eum x Biblioteca Giornale di Storia costituzionale Maurizio Ricciardi La società come ordine. Storia e teoria politica dei concetti sociali eum Biblioteca del Giornale di Storia costituzionale Collana diretta da Luigi Lacchè, Roberto Martucci, Luca Scuccimarra 4 ISBN 978-88-6056-260-9 Prima edizione: dicembre 2010 ©2010 eum edizioni università di macerata Centro Direzionale, Via Carducci 63/a - 62100 Macerata [email protected] http://ceum.unimc.it Stampa: stampalibri.it - Edizioni SIMPLE via Trento, 14 - 62100 Macerata [email protected] www.stampalibri.it Opera pubblicata con il contributo dell’Università degli Studi di Macerata, Dipartimento di diritto pubblico e teoria del governo Indice 9 Introduzione Capitolo primo L’ordine della società 15 1.La catena spezzata 25 33 43 2.La forza dell’ordine 3.La natura dell’ordine 4.Ordine e ideologia Capitolo secondo Storia e sistema: il capitalismo 55 73 80 1.Epoche perdute 2.La scienza del tempo 3.Uno Stato senza comunità Capitolo terzo Società e amministrazione 89 1.Scienza dell’amministrazione e società 95 108 2.Nel tramonto dei re 3.La costituzione societaria 6 indice Capitolo quarto Sociologia dell’individuo 117 1.Modernità sociologica 131 134 2.L’ordine dell’uomo collettivo 3.La legge della società e la norma comunitaria Capitolo quinto Storia e sistema: il lavoro 141 152 161 1.Un oscuro desiderio di libertà 2.Psicofisica del lavoro quotidiano 3.Sotto il dominio del capitalismo Capitolo sesto La struttura dell’ordine 171 1.La scienza dell’ordine 179 187 2.Il sovrano e il potere 3.La legittimità del fattuale Capitolo settimo L’ordine ritrovato 195 203 209 1.Metafisica e scienze sociali 2.Tacco e martello 3.L’ordine della teoria Capitolo ottavo L’individuo della sociologia 223 230 241 1.Pensiero ideologico e diritto positivo 2.Semantica come processo storico 3.La fuga nel soggetto indice Capitolo nono Storia e sistema: lo Stato 247 1.La storia di un sistema 255 263 271 278 2.Gli individui della società 3.Una società senza individui 4.Modi di dominazione 5.Storia e sistema 7 Introduzione «Queste viene che quelle cose che noi chiamiamo grandi per es. un’impresa, d’ordinario sono fuori dell’ordine, e consistono in un certo disordine: ora questo disordine è condannato dalla ragione». Giacomo Leopardi, Della natura degli uomini e delle cose1 La società come ordine sembra imporsi con l’evidenza irresistibile di un effetto della ragione. Il concetto di ordine è però antico e carico di storia. La società come ordine è a sua volta un prodotto storico e inizia a strutturarsi nel passaggio tra il XVIII e il XIX secolo, quando tramonta la società divisa in ordini, ovvero l’antica società per ceti. Proprio perché non è più praticabile l’idea che la società possieda già un ordine che si mostra in tutta la sua evidenza nelle stabili gerarchie delle relazioni tra i ceti, nelle norme della tradizione, nei privilegi giuridicamente riconosciuti, nei rapporti patriarcali, diventa necessario e possibile pensare un ordine per la società. L’ordine in questione, non essendo più presupposto, emerge dalle relazioni che si stabiliscono tra gli individui, al punto da fare della società un luogo onnicomprensivo e globale al cui interno ogni potere e ogni subordinazione acquisiscono un senso e diventano legittimi. Non potendo più fare assegnamento sull’ordine come presupposto ontologicamente fondato, è in primo luogo necessaria una mutazione radicale nella comprensione della società, tale da far considerare i movimenti, i conflitti, le differenze, non come 1 Edizione tematica dello Zibaldone di pensieri stabilita sugli Indici leopardiani, a cura di F. Cacciapuoti, Roma, Donzelli, 1999, p. 3. 10 introduzione elementi di un disordine potenzialmente catastrofico, ma come parti costitutive dello stesso ordine sociale. Assumere il punto di vista del disordine, non significa evidentemente che movimenti, conflitti, differenze siano improvvisamente considerati legittimi. Significa invece riconoscere la necessità di approntare in maniera decisa e irrinunciabile i percorsi per istituzionalizzare i luoghi del disordine, come possono essere il lavoro, la città o la famiglia. L’ordine della società è un ordine paradossale: gerarchico ma composto da individui liberi e uguali. La sua legittimazione è possibile trasformando le condizioni di evidente disuguaglianza e di subordinazione in situazioni aperte e determinate dalle necessità organizzative dei rapporti sociali. Istituzionalizzare, organizzare, amministrare sono i correlati necessari dell’ordine sociale e comportano uno sforzo di conoscenza della società medesima. Storicamente si è resa perciò sempre più necessaria una scienza dei comportamenti collettivi che non fosse la piatta riproduzione delle discipline dell’individuo. In maniera nient’affatto paradossale il processo di disciplinamento degli individui che si presentano in massa corrisponde a una progressiva dissolvenza dell’individuale. Nate dalle storie della società e dall’economia politica alla fine del Settecento, le scienze sociali rispondono a questa necessità. Esse si affermano come discipline della società, nel duplice senso di essere le discipline scientifiche che la studiano e di essere gli ambiti in cui vengono scientificamente individuati i percorsi di disciplinamento dei comportamenti collettivi. Mentre l’economia ha ormai preso commiato dal suo carattere politico, per diventare sempre più tecnologia delle ricchezze, mentre il capitalismo diviene la forma organizzativa dispiegata della società contemporanea, le scienze sociali mostrano la dimensione più profondamente storica del pensiero politico, diventando progressivamente la forma moderna della teoria politica. Esse non delimitano un ambito spoliticizzato, non contribuiscono a una sorta di «sublimazione della politica», individuano piuttosto gli ambiti in cui i rapporti sociali esibiscono una politicità che non viene rappresentata. Esse non dichiarano e tanto meno stabiliscono effettivamente l’obsolescenza dei concetti poli- introduzione 11 tici moderni, ma li inglobano all’interno di un discorso scientifico che conserva a lungo le differenze disciplinari, ma è veramente comprensibile solo nella sua globalità. Esemplare è a questo proposito la vicenda del concetto di sovranità, il più pregnante dei concetti politici moderni. Oggi ne viene spesso dichiarato il superamento, quando non ne viene annunciata la scomparsa più o meno definitiva. Da almeno mezzo secolo, senza mai farlo scomparire completamente, le scienze sociali lo considerano un concetto tendenzialmente periferico, che non è cioè in grado di determinare autonomamente e assolutamente il potere nella società, affiancato com’è, da poteri e strutture sociali che gli impongono limiti fattuali. Ed è altrettanto un’acquisizione delle scienze sociali che lo Stato non è esclusivamente determinato dai suoi diritti di sovranità, ma riesce ad adattarsi e sopravvivere anche quando ne cede alcuni ad altre istituzioni sociali. Ricostruire la storia e il sistema dell’ordine significa indagare le due caratteristiche che la società contemporanea ha mostrato di possedere, ovvero la capacità di rispondere nel tempo alle spinte del disordine e quella di costituirsi come struttura sistematica. Storia e sistema non sono stati evidentemente privi di contraddizioni, così come non hanno stabilito una società perfettamente integrata. Di sistematico vi è stato piuttosto il carattere astratto dell’ordine della società, la sua capacità di determinare e organizzare i comportamenti in modo che nessuno possa di fatto determinarlo individualmente e nessuno sottrarsi individualmente a esso. Da questo punto di vista il concetto storico di ordine è rintracciabile nella società degli idéologues, nel capitalismo di Karl Marx, nel dominio burocratico di Max Weber, nel sistema sociale di Talcott Parsons, nella società mondiale di Niklas Luhmann. Ormai quasi dieci anni fa, concludendo l’introduzione a una storia del concetto di rivoluzione, scrivevo che «vi possono essere, e vi sono, comportamenti soggettivi che non si lasciano definire dal linguaggio del diritto. Individualità le cui pratiche orientate al superamento dell’esistente, non sono definite dal loro essere parte di un ordine, né mirano prioritariamente a costituirsi come ordine». Esplicitavo in questo modo la centralità che aveva per 12 introduzione me da tempo il problema della storia dell’ordine all’interno della società contemporanea. La ricerca nel frattempo è andata avanti, la convinzione di fondo rimane la stessa. I capitoli di questo libro sono stati scritti in momenti diversi, ma costituiscono i singoli episodi di una ricerca di lungo periodo. Il primo capitolo è completamente inedito; gli altri sono il frutto di profonde rielaborazioni necessarie non solo dal punto di vista della bibliografia, ma anche per evidenziare il carattere sistematico della ricerca e del volume. Il secondo capitolo è stato pubblicato in I confini della globalizzazione. Lavoro, culture, cittadinanza, a cura di S. Mezzadra e A. Petrillo, Roma, Manifestolibri, 2000. Il terzo capitolo è stato pubblicato in «Annali dell’istituto storico italo-germanico in Trento», 18, 1992. Il quarto capitolo faceva parte del volume collettaneo Comunità, individuo e globalizzazione. Idee politiche e mutamenti dello Stato contemporaneo, a cura di G. Cavallari, Roma, Carocci, 2001. Il quinto capitolo è apparso in «Etica & Politica / Ethics & Politics», 2, 2005. Il sesto capitolo è stato pubblicato in un volume da me curato: L’Occidente sull’Atlantico, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006. Il settimo capitolo è stato pubblicato in un volume curato da S. Mezzadra con il titolo Cantieri d’Occidente. Scienze sociali e democrazia tra Europa e Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008. L’ottavo capitolo è stato pubblicato in «Scienza & Politica», 41, 2009. Il nono capitolo è uscito in «Storia Amministrazione Costituzione. Annale dell’Istituto per la Scienza dell’Amministrazione Pubblica», 16, 2008. introduzione 13 Vorrei infine ringraziare tutti coloro con i quali ho discusso negli anni queste ricerche: da Trento, a Vicenza, a Bologna, fino a Macerata, via Fano. Questo libro è dedicato ad Annamaria e Marco, che non hanno smesso di fumare. Capitolo primo L’ordine della società 1. La catena spezzata Ammesso che per quasi due millenni sia esistita continuamente e senza interruzioni, dalla seconda metà del XVIII secolo la “grande catena dell’essere” mostra vistose crepe, perché la sua struttura risulta sempre più inadeguata per l’organizzazione dei rapporti che si stanno instaurando all’interno della società capitalistica1. Il modello di ordine che essa presuppone è statico e non riconosce alcuna legittimità alle figure individuali e collettive, nonché alle forme politiche che si stanno affermando nel lungo tramonto dell’antica società per ceti. Nel secolo precedente, con la massima evidenza e con uno strepitoso successo, la rivoluzione newtoniana aveva mostrato che l’ordine stesso dell’universo poteva essere riscoperto, facendone l’oggetto di una sistematica ricerca scientifica che lo indagasse con precisione nei suoi particolari. Diventato il «credo scientifico del secolo XVIII», il newtonismo contribuisce, anche al di là delle stesse teorie dello scienziato inglese, a stabilire le condizioni per concepire un «ordine spontaneamente nascente dall’interazione di atomi isolati e indipendenti»2. Questo nuovo concetto d’ordine 1 A.O. Lovejoy, The Great Chain of Being. A Study of the History of an Idea, Cambridge (Mass.), Harvard U.P., 1936; trad. it. La Grande Catena dell’Essere, Milano, Feltrinelli, 1981, p. 265. 2 A. Koyré, Newtonian Studies, Cambridge (Mass.), Harvard U.P., 1965; trad. it. Studi newtoniani, Torino, Einaudi, 1972, p. 25. 16 la società come ordine diviene ben presto fondamentale per concepire anche la costituzione della società3. Com’è facile intuire, trasporre l’ordine equilibrato del cosmo a quello di una società si rivela un’operazione assai complessa e piena di contraddizioni. L’ordine della società, infatti, non può più essere la replica di un ordine superiore, divino o naturale, ma deve essere costituito dai movimenti di elementi mobili che con la loro azione possono potenzialmente metterlo in discussione, così come esso può essere squilibrato dall’azione di chi lo dovrebbe governare4. Ciò nonostante l’idea che la società possa essere pensata come ordine emerge nel dualismo tra ordine naturale e ordine sociale delle dottrine fisiocratiche, per manifestarsi poi nella teoria di Adam Smith come ordine sistematico dell’economia della società, fino a essere un elemento basilare del discorso della scienza sociale inaugurato in Francia dagli idéologues, proprio quando, dopo il riferimento ossessivo all’ordine naturale e sociale proprio della scienza fisiocratica, sembra, almeno temporaneamente, annunciarsi la defezione dello stesso nome ordine. Nella nascente economia politica esso trova però motivazioni specifiche e produce effetti peculiari, contribuendo in maniera determinante all’affermazione di un nuovo canone disciplinare. Già nelle dottrine economiche settecentesche, l’ordine è affermato come un effetto della società, di modo che l’economia dei moderni non può in alcun modo essere considerata come l’appendice, o addirittura la ripetizione, di un discorso millenario sull’ordine e il suo governo5. 3 Fondamentale rimane a questo proposito G. Freudenthal, Atom und Individuum im Zeitalter Newtons. Zur Genese der mechanistischen Natur- und Sozialphilosophie, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1982. 4 A. Koyré, Studi newtoniani, cit., p. 24: «Ma se l’ordine e l’armonia, con tale evidenza, prevalevano nel mondo della natura, come poteva accadere che, con altrettanta evidenza, non fossero presenti nel mondo dell’uomo? La risposta sembrò chiara: il disordine e la disarmonia erano creazioni umane, generate dallo sforzo stolto e ignorante dell’uomo di alterare le leggi della natura o anche di sopprimerle e di sostituirle con regole poste da lui stesso». 5 Questa sembra essere invece la lettura di G. Agamben, Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo. Homo sacer, II, 2, Vicenza, Neri Pozza, 2007. Cfr. anche le osservazioni di B. Karsenti, C’è un mistero del governo? Genealogia teologica «versus» teologia politica, in «Iride», 22, 2009, pp. 307-323. 1. L’ordine della società 17 La società come ordine è in primo luogo un effetto ideologico, non nel senso che essa venga prodotta, rappresentata o imposta travisando in maniera più o meno consapevole la realtà, ma perché storicamente essa si instaura all’interno della produzione di dottrine, teorie e discorsi pubblici riconducibili alle semantiche politiche e sociali degli idéologues. Si può dire che la società come ordine è l’esito, necessario e ricercato, di quel nuovo campo di ricerca e applicazione scientifica che sono le scienze sociali e della nuova forma di costruzione del discorso pubblico e politico che è l’ideologia. La soglia epocale tra il XVII e il XVIII secolo segna così un passaggio all’interno del quale si modifica lentamente ma inesorabilmente anche la concezione tradizionale dell’ordine6. Esso cessa di essere una necessità antropologica sottratta all’azione consapevole degli individui, un riferimento assolutamente necessario e quindi persino precedente alla politica, per diventare un concetto storico con una semantica complessa che emerge in connessione con il progressivo affermarsi del concetto di società e delle sue molteplici discipline7. Nel momento in cui la struttura interna di quest’ultima non è più vincolata all’esistenza istituzionalizzata di “ordini” o ceti, si apre la possibilità di pensare per la prima volta un ordine della società che si costituisce grazie alla cooperazione – che non significa necessariamente la collaborazione – di tutti gli individui. L’ordine di questa società non può avere solo a che fare con la stabilità e la continuità, ma deve comprendere in sé i movimenti individuali e collettivi, le azioni e le reazioni, in definitiva il mutamento delle strutture e quella che al suo interno – e solo al suo interno – si definisce come la libertà degli individui. In questo modo la stessa classica alternativa tra tirannia e libertà, in quanto diversi e contrapposti modelli d’ordine, viene riformulata in maniera radicale, decadendo nel momento in cui entrambi i suoi termini si trovano posizionati nello stesso ambito di relazione. L’alternativa decade perché lo 6 Cfr. M. Fattori, M. Bianchi (a cura di) Ordo. II° Colloquio Internazionale del Lessico Intellettuale Europeo, Roma, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, 1979. 7 A. Anter, Die Macht der Ordnung, Tübingen, Mohr Siebeck, 20072. 18 la società come ordine stesso disordine sociale si colloca all’interno della società, non potendo più essere attribuito come tendenza manifesta a chi pretende l’esclusività del comando o l’eccesso di libertà. Lo nota Jeremy Bentham, ricordando che il nome ordine è uno dei mantelli con cui normalmente si copre la tirannia. Nel momento in cui diviene sociale, esso non rimanda più alla coazione esterna imposta da una volontà più o meno arbitraria, trasformandosi piuttosto nell’effetto della cooperazione di tutti gli individui. Scrive Bentham: Con l’aggiunta di sociale il soggetto ordine è forse reso in qualche modo meno adeguato all’uso dei tiranni, ma non troppo. Tra gli scopi per i quali il termine sociale è impiegato vi è infatti quello di rendere evidente uno stato di cose favorevole alla felicità della società, ma esso è anche impiegato allo scopo di rendere evidente uno stato di cose che non può essere considerato in altro modo se non avente luogo in società8. Ciò che impressiona Bentham è questa sorta di coazione della presenza, cioè il fatto che l’ordine sociale diviene lo spazio intrascendibile della cooperazione societaria. La catena si è spezzata, ma è sorta una nuova e altrettanto forte dipendenza non verso determinati individui personalmente superiori, ma verso la società nel suo complesso. Solo in società è possibile essere individui uguali, perché solo qui esiste l’ordine che lo consente: la società non è ordinata direttamente dalle figure che la animano, ma è la condizione della loro esistenza. L’alternativa classica tra tirannia e libertà decade quindi perché entrambe trovano la loro ragione nella società e non in qualche forma politica che governa occasionalmente gli individui. Si mostra così il problema di una politicità che emerge dagli stessi rapporti sociali determinandoli come ordine, se con questo termine s’intende l’istituzionalizzazione di rapporti di comando e di obbedienza fondati non 8 J. Bentham, The Book of Fallacies (1824), in The Works of Jeremy Bentham, Edinburgh, William Tait, 1843, vol. ������������������������������������������������� II, pp. 375-487, p. 441. Sull’innovazione concettuale della dottrina benthamiana cfr. P. Rudan, Governare la felicità. Riflessioni sulla rinuncia al contratto originario nel pensiero politico di Jeremy Bentham, in S. Chignola, G. Duso (a cura di), Storia dei concetti. Storia del pensiero politico. Saggi di ricerca, Napoli, Editoriale Scientifica, 2006, pp. 63-117. 1. L’ordine della società 19 sulla dipendenza personale, ma sulla conformità ai movimenti della società nel suo complesso. La specificità della politica della società è che essa non avviene per garantire posizioni personali di potere, ma la cooperazione societaria complessiva, ovvero la disposizione organizzata di tutti gli individui necessari a questa forma cooperativa. L’ordine da questo punto di vista non è un fine in sé. L’ordine è la forma politica dei rapporti societari. Per chiarire ulteriormente la storia e la teoria politica di questi concetti si deve in primo luogo rilevare che l’irruzione del termine sociale trasforma il campo semantico del termine ordine, rendendolo disponibile a un uso politico grazie alla legittimazione garantita dalla sua formalizzazione scientifica, e all’inscrizione nell’ambito quanto mai indeterminato del “sociale” tanto del concetto di ordine quanto del suo opposto semantico, cioè del disordine. All’interno di questo nuovo ambito sempre in via di definizione essi assumono un significato reciproco e simmetrico. A proposito dei decenni conclusivi del XVIII secolo, Michel Foucault scrive che, grazie a «un’analisi sempre più raffinata del disordine, si stabilisce l’ordine, cioè quel che resta. L’ordine è ciò che resta una volta che si sarà impedito tutto ciò che è vietato»9. Se è assolutamente vero che il disordine diviene una parte fondamentale della costituzione e della gestione dell’ordine, una parte senza la quale è impossibile qualsiasi discorso sulla politica della società, è altrettanto vero che l’ordine non è il residuo che si ottiene assicurando la sicurezza o il controllo della popolazione, ma la forma politica che esse assumono. Nonostante distingua così attentamente governo e sovranità, la soluzione foucaultiana assume inavvertitamente la radicale modernità della dottrina hobbesiana che in apparenza fa della libertà lo spazio residuale lasciato ai desideri dei soggetti dai divieti del sovrano, ma in realtà fa della presenza dello stesso sovrano la condizione necessaria affinché si dia la libertà di quei desideri. Più importante è però rilevare 9 M. Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France (19771978), Paris, Gallimard-Seuil, 2004, p. 47; trad. it. Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Milano, Feltrinelli, 2005, p. 46. 20 la società come ordine che anche il concetto di popolazione di Foucault è un concetto d’ordine e condivide con quest’ultimo la semantica della società e del sociale10. L’insieme di individualità e regolarità che, sulla scia degli economisti fisiocratici, Foucault chiama popolazione, non è organizzato in vista della soddisfazione individuale, ma della sua riproduzione. La naturalità della società propugnata dagli economisti settecenteschi altro non è che la consapevolezza acquisita, e difesa con forza contro ogni possibile argomento alternativo, che la società è una realtà empirica che non ha bisogno di una fondazione politica, come poteva essere il patto sociale. Popolazione e società finiscono per coincidere, così come la libertà è trasformata in disordine produttivo per la costruzione sempre più ampia e articolata della «governamentalità» societaria11. Non a caso Foucault non separa società e governo, facendo del secondo un effetto della prima, destinato a organizzare individualmente e globalmente il sociale. Come già sosteneva non senza preoccupazione Bentham, la società designa così uno spazio totale che, proprio perché può persino fare del disordine una forma di manifestazione del suo ordine, non rende superflua la sovranità, ma ne fa una conseguenza e una necessità dello stesso ordine della società. Difendere la società, ma spesso persino contestarla, è un modo per affermare la sovranità della società, delle sue gerarchie, della storicità dei suoi rapporti. Alla radice del problema politico dell’ordine vi è il presentarsi in massa di una molteplicità di individui uguali privi di ogni gerarchia prestabilita che organizzi la loro cooperazione. La sconcerto verso l’uguaglianza e la necessità della cooperazione conducono alla ricerca dell’ordine sociale, perché quest’ultimo diviene il modo per evitare gli effetti politici dell’uguaglianza, pur mantenendola come forma. Lo dice con la massima chiarezza Walter Eucken, il padre dell’Ordoliberalismus, intervenendo subito dopo la seconda guerra mondiale, ovvero nel pieno di un’altra crisi epocale, per riproporre la centralità del problema 10 Ibid., 11 Ibid., p. 65. pp. 258-261. 1. L’ordine della società 21 politico dell’ordine. Scrive dunque Eucken a proposito dell’avvento della società alla fine del Settecento: «Moltissimi uomini scivolano nella condizione della massificazione, ma la massa pensa con concetti collettivi ed è priva di attività autonoma; ama il mito, non la ragione. Il pensare per ordini le è assolutamente distante»12. Viene così esplicitato un nodo di grande rilevanza in tutto il discorso moderno sull’ordine: il punto di massima scomparsa dell’ordine non dimostra la decadenza del mondo e tanto meno esprime la minaccia di un’impossibilità definitiva dell’ordine stesso; al contrario, come già avviene nella dottrina hobbesiana, il punto zero dell’ordine diviene anche la condizione di possibilità per progettare l’ordine stesso13. Questa costitutiva evanescenza dell’ordine produce una scienza sociale che può alternativamente mostrare sia la necessità di produrre l’ordine mancante sia l’esistenza di un ordine invisibile. In entrambi i casi l’ordine è un effetto di ragione e di conoscenza, in primo luogo della società e della sua organizzazione, ovvero del suo governo. L’ordine può essere solo ed esclusivamente sociale, perché esso è ora totalmente immanente alla società stessa e dipende da come viene pensato il suo governo. A differenza di quanto fa Foucault negli stessi anni, Friedrick A. von Hayek separa radicalmente governo e società, concependoli come due ambiti differenti e tendenzialmente conflittuali. Mentre per Foucault l’attività di governo organizza la vita degli individui e della società nel suo complesso, perché entrambi rispondono in definitiva alla stessa logica, Hayek riserva al solo governo il carattere di organizzazione, determinata da scopi e da valori particolari, «ma la società non lo è»14. Alla radice dell’or12 W. Eucken, Das ordnungspolitische Problem, in «Ordo», 1, 1948, pp. 56-90, p. 79. 13 H. Blumenberg, Ordnungsschwund und Selbstbehauptung. Über Weltverstehen und Weltverhalten im Werden der technischen Epoche, in H. Kuhn, F. Wiedmann (Hrsg.), Das Problem der Ordnung, Meisenheim am Glan, Hain, 1960, pp. 37-57. 14 F.A. von Hayek, Law, Legislation and Liberty. A New Statement of the Liberal Principles of Justice and Political Economy, London, Routledge and Keagan, 1983; trad. it. Legge, legislazione e libertà. Critica dell’economia pianificata, Milano, Est, 2000, p. 220. 22 la società come ordine dine della società vi è di conseguenza una ridefinizione del sociale con la pretesa polemica di riscoprirne la natura vera e originale. Il sociale vero e proprio è, per sua natura, non razionale, non è il risultato di un ragionamento logico, ma la conseguenza di un processo di evoluzione e selezione sovra-individuale, a cui l’individuo sicuramente dà il suo contributo, ma le cui parti componenti non possono essere dominate da una singola mente15. Questa concezione del sociale rende possibile concepire l’ordine come astrazione, ovvero come «disposizione verso certi campi d’azione»16, in definitiva indifferente agli individui. Essendo fondato sulla regolarità dell’agire e sull’aspettativa di simili comportamenti futuri17, esso assume il mercato come unica fonte delle regole di condotta della società. L’ordine della società è – e deve essere – spontaneo, perché non può dipendere dalla volontà di pochi o di alcuni individui, così come non può essere organizzato, nel senso di fondarsi su istituzioni create per accordarlo con l’economia e i suoi soggetti. Per Hayek il mercato, in quanto ordine della società, risolve automaticamente la questione della cooperazione, prevedendo al suo interno solo rapporti di coordinazione e nessun rapporto di subordinazione. Il fatto politico della subordinazione non può d’altra parte emergere se nel concetto stesso di ordine viene postulata l’indifferenza nei confronti della posizione materiale degli individui, che dovreb- 15 F.A. von Hayek, What is ‘Social’ – What Does It Mean?, in Id., Studies in Philosophy, Politics and Economics, London, Routledge & Kegan Paul, 1967; trad. it., Che cos’è il sociale? Cosa significa?, in Studi di filosofia, politica ed economia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1998, pp. 419-435, p. 426. 16 F.A. von Hayek, The Primacy of Abstract, in Id., New Studies in Philosophy, Politics, Economics and the History of Ideas, London, Routledge, 1978; trad. it. Il primato dell’astratto, in Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia delle idee, Roma, Armando, 1988, pp. 45-59, p. 49. 17 Hayek, Legge, legislazione e libertà, cit., p. 49, intende con ordine «uno stato di cose in cui una molteplicità di elementi di vario genere sono in relazione tale, gli uni rispetto agli altri, che si può imparare, dalla conoscenza di qualche particolare spaziale o temporale dell’intero insieme, a formarsi aspettative corrette sulle altre parti di quell’insieme, o, almeno, aspettative che hanno una buona possibilità di dimostrarsi corrette». 1. L’ordine della società 23 bero avere tutti la medesima possibilità di applicare la stessa razionalità nelle loro aspettative. Non a caso, tuttavia, per affermare il suo concetto di ordine sociale Hayek si impegna in una ristrutturazione del concetto di individualismo, facendone «in primo luogo una teoria della società, un tentativo di comprendere le forze che determinano la vita sociale dell’uomo»18. L’individuo di Hayek accetta la supremazia della società e dei suoi movimenti. Più che individualismo radicale, l’ordine di Hayek prevede un individuo completamente socializzato che per essere tale deve rinunciare a concepire istituzioni e forme di cooperazione a partire dalla propria capacità progettuale. La battaglia di Hayek contro la sociologia è in primo luogo rivolta contro l’idea che la società sia organizzabile. L’ordine concreto può solo realizzare l’ordine spontaneo senza immettere altri elementi di organizzazione. Per Hayek quelli necessari risultano dalla sua genealogia della teoria dell’ordine sociale, che valorizza i decenni tra Sette e Ottocento, perché, come vedremo, in quel periodo le scienze sociali assolvono la funzione di scienze dell’ordine cooperativo della società. Se dunque il nesso necessario tra la scienza della società e la sua organizzazione viene identificato in Inghilterra e poi in Francia nella seconda metà del Settecento raccogliendo varie e diverse tradizioni disciplinari, si deve tuttavia riconoscere che esso si mostra in tutta la sua evidenza quando il nome sociologia è ormai riconosciuto ed essa si sta affermando definitivamente quale scienza sociale fondamentale, in grado di risolvere l’enigma dell’ordine della società. Per Max Weber il compito fondamentale di un’argomentazione scientifica è rivolgersi «al nostro potere e al nostro bisogno di ordinare concettualmente [denkend ordnen] la realtà empirica»19. 