro, la conoscenza e la creatività sono più a
rischio? E – nello stesso tempo – dove la loro energia e la loro responsabilità possono generare alternative per più bene comune?
13. L’attribuzione di diversi gradi di priorità pratica ai problemi esprime la fedeltà a una visione che non cede all’illusione di una descrizione eticamente neutra della realtà sociale, ma interpreta, giudica e con lealtà e spirito di dialogo propone pubblicamente i propri argomenti. D’altronde, il
non sfuggire all’istanza del realismo – propria della genuina spiritualità cristiana – si manifesta nell’accoglienza della responsabilità a operare dentro
le circostanze storiche senza fingere di essere svincolati da esse e senza
accettarle in ogni caso come una necessità.
Troviamo così un’importante convergenza tra la preparazione alla 46ª
Settimana Sociale e l’attenzione alla sfida educativa, che la Chiesa italiana
sta assumendo responsabilmente come impegno comune per il prossimo
decennio, convergenza che si era già verificata con la decisione di impegnarsi in un’operazione di discernimento comunitario. Esso infatti genera,
sia perché la richiede sia perché direttamente la pone in essere, una costante azione educativa (cfr. CVMC 50).
14. Di fronte all’agenda di problemi prioritari che proponiamo in vista
dei lavori di Reggio Calabria, la domanda non dovrebbe essere «manca
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Solidarietà 62/2010
qualcosa?» o «c’è tutto?». Piuttosto, tenendo ben salda la responsabilità
per il bene comune e il tempo e il luogo in cui siamo chiamati a esercitarla, si dovrebbe partire dalla domanda: «si tratta di problemi realisticamente affrontabili?» E ancora: «realisticamente, se ne possono individuare altri
in qualche misura previi rispetto a quelli indicati nella lista?».
L’agenda ha alcuni destinatari principali molto precisi.
Anzitutto, le Chiese particolari che sono in Italia. Certo, si tratta di un
contributo che invita a ordinare la propria attenzione anche in una prospettiva pratica. Ma, prima ancora, sottende una richiesta: a tutta la comunità ecclesiale spetta il compito di accompagnare e in qualche modo anche
favorire operazioni come quelle in cui ci stiamo impegnando, perché esse
ricerchino sempre la più sincera apertura e la più concreta fedeltà al Vangelo. Il fatto che in questo cammino di preparazione molte Chiese particolari abbiano deciso di affiancare all’impegno nel discernimento di un’agenda di speranza per l’Italia un impegno analogo con riferimento alla loro
realtà locale è un ulteriore passo nella direzione auspicata.
Quest’agenda è anche destinata alle tante persone, donne e uomini di
buona volontà operanti in Italia, verso i quali come cattolici nutriamo sentimenti di viva amicizia e con i quali sentiamo di dover e poter condividere la cura del bene comune, come singoli, associazioni e istituzioni. Una
libera opinione pubblica, perno di una “società aperta”, dà il suo meglio
concentrandosi, volta per volta, su un limitato numero di questioni e sviluppando le sue forme di partecipazione a cominciare da quella del controllo e dell’imputazione delle responsabilità. La qualità civile di una società dipende non da ultimo dalla qualità del confronto attraverso cui si formano queste agende, la cui costruzione non è appannaggio esclusivo di
alcuni. Partecipare a questo confronto al meglio delle possibilità è per i cattolici un dovere ed allo stesso tempo un segno dell’amore grande che portiamo per il nostro Paese. Questa è anche una via per la quale cerchiamo di
correggere mancanze ed errori, dai quali pure non siamo stati esenti.
Certamente un’agenda come quella che presentiamo può essere un contributo importante all’azione del laicato cattolico. I laici, infatti, non solo
sono a pieno titolo coinvolti nella vita della Chiesa e della società civile, ma
sono invitati a farsi promotori di proposte e iniziative e non solo a esprimere esigenze. Al laicato italiano, che per tanti versi deve sviluppare ulteriormente il proprio ruolo nella Chiesa e nella società, può essere utile disporre di un cantiere di discernimento sempre aperto e di una breve lista di
alternative prioritarie da aggiornare costantemente.
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Solidarietà 62/2010
IV. Un’agenda per “riprendere a crescere”
15. Nel corso del processo di discernimento è stato possibile cogliere
una valutazione molto diffusa: l’Italia ha bisogno di riprendere a crescere.
Il Card. Angelo Bagnasco nel novembre 2009 aveva sintetizzato questa
valutazione connettendola esplicitamente alla responsabilità di ciascuno
per il bene comune: «Il Paese deve tornare a crescere, perché questa è la
condizione fondamentale per una giustizia sociale che migliori le condizioni del nostro Meridione, dei giovani senza garanzie, delle famiglie monoreddito. (…) Ciascuno è chiamato in causa in quest’opera d’amore verso
l’Italia: è una responsabilità grave che ricade su tutti, in primo luogo sui
molti soggetti che hanno doveri politico-amministrativi, economico-finanziari, sociali, culturali, informativi».17 L’Italia deve tornare a crescere, e non
solo economicamente. In prospettiva economica il debito pubblico rappresenta la maggiore incognita per il presente e per il futuro. Alcune generazioni di italiani, attuali e a venire, pagheranno questo pesante scotto. Non
rimane dunque che chiedere a noi stessi, a tutti e ad ogni amministrazione
pubblica di fare il meglio. Le risorse pubbliche rappresentano l’altro versante di un sacrificio già superiore alla media: massima deve essere la tensione, perché massima sia la resa di ogni singolo elemento della spesa nel
quadro del controllo dei saldi della finanza pubblica. Nella prospettiva del
bene comune, questa ci appare come un’istanza etica, al pari di quella di
generare risorse aggiuntive.
Il cammino preparatorio vissuto in quest’ultimo anno ci ha aiutato a
comprendere che l’appello appena richiamato – «riprendere a crescere» –
non è velleitario e ci chiama a una sfida molto impegnativa ed estremamente urgente. Nella realtà del cattolicesimo italiano e più in generale nel
tessuto vivo della nostra società non mancano soggetti capaci di riconoscere che le sfide poste di fronte a noi «esigono da tutti gli uomini e le donne
di buona volontà, indipendentemente dall’opzione politica di ciascuno,
una cooperazione solidale e generosa all’edificazione del bene comune
della nazione».18
Nel corso del processo di discernimento, sono emerse abbastanza chiaramente cinque risorse principali con cui affrontare la sfida di riprendere a
crescere secondo il bene comune: «Nel nostro Paese c’è ancora una riserva
di capacità di lavoro e di impresa che non teme il mercato… In un momen17 Prolusione alla 60ª Assemblea Generale dei Vescovi, Assisi, 9-12 novembre 2009, n. 9.
18 GIOVANNI PAOLO II, Discorso al Parlamento Italiano, 14 novembre 2002, n. 5.
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Solidarietà 62/2010
to di emergenza educativa c’è una particolare risorsa che va liberata. Si tratta di quelle persone adulte che non vengono meno alla vocazione a crescere come persone e ad accompagnare nell’avventura educativa i giovani e i
piccoli… Anche l’Italia è tornata ad essere un paese di immigrazione. Ciò
si manifesta anche nella forma di seri problemi, ma è chiaro che questo processo arricchisce sotto svariati profili il Paese, dotandolo di risorse che non
produce e di cui ha bisogno per crescere… Una ulteriore riserva di energie
è costituita dai giovani che studiano, che fanno ricerca, che lavorano…
Abbiamo alle spalle oltre due decenni di nuova spinta alla partecipazione e
di ripetuti tentativi di innovazione politica, ma anche di difficoltà a sbloccare i canali e le opportunità di partecipazione democratica» (Lettera di
aggiornamento).
L’impegno è proseguito concentrandosi su quelle cinque direttrici, e ora
siamo in grado di proporre, per il lavoro che ci attende, una lista di problemi prioritari. A noi sembrano problemi cruciali e realisticamente affrontabili, nel senso già spiegato (cfr. sopra, n. 13), dai quali può prendere le mosse
quella ripresa della crescita verso e secondo un maggior bene comune.
Ci rendiamo ben conto che dire qualcosa di preciso significa anche dire
qualcosa di discutibile e di controverso. La domanda che invitiamo a porre
con tutta franchezza è: c’è qualcosa di più realistico e prioritario? Può essere quella che segue la lista breve di problemi realistici da cui dipende la
possibilità che l’Italia torni a crescere verso e secondo il bene comune? Può
esser questa «un’agenda di speranza per il futuro del Paese?»
Intraprendere
16. In Italia c’è ancora una riserva di capacità di lavoro e di impresa che
non teme il mercato. È certo questa una delle condizioni che ci consente di
guardare realisticamente alla ripresa delle crescita secondo e verso il bene
comune, e in particolare di quella sua componente che è la crescita economica (cfr. CA 48).
Offrire e scambiarsi opportunità e capacità di lavoro significa porre in
essere elementi essenziali del bene comune e attivare dinamiche altrettanto
essenziali al suo incremento. Non dimentichiamo che «mediante il lavoro
l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma
anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, “diventa più
uomo”» (LE 9). Né dimentichiamo che i valori fondamentali e universali di
libertà e di responsabilità un imprenditore li manifesta, ma non dovrebbe
esaurirli: «l’imprenditorialità, prima di avere un significato professionale, ne
ha uno umano. Essa è inscritta in ogni lavoro, visto come actus personae, per
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Solidarietà 62/2010
cui è bene che a ogni lavoratore sia offerta la possibilità di dare il proprio
apporto in modo che egli stesso «sappia di lavorare “in proprio”». Non a
caso Paolo VI insegnava che «ogni lavoratore è un creatore» (CV 41).
In questa prospettiva, ci è sembrato di poter raccogliere indicazioni
convergenti nell’identificare quattro problemi prioritari per tornare a liberare e regolare in modo efficace le energie, attive o potenzialmente tali, dell’intraprendere.
(i) Come ridurre precarietà e privilegi nel mercato del lavoro, aumentandone
partecipazione, flessibilità (in entrata e in uscita), eterogeneità?
17. È il mercato del lavoro uno dei “luoghi” in cui con più evidenza
nelle società moderne si esercita la responsabilità verso se stessi e verso gli
altri e ciascuno partecipa dei frutti realizzati.