18 F.A. von Hayek, Individualism and Economic Order, Chicago, The University of Chicago Press, 1948, p. 3. 19 M. Weber, Die «Objektivität» sozialwissenschaftlicher und sozialpolitischer Erkenntnis (1904), poi in Id., Gesammelte Aufsätze für Wissenschaftslehre, Tübingen, Mohr (Siebeck), 19887, pp.146-214, p. 155; trad. it. L‘«oggettività» conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, in Id., Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino, Einaudi, 1974, pp. 53-141, p. 66. 24 la società come ordine L’ordine della scienza s’impone sul caos inestricabile dei processi e degli eventi storici e culturali, essendo allo stesso tempo parte di quell’ordine razionale e fondato sul calcolo che è il sistema burocratico e capitalistico. In maniera non molto differente Emile Durkheim sostiene che solo la complessità dei fatti sociali ci porta «a credere che tutti i processi avvengano in maniera contingente e, più o meno, disordinata»20. La sociologia identifica per Durkheim le leggi interne della storia e del sistema della società. L’esito di questa ricerca è che ci «si trova quindi davanti a un ordine stabile, immutabile, e per descriverlo e spiegarlo diventa necessaria una scienza pura, come per dire quali che ne siano i caratteri e da quali cause dipendano»21. Il fatto che la società sia compresa come un ordine comporta che essa non possa «apparire come una materia indefinitamente malleabile e plastica». Il riferimento alla forma è centrale in ogni concetto di ordine: essa è mutevole, sebbene in ogni conformazione si presenti come forma ordinata capace di assolvere funzioni specifiche e determinate22. La forma è l’ordine in movimento con la capacità di mantenere costantemente la propria gerarchia interna. Sia che si consideri come Max Weber la società burocratica e capitalistica un destino inevitabile, sia che come Durkheim si presumano i movimenti ordinati e costanti di quella società, alla sociologia viene di fatto affidata una funzione sociale. Essa «ci allontana solamente da tentativi irresponsabili e sterili, ispirati dalla credenza di poter combinare, a nostro piacimento, l’ordine sociale, senza tener conto delle tradizioni, della costituzione mentale dell’uomo e della società»23. Da questo punto di vista gli approcci di Max Weber e di Emile Durkheim trovano la loro sintesi nella subli- 20 E. Durkheim, Sociologie et sciences sociales, in De la méthode dans les sciences, Paris, F. Alcan, 1909; trad. it. Sociologia e scienze sociali, in Id., La scienza sociale e l’azione, Milano, Est, 1996, pp. 147-168, p. 148. 21 Ibid., p. 151. 22 R. Arnheim, Order and Complexity in Landscape Design, in P.G. Kuntz, The Concept of Order, Seattle-London, University of Washington Press, 1968, pp. 153-166. 23 Durkheim, Sociologia e scienze sociali, cit., pp. 152-53. 1. L’ordine della società 25 mazione scientifica del problema dell’ordine operata da Niklas Luhmann, il quale sostiene che esso sia sempre già risolto nel momento in cui diviene oggetto di trattazione scientifica24. Solo a questo livello di astrazione la sociologia può rinunciare alla storia, essendo di fatto la storia della società al presente. Nella sua espressione classica, come scrive Durkheim, essa è «un tipo di storia intesa in maniera particolare», che ha come suo unico oggetto la storia della società. 2. La forza dell’ordine Esiste però una sorta di preistoria, nella quale gli elementi fondamentali che abbiamo finora indicato compaiono in maniera tanto esplicita quanto immatura, assumendo perciò la funzione di una semantica di transizione. Nelle dottrine dei fisiocratici i movimenti della società consegnano allo sguardo dell’osservatore l’evidenza dell’ordine, si tratta solo di riconoscerla come tale. L’ordine evidente si basa su di una doppia scoperta: quella della società e quella conseguente dell’economia come scienza sociale necessaria. La società si fonda sul «diritto che l’uomo ha alle cose adatte al suo godimento»25. La declinazione che, sulla scorta di Quesnay, i fisiocratici forniscono del diritto naturale, lo caratterizza non per la sua vigenza in una condizione precedente a quella societaria, ma per essere la legittimazione per il godimento dei beni all’interno della società. Implicitamente ma chiaramente contro Hobbes, Quesnay fa quindi valere la futilità di ipotizzare uno stato di natura nel quale ognuno dovrebbe avere il diritto a ogni cosa. Il diritto naturale è invece relativo a ciò che ognuno può procurarsi con il proprio lavoro. La naturalità della società, 24 N. Luhmann, Wie ist soziale Ordnung möglich?, in Id., Gesellschaftsstruktur und Semantik. Studien zur Wissenssoziologie der modernen Gesellschaft, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1993, vol. II, pp. 195-285; trad. it. Come è possibile l’ordine sociale, Roma-Bari, Laterza, 1985. 25 F. Quesnay, Le droit naturel (1765), in M.E. Daire (a cura di), Physiocrates, Osnabrück, Otto Zeller, 1966, pp. 41-55; trad. it. Il diritto naturale, in I Fisiocratici, a cura di B. Miglio, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 111-125, p. 111. 26 la società come ordine o meglio del lavorare in società, diviene così la conferma evidente di un diritto limitato e ordinato al godimento. Il riferimento alla natura, luogo anche della difformità ordinata, consente di giustificare la presenza delle differenze sociali, perché «le cause fisiche del male fisico sono le stesse cause dei beni fisici»26. In questo modo quelle differenze non turbano l’esistenza di una società che non è fondata sull’universale appartenenza, ma sul possesso e sulla possibilità di godere ciò che si possiede. Nel complesso è quindi certamente vero che quella dei fisiocratici è la «lucida teorizzazione dell’assolutismo borghese»27, al punto di fare della proprietà, intesa come indice quantitativo di appartenenza, il principio che definisce la forma di ogni società28. La proprietà è la fonte stessa della «libertà sociale»29, perché permette l’indipendenza del godimento. Questa composizione ordinata di proprietà e libertà si dovrebbe imporre grazie alla propria semplicità, alla propria immediata evidenza. La proprietà è l’autentica «relazione d’ordine»30, ovvero il mezzo che assicura la possibilità di agire liberamente in società, così come esistono mezzi fisici forniti dalla natura. L’omologia tra l’ordine naturale e quello sociale serve ad affermare il carattere non arbitrario del secondo. Il dispotismo dell’evidenza motiva e legittima così un discorso politico e istituzionale che altrimenti risulta confuso e poco coerente nelle sue possibili applicazioni. Importante non è tanto chi rappresenta il governo della nazione, quanto piuttosto che quel governo esprima una «autorità unica» in grado di conformare l’ordine sociale all’ordine naturale. Per un verso risulta il carattere, potremmo dire, classicamente sovrano di questa auto26 Quesnay, Il diritto naturale, cit., p. 116. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’età moderna, Torino, Giappichelli, 2002, p. 429. 28 Quesnay, Il diritto naturale, cit., p. 121: «La forma delle società dipende dunque dalla maggiore o minore quantità di beni che ciascuno possiede o può possedere, e dei quali vuole assicurarsi la conservazione e la proprietà». 29 Le Mercier de la Rivière, L’ordre naturel et essentiel des sociétés politiques (1767), Paris, Paul Geuthner, 1910, p. 35. 30 Così la descrive il fondamentale testo di C. Larrère, L’invention de l’économie au XVIIIe siècle. Du droit naturel à la physiocratie, Paris, PUF, 1992, pp. 188 sgg. 27 I. 1. L’ordine della società 27 rità, mentre per l’altro essa è vincolata dall’ordine di cui deve permettere la realizzazione, ma che essa trova già come dato ed evidenza. Anche il despota, termine del quale i fisiocratici ridefiniscono puntigliosamente il significato in chiara polemica con Montesquieu, finisce per essere sottoposto al dispotismo dell’evidenza di un ordine che non è completamente disponibile nemmeno per l’autorità sovrana. La definizione di dispotismo legale non rimanda perciò esclusivamente alla legge che può essere imposta, ma a una legalità più vasta e profonda, che dovrebbe essere sempre già evidente come ordine. Sostenere che: «I sovrani sono obbligati a promulgare con ordinamenti positivi le leggi naturali ed essenziali dell’ordine sociale»31, significa, allo stesso tempo, affermare l’inviolabilità dell’ordine divino, la sua naturale e necessaria evidenza nell’ordine sociale. Ciò significa, tuttavia, anche riconoscere che il potere politico non è ciò che fa esistere la società, ma vive al suo interno come una sua parte, in definitiva, come una sua funzione32. D’altra parte non è il comando sovrano a rendere obbligatoria l’obbedienza alle leggi, ma l’evidenza che esse sono vantaggiose per tutti. Il concetto fisiocratico di ordine33 esibisce esplicitamente il proprio debito teologico, mediato dall’influenza esercitata dalla dottrina di Malebranche34. L’ordine sociale dei fisiocratici non prevede alcuna contraddizione tra la natura e il Dio benefico35. Questa sorta di teologia del sociale permette di 31 P.-S. Dupont, De l’origine et des progrès d’une science nouvelle (1768), poi in Physiocrates, cit., pp. 335-366; trad. it. L’origine e i progressi di una scienza nuova, in I Fisiocratici, cit., pp. 165-199, p. 177. 32 Lo sottolinea ironicamente K. Marx, Theorien über den Mehrwert, poi in MEW, Berlin, Dietz, 1973, vol. 26.1, p. 37; trad. it. Teorie sul plusvalore, Roma, Editori Riuniti, 1961, vol. I, p. 155, scrivendo che la fisiocrazia: «permette allo Stato di continuare ancora a vivere solo nei pori di questa società, come Epicuro permette ai suoi dèi di vivere nei pori del mondo»! 33 B. Miglio, Fisiocrazia e concezione dell’ordine naturale, in «Rivista di Filosofia», 77, 1986, pp. 109–140. 34 Cfr. M. Sonenscher, Physiocracy as a Theodicy, in «History of Political Thought», 23, 2002, pp. 326-339; A. Kubota, Quesnay, disciple de Malebranche, in François Quesnay et la physiocratie, Paris, Institut National d’Études Démographiques, 1958, vol. I, pp. 169-196. 35 B. Maffey, L’utopia della ragione, Napoli, Bibliopolis, 1987, pp. 56-57. 28 la società come ordine legittimare proprietà, sicurezza e libertà quali principi dell’ordine medesimo. L’evidenza che dovrebbe affermare e assicurare i tre principi fondamentali dell’ordine fisiocratico non è tale per tutti gli individui. Essa è un’evidenza che deve essere insegnata tramite l’educazione e dimostrata attraverso la scienza. Sebbene questa scienza non sia presentata come specifica creazione umana, essa però indica una modalità coerente, logica e inevitabile di analizzare il movimento della società. L’evidenza è per Quesnay una manifestazione concreta della fede, di fronte alla quale non si può negare l’esistenza e la legittimità dell’ordine36. Solo a queste condizioni l’evidenza dell’ordine naturale può diventare scienza dell’ordine sociale. L’ordine naturale sociale può essere conosciuto e trasmesso grazie a «un corpo di dottrine definito e completo che esponga con evidenza il diritto naturale degli uomini, l’ordine naturale della società, le leggi naturali più vantaggiose agli uomini riuniti in società»37. La progressiva istituzionalizzazione in termini scientifici di un campo semantico legato al concetto di società s’impone così nel discorso pubblico e scientifico svolgendo una funzione eminentemente politica. Termini usuali nei decenni precedenti come costituzione naturale, diritto naturale e leggi naturali perdono progressivamente ogni riferimento a una condizione presociale, per diventare indicatori non della socialità umana, ma della società come fenomeno empiricamente esistente. Questa concezione della società è polemicamente antihobbesiana, perché in primo luogo non è pensabile un ordine naturale che si costituisca a partire dalla sua assenza. Non è possibile però nemmeno accettare che lo stato di guerra sia qualcosa di anteriore ed esterno all’ordine. Inaugurando un argomento che diventerà in seguito di fondamentale importanza nelle scienze sociali, il disordine non 36 Cfr. F. Quesnay, Evidence, pubblicato nel VI volume dell’Encyclopédie nel 1756, poi in Id., Œuvres économiques et philosophiques, accompagnées des éloges et d’autres travaux biographiques sur Quesnay par différents auteurs, Francfort, Baer, 1888, pp. 764-797. 37 P.-S. Dupont, Discours de l’éditeur (1768), in Physiocrates, cit., pp. 19-39; trad. it. Fisiocrazia. Discorso dell’Editore, in I Fisiocratici, cit., pp. 81-110, p. 81. 1. L’ordine della società 29 può essere pensato come alternativa radicale all’ordine, ma deve necessariamente risiedere in uno stato patologico, o in un difetto rimediabile nella costruzione dell’ordine stesso. Questa riformulazione della coppia ordine/disordine all’interno della società comporta conseguenze di assoluta rilevanza, prima fra tutte l’importanza che da ora in avanti assume la questione dell’organizzazione della società e dello Stato. Lo stato di guerra, infatti, non è «come pensavano Hobbes e suoi seguaci, quello degli uomini che vivono nella semplicità naturale: è quello degli uomini che vivono in società disordinata, in cui la proprietà è incerta e sempre esposta a violazioni, esercitata sotto la protezione di una legislazione arbitraria»38. Esso è dunque parte della società e può essere corretto ristabilendo le giuste connessioni tra ordine naturale e ordine sociale. Per quanto in modo complessivamente incerto e talvolta contraddittorio, emerge un nuovo luogo della legittimazione non solo politica, ma anche amministrativa. Con i suoi riferimenti al sociale e alla società, il discorso fisiocratico stabilisce un criterio di efficacia delle norme che va oltre l’autorità, la saggezza o la competenza del monarca o del magistrato. Di fronte all’affermarsi di un’amministrazione sempre più centralizzata, i fisiocratici finiscono per rendere lo stesso potere legislativo amministratore dell’ordine naturale e sociale. Le leggi sociali, stabilite dall’essere supremo per prescrivere solamente il diritto di proprietà con la libertà a esso connessa, devono essere confermate e dichiarate dalle leggi positive39. Il legislatore è così sovrano per una necessità più simbolica che reale: solo a lui spetta l’interpretazione dell’ordine e questa interpretazione deve essere dispoticamente evidente. La scienza fisiocratica pretende di essere molto più di una scienza economica. Essa è scienza politica, in quanto «scienza delle costituzioni, che insegna e insegnerà non solo ciò che i governi non devono fare nel loro interesse e in quello delle loro nazioni, 38 Ibid., p. 102. de la Rivière, L’ordre naturel et essentiel des sociétés politiques, cit., 39 Mercier p. 59. 30 la società come ordine o delle loro ricchezze, ma ciò che essi non devono potere davanti a Dio»40. Essa è tuttavia anche e conseguentemente una scienza della società, perché i fisiocratici sono i primi a concepire i rapporti che si stanno storicamente affermando «come forme fisiologiche della società: come forme che scaturiscono dalla necessità naturale della produzione stessa, indipendenti dalla volontà, dalla politica ecc. Sono leggi materiali»41. Il doppio registro della ricchezza e della volontà rappresenta lo scacco del movimento fisiocratico. Se, come vedremo, sul piano della ricchezza la risposta più efficace giunge dalla Gran Bretagna, l’affermazione del primato della volontà è invece un evento francese e contemporaneo ai fisiocratici medesimi. L’idea fisiocratica del carattere necessario e positivo delle forze che si manifestano nella società è infatti estranea a Rousseau, per il quale la società è solo il luogo di una cooperazione degenerata incapace di riprodursi autonomamente. Presupposto del discorso rousseauviano è che «gli uomini non possono generare nuove forze, ma solo unire e dirigere quelle esistenti»42. Il contratto sociale ha da questo punto di vista una funzione conservativa e agli uomini non resta altro da fare che «formare per aggregazione una somma di forze che possa vincere la resistenza, mettendole in moto mediante un solo impulso e accordandole nell’azione»43. La politica di Rousseau si basa in definitiva su una fisica semplice, nella quale le forze rimangono immutate all’interno del sistema: esse si sommano, ma non possono in nessun caso moltiplicarsi. Proprio per questo la necessità della collaborazione è solamente politica, poiché essa diviene necessaria nel momento in cui gli uomini escono dallo stato di 40 Dupont de Nemour scrive queste parole a Jean-Baptiste Say in una lettera del 22 aprile 1815, registrando il mutamento di statuto scientifico che aveva subito nel frattempo l’economia che si avvia a perdere il suo carattere eminentemente politico, diventando esclusivamente scienza delle ricchezze, cfr. Physiocrates, cit., p. 397. 41 Marx, Teorie sul plusvalore, cit., p. 127. 42 J.J. Rousseau, Du contract social ou principes du droit politique, in Id., Œuvres complètes, vol. III, Paris, Gallimard, 1964, pp. 347-470; trad. it. Il contratto sociale o principi del diritto politico, in Id. Scritti politici, Bari, Laterza, 1971, vol. II, pp. 79-224, pp. 92-93. 43 Ibid. 1. L’ordine della società 31 natura. L’inizio della cooperazione segna la fine della singolarità, ma è anche la condizione di possibilità affinché si manifesti la volontà generale. «Insomma, finché non si applicarono che a opere che uno solo poteva compiere e ad arti che non avevano bisogno del concorso di parecchie mani, essi vissero liberi, sani e felici»44. Proprio la sfiducia radicale nella possibilità di una cooperazione societaria impone di trasporla su un piano eminentemente politico. Questo insieme di forze, che per Rousseau non è appunto una loro moltiplicazione, ma la loro somma in una direzione determinata, serve a fondare e far funzionare la macchina dello Stato. Il legislatore rousseauviano può sommare le forze presenti, perché egli è titolare di una forza propria e diversa da quella degli uomini presenti: una forza estranea alla fisica morale che altrimenti domina la teoria politica di Rousseau45. Solo per questo egli è l’unico in grado di dare il primo impulso alla somma universale delle forze individuali. Proprio perché il legislatore è una figura extrasistemica e la sua azione è destinata a trasformare le forze naturali, stabilendo una cesura insuperabile tra natura e morale, tra società e politica. Bisogna, in una parola, che tolga all’uomo le forze che gli sono proprie per dargliene di estranee a lui, di cui non possa fare uso se non col sussidio degli altri. Quanto più queste forze naturali sono morte e annientate, quanto più le forze acquisite sono grandi e durevoli, tanto più solida e perfetta è anche l’istituzione. Dimodoché, se ciascun cittadino non è nulla, non può nulla se non attraverso tutti gli altri, e se la forza acquisita dal tutto è uguale o superiore delle forze naturali degli individui, si può dire che la legislazione è al vertice della perfezione che può raggiungere46. 44 J.J. Rousseau, Discours sur l’origine et le fondemens de l’inégalité parmi les hommes (1754), in Id., Œuvres complètes, vol. III, cit., pp. 109-223; trad. it. Origine della disuguaglianza, Milano, Feltrinelli, 19793, p. 80. 45 Non può essere altrimenti dato che Rousseau, Il contratto sociale, cit., p. 86, scrive: «La forza è una potenza fisica; non vedo quale moralità possa risultare dai suoi effetti. Cedere alla forza è un atto necessario, non volontario; al massimo è un atto di prudenza. In che senso potrebbe essere un dovere»? 46 Rousseau, Il contratto sociale, cit., p. 115. 32 la società come ordine Il legislatore dissolve gli individui naturali e sociali per costruire dei cittadini. Egli stabilisce un equilibrio tra le forze dei singoli e la forza della collettività: la cooperazione politica serve a bilanciare o addirittura a ridefinire un gioco di forze che altrimenti registra l’inevitabile separazione degli individui. L’impossibilità di fare società impone l’obbligo di accedere alla volontà generale, ovvero di sottomettersi alla coazione di essere liberi. La società è un male necessario, al quale gli uomini devono accettare di adeguarsi, accettando l’equilibrio tra le proprie forze intese da Rousseau come «quantità d’azione»47 applicata nella direzione della costituzione dello Stato. Quest’ultimo con la propria forza deve controbilanciare sia le forze che persistono nella società sia la forza intermedia rappresentata dal governo. Rousseau, in altri termini, non prevede che vi possa essere una capacità collettiva degli individui di influire su stessi e sulle proprie condizioni. Ciò appare chiaro nella prima edizione del Contratto sociale, il cosiddetto Manoscritto di Ginevra, nel quale Rousseau parla di un passaggio dallo stato di natura a uno «stato sociale» che solo nell’edizione definitiva diventa «stato civile». Questa estemporanea comparsa dell’état social è significativa, perché il sintagma diviene poi centrale nella cultura politica degli idéologues. Per Rousseau: «Tale passaggio dallo stato di natura allo stato sociale produce nell’uomo un mutamento molto notevole sostituendo nella sua condotta la giustizia all’istinto, e conferendo alle sue azioni dei rapporti morali di cui prima mancavano»48. Diversamente da quanto succede negli scozzesi suoi contemporanei, come Ferguson o Smith, tuttavia, ciò non significa che la società sia qualcosa di diverso da un male necessario. Nello stato sociale di Rousseau non opera nessun meccanismo sistemico in grado di avvicinare gli uomini. Le passioni, i bisogni, i desideri li allontano senza che ci sia alcuna «universale benevolenza» a unirli 47 Ibid., p. 132. 48 J.J. Rousseau, Du contract social ou Essai sur la forme de la république (premiè- re version), in Id., Œuvres complètes, vol. III, cit., pp. 279-470; trad. it. Il contratto sociale o Saggio sulla forma della repubblica, in Id., Scritti politici, cit., vol. II, pp. 1-78, p. 15. 1. L’ordine della società 33 anche oltre le loro intenzioni. E se anche qualcuno potesse giungere «all’amore per l’ordine e alle nozioni sublimi della virtù», il «nuovo ordine» sociale s’incaricherebbe di mostrare l’inutilità di questa tensione. Sebbene parli di «stato sociale» Rousseau è sempre e comunque convinto che la société générale non possa offrire aiuto a chi ne avrebbe veramente bisogno, poiché essa «dà nuova forza solo a chi ne ha troppa»49. Per Rousseau è semplicemente impossibile che la società possa essere un ambito cooperativo nel quale gli interessi particolari non rimangono tali, ma servono all’interesse collettivo. La scomparsa del sintagma «stato sociale» è necessaria per la piena affermazione di una volontà generale che costituisce la società come ente morale, ovvero paradossalmente non sociale. Il contratto sociale diviene necessario proprio per rimediare ai difetti evidenti della società. Solo «nei sistemi dei filosofi» gli uomini rinunciano alla loro volontà particolare, cioè alla loro totale indipendenza: «l’interesse particolare e il bene generale non vanno affatto d’accordo, al contrario, nell’ordine naturale delle cose si escludono a vicenda, e le leggi sociali sono un giogo che ciascuno impone volentieri agli altri, salvo poi non volerlo accettare per sé»50. Nello stato sociale di Rousseau persiste una delegittimazione della società che impone di nominare la nuova condizione come civile, per segnare una radicale discontinuità rispetto a essa: la volontà può salvare gli individui dalla degenerazione insita nei loro rapporti. Siamo così di fronte a un campo di tensione tutto politico all’interno del quale sembrano contrapporsi lo stato sociale a quello civile, la particolarità dell’azione sociale alla moralità e generalità della volontà politica. 3. La natura dell’ordine In realtà anche l’attributo civile è sottoposto a una profonda tensione che lo colloca pienamente nel campo semantico legato a 49 Ibid., 50 Ibid., p. 4. pp. 6-7. 34 la società come ordine società. Esso non è solamente il contraltare politico del termine sociale, ma finisce per significare anche i caratteri propri della nuova società che si sta palesemente affermando. La storia più o meno congetturale della neonata società, scritta a più mani e in molti modi nella seconda metà del Settecento, serve perciò a stabilire l’indispensabile conoscenza “scientifica” di una struttura che mostra di avere una sua organizzazione nonostante le differenze dei governi politici. All’interno di questa società civile non si tratta più di «mantenere ciò che [i romani] amavano chiamare ordine politico», perché questo tipo di ordine non appare solo inadeguato alle sue esigenze, ma non è in ultima istanza nemmeno più desiderabile. La storia di Roma, che per Ferguson ha un carattere paradigmatico, culmina con l’istituzionalizzazione di un dispotismo ritenuto assolutamente necessario per il governo della società, nella convinzione che il «governo dispotico sarebbe stato il più adatto alla felicità degli uomini»51. Le critiche o le riformulazioni del dispotismo che si susseguono nella seconda metà del Settecento non svolgono solo la funzione di rigetto degli elementi autocratici che caratterizzano il governo monarchico, ma sono anche espressioni di una retorica complessiva che sposta il baricentro della sovranità: dall’individuo monarca sovrano alla sovranità che sorge dalla società e ne è la rappresentazione. Entrambe queste possibilità sono già presenti nella teoria hobbesiana della sovranità52 e, proprio per tale motivo, essa conosce in questo periodo una rinascita significativa che però, come vedremo, mentre respinge la sociologia implicita nella dottrina hobbesiana, non rinuncia mai completamente all’ipotesi politica che essa produce. La storia della società civile, infatti, non può conoscere cesure radicali e tanto meno interruzioni, perché al suo 51 A. Ferguson, An Essay on the History of Civil Society (1767), Edinburgh, Edinburgh U.P., 1966; trad. it. Saggio sulla storia della società civile, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 246. Su Ferguson storico di Roma cfr. D. Francesconi, L’età della storia. Linguaggi storiografici dell’illuminismo scozzese, Bologna, il Mulino, 2003, pp. 227-281. 52 Cfr. C. Galli, Ordine e contingenza. Linee di lettura del «Leviatano», in Percorsi della libertà. Scritti in onore di Nicola Matteucci, Bologna, il Mulino, 1996, pp. 81-106. 1. L’ordine della società 35 interno esiste un ordine che le è proprio e che determina l’agire degli individui. Si tratta quindi di passare dall’ordine politico a quello sociale, riconoscendo in primo luogo che: La nostra nozione di ordine nella società civile spesso è falsa, in quanto derivata dall’analogia con oggetti inanimati o morti. Consideriamo il movimento e l’azione come contrari alla sua natura e pensiamo che sia compatibile solo con l’obbedienza, la segretezza e il silenzioso passaggio degli affari nelle mani di pochi53. Come nel sistema newtoniano anche in quello della società il movimento fa la differenza. Per Furguson d’altra parte la stessa natura non può più essere considerata come qualcosa di immobile e fisso, perché i «principi di agitazione e di vita combinano i loro effetti costituendo un ordine della cose che è allo stesso tempo fuggevole e permanente [fleeting and permanent]»54. L’ordine della società è in movimento e pubblico. Ciò significa che se esso non può dipendere esclusivamente dalla sua organizzazione politica, non può nemmeno risiedere in qualche luogo invisibile per quanto collocato al suo interno. Non si può ricavare il modello dell’ordine dagli arcana imperi dello Stato e nemmeno da quelli dell’animo umano, per la semplice ragione politica che essere ordinati non può significare prestare obbedienza a ciò che non si conosce. L’inclinazione alla socialità e il calcolo dell’interesse non possono perciò essere considerati le uniche pulsioni alla costituzione della società, perché esse sono passioni private, mentre il contatto reciproco, la tensione che si crea di fronte alle comuni difficoltà e possibilità sono molto più rilevanti nella motivazione delle azioni sociali. L’ordine della società è pubblico perché l’uomo non è un animale solitario, non per un’inclinazione profonda alla socievolezza, ma perché la sua condizione empirica lo colloca all’interno di una folla di legami che lo motivano e lo trattengono in società. «L’uomo nasce in società […] e lì resta», scrive Ferguson, adattando molto 53 Ibid. Cfr. anche D. Kettler, Adam Ferguson. His Social and Political Thought, New Brunswick, Transaction Publishers, 20052. 54 A. Ferguson, Principles of Moral and Political Science, Edinburgh, A. Strahn and T. Cadell, 1792, vol. I, p. 174. 36 la società come ordine liberamente un passo dalle Lettere persiane di Montesquieu, il quale da parte sua sosteneva che la società è la naturale e inevitabile successione del legame che si crea tra padri e figli. Per Ferguson la società accresce la forza di ogni individuo e solo grazie a essa egli possiede non solo le emozioni, ma anche il suo carattere razionale. Il fatto che l’ordine di questa società sia intensivo e conflittuale55 non impedisce che gli uomini siano consapevoli che la società non è esclusivamente la fonte di vantaggi individuali. Essa è data piuttosto dal loro movimento, che configura un ordine dinamico, continuamente ridefinito al suo interno. Il buon ordine delle pietre in un muro è il loro essere appropriatamente collocate nei posti per i quali sono state tagliate, e se si muovono l’edificio crollerà. L’ordine degli uomini in società invece è dato dal loro essere posti là dove sono capaci di agire in modo appropriato. La prima è una costruzione costituita di parti morte e inanimate, la seconda di membri vivi e attivi. Quando in società cerchiamo il semplice ordine della inazione e della quiete dimentichiamo la natura del nostro oggetto e troviamo un ordine di schiavi, non quello di uomini liberi56. Questo ordine mobile si affida alla capacità degli individui di occupare in modo attivo la loro posizione; esso è una sorta di ordine fiduciario. Se la storia della società civile è anche la storia della ridefinizione della politica, cioè dei rapporti di comando e di obbedienza della e nella società, la soluzione non può essere la mera estensione a tutti delle virtù precedentemente ascritte al cittadino repubblicano o all’uomo politico. In essa si stabilisce una coincidenza di ordine e libertà che comporta sì la diffusione della virtù, ma anche «una diffusione di funzioni nella società civile tale da offrire alla maggioranza le attività e le occupazioni adeguate alla propria natura»57. Va notato che il linguaggio 55 Ferguson, Saggio sulla storia della società civile, cit., p. 19 e p. 121; cfr. anche L. Hill, Eighteenth-Century Anticipations of the Sociology of Conflict: The Case of Adam Ferguson, in «Journal of the History of Ideas», 62, 2001, pp. 281-299. 56 Ferguson, Saggio sulla storia della società civile, cit., p. 246 nota 12. 57 Ibid., p. 247. Cfr. anche P. Salvucci, Adam Ferguson. Sociologia e filosofia politica, Urbino, Argalia, 1972, pp. 196-197. Sulla sociologia di Ferguson cfr. però l’importante introduzione di Duncan Forbes alla già citata edizione inglese dell’Essay, pp. XIII-XLI. 1. L’ordine della società 37 protosociologico di Ferguson non è semplicemente l’anticipazione occasionale di vocaboli e riferimenti che diventeranno in seguito rilevanti. Esso dimostra, come vedremo ancora più chiaramente a proposito di Sieyès, che la ridefinizione della sovranità abbisogna di un mutamento di linguaggio che assume necessariamente una semantica sociologica. Quest’opera di ridefinizione anche linguistica fa dell’ordine della società un ordine sovrano perché come è evidente all’interno delle rivoluzioni atlantiche, muta la dislocazione della sovranità. Il fatto che negli Stati Uniti e in Francia essa venga decapitata simbolicamente o fisicamente, consente che essa diventi una struttura complessa che deriva ogni sua legittimità dalla società che la produce. Il processo di dislocazione della sovranità non avviene tuttavia solamente attraverso le rivoluzioni politiche, ma anche attraverso la ridefinizione dei ruoli e delle funzioni all’interno della società58. La sovranità della società non è tuttavia un’indeterminata distribuzione del potere a un ipotetico soggetto collettivo e tanto meno l’istituzione di un nuovo soggetto sovrano. Essa implica, come abbiamo detto, la collocazione ordinata delle capacità individuali all’interno della società, secondo la considerazione: «Metteteli assieme e ciascuno troverà il suo posto». Come scrive ancora Ferguson: «siamo fatti per agire in questo modo», siamo cioè disposti a legittimare il «diritto di sovranità» esistente perché pensiamo che esso sia esercitato «dalla società nelle sue funzioni collettive, o da coloro ai quali sono stati affidati i poteri della intera società»59. Le possibilità organizzative della società non dipendono però solamente dai titolari del potere sovrano, perché vi sono altri individui, che potremmo definire individui d’ordine, in grado di interpretare la dinamica delle forze individuali. Comprendere questa dinamica è uno dei compiti fondamentali per descrivere normativamente la società della cooperazione, stabilendo praticamente cosa può aspettarsi un individuo dal suo essere in società. Il movimento coordinato ma individualizzato 58 Cfr. M. Ricciardi, Rivoluzione, Bologna, il Mulino, 2001. Saggio sulla storia della società civile, cit., pp. 59-60. 59 Ferguson, 38 la società come ordine delle forze impone per Ferguson la centralità della scienza nella costituzione della società. Essa ha lo scopo di raccogliere «una molteplicità di fatti particolari e riferire una varietà di operazioni al loro principio comune». Chiunque è in grado di accorgersi che ci sono leggi che determinano la relazione reciproca tra i diversi oggetti. Le «persone comuni» non sono però in grado di cogliere che ve ne sono altre «nascoste sotto una confusione apparente», che per essere comprese abbisognano delle «facoltà di penetrazione e di giudizio […] utilizzate sia dagli uomini d’affari che dagli uomini di scienza»60. Questi individui d’ordine sono il prototipo di quegli uomini attivi che meglio interpretano la dinamica profonda nei movimenti apparentemente disordinati della società e della natura. Essi non sono rilevanti per le loro specifiche qualità individuali, ma perché, grazie alla loro posizione, possono svelare il disegno complessivo che si cela dietro ad apparenze meramente individuali. Essi non portano l’ordine in una struttura altrimenti caotica, ma sono la garanzia sociale del fatto che ordine e società coincidono. Essi non difendono la società dal caos che la minaccia, ma affermano la legittimità di strutture e funzioni grazie alle quali la società si presenta come ordine. La relazione tra la confusione apparente e l’ordine reale è il problema fondamentale che le nascenti scienze sociali sembrano dover chiarire nella seconda metà del XVII secolo. Fin dai suoi primi scritti anche Adam Smith critica ogni riferimento concreto o addirittura fisico all’ordine. Egli sviluppa questa critica facendo il primo luogo riferimento alla storia dell’umanità, relegando cioè a un’epoca prescientifica l’attenzione ossessiva alle cause dei fenomeni fisici. In questo modo la critica smithiana dell’ordine concreto diviene la proposta di un ordine assai più rilevante basato su un’astrazione e conoscibile solamente se si riformula compiutamente il discorso scientifico, ponendo l’immaginazione al posto dell’evidenza, non temendo l’irregolarità degli eventi, stabilendo la priorità non tanto dell’individuale, perché in definitiva signifi60 Ibid., p. 26. 1. L’ordine della società 39 cherebbe un ritorno imprevisto del concreto, quanto dell’insieme degli individui compresi nei loro giusti rapporti proprietari. L’individuazione di un ordine di grado più elevato rispetto a quello fisico avviene ancora una volta immaginando la storia dello sviluppo dell’umanità. Per Smith erano infatti i primitivi che, «prima dell’instaurazione della legge, dell’ordine e della sicurezza, provavano poca curiosità di scoprire quelle catene nascoste di eventi che legano tra loro le manifestazioni apparentemente incoerenti della natura». Non avendo questa attitudine scientifica essi ritenevano che gli eventi non «perfettamente regolari» non fossero parte di un ordine, ma dipendessero da un qualche «potere [power] invisibile e previdente». In realtà per Smith le irregolarità della natura non sono necessariamente «così terribili e spaventose». La legittimazione dell’irregolarità come parte di un ordine non afferma la centralità dell’eccezione, ma al contrario l’inutilità di presumere una volontà particolare in grado di determinarla puntualmente. Solo nel mondo classico, nell’antica Atene, ogni evento irregolare – e in definitiva non voluto – era ascritto «alla mano invisibile di Giove»61. La prima apparizione della mano invisibile nell’opera smithiana serve a stabilire cosa essa non può essere. Essa non è la modalità di stabilire un ordine, ma l’evidenza dell’ordine stesso, della sua esistenza, della sua vigenza e quindi della sua normatività, nonostante le eccezioni che pure si presentano in continuazione. Ciò è possibile in primo luogo perché gli uomini hanno scoperto la scienza che li rende meno timorosi e li mette sempre più in grado di soddisfare la loro curiosità. Ciò tuttavia è soprattutto possibile perché Smith sposta il fuoco dell’analisi dalla natura esterna con i suoi accidenti e le sue trasformazioni alla natura umana, considerandola un enigma sostanzialmente risolto. Essa «esiste sempre, è sempre la stessa, non è mai stata generata e non si corromperà mai. Perciò la natura umana è l’oggetto della scienza, della ragione e dell’intelletto, 61 A. Smith, The Principles which Lead and Direct Philosophical Enquiries, in Id., Essays on Philosophical Subject, Indianapolis, Liberty Classics, 1982, pp. 31-129; trad. it. I principi che guidano e dirigono le ricerche filosofiche, in Id., Saggi filosofici, Milano, FrancoAngeli, 1984, pp. 51-139, pp. 65-67. 40 la società come ordine come l’uomo è l’oggetto del senso e delle opinioni incostanti che sul senso sono fondate»62. Il vero oggetto di una scienza smithiana, una scienza che, come Smith scrive poco oltre, «riguarda gli universali», è dunque l’umanità nel duplice senso dell’insieme indifferenziato di uomini e di quel tanto di universale che può essere rintracciato in ciascun uomo. Da questo punto di vista essa non è una scienza dell’individuo, ma della molteplicità degli individui uniformi collegati dalla reciproca simpatia e benevolenza63. Solo muovendo dal presupposto dell’uniformità della natura umana è possibile svelare un ordine che non può essere modificato da alcun intervento occasionale e, appunto, eccessivamente individuale. Questo scarto tra l’ordine universale del genere umano e l’ordine visibile degli individui è il nocciolo della sociologia di Adam Smith, il solo che può motivare una «tecnologia economica» che è una «tecnologia della ricchezza»64 e della società. La ricchezza, infatti, è per Smith il meccanismo sociale che induce a realizzare un ordine che rimarrebbe altrimenti puramente virtuale. Guardandola non si vede solo lo spettacolo dell’opulenza dei ricchi, ma «nella nostra immaginazione, la confondiamo naturalmente con l’ordine, col regolare e armonioso meccanismo del sistema, con la macchina o i beni per mezzo dei quali viene prodotta»65. Questa estetica dell’utile è prodotta dalla natura, in modo che la ricchezza sia qualcosa di nobile, non solo qualcosa di utile e piacevole. Tanto i poveri quanto i ricchi sarebbero vittime di questo benefico inganno. I primi rispettano e desiderano la ricchezza come ordinata bellezza, i secondi non possono solo soddisfare il loro egoismo, godendo 62 Ibid., p. 131. Cfr. A.S. Skinner, Early Writings: Science and the Role of Imagination, in Id., A System of Social Science. Papers Relating to Adam Smith, Oxford, Clarendon Press, 1996, pp. 25-46. 63 Cfr. A. Zanini, Adam Smith. Economia, morale, diritto, Milano, Bruno Mondadori, 1997, pp. 83 sgg. 64 Le espressioni sono di A.W. Small, Adam Smith and Modern Sociology. A Study in the Methodology of the Social Science (1907), Clifton, August M. Kelley, 1972. 65 A. Smith, The Theory of Moral Sentiments (1759), Indianapolis, Liberty Classics, 1982; trad. it. Teoria dei sentimenti morali, Milano, Rizzoli, 1995, p. 374. 1. L’ordine della società 41 della loro ricchezza presente, ma devono ridistribuirla produttivamente in modo da accumularne altra. Sono condotti da una mano invisibile a fare quasi la stessa distribuzione delle cose necessarie alla vita che sarebbe stata fatta se la terra fosse stata divisa in parti uguali tra tutti i suoi abitanti, e così, senza volerlo, senza saperlo, fanno progredire l’interesse della società, e offrono mezzi alla moltiplicazione della specie66. Completamente abbandonata la «malinconica filosofia» che portava a disprezzare i beni terreni, la ricchezza è la chiave di volta di un sistema di cui la «mano invisibile» è una metafora, che ha un significato sociale e civile, prima di assumere un orientamento normativo economico, che come una forza oscura ristabilisce l’ordine eventualmente infranto67. Essa descrive il meccanismo sistemico grazie al quale l’individuo legittima e riproduce l’ordine sociale, andando oltre il proprio egoismo. «Né per la società è sempre un male che questo fine non rientrasse nelle sue intenzioni. Perseguendo il proprio interesse, egli spesso promuove quello della società in modo più efficace di quanto egli intenda promuoverlo»68. La mano invisibile è la metafora attiva della cooperazione societaria. Solo intendendola in questo modo si comprendono sia la torsione che Smith imprime alla figura del legislatore, sia la centralità che assume per lui la divisione del lavoro. Il discorso smithiano sul legislatore non è intanto riducibile a una presa posizione contro l’interventismo governativo che, in polemica con le vicende rivoluzionarie francesi, appare nella sesta parte della Teoria dei sentimenti morali pubblicata nel 1790. Il legislatore è la figura sistemica in grado di dare la giusta espressione alla normatività sociale, consapevole dei limiti 66 Ibid., p. 376. Cfr. anche S. Fiori, Ordine, mano invisibile, mercato. Una rilettura di Adam Smith,Torino, UTET, 2001. 67 Cfr. B. Ingrao, G. Israel, La mano invisibile. L’equilibrio economico nella storia della scienza, Roma-Bari, Laterza, 2006. 68 A. Smith, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations (1776), Indianapolis, Liberty Classics, 1981, vol. I, p. 456; trad. it. La ricchezza delle nazioni, Torino, UTET, 1975, p. 584. 42 la società come ordine esistenti tanto nella conoscenza quanto nell’opinione69. Egli deve stabilire le condizioni civili e sociali grazie alle quali gli individui possano andare oltre al proprio interesse. Egli deve però anche essere l’uomo dell’economia politica, che Smith definisce «un ramo della scienza dello statista o del legislatore»70, colui che permette alla ricchezza e al benessere dello Stato di crescere contemporaneamente. Egli deve interpretare le forze che si muovono all’interno del sistema consapevole di quella impersonalità che emerge chiaramente nella divisione del lavoro. «Questa divisione del lavoro, da cui derivano tanti vantaggi, non è originariamente l’effetto di una saggezza umana che prevede e persegue quella generale opulenza che essa determina»71. Smith in realtà non dice cosa la origini, ma gli pare più probabile che sia frutto della ragione e delle parole in quanto facoltà umane; essa nasce cioè nei commerci tra gli uomini nel senso più lato. Per Smith la cooperazione non è volontaria, non avviene grazie a qualche istinto o a una strategia cooperativa razionalmente scelta, ma in forza della comune passione per lo stesso oggetto. D’altra parte sarebbe impensabile poter ottenere razionalmente la cooperazione di tutti coloro di cui si ha bisogno nell’arco di una vita. La divisione del lavoro è determinata da quella generale propensione a commerciare in qualsiasi forma che accomuna gli uomini. E questa propensione è davvero comune, al punto da realizzare praticamente quella universalità della natura umana che consente di vedere l’ordine nonostante l’evidenza del disordine. 69 Cfr. D. Winch, Adam Smith’s Politics. An Essay in Historiographic Revision, Cambridge, Cambridge University Press, 1978, pp. 170-174; K. Haakonssen, The Science of a Legislator. The Natural Jurisprudence of David Hume and Adam Smith, Cambridge, Cambridge University Press, 1981; D. Winch, Science and the Legislator: Adam Smith and After, in «The Economic Journal», 93, 1983, pp. 501-520. 70 Smith, La ricchezza delle nazioni, cit., p. 553. 71 Ibid., p. 91. 1. L’ordine della società 43 4. Ordine e ideologia Sarebbe fuori luogo considerare il discorso smithiano sull’ordine come una critica implicita di quello fisiocratico, come se quest’ultimo fosse totalmente ipotecato da quella che, come vedremo, Alfred Whitehead chiama la «fallacia della concretezza mal posta»72. I fisiocratici non sono evidentemente i primitivi che scrutano l’ordine naturale per comprendere la normalità e le eccezioni dell’ordine sociale. Non è nemmeno completamente convincente contrapporre semplicemente una tradizione che dai fisiocratici giunge fino agli idéologues a un’altra che da Rousseau arriva ai giacobini. Esiste certamente un insieme di temi e di problemi che collegano la scienza fisiocratica e le dottrine degli idéologues73, così come è certamente evidente e dimostrata la filiera che porta da Rousseau ai giacobini74. Come abbiamo cercato di mostrare, il discorso sulla società come ordine si sviluppa sulle due sponde della Manica, in momento storico che vede la costante presenza di tentativi più o meno riusciti di riforma, di due rivoluzioni che sembrano travolgere qualsiasi riferimento all’ordine, di movimenti interni alla nascente società che impediscono a lungo la loro stabilizzazione. Non è possibile distinguere homo socius, homo civicus e homo oeconomicus, magari contrapponendoli tutti a un ancor più fantomatico homo politicus. La società non è il luogo di una neutralizzazione politica, ma piuttosto di una politicizzazione instabile, ma costante e ripetuta dei rapporti sociali. Il discorso degli idéologues non rappresenta perciò una sintesi di quanto detto finora, sia perché 72 La letteratura sul rapporto tra Smith e i fisiocratici è pressoché infinita: cfr. Q. Skinner, The Development of a System: Adam Smith and the Physiocrats, in Id., A System of Social Science, cit., pp. 123-142. Per il riferimento a Whitehead cfr. infra cap. 7. 73 Insiste su questo punto R. Bach, Du Contrat social à l’Art social. De l’aliénation physiocratique de Rousseau, in http://rousseaustudies.free.fr/ArticleBach.htm; e Id., «La démocratie purgée de tous ses inconvénients», in «Actuel Marx», 32, 2002, pp. 73-82. 74 Cfr. A.M. Battista et al., Il “Rousseau” dei giacobini, Urbino, QuattroVenti, 1988; L. Jaume, Le discours jacobin et la démocratie, Paris, Fayard, 1989. 44 la società come ordine il loro movimento è assai composito75, sia perché i singoli autori esibiscono delle oscillazioni concettuali e semantiche che sono spesso l’aspetto più interessante del loro discorso. Importante è rilevare che senza l’apporto britannico il discorso ideologico non raggiungerebbe la pregnanza che invece dimostra. Soprattutto il riferimento ad Adam Smith ha una funzione strategica e impedisce di considerare il loro discorso come una prestazione meramente nazionale o limitata a una disciplina. Il discorso ideologico non è un aggiornamento del discorso politico, che rideclina in maniera più o meno evidente e radicale alcuni argomenti classici. Fin dalla sua origine esso impone al discorso politico un insieme di apporti provenienti soprattutto dall’economia politica, con lo scopo dichiarato di formulare una scienza sociale e politica, e anzi, politica perché sociale76. Nel suo commento a Montesquieu Destutt de Tracy, l’inventore del termine ideologia, descrive chiaramente questo carattere del discorso ideologico, dichiarando di essersi accorto che l’insieme delle sue opinioni forma un «trattato completo di politica o scienza sociale», e aggiungendo che la sua speranza è di «aver contribuito efficacemente ai progressi della scienza sociale, la più importante di tutte per il benessere degli uomini»77. Di conseguenza lo scopo di questa scienza politica non è solo indagare le forme di istituzionalizzazione del potere 75 Cfr. S. Moravia, Il pensiero degli idéologues. Scienza e filosofia in Francia 17801815, Firenze, Sansoni, 1974; F. Picavet, Les idéologues. Essai sur l’histoire des idées et des théories scientifiques, philosophiques, religieuses, etc. en France depuis 1789 (1891), New York, Lenox Hill Pub. (Burt Franklin), 1971; M.S. Staum, Minerva’s Message. Stabilizing the French Revolution, Montréal, McGill-Queen’s University Press, 1996. 76 M. Sonnenscher, Ideology, Social Science and General Facts in Late Eighteenth-Century French Political Thought, in «History of European Ideas», 35, 2009, pp. 24-37; R. Wokler, Ideology and the Origins of Social Science, in M. Goldie, R. Wokler (eds), The Cambridge History of Eighteenth-Century Political Thought, Cambridge, Cambridge University Press, 2006, pp. 688-710. 77 A.L.C. Destutt de Tracy, Commentaire sur l’Esprit des Lois de Montesquieu (1811), Paris, Delaunay Libraire, 1819, pp. XV e XVI. Cfr. anche B.W. Head, Ideology and Social Science: Destutt de Tracy and French Liberalism, Dordrecht, Nijhoff, 1985; E. Kennedy, A ‘Philosophe’ in the Age of Revolution. Destutt de Tracy and the Origins of “Ideology”, Philadelphia, The American Philosophical Society, 1978. 1. L’ordine della società 45 all’interno dello Stato, ma anche i modi in cui all’interno della società e ai suoi rapporti economici si producono rapporti di potere politicamente rilevanti. D’altra parte, scrive Emmanuel Sieyès: «Se nella società non ci fosse nessuno che sollecitasse immediatamente la natura per vivere, l’ineguaglianza politica o il potere sugli altri uomini non si stabilirebbe, gli attentati della forza non sarebbero che delle crisi passeggere»78. Nel lungo confronto con la dottrina fisiocratica e con quella smithiana Sieyès forgia le armi che poi rivolge contro la nobiltà francese. Egli scopre che il lavoro è il fattore fondamentale nella produzione della ricchezza, ma la cooperazione che lo valorizza può avvenire solo a livello societario: il lavoro produce la ricchezza, ma la cooperazione produce la società. Se il lavoro è l’unica attività a legittimare socialmente, il problema è perciò stabilire a chi spetta il «prodotto netto» ottenuto grazie a esso. Per Sieyès i fisiocratici immaginano una società sostanzialmente statica, nella quale il consumo è l’unico stimolo della ricchezza, mentre la produzione manifatturiera è solo la modalità per reintegrare ciò che è stato consumato. Per loro il surplus prodotto non modifica sostanzialmente la società, ma la riporta al suo stato originario, confermando l’ordine naturale delle cose. Sieyès considera invece il prodotto netto come un «rapporto politico»79. Esso stabilisce una dinamica costantemente appropriativa che produce quelle differenze che è poi necessario rappresentare. La società non produce per riprodurre se stessa, ma in vista di qualcosa che prima non c’era. Il lavoro non è reintegrazione della società nel suo stato precedente, non rimette a disposizione della società ciò che è stato consumato, ma è lavoro produttivo, nel senso che impone delle condizioni cooperative prima inesistenti. Proprio questa concezione del produit net pone il problema dell’ordine su un piano radicalmente nuovo. L’ordine del passato non è letteral78 Si tratta del frammento Produit net relativement à la société entière, in E.-J. Sieyès, Écrits politiques, a cura di R. Zapperi, Paris, Édition des Archives Contemporaines, 1985, p. 51. 79 Cfr. il frammento Le produit net vu sous un rapport politique, ibid., pp. 57-58. 46 la società come ordine mente mai possibile. Perciò diviene necessaria la valorizzazione della figura della società, perché è in essa che tutto avviene; ciò significa che tutto avviene dentro un ambito delimitato nel quale il lavoro stesso diviene categoria politica. Esso non è solo attività trasformatrice di beni, ma il fondamento di quella ricchezza che consente di vedere rappresentata la propria libertà e di accrescerla in continuazione. «Moltiplicare i mezzi/poteri di soddisfare i nostri bisogni; godere di più, lavorare meno, ecco l’accrescimento naturale della libertà nello stato sociale. Questo progresso della libertà segue naturalmente lo stabilirsi del lavoro rappresentativo»80. Il carattere rappresentativo del lavoro segna il punto di più radicale distanza dai fisiocratici, perché a esso corrisponde una concettualizzazione completamente differente dell’individuo. «Il Sig. Quesnay è in generale un pessimo logico»81, perché pretende di fondare l’ordine su di una immeditata evidenza, mentre non c’è evidenza senza deduzione. L’evidenza non può essere la dimostrazione di un ordine esistente, perché a essa dovrebbe basarsi sulla comunicabilità immediata delle sensazioni. Come per tutti gli idéologues anche per Sieyès è un dato irrinunciabile che la conoscenza nasce dalle sensazioni. Ciò che collega le sensazioni in un ordine è il linguaggio, che è però anche il luogo di tutte le distanze e i fraintendimenti che si ritrovano tra gli individui. La necessità della mediazione, o se si vuole della rappresentazione linguistica, è data dal fatto che una pluralità di contenuti deve essere espressa e ricondotta a unità. «Io sono una moltitudine di corpi o di punti di riunione che colpiscono i miei differenti sensi»82, scrive Sieyès per approdare a un «ordine pratico» che dalle sensazioni semplici giunge a quelle complesse per porre in 80 Cfr. il frammento Travail ne favorise la liberté qu’en devenant représentatif, ibid., p. 62. Sulla centralità politica del meccanismo rappresentativo in Sieyès cfr. P. Pasquino, Sieyès et l’invention de la constituion en France, Paris, Odile Jacob, 1998. 81 E.-J. Sieyès, Le Grand Cahier Métaphysique (1773), in Des Manuscrits de Sieyès 1773-1799, sous la direction de C. Fauré avec la collaboration de J. Guilhaumou et J. Valier, Paris, Honoré Champion, 1999, pp. 73-166, p. 77. 82 Ibid., p. 80. 1. L’ordine della società 47 primo piano la necessità della deduzione e del giudizio83. Rappresentare e comunicare sono le funzioni fondamentali della cooperazione societaria. Comunicare è cooperare, perché significa diffondere le conoscenze ottenute individualmente84. Nella società del lavoro e dello scambio è necessaria l’universalità dei segni. L’ordine di questa società è necessariamente astratto, perché esso mette a valore la capacità specificamente umana di scomporre le idee per generalizzarle, per scomporle separatamente sotto forma di proposizioni. Questa molteplicità di segni che costituisce ogni individuo, ma è allo stesso tempo il carattere universale che accomuna tutti gli uomini è la radice stessa del pensiero ideologico, nel suo tentativo di affermare una nuova scienza della produzione delle idee adeguata al nuovo individuo postrivoluzionario libero e universalmente uguale85. Questa concezione dell’individuo e quella della cooperazione societaria investono il nucleo centrale della loro dottrina fisiocratica, ovvero il rapporto necessario tra ordine naturale e ordine sociale. Questi individui e i loro lavori sono i costituenti della società. Indipendentemente dalla potenza della natura produttrice di beni, la società ha dunque bisogno di una forza viva coproduttrice delle ricchezze, e ha bisogno che gli elementi di questa forza, uniti dalla società, producono più di quanto farebbero rimanendo isolati. La somma dei lavori di tutti i cittadini forma la forza viva. Se c’è un cittadino che ritira la sua porzione d’attività, egli rinuncia ai suoi diritti, nessun uomo deve godere del lavoro altrui senza scambio. Il lavoro generale è dunque il fondamento della società, e l’ordine sociale non è altro che il miglior ordine possibile dei lavori86. La società sostituisce la natura quale fondamento dell’ordine, consentendo l’appropriazione della semantica della forza. La 83 Ibid., pp. 141-142. de Tracy, Traité d’économie politique, cit., p. 79. 85 Destutt de Tracy, Mémoire sur la faculté de Penser – De la métaphysique de Kant et autres textes, Paris, Fayard, 1992, pp. 70-71; A.L.C. Destutt de Tracy, Éléments de idéologie. Première partie: Idéologie proprement dite, Paris, Courcier, 18173, pp. 267 sgg. Cfr. anche R. Goetz, Destutt de Tracy. Philosophie du langage et science de l’homme, Genève, Droz, 1993. 86 E.-J. Sieyès, Lettres aux économistes sur leur système de politique et de morale (1775), in Id., Écrits politiques, cit., pp. 25-43, p. 32. 84 Destutt 48 la società come ordine cooperazione societaria diviene sì l’origine e la ragione del riconoscimento eventuale di diritti87, ma soprattutto l’ordine si presenta definitivamente come la forma politica dei rapporti societari, perché esso è pensabile solo come una caratteristica immanente alla società e moltiplicazione costante della sue forze. Destutt de Tracy parla a questo proposito di «concorso di forze»88, rovesciando definitivamente la fisica rousseauviana della società. Il lavoro diviene una parte integrante di quello che Sieyès chiama ordre représentatif, ovvero della necessità e utilità di vedersi comunque rappresentati. Perciò pretende di essere andato oltre Adam Smith e di aver inteso la divisione del lavoro non solo come parcellizzazione delle funzioni all’interno del processo lavorativo, ma come processo più ampio che investe l’intera società. La divisione del lavoro è un principio di individuazione e di unificazione, che non riguarda prioritariamente la produzione di beni, ma la produzione dell’ordine sociale. Sieyès modifica dunque il vocabolario smithiano, trasformando la dicotomia di lavoro produttivo e improduttivo, in quella tra lavoro produttivo e lavoro coproduttivo. E a questo punto non è più in questione la mera riproduzione economica della società, ma quali funzioni politiche la possono assicurare. Sono infatti i «lavori politici e pubblici» che hanno la funzione di assicurare i frutti del lavoro e di diminuire il bisogno di mezzi all’interno della società. Il 1789, la legittimazione esclusiva del Terzo stato, il conflitto con la nobiltà sono comprensibili come episodi della lotta per la ridefinizione delle funzioni dei lavori pubblici e politici. «È questo l’ordine sociale che si vuole»?, si chiede Sieyès nel pieno della sua polemica antinobiliare. In realtà la sua risposta è già assolutamente chiara. Per lui, infatti, la nobiltà non è solo un’infrazione all’unità del potere statale, cioè hobbesianamente un imperium 87 Su Sieyès e i diritti cfr. G. Ruocco (a cura di), L’evidenza dei diritti. La déclaration des droits di Sieyès e la critica di Bentham, Macerata, Eum, 2009. 88 Destutt de Tracy, Traité d’économie politique, cit., p. 80. Notevole è che ancora K. Marx, Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie, Berlin, Dietz, 1989; trad. it. Il capitale. Critica dell’economia politica, 3 voll., Roma, Editori Riuniti, 1977, vol. I, p. 367, riprenda il concours de forces di Tracy nella sua definizione di cooperazione. 