La qualità e l’efficienza delle forme che lo regolano e dei comportamenti
degli attori che vi partecipano riveste in questa prospettiva un ruolo cruciale: «Il mercato, se c’è fiducia reciproca e generalizzata, è l’istituzione
economica che permette l’incontro tra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri» (CV 35). Questo richiederebbe un mercato del lavoro ampio (in
grado di offrire opportunità di lavoro a una quota di popolazione maggiore di quella, assai bassa, soprattutto nelle regioni meridionali, attualmente
occupata), accessibile e accogliente (in grado di offrire opportunità a soggetti con caratteristiche sociali e professionali molto differenziate, con
capacità, esigenze e vincoli eterogenei, con particolare riguardo a esigenze
e vincoli relativi alla conciliazione di lavoro e famiglia), fluido e flessibile
(nelquale sia possibile senza penalizzazioni improprie la mobilità professionale e territoriale), qualificato e qualificante (nel quale siano valorizzati i
talenti, la creatività e il capitale umano e, allo stesso tempo, sia possibile per
tutti arricchire le proprie capacità professionali). Per questo mercato, come
e più di quanto avviene per ogni mercato, vale la consapevolezza che comportamenti di solidarietà, di fiducia e di reciprocità costituiscono una condizione che esso può rafforzare, ma non generare né sostituire.
Se si guarda alle condizioni del mercato del lavoro italiano, si vedono
permanere gravi difficoltà che causano sofferenze e distorsioni, strettamente correlate al prolungato ristagno economico del nostro Paese – di gran
lunga precedente l’attuale grave recessione –, a una questione femminile
sempre urgente e aperta e alla scarsa mobilità sociale. Alcune di tali difficoltà derivano da ritardi e limiti strutturali del sistema produttivo; altre,
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Solidarietà 62/2010
invece, da criticità relative al funzionamento del mercato del lavoro, che
sarebbe realisticamente possibile affrontare e avviare a soluzione.
Il nodo più urgente, e ormai ampiamente riconosciuto dall’opinione
pubblica anche in conseguenza della recessione in atto, è rappresentato dal
dualismo del mercato del lavoro, vale a dire la convivenza al suo interno di
un’area di occupazione protetta e di un’altra priva di tutele o con tutele diseguali.
La regolamentazione del mercato del lavoro ha conosciuto in Italia un’evoluzione importante nel corso degli ultimi quindici anni. Tuttavia tale stagione di riforme appare squilibrata e in larga parte incompiuta. Il completamento del disegno riformatore dovrebbe spingere più decisamente il funzionamento del mercato del lavoro nella direzione di una combinazione di
flessibilità e sicurezza (flexicurity), necessariamente declinata in funzione
delle caratteristiche e dei vincoli specifici del contesto italiano.
Questa, ancor meno che in passato, può essere oggi garantita da semplici vincoli legislativi, mentre richiede piuttosto strumenti di sostegno al
reddito e di supporto della ricerca del lavoro da parte di chi ne è privo, così
come il superamento di ogni tipo di “rendita di posizione” e di irresponsabilità, uniti a una maggiore capacità di realizzare politiche attive a favore
dei soggetti in difficoltà nel mercato del lavoro e alla creazione di un equo,
trasparente e sostenibile sistema di sussidi di disoccupazione.
Se negli Anni ’80 la linea di frattura correva tra occupati e disoccupati,
oggi si ripropone all’interno del fronte dell’occupazione. Essa deriva in
parte considerevole da asimmetrie di costo del lavoro e di tutele, che rendono artificiosamente conveniente per le imprese il lavoro atipico al di là
delle genuine esigenze di flessibilità. La contrapposizione tra protetti e non
protetti non può risolversi semplicemente nel ritenere eccessiva la protezione dei primi: sebbene ci sia spazio per un limitato scambio tra minore
protezione dei primi e maggiore protezione dei secondi, non si può auspicare il semplice smantellamento delle protezioni oggi esistenti nel settore
privato. Infatti, a ognuno il suo rischio: ai lavoratori non si può chiedere di
assumere lo stesso grado di rischio delle imprese rispetto all’attività economica.
Se è vero che la regolamentazione del mercato del lavoro assume normalmente la forma di un atto pubblico, è altrettanto evidente che alla sua
definizione e attuazione concreta concorrono in varie forme, spesso con
procedure a ciò dedicate e in misura sostanziale, anche le parti sociali e le
stesse imprese, soprattutto quelle che per dimensione godono di margini di
autonomia e iniziativa nella gestione del personale. Possiamo quindi rite186
Solidarietà 62/2010
nere che in tale ambito spetti al sistema delle relazioni tra le parti la responsabilità di affrontare questi problemi. In questo senso si deve ritenere che
la questione presenti un grado rilevante di poliarchia.
Un discorso in parte diverso – che tuttavia non può essere eluso – richiede la questione del lavoro nel settore pubblico. In questo ambito vanno
superate le condizioni di inefficienza e di irresponsabilità dei vari soggetti.
Esse hanno gravi ricadute negative sia sulla qualità dei servizi che sulla crescita dell’intera economia nonché sugli utenti e dunque sulla qualità della
cittadinanza. Né si può dimenticare il fatto che una quota consistente del
lavoro precario è oggi concentrata proprio all’interno del settore pubblico.
Infine, anche l’Italia ha bisogno di adottare ammortizzatori sociali tendenzialmente universalistici e omogenei, trasparenti e che non siano di
ostacolo alla mobilità dei lavoratori; che incentivino la partecipazione al
mercato, di durata e importi compatibili con l’incentivo al lavoro, e in
grado di attirare forza lavoro dal bacino del sommerso.
Come si vede, ci sono tanto l’urgenza quanto le condizioni per considerare cruciale, in una prospettiva attenta al bene comune, il problema della
riduzione di precarietà e privilegi nel mercato del lavoro, aumentando la
partecipazione, la flessibilità in entrata e in uscita e l’eterogeneità.
(ii) Quali politiche fiscali (e sociali) per riconoscere e sostenere la famiglia con
figli (anche) come generatrice di valori economicamente rilevanti?
18. L’iniquità con la quale le politiche fiscali e sociali degli ultimi cinquant’anni hanno trattato le famiglie con figli può certamente annoverarsi
tra i tanti paradossi italiani. A dispetto di un’abbondante retorica profusa
da tutti gli schieramenti politici e nonostante la moltiplicazione di evidenti
segnali di difficoltà da parte delle famiglie italiane, gli aiuti pubblici a genitori e figli sono sempre stati centellinati e continuano a esserlo: esigue le
agevolazioni fiscali, poco più che simboliche per una famiglia a medio reddito; modesti e non uniformemente distribuiti sul territorio i servizi per
l’infanzia (asili nido, ecc.); più in generale, poco amichevole – quando non
addirittura ostile – il clima nei confronti delle famiglie con figli, nello spazio pubblico e nel mondo del lavoro.
Il risultato è che la famiglia italiana – una famiglia da sempre caratterizzata da forti vincoli affettivi e da generosi meccanismi di sostegno nei confronti dei membri più deboli – finisce per essere abbandonata a se stessa
proprio nei momenti in cui avrebbe più bisogno di aiuto: all’arrivo di un
figlio, quando le spese per la crescita e l’istruzione si fanno più gravose,
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Solidarietà 62/2010
quando un suo componente si trova ad affrontare passaggi in cui il vivere
si fa più pesante, quando un anziano perde l’autosufficienza o rimane solo.
Il doveroso rispetto per l’intimità della sfera familiare sembra infatti
essersi trasformato in un alibi per l’indifferenza collettiva nei confronti
delle funzioni sociali svolte, non senza difficoltà, dalle famiglie. Non possiamo dimenticare che si tratta di funzioni tanto preziose quanto insostituibili, come bene appare nella prospettiva del bene comune (cfr. FC 4246). Le conseguenze di ciò sono sotto i nostri occhi: una fortissima denatalità, da mezzo secolo diffusa nelle regioni centro-settentrionali, ma oggi più
intensa nel Mezzogiorno, che si somma e si intreccia con l’emigrazione di
tante giovani famiglie dal Sud al Nord; un addensamento di famiglie con
due o più figli al di sotto della soglia di povertà; minori probabilità di raggiungere i livelli di istruzione più elevati per chi viene al mondo in una
famiglia numerosa.
Figlia dell’idea, sbagliata, che l’intervento pubblico debba avere finalità
esclusivamente assistenziali o sanzionatorie e non incentivanti, e cresciuta
nell’oblio di principi costituzionali, questa vasta area di disagio, talvolta di
dura sofferenza, finisce per trasformarsi in un formidabile boomerang per
tutta la società e l’economia italiana: riduce le risorse complessive – le persone, le relazioni e i talenti – di cui l’Italia potrà disporre nel prossimo futuro; spinge le famiglie al ripiegamento su se stesse; scoraggia e ritarda la formazione di nuovi nuclei familiari.
Come intervenire per evitare la cronicizzazione del fenomeno? Come
evitare che le poche figlie e i pochi figli di oggi finiscano per adottare i
modelli riproduttivi delle madri e dei padri, avvitando così la popolazione
italiana in una spirale di denatalità che nessun processo migratorio potrà
compensare? È possibile sostenere responsabilmente le coppie che desiderano i figli e quelle che già ne hanno? Nei mesi scorsi, si è parlato di una
generica riduzione delle tasse “per rilanciare l’economia”. Seppure stretta,
la coperta potrebbe essere tirata dalla parte giusta, quella dell’investimento nel futuro: la leva fiscale andrebbe azionata con giudizio per tener maggiormente conto del quadro familiare all’interno del quale ogni contribuente è inserito, riconoscendo l’oggettiva minore capacità contributiva
dei genitori impegnati nel far crescere i figli. Si tratta di un onere educativo che non può essere in alcun modo considerato un fatto esclusivamente
“privato”, dal momento che è anche educazione e crescita dei lavoratori,
degli elettori e dei contribuenti di domani, e, prima ancora, di persone.
Educare è una delle funzioni attraverso le quali la famiglia risponde a un
diritto inalienabile della persona umana ed esercita la propria libertà (cfr.
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Solidarietà 62/2010
GE 1). Le soluzioni tecniche non mancano; per illustrarle è sufficiente uno
sguardo alle politiche pubbliche intraprese nella maggior parte delle società avanzate, a cui spesso si è contrapposta solo un’inefficace successione di
provvedimenti una tantum.
Azionare la leva fiscale non significa rinunciare alla realizzazione di servizi pubblici di qualità, in particolare per l’infanzia, per i quali esiste una
forte domanda latente. Anche in questo caso, le soluzioni possibili sono
diverse, compresa la valorizzazione delle forme spontanee di associazioni,
cooperative di genitori e così via.
Di queste soluzioni debbono essere parte politiche pubbliche pro life
nazionali e locali, capaci di affrontare anche le cause del drammatico declino della natalità in Italia, che concorrano attivamente a rimuovere almeno
alcune cause del ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza.
Una fiscalità e servizi che riconoscano la funzione pubblica della procreazione e dell’educazione dei figli sono soprattutto un segnale chiaro del
fatto che l’Italia vuole ancora credere nel suo futuro e in quelli che saranno i protagonisti del domani.
(iii) Come ridistribuire “orizzontalmente”la pressione fiscale, anzitutto spostandola dal lavoro e dagli investimenti alle rendite?
19. Il sistema fiscale italiano non solo contribuisce meno di quanto
potrebbe al bene comune, non provvedendo risorse adeguate alla produzione di beni pubblici e non motivando comportamenti individuali responsabili, ma spesso assicura meno risorse di quante ne promette – pur toccando in alcuni casi livelli elevatissimi di pressione –, genera sperequazioni, induce o consente comportamenti irresponsabili ed egoistici. Parecchi
fenomeni negativi possono essere ricondotti in misura non trascurabile al
regime fiscale vigente. Vogliamo qui menzionare solo alcuni dei molti punti
critici: il degrado dell’etica pubblica e della coesione sociale che deriva dall’enorme dislivello di pressione fiscale tra categorie di percettori (dipendenti/autonomi) e tra natura del reddito (lavoro/rendita); il variare del
livello di pressione fiscale, che vede per alcune categorie il differenziale tra
lordo e netto vicino al 52%; il convivere di apparenza di povertà al momento della dichiarazione dei redditi e tenore di vita reale; la preferibilità fiscale di impieghi a bassa responsabilizzazione, che rende meno appetibile la
formazione, la preparazione culturale, il tempo dedicato agli studi e alla
ricerca e disincentiva l’investimento sul capitale umano; l’accentuazione
della scelta dell’unità impositiva rappresentata dal reddito individuale in
contrapposizione al criterio del reddito familiare.
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Solidarietà 62/2010
Il danno materiale che le regole e i comportamenti fiscali recano al bene
comune non è meno preoccupante di quello inflitto al tessuto civico né eticamente meno rilevante. La stima ISTAT del 2009, calcolata su dati riferiti
all’anno precedente, si attesta intorno ai 170 miliardi di euro, pari al 16%
del prodotto interno lordo, mentre secondo i dati OCSE raggiungerebbe
nello stesso periodo il 24%. In particolare, nella prospettiva del bene
comune, questo fenomeno ha assunto dimensioni insostenibili, soprattutto
perché si concentra su alcune categorie di percettori di reddito: vi è una
vera e propria iniquità in un sistema di tassazione che colpisce in modo
molto più intenso i redditi da lavoro dipendente (o assimilati).
Le ragioni storiche che hanno concorso a creare tale situazione sono
complesse. Tra esse si pone certamente il livello elevatissimo della pressione fiscale, a cui è molto più esposto il lavoratore dipendente, e l’inefficienza della spesa pubblica. Tuttavia non si tratta di ragioni che possano giustificare il permanere di questo stato di cose. Alla base del ragionamento resta
quanto la letteratura concordemente afferma: nonostante il numero elevato di fattori, un ruolo importante va attribuito alla correlazione tra capacità di accertamento e predisposizione all’evasione.
D’altro canto, tanto è largo il raggio di influenza negativa sul bene
comune di un regime fiscale iniquo e inefficiente, quanto è ampio il numero di attori interessati alla sua correzione. Ci sono dunque buone ragioni
per considerare prioritario il problema di come ridistribuire orizzontalmente la pressione fiscale e in particolare di come riequilibrare la pressione dai redditi ai patrimoni. Come minimizzare l’asimmetria delle modalità
di rilevazione, accertamento e riscossione? Come privilegiare l’effetto redistributivo restituendo centralità alla famiglia sia come soggetto tutelato
nella funzione redistributiva dell’imposta sul reddito sia in quanto realtà
sociale più vicina all’individuo?
(iv) Come sostenere la crescita delle imprese?
20. Nella prospettiva del bene comune non si può non rilevare che l’Italia ha bisogno di riprendere a crescere, anche, e non da ultimo, in termini strettamente economici. Protagonista di questa crescita non può che
essere un’impresa capace di mercato. Il Magistero ecclesiale riconosce in
essa il protagonista dell’«economia libera» (CA 42), perché ha la «capacità
di conoscere tempestivamente i bisogni degli altri uomini» e sa combinare
i «fattori produttivi più idonei a soddisfarli» (CA 31). Anche in tale prospettiva, dunque, per riprendere a crescere l’Italia ha bisogno di più imprese in salute (CV 35), esse stesse per prime capaci di crescere.
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Se ci concentriamo sul nesso, non unico ma centrale, fra crescita, produttività e innovazione, vediamo emergere alcuni aspetti cruciali del problema.
La “taglia” ridotta delle imprese italiane costituisce talvolta un fattore
problematico, anche se da modularsi in relazione ad altri fattori, a partire da
quello del comparto produttivo. Questa caratteristica dell’economia italiana
può essere affrontata in vari modi, attraverso una crescita di rete – ad esempio – o attraverso la formula dei distretti di nuova generazione e non solo
attraverso una crescita dimensionale pura e semplice. È un nodo da affrontare anche nei suoi intrecci con quello della scarsa capitalizzazione, del difficile rapporto con il credito e della forma della governance aziendale.
Altrettanto determinante per la crescita delle imprese è il livello di professionalità del capitale umano disponibile, tema che influenza notevolmente la scelta di spostare in avanti la frontiera tecnologica.
Infine, conta molto lo spessore qualitativo dell’impresa, espresso a
esempio attraverso i modelli giuridici, organizzativi e comunicativi adottati. Si tratta di aspetti che influenzano sia la ricerca di fonti di finanziamento sia la propensione all’internazionalizzazione della rete commerciale e
delle politiche relative alla logistica distributiva, nonché la propensione alla
innovazione di prodotto e non solo di processo.
Per la crescita di imprese capaci di generare crescita è decisivo anche
l’ambiente. Di esso sono parte essenziale il contesto ecologico, sociale, culturale e etico, l’efficienza delle regole dei mercati, la loro accessibilità e
libertà, la disponibilità di fattori come l’energia o pubbliche amministrazioni efficienti, il contrasto alla criminalità, le reti di trasporti e le dotazioni logistiche, l’efficienza della formazione e della ricerca, nonché il rapporto stesso tra le imprese. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, in particolare in questo momento che succede a una grave crisi finanziaria, non va
dimenticato il rapporto decisivo tra l’insieme delle imprese, le banche e le
istituzioni finanziarie.
Proprio all’indomani di importanti interventi “pubblici” che hanno
assicurato la stabilizzazione del sistema finanziario, in ragione del suo grande rilievo, è indilazionabile il ripristino di normali condizioni di credito alle
imprese, soprattutto a quelle piccole e medie, così come urge evitare la
morte per crisi di liquidità di quelle sane. Oltre all’apporto per il superamento della congiuntura negativa, ci si attende che le banche svolgano un
compito anche nei processi di sviluppo di più lungo periodo, soprattutto
nelle economie regionali, il cui potenziale di sviluppo appare, specie in
alcuni contesti territoriali, ancora in gran parte inespresso. Ciò sarà possi191
Solidarietà 62/2010
bile solo nella misura in cui gli attori della finanza e del credito non si sottrarranno al compito di partecipare al rischio che il Paese dovrà affrontare
per crescere, non emergendo del resto da questa fase motivi sufficienti a
rinnegare il processo di apertura e di maggiore concorrenza anche nel settore bancario. Anche oggi le banche si trovano oggettivamente di fronte
alla possibilità di scegliere tra indirizzare la liquidità di cui dispongono
verso attività speculative, oppure programmare una ripresa prudente ma
decisa e significativa del credito.
Riconoscere che la crescita delle imprese è un problema prioritario,
almeno alla luce del bene comune, rispetto all’obiettivo di riprendere a crescere, significa affrontare un problema fortemente unitario, e allo stesso
tempo dai molti aspetti, mentre non impone in alcun modo di assumere un
solo modello d’impresa. Anche nel Magistero più recente è costante l’idea
che «serve un mercato nel quale possano liberamente operare, in condizioni di pari opportunità, imprese che perseguono fini istituzionali diversi.
Accanto all’impresa privata orientata al profitto, e ai vari tipi di impresa
pubblica, devono potersi radicare ed esprimere quelle organizzazioni produttive che perseguono fini mutualistici e sociali. È dal loro reciproco confronto sul mercato che ci si può attendere una sorta d’ibridazione dei comportamenti d’impresa e dunque un’attenzione sensibile alla civilizzazione
dell’economia» (CV 38), e ancora: «è la stessa pluralità delle forme istituzionali di impresa a generare un mercato più civile e al tempo stesso più
competitivo» (CV 46).
Molti sono gli aspetti del problema e i soggetti interpellati da questa
priorità. Tuttavia, prima degli altri, è a chi fa o può fare impresa che va riconosciuto il diritto e la responsabilità di apportare questo specifico contributo al bene comune, e, oggi, di aprire il confronto su questa istanza.
Anche alla Chiesa e alle famiglie spetta un compito specifico: quello di educare i giovani all’intraprendere.
Educare
21. In un momento di emergenza educativa, c’è una particolare risorsa
che va liberata. Si tratta di quelle persone adulte che non vengono meno
alla vocazione a crescere come persone e ad accompagnare nell’avventura
educativa i giovani e i piccoli. Non c’è bene comune se ai soggetti dell’educazione non viene riconosciuto per intero il loro prezioso e insostituibile ruolo anche pubblico. L’emergenza educativa si manifesta come grave
crisi di bene comune.
Quella in corso è un’emergenza seria e in alcuni casi esposta a rischi di
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Solidarietà 62/2010
cronicizzazione. Non è facile ma è necessario, per affrontarla concretamente, partire da problemi cruciali e prioritari, ma anche precisi e di conseguenza non esaustivi.
(v) Come dare più strumenti a scuola e famiglia per premiare l’esercizio della
funzione docente e incentivarne l’assunzione di responsabilità?
22. La diffusione dei risultati ottenuti dagli studenti italiani nelle prove
standardizzate sugli apprendimenti (in particolare quelli raggiunti nelle
prove OCSE-PISA, somministrate ai quindicenni di tutti i Paesi a sviluppo
avanzato) hanno evidenziato due verità troppo a lungo ignorate dal dibattito nazionale. Primo: a giudicare dalla qualità delle conoscenze e delle
competenze dei suoi studenti, la scuola italiana non sta facendo un lavoro
eccellente; i ragazzi italiani si collocano infatti al di sotto della media di
quelli degli altri Paesi sviluppati, sia nella comprensione di un testo scritto,
sia nella preparazione matematica e scientifica. Secondo: sebbene sia sempre stata gestita in modo centralizzato, la scuola italiana non ottiene risultati uniformi sul territorio, ma al contrario restituisce un mosaico di situazioni regionali decisamente differenziate.
Se passiamo poi dalle dimensioni più elementari dell’istruzione a quelle
più complesse e profonde dell’educazione, a cui pure la scuola deve contribuire, il bilancio non è migliore.
L’emergenza educativa a scuola si manifesta in gradi che vanno dalla
crisi della “condotta” a fenomeni sempre meno rari di vera e propria delinquenza. Come tutto il mondo degli adulti, gli insegnanti sono esposti a una
sfida educativa assai più impegnativa di quella affrontata dai loro colleghi
di qualche decennio fa e la risposta – nel suo insieme – può e deve ancora
crescere molto.
Di fronte a tale quadro, è doveroso interrogarsi su quale scuola vogliamo allestire per i giovani di oggi e per le future generazioni. Questo interrogativo è di stretta attualità non solo in Italia. Nella maggior parte dei
Paesi sviluppati è in corso un acceso dibattito sulle risposte da dare alle
tante sfide lanciate alla scuola, che spaziano dal problematico rapporto tra
le nuove tecnologie e la didattica alle incertezze sui modelli lavorativi di
riferimento per la costruzione di profili professionali il più possibile adeguati e duraturi. Questo dibattito internazionale ribadisce la centralità
degli insegnanti: è sul corpo docente, sulla sua formazione e sul suo grado
di motivazione che occorre far leva se si vogliono raggiungere concreti
obiettivi di miglioramento nella qualità della scuola e dell’apprendimento.
Per la loro professione, che è pure una vocazione, contano moltissimo
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Solidarietà 62/2010
anche le gratificazioni intrinseche, come quelle che derivano dal contatto
diretto con gli studenti. Tuttavia, in assenza di forme di giudizio o di valutazione sul lavoro svolto in classe, tanto da parte delle autorità scolastiche
quanto da parte delle famiglie, con retribuzioni e progressioni di carriera
che continuano a essere scandite esclusivamente dall’anzianità, e in un
clima di generale indifferenza per la qualità dell’impegno profuso, è difficile se non impossibile perseguire in modo sistematico la valorizzazione
della professione docente.
La responsabilità per il bene comune non può non riconoscere il contributo specifico e insostituibile di questi adulti e delle istituzioni scolastiche. La sua crisi è fenomeno di primissimo rilievo pubblico e tale resta a
prescindere dall’attore dell’offerta scolastica (statale o non statale).
Il percorso da compiere è irto di difficoltà. Alcune sono riconducibili al
ruolo ancora da definire che le Regioni potranno svolgere nella complessa
partita del decentramento, previsto dalla riforma del titolo V della Costituzione, ma ancora in attesa di piena attuazione, così come devono ancora
essere individuati i “livelli essenziali delle prestazioni” in materia scolastica, a partire dai quali si svilupperà l’impianto del federalismo fiscale previsto dalla legge n. 42/2009. Contemporaneamente la stagione dei tagli si
abbatte sulla scuola creando un clima non certo sereno. Se, per un verso tali
tagli risultano comprensibili alla luce dell’anomalo rapporto italiano fra
alunni e docenti e degli imperativi della finanza pubblica, per altro non
possono essere intesi come unico intervento di politica scolastica, avulso da
una strategia complessiva.
Il processo di riscatto della scuola italiana e di riconsiderazione della
figura del docente può essere frenato anche da altre difficoltà. Tra queste,
una, decisiva, riguarda il carattere dell’offerta scolastica. Le dimensioni
della presenza dello Stato impediscono di trascurare l’urgenza della sua
riqualificazione, ma quelle stesse dimensioni significano che una parte dei
problemi è legata allo scarso pluralismo dell’offerta scolastica, alla mancata competizione tra diversi attori dell’offerta di istruzione e della formazione e al limitato potere delle famiglie di scegliere liberamente e di premiare
l’offerta migliore. Il grande impegno del cattolicesimo italiano tanto sul
fronte della offerta scolastica quanto su quello della domanda attraverso le
forme dell’associazionismo familiare costituisce una risorsa da riconoscere,
da valorizzare e a cui chiedere di crescere ancora. Esso – come tante altre
forme di offerta scolastica non statale – ha il doppio merito di produrre un
tipo prezioso di bene comune e di tenere aperto lo spazio pubblico, contrastandone la riduzione al mero spazio “statale”.
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Solidarietà 62/2010
Come in altri ambiti educativi, anche nella scuola, la cui crisi non può
essere occultata, tanto meno se si ha a cuore il bene comune, il nodo è rappresentato dagli adulti, che dovrebbero sapere e potere istruire ed educare
con passione, abilità, competenza, credibilità e rigore.
(vi) Come sostenere l’esercizio dell’autorità genitoriale in famiglia?
23. La crisi dell’autorità è elemento essenziale della cosiddetta “questione antropologica”. La prospettiva del bene comune registra questo
nesso e non fa che aumentare la consapevolezza delle gravi conseguenze
non della crisi di questa o quella autorità determinata, ma della crisi che si
genera dal tentativo di delegittimare ogni forma di autorità, soprattutto
quelle a fondamento non contrattuale.
Che tale progetto, eredità di una parte dominante della temperie dei
tardi Anni ’60, concentri i suoi attacchi sulla figura dell’autorità paterna e
materna è del tutto coerente, come è inevitabile che intorno alla legittimazione collettiva dell’autorità genitoriale si giochi una partita cruciale per
l’autorità in generale e per le sorti del bene comune. L’alternativa in gioco,
in modo diverso per ciascuna autorità, è fra la concezione della libertà
come capacità di autodeterminazione che si regge in ultima analisi solo su
se stessa e quella che nella libertà valorizza una diversa consapevolezza:
essa non si produce, non si sostiene, né si “trova” da sé, e ciò perché ciascuno di noi è stato da altri non solo generato alla vita, ma amato prima di
amare, educato a parlare, pensare, volere e cercare.
«La prima e fondamentale struttura a favore dell’“ecologia umana” è la
famiglia, in seno alla quale l’uomo riceve le prime e determinanti nozioni
intorno alla verità ed al bene, apprende che cosa vuol dire amare ed essere
amati e, quindi, che cosa vuol dire in concreto essere una persona» (CA 38).
Oggi, anche in Italia e forse più che altrove, ci troviamo a fronteggiare
uno spazio pubblico in cui domina la tentazione di considerare l’ampliamento delle zone di libertà direttamente proporzionale all’erosione della
autorità, e in particolare delle istituzioni e dei soggetti nei quali l’istanza di
libertà si confronta con le esperienze umane fondamentali del generare e
dell’amare, del produrre conoscenza e del trasmetterla, del cercare la verità e dell’amarla. Sono sotto attacco, in particolare sotto il profilo culturale
e giuridico, tutte quelle relazioni nelle quali la libertà verifica l’impossibilità di “cominciare” da se stessa.
La crisi della famiglia e della scuola accompagna quella dell’autorità e
ne è a un tempo causa ed effetto. A essere sfidato è il carattere asimmetrico, l’asse verticale della relazione di autorità.
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Solidarietà 62/2010
Inevitabilmente, parte dell’efficacia di questi attacchi è garantita da errori
e fallimenti in cui, nelle loro concrete forme, queste istituzioni sono incorse.
La famiglia sembra perdere progressivamente la sua tradizionale capacità di generazione e sostegno di “legami” orientati a solidarietà e gratuità,
a partire dalla spinta alla deistituzionalizzazione di ogni sorta di affetti.
Paradossalmente, sembra restare alla famiglia la pura funzione del mantenimento e dell’assistenza economica, magari a tempo indeterminato, come
stabilito persino da talune sentenze giudiziarie. La responsabilità dell’età
adulta è sempre meno responsabilità di una propria famiglia; ciò rafforza le
spinte all’autoreferenzialità del circuito dei bisogni e al disimpegno.
I genitori sono sempre meno educati a pronunciare i “sì” e sempre
meno sostenuti nel dire gli altrettanto preziosi e necessari “no”. Gli insegnanti, che sempre più raramente possono contare sulla collaborazione
delle famiglie per un’educazione ai doveri, oltre che ai diritti, rischiano di
abdicare al loro ruolo fondamentale: accendere nei giovani la passione per
le cose difficili e insieme il senso del limite e del rispetto di forme e regole,
perché anche il sapere è un metodo che non si improvvisa di volta in volta.
Occorre ricreare il circuito virtuoso fra quelle autorità che non sono il
frutto di una legittimazione contrattuale e la libertà. Si tratta di un’esigenza ineludibile per la stessa comunità ecclesiale. Il primo passo è quello di
riconoscere in esso un problema prioritario non solo a livello privato, ma
anche per la sfera pubblica, e ancor più in nuce rilevante nella prospettiva
del bene comune. Chi, altrimenti, e questa è solo una delle funzioni della
autorità parentale, garantirà le risposte prime e fondamentali a quel diritto
che è l’educazione, una risposta adeguata a una delle prime condizioni
richieste dal bene comune?
Affrontare questo problema significa mettere in discussione i modelli che
la “videopedagogia” ha imposto come dominanti. Essi tendono a suggerire
una falsa coincidenza fra produzione e consumo di senso, a dissipare i processi e i capitali della formazione in una nebulosa di sentimenti, affetti sfibrati
e “allargati”, a minare la percezione interiore del tempo abituando a riconoscere solo quel che accade “qui e ora”, privando a priori di interesse e di
senso quel che “dura”. È insomma necessario ristabilire il rapporto di
responsabilità fra le generazioni, destinando risorse importanti alle famiglie
con figli e mettendo i giovani in condizione di costruirsi la propria famiglia.
(vii) Come sostenere l’azione educativa dell’associazionismo e delle comunità
elettive?
24. L’emergenza educativa non può essere affrontata solo dalla famiglia
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Solidarietà 62/2010
e dalla scuola, né mai esse sole hanno sostenuto il dovere educativo degli
adulti. Le grandi stagioni educative hanno visto anche il protagonismo
delle reti associative e di comunità elettive. La visione del bene comune
riconosce e valorizza la pluralità e la varietà di attori educativi e raccomanda la cura di tutte le prassi realmente educative, capaci cioè di generare
libertà critiche, generose e responsabili.
Il problema che poniamo all’attenzione è il riconoscimento pubblico e
il rinnovato e intensificato esercizio di una responsabilità educativa ed educatrice nell’associazionismo per e con i giovani. La tradizione italiana è
ricca di esperienze di matrice confessionale e non: ancora oggi, la densità
etica di molta parte del volontariato costituisce una palestra di grande valore per la maturazione umana dei giovani verso responsabilità (la parola chiave) più integrali. Si tratta di una riserva di umanità e di moralità agìta, che
le ricerche ci mostrano riverberarsi sulla vita familiare, scolastica e civica.
Quella dei soggetti associativi attori di processi educativi è una realtà esposta più di altre alla crisi e al ripiegamento egoistico. Non può essere difesa professionalizzandola, mitizzandola né semplicemente conservandola. Essa va
aiutata a produrre innovazione anche nei processi educativi e a reggere la sfida
di proposte anti- o a-educative. Tali soggetti sono i primi interpellati da questa sfida: sostituirli o porli sotto tutela significa renderli inefficaci.
La stessa comunità ecclesiale, matrice e custode di un grandissimo patrimonio di simili realtà, può e deve fare di più per dar spazio, riconoscimento e sostegno a queste iniziative, e nello stesso tempo per esercitare un sempre più serio discernimento su di esse. Nulla garantisce infatti che la fenomenologia dell’associazionismo educativo sia sempre orientata con successo alla crescita umana e alla maturazione integrale della persona.
È la coscienza di quanto sia forte, oggi, in Italia, il nesso tra consapevolezza dell’emergenza educativa e responsabilità per il bene comune a far
riconoscere priorità al problema di come sostenere la crescita dell’azione
educativa svolta dalle reti associative e dalle comunità elettive.
Includere le nuove presenze
25. Ben al di là della polemica spicciola e strumentale, vivissima è la
coscienza diffusa dei rischi e delle opportunità che comporta l’intensificarsi dei flussi migratori verso l’Italia: «anche l’Italia è tornata ad essere un
paese di immigrazione. Ciò si manifesta anche nella forma di seri problemi,
ma è chiaro che questo processo arricchisce sotto svariati profili il Paese,
dotandolo di risorse che non produce e di cui ha bisogno per crescere»
(Lettera di aggiornamento). La tensione è quella di combinare strategie di
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Solidarietà 62/2010
inclusione che mettano in circolo le nuove presenze, che a esse offrano le
opportunità ricercate e che propongano riferimenti istituzionali chiari, in
grado di guidare un percorso di responsabilizzazione. L’inclusione non è un
processo privo di regole e di sanzioni, rapido o meramente cumulativo: è
l’incontro tra atteggiamenti responsabili e avveduti, essi stessi aspetto di
carità matura e intelligente. Forse conviene cominciare da un passaggio
attraverso il quale chi arriva mostra di voler restare in Italia, per crescere
qui e cooperare con chi qui già vive.
(viii) Tenendo conto delle esperienze di altri Paesi, come riconoscere la cittadinanza ai figli di stranieri nati in Italia?
26. Non è facile formulare previsioni circa i futuri assetti della società
italiana: troppe incognitesi addensano sullo scenario nazionale, europeo e
mondiale. Su un punto, tuttavia, è possibile sbilanciarsi senza timore di
smentita: nella società italiana di domani i figli degli immigrati giocheranno un ruolo importante. Lo dicono i loro numeri, imponenti, e l’energia
che hanno saputo esprimere nei processi migratori. Già oggi i figli dell’immigrazione sono più di un milione. Di questi, circa seicentomila sono nati
e cresciuti in Italia.19 Di loro sappiamo che sono giovanissimi, essendo nati
prevalentemente in questo secolo: pensano in italiano, sognano in italiano,
hanno una grande voglia di riscatto e di far meglio dei loro genitori.
Per questo a loro vanno e ancor più andranno stretti meccanismi di
accettazione sociale basati sulla disponibilità a svolgere i mestieri rifiutati
dagli italiani: da grandi vorranno essere scienziati, dottori, ingegneri; di
certo non tutti vorranno raccogliere arance o fare la badante, o per lo meno
essere destinati a farlo. Li attendono numerose difficoltà comuni a tutti i
giovani in Italia, più una: quella di riuscire a riconciliare la loro quotidianità italiana con un’identità costruita nel dubbio di non vedersi riconosciuta
la cittadinanza. La legge vigente prevede infatti per gli stranieri nati in Italia la necessità di dimostrare, al compimento della maggiore età, la loro residenza legale dalla nascita e senza interruzioni. Questo meccanismo, messo
a punto nel 1992, quando gli stranieri diciottenni nati in Italia erano ancora pochi, ha finito per trasformarsi in una probatio perversa per migliaia di
ragazzi e ragazze, le cui famiglie hanno dovuto seguire un percorso d’emersione dall’irregolarità attraverso sanatorie e regolarizzazioni.
Per i loro genitori fare famiglia e figli in Italia è stato un atto importante,
19 In base ai dati ISTAT, al 31 dicembre 2008 i residenti stranieri nati in Italia erano 518.700, circa
sessantamila in più rispetto alla fine del 2007. Questi numeri non considerano i figli di coppie in cui un
solo genitore è italiano.
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Solidarietà 62/2010
un modo per provare ad annodare il loro futuro al nostro. Quei bambini per
noi sono un frutto stupendo di quell’atto di fiducia e di speranza; rappresentano una realtà e una disponibilità che non debbono essere ignorate.
Costituiscono forse il punto più giusto e più urgente da cui partire.
Il riconoscimento della cittadinanza da parte dello Stato italiano è solo
una condizione, certo necessaria ma non sufficiente, per una piena interazione/integrazione delle seconde generazioni nella società italiana. Riconoscere e far rispettare i diritti dei figli dell’immigrazione è infatti una responsabilità collettiva che investe tutte le istituzioni e tutti gli individui. Un
esempio: è senz’altro essenziale per un ragazzo di seconda generazione
vedersi riconosciuto il diritto di frequentare l’università senza dover richiedere e rinnovare periodicamente il permesso di soggiorno per motivi
di studio. Ma è anche importante che il suo diritto a raggiungere i livelli più elevati d’istruzione (se “capace e meritevole”, come recita la Costituzione) non sia pregiudicato da insegnanti che lo reputano, solo per la sua
origine, inadatto agli studi superiori, e finiscono così per orientarlo – anche
in buona fede – verso strade professionalizzanti.20 In definitiva, ogni
momento di interazione con i figli degli immigrati – pensiamo al grande
lavoro svolto ogni giorno, senza clamore né pubblicità, nei tanti luoghi di
aggregazione e d’incontro in cui si realizza l’azione sociale della Chiesa –
dischiude un’occasione di riconoscimento della loro piena cittadinanza.
Tale lavoro può e deve cominciare subito, mostrando una attiva solidarietà
nei confronti di quelle cittadine straniere, anche “clandestine”, che, trovandosi in stato di gravidanza, sono esposte al rischio di scegliere come
soluzione l’aborto volontario.
Non possiamo ancora dire con certezza quale sarà il ruolo – di certo rilevante – delle seconde generazioni degli immigrati nell’Italia di domani. Gli
scenari sono tutti aperti: che si parli di creatività e di voglia di fare impresa, o di devianza e di minacce alla sicurezza, le seconde generazioni sono
pronte a fare la loro parte. Fare sì che il loro contributo sia il più possibile
positivo e orientato a una convivenza civile è una delle maggiori responsabilità educative di cui il Paese dovrà farsi carico nei prossimi anni. Per questo si pone la domanda: come, tenendo anche conto delle esperienze di
altre nazioni, riconoscere la cittadinanza ai figli di stranieri?
20 Nell’anno scolastico 2008-2009, la quota di alunni stranieri iscritti al primo anno delle scuole
superiori (sul totale degli iscritti) varia da un minimo del 2% al liceo classico a un massimo del 13% agli
istituti professionali.
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Solidarietà 62/2010
Slegare la mobilità sociale
27. Per riprendere a crescere servono nuove energie, soprattutto quelle
dei giovani. D’altro canto, riprendere a crescere, verso e secondo il bene
comune, è un modo per rispettare i diritti di chi diventa adulto, di chi è
appena nato, di chi sta nascendo, di chi arriverà. In questi termini, crescere è un atto di responsabilità, di giustizia e di amore. Per queste ragioni
occorre anzitutto abbandonare le sterili dichiarazioni a favore dei giovani e
cominciare ad abbattere le barriere che ne impediscono la crescita piena, la
mobilità sociale, in sostanza ne ostacolano quando non negano loro “il traffico dei talenti”. In questo momento, sono i giovani a pagare più di tutti i
costi della crisi.
(ix) Come finanziare diversamente il sistema universitario, aumentando l’autonomia degli atenei e senza precludere l’accesso ad alcuno capace e meritevole?
verità, fornisce un contributo primario alla ricerca, garantisce i gradi più
elevati della formazione, sostiene e dà metodo al confronto pubblico. È
anche uno dei doni straordinari che storicamente testimonia il servizio
della Chiesa e dei credenti al bene comune. Come autonoma istituzione
pubblica, è una delle condizioni della poliarchia e della società aperta ed è
uno dei grandi motori della mobilità sociale e dell’emancipazione personale. Ciascuna di queste ragioni, la cui lista potrebbe continuare, manifesta il
nesso tra università e bene comune.
Lo stato dell’università in Italia, a causa dell’insufficiente autonomia di
cui gode e del suo contributo insufficiente alla ricerca e alla mobilità sociale, costituisce un’emergenza tanto grave quanto disattesa. Essa non può
essere realisticamente affrontata nel suo complesso. È inevitabile partire da
uno dei tanti nodi. In questo senso, appare cruciale quello che collega la
necessità di crescita dell’autonomia anche finanziaria da parte delle università (il che può avvenire solo attraverso la vendita dei loro prodotti di ricerca e attraverso le entrate provenienti dalle iscrizioni) e la necessità che lo
studio e la carriera universitaria non siano rese impossibili a giovani capaci
e meritevoli, privi però di adeguate risorse finanziarie.
La grande qualità che punteggia la ricerca italiana, e parimenti la didattica, dipende più dalla dedizione di singoli che dalla buona architettura del
sistema. Si deve riconoscere che oggi, in Italia, si produce qualità universitaria nonostante l’assetto istituzionale e finanziario piuttosto che grazie a essi.
Aspetti preoccupanti non mancano anche dalla parte della domanda:
l’arresto dell’ascensore della mobilità sociale attraverso lo studio; il deficit
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Solidarietà 62/2010
di razionalità nell’allocazione delle risorse umane alle funzioni di studio e
ricerca (per la presenza di una distorsione di ceto); l’inadeguata percezione
del costo del servizio universitario da parte degli utenti/cittadini; lo scarso
riconoscimento sociale allo sforzo e al merito individuale nella costruzione
del proprio percorso esistenziale e professionale: tutto ciò influisce negativamente sul rango scientifico della nazione, sul dinamismo dell’economia,
sull’incentivare i giovani alla responsabilizzazione e all’impegno.
La comparazione internazionale e anche le positive esperienze interne
rivelano sia motivi di urgenza sia possibilità per intervenire.
Il nodo è complesso e rimanda a un insieme di aspetti, istituzionali e
fiscali: dall’autonomia universitaria ai sistemi di reclutamento, allo status
giuridico dei professori, al valore legale dei titoli di studio, al funzionamento degli ordini professionali e agli incentivi fiscali. È arduo quindi
immaginare che l’uso di un solo strumento possa generare effetti risolutivi.
Il problema da affrontare richiede di combinare soluzioni che riportino
una quota maggiore del costo dell’istruzione universitaria sui beneficiari
senza che ne risenta l’equità delle opportunità a parità di merito; che permettano alle università, intese come singole soggettività (ciascuna ben
caratterizzata e maggiormente responsabilizzata) oltre che come sistema
pluralizzato, di contare su una fonte di risorse addizionali per sviluppare
proprie strategie di offerta e posizionamento; che responsabilizzino la
società nelle sue varie articolazioni rispetto al bene comune dell’innalzamento delle competenze delle nuove generazioni, quale veicolo fondamentale di opportunità individuali e di chance di sviluppo economico intelligente.
Con riferimento ai problemi indicati, il binomio tra copertura dei costi
dell’istruzione universitaria e creazione di un sistema allargato di accesso a
borse di studio individuali potrebbe avere questi caratteri. Un discorso
analogo e integrativo può essere sviluppato per i prestiti d’onore.
La cura del bene comune offre motivi per considerare prioritario affrontare il problema di come combinare la crescita di una responsabile autonomia
delle università italiane e la crescita di sistemi di sostegno che restituiscano
opportunità ai capaci e meritevoli sprovvisti di adeguate risorse economiche.
(x) Come ridurre le barriere per l’accesso alle professioni e al loro esercizio e
come incrementare la libera concorrenza nelle stesse?
29. L’area dei servizi professionali, secondo la Convenzione europea di
Lisbona, appartiene ai settori per i quali occorre ampliare il livello di concorrenza, aumentare i processi di liberalizzazione, modernizzare le regole
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Solidarietà 62/2010
di accesso e di trasparenza verso i mercati e i consumatori. Da un lato, ci
sono delle ragioni valide per mantenere alcuni processi regolamentativi
delle professioni, come l’asimmetria informativa tra clienti e prestatori di
servizi o la caratteristica di esternalità (in quanto tali servizi possono avere
influenza sui terzi). Di contro, non ci sono evidenze né ragioni per sostenere che regolamentazioni restrittive servano a mantenere un’alta qualità
del servizio e proteggano i consumatori da comportamenti scorretti.
In questo settore, i tratti di chiusura e di monopolio in Italia sono ancora marcati. Ciò produce una molteplicità di effetti negativi. In primis frena
il contributo dei servizi professionali alla crescita economica e danneggia i
giovani e le professioni stesse limitando il ricambio dei soggetti: l’area delle
professioni tende a essere dominata da una sorta di legge ereditaria.
Questo effetto perverso è assicurato, tra l’altro, dal presidio svolto dagli
ordini alla chiusura delle professioni e dalla protezione offerta dallo Stato
ai loro monopoli. I costi di tale chiusura e di questo tendenziale monopolio sono pagati dai cittadini, dai consumatori e in modo pesantissimo dai
giovani professionisti e da quanti vorrebbero diventarlo.
Ridare mobilità e produttività al settore delle professioni si impone
come obiettivo prioritario alla responsabilità per il bene comune. Pertanto,
pur riconoscendo la convenienza di un certo grado di regolamentazione,
esso andrebbe declinato piuttosto che secondo tradizionali regole restrittive, con meccanismi pro-concorrenziali.
In un contesto di crisi economica e sociale in cui si chiede a tutti gli attori di ridurre i livelli di protezione parassitaria, di rinunciare a barriere
monopolistiche e di aprirsi alla competizione e alla modernizzazione, il
mondo delle professioni, prima ancora degli attori politici, deve farsi carico di un processo di reale cambiamento e di apertura al nuovo e alle generazioni e ai saperi più giovani, tenendo bene in conto la circostanza che i
servizi professionali costituiscono input importanti per l’economia e le
imprese e che la loro qualità e competitività ha ricadute significative su
tutta l’economia.
Interrogarsi su come aumentare l’apertura delle professioni e la concorrenza nei loro mercati significa, tra l’altro, porsi domande sulla natura giuridica e sul ruolo degli ordini professionali, sul pieno riconoscimento dell’esercizio professionale tramite società tra professionisti, sulla riforma dell’accesso, sulla tutela del cliente.
La cura del bene comune riconosce urgenza e priorità al problema di
come incrementare in Italia accessibilità, flessibilità e attitudine all’innovazione, concorrenzialità e logiche di efficacia nelle attività professionali.
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Solidarietà 62/2010
Completare la transizione istituzionale
30. Riprendere a crescere richiede un adeguamento delle istituzioni
politiche: «abbiamo alle spalle oltre due decenni di nuova spinta alla partecipazione e di ripetuti tentativi di innovazione politica, ma anche di difficoltà a sbloccare i canali e le opportunità di partecipazione democratica»
(Lettera di aggiornamento). Diffusa è la coscienza dell’urgenza di completare la transizione istituzionale. Molto è stato fatto: le istituzioni politiche
hanno cambiato alcune regole e modalità di funzionamento, abbandonando i pilastri del modello consensualistico con cui erano state disegnate nella
fase costituente e si erano poi radicate nella storia politica italiana. Sono
note le ragioni storiche di quel modello istituzionale e anche i suoi eccessi,
già messi in evidenza da personalità come Alcide De Gasperi e Luigi Sturzo, e – soprattutto a partire dagli Anni ’70 – aggravatisi con la crescita della
società. Tuttavia, il mutare del contesto sociale e politico richiede ma non
comporta automaticamente un’adeguata evoluzione delle istituzioni politiche. Anche in questo settore esistono oggi delle opportunità, che però non
si concretizzeranno senza il nostro impegno. Anche laddove è stata fatta
una buona “manutenzione istituzionale”, si avverte il bisogno di qualcosa
di più. La transizione non è finita e la sua incompiutezza nuoce gravemente al bene comune. La responsabilità per il bene comune non può che
esprimersi affrontando il problema del dare completamento alla transizione istituzionale in corso.
Naturalmente non tutti gli interessi organizzati, in primo luogo quelli
del ceto politico, sono stati premiati dalle trasformazioni già realizzate né
lo saranno da quelle che abbiamo bisogno di completare. Al contrario,
molte tra queste trasformazioni hanno ridotto talune rendite di posizione,
estendendo il peso diretto dell’elettorato, ampliando il rapporto tra potere
e responsabilità, dando più peso agli interessi organizzati e ai diritti. Come
poche realtà in Italia, la Chiesa ha saputo interpretare la stagione che si è
avviata e i cattolici in molti e diversi modi sono stati protagonisti dell’avvio
della transizione, a volte sino a pagare con la vita il loro coraggioso e lungimirante servizio.
La responsabilità per il bene comune ci spinge ad andare avanti: «i cattolici non possono affatto abdicare alla vita politica»,21 anch’essa vero atto
d’amore al bene comune (cfr. CV 7). Questa visione ci aiuta a individuare
il cuore del problema nel rapporto tra potere politico e responsabilità.
21 CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, 24 novembre 2002, n. 1.
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Le preoccupazioni per il bilanciamento dei poteri sono l’essenza di un
regime politico che rispetta la libertà e i diritti fondamentali in un quadro
sociale poliarchico. È per questo che le istituzioni politiche debbono completare il passaggio a un modello più competitivo. Tale passaggio non solo
rafforza il radicamento della Costituzione repubblicana, ma ne è, per così
dire, l’effetto. Non dobbiamo sbagliare la prospettiva: è l’incertezza del
modello così come lo vediamo oggi realizzato a generare continue tensioni
per l’equilibrio costituzionale, non il suo auspicabile coerente completamento. La verità è che gli attuali difetti di funzionamento scaturiscono dal
mancato completamento del modello. In altre parole, le istituzioni politiche vanno dotate degli accorgimenti appropriati per consolidare il cuore
del modello competitivo che chiarisce e rafforza i ruoli del governo, dell’opposizione e dell’elettore.
L’adesione alla prospettiva del bene comune porta inoltre a riconoscere
come prioritario il problema di una concezione e di una prassi coerentemente sussidiaria del federalismo,22 a riconoscere il processo avviato e a
porre la questione di come tale processo possa essere completato nella direzione che combina con maggiore efficacia le istanze di sussidiarietà e quelle di solidarietà che, non meno delle prime, degenerano non appena sottratte ai vincoli di limiti chiari e responsabilità imputabili.
(xi) Quale forma di governo (con contrappesi adeguati e una legge elettorale
coerente) per completare la transizione secondo criteri di sussidiarietà, di
responsabilità imputabile e di efficacia)
31. La transizione in corso è una straordinaria occasione per assicurare
all’Italia una generazione di istituzioni politiche adeguate, perché capaci di
assolvere alle loro funzioni specifiche e insostituibili in una società di molto
cresciuta. La visione del bene comune aiuta a porre la questione del completamento della transizione delle istituzioni politiche in una prospettiva
unificante, quella del rapporto tra potere e responsabilità (cfr. CV 21). In
questi termini, tale questione interroga la realtà ecclesiale a partire da una
comprensione storicizzata e attuale della dottrina sociale della Chiesa.
Come cattolici, non possiamo guardare alla transizione delle istituzioni
politiche con gli occhi dell’osservatore esterno. La dinamica propria del
discernimento incorpora infatti il momento del giudizio. Pensiamo dunque
che alcune opportunità debbano essere colte per spostare equilibri ancora
non stabilizzati verso nuovi assetti più funzionali al bene comune, da un
22 Cfr. Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, n. 8.
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Solidarietà 62/2010
lato per favorire la crescita di una società poliarchica e dall’altro per riconnettere, in forme più immediate e trasparenti, potere e responsabilità. La
ricerca di un nuovo equilibrio tra lo spazio politico e quello delle altre funzioni sociali non contraddice la richiesta di una maggiore capacità decisionale delle istituzioni politiche e della corrispondente responsabilità. Istituzioni politiche più forti, più articolate e più facilmente valutabili sono
essenziali al processo di crescita di una società che si vuole più ricca e più
aperta e sono anche capaci di una relazione più certa e stabile con le molteplici forme di espressione della domanda sociale.
Con lo stesso spirito con cui don Luigi Sturzo, agli inizi degli Anni ’50,
poneva in Parlamento i suoi interrogativi e denunciava le “tre malebestie”
(assistenzialismo, clientelismo, partitocrazia), noi riproponiamo interrogativi analoghi. Come consentire, in modo pieno e trasparente, agli elettori di
scegliere leader e partito (o coalizione) di governo prima del voto, per permettere un chiaro e immediato giudizio retrospettivo e prospettico dei
governati sui governanti? Come consentire a chi governa di disporre, con
equilibrio ma senza incertezze, degli strumenti appropriati per una rapida
e trasparente gestione dell’indirizzo politico? Come garantire all’opposizione parlamentare visibilità e prerogative specifiche nei confronti del
governo e della maggioranza? Come regolare, secondo il canone della trasparenza e non del solo divieto, la complessa questione del finanziamento
della politica? Guardando al panorama e alla storia delle democrazie delle
società avanzate le risposte possono essere diverse, ma non possono tardare ancora e debbono essere coerenti.
Inquadrare le forme di esercizio del potere esecutivo in sistemi di sussidiarietà e di responsabilizzazione personale significa provare a combinare
la necessità di efficacia e quella di limitazione del potere politico (cfr. CV
57), a cui richiama la visione del bene comune e che si fa particolarmente
urgente in un momento di crisi non esente da esiziali e strumentali tentazioni antipolitiche. Tutto ciò conduce a riconoscere che, nelle presenti condizioni di transizione istituzionale, va attribuita una decisa priorità al problema della forma di governo, inclusi i suoi contrappesi e una conforme
legge elettorale.
(xii) Come dare coerenza al federalismo?
32. La prospettiva del bene comune e, in particolare, il principio di sussidiarietà cui è ancorata, porta a prestare grande attenzione alle forme di
raccordo tra potere politico e responsabilità: le colloca al centro del nostro
ragionamento. Possiamo allora chiederci se le politiche di federalismo
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Solidarietà 62/2010
fiscale di cui si discute in questi tempi ci avvicinino a un migliore rapporto
tra potere e responsabilità. Una risposta esauriente non sembra possibile
allo stato dei fatti. Il criterio guida è chiaro: nei rapporti fra i territori debbono crescere il potere dei diversi livelli di governo e la loro responsabilità
rispetto alle persone che vi abitano. Il sistema fiscale è l’architrave di questo processo, lontano dalle opposte ideologie della chiusura egoistica e
identitaria di tipo territoriale e della centralizzazione burocratica dello
Stato nazione.
Nelle condizioni politico-istituzionali date, trova adeguata soddisfazione il principio di sussidiarietà? Al momento si prevedono dosi massicce di
uniformità anche per i territori fiscalmente autosufficienti, rimettendo in
moto un meccanismo centralistico che non fa crescere poteri e responsabilità, che rende un servizio incerto al principio di solidarietà e dimentica i
pregi sistemici del principio di sussidiarietà. Ciò si manifesta in misura eclatante nel caso della sanità e richiama più in generale la necessità di garantire i livelli essenziali delle prestazioni su tutto il territorio nazionale. Il diritto alla vita diviene un esercizio retorico senza quello a un’adeguata assistenza sanitaria. Tuttavia si deve a ogni costo evitare che questa ragione giustifichi il finanziamento dell’inefficienza e della quota parassitaria dell’interposizione pubblica nei diversi territori.
La recente legge-delega apre il dibattito su questo tema, ne traccia i confini, impone il confronto. Ci troviamo dunque in una fase di passaggio,
nella quale sopravvivono spinte contrapposte che si dispiegheranno nella
lunga fase di scrittura dei decreti legislativi e di entrata a regime della riforma. In questa fase potrà prevalere una coalizione di interessi favorevole a
un nuovo equilibrio tra promozione delle differenze e riduzione delle diseguaglianze oppure quella opposta. Abbiamo soggetti e interessi pronti a
sostenere un equilibrato modello italiano di federalismo fiscale, anche oltre
il perimetro degli interessi economici. Il mondo cattolico costituisce nel suo
insieme uno di essi: per patrimonio culturale e per configurazione organizzativa, dispone della cultura e delle strutture appropriate per diventare uno
dei principali attori di sostegno del processo di redistribuzione dei poteri e
delle risorse tra i diversi livelli di governo.
Allo stesso tempo, però, abbiamo a che fare con politiche di riforma
caratterizzate da molti elementi d’incertezza, a metà strada tra un funzionale compromesso fra principi di uguale valore (autonomia fiscale e riduzione delle diseguaglianze tra i territori) e la produzione di decisioni manifesto, spendibili sul piano del consenso ma fragili sul piano dell’architettura istituzionale e del tasso di reale innovazione. È forse opportuno intra206
Solidarietà 62/2010
prendere un percorso che consenta di meditare nuovamente sui dualismi e
sulle differenze territoriali del Paese, ampliando la riflessione al federalismo inteso come decentramento funzionale e non solo territoriale, evitando gli effetti perversi di quello che viene etichettato come “federalismo per
abbandono” e analizzando le potenzialità di soluzioni istituzionali differenziate per le diverse realtà territoriali, secondo un’intuizione che in fondo
apparteneva agli stessi costituenti.
33. Proprio in vista del lavoro dei prossimi mesi, crediamo opportuno
sottolineare un aspetto.
Nella lista di problemi che abbiamo proposto non vengono esplicitate
alcune grandi questioni, come la questione femminile, quella meridionale e
quella ecologica. Non ci sono neppure alcuni temi tradizionali del cattolicesimo italiano, come quello alla valorizzazione del grande patrimonio di
città e di qualità del vivere urbano o quello alla riqualificazione della pubblica amministrazione e della spesa che la finanzia.
È importante che sorgano simili interrogativi e che non siano liquidati
con risposte di metodo.
Seguendo una certa linea, abbiamo selezionato problemi il più precisi e
il più realistici possibile.
Questa scelta è stata compiuta non per evitare ma per affrontare le questioni più grandi qui ricordate.
Ciò che va fatto è aver ben presenti tali istanze e chiedersi se almeno
alcuni dei problemi inseriti nell’agenda costituiscano – date certe condizioni – i punti di partenza migliori per affrontarle.
Un primo esempio si impone: tra le questioni più urgenti, vi è certamente quella della famiglia come specifica forma di relazione fondata sul
matrimonio tra una donna e un uomo e aperta all’accoglienza della vita.
Nessuno può negare che si tratti di un istituto vitale, ma anche discusso e
seriamente minacciato. Nell’agenda proposta, praticamente tutti i problemi sono rilevanti per la famiglia, intesa sia come area di crisi che come
risorsa. Limitiamoci però ad alcuni di essi, nei quali questa rilevanza è più
evidente: come rendere il mercato del lavoro capace di riconoscere le specifiche esigenze e i peculiari diritti della famiglia e in particolare dei genitori con figli? Quali politiche fiscali e sociali per la famiglia? Come sostenere e dare nuova forza all’esercizio della autorità genitoriale? Come accrescere il potere della famiglia nello scegliere, premiare, punire o promuovere l’offerta scolastica? Come aiutarla a sostenere studi universitari di qualità per i figli?
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Come riconoscere i diritti dei figli che nascono in Italia da famiglie di
non italiani? Certo, in queste domande non si toccano tutti gli aspetti della
questione famiglia, ma – ecco il punto – sono questi i problemi da cui è realisticamente possibile partire? Si può realisticamente affermare che a partire da questi nodi è possibile dare alla famiglia le risorse per affrontare l’entusiasmante e sempre difficile compito di dire «sì» alla vita che nasce, a
quella che chiede di essere educata, a quella che soffre o va incontro alla
morte, alla vita che si manifesta nelle relazioni tra differenze, a partire da
quelle di genere e di età?
Un discorso analogo si applica alla questione di un’azione adeguata di
accoglienza, rispetto, servizio e difesa alla vita che nasce. Essa è sempre un
dono indisponibile di Dio, affidato anzitutto alla responsabilità personale.
Sappiamo però che tale irrinunciabile responsabilità può trovarsi a operare in contesti economici, giuridici, familiari e sociali più o meno favorevoli. In riferimento a tali contesti, a noi pare che le questioni qui individuate
costituiscano non la totalità di quelle rilevanti, ma alcune di quelle più
urgenti. Come dare all’economia una nuova dinamica positiva, al mercato
del lavoro forme più adeguate, alle politiche fiscali maggiore equità e maggiore riconoscimento del valore pubblico che la famiglia produce e prima
ancora è? Come rilegittimare e sostenere l’autorità di uomini e donne su cui
la generazione, la famiglia e il servizio educativo di questa si regge? Come
evitare che barriere etniche e cavilli giuridici limitino la doverosa universalità del riconoscimento della vita che nasce? Come dare alle famiglie che
educano e crescono i propri figli la ragionevole fiducia in opportunità di
mobilità sociale e dunque un poco di serenità in più nell’affrontare l’avventura del mettere al mondo una persona e nell’accettare la fatica di educare i giovani all’impegno, alla responsabilità, al dono di sé, alla maturità
richiesta da scelte vocazionali? Come riformare il nostro sistema politico e
giuridico perché torni a essere riconosciuta la non egemonia dello Stato sui
diritti delle persone? Noi riteniamo che quanto si può fare dal punto di
vista sociale per l’accoglienza e il sostegno alla vita nascente passi anzitutto
per questi gruppi di problemi, ed è appunto il rapporto tra quell’istanza
etica e l’agenda che proponiamo ciò che invitiamo a discutere con serietà e
impegno.
In certo senso, chiediamo di fare lo stesso a proposito di tutte le altre
grandi questioni. È partire da esse – la questione femminile, quella meridionale, quella ambientale, quella della garanzia della legalità e del contrasto alla criminalità organizzata, e così via – che l’agenda andrà testata e
messa in discussione.
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Solidarietà 62/2010
Contemporaneamente è importante non dimenticare di mettere in ordine i problemi, anche quando quello che precede sembra essere più piccolo, più tecnico e più “freddo” di quello che segue. Si può, per esempio,
pensare di affrontare seriamente la questione ecologica o quella della qualità urbana se non sulla base di un coerente ed efficace sistema di federalismo territoriale e funzionale? Si può affrontare la questione della qualità
della pubblica amministrazione e delle risorse che la finanziano senza aver
prospettato un certo assetto (fatto di limiti, di competenze e di responsabilità imputabili) alla forma di governo, anzitutto a livello nazionale? Si può
efficacemente affrontare un nodo – obiettivamente urgentissimo – come
quello della sanità pubblica, se non affrontando quello del potere e delle
responsabilità degli esecutivi e del modello di federalismo?
Infine, non vanno dimenticati due vantaggi del convenire, come cattolici ma anche come opinione pubblica, intorno a un’agenda ragionevolmente
breve di problemi realistici, prioritari e precisi. Per i credenti significa accettare una visione più seria dei margini – tutt’altro che illimitati – entro i quali
esercitare il legittimo pluralismo ideologico e politico.23 Anche attraverso il
richiamo alla concretezza, infatti, si combatte la confusione tra relativismo e
pluralismo. Per l’opinione pubblica convergere su un’agenda di questo tipo
significa riconoscere nella visione del bene comune un orientamento capace
di dare forma all’analisi e alle prassi e condividere la responsabilità per il
bene comune nonostante le differenze sociali, culturali o politiche.
V. Eucaristia e città
34. La visione di uomo e di società da cui partiamo per un autentico servizio al bene comune mettono in questione lo sperare. Pongono la domanda
intorno a una speranza che incoraggia la ragione e le dà la forza di orientare
la volontà. «Dio ci dà la forza di lottare e di soffrire per amore del bene comune, perché Egli è il nostro Tutto, la nostra speranza più grande» (CV 78).
Nell’esperienza della Chiesa e nella nostra esperienza quella speranza –
i cui confini non sono a noi rivelati – «è già presente nella fede, da cui anzi
23 «La legittima pluralità di opzioni temporali mantiene integra la matrice da cui proviene l’impegno dei cattolici nella politica e questa si richiama direttamente alla dottrina morale e sociale cristiana.
È su questo insegnamento che i laici cattolici sono tenuti a confrontarsi sempre per poter avere certezza che la propria partecipazione alla vita politica sia segnata da una coerente responsabilità per le realtà
temporali» (Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, n. 3).
209
Solidarietà 62/2010
è suscitata» (ivi). «Con dolcezza e rispetto, con retta coscienza» (1Pt 3, 15),
possiamo dire che l’amore e la speranza che orientano la visione e sostengono l’esercizio della responsabilità per il bene comune sono da noi continuamente ravvivate nell’Eucaristia, sacramento della Chiesa. Del resto,
cosciente di quell’economia di salvezza di cui Gesù è compimento (cfr. DV
3), la Chiesa si riconosce «in qualche modo come il sacramento, ossia il
segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il
genere umano» (LG 1).
35. Unita a Cristo, la Chiesa partecipa al compimento di quel disegno
nel quale egli «ha rivelato l’amore del Padre e la magnifica vocazione degli
uomini» e, inserendosi sino in fondo nella vita sociale e nel linguaggio degli
uomini, «santificò le relazioni umane, innanzitutto quelle familiari, dalle
quali trae origine la vita sociale» (GS 32). In Gesù, Dio e uomo si dicono
fino in fondo «sì» (RH 9). In Gesù la seconda persona della Santissima Trinità assume sino in fondo la natura umana, conoscendo la tentazione senza
cedere al peccato. Con gesti e parole24 si è fatto carico ed ha insegnato a
farsi carico di tutte le necessità della vita umana, donando e donandosi con
una sovrabbondanza che non cancella l’originalità di ciascuno ma non è
arrestata da alcun confine. Così egli ci ha preparato a comprendere il significato e la realtà del suo sacrificio eucaristico, «la più grande delle meraviglie operate dal Cristo, il mirabile documento del suo amore immenso per
gli uomini».25
36. Partecipando all’Eucaristia siamo abilitati e invitati a vivere tutta la
nostra vita secondo il progetto di vita personale e sociale di Gesù, siamo
esortati «per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio
vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» (Rm12,
1). Con radicale realismo, l’Eucaristia dice che la carità è l’orientamento di
coloro che si sono lasciati attrarre da Cristo. Ciò significa anche comprendere e servire il bene comune in qualsiasi condizione, tempo e frangente,
esercitando quel discernimento ecclesiale attraverso cui la carità si arricchisce di conoscenza (cfr. Fil 1, 9). Qui possiamo solo richiamare la fondamentale affermazione di Benedetto XVI: «la “mistica” del Sacramento ha
un carattere sociale» (DCE 14). In verità, tutto il paragrafo andrebbe atten24 Si pensi ai racconti evangelici delle “moltiplicazioni dei pani e dei pesci”: cfr Mt 14, 13-21 || Mc
6, 30-44 || Lc 9, 10-17; Mt 15, 32-39 || Mc 8, 1-10; cfr. Gv 6.
25 Ufficio delle letture della solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, cfr Opere di san
Tommaso d’Aquino, opusc. 57.
210
Solidarietà 62/2010
tamente meditato per comprendere meglio il nesso tra Eucaristia e città, tra
Eucaristia e attiva responsabilità per il bene comune: «L’unione con Cristo
è allo stesso tempo unione con tutti gli altri ai quali Egli si dona» (ivi). Esiste forse qualcuno a cui egli non si sia donato? C’è qualcuno a cui lo Spirito Santo abbia cessato di donare «la possibilità di venire associato, nel
modo che Dio solo conosce, al mistero pasquale» (GS 22)?
Se ciò è vero sempre, in modo speciale è vero per la domenica e la sua
liturgia. «Vissuta così, non solo l’Eucaristia domenicale, ma l’intera domenica diventa una grande scuola di carità, di giustizia e di pace. La presenza
del Risorto in mezzo ai suoi si fa progetto di solidarietà, urgenza di rinnovamento interiore, spinta a cambiare le strutture di peccato in cui i singoli,
le comunità, talvolta i popoli interi sono irretiti» (DD 72). Ogni Messa
domenicale genera e offre bene comune, sostiene visioni e responsabilità di
bene comune. Recita solennemente la Preghiera eucaristica V/c:
“Donaci occhi per vedere
le necessità e le sofferenze dei fratelli;
infondi in noi la luce della tua parola
per confortare gli affaticati e gli oppressi:
fa’ che ci impegniamo lealmente
al servizio dei poveri e dei sofferenti.
La tua Chiesa sia testimonianza viva
di verità e di libertà, di giustizia e di pace,
perché tutti gli uomini si aprano
alla speranza di un mondo nuovo”.
È una speranza e un amore da cui non basta partire, ma a cui occorre
sempre nuovamente tornare (cfr. SC 9-10), per esserne continuamente rigenerati. È un partire e un tornare alla mensa e al sacrificio dell’Eucaristia,
sino al giorno in cui condivideremo la pace, la giustizia, la comunione e la
gioia perfette della Gerusalemme che scende dall’alto.
Quanto la debolezza del nostro impegno per il bene comune della città
ha le sue radici nella frammentarietà e nella tiepidezza del nostro tornare e
partire dall’Eucaristia celebrata nel giorno del Signore? In un certo senso,
è proprio questo l’interrogativo che fa da orizzonte a tutte le domande che
ci siamo posti in vista delle giornate di Reggio Calabria e a cui dovremo
rispondere durante la 46ª Settimana Sociale.
37. Anche Reggio Calabria non sarà che una tappa. La forza di quell’in211
Solidarietà 62/2010
contro sarà più chiara solo in seguito, quando potremo meditare e approfondire quanto sarà maturato in quei giorni.
Un incontro vero non è prevedibile nei suoi esiti e dunque non può essere precisa la risposta alla domanda che tanti si pongono e ci pongono su ciò
che seguirà.
Fin d’ora, però, il Comitato può indicare alcune prospettive. Anzitutto
quella di non disperdere il confronto che a Reggio Calabria avrà luogo.
Cercheremo di prestare un ascolto attento e di raccogliere quanto meglio
possibile i pensieri e le proposte comunicati in quei giorni e – come tradizione – di restituirlo alle Chiese che sono in Italia e all’intera opinione pubblica.
Un impegno che il Comitato sin d’ora intende fare proprio è quello di
non interrompere il lavoro di discernimento che è stato avviato e che ha
suscitato tanto interesse. Eventi sempre nuovi renderanno presto necessari
approfondimenti, aggiornamenti ed anche cambiamenti nell’«agenda».
Di questo impegno fa parte anche il sostegno a tutte le iniziative di
discernimento che a livello locale o settoriale si sono attivate in vista dell’evento, non solo per incoraggiarle ma anche perché ciascuna di essere può
trarre grande giovamento dal mettersi in rapporto con le altre.
Infine ci sentiamo invitati a cogliere attentamente la grande opportunità costituita dal prossimo Congresso Eucaristico Nazionale, che si svolgerà
ad Ancona dal 4 all’11 settembre 2011: i due eventi sono reciprocamente
legati e si richiamano l’un l’altro e insieme riprendono concretamente il
Convegno Ecclesiale di Verona, nel riferimento agli ambiti di vita proposti
come luoghi in cui portare la speranza che viene dal Signore Risorto e dall’incontro con lui nella celebrazione eucaristica domenicale. Ogni anno,
poi, è segnato dal grande dono della festa del Corpus Domini.
Perché non riscoprire la luce che da quel giorno deriva sul mistero che
lega Eucaristia e città?
Perché non farne un’occasione per ripensare e rigenerare la visione e la
responsabilità dei cattolici per il bene comune?
Con questi pensieri e questa coscienza aspettiamo con gioia le giornate
di Reggio Calabria. A esse invitiamo tutti, con vivissima cordialità. A esse
ci prepariamo tornando sempre di nuovo alla mensa del cibus viatorum e di
lì ripartendo, nella contemplazione della presenza di Gesù Eucaristia,
vivente in mezzo a noi, nel cuore delle nostre città. Come Maria, restiamo
in ascolto della sua parola, rinnovando il nostro sì per essere pronti a fare
tutto ciò che Lui ci dirà (cfr. Gv 2, 5), nella fede che «se il Signore non vigila sulla città invano veglia la sentinella» (Sal 127, 1).
212
S
olidarietà
Autori
62/2010
Vincenzo Sorce, fondatore e presidente dell’Associazione «Casa Famiglia
Rosetta» di Caltanissetta, è membro del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani.
Giuseppe Lanza, preside emerito, ha insegnato Economia del non-profit
presso la sede didattica decentrata di Caltanissetta della facoltà di Scienze
della Formazione della Lumsa di Roma.
Diego Lana insegna Economia e gestione delle imprese presso la facoltà di
Scienze della Formazione di Catania.
Luigi D’Andrea è ordinario di Diritto costituzionale nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Messina.
Antonia Rosetto Aiello, pedagogista, ha insegnato Pedagogia sociale presso la sede didattica decentrata di Caltanissetta della facoltà di Scienze della
Formazione della Lumsa di Roma.
Luigi Bontà, coordinatore della rivista “Solidarietà”, ha insegnato Storia
contemporanea presso la sede didattica decentrata di Caltanissetta della
facoltà di Scienze della Formazione della Lumsa di Roma.
Fedele Termini, psicologo e psicoterapeuta, ha insegnato Psicologia del linguaggio e della comunicazione presso la sede didattica decentrata di Caltanissetta della facoltà di Scienze della Formazione della Lumsa di Roma.
Mauro Buscemi è assegnista di ricerca di Storia delle dottrine politiche
presso il Dipartimento di Studi Europei e della Integrazione Internazionale (D.E.M.S.) dell’Università degli Studi di Palermo.
Alessandra Tigano, dottore di ricerca in Fondamenti e metodi dei processi formativi, ha insegnato Storia della pedagogia presso la sede didattica
decentrata di Caltanissetta della facoltà di Scienze della Formazione della
Lumsa di Roma.
213
Finito di Stampare
Giugno 2010
Tipolitografia PARUZZO
C.da Calderaro (Z.I.)
93100 Caltanissetta