1. L’ordine della società 49 in imperio, ma mette soprattutto a rischio l’integrità del «grande corpo sociale dei cittadini». Essendo un corpo separato, agendo secondo un diritto separato e speciale, la nobiltà «esce dall’ordine comune, dalla legge comune». In Sieyès, e più in generale negli idéologues, vi è una vera e propria ossessione per il comune. La nazione, in quanto figura dell’universale, impone di trasformare il riferimento al comune nel dispiegamento di una totalità che è in primo luogo sociale, perché l’esclusione della nobiltà avviene prima di tutto perché essa è un ceto nullafacente. L’ordine dello Stato è per Sieyès l’ordine sociale, al punto che egli può affermare che minori sono gli abusi, più lo Stato può essere considerato ordinato, mentre lo Stato più disordinato è quello in cui una singola classe pretende di «restare immobile nel mezzo del movimento generale»89. Nel momento in cui cessano di sancire la separatezza e l’esclusività di un ceto particolare, la legge e il diritto sono i meccanismi concreti che trasformano in continuazione l’ordine del lavoro in ordine universale. La definizione del Terzo stato mostra quanto impellente sia la necessità di tradurre sul terreno dell’universale la semantica politica del comune. Esso è per Sieyès l’insieme dei cittadini che appartengono all’«ordine comune. Tutto ciò che in qualche modo è privilegiato dalla legge, si sottrae all’ordine comune, fa eccezione alla legge comune, e di conseguenza non appartiene al Terzo stato»90. A questa legittimazione totale del Terzo stato in quanto incarnazione dell’ordine comune, si accompagna una ridefinizione della semantica della società. Nella prima edizione di Qu’est-ce que le tiers État, Sieyès scrive che alla domanda sull’ordine sociale si deve rispondere secondo i principi che «formano la scienza sociale, indipendentemente da ogni interesse particolare»91. Dalla terza 89 E.-J. Sieyès, Qu’est-ce que le tiers État?, Edition critique par R. Zapperi, Genève, Droz, 1970; trad. it. Che cos’è il terzo stato?, in Id., Opere e testimonianze politiche, t. I: Scritti editi, Milano, Giuffrè, 1993, vol. I, pp. 207- 298, p. 212. 90 Ibid., p. 215. Cfr. anche L. Scuccimarra, La costruzione dell’identità collettiva nel discorso rivoluzionario: un itinerario storiografico, in «Giornale di storia costituzionale», 18, 2009, pp. 71-88. 91 Sieyès, Qu’est-ce que le tiers État?, cit., p. 151. 50 la società come ordine edizione la scienza sociale torna a essere la «scienza dell’ordine sociale», una scienza che può essere ancora art social, così come l’ordine sociale può sovente essere «stato sociale». In ogni caso quella è probabilmente la prima emergenza del sintagma scienza sociale. Siamo di fronte a oscillazioni semantiche o, per usare un’espressione di Niklas Luhmann, a semantiche di transizione, delle quali è possibile cogliere la piena rilevanza solo considerando il loro esito. Per quanto estemporaneo altrettanto rilevante è il fatto che Sieyès, riempiendo pagine e pagine di neologismi riferiti alla società, abbia coniato, senza poi mai usarlo, il termine sociologia ben prima del suo trionfo ottocentesco92. Come abbiamo già detto, la ridefinizione della sovranità nell’epoca della società impone non solo un nuovo vocabolario, ma anche una nuova scienza. La scienza sociale con la sua semantica, che diventerà ben presto sociologica, è necessariamente presente nel processo di ridefinizione della sovranità. D’altra parte se «la vera scienza dello stato sociale non esiste che da tempi recenti», perché despoti e aristocratici non hanno avuto interesse a far progredire «l’architettura sociale»93, è altrettanto vero che «la meccanica sociale si è arricchita, oggi, grazie agli studi legislativi»94. La razionalità degli studi legislativi prende lentamente il sopravvento sulla saggezza del legislatore, e la scienza sociale assolve il compito di indicare quale organizzazione debba assumere la sovranità della società. Amministrare diviene il correlato necessario di questa sovranità95, mentre la scienza sociale studia i modi in cui la società è organizzata, fornendo le conoscenze necessarie per la sua amministrazione. L’organizzazione della società è già presente ed è storicamente differente da quella dei tipi prece92 J. Guilhaumou, Sieyès et l’ordre de la langue. L’invention de la politique moderne, Paris, Kimé, 2002, in particolare pp. 71-81. 93 Sieyès, Che cos’è il terzo stato?, cit., p. 251. 94 E.-J. Sieyès, Vues sur les moyens d’exécution dont les représentants de la France pourront disposer en 1789, [s.l.], 1789; trad. it. Osservazioni sui poteri e sui mezzi di cui i Rappresentanti della Francia potranno disporre nel 1789, in Id., Opere e testimonianze politiche, vol. I, cit., pp. 113-206, p. 119. 95 P.Y. Quiviger, Principe d’immanence. Métaphysique et droit administratif chez Sieyès, Paris, Champion, 2008. 1. L’ordine della società 51 denti di società. Essa non è esito dell’azione di governo, ma la realtà di uno specifico «regime sociale». Come scrive Pierre-Louis Roederer, un altro celebre idéologue: l’organizzazione sociale non consiste solamente nell’organizzazione del governo. La scienza sociale non consiste solamente in quella del diritto pubblico. Il governo non è che una parte dell’organizzazione sociale e non è nemmeno una parte assolutamente necessaria96. Ciò non significa che la società possa emanciparsi completamente dalla necessità di un governo, ma che essa ha assunto una forma storica tale da determinare i modi e l’intensità della sua presenza. Viene però stabilita una gerarchia nella conoscenza alla quale può accedere la scienza sociale. Per comprendere l’organizzazione sociale è necessario comprendere la composizione della società, chi sono i soggetti legittimi al suo interno. E questa analisi conta molto di più del rapporto tra una società intesa come necessità naturale e il suo eventuale governo. Utilizzando una semantica nella quale già compaiono il sistema sociale e gli elementi fisici della società, Roederer ha qui già assunto una sua precisa autonomia rispetto alla quale il governo svolge una funzione di garanzia, ma non rappresenta una necessità assoluta, perché, come egli afferma, è comunque possibile pensare un’organizzazione sociale nella quale il governo non sia la sola garanzia dell’ordre social, perché fondata sulla fusione degli interessi e sulla conoscenza di questo interesse comune. La società che ne deriva è una struttura universale, perché sebbene tutte le società siano da sempre composte di proprietari e non proprietari, quella contemporanea fa della proprietà il principio stesso dell’individualità, stabilendo ben più delle leggi di cittadinanza chi fa parte della società e in che grado vi partecipa. L’organizzazione sociale consiste nella divisione, nella 96 P.-L. Roederer, Cours d’organisation sociale (1793), poi in Œuvres du Comte P.L. Roederer, vol. VIII, Paris, Firmin Didot, 1859, pp. 129-305, p. 130. Cfr. anche K. Margerison, Political Thought and Practice during the French Revolution, Philadelphia, Transactions of the American Philosophical Society, Volume 73, Part 1, 1983, specificamente sul Cours pp. 94-113; R. Scurr, Social Equality in Pierre-Louis Rœderer’s Interpretation of the Modern Republic, 1793, in «History of European Ideas», 26, 2000, pp. 105-126. 52 la società come ordine separazione, nella classificazione, nell’esclusione degli individui. Proprio per questo solo la scienza sociale può essere la scienza dell’ordine che questa organizzazione manifesta. Seguendo puntualmente Sieyès nella sua distinzione tra potere rivoluzionario e potere costituente, Roederer separa rivoluzione e organizzazione della società, per collocare la rivoluzione e il suo potere in un tempo individuale, e quindi particolare e irripetibile, mentre il tempo della costituzione è complessivo, indifferente alle individualità, organizzativo per sua stessa natura. Separare nettamente il potere rivoluzionario da quello costituente, sostenendo che il primo «si esercita solo con la vigilanza, la resistenza e l’azione», mentre il secondo è esercitato «grazie all’osservazione, il raccoglimento e la meditazione», significa porre una volta di più il problema di finire la rivoluzione. La soluzione di questo problema è però possibile solo organizzando la società, ovvero mostrando come, grazie all’azione del potere costituente, essa si presenta come ordine. Esso, infatti, è «l’intelligenza umana applicata ai principi dell’ordine sociale, e indicante questo ordine agli uomini senza vederli e senza toccarli»97. Compito del potere costituente è quindi stabilire l’ordine come astrazione rispetto ai comportamenti individuali. Esso però appare a Roederer insufficiente proprio per lo scopo che deve raggiungere, così come sarebbe marchiato dall’insufficienza il tentativo di stabilire l’ordine sociale puntando sull’azione del governo. Ciò che non può esserci nella costituzione è la garanzia reale della sicurezza, della libertà e dell’uguaglianza, perché essa è solamente l’organizzazione dei poteri pubblici, ma le manca il radicamento necessario nei comportamenti individuali. Essa può stabilire norme e leggi, ma non può determinare, né organizzare i costumi. Dopo aver stabilito chi fa parte della società e quali rapporti sono degni di essere considerati sociali, Roederer stabilisce in che modo si possa costituire un ordine sociale fondato sulla moralità degli individui. Il modo fondamentale è per lui fare del lavoro un’istituzione della società. 97 Roederer, Cours d’organisation sociale, cit., p. 262. 1. L’ordine della società 53 Istituire il lavoro nella società significa obbligarvi tutti senza vincolarvi nessuno; significa attaccarvi il ricco come l’indigente; significa attaccarverli, l’uno grazie alla speranza del benessere, non per il timore avvilente dell’estremo bisogno; l’altro grazie al timore illuminato di stare peggio nell’ozio, e non dalla speranza avida di stare ancora meglio grazie al lavoro98. I buoni costumi non sono così più affidati alla tradizione politica. Essi non sono più, come sosteneva Machiavelli e con lui buona parte della tradizione repubblicana, un fattore costituzionale dell’organizzazione politica della società, ma una necessità di quella sociale. Dire che si tratta di una necessità significa che il lavoro in quanto fondamento dei buoni costumi non garantisce solo il buon comportamento del cittadino, ma è una dinamica necessaria alla costante produzione e riproduzione della società. In una parola, così come il movimento è ciò che conserva l’ordine nella natura, ciò che lo rigenera in continuazione, il lavoro è ciò che rigenera la società ed è anche ciò che mantiene l’ordine in essa, il grande agente di ogni polizia generale e particolare, di ogni specie di proprietà pubblica e privata; esso è il fondatore dei buoni costumi99. La società può infine presentarsi come ordine perché quest’ultimo è evidente come organizzazione. L’ordine non è un principio gerarchico, ma piuttosto una funzione organizzativa. Si stabilisce così una dialettica fragile, e quindi soggetta a continui conflitti, tra un ordine spontaneo che non ha bisogno di essere corretto perché produce di per sé un ordine e la tendenza a riconoscere in quell’ordine il principio del disordine sociale e quindi la necessità di un’ulteriore organizzazione. La scienza sociale è fin dalle sue origini la scienza di questo ordine e della sua contestazione. Essa può esserlo perché è in primo luogo una scienza dell’organizzazione della società, riconoscendo quest’ultima come il luogo reale della politica, che trasforma le effettive gerarchie in oggettivi vincoli organizzativi. 98 Ibid., 99 Ibid., p. 265. p. 266. Capitolo secondo Storia e sistema: il capitalismo 1. Epoche perdute Il capitalismo è la forma storica di organizzazione della società moderna. Esso non dispiega quindi i suoi effetti solamente in campo economico, ma determina l’insieme dei rapporti sociali all’interno dei quali gli individui sono coordinati e subordinati. Di capitalismo sembra urgente parlare soprattutto quando viene ciclicamente attraversato da crisi che mettono in discussione non solo la produzione di beni e servizi, ma la struttura di dominio che ne è la condizione di possibilità1. La crisi capitalistica si presenta pressoché sempre come problema relativo alla continuità storica del capitalismo, come interruzione della sua capacità di essere una struttura storica che opera sistematicamente nella società. La crisi capitalistica è, in altri termini, una crisi di futuro che non investe solo il capitalismo come organizzazione, ma la possibilità stessa della società nella sua forma attuale2. Da questo punto di vista 1 Il dibattito sul capitalismo ha attraversato una lunga stagione dominata dall’attenzione per le specificità nazionali dello sviluppo capitalistico. Oggi, con l’affermarsi della globalizzazione, l’attenzione torna a essere rivolta a un modello classico perché storico di capitalismo, cfr. B. Hancke (ed), Debating Varieties of Capitalism. A Reader, Oxford-New York, Oxford U.P., 2009. 2 Cfr. F. Schirrmacher, T. Strobl (Hrsg.), Die Zukunft des Kapitalismus, Frankfurt a. M, Suhrkamp, 2010; A. Fumagalli, S. Mezzadra (a cura di), Crisi dell’economia globale. Mercati finanziari, lotte sociali e nuovi scenari politici, Verona, Ombre corte, 2009; D. Sacchetto, M. Tomba (a cura di), La lunga accumulazione originaria. Politica e lavoro nel mercato mondiale, Verona, Ombre corte, 2008; K. Sanyal, Rethinking 56 la società come ordine ogni discorso sulla crisi è un discorso storico che necessariamente ridiscute le condizioni politiche del capitalismo, ovvero l’impossibilità sistemica degli individui al lavoro di proseguire nelle forme consuete di subordinazione e coordinazione. Nel pieno della crisi epocale determinata dalla prima guerra mondiale e dalla rivoluzione d’ottobre, Richard H. Tawney notava significativamente che il capitalismo aveva perso «il controllo dei corpi degli uomini, e ancor di più […] il controllo delle loro menti». Egli constatava che esso non era più in grado di «pagare i salari che vuole o far lavorare per tutte le ore che vuole», essendo venuta meno quell’autorità che, durante tutto il lungo XIX secolo, si era legittimata in nome dell’efficienza, grazie alla disciplina più dura e alla paura più profonda, facendo del capitalismo il correlato sociale di quello «Stato prussiano a cui nelle virtù e nei fatti non poco assomigliava» e al quale, si deve aggiungere, all’inizio degli anni Venti sembrava per di più fatalmente legato nel momento della crisi3. A partire da questo stallo, per una lunga stagione è stato previsto il percorso della strutturale trasformazione o del tramonto ineluttabile del capitalismo come conseguenza del cedimento di alcuni suoi elementi costitutivi, dell’impossibilità di rigenerare la soggettività di quella borghesia che ne aveva decretato il trionfo, dell’incapacità di offrire un’alternativa politica credibile ai movimenti e alle organizzazioni che lo criticavano e lo combattevano, dall’interno o dall’esterno della soglia della sua piena realizzazione. Poi, quasi in un lungo momento, dalla genesi storica comunque controversa4, sono impietosamente scomparse tutte le alternative Capitalist Development: Primitive Accumulation, Governmentality, and Post-Colonial Capitalism, New Delhi-New York, Routledge, 2007; trad. it. Ripensare lo sviluppo capitalistico. Accumulazione originaria, governamentalità e capitalismo postcoloniale: il caso indiano, Firenze, La Casa Usher, 2010. 3 R.H. Tawney, The Acquisitive Society, New York, Harcourt Brace and Howe, 1920; trad. it. La società acquisitiva, in Id., Opere, Torino, UTET, 1975, pp. 35-230, pp. 175-179. 4 Cfr. E.J. Hobsbawm, The Age of Extremes. The Short Twentieth Century, 19141991, London, Michael Joseph, 1994; trad. it. Il secolo breve. 1914-1991, Milano, Rizzoli, 1995 e G. Arrighi, The Long Twentieth Century. Money, Power, and the 2. storia e sistema: il capitalismo 57 immaginate come risposte alla grande crisi politica e sociale che aveva di fatto aperto questo secolo. Usciti da tempo di scena i discorsi che pronosticavano un crollo del sistema a partire dalle sue contraddizioni interne, divenuto improponibile il riferimento all’organizzazione o alla pianificazione, che era stata allo stesso tempo una politica economica di proporzioni quasi universali e l’oggetto di un’analisi teorica più o meno critica, rischia di apparire inattuale anche il riferimento se non alla senescenza almeno all’età del capitalismo; la definizione di capitalismo maturo [Spätkapitalismus], infatti, nata in coincidenza con il secolo e riapparsa in continuazione fino a un’eclatante epifania negli anni Settanta, sembra essere scomparsa dai dibattiti politici e dalle discussioni teoriche. Si realizza invece, almeno in apparenza, ciò che, all’inizio degli anni Trenta, Werner Sombart considerava improponibile: «Il film viene girato all’indietro: torniamo nello stato di innocenza della cosiddetta economia libera, a un capitalismo puro e senza falsificazioni con un’iniziativa e un dominio illimitati dell’imprenditore»5. Vale dunque la pena tornare a interrogare alcuni dei modelli storiografici che hanno stabilito la storia e il sistema del capitalismo, per comprendere che cosa il concetto intenda, tenendo presente che, molto spesso, quelli che vengono definiti i caratteri originari fungono poi anche da elementi costituzionali dell’epoca storica in cui ci si trova. L’operazione sembra ancora più rilevante nel momento in cui il capitalismo subisce la trasformazione da economia-mondo a economia mondiale6 e, all’interno di questo Origins of Our Times, London-New York, Verso, 1994; trad. it. Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Milano, Il Saggiatore, 1996. 5 W. Sombart, Die Zukunft des Kapitalismus (1932), in B. von Brocke (Hrsg.), Sombarts ‘Moderner Kapitalismus’. Materialien zur Kritik und Rezeption, München, Dtv, 1987, pp. 394-418, p. 399. 6 Sulla formazione di questi concetti cfr. I. Wallerstein, The Modern World-System, vol. I: Capitalist Agriculture and the Origins of the European World-economy in the Sixteenth Century, New York, Academic Press, 1974; trad. it. Il sistema mondiale dell’economia moderna, vol. I: L’agricoltura capitalistica e le origini del sistema mondiale dell’economia europea nel XVII secolo, Bologna, il Mulino, 1978, Id., Historical Capitalism with Capitalist Civilization, London-New York, Verso, 1983; trad. it. Il capitalismo storico. Economia, politica e cultura di un sistema-mondo, Torino, Einaudi, 58 la società come ordine processo di globalizzazione, pretende di riformulare radicalmente il rapporto con l’organizzazione istituzionale della politica, come pure ridefinire la forma del “rapporto sociale” che lo ha determinato come specifica emergenza moderna7. Il termine capitalismo nasce e si afferma quando la stagione classica dell’economia politica è oramai al tramonto. Esso dà voce a un concetto che non deriva da quella specifica tradizione di agire pratico e di attività scientifica, ma viene piuttosto alla luce all’interno della riformulazione complessiva degli assetti disciplinari che ha luogo in corrispondenza della nascita delle scienze sociali, in modo particolare della sociologia. Dal punto di vista storico la sua prima affermazione coincide con il dispiegamento degli effetti della cosiddetta rivoluzione industriale8, con il processo di costituzione di un mercato del lavoro extracetuale, cioè libero da protezioni tradizionali o corporative9; in definitiva, coincide con l’affermazione di quello che la ricerca storica successiva ha definito e delimitato come «capitalismo industriale»10. Dal punto di vista giuridico esso 1985 e F. Braudel, Afterthoughts on Material Civilization and Capitalism, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1977; trad. it. La dinamica del capitalismo, Bologna, il Mulino, 1981, pp. 89 sgg. 7 Cfr. M. Ricciardi, Politica e scienza della società globale. Istituzioni, individui e il rischio del sociale, in R. Gherardi (a cura di), Politica, consenso, legittimazione. Trasformazioni e prospettive, Roma, Carocci, 2002, pp. 67-82. 8 Si vedano I. Wallerstein, The Modern World-System, vol. III: The Second Era of Great Expansion of the Capitalist World-economy, 1730-1840s, New York, Academic press, 1989; trad. it. Il sistema mondiale dell’economia moderna, vol. III: L’era della seconda grande espansione dell’economia-mondo capitalistica, 1730-1840, Bologna, il Mulino, 1995. 9 Cfr. K. Polanyi, The Great Transformation, New York, Rinehart and Co., 1944; trad. it. La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Torino, Einaudi, 1974 e R. Koselleck, Preussen zwischen Reform und Revolution: allgemeines Landrecht, Verwaltung und soziale Bewegung von 1791 bis 1848, Stuttgart, Klett, 1967; trad. it. La Prussia tra riforma e rivoluzione (1791-1848), Bologna, il Mulino, 1988. 10 Cfr. R. Passow, Kapitalismus. Eine begrifflich-terminologische Studie, Jena, Fischer, 19272 e M.E. Hilger, L. Hölscher, Kapital, Kapitalist, Kapitalismus, in O. Brunner, W. Conze, R. Koselleck (Hrsg.), Geschichtliche Grundbegriffe, Stuttgart, Klett, 1972, vol. III, pp. 399-454. «“Capitale”, parola di usuraio e di contabile, il cui significato fu ben presto grandemente esteso dagli economisti. “Capitalista”, lontano avanzo del gergo degli speculatori, nelle prime borse europee. Ma “capitalismo”, che 2. storia e sistema: il capitalismo 59 emerge nel momento in cui il contratto conosce la sua prima crisi nel passaggio da figura della relazione tra privati a regolamentazione generale dei rapporti di lavoro con la richiesta e l’affermazione dei primi contratti collettivi. Si deve aggiungere che fin dall’origine, essendo un «termine polemico e politico»11, esso contiene al suo interno un’asimmetria costitutiva, esplicitata infine nel 1870 dal saggio Kapitalismus und Socialismus dell’economista Albert Schäffle. Nonostante nel 1867, data di pubblicazione del primo libro del Capitale, Marx preferisca ancora al sostantivo l’espressione «modo di produzione capitalistico», il luogo sociale della genesi del concetto di capitalismo è lo scontro inaugurato in Europa dal movimento sociale a partire dal giugno francese del 1848, definito dallo stesso Marx «l’avvenimento più grandioso nella storia delle guerre civili europee»12. Il concetto di capitalismo viene così costruito in forza di una doppia negazione: da una parte, dal momento che la sua vicenda si intreccia con quella del suo reciproco asimmetrico, diversamente nominato come socialismo o come comunismo, esso nega quei concetti che, dall’interno della sua realtà, rimandano a costituzioni sociali future; dall’altra parte esso mostra un carattere antitetico, precario e fondamentale, rispetto ai concetti che rimandano alle costituzioni sociali del passato, siano esse definite come società naturali o, più semplicemente, come comunità. In forza di questa doppia delimitazione la storia del concetto di capitalismo è nel senso più eminente storia sociale dell’epoca in cui il rapporto di capitale ha assunto la forma definitiva di sistema. Proprio la necessità di mantenere e approfondire quella doppia perimetrazione mette in risalto il ruolo delle concettualizoggi, nei nostri classici, occupa un posto ben più considerevole, è giovanissimo; porta la sua desinenza come un marchio d’origine [Kapitalismus]», così M. Bloch, Apologie pour l’histoire ou Métier d’historien, Paris, A. Colin, 1949; trad. it. Apologia della storia o il mestiere di storico, Torino, Einaudi, 19787, p. 146. 11 A. Shadwell, Capitalism, in «Edinburgh Review», 232-233, 1920-21, pp. 69-83, p. 69. 12 K. Marx, Der achtzehnte Brumaire des Louis Bonaparte (1852), poi in MEW, Berlin, Dietz, 1960, vol. VIII, pp. 113-207, trad. it. Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, in Id., Rivoluzione e reazione in Francia. 1848-1850, Torino, Einaudi, 1976, pp. 169-318, p. 182. 60 la società come ordine zazioni disciplinari delle scienze sociali. Infatti, sebbene riferito in maniera prioritaria e inevitabile alla costituzione economica, fin dall’origine il concetto di capitalismo raccoglie al proprio interno una pluralità di apporti che hanno un comune fondamento nel nuovo concetto di società che, nonostante tutti i successivi tentativi di intendere quest’ultima come sostanza reale delle relazioni sociali, è fin dall’inizio pensata come «entità astratta con ricchezze e bisogni ipotetici»13. Il riconosciuto carattere artificiale della società la porta inevitabilmente sul limite di un discorso classico sull’associazione umana, facendo sì che alcuni specifici modelli politici di matrice utilitaristica vengano recuperati e coniugati con i risultati dell’economia politica classica. Se un tempo la creazione dello Stato artificiale era stata considerata il presupposto necessario per la fuoriuscita dallo stato di natura, ora la riconosciuta centralità del concetto di società diviene l’antefatto logico per comprendere il dissolvimento della condizione naturale di tipo comunitario. Questo percorso di ricerca viene seguito, su piani diversi ma comunicanti, sia in Gran Bretagna, grazie alla lunga narrazione sociologica di Herbert Spencer, sia in Germania, attraverso l’opera di Ferdinand Tönnies, il primo rappresentante dell’epoca classica della sociologia tedesca14. In questi impianti sociologici, pur con tutte le loro marcate differenze, la “società” appare come una condizione di continua tensione tra individualità il cui rapporto è ridotto alla capacità di fornire prestazioni reciproche, rispettando, e quindi legittimando in continuazione, le convenzioni che rendono possibile la loro stessa socialità. Questa associazione assolutamente convenzionale viene di conseguenza mediata nella maniera più perfetta dal denaro in 13 J.Ch.S. de Sismondi, Nouveaux principes d’économie politique, ou De la richesse dans ses rapports avec la population, Paris, Imprimerie de Fain, 1819; trad. it. Nuovi principi di economia politica o della ricchezza nei suoi rapporti con la popolazione, Milano, Isedi, 1975, p. 57. 14 Differente è la posizione di Emile Durkheim, la cui indagine sulla divisione del lavoro sociale contiene alcuni elementi che permettono di assimilarla almeno in parte a questa linea. Cfr. S. Lukes, Émile Durkheim. His Life and Work. A Historical and Critical Study, Harmondsworth, Penguin Books, 1992 e B. Karsenti, La société en personnes. Études durkheimiennes, Paris, Economica, 2006. 2. storia e sistema: il capitalismo 61 quanto oggetto supremo dell’aspirazione alla potenza di ogni individualità e, allo stesso tempo, in quanto massima espressione dell’astrazione societaria. Esso solamente è capace di determinare il grado di partecipazione alla società, al punto che solo chi può scambiare sia denaro contro denaro, sia denaro contro merce, appare come il vero artefice della società. Il denaro non si presenta come strumento neutrale di mediazione tra soggetti uguali, ma come vero e proprio principio formale che stabilisce a priori il raggio d’azione di ogni singolo agire societario. Nel momento in cui il concetto di società viene messo alla prova di questa costituzione economica presente, esso si trova perciò di fronte a una contraddizione apparentemente insanabile, dal momento che solo alcuni individui sembrano presentarsi come autentici soggetti societari. «I commercianti o capitalisti – possessori di denaro che può essere incrementato con un duplice scambio – sono i padroni e sovrani naturali della società. La società esiste per loro; è il loro strumento»15. Questa affermazione, oltre a essere la critica politica del movimento sociale all’Europa postrivoluzionaria, era anche il punto di approdo dell’analisi marxiana, sulla quale in particolare Tönnies costruisce parte del suo ragionamento e dalla quale si distacca esplicitamente quando essa finisce per mettere in discussione l’uguaglianza reale degli individui societari16. Marx, infatti, spiegando le forme del predominio del capitale, rileva immediatamente la priorità raggiunta da quell’«elemento sociale [gesellschaftlich], prodotto storicamente»17, che differenzia in maniera fondamentale l’attuale forma dell’appropriazione da quelle basate sulla proprietà fondiaria e sul rapporto con la natura. Questo mutamento radicale deve essere recepito 15 F. Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft, Leipzig, Fues’s Verlag, 1887; trad. it. Comunità e società, Milano, Comunità, 1979, p. 103. 16 «Secondo questa interpretazione tutti i non-capitalisti sono, nell’ambito della società, essi stessi simili a strumenti inerti – questo è il concetto perfetto di schiavitù – e quindi costituiscono per il diritto delle nullità, cioè vengono concepiti come incapaci di un proprio arbitrio, e quindi di un contratto valido nel sistema» (ibid., p. 103). 17 K. Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (1857-58), Berlin, Dietz, 1974; trad. it. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 2 voll., Firenze, La Nuova Italia, 1978, vol. I, p. 35. 62 la società come ordine in maniera adeguata dalla teoria, al punto da fargli affermare che «la società deve essere sempre presente alla rappresentazione come presupposto»18. E, sulla natura antagonistica riconosciuta alla società, Marx fonda anche il concetto di capitale, che per lui è una «potenza societaria [gesellschaftliche Macht]»19 e, di conseguenza, «non è una cosa, ma un rapporto sociale [gesellschaftliches Verhältnis] fra persone mediato da cose»20. Questa tensione irresolubile è il carattere costitutivo del capitalismo, dal momento che sia la forza-lavoro sia i singoli capitalisti tendono a sottrarsi in continuazione all’ordine della società: la prima affermando politicamente la propria autonomia, i secondi sostenendo il primato “naturale”, cioè economico, della cosa. Così avviene nel modo più eclatante, secondo Marx, con il capitale monetario produttivo di interesse, «denaro che produce più denaro, valore che valorizza se stesso, senza il processo che serve da intermediario tra i due estremi». Oltre questa soglia il capitale punta a obliterare anche quel rapporto forzatamente sociale che è la produzione della merce, per scambiarsi esclusivamente con se stesso. Qui «il rapporto sociale è perfezionato come rapporto di una cosa, del denaro, con se stessa». Qui il capitale si mostrerebbe contemporaneamente nella sua «forma empirica» e nella contraddizione più stridente rispetto all’assetto generale della sua società, avocando a sé ogni produzione di ricchezza al di fuori di ogni rapporto. Non si tratta in ogni caso di uno stadio che abolisce i precedenti sviluppi capitalistici, quanto piuttosto di una vocazione specifica, inscritta nella logica politica del sistema. Nonostante la sua «storia naturale», il suo mutare in corrispondenza delle innovazioni tecnologiche e della trasformazione delle condizioni di valorizzazione del capitale, vi è infatti per Marx nel capitalismo una continuità ininterrotta che qualifica quel rapporto sociale come rapporto politico. In questa continuità la preistoria e la storia del 18 Ibid., p. 28. Il capitale, cit., vol. III, p. 239 (trad. modificata). 20 Ibid., vol. I, p. 828. 19 Marx, 2. storia e sistema: il capitalismo 63 capitalismo tendono a sovrapporsi, mostrando il carattere politicamente costitutivo della forma generale dell’appropriazione. La radicale ridefinizione delle figure e delle forme della produzione e della riproduzione economica stabilisce infatti anche una nuova posizione del politico, fondato su un nuovo principio di legittimazione dell’autorità sociale. Il modo di produzione capitalistico avrebbe infatti assicurato un ordinamento legittimo nella forma di una autorità rigorosamente normativa e di un meccanismo sociale del processo lavorativo articolato in una gerarchia completa – autorità però che spetta ai suoi depositari in quanto personificazioni delle condizioni di lavoro rispetto al lavoro, non, come nelle precedenti forme di produzione, in quanto dominatori politici o teocratici. Questo ordinamento è il momento fondamentale di un processo di astrazione, basato sulla progressiva sussunzione delle precedenti forme lavorative e delle corrispondenti forme associative, fino al punto in cui «la struttura sociale della produzione si afferma solo come una soverchiante legge naturale nei confronti dell’arbitrio individuale»21. Il rapporto di produzione capitalistico, proprio perché è un rapporto societario, stabilisce così le condizioni immediate del dominio politico, mostrando che la società non è solamente una costruzione artificiale, ma anche una struttura definita da un’asimmetria costitutiva che, limitando i singoli al loro ruolo sociale, individuandoli cioè in base al possesso di denaro, fonda la «schiavitù» politica sulla libertà del lavoro, in definitiva sulla stessa possibilità riconosciuta e sancita di concludere contratti validi. L’indissolubile intreccio tra modo di produzione capitalistico e ordine della società apre per la scienza sociale una doppia possibilità: o accettare l’interpretazione del rapporto societario come una forma di non-rapporto, oppure privilegiare i percorsi attraverso i quali si afferma l’uguaglianza di tutti i soggetti di diritto, evidenziando come la cooperazione in generale dipenda dalla loro capacità di entrare in relazione reciproca nelle forme 21 Ibid., vol. III, p. 999. 64 la società come ordine stabilite dalla figura fondamentale del contratto22. In questo modo, pur riconoscendo la presenza e i rischi del sempre possibile conflitto o addirittura del non riconoscimento individuale e collettivo, il discorso sociologico neutralizza l’idea di una polemicità intrinseca alla cooperazione societaria grazie a un’immagine del capitalismo profondamente segnata dall’evoluzione non solamente dei suoi aspetti tecnologici, ma anche e soprattutto di quelli politici. Infatti, solamente inquadrando i rapporti di dipendenza personale in un modello evolutivo si può presumere che coloro i quali non sono ancora riconosciuti nella loro piena capacità contrattuale lo saranno in un qualche futuro, quando il processo di razionalizzazione sarà pienamente e universalmente dispiegato, permettendo così di superare le contraddizioni presenti. In questo senso la legittimità della nuova forma societaria viene ritrovata esplicitamente nel carattere evolutivo della sua razionalizzazione, che dovrebbe garantire una sempre maggiore e più ampia inclusione, una sempre maggiore felicità per il maggiore numero di uomini. Allo stesso tempo all’interno di questa linea – i cui nomi di maggior spicco sono senza dubbio Spencer e Tönnies – viene anche considerata la possibilità di un avvicendamento quasi necessario tra le soggettività che danno forma alla vita societaria, al punto da non escludere una sorta di autosuperamento della stessa forma capitalistica, basato sulla infinita progressione del lavoro libero e della socializzazione della cooperazione23. 22 Cfr. a questo proposito S. Breuer, Sozialgeschichte des Naturrechts, Opladen, Westdeutscher Verlag, 1983. E. Durkheim, De la division du travail social. Étude sur l’organisation des sociétés supérieures, Paris, F. Alcan, 1893; trad. it. La divisione del lavoro sociale, Milano, Comunità, 1971, p. 139 scrive: «Il contratto è infatti l’espressione giuridica per eccellenza della cooperazione». Ma cfr. anche Id., Leçons de sociologie: physique des mœurs et du droit, Paris, Presses universitaires de France, 1950; trad. it. Lezioni di Sociologia, Milano, Etas Kompass, 1973, pp. 158-197. 23 Cfr. H. Spencer, The Principles of Sociology (1877-1896), New York, D. Appleton and Co., 1897; trad. it. Principi di sociologia, 2 voll., Torino, UTET, 1967, vol. II, pp. 965-1082. Su Tönnies cfr. M. Ricciardi, Ferdinand Tönnies sociologo hobbesiano. Concetti politici e scienza sociale in Germania tra Otto e Novecento, Bologna, il Mulino, 1997. 2. storia e sistema: il capitalismo 65 Tra gli anni novanta dell’Ottocento e la prima guerra mondiale, tuttavia, questa immagine progressiva in senso forte della società capitalistica, intimamente legata alla convinzione della praticabilità di un adeguamento della sua forma concreta alla sua forma razionale, cioè della sua riforma, conosce la sua irreversibile crisi. Improponibile appare ora modellare la cooperazione societaria sulle simmetrie del contratto, espellendo dalla determinazione analitica quelle condizioni che sembrano ancora rispondere a situazioni in cui il dominio personale è l’unico fondamento dell’autorità. Riconsiderato storicamente, il contratto appare esclusivamente un fattore di disciplinamento della socialità capitalista, estraneo ai movimenti costitutivi di una società che diviene il luogo di manifestazione di un’unica e specifica individualità. Lo stesso contratto di lavoro viene riconosciuto nella sua qualità di «contratto unilaterale di sottomissione»24 che, nonostante possa apparire in contrasto con la coscienza giuridica moderna, risponde nondimeno ai principi della sua legittimità, i quali impongono di ubbidire esclusivamente a «statuizioni formalmente corrette e stabilite nel modo consueto»25. La materialità del rapporto, in ogni caso espressa dal contratto di lavoro, s’infrange contro la necessaria formalità che il diritto e l’amministrazione devono dispiegare per svolgere il proprio ruolo politico all’interno della società, finendo per rendere comunque evidente la caratteristica universale della moderna libertà contrattuale, cioè il suo essere «uno strumento di acquisizione di potere [Macht] sugli altri»26. La centralità riconosciuta al soggetto di questo potere muta radicalmente la prospettiva nell’immagine evoluzionistica della società del capitale. All’interno del suo cammino accidentato ma 24 M. Weber, Debatterede zu den Verhandlungen des Vereins für Sozialpolitik in Mannheim 1905 über das Arbeitsverhältnis in den privaten Riesenbetrieben, in Id., Gesammelte Aufsätze zur Soziologie und Sozialpolitik, Tübingen, Mohr, 19882, pp. 394-399, p. 394. 25 M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft. Grundriss der verstehenden Soziologie, 2 voll., Tübingen, Mohr, 1922; trad. it. Economia e società (1922), 5 voll., Milano, Comunità, 1980, vol. I, p. 35. 26 Ibid., vol. III, p. 86. 66 la società come ordine ininterrotto vengono distinte, grazie a una ricostruzione «geneticosistematica», quattro differenti epoche, sottolineando la specificità originale da esso raggiunta nel momento del suo dominio inoppugnabile, il suo essere – secondo la definizione di Werner Sombart – un «individuo storico»27. La prima epoca si riferisce agli antefatti del suo sorgere [Vorkapitalismus], la seconda alle vicende della sua aurorale affermazione [Frühkapitalismus], la terza al fulgore del suo massimo predominio [Hochkapitalismus], infine, la quarta, al compimento di questa storia nel corso della fase di declino [Spätkapitalismus], che sembra annunciarsi dalla fine della prima guerra mondiale dopo 150 anni di dominio incontrastato. Le diverse epoche portano comunque a una definizione unitaria del concetto del capitalismo: esso è un’organizzazione economica del traffico dominata dal principio acquisitivo e dal razionalismo economico, in cui due diversi gruppi di popolazione cooperano regolarmente, uniti dal mercato: i detentori dei mezzi di produzione che contemporaneamente hanno la direzione sono i soggetti economici, e i lavoratori nullatenenti (in quanto oggetti economici)28. Tutti i termini di questa definizione insistono sulla categoria di sistema economico, al punto che la divisione tra soggetti e oggetti economici non assume alcuna funzione dinamica, finendo per essere limitata alla constatazione di un dato di fatto in definitiva non fondamentale. Né il conflitto sociale né lo Stato assumono in quest’ottica una decisiva rilevanza storico-costituzionale29, dal momento che l’unitarietà del sistema viene costruita grazie alla sua soggettivazione a partire da un determinato tipo di uomo, al quale viene riferita ogni attività e ogni aspirazione dominante, venendo considerato l’originario portatore dello spirito capitali27 W. Sombart, Der moderne Kapitalismus. Historisch-systematische Darstellung des gesamteuropäischen Wirtschaftslebens von seinen Anfängen bis zur Gegenwart (1927), 3 voll., München, Dtv, 1987, vol. I, p. 22. 28 Ibid., vol. I, p. 319. 29 O. Hintze, Der moderne Kapitalismus als historisches Individuum. Ein kritischer Bericht über Sombarts Werk (1929), ora in von Brocke, Sombarts ‘Moderner Kapitalismus‘, cit., pp. 322-377. Cfr. M. Ricciardi, Otto Hintze, lo Stato e il problema della pratica storica, in «Contemporanea», XIII, 2010, pp. 163-171. 2. storia e sistema: il capitalismo 67 stico all’interno di un insieme di economie che non lo conoscevano e non sarebbero nemmeno state in grado di produrlo. Il capitalismo sorge letteralmente grazie a delle «imprese» e trova il proprio tratto più caratteristico nella sempre maggiore centralità dell’«impresa economica». Grazie a essa possono esprimersi sia le qualità, per così dire, tecniche che ne stabiliscono la forma economica, sia le virtù del borghese, dando congiuntamente vita a quel Bürger da intendersi come figura umana che, attraversando il tempo, ha dato la forma peculiare a ogni epoca, imponendosi di volta in volta come tipo dominante30. Dal punto di vista tecnico il primo è stato l’imprenditore specialista, spesso un inventore, il capitano d’industria, dedito alla produzione specifica di cui si occupa, legato all’organizzazione della fabbrica, in modo particolare al mercato del lavoro. Quindi è stata la volta dell’imprenditore mercante che, muovendo dai bisogni del mercato, cerca di anticipare il futuro, puntando addirittura a creare i bisogni che poi soddisfa. Non è rivolto al mercato del lavoro, ma a quello delle merci; non gli interessa organizzare il lavoro, quanto piuttosto lo smercio. Ultimo è il capitalista finanziario che prende le mosse dal bisogno di capitale e fa della borsa il luogo del suo dominio. Per lui la costituzione di imprese è parte della concorrenza per il potere che predilige. Lui solo domina tuttavia tutte le dimensioni dell’attività imprenditoriale, rappresentando allo stesso tempo il culmine del soggetto storico del capitalismo e l’annuncio del suo imminente declino. Questi diversi tipi di imprenditore non sono in realtà manifestazioni consecutive che si escludono reciprocamente, ma piuttosto il segno di una differente dominanza che finisce per stabilire il segno dell’epoca, dietro al quale rischia comunque di scomparire in continuazione il carattere sociale di quella dominanza, al punto che alla fine l’impresa capitalistica ha la meglio sul suo soggetto. Questo esito è, per Sombart, una prognosi sul 30 Cfr. W. Sombart, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wirtschaftsmenschen (1913), Reinbeck bei Hamburg, Rowohlt Taschenbuch Verlag, 1988, pp. 11-18 per la definizione dello spirito del capitalismo; pp. 108 sgg. per le caratteristiche del Bürger. 68 la società come ordine futuro del mondo europeo-americano alla fine degli anni Venti, cioè nel momento in cui l’espansione del capitalismo al mondo intero sembra mettere in discussione la gerarchia tra la «massa di territori periferici» e il «centro capitalistico», nel quale non solo crescono i vincoli che frenano praticamente l’azione, ma stanno anche venendo meno tutte quelle condizioni che avevano legittimato il quadro complessivo della soggettività imprenditorialborghese31. Non si tratta quindi solamente di una crisi di funzione, ma del tramonto del Bürger, quindi della figura complessivamente dominante nella società del capitalismo maturo [Hochkapitalismus]. Il tardo capitalismo, in quanto epoca della definitiva «secolarizzazione», od «oggettivazione» dello spirito capitalistico32, non annuncia una ridefinizione del rapporto societario, cioè la supremazia raggiunta da altri soggetti e da altri stili di vita33, né in definitiva una vera e propria scomparsa del rapporto di capitale, dato che quest’ultimo dovrebbe continuare a sussistere accanto ad altre forme che ritornano dalla sua preistoria, ma piuttosto la tendenza e, per quanto concerne Sombart, l’ambigua necessità, di ricercare nel passato modi economici e associativi che chiudano la parentesi della società. Appropriandosi di un’espressione che da decenni era di casa nelle formulazioni scientifiche tedesche, svolgendo un ruolo non indifferente nella formazione dell’autocoscienza borghese, Sombart registra, come si è detto, l’esaurimento della spinta che aveva permesso 31 «Il farsi strada di idee normative nel modo di essere puramente naturalistico del capitalismo; la detronizzazione dell’aspirazione al guadagno come unico punto di vista determinante del comportamento economico; l’allentamento della forza di tensione economica; la fine della capacità di produrre uno sviluppo discontinuo; la sostituzione della libera concorrenza con il principio dell’intesa; l’organizzazione costituzionalistica [die konstitutionelle Verfassung] dell’impresa» (Sombart, Der moderne Kapitalismus, cit., vol. III, p. XII). Cfr. anche Id., Die Wandlungen des Kapitalismus, in Verhandlungen des Vereins für Sozialpolitik in Zürich 1928 (Schriften des Vereins für Sozialpolitik, 175), München-Leipzig, Duncker & Humblot, 1929, pp. 23-41. 32 Sombart, Der moderne Kapitalismus, cit., vol. III, pp. 30 e 35-39. 33 Cfr. ibid., vol. III, p. 7, dove Sombart considera «mistica» la pretesa marxiana che «un rapporto societario di relazione [sia] una forza propulsiva nella vita sociale». 2. storia e sistema: il capitalismo 69 al borghese di appropriarsi del mondo grazie alle sue filosofie e alla sua attività di imprenditore. Rispetto all’uso che ne fa Max Weber negli stessi anni, la sua concettualizzazione si presenta così più vasta, volendo ricoprire tutti gli ambiti della vita economica, mentre, allo stesso tempo, si fonda sull’esplicita rinuncia a indicare attraverso di essa che cosa vi sia di «eticamente normativo nell’ambito dell’economico»34. In Weber vi è un’intenzione diversa, un’attenzione esplicitamente differente che non si rivolge solamente alla storia della relazione tra protestantesimo e «spirito capitalistico», ma più oltre al modo di porsi di fronte al capitalismo presente. Sebbene Weber rivendichi il carattere storico della sua ricerca, e di conseguenza il fatto che attualmente il capitalismo si è ampiamente emancipato dall’ascesi intramondana dei suoi pionieri, sebbene cioè la sua ricerca sul tipo umano del protocapitalismo sembri avere un inizio e una fine ben definiti, essa presuppone un intendimento etico35 che fonda un’interrogazione altrettanto determinata e commensurata alla legittimità del presente. Se è infatti vero che il capitalismo attuale può fare a meno di quella specifica etica della rinuncia all’«universalità faustiana», che costituiva il tratto più tipico dello «stile di vita borghese», trovando nell’autolimitazione «il presupposto di un agire fornito di valore»36, è altrettanto vero che al suo soggetto attuale sembra oramai mancare quel «fondamento decisivo nella vita personale»37 capace di produrre una forma adeguata del mondo. Secondo Weber, a partire dall’Illuminismo l’ottimismo sociale, che ha poi trovato la sua massima espressione nel liberalismo, ha 34 Sombart, Der Bourgeois, cit., p. 12. mie ricerche concernono l’analisi dello sviluppo di uno “stile di vita” etico adeguato al nascente capitalismo dell’età moderna, e solo questo» (M. Weber, Antikritisches Schlußwort zum «Geist des Kapitalismus» (1910), in Id., Die protestantische Ethik II. Kritiken und Antikritiken, Gütersloh, Gütersloher Verlagshaus Mohn, 1987, pp. 283-345, p. 286). 36 M. Weber, Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus (1905), poi in Id., Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie, Tübingen, Mohr Siebeck, 1920, vol. I, pp. 17-206; trad. it. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, in Id. Sociologia della religione, 2 voll., Milano, Comunità, 1982, vol. I, pp. 17-194, p. 191. 37 Weber, Antikritisches Schlußwort, cit., p. 296. 35 «Le 70 la società come ordine surrogato quella mancanza, così come la spinta alla competizione fine a se stessa ha sostituito l’acquisizione fondata sulla vocazione professionale motivata religiosamente. Con il tramonto di questa particolare costellazione di soggetti e valori, sembra essere venuta meno anche quella specifica legittimità del capitalismo. In questo modo il capitalismo può ovviamente continuare comodamente a esistere, ma o, come oggi sempre più accade, come un’inevitabilità presa fatalisticamente, oppure, come nel periodo dell’Illuminismo […], legittimato come mezzo in qualche modo relativamente ottimale, per fare (più o meno nel senso della teodicea leibniziana) del relativamente migliore dei mondi ciò che è relativamente meglio38. La legittimità dell’epoca presente è dunque presa tra la rassegnazione fatalistica e la relativizzazione del suo portato, mentre il sistema si afferma come assoluto, avendo oramai occupato tutti gli spazi economici e sociali grazie a quel prodotto specifico del capitalismo rappresentato dalla burocratizzazione universale che, in quanto espressione più tipica della razionalità moderna, attraversa e congiunge l’economia e la politica, l’impresa e lo Stato, l’individuo e le sue modalità associative. Per Weber in definitiva, l’oggettivazione dello spirito del capitalismo non è il segno del suo declino, ma piuttosto lo stigma del suo pieno dispiegamento, il giungere a compimento di un processo che coinvolge tanto i borghesi, attuali e manchevoli eredi degli antichi puritani, quanto gli operai dell’industria, tutti ugualmente presi in quella «gabbia d’acciaio» che, con la sua immanente razionalità, impone scelte e comportamenti determinati. Si deve tuttavia sottolineare come l’opzione weberiana privilegi una specifica genesi del capitalismo non identificabile con quella delle «imprese» sombartiane, cioè con l’azione di avventurieri che avrebbero dissolto la comunità precedente grazie alla loro eccezionale individualità. Rifiutandosi di enfatizzare l’avventura nell’origine39, Weber privilegia l’identificazione dell’in38 Ibid., p. 297. p. 322. Weber lo riconosce esplicitamente, riferendosi a Simmel, il quale, significativamente, scrive: «La sua [dell’avventura] atmosfera è […] un’incondizionata presenzialità, il processo vitale si accelera in un punto che non ha né passato né futuro 39 Ibid., 2. storia e sistema: il capitalismo 71 dividuo protestante con la sua comunità e, a partire da questa unità, traccia le linee di una specifica trasformazione che assieme alla comunità coinvolge anche il mondo. Questa negazione ha, come si vedrà, effetti determinanti per la concezione del rapporto tra la sfera degli scambi mercantili e quella della politica, che finiscono per stabilire due polarità la cui relazione viene determinata dalla compenetrazione di elementi concettualmente differenti: da un lato gli elementi «razionali e borghesi», dall’altro quelli «avventurosi e irrazionali» tipici della politica40. «Di fronte a quello che Joseph A. Schumpeter ha definito il fatto della continuità storica», Weber finisce così per annunciare una cesura che, rivelata dall’annichilimento di quello specifico tipo umano, percorre diacronicamente la storia del capitalismo. Essa mette in mora la potenzialità legittimante della teodicea41 e fa sì che infine allo stesso imprenditore venga riconosciuto un sapere in qualche modo residuale e comunque contraddittorio rispetto al «sapere razionale della burocrazia»42. Il fatto che per la borghesia il capitalismo cessi di «essere un problema» annichilisce anche la funzione di mediazione sociale che essa aveva cercato di svolgere in forza della propria scelta etica basata sul rifiuto del «comportamento dell’avventuriero» e verificata attraverso «la battaglia e vittoria nella lotta concorrenziale, mediante uno sforzo razionalizzato protratto all’infinito»43. L’annichilimento di quel ruolo e perciò raccoglie in sé la vita con un’intensità che spesso è relativamente indifferente nei confronti della materia del processo» (G. Simmel, Das Abenteuer (1910), ora in Id., Hauptprobleme der Philosophie. Philosophische Probleme, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1996, pp. 168-185, p. 181). 40 Per C. Brinkmann, Die moderne Staatsordnung und der Kapitalismus, in Grundriß der Sozialökonomik, Tübingen, Mohr, 1925, vol. IV/1, pp. 49-67, p. 52, lo spirito capitalistico è frutto di entrambi. 41 B. Accarino, Ingiustizia e storia. Il tempo e il male tra Kant e Weber, Roma, Editori Riuniti, 1994. 42 Weber, Economia e società, cit., vol. I, p. 219. 43 Cfr. F. Borkenau, Der Übergang vom Feudalen zum bürgerlichen Weltbild. Studien zur Geschichte der Philosophie der Manufakturperiode, Paris, Alcan, 1934; trad. it. La transizione dall’immagine feudale all’immagine borghese del mondo. La filosofia del periodo della manifattura, Bologna, il Mulino, 1984, pp. 164 e 173, ma anche p. 158. La questione del ruolo politico della borghesia è peraltro un elemen- 72 la società come ordine politico, avvenuto sotto la spinta a cui dopo il 1848 si trovarono esposti i capisaldi costitutivi della società44, contrappone l’attività imprenditoriale alla burocratizzazione, nonostante esse abbiano, come si vedrà, un fondamento comune che continua a legittimare l’esistenza di entrambe. Negli anni successivi la questione del ruolo sociale e della funzione economica dell’imprenditore diviene così centrale per il tentativo di dare ragione della crisi economica e sociale che, negli anni Venti e Trenta, assume una devastante portata mondiale. Nella scienza economica, grazie a Schumpeter, una risposta fondamentale è quella che, distinguendo la figura dell’imprenditore da quelle di coloro che semplicemente gestiscono, amministrano o traggono passivamente un profitto finanziario dall’attività delle imprese capitalistiche, le assegna la funzione di introdurre all’interno del sistema le innovazioni che di fatto ne determinano lo sviluppo. Si tratta evidentemente di una figura eccentrica ed eccezionale, per molti versi autenticamente carismatica che, raccogliendo buona parte degli esiti del discorso sociologico, porta alle estreme conseguenze la convinzione che il problema fondamentale del capitalismo sia la sua natura dinamica. Schumpeter si riallaccia a tutte quelle analisi classiche in qualche modo accomunate dal tentativo di mostrare che il presente polemico del capitalismo debba essere spiegato dall’interno della sua storia, cioè dall’interno di una temporalità determinata in continua e contraddittoria evoluzione. Lo stesso sviluppo capitalistico appare sottoposto all’influenza di quei momenti esogeni alla statica del suo equilibrio che proprio per questo vengono rappresentati nella massima misura dalla figura dell’imprenditore nuovo e innovatore45. to centrale nella celebre disputa sulla «filosofia della manifattura», cfr. P. Schiera (a cura di), Manifattura, società borghese, ideologia. Una famosa polemica sul rapporto struttura-sovrastruttura, Roma, Savelli, 1978. 44 Si veda M. Ricciardi, Lavoro, cittadinanza, costituzione. Dottrina della società e diritti fondamentali in Germania tra movimento sociale e rivoluzione, in R. Gherardi, G. Gozzi (a cura di), Saperi della borghesia e storia dei concetti fra Otto e Novecento, Bologna, il Mulino, 1995, pp. 119-159. 45 J.A. Schumpeter, L’imprenditore e la storia dell’impresa (1927-1949), Torino, Bollati Boringhieri, 1993 e Id., Theorie der wirtschaftlichen Entwicklung, Leipzig, 2. storia e sistema: il capitalismo 73 Tuttavia, come risultato del processo di razionalizzazione, si annuncia una «decomposizione» dello stile di vita che ha finora dato l’impronta al capitalismo: il pieno dispiegamento dell’immagine borghese del mondo produce con il suo razionalismo e il suo utilitarismo le condizioni di irriproducibilità del sistema. La separazione del capitalista dall’imprenditore non trova più alcuno spazio di ricomposizione, portando alla frantumazione della socialità borghese, all’estensione alla sfera privata di procedimenti razionali pensati per quella sociale: tutti questi elementi rendono plausibile la possibilità che il sistema raggiunga il limite oltre al quale non è più in grado di espandersi, trapassando in un socialismo che altro non sembra essere se non la forma più adeguata a quella che Weber aveva definito burocratizzazione46. 2. La scienza del tempo Dopo la seconda guerra mondiale il concetto di capitalismo si trova dunque ad avere rifiutato la centralità costitutiva del rapporto sociale; ma, allo stesso tempo, tutti i termini della spiegazione alternativa sembrano condurre alla dissoluzione di tutti quegli assetti categoriali che avrebbero dovuto indicare un diverso percorso di identificazione della realtà. La spiegazione “idealistica” univoca, che fa del capitalismo l’incarnazione di una certa mentalità, non è che la porta d’uscita presa, per mancanza di altre possibilità, da Werner Sombart e da Max Weber per sfuggire al pensiero di Marx. Per parte nostra non ci sentiamo tenuti a seguirli, pur non credendo per questo che tutto sia materiale o sociale o rapporto sociale nel capitalismo47. Duncker & Humbolt, 1912; trad. it. Teoria dello sviluppo economico, Firenze, Sansoni, 19772, pp. 67-103. 46 J.A. Schumpeter, Capitalism, Socialism, and Democracy, New York, Harper & Brothers, 1942; trad. it. Capitalismo socialismo democrazia, Milano, Etas Kompass, 1973, in part. pp. 117-158. 47 F. Braudel, Les jeux de l’échange, Paris, Armand Colin, 1979; trad. it. I giochi dello scambio, Torino, Einaudi, 1981, p. 404. 74 la società come ordine Con questa doppia presa di distanza Fernand Braudel, che pure mostra una profondissima sensibilità per lo svolgersi dei tempi, rovescia l’intenzione delle narrazioni classiche e la diversa disposizione di fronte al tempo storico ha effetto sulla sua stessa definizione del capitalismo. Braudel distingue tre settori che non concernono solamente le attività economiche, ma più estesamente le attività sociali e la posizione occupata dalle istituzioni politiche. Il primo settore è «il piano terreno della non-economia, una sorta di humus in cui il mercato affonda le radici, ma senza afferrarla nella sua massa»48; si tratta del vastissimo settore della cosiddetta vita quotidiana o materiale che non designa prioritariamente le esperienze proprie del modo di esistere di chi è tradizionalmente escluso dalle narrazioni storiche, quanto piuttosto una continuità sociale inarrestabile, nella quale l’eventuale innovazione non ha il carattere traumatico che dissolve l’assetto sociale presente e affermato. Che questa civiltà materiale, differente dalla civiltà economica e dal capitalismo, sia considerata una costante strutturale, sembra essere comprovato dal fatto che Braudel fa riferimento a essa anche a proposito delle forme di «economia fuori mercato», come il «lavoro nero […] più le numerose forme di lavoro domestico e di bricolage» proliferate, a suo dire, a partire dalla «regressione avviata dalla crisi degli anni 1973-74»49. Il secondo settore è conseguentemente quello dell’economia o della vita economica, zona questa dello scambio, della contiguità o congruità spaziale e temporale delle persone e delle merci, del mercato che instaura automatismi e simmetrie che permettono l’identificazione del rapporto commerciale con una socialità, per così dire, dolce50. «Finalmente, accanto o meglio al di sopra di questa falda, la zona del contromercato è il regno dell’arrangiarsi e del diritto del più 48 Ibid., p. 217. 49 F. Braudel, Les structures du quotidien. Le possible et l’impossible, Paris, Armand Colin, 1979; trad. it. Le strutture del quotidiano, Torino, Einaudi, 1981, pp. XXI e XXVII. 50 Braudel, I giochi dello scambio, cit., p. 457: «l’economia […] è il mondo della trasparenza e della regolarità, dove ciascuno può sapere anticipatamente, istruito dall’esperienza comune, in che modo si svolgeranno i processi dello scambio». 2. storia e sistema: il capitalismo 75 forte. Qui si colloca per eccellenza il campo del capitalismo; ieri come oggi, prima come dopo la rivoluzione industriale»51.Queste tre realtà contemporanee vivono all’interno di temporalità diverse che, nonostante i comuni e reciproci confini, hanno tuttavia una loro definizione autonoma. L’individuazione delle loro differenze è allo stesso tempo il frutto evidente della precisa scelta storiografica di organizzare il materiale storico a partire dalla centralità riconosciuta alla «lunga durata», cioè a una storia che eccede sia la vita e l’azione degli individui, sia il verificarsi e gli effetti immediati delle congiunture economiche. In questo modo la temporalità dominante è quella del piano più basso corrispondente a una «storia quasi immobile», nella quale lo scorrere del tempo è impercettibile se non indifferente. Su di essa si staglia «una storia lentamente ritmata» che è già sociale, riguardando i gruppi di uomini. «La terza parte, infine, è quella della storia tradizionale, se si vuole della storia secondo la dimensione non dell’uomo, ma dell’individuo, la storia “événementielle” […]: un’agitazione di superficie, le onde che le maree sollevano sul loro potente movimento»52. La contrapposizione tra il concetto di uomo, evidentemente inteso come struttura metastorica, e quello di individuo, in quanto specifica emergenza moderna, è il segno della concezione che connette la tripartizione dei tempi della storia con quella degli oggetti della storiografia e infine con quella che stabilisce il campo d’azione del capitalismo. Infatti l’azione come evento di superficie finisce per essere adeguata a una temporalità priva di diacronia, essendo immediatamente l’oggetto della storiografia politica. Il capitalismo occupa esattamente questo spazio “événementielle”, rimanendo estraneo a qualsiasi considerazione 51 Ibid., p. 217. Su Braudel cfr. M. Moretti (a cura di), Braudel il mondo come storia. Una rilettura critica del metodo braudeliano, Milano, Bruno Mondadori, 1988; Cheng-Chung Lai, Braudel’s Historiography Reconsidered, Lanham, University Press of America, 2004. 52 F. Braudel, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II, Paris, Armand Colin, 1949; trad. it. Civiltà e imperi nel Mediterraneo nell’età di Filippo II, 2 voll., Torino, Einaudi, 1976, vol. I, p. XXXI. 76 la società come ordine in termini di razionalità e di conseguente espansione del razionalismo. Se i richiami al contrattualismo politico, allo spirito del capitalista, alla burocratizzazione in quanto elementi essenziali del capitalismo rimandavano a strategie di riduzione della contingenza, per Braudel al contrario esso è un fenomeno definito proprio dal suo essere contingente rispetto ad altri piani che, avendo come misura fondamentale la durata, mostrano una regolarità pressoché assoluta. Quest’ultima spetta perciò all’economia di mercato, mentre il capitalismo è caratterizzato piuttosto dalla sua «esteriorità» rispetto alle strutture continue, dal momento che «il gioco, la speculazione è l’elemento essenziale» del suo sviluppo53, così come è dimostrato dalle grandi imprese per le quali non esistono più le «leggi del mercato». Nonostante nel discorso braudeliano le congiunture vengano di fatto ridotte a quelle economiche, perché solo di queste si può affermare e misurare una qualche ciclicità, quindi una regolarità anche nella crisi, il terreno dell’economia non è sufficiente a garantire la legittimità della lunga durata. Si deve quindi risalire ad altri piani dell’analisi storica e della continuità. In primo luogo alla società, oppure ancora più in profondità, alla cultura o alla civiltà; e allo Stato. La società è dunque «l’insieme degli insiemi». Le sue stratificazioni interne sono definibili a partire dalla loro durata. Quindi anche il concetto di società viene alla fine definito dalle strutture storiche che in essa si manifestano. «Queste strutture storiche sono visibili, individuabili, in qualche modo misurabili: la loro durata è misura»54. Qui, in un sociale che non tollera interruzioni o addirittura cesure, precipita la definizione di tutti gli assetti; anche di quelli che il discorso sociologico vedeva trasformati in modo autonomo dal capitalismo. Riprendendolo da Georges Gurvitch, con il quale intrattiene un ininterrotto dialogo e che è una delle figure di spicco nel corpo a corpo da lui ingaggiato con le scienze sociali, Braudel imprime al concetto di «società globale» una torsione tale da negare ogni specifica determina53 Braudel, 54 Ibid., I giochi dello scambio, cit., p. 583. p. 471. 2. storia e sistema: il capitalismo 77 zione del sociale, in primo luogo dei suoi tempi55. Viene così negato che questo sociale possa rompere la propria unitarietà, che sia soggetto a «catastrofi» tali da impedirne la considerazione in termini di durata, al punto da suggerire che esse non devono essere interpretate come eccezioni, ma come occorrenze cicliche che confermano la durata nel suo complesso. In questo senso esiste per Braudel una distanza pressoché incolmabile tra la storia e una scienza sociale che privilegi la discontinuità e le cesure, trascurando una concezione della storia come «incessante scorrimento delle realtà sociali, la storia scienza del tempo, voglio dire del tempo che scorre sotto i nostri occhi come del tempo in movimento di ieri»56. Per Gurvitch la «società globale» è soprattutto un criterio tipologico costituito a partire dalla sovranità raggiunta da gruppi specifici – e, in modo subordinato, dal tipo di sovranità giuridica ed economica – che si impone per un periodo e in uno spazio determinati, di modo che non ne esista un’unica manifestazione, ma piuttosto espressioni diverse che, di volta in volta, raggiungono il predominio globale, essendo poi sempre esposte al decadimento o all’annientamento57. Per Braudel, al contrario, la «società globale», essendo l’oggetto reale della ricerca storica nel suo complesso, non tollera quella fragilità: essa «non può essere altro che una somma di realtà viventi, legate o no le une alle altre. Non un contenente, ma dei contenenti. E dei contenitori»58. 55 «Il tempo sociale è puramente e semplicemente una dimensione particolare della realtà sociale che io contemplo» (F. Braudel, Histoire et sciences sociales. La longue durée, in «Annales E.S.C.», 1958, pp. 725-753; trad. it. Storia e scienze sociali. La «lunga durata», in Id., Scritti sulla storia, Milano, Mondadori, 1976, pp. 57-92, p. 87). Cfr. anche O. Harris, Braudel: Historical Time and the Horror of Discontinuity, in «History Workshop Journal», 57, 2004, pp. 161-174. 56 F. Braudel, Georges Gurvitch ou la discontinuité du social, in «Annales E.S.C.», 1953, pp. 347-361, p. 359. 57 Cfr. G. Gurvitch, La vocation actuelle de la sociologie. Vers une sociologie différentielle, Paris, Puf, 1950 e Id., Déterminismes sociaux et liberté humaine (1955), Paris, Puf, 19632, pp. 214-219. Ma cfr. anche ibid., pp. 288 sgg. sulle società globali che determinano le diverse fasi del capitalismo; in particolare a p. 296 le indicazioni sulla nuova maitrîse du temps da parte della borghesia nell’epoca del capitalismo nascente. 58 Braudel, I giochi dello scambio, cit., p. 469. 78 la società come ordine Essa rappresenta la contemporaneità delle forme associative che testimoniano l’eccedenza del capitalismo rispetto al mercato, dal momento che né le società commerciali né le grandi compagnie monopolistiche della prima età moderna possono essere considerate le reali forme genetiche della società in quanto tale. Mentre nelle prime infatti si manifestano «i grandi giochi capitalistici», le seconde sono determinate sia dalla presenza dello Stato, che ne garantisce e sfrutta il monopolio, sia dal mondo commerciale nel quale agiscono, sia infine da quel commercio a grande distanza che, secondo Braudel, è uno dei tratti caratterizzanti del capitalismo in quanto tale59. Non esistono dunque forme associative tipicamente capitalistiche in grado di dare l’impronta a una società, che trova altrove il suo fondamento unitario: non nel suo presente storico, ma nel suo essere come tutte le società, in ogni tempo, un insieme di gerarchie fondate sulla diseguaglianza «della ricchezza e del potere. Ogni osservazione rivela questa diseguaglianza intima e profonda che è la legge continua della società»60. Il riferimento alle gerarchie sostituisce di fatto quello ai ceti, alle classi e, conseguentemente, alla lotta di classe, così che ai primi viene contestata una specifica dimensione “moderna”, mentre, ancora in polemica con Gurvitch, viene pure negato che alla lotta di classe possa essere riconosciuta una forma peculiare quale tipica emergenza dell’età del capitale. Anche le gerarchie hanno un’esistenza che attraversa non solo la società, ma addirittura la civiltà, essendo presenti in ogni stadio della lunga durata, ma – e questo è l’aspetto più rilevante – il loro agire è, per così dire, “irrazionale” innanzitutto nei confronti dell’ambito dell’economia, dal momento che 59 Ibid., pp. 435-456. Diversamente M. Weber, Zur Geschichte der Handelsgesellschaften im Mittelalter (1889), in Id., Gesammelte Aufsätze zur Sozial- und Wirtschaftsgeschichte, Tübingen, Mohr, 19882, pp. 312-443, p. 430, proprio nella società commerciale aveva individuato l’antesignana della società: «La rappresentazione della società [Sozietät] come una persona composta da diversi nomina mostra che la personificazione della ditta fu il mezzo per la costruzione dell’esistenza autonoma della società [Gesellschaft]». 60 Braudel, I giochi dello scambio, cit., p. 476. 2. storia e sistema: il capitalismo 79 esse «falsano lo scambio a proprio vantaggio, rovesciano l’ordine stabilito»61. In questo modo la gerarchia diventa un luogo originario dello stesso capitalismo, creando quelle «anomalie» dello scambio che danno luogo al contromercato, inteso come spazio dominato da forme di agire sconosciute o comunque non trasparenti, che pretendono un attore in qualche modo “aristocratico”. In questa direzione si muove anche la critica braudeliana della nota tesi di Pirenne sulla sostituzione dei soggetti mercantili in coincidenza con le fasi di squilibrio e di riassestamento dello sviluppo capitalistico62. Al contrario, per Braudel, la non linearità contingente dello sviluppo deve essere in primo luogo inquadrata in un percorso di ripetizioni, che fa delle eccezioni capitalistiche l’ordine della società. Sul piano della società, infatti, esse mostrano di essere contingenti nei confronti dell’economia e delle sue relazioni, fondando la propria legittimità sull’infinita durata delle sue strutture più profonde che, proprio per questo, non sono contingenti. «Il capitalismo, in tutte le società in cui trionfa è una scalata al potere ed il potere acquisito esige, comporta una riduzione della società ad un ordine, ad una disciplina, ad uno sfruttamento che la successione monotona dei giorni renderà normale»63. In secondo luogo, essendo il capitalismo affidato, come detto, a un principio gerarchico, esso può trovare continuità solamente nella ripetuta conferma personale e famigliare dei componenti della gerarchia di comando. 61 Braudel, Le strutture del quotidiano, cit., p. XX. Pirenne, Stages in the Social History of Capitalism (1914), poi in R. Bendix, S.M. Lipset (eds), Class, Status and Power. A Reader in Social Stratification, Glencoe, Ill., Free Press, 1953, pp. 501-517; trad. it. Le fasi della storia sociale del capitalismo, in R. Bendix, S.M. Lipset (a cura di), Classe, potere, status. Teoria sulla struttura di classe, Venezia, Marsilio, 1974, pp. 129-147, sul quale cfr. Braudel, I giochi dello scambio, cit., pp. 488-491. 63 F. Braudel, A propos des origines sociales du capitalisme, in Les Écrits de Fernand Braudel II: Les ambitions de l’histoire, a cura di R. de Ayala e P. Braudel, Paris, Éditions de Fallois, 1997, pp. 359-371; trad. it. A proposito delle origini sociali del capitalismo, in Id., I tempi della storia: economie, società, civiltà, Bari, Dedalo, 1986, pp. 121-136, pp. 128-129. Cfr. anche M.C. Howard, Fernand Braudel on Capitalism: A Theoretical Analysis, in «Historical Reflections/Reflexions historiques», 12, 1985, pp. 469-483. 62 H. 80 la società come ordine 3. Uno Stato senza comunità Dal punto di vista politico il capitalismo è dunque una forma fenomenica del più vasto sistema di potere che affonda le proprie radici nella società, nella cultura e nella civiltà e per il quale lo Stato esiste «per salvaguardare la diseguaglianza»64. L’attività statale moderna si è manifestata soprattutto nella riqualificazione del territorio, nel suo adeguamento dal punto di vista delle dimensioni e delle forme istituzionali, nel controllo della società, intervenendo nella sua vita economica, per sottrarre una parte di ricchezza per i suoi bisogni di natura amministrativa e militare. Lo Stato viene perciò inteso come controllo dell’ordine in prima istanza, demandato a sostituire la violenza sociale con quella legittima, come scrive, riprendendo la formulazione weberiana, lo stesso Braudel, sebbene per lui questa legittimità sia fondata sulla necessità quasi «biologica» di ogni società, in ogni tempo, di avere uno Stato. A questo stesso Stato viene comunque negata la possibilità di esercitare un qualche significativo dominio sul presente, al punto che, facendo riferimento alla crisi degli anni 1973-74 – un evento, come si è già visto, di importanza evidentemente non trascurabile per lo sviluppo della sistematizzazione braudeliana – Braudel critica in modo veemente la dottrina di Keynes e la conseguente pretesa che lo Stato possa appropriarsi delle «crisi brevi», prendendo così troppo sul serio il proprio ruolo assistenziale65. La netta separazione tra la socialità del mercato e la guerra di tutti contro tutti del capitalismo finisce tuttavia per fare mancare un fondamento riconoscibile per la legittimità della violenza che lo Stato dovrebbe applicare, dal momento che essa non è riconducibile al ruolo svolto da un agente specifico all’interno di un processo complessivo di costituzione contraddistinto dalla razionalizzazione e dal disciplinamento, inteso come movimento 64 Braudel, I giochi dello scambio, cit., p. 502. Braudel, Le temps du monde, Paris, Armand Colin, 1979; trad. it. I tempi del mondo, Torino, Einaudi, 1982, p. 63. 65 F. 2. storia e sistema: il capitalismo 81 bifronte di sottomissione e di socializzazione. Questa sembra essere la differenza specifica tra il modello braudeliano e quello weberiano che pure, distinguendo l’economia domestica da quella di mercato e da quella capitalistica, adotta una tripartizione per certi versi richiamata da quella di Braudel. Per Weber il mercato rappresenta una soglia di continuo passaggio da un agire di tipo comunitario a uno di tipo societario. Ciò che unisce i contraenti è il fatto che tutti orientano il proprio agire non solamente in funzione della diretta controparte, ma in funzione di tutti coloro che sono «potenzialmente interessati allo scambio». Allo stesso tempo, tuttavia, la tensione comunitaria che in questo modo si crea non è legata alle persone, ma è giustificata prioritariamente dall’interesse per l’oggetto da scambiare. Peculiare del mercato è dunque la centralità del bene e non dell’altro. E, proprio per questo, «dove il mercato è abbandonato alla sua autonormatività esso conosce soltanto una dignità della cosa e non della persona, non doveri di fratellanza e di pietà, non relazioni umane originarie di cui le comunità personali sono portatrici»66. Essendo mossa da interessi, la precaria comunità dello scambio mercantile finisce perciò per rappresentare, nelle parole di Max Weber, «un insieme e una successione di associazioni razionali [Mit- und Nacheinander rationaler Vergesellschaftungen]», dissolvendosi così continuamente sul terreno della società e seguendo il destino di altre strutture comunitarie, come quella rappresentata dal popolo, presenti attraverso la società67. Proprio per il suo essere una zona di confine la comunità di mercato comprende una serie di aspettative e di comportamenti che vanno dall’esclusione di qualsiasi etica – per cui «la questione si riduce a vedere chi debba essere ingannato» –, alla specifica etica di mercato che Weber vede incarnata nella massima di origine puritana honesty is the best policy, infine alla norma che impone di orientarsi unicamente al calcolo razionale di capitale. 66 Weber, Economia e società, cit., vol. II, p. 314. M. Ricciardi, Linee storiche sul concetto di popolo, in «Annali dell’istituto storico italo-germanico in Trento», XVI, 1990, pp. 303-369. 67 Cfr. 82 la società come ordine E quest’ultimo è in definitiva l’elemento fondante di quella razionalità della società e dello Stato moderni che alla scienza della società impone l’individualismo metodologico e a quella economica l’«imputazione della prestazione complessiva di un’impresa ai suoi singoli “fattori” e misure». Nel calcolo razionale di capitale si compendiano per Weber i due moventi originari della comprensione del capitalismo propria delle scienze sociali. Essa funziona come discrimine verso tutto ciò che non rientra nel concetto di capitalismo orientato alla libertà di mercato, quindi alla sua specificità di emergenza storica presente propria dell’Occidente. Nel senso di questa costellazione storica l’economia domestica e l’organizzazione istituzionale a essa corrispondente non possono essere considerate razionali, così come è estraneo al capitale qualsiasi calcolo “naturale”, che cioè non riconosca la centralità della moneta. Grazie alla localizzazione storica viene anche rintracciato il fondamento riconoscibile della legittimità su cui dovrebbe poggiare l’azione statale. «Il calcolo di capitale rigorosamente condotto è infatti legato socialmente alla “disciplina di impresa” e all’appropriazione dei mezzi materiali di produzione, vale a dire alla presenza di un rapporto di potere»68. Si giunge così alla radice del discorso weberiano, perché attraverso le distinzioni concettuali emerge una serie di omologie che mostra con chiarezza i punti di connessione tra mercato, capitalismo e Stato. Anche la comunità di mercato consiste infatti in un processo di appropriazione, in quel «processo di “chiusura” delle possibilità sociali o economiche anche all’interno, e cioè nei riguardi dei consociati»69, che è il correlato economico e pacifico del processo di monopolizzazione operato dallo Stato sul terreno della forza. Nell’epoca di quello che Weber chiama «uno specifico ordinamento economico di tipo moderno», la monopolizzazione 68 Weber, Economia e società, cit., vol. I, p. 104. Cfr. anche J. Beckert, Die Abenteuer der Kalkulation. Zur sozialen Einbettung ökonomischer Rationalität, in «Leviathan», 35, 2007, pp. 295-309. 69 Weber, Economia e società, cit., vol. II, p. 37. Cfr. anche R. Marra, Capitalismo e anticapitalismo in Max Weber, Bologna, il Mulino, 2002. 2. storia e sistema: il capitalismo 83 della forza è allo stesso tempo la costituzione di una pluralità di centri statali di decisione sulla razionalità giuridica e conseguentemente burocratica, ognuno dei quali viene investito dal carattere universale della burocratizzazione che è «il mezzo specifico per trasformare un “agire di comunità” in un “agire di società” ordinato razionalmente»70. In questo modo, tuttavia, in quanto struttura fondamentale dello Stato occidentale moderno, essa tenderebbe a occupare nella maniera più completa e organizzata uno spazio omologo a quello del mercato e, proprio per questo, come si è già visto, finirebbe per produrre un sapere conflittuale rispetto a quello dell’imprenditore. Il problema storico del rapporto tra circolazione mercantile e nascita del capitalismo71, ovvero in altri termini il rapporto che si instaura tra il mercato e l’imprenditore capitalistico, dimostra così di non concernere solamente la genealogia di uno spazio complessivo determinato e delimitato all’interno del quale il capitalismo è stato possibile, ma di presentarsi come percorso di costante ridefinizione tecnologica e geografica di quello stesso spazio72 e delle trasformazioni della sua forma politica. Fondamentale è per Weber l’esistenza di una pluralità dei centri decisionali statali, dal momento che, muovendo dalla centralità quasi antropologica assegnata al concetto di lotta nel processo di costituzione e di affermazione della borghesia occidentale, lo Stato nazionale rimane per lui l’istituzione più favorevole alla sussistenza del capitalismo, che sarebbe perciò inconciliabile con 70 Weber, Economia e società, cit., vol. IV, p. 83. Dobb, Studies in the Development of Capitalism, New York, International Publishers, 1947; trad. it. Problemi di storia del capitalismo, Roma, Editori Riuniti, 19692; G. Bolaffi (a cura di), La transizione dal feudalesimo al capitalismo, Roma, Savelli, 19774. E. Meiksins Wood, The Origin of Capitalism. A Longer View, London, Verso, 20022. 72 M. Storper, R. Walker, The Capitalist Imperative. Territory, Technology, and Industrial Grown, Oxford, Blackwell, 1989, e S. Sassen, Territory, Authority, Rights. From Medieval to Global Assemblages, Princeton-Oxford, Princeton University Press, 2006; trad. it. Territorio, autorità, diritti. Assemblaggi dal Medioevo all’età globale, Milano, Bruno Mondadori, 2008. 71 M. 84 la società come ordine l’esistenza di un impero mondiale73. La lotta per l’appropriazione del capitale mobile è il baricentro inamovibile che, stabilendo la forma costante del processo acquisitivo, fa di quello moderno un capitalismo originale rispetto alle forme politiche che già si sono variamente presentate in altri momenti storici. Moderno è dunque quel capitalismo che non serve a finanziare e sostenere la forma politica, finendo poi inevitabilmente per divenirne una funzione, né quello che orienta la propria attività acquisitiva esclusivamente al commercio e alla speculazione monetaria, dal momento che lo scambio – anche quello monetario – preesiste al capitalismo stesso e sfugge alla sua determinazione come specifico rapporto di potere. La forma tipica è quindi quella del capitalismo industriale74, dove da un lato lo smercio di massa stabilisce il vincolo che rende possibile il rapporto, mentre dall’altro il fondamento monopolistico dell’appropriazione si dimostra ben più importante delle forme di organizzazione del processo lavorativo, come risulta esemplarmente dalla definizione weberiana della fabbrica75. Moderno è dunque quel capitalismo che si presenta come ordine della società, o meglio come ordine che si afferma nel ripetuto passaggio dall’agire in comunità a quello in società. D’altra parte, oltre che nello Stato e nel costante processo di produzione della società, la «struttura burocratica procede di pari passo con la concentrazione dei mezzi oggettivi d’impresa nelle mani del detentore del potere. Così avviene in modo tipico nello sviluppo delle grandi imprese capitalistiche private, che trovano in questo la loro caratteristica essenziale»76. Nonostante lo stesso 73 M. Weber, Wirtschaftsgeschichte: Abriss der universalen Sozial- und Wirtschaftsgeschichte, München, Leipzig, Duncker & Humblot, 1923; trad. it. Storia economica. Linee di una storia universale dell’economia e della società, Roma, Donzelli, 1993, p. 294. 74 Weber, Economia e società, cit., vol. IV, p. 201. 75 Weber, Storia economica, cit., p. 265: «Il tratto caratteristico veramente decisivo della fabbrica moderna non è però, in generale, né lo strumento usato né il tipo di processo lavorativo, bensì l’appropriazione nelle stesse mani – quelle dell’imprenditore – di officina, strumenti, fonti di energia e materie prime». 76 Weber, Economia e società, cit., vol. IV, p. 81. 2. storia e sistema: il capitalismo 85 capitalismo sia stato una delle cause scatenanti del generale processo di burocratizzazione77, paradossalmente l’impresa capitalistica vede crescere al proprio interno forme di sapere contraddittorie rispetto a quelle dell’imprenditore. Tuttavia, essendo quest’ultimo il soggetto del processo di appropriazione che ha luogo proprio attraverso l’impresa, quella contraddizione non può che concernere determinate strategie dell’imprenditorialità che non s’incarnano necessariamente in una figura individuale e che non sono riconducibili esclusivamente a uno scontro tra saperi. Sulla stessa linea di questa opposizione sembra piuttosto collocarsi il rapporto conflittuale che, nonostante il loro condividere una storia comune segnata dalla tendenza al livellamento sociale, finiscono per sviluppare burocrazia e processo democratico. È infatti quest’ultimo a opporsi necessariamente alla prima nel momento in cui essa impone una monopolizzazione del sapere amministrativo, nella forma di una sempre maggiore riduzione della pubblicità, quindi di un’ulteriore privatizzazione del lavoro dell’amministrazione78. Di fronte a questi processi contraddittori comunque definiti dalla loro universalità, ritorna come problema l’affermazione weberiana della già richiamata necessità capitalistica dello «Stato commerciale chiuso», così come lo stesso Weber, riprendendo la nota formula fichtiana, riassume il tipo ideale del moderno Stato del capitalismo. Questa medesima domanda emerse d’altra parte subito dopo il primo conflitto mondiale, inizialmente presentato come una guerra esistenziale tra comunità armate, ma da subito dimostratosi un cruciale momento di accelerazione imposta agli assetti tecnici e sociali del capitalismo in grado di dislocare radicalmente quella parvenza di comunità79. In quell’epoca proprio la globalizzazione delle condizioni capitalistiche di produzione sembrò verificare la sovrapposizione, la definitiva presa di 77 Ibid., vol. I, pp. 218-219. vol. IV, pp. 90-91 e 98. 79 E. Lederer, Zur Soziologie des Weltkrieges (1915), ora in Id., Kapitalismus, Klassenstruktur und Probleme der Demokratie in Deutschland 1910-1940, Göttingen, Vandehoeck & Ruprecht, 1979, pp. 119-144. 78 Ibid., 86 la società come ordine possesso dello Stato da parte della società. Questa eccedenza societaria rispetto alla politica statale mette a rischio quello che Ernst Troeltsch ha individuato come orizzonte generale del liberalismo, cioè la possibilità di riferirsi ai percorsi di autonomia intellettuale e di liberazione etica come elementi di una «comunità sistematica», che è esattamente la posizione assegnata al mercato e agli scambi mercantili. Soffermarsi sugli anni Venti – considerati dallo stesso Braudel come la vera svolta del secolo – consente di rintracciare alcuni parziali elementi di un discorso che, consapevole della dimensione globale raggiunta dagli scambi capitalistici, indaga la nuova dimensione del rapporto tra forma politica e capitalismo. La saturazione dello spazio aperto dalla distinzione tra società e Stato, per cui per la prima volta riferirsi al “sociale” rimanda al complesso della politica statale e dei percorsi di messa in società, è avvenuta «sul terreno della libera concorrenza, e proprio dalla libera concorrenza»80 e, per questa stessa ragione, può essere posta alla base della nuova nozione di imperialismo. Come nota Otto Hintze si tratta del superamento di una soglia che non ha più a che fare con la ricostruzione di imperi d’oltremare, ma piuttosto con la riqualificazione dell’ordinamento interno dello Stato e quindi delle relazioni internazionali. Al punto di incontro tra questi due assi i diversi Stati sviluppano nuovi moduli organizzativi che, già in quel periodo, tendono a superare non solamente la forma dello Stato nazionale, ma anche quella dello Stato federale, per aggregarsi in federazioni di Stati che meglio permettono di gestire la nuova fase della politica di potenza anche sul piano della competizione intercapitalistica81. Ma è dal punto di vista dell’ordinamento interno che lo «Stato del mercato mondiale» 80 V.I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo. Saggio popolare (1917), in Id., Opere complete, Roma, Editori Riuniti, 1966, vol. XXIII, pp. 188-303, p. 298. 81 O. Hintze, Wirtschaft und Politik in Zeitalter des moderne Kapitalismus, in «Zeitschrift für die gesamte Staatswissenschaft», 87, 1929, pp. 1-28; trad. it. Economia e politica nell’età del capitalismo moderno, in Id., Stato e società, Bologna, Zanichelli, 1980, pp. 202-220, pp. 218-220. 2. storia e sistema: il capitalismo 87 [Weltmarktstaat] è costretto non solamente a fare i conti con la presenza di quegli «enti economici e di potenza» che agiscono come «Stati nello Stato», ma anche con forme di conflitto esterno che riprendono «sempre di più da un certo punto di vista il carattere di lotte di classe»82. Di fronte a questa situazione, per molti versi anticipatrice della cosiddetta attuale globalizzazione, le strategie miranti a stabilire regole per le già avvenute regolazioni del capitale, riprendendo tratti di quel formalismo pensato da Weber come «linea di minore resistenza» di fronte alla materialità della lotta in atto, suscitano i dubbi che attraversavano anche l’avventuroso capitano di Hermann Melville. «Ora in cuor suo Achab aveva qualche sospetto di questo, e cioè: tutti i miei mezzi sono sani, il mio movente e il mio fine sono pazzi». 82 Brinkmann, Die moderne Staatsordnung und der Kapitalismus, cit., p. 67. Capitolo terzo Società e amministrazione 1. Scienza dell’amministrazione e società È vero: «insieme a Karl Marx, è stato Lorenz von Stein a individuare l’insorgere del problema del politico nei conflitti sociali che nascono spontaneamente dalla società liberatasi dallo Stato»1. Anche se la dottrina steiniana non è stata immediatamente funzionale alla ristrutturazione subita dal liberalismo tedesco nella seconda metà dell’Ottocento2, essa individua un nesso che possiamo definire strutturale tra scontro di classe all’interno della società, trasformazione degli assetti proprietari e amministrazione dello Stato. La costituzione di questo nesso modifica in maniera radicale il modo stesso di pensare la normazione dei rapporti societari, al punto che Stein può affermare che la stessa costituzione positiva non è più fatta derivare da un’idea di diritto, ma viene ormai quasi unanimemente considerata come 1 P. Schiera, L’amministrazione pubblica in Europa tra costituzionalismo e solidarietà, in «Scienza & Politica», 38, 2008, pp. 5-13, p. 7, del quale va però visto il contributo complessivo di prossima pubblicazione in A. von Bogdandy, S. Cassese, P.M. Huber (Hrsg.), Gemeineuropäische Geschichte und Strukturen der Verwaltungsrechtswissenschaft in Ius Publicum Europaeum 3: Verwaltungsrecht in Europa: Grundlagen und Wissenschaft, Heidelberg, Müller, 2010. 2 Cfr. M. Cioli, Pragmatismus und Ideologie. Organisationsformen des deutschen Liberalismus zur Zeit der Zweiten Reichsgründung (1878-1884), Berlin, Duncker & Humblot, 2003, e F. Trocini, L’invenzione della «Realpolitik» e la scoperta della «legge del potere». August Ludwig von Rochau tra radicalismo e nazional-liberalismo, Bologna, il Mulino, 2009. 90 la società come ordine dipendente dalla distribuzione della proprietà all’interno dello Stato. La sua storia sarebbe così la storia di un ordine materiale, determinato dal rapporto tra capitale e lavoro, di fronte al quale l’impianto formale che caratterizza le costituzioni moderne passa quasi in secondo piano. «Il possesso e il suo ordinamento sono il fondamento di ogni ordine della società». Ciò è possibile perché nella società moderna il possesso non è mai fine a se stesso, ma esiste solo grazie alla e in funzione della vita societaria nel suo complesso. I possessori possono vantare una condizione particolare ed esclusiva, nella misura in cui sono parte attiva della società in quanto “proprietari”. «E così [il possesso] non diviene solo l’ordine esistente attraverso il diritto in esso contenuto, bensì esso produce l’ordine attraverso se stesso»3. In questo modo l’ordine della società diviene la base per qualsiasi ordinamento che dai suoi rapporti interni viene stabilito grazie all’attività amministrativa dello Stato. La connessione strategica di ordinamento e ordine dimostrano che per Stein lo Stato, al di là delle sue apparenze, è qualcosa che non si esaurisce nella sua costituzione positiva. Allo stesso modo anche ciò che lo Stato deve fare, la sua azione concreta, non è comprensibile a partire da un concetto di amministrazione troppo ristretto o troppo dispersivo. Da un lato dunque la «costituzione autentica» esprime come volontà generale la vita complessiva dello Stato essendo essa stessa un’unità: sancendo la partecipazione di ogni singolo alla vita dello Stato, essa definisce il passaggio dalla volontà di tutti alla volontà generale. Dall’altro questa volontà generale non può esprimere nella propria unità esclusivamente una pluralità preesistente, poiché essa trova in continuazione di fronte a sé la molteplicità di tutti i singoli e delle loro organizzazioni4. 3 L. von Stein, System der Staatswissenschaft, II Die Gesellschaftslehre, Stuttgart, Cotta, 1856, p. 208. 4 L. von Stein, Handbuch der Verwaltungslehre. Erster Theil. Der Begriff der Verwaltung und das System der positiven Staatswissenschaften, Stuttgart, Cotta, 18873, p. 5: «L’idea della volontà generale ora non era più meramente il dominio numerico e giuridico dello Stato su ogni parte e la sua particolarità, bensì soprattutto la comprensione di ciò che è il generale in tutte le singole parti». 3. società e amministrazione 91 Il valore di una costituzione è determinabile per Stein solo a partire dal valore che essa ha per l’amministrazione; solo l’amministrazione, vero e proprio principio di concretezza di ogni costituzione, sembra consentire la reale e continuativa identificazione della volontà di tutti con la volontà generale. Ciò significa che ogni dubbio sull’azione dell’amministrazione è destinato a divenire, «gradatamente ma irresistibilmente», un dubbio «sull’ordinamento della costituzione che essa determina». Lo stesso individuo trova la propria legittimità all’attività prevista dalla costituzione solo attraverso «la conoscenza dell’amministrazione nei suoi principi e nella sua efficacia materiale»5. Rivolgersi agli antefatti della Dottrina dell’amministrazione significa quindi ricercare il significato storico e politico dell’implicazione reciproca di amministrazione e costituzione stabilita da Stein. Ciò che sembra avere maggior importanza è che esse non paiono muoversi su piani differenti né dal punto di vista concettuale, né da quello pratico. L’amministrazione in definitiva sembra essere il luogo dove l’ordine materiale continuamente si manifesta nella costituzione, impedendo tanto una concezione formalistica della costituzione, quanto una nozione esclusivamente tecnica dell’amministrazione6. Più precisamente si tratta di ricostruire il senso che assumono i due poli del discorso steiniano: da un lato il lavoro dell’amministrazione come valorizzazione dell’attività di quella che egli stesso chiama la libera personalità, dall’altro il peso che esercita sulla forma politica l’assetto che amministrazione e costituzione finiscono per comporre. Questa doppia, continua presenza si coniuga d’altronde perfettamente con l’istanza dominante dell’intera opera di Lorenz von Stein: quella che pretende di connettere il reticolo complessivo di interpretazioni e proposte di soluzione per le contraddizioni fondamentali della società capitalistica con gli eventi che ne accompagnano la genesi e l’evoluzione. La compresenza di evento e teoria assume il suo significato più pregnante laddove il primo sembra 5 Ibid., 6 Ibid., p. 6. p. 9. 92 la società come ordine essere la negazione di ogni possibile teorizzazione che lo inquadri come elemento non assolutamente contingente. D’altra parte Stein non esita a riconoscere il valore di «effettualità» a quegli «astratti principi fondamentali» che stanno trasformando dalle fondamenta la realtà della società e dello Stato; solo la loro giusta comprensione permette a suo parere di districarsi dal groviglio delle casualità. Nel 1848, dopo aver curato la ristampa della seconda edizione del suo studio sul socialismo e il comunismo in Francia, Lorenz von Stein pubblica una raccolta di verbali redatti in occasione delle assemblee che avevano accompagnato la rivoluzione parigina di quell’anno. A questa raccolta egli premette una lunga introduzione, intitolata Briefe über Frankreich e scritta nella tarda estate di quello stesso anno, che assume un particolare interesse proprio per il suo essere stata pensata sotto la spinta di avvenimenti che oramai anche in Germania non potevano più essere visti come prospettiva di un futuro più o meno prossimo, più o meno possibile. La rivoluzione deve essere comunque interpretata. Solo all’osservatore non accorto, a colui che si affida al linguaggio comune per spiegare e comunicare gli avvenimenti storici, la rivoluzione appare come caos inspiegabile, azione incontrollata del caso. In questo, che sembra essere l’«inizio della fine», sembrano crollare quegli stessi capisaldi dell’ordine del mondo che Stein richiama non senza slancio retorico. «Di che aiuto ti sono ora l’intelletto e la scienza, il coraggio e la prudenza, il diritto, la forza e le origini? Il caso domina»7. Anche di fronte a tanta rovina è comunque data una possibilità di spiegazione storica che annulla l’ipotesi estrema che il dominio del caso sia una verità possibile. Questa eventualità è anzi negata per l’intera storia contemporanea che evidentemente possiede, secondo Stein, una trama tanto ordinata da annullare la possibilità stessa del trionfo del contingente8. 7 L. von Stein, Die socialistischen und communistischen Bewegungen seit der dritten französischen Revolution. Anhang zu S.s Socialismus und Communismus des heutigen Frankreichs, Leipzig-Wien, Wigand, 1848, p. 3 (D’ora in poi citato come Anhang). 8 Stein sostiene di aver preso la penna per affermare «che nella storia contemporanea il caso domina in Francia tanto poco quanto in qualsiasi altra parte d’Europa». 3. società e amministrazione 93 Sembra evidente che l’accidentalità non è più per Stein quella «assoluta inquietudine del divenire» che ancora in Hegel faceva parte a pieno titolo del movimento di dispiegamento della realtà, essendo l’unità di reale e possibile. La necessità di una gestione sistematica del contingente prepara qui le condizioni di possibilità e di esercizio dell’amministrazione. Se, come ha sostenuto Niklas Luhmann, con il concetto stesso di amministrazione si deve necessariamente intendere il prendere decisioni vincolanti secondo piani e programmi, allora la negazione dell’accidentale sono la presa di posizione per un’assoluta spiegabilità della storia è la premessa necessaria a quel «decidere sulle decisioni» che è la pianificazione politica e amministrativa9. L’amministrazione diviene così la conseguenza ultima di tutta la costruzione steiniana, determinata dalla centralità di un concetto di legge storica che domina completamente anche la scienza della società10. Il 1848 rappresenta una soglia di trasformazione che obbliga Stein a fare i conti con le reali caratteristiche di quella rivoluzione sociale che egli aveva, come è noto, prognosticato pochi anni prima. Nel 1842 Stein si era chiesto che cosa potesse essere una rivoluzione sociale, ora che quella politica sembrava aver compiuto il suo ciclo. Dal momento che la rivoluzione politica aveva oramai completamente distrutto le strutture politico-sociali dell’organizzazione cetuale, si poteva ancora una volta ripetere «la rivoluzione è finita»11. Il frutto di quella rivoluzione era stato E aggiunge: «Sarebbe davvero male per ogni vera storia se una così sconfortata frase divenisse una verità in qualche luogo» (ibid., p. 4). 9 N. Luhmann, Politische Planung, in «Jahrbuch für Sozialwissenschaft», 17, 1966, pp. 271-296; trad. it. La pianificazione politica, in Id., Stato di diritto e sistema sociale, Napoli, Guida, 1978, pp. 132-171. 10 «Il singolo, il suo volere e il suo fare, viene inquadrato nella necessaria conformità alla legge dell’accadere storico. La sua iniziativa, con la quale egli vuole dare forma alla storia, è più quella della sua classe che la sua propria» (H. Nitzschke, Die Geschichtsphilosophie Lorenz von Steins. Ein ������������������������������������������� Beitrag zur Geistesgeschichte des neunzehnten Jahrhunderts, München-Berlin, Oldenbourg Wissenschaftsverlag GmbH, 1932, p. 64). 11 L. von Stein, Der Socialismus und Communismus des heutigen Frankreich. Ein Beitrag zur Zeitgeschichte, Leipzig, Wigand, 1842, p. 23. Sull’importanza dell’esperienza della rivoluzione per la teoria di Stein cfr. F. Gilbert, Lorenz von Stein und 94 la società come ordine la generale accessibilità ai beni che venivano prodotti; la domanda sulla rivoluzione sociale doveva essere quindi riformulata come domanda sulle condizioni a cui poteva darsi quella possibilità generale di fruizione; essa suonava: «che cos’è la società, e come si rapporta allo Stato»12? La scienza della società che doveva rispondere a questo interrogativo – e della quale veniva indicato immediatamente il complesso oggetto – aveva i caratteri di una sociologia che rivolgeva la propria attenzione tanto agli aspetti economici della distribuzione della proprietà quanto alla stratificazione nuova e residuale che decideva della configurazione della società. Il compito della nuova scienza era la fondazione e lo sviluppo di quelle leggi che determinano in maniera non casuale la misura della distribuzione della proprietà. Il lavoro della critica aveva d’altronde già rivelato la contraddizione esistente tra concetti individuali, come quello fondamentale di proprietà personale, e concetti universali come quelli di civilizzazione o di progresso. Da questa contraddizione emerge che «la possibilità del raggiungimento dell’idea più alta di società umana trova la sua decisa negazione nelle condizioni di fatto date dalla casuale distribuzione delle proprietà materiali»13. La scienza della società deve quindi essere scienza sia di quelle leggi che meglio rappresentano la condizione della società, sia di quelle che consentono allo Stato di operare autonomamente per avvicinarla a quell’idea più elevata di società umana. «Questa scienza della società, che si può dire pratica, non è di fatto nient’altro che il governo dello Stato nel senso proprio del termine»14. die Revolution von 1848. Ein Beitrag zur Entwicklung Steins und zur Entstehung der deutschen Gesellschaftswissenschaft, in «Mitteilungen des österreichischen Instituts für Geschichtsforschung», 50, 1936, pp. 369-387. 12 Stein, Der Socialismus und Communismus, cit., p. IV. Sulla rivoluzione sociale cfr. anche L. von Stein, Geschichte der sozialen Bewegung in Frankreich von 1789 bis auf unsere Tage, I: Der Begriff der Gesellschaft und die soziale Geschichte der Französischen Revolution bis zum Jahre 1830 (1850), ristampa dell’edizione del 1921 curata da G. Salomon, Hildesheim, Georg Olms, 1959, pp. 125-131. 13 Stein, Der Socialismus und Communismus, cit., p. 25. 14 L. von Stein, Der Begriff der Arbeit und die Principien des Arbeitslohnes in ihrem Verhältnisse zum Socialismus und Communismus (1846), Neudruck hrsg. von 3. società e amministrazione 95 La scienza della società, risposta alla domanda sulla rivoluzione sociale ovvero su che cosa sia la società, finiva così per riconoscere lo Stato come proprio soggetto agente. Scienza della società e dottrina dell’amministrazione sono in questo modo implicate fin dall’inizio in uno stesso discorso. L’avverarsi della seconda rivoluzione porta tuttavia in primo piano la contemporaneità di politico e sociale; ed è proprio questa simultaneità che, trovata la sua espressione nel movimento repubblicano15, impone in qualche misura la riapertura del discorso steiniano, ora che non solo lo Stato è investito dal sommovimento, ma la storia stessa sembra essere travolta da una rivoluzione che viene paragonata a una tempesta notturna, nella quale è impossibile distinguere la direzione che gli avvenimenti stanno prendendo: «solo il mattino ci potrà dire in che mondo delle cose essa ci getterà»16. 2. Nel tramonto dei re Nel 1848, dopo due secoli, è giunta a conclusione la storia che aveva avuto inizio con la pace di Vestfalia; ciò significa la fine degli assetti di potere consolidatisi all’interno del sistema europeo degli Stati e, contemporaneamente, la fine degli equilibri territoriali fondati sulle monarchie nazionali. Con l’esaurirsi del predominio francese sui territori tedeschi, si aprono per la Germania nuove possibilità che permettono il manifestarsi di una nuova volontà unitaria che, evidentemente per la prima volta, può trasformarsi in realtà. Il rapporto con la Francia rimane tuttavia centrale. Se nuove configurazioni statuali si possono ora emancipare dalle E. Pankoke, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1974, pp. 63-120, p. 77. Sul concetto steiniano di società e le sue connessioni nell’Ottocento europeo cfr. S. Chignola, Fragile cristallo. Per la storia del concetto di società, Napoli, Editoriale scientifica, 2004. 15 Sebbene incentrato sulla storia di Lione piuttosto che su quella parigina, cfr. a questo proposito A. De Francesco, Il sogno della repubblica. Il mondo del lavoro dall’Ancien Régime al 1848, Milano, FrancoAngeli, 1983, e soprattutto J. Rancière, La nuit des prolétaires. Archives du rêve ouvrier, Paris, Fayard, 1981. 16 Stein, Anhang, cit. p. 3. 96 la società come ordine vecchie, proprio in queste ultime si sono già manifestati i due fattori dominanti della storia presente: «dapprima l’idea dell’autogoverno, poi il fatto della nascente industria»17. La loro eterogeneità si rivela essere immediatamente una contraddizione politica tra l’esigenza della prima di ottenere diritto e potere per la rappresentanza popolare e quella della seconda di vedere protetta l’impresa capitalistica individuale. La prima finisce così per essere motivo di movimento e di lotta, la seconda pretende una pace costante. La monarchia costituzionale ha finora permesso la composizione dei termini di questa contraddizione. Un terzo fattore, quel movimento sociale di cui Stein si apprestava a ricostruire la storia, si impone tuttavia come realtà definitiva squassando «la nave della vecchia storia». Il movimento sociale è determinato dal costituirsi di una mediazione pratica tra le idee di democrazia, repubblica, comunismo e socialismo e un agire che mostra ora la sua effettualità18. Proprio la rispondenza che quelle idee trovano nel proletariato consolida il legame strumentale, in funzione repressiva, tra la monarchia e la borghesia, che, a partire dal 1840, è per Stein una delle caratteristiche principali dell’epoca di Guizot e di cui egli vuole analizzare in via preliminare i risultati per comprendere quella che per la borghesia europea è stata la «catastrofe di febbraio». Su questa soglia è in primo luogo la monarchia a vedere profondamente trasformati gli stessi principi sui quali si regge. Secondo Stein la maggioranza che si raccoglie intorno a Guizot separa politicamente monarchia e popolo; il «muro dorato» che Guizot costruisce non ha però il significato di un allontanamento verso una posizione estranea alla realtà della lotta tra le classi: 17 Ibid., p. 5. primo ambito nel quale quella contraddizione diviene effettiva è quello dell’idea che lavora [der arbeitende Gedanke]. Il secondo ambito è quello dell’azione reale. Nel primo hanno origine le teorie sociali, nel secondo ciò che noi chiamiamo i movimenti sociali», così ancora L. von Stein, Die Volkswirtschaftslehre, Wien, Braumüller, 18782, p. 533. Cfr. anche O. Rammstedt, Soziale Bewegung, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1978, soprattutto pp. 69-84; e, E. Pankoke, Sociale Bewegung – Sociale Frage – Sociale Politik. Grundfragen der deutschen “Socialwissenschaft” im 19. Jahrhundert, Stuttgart, Ernst Klett Verlag, 1970. 18 «Il 3. società e amministrazione 97 la monarchia sembra piuttosto abbandonare quella posizione neutra tra maggioranza e opposizione che, secondo l’ottica steiniana, avrebbe dovuto caratterizzarla. Questo significa la commistione tra due storie che Stein ha sempre pensato come necessariamente distinte: la storia della società e quella dello Stato. È stata spesso messa in rilievo l’autonomia che Stein rivendica per la storia della società, che comporta inevitabilmente un’esistenza storica dello Stato differente, non estranea, ma complementare a quella della società. La distinzione non si caratterizzava in definitiva solo per i differenti attori che muovevano le due vicende, ma anche, e forse soprattutto, per la necessità che la costruzione generale evidenziava di liberare lo Stato dalle storie della società. Nel 1860, recensendo entusiasticamente il libro di Rudolf Gneist sul Selfgovernment inglese, Stein, partendo dalla constatazione che era divenuto quasi usuale «immaginarsi che il Selfgovernment significasse una partecipazione alla conduzione della storia dello Stato», riconoscerà come grande merito dell’opera di Gneist l’aver distrutto questa idea19. Anche dentro la crisi epocale che la investe20, il soggetto proprio della storia dello Stato rimane per Stein la monarchia. Essa è la struttura politica che dovrebbe mostrarsi in grado di garantire un efficace governo all’interno e contemporaneamente il ruolo internazionale della nazione. Fino al 1848 la legittimità di un principe era stata un affare delle famiglie reali europee nel loro insieme: un re era legittimo fino a quando veniva considerato parte del sistema europeo delle monarchie statali. Con la rivoluzione, Luigi Filippo è costretto a prendere atto che la legittimità si afferma nella sua nuova faccia di problema interno e nella sua nuova, indissolubile relazione con la legalità. 19 L. von Stein, Recensione a R. Gneist, Die heutige englische Communalverfassung und Communalverwaltung, oder das System des Selfgovernments in seiner heutigen Gestalt, in «Oësterreichische Vierteljahresschrift für Rechts- und Staatswissenschaft», 5, 1860, pp. 72-75. 20 Cfr. G. Guazzaloca (a cura di), Sovrani a metà. Monarchia e legittimazione in Europa tra Otto e Novecento, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009. 98 la società come ordine Egli non credeva che la maggioranza di Guizot sarebbe apparsa un giorno come illegale di fronte al paese; in suo nome egli tenne pronto l’esercito, attraverso il quale egli sperava di rendere la sempre più inevitabile lotta una lotta tutta particolare, conforme alla legge21. È nella nuova dislocazione di legittimità e legalità che la riforma sociale diviene il terreno di scontro principale sul quale si decidono le sorti della monarchia e si apre la strada della repubblica. Attraverso l’estensione del diritto a partecipare alla rappresentanza popolare, la riforma manifesta l’esistenza di un nuovo fondamento della legittimità e la lotta in corso per il suo riconoscimento. Stein, che celebra con enfasi l’intelligenza politica di Luigi Filippo, afferma che questi aveva capito che la Reformfrage avrebbe messo in discussione il suo stesso trono e che non si sarebbe più trattato di una questione costituzionale riguardante meramente il rapporto tra il monarca e i ceti. Nel momento in cui il monarca viene dichiarato responsabile, come lo potrebbe essere un presidente, ogni possibilità di sopravvivenza della monarchia viene a cadere. L’estrema proposta della monarchia sociale si configura come tentativo di sottrarre la legittimazione di stampo monarchico al destino che la legava alla società mercantile, di riproporla cioè come soluzione all’altezza del problema che ora 21 Stein, Anhang, cit., p. 8. Nonostante questa critica, la riflessione di Stein deve molto alla lezione di François Guizot. Basta vedere la descrizione che quest’ultimo dà dei borghesi, «della loro umiltà, dell’eccessiva modestia delle loro pretese intorno al governo del loro paese», del fatto che «nulla rivela in loro quello spirito veramente politico che aspira a influire, a riformare a governare; nulla attesta l’ardire dei pensieri, la grandezza dell’ambizione: sembra d’essere in presenza di saggi e onesti affrancati». Ancora più rilevante è però il peso riconosciuto da Guizot all’amministrazione, la quale consiste per lui «in un complesso di mezzi destinati a far giungere il più prontamente e il più sicuramente possibile la volontà del potere centrale in tutte le parti della società e a far risalire verso il potere centrale, alle stesse condizioni, le forze della società, sia in uomini che in denaro». E conclude: «nelle età in cui è soprattutto necessario stabilire l’unità e l’ordine della società, l’amministrazione è il grande mezzo per riuscirvi, per amalgamare, unire elementi incoerenti, sparsi» (cfr. F. Guizot, Cours d’histoire moderne. Histoire générale de la civilisation en Europe, depuis la chute de l’empire romain jusqu’à la révolution française, Paris, Pichon et Didier, 1828, trad. it. Storia della civiltà in Europa. Autorità e libertà nella civiltà europea, Milano, Il Saggiatore, 1973, rispettivamente pp. 271 e 422). Su Guizot cfr. soprattutto P. Rosanvallon, Le moment Guizot, Paris, Gallimard, 1985. 3. società e amministrazione 99 pone il rapporto tra capitale e lavoro, «il contenuto dell’intero movimento repubblicano»22. Con il febbraio s’impongono dunque i due nuovi principi, la riforma e la repubblica; essi sono strettamente intrecciati e Stein si assume il compito di definirli e qualificarli nel momento in cui, proprio a causa di questa coniugazione, si determina in tutta Europa il rifiuto di ogni prospettiva repubblicana da parte della borghesia. La repubblica è intanto la conseguenza del fallimento della monarchia, della sua incapacità di garantire un ordine stabile. Tuttavia essa rappresenta anche l’ormai ineluttabile riconoscimento politico della forza del proletariato da parte dei ceti borghesi. La repubblica è dunque accettazione della necessità della riforma, dal momento che nella rivoluzione del ’48 riforma significa la richiesta di trasformazione politica che il movimento sociale impone contro la monarchia e contro la borghesia. Poco contano per Stein le lotte delle fazioni, le opposizioni e i tradimenti che alla fine hanno condotto alla repubblica: quest’ultima si è dimostrata come l’unica soluzione possibile; la forza interiore delle cose [die innere Gewalt der Dinge]23 ha portato alla sua affermazione come risultante di un movimento storico che si impone come realtà e che non ammette alternative. Ora la repubblica è la nuova struttura assunta dallo Stato, ma essa rischia di soccombere a causa della compresenza di sociale e politico, alla quale, unica, riesce a dare espressione. «Già i primi giorni di marzo mostrarono che la repubblica è di fatto qualcosa di infinitamente diverso dalla monarchia; essa non è – cioè essa è solo – in teoria il popolo che domina se stesso; la repubblica è la società del popolo [die sich selbstbeherrenschende Gesellschaft des Volkes] che domina se stessa»24. L’irruzione del termine Gesellschaft indica con chiarezza la consapevolezza che, semmai è esistita, l’unità che il concetto 22 Stein, Anhang, cit., p. 18. Cfr. anche il già citato M. Ricciardi, Lavoro, cittadinanza, costituzione. 23 Stein, Anhang, cit., p. 11. 24 Ibid., p. 12. Sul rapporto tra i concetti di popolo e società in Germania nel XIX secolo cfr. il già citato M. Ricciardi, Linee storiche sul concetto di popolo. 100 la società come ordine romantico di Volk postulava si è ormai definitivamente spezzata; essa rimanda altresì alla necessità di un luogo mediano dove il movimento sociale e la borghesia possano ordinarsi e essere ordinati in modo da rendere possibile l’azione di governo. La società, sostituendosi all’indeterminatezza del popolo, inizia allora a specificarsi come spazio differente da quello del movimento sociale: essa diventa il luogo teorico e reale dove la borghesia si afferma come soggetto dominante contro il movimento sociale. I significati e le figure di riferimento dei termini sociale25 e società si divaricano quindi nel momento in cui la repubblica viene accettata come l’unica struttura che lo Stato può assumere nella nuova epoca. Caratteristiche della borghesia che Stein descrive sono la paura dell’anarchia e la fedeltà interessata al principio dell’ordine. Egli la rappresenta sottolineando la sua incapacità di decidere – «essa sa molto bene cosa non vuole, ma non sa quasi mai che cosa vuole», – il suo essere impotente di fronte alla necessità di creare qualcosa di nuovo a livello politico, poiché essa pone al centro della sua azione gli interessi particolari che la compongono, senza esprimere degli interessi generali, in quanto questi ultimi sono solo un mezzo per raggiungere quelli particolari. La stessa difesa della libertà individuale avviene solo in vista dell’affermazione del valore generale del possesso individuale. Essa riconosce facilmente i suoi nemici, difficilmente i suoi capi. Si lascia guidare malvolentieri, ed è per sua natura ingrata. Sopra ogni cosa essa è tuttavia una potenza negativa contro ogni potere che non si basi esclusivamente su di essa, perché teme che esso la domini, senza tenerla sufficientemente in considerazione26. Il porsi negativamente di fronte a ogni modificazione radicale dell’ordine politico, che risulta essere in definitiva il tratto tipico 25 Cfr. L.H. Geck, Über das Eindringen des Wortes sozial in die deutsche Sprache, Göttingen, Otto Schwartz & Co., 1963 e M. Ricciardi, L’enigma del sociale. Crisi e transizione nel liberalismo tedesco del Vormärz, in «Il pensiero politico», 33, 2000, pp. 212-241. 26 Stein, Anhang, cit., p. 13. 3. società e amministrazione 101 dell’agire politico della borghesia, è anche alla base del rapporto di scambio che essa instaura con l’esercito. «Borghesi ed esercito formano perciò un tutto»27, perché quest’ultimo appare come incarnazione del potere autonomo dello Stato al quale la borghesia trasmette parte della propria potenza pubblica per sapere garantiti l’ordine e la sicurezza degli affari privati. Questo rapporto privilegiato sarà determinante per il successo della dittatura su di una repubblica che la borghesia ora subisce, così come prima non aveva realmente appoggiato la monarchia. La nuova situazione politica è ora definita dalla presenza della nuova forma di organizzazione – la repubblica –, della forma di relazione che con essa si è affermata – la democrazia – e dall’azione che esse sviluppano tramite gli apparati statali – l’amministrazione. La contraddizione che Stein coglie è quella tra l’idea che determina la forma politica – la democrazia pura – e gli altri due termini. Nel momento in cui la democrazia diviene la forma di relazione dominante all’interno dello Stato repubblicano, esso pretende di negare l’interesse particolare con l’azione della sua amministrazione. E questo rimette in moto la borghesia28. La democrazia, ora che si sta coniugando con il principio sociale, è per Stein «una verità unilaterale» che pretende di rendere equivalenti uomo, personalità e cittadino. Dove la rivoluzione democratica, seguendo nella sostanza un criterio giuridico-politico, vuole rendere tutti gli uomini cittadini grazie alla costituzione, quella sociale vuole «rendere il cittadino uomo sociale attraverso l’amministrazione»29. Il principio della rivoluzione sociale «riassume in sé la teoria e il proletariato»30 e, facendo dell’affermazione della centralità del sociale un centro di potenza politica, si rivolge allo Stato trasformandone l’ambito di intervento e assegnandogli nuovi compiti. 27 Ibid., p. 34. ibid., p. 13: «Essa divenne attiva nuovamente con il suo potere puramente negativo solo quando l’amministrazione dello Stato mise in pericolo il principio dell’interesse particolare». 29 Ibid., p. 16. 30 Ibid. 28 Cfr. 102 la società come ordine La riaffermazione della posizione chiave del concetto di personalità, sulla quale si tornerà tra breve, ha in primo luogo la funzione di capovolgere il rapporto tra il supposto formalismo della costituzione e la cogente materialità dell’amministrazione. La formulazione dei prolegomeni di una dottrina dell’amministrazione, attraverso la critica dell’uso “rivoluzionario” dell’amministrazione medesima, contribuirà inoltre alla definizione e alla specificazione di un concetto di politica che sarà quello ampiamente dominante per tutto il periodo che giunge fino alla prima guerra mondiale31. Essa fornirà inoltre la base a una scienza politica che, superando i limiti dell’organicismo, si formalizzerà progressivamente in una scienza della costituzione, dell’amministrazione e dell’organizzazione della società e dello Stato32; particolarmente in Stein essa assume i caratteri di una scienza che punta ad anticipare i comportamenti del proprio oggetto – giustamente si è parlato a questo proposito di scienza della profilassi33 –, contribuendo tuttavia in qualche misura a costituirlo, ovvero a renderne comunicabile e agibile la forma. In conformità al suo fondamento la repubblica allora può e deve essere democratica: «solo l’amministrazione della stessa […] non è democratica, e non lo può essere, perché proprio la democrazia pura non è capace di amministrare [die reine Demokratie zur Verwaltung nicht fähig ist]»34. Ciò che viene negato non è la democrazia come forma di relazione politica, ma la sua possibile declinazione sociale, che significherebbe, come si vedrà, il riconoscimento dell’assoluta uguaglianza tra gli uomini invece che tra le personalità. Nemmeno la repubblica può quindi qualificarsi per il suo essere sociale 31 Basti a questo proposito il rimando, oltre ovviamente alla Verwaltungslehre dello stesso Stein, ad A. Schaeffle, Über den wissenschaftlichen Begriff der Politik, in «Zeitschrift für die gesamte Staatswissenschaft», 53, 1897, pp. 579-600. 32 P. Schiera, Amministrazione e costituzione: verso la nascita della scienza politica, in «Il pensiero politico», XV, 1982, pp. 74-91. 33 Cfr. M. Hahn, Bürgerlicher Optimismus im Niedergang. Studien zu Lorenz Stein und Hegel, München, Fink Verlag, 1969. 34 Stein, Anhang, cit., p. 15 (corsivo nell’originale). 3. società e amministrazione 103 dato che, secondo Stein, una monarchia o una dittatura avrebbero capacità anche maggiori di assolvere il compito redistributivo che l’amministrazione sociale vuole ora perseguire. Alla repubblica, sembra dire Stein, manca un’autolegittimazione che consenta all’azione dell’esecutivo di essere in contrapposizione a segmenti rilevanti della società: essa non può quindi essere sociale per il fatto che lo Stato repubblicano deve assumere una struttura fondamentalmente societaria. Il ceto borghese, dopo che non aveva potuto evitare la repubblica, voleva la vecchia amministrazione migliorata e depurata sotto la nuova costituzione; la corrente sociale voleva un’amministrazione completamente nuova; la democratica in relazione all’amministrazione non voleva assolutamente nulla, e tuttavia era proprio la democrazia che l’aveva nelle mani35. Dei partiti che escono dalla rivoluzione con un potere reale, quello democratico è per Stein il principale responsabile della situazione che si è venuta a creare; Lamartine è l’incarnazione di tutti i limiti della democrazia pura. Pur intenzionati a restituire alla borghesia il potere che l’azione proletaria, unita intorno all’iniziativa degli ateliers nationaux, aveva ottenuto, Lamartine e il governo provvisorio rimangono fedeli al principio, per Stein vuotamente formale, che nel governo devono essere rappresentate tutte le tendenze esistenti nella società. Il giudizio di Stein sull’opera del governo provvisorio corrisponde a quello che egli darà della costituzione del 1795, della quale scriverà che non si riusciva a capire quale ordine societario essa esprimesse e che «il suo carattere era quello di non rappresentare nulla, ma di ammettere tutto»36. Se tuttavia la costituzione dell’anno III aveva permesso il tentativo di un partito delle forme di provocare una nuova rivoluzione, cercando di reintrodurre il vecchio diritto attraverso i mezzi che la costituzione stessa concedeva, la situazione ora contrappone la «potenza materiale» del proletariato e quella della borghesia. La ricerca «della pace con tutto 35 Ibid., 36 Stein, p. 395. p. 16. Geschichte der sozialen Bewegung, I: Der Begriff der Gesellschaft, cit., 104 la società come ordine il mondo» da parte del governo provvisorio, la sua rinuncia alla presa di posizione e alla decisione che la rappresentanza implica, produce, come si vedrà, l’inclusione del partito sociale all’interno dell’ordine costituzionale e sancisce definitivamente la dimensione interna che la legittimità assume nello Stato repubblicano. La «soziale Richtung» riesce infatti «a presentarsi come un partito legittimo e autonomo all’interno del popolo e della sua rappresentanza»37. A Stein non interessa, né qui né altrove, la formulazione di una nuova variante della teoria sulle forme di governo. I suoi punti di partenza sono comunque la società, intesa come luogo dello scontro di classe, e lo Stato, inteso come personalità a cui è demandato il compito di trasformare la guerra civile potenziale in un conflitto regolabile dall’azione di governo38. «Una forma autonoma del potere dello Stato» ha quindi il compito di evitare quella sovranità del popolo che disconoscerebbe, come si è già visto, la centralità della società. La Selbstherrlichkeit dello Stato deve tuttavia disporre di un proprio organo anche per evitare la sovranità di quella società, che prima della formazione della Commission exècutive trovava la propria espressione nella Camera, dal momento che ciò significherebbe «fare della società lo Stato»39. Anche la dittatura che succederà alla repubblica – e così sarà secondo Stein per tutte quelle che verranno realizzate in futuro – altro non è che la riaffermazione dell’autonomia dello Stato nel momento in cui lo scontro all’interno della società giunge a negare il suo ruolo tipico. La dittatura dell’epoca dello scontro di classe risponde al bisogno di ordine che si manifesta 37 Stein, Anhang, cit., p. 19. anche G. Maluschke, Lorenz von Steins Staatsformenlehre, in R. Schnur, (Hrsg.) Staat und Gesellschaft. Studien über Lorenz von Stein, Berlin, Dunker & Humblot, 1978, pp. 223-243. Parlando della caduta della forma-Stato caratteristica delle società di ancien régime, Stein chiarisce d’altronde espressamente che: «La caduta del vecchio ordine delle cose non fu in alcun modo un mero cambiamento della forma di governo» (L. von Stein, Die socialen Bewegungen der Gegenwart (1848), ora in L. von Stein, Schriften zum Sozialismus 1848, 1852, 1854, hrsg. von E. Pankoke, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1974, p. 14). 39 Stein, Anhang, cit., pp. 26-27. 38 Cfr. 3. società e amministrazione 105 nella società; essa è di fatto il modo più rapido per ristabilire il controllo sull’amministrazione in cambio di una limitazione della libertà. Essa non è, e non sarà, il risultato di battaglie violente, ma della paura di fronte allo scontro. «Non è una dittatura di guerra, nemmeno una dittatura di pace, bensì una dittatura d’ordine»40. La dittatura rimane tuttavia l’estremo rimedio. L’apertura della Camera il 4 maggio rende evidente che questa non è solo il terreno di scontro tra i partiti dominanti, ma che essa non è nemmeno in grado di imporsi come luogo esclusivo di rappresentazione del conflitto, dal momento che non vi è soluzione di continuità tra la lotta per la Camera e la lotta nella Camera. Come si è già visto, e come la critica di Stein riecheggiando ampiamente quella dei contemporanei francesi più volte sottolinea41, già il governo provvisorio a impronta democratica aveva fatto naufragio sulla propria incapacità di decidere e questa condizione si estende al parlamento infine raggiunto. È d’altronde evidente che, fondando la produzione di decisioni sulla costruzione di maggioranze, la democrazia che non è in grado di formarle si dimostra impotente. La democrazia pura evidenzia inoltre quel limite che Stein denuncia recuperando in qualche modo un’antica critica hobbesiana alla democrazia in generale. Essa si muove infatti all’interno di una contraddizione fondamentale, dal momento che da un lato considera uguali tutte le personalità e tutti gli uomini e dall’altro subordina le possibilità di azione degli individui e delle minoranze al volere della maggioranza. Viene così aperta la strada alla rivendicazione di una completa e totale uguaglianza, ma allo stesso tempo il partito democratico condanna la rivoluzione, che è il mezzo attraverso il quale il partito sociale vuole attuarla. Poiché il partito democratico non riesce a dominare adeguatamente lo Stato in quanto strumento di mediazione e non decide quali 40 Ibid., p. 40. veda la citazione riportata dallo stesso Stein: «Ni le travail, ni le capital, ni la propriété ne sont satisfaits – le Gouvernement n’a pas sû, n’a pas voulu, n’a pas osé!» e il suo commento: «Nessuno era più capace di volere e osare nulla quanto proprio il principio puramente democratico» (ibid., p. 25). 41 Si 106 la società come ordine debbano essere le linee di azione dell’amministrazione repubblicana, lo scontro appare come scontro tra due diverse repubbliche contemporaneamente presenti. La soluzione che Stein propone alla democrazia per raggiungere la necessaria capacità di implementazione si basa sulla commistione del principio sociale e di quello democratico. Anche qui più che di una scelta di campo sulla base di ideali o principi si tratta del desiderio di essere in sintonia con quello che viene considerato il movimento della storia. Questo «stato delle cose assolutamente evidente»42 fa sì che il futuro appartenga alla democrazia, ma non a quella forma di governo che si fondava sull’uguale partecipazione alla formazione delle decisioni di tutti coloro che avevano il rango di cittadini, quanto piuttosto a una forma di relazione politica che sappia preporre l’interesse all’uguaglianza, rimanendo espressione di quel partito del movimento che è la manifestazione più adeguata e tipica della condizione sociale e politica moderna. Il riconoscimento della propria legittimità all’interno dello Stato ottenuto dal partito sociale rafforza la pretesa del proletariato di accrescere gli oneri a carico dei possessori, al fine di ridistribuire attraverso l’amministrazione il prodotto del lavoro sociale. Per questo il proletariato è oramai una «potenza materiale» che, avendo conquistato per il proprio partito un rapporto con l’apparato statale, può influenzare direttamente l’indirizzo che l’amministrazione seguirà. L’amministrazione assume così, con sempre maggiore evidenza, il carattere di luogo privilegiato di mediazione dei contrasti della società e di banco di verifica della tenuta della costituzione politica, proprio perché è attraverso l’amministrazione che passano gli attacchi a quelli che sono per Stein i capisaldi del nuovo ordine. L’amministrazione che pretende di agire secondo i criteri della democrazia pura si rivolge intanto contro l’affermazione della personalità, concetto che rappresenta una pietra angolare di tutta la costruzione steiniana, definendo il valore dell’individualità, la capacità cioè di autodeterminazione in quanto soggetto, sia per 42 Ibid., p. 26. 3. società e amministrazione 107 quanto riguarda il singolo sia per quanto concerne lo Stato. Stein aveva già rifiutato il concetto hegeliano di personalità che, ascrivendo a quest’ultima anche i diritti che lo Stato reale le negava, ne faceva il punto culminante di una filosofia della libertà assoluta43. Aveva anche rifiutato questo concetto puro di personalità in quanto sarebbe stato il fondamento di quelle teorie comuniste che avrebbero pensato gli individui come forme fenomeniche di una sostanza che rimaneva uguale in tutti. L’uguaglianza diveniva così quell’«idea fondamentale del proletariato» che pretendeva di svelare i motivi ultimi della «giustificazione della singola personalità»44. L’individuo prima di ogni suo rapporto mediato dalla comunità diventava la misura della partecipazione al tutto; la comunità finiva al contrario per essere considerata da quelle teorie solo «come irrefutabile condizione della loro forma di distribuzione dei beni»45. Si possono così identificare le coordinate all’interno delle quali Stein costruisce il suo sistema: da un lato la comunità sempre presente in opposizione a quella mai data e sempre da realizzarsi, dall’altro il rifiuto di quell’individualismo che non pone la proprietà personale come compimento non solo della personalità individuale, ma anche di tutte le istanze di libertà che attraversano la società. Per l’individualismo non proprietario i singoli finiscono, secondo Stein, per contare tutti ugualmente poco, ed esso si risolve così nell’uguaglianza dell’impersonalità. Come spesso accade nelle teorie liberali46, anche nella teorizzazione steiniana l’individuo rappresenta un problema spesso irrisolto: il singolo non può essere il centro di un discorso all’interno del quale egli è il luogo di una contraddizione insanabile. Solo ponendo al centro del ragionamento la comunità – ovvero 43 L. von Stein, Blicke auf den Socialismus und Communismus in Deutschland, und ihre Zukunft (1844), hrsg. von E. Pankoke, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1974, in part. pp. 34-38. 44 Stein, Der Begriff der Arbeit, cit., p. 69. 45 Ibid., p. 80. 46 Cfr. W. Fach, G. Procacci, `The Thin Man’: della vita e dell’amore nel liberalismo, in «Filosofia politica», 3, 1989, pp. 389-413. 108 la società come ordine la mediazione societaria e statuale che la pluralità degli uomini attua in continuazione tra il singolo e gli oggetti del suo desiderio acquisitivo – è possibile superare la contraddizione tra l’illimitato impulso appropriativo del singolo e la limitatezza delle capacità e possibilità temporali e materiali a sua disposizione. La comunità è l’unica soluzione praticabile per l’esistenza di un singolo che senza di essa sarebbe, come lo stesso Stein ribadisce, «un’insolubile contraddizione». Questa comunità «presente per la personalità, che comprende le personalità, concepita a partire dall’essenza della personalità, non può essere in questa sua esistenza autonoma di natura diversa da quella della personalità»47. Essa è unità che sussume la molteplicità, assurgendo così al rango di «forma autonoma della vita», valorizzando allo stesso tempo quelli che sono i principi costitutivi del nuovo sistema economico. 3. La costituzione societaria Bildung und Besitz, la cultura e il possesso48, i due principi pratici che nel discorso steiniano trasfigurano l’uomo in personalità, agiscono quindi contemporaneamente tanto sul piano della definizione generale e astratta dei soggetti legittimati a giocare un ruolo politico all’interno dello Stato, quanto sulla definizione dei loro diritti e del grado di libertà che questi sanciscono. Il concetto di personalità ha uno statuto chiaramente formale: esso aveva ormai trovato e troverà sempre più una sua utiliz47 Stein, Geschichte der sozialen Bewegung, I: Der Begriff der Gesellschaft, cit., pp. 13-15. Che questo sia un passaggio di capitale importanza nell’argomentazione steiniana sembra essere confermato dal fatto che nonostante Stein affermi: «Non c’è nessuna contraddizione assoluta», per ben due volte il singolo venga definito tale, come citato nel testo. 48 Stein, Anhang, cit., p. 14. Cfr. F. De Sanctis, Crisi e scienza. Lorenz Stein alle origini della scienza sociale, Napoli, Jovene, 1976. Sul concetto steiniano di personalità cfr. anche Id., Proprietà privata e società moderna: Hegel e Stein, ora in F. De Sanctis, Società moderna e democrazia, Padova, Cedam, 1986, pp. 82-148, soprattutto pp. 107 sgg. Cfr. inoltre S. Koslowski, Die Geburt des Sozialstaats aus dem Geist des deutschen Idealismus. Person und Gemeinschaft bei Lorenz von Stein, Weinheim, VCH: Acta Humaniora, 1989. 3. società e amministrazione 109 zazione e declinazione specifica soprattutto in ambito giuridico e filosofico-giuridico. La centralità che esso assume nel discorso steiniano implica un rovesciamento decisivo nell’ordine che sul piano della costruzione generale assegna la priorità al momento sostanziale – la Verfassung – su quello formale – la Konstitution. Il concetto di personalità, infatti, implica e fonda all’interno del discorso steiniano la risoluta subordinazione del concetto di individuo a quello di personalità e, allo stesso tempo, impedisce che la continua scomposizione che ha luogo nella società investa i suoi elementi ultimi individuali. La strutturazione che ne deriva, asimmetrica, ma ordinata dall’azione ricompositiva dello Stato, verrà puntualmente determinata e registrata da quel diritto della società [gesellschaftliches Recht] che è «conseguenza dell’amministrazione dominata dalla classe dominante» e «indice del dominio della singola classe sul potere statale»49. La personalità rappresenterà in definitiva il punto di equilibrio che l’individuo deve trovare nella lotta per il dominio sul naturale, lotta che egli intraprende una volta abbandonata quella prima natura che lo collocava all’interno di un ordine etico totalmente determinato dall’esclusività della relazione con il divino. Nel momento in cui, grazie alla libertà, quella lotta diverrà un contenuto della sfera personale, l’astratta idea di personalità potrà considerarsi compiuta. Si raggiungerà così la possibilità di costruire un concetto in cui «ogni vita reale abbia il suo punto mediano»; esso sarà fondato sulla coincidenza dello scopo e del valore della singola azione: il concetto di personalità dovrà rappresentare «per così dire il dominatore di colui che domina [der Herrscher des Herrschenden]»50. L’individuo a cui Stein pensa partecipa contemporaneamente a due ordini contrapposti e contraddittori, e proprio per questo non può divenire il fondamento della comunità. Egli è il palcoscenico dove la pulsione 49 Stein, Geschichte der sozialen Bewegung, I: Der Begriff der Gesellschaft, cit., p. 59. 50 L. von Stein, System der Staatswissenschaft, I: System der Statistik, der Populationistik und der Volkswirtschaftslehre, Stuttgart und Tübingen, Cotta, 1852, p. 14. 110 la società come ordine trascendente, di origine divina, verso un ordinamento superiore e quella in direzione di se stesso verso l’illibertà e il delitto, hanno ugualmente il loro luogo. Questa doppia natura individuale ha il proprio corrispettivo in una società dualisticamente concepita, che mostra e richiede la sovranità dello Stato, così come per l’individuo verrà con sempre maggior forza affermata l’indispensabile sovranità della personalità. Quest’ultima sarà così definibile «solo in relazione con gli altri e la loro comunità»; sarà non solo rivolta verso l’esterno, ma totalmente determinata a partire da esso. La fuoriuscita dall’ordinamento etico comunitario porterà all’annullamento della stessa personalità e giustificherà la funzione punitiva del diritto. Nel diritto verrà definitivamente sancita l’incommensurabilità tra individuo e comunità e verrà altresì fondata la possibilità di imporre il sacrificio ultimo della vita all’individuo, che nel delitto si è spogliato della propria personalità51. Per converso l’accettazione della Ordnung52 comunitaria immetterà immediatamente l’individuo nella società e darà origine 51 «Political Power then I take to be a Right of making Laws with Penalties of Death, and consequently all less Penalties, for the Regulating and Preserving of Property, and of employing the force of Community, in the Execution of such Laws, and in the defence of the Common-wealth from Foreign Injury, and all this only for the Publick Good». Così suona già la celebre definizione di J. Locke, Two Treatises of Government, ed. by P. Laslett, Cambridge, Cambridge U.P., 1988, Libro II, I, 3. A questo proposito è certamente interessante segnalare ciò che Stein scrive riguardo ai due trattati di Locke nel Vorlesungsmanuskript di Storia della filosofia del diritto del 1846: «Anche contro Filmer. Libertà e uguaglianza come fondamento. Il popolo deve [soll] perciò esercitare il proprio diritto attraverso un rappresentante [Stellvertreter] e il diritto di resistenza è evidentemente soffocato. Con l’istituzione della costituzione rappresentativa in Inghilterra la ricerca ha termine. Il pensiero si rivolge alla vita pratica. La scuola inglese ha chiuso il cerchio della sua vita. Risultato: Il diritto del popolo sta sopra il diritto del re; ma il re è il signore inviolabile dello Stato nel suo complesso [der unverletzliche Herr des ganzen Staats]» (cfr. H. Taschke, Lorenz von Steins nachgelassene staatsrechtliche und rechtsphilosophische Vorlesungsmanuskripte. Zugleich ein Beitrag zu seiner Biographie und zu seinem Persönlichkeitsbegriff, Heidelberg, Decker, 1985, p. 125). 52 «Un ordine in genere è quella condizione di una maggioranza, nella quale ogni individuo trova assegnate la propria posizione e la propria attività nella totalità, in modo che egli come singolo non debba più decidere su ciò che egli vuole essere o fare nella totalità» (Stein, Die Gesellschaftslehre, cit., p. 207). 3. società e amministrazione 111 alla «produzione di un’autonoma personalità societaria»53, mentre l’indagine degli interessi contrastanti tra le diverse personalità che la scienza della società dovrà ora affrontare lambirà il campo di ricerca della dottrina dello Stato, per il rilievo immediato che gli interessi stessi mostreranno sulla costituzione e l’amministrazione dello Stato. Il ruolo dell’amministrazione sembra essere così definibile solo mantenendo costantemente in primo piano il doppio carattere che la sua dottrina continuamente ripropone: da un lato scienza del governo, dall’altro scienza della società. Si tratta cioè di rendere evidente che l’amministrazione è nel contempo luogo di dominio pratico della contraddizione societaria e luogo di coordinamento sostanziale delle personalità e delle istanze collettive – associazioni e istituzioni – che caratterizzano l’intreccio tra Stato e società. L’individuo dovrà quindi essere una personalità, e il riconoscimento per il quale egli lotterà gli varrà una posizione [Stellung] e una valutazione [Wertung]. La prima sarà immediatamente in relazione con la sussistenza e la persistenza della società e sarà riconosciuta in termini di onore, giuridicamente sancito e protetto. Esso sarà prerogativa di quelle funzioni fondamentali che rendono manifesta la «differenza fra i capi e la massa»: contrassegnerà in definitiva le funzioni fondamentali del comando sulla società. Dal momento che nelle funzioni «dei capi, dunque dei preti, dei capi militari, dei giudici», proprio per il loro contenuto etico e spirituale, la personalità singola trova nell’ottica steiniana la sua realizzazione più alta, tali funzioni agiscono come sovradeterminazione comunitaria sulla società54. Secondo il modello improntato dal principio monarchico, che sembra essere il prototipo in cui in Germania l’idea di una distinzione tra Stato e società trova la propria fonte di ispirazione più prossima: il dominio sugli uomini viene qui neutralizzato separandolo dal potere sulla società. Sarà infatti la valutazione della personalità a essere misurata in termini di potenza, ovvero sulla base della 53 Ibid., 54 Ibid., p. 112. pp. 113-117. 112 la società come ordine «totalità di quegli effetti, che il singolo esercita, attraverso i beni in suo possesso, sulla volontà dell’altro». Necessariamente la categoria più rilevante della potenza sarà il dominio [Herrschaft] che esprimerà l’autentica «potenza sulla volontà dei singoli»55. Proprietà e personalità torneranno dunque come concetti complementari e concorrenti essenziali per la legittimazione, a partire dal conflitto degli interessi, della supremazia legale di alcune personalità sulle altre. Tra il dominio della classe dei possidenti e «l’essenza della personalità» non vi sarà per Stein alcuna contraddizione, dato che il possesso rappresenta per il possidente «il raggiungimento della sua determinazione personale, […] nient’altro che la realizzazione di ciò che ogni uomo si prefigge come fine»56. Il ricorso al concetto di personalità sarà la risposta al problema dell’uguaglianza che la rivoluzione aveva sollevato, com’era già implicito nella posizione di Stein subito dopo la rivoluzione del 1848. «Gli uomini non sono uguali. Solo una cosa è comune a tutti – l’essenza della personalità. La vera uguaglianza consiste nel fatto, che ogni personalità giunga alla libera, piena individualità»57. La condizione di questo sviluppo è la libertà di lavorare per raggiungere il rango di proprietario. Il lavoro dell’amministrazione dovrà essere quindi indirizzato non tanto alla conservazione delle posizioni date, quanto al mantenimento della possibilità che ogni singolo raggiunga quella piena personalità coincidente con la condizione di individuo proprietario e di cittadino a pieno diritto. Questa impostazione, probabilmente ancor più dell’effettiva politica del movimento operaio, giocherà un ruolo fondamentale nella riduzione, dominante per tutto l’Ottocento e oltre, della questione sociale a problema relativo esclusivamente alla richiesta di una giusta distribuzione. D’altro canto, il fatto che nel 55 Ibid., pp. 117-118. 56 Stein, Geschichte der sozialen Bewegung, I: Der Begriff der Gesellschaft, cit., pp. 69-70. Cfr. anche Id., System der Staatswissenschaft, I: Der Begriff der Gesellschaft, cit., pp. 127-134. 57 Stein, Anhang, cit., p. 35. 3. società e amministrazione 113 corso del secolo si passi dall’indagine storica e politica del movimento sociale – come ancora faceva a ridosso del 1848 Stein, proprio perché non poteva considerare le espressioni teoricopratiche di quello «come parte dell’autentica scienza» – alla definizione sempre più stringente di una questione sociale, rimanda al tentativo di coniugare le risposte che erano state indicate per quel primo problema con quelle che aveva preteso e pretendeva l’assai meno dibattuta «questione societaria» [gesellschaftliche Frage], che Stein tuttavia considerava essere «la questione fondamentale dell’intera vita del mondo civilizzato»58. Riassumere le due espressioni in un unico sintagma, che d’altro canto significa l’affermarsi di una risposta complessiva alle sfide che lo sviluppo capitalistico e la rivoluzione avevano fatto emergere, fu reso possibile e accompagnato dalla generale ridefinizione del rapporto tra il nuovo assetto capitalistico della società e la scienza in generale – e all’interno di questa, come si è già accennato, delle scienze sociali in particolare – scienza che si assume il compito di stabilire i percorsi che la politica statuale e societaria dovrà d’ora in poi seguire59. La scienza della società si differenzia dall’economia politica perché, mettendo in primo piano l’elemento personalistico contenuto nella proprietà, mira a integrare un paradigma basato esclusivamente sull’analisi della produzione e del consumo. A partire dalla personalità proprietaria essa ricostruisce l’intera rete di rapporti che si determina se si considera il possesso come «il reale, concreto compimento dell’idea di personalità»; il concetto stesso di società viene così costruito a partire dalla centralità della misura della distribuzione in quanto essa condiziona «un rapporto differente di questo singolo con tutti i rimanenti, un differente sviluppo del singolo per sé una differente posizione, forma della vita di tutti reciprocamente»60. La centralità assoluta 58 Id., Die socialen Bewegungen der Gegenwart, cit., p. 15. soprattutto P. Schiera, Il laboratorio borghese. Scienza e politica nella Germania dell’Ottocento, Bologna, il Mulino, 1987. 60 Stein, Der Begriff der Arbeit, cit., p. 75. 59 Cfr. 114 la società come ordine e scientificamente sostenuta della proprietà privata individuale e l’identificazione dell’individuo proprietario con il miglior cittadino eliminano ogni riferimento, che non sia minoritario e marginale, alla possibilità di qualsiasi, diverso modello di appropriazione61. L’identificazione di personalità e cittadinanza, operata dalla democrazia pura e che trovava la propria espressione nella rivendicazione del suffragio universale, manifesta al contrario tutta la sua indifferenza per quelle categorie societarie sulle quali Stein fonda il proprio concetto di personalità. La critica steiniana alla democrazia pura è quindi critica dell’uguaglianza assoluta che essa proclama, così come della sostanzialità che essa riconosce al diritto di cittadinanza. Una volta abolito il diritto di voto basato sul censo che costituiva una «parete divisoria che separava nel diritto di cittadinanza le due classi l’una dall’altra»62, e con esso quella forma di rappresentazione dello Stato che la monarchia costituzionale garantiva, rimane irrisolto nella nuova forma il problema di superare quella «assenza di monarca [Königslosigkeit]» che sembra dominare nella repubblica. Non troppo casualmente, per Stein, la vicenda storica della repubblica si conclude con una dittatura presidenziale, quella di Cavaignac, che è ancora una volta il prodotto della «forza interiore delle cose» e perciò il punto di approdo necessario, di fronte alla minaccia di dissolvimento della stessa forma-Stato, avvertita dalla borghesia dopo la nuova insurrezione del giugno 1848 e durante il dibattito costituente centrato sulla richiesta di riconoscimento del diritto al lavoro da parte del partito sociale63. Ma, accanto al desiderio d’ordine, che come si è visto contraddistingue la moderna dittatura, Stein indica come sua caratteri- 61 Cfr. P. Grossi, “Un altro modo di possedere”. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Milano, Giuffrè, 1977. 62 Stein, Anhang, cit., p. 33. Non è d’altronde casuale che la reintroduzione del diritto di voto censitario sia stata in Germania uno dei primi passi della reazione dopo il 1848. 63 E. Antonetti, Parigi 1848. Le giornate di giugno e la fine della “repubblica democratica e sociale”. Una lettura degli atti, in «Il Pensiero Politico», 40, 2007, pp. 520-541. 3. società e amministrazione 115 stica anche il fatto che in essa tutto si basa «sulla singola, casuale personalità». È quindi comprensibile l’insoddisfazione che Stein mostra di fronte alla dittatura, nonostante essa gli appaia come «la produzione dell’autonomia dell’idea di Stato nella lotta della società»64. Sarà solo tutto il lavoro successivo intorno al concetto di società e agli ambiti necessari dell’amministrazione che, fondando l’autorità dello Stato sociale di diritto, s’incaricherà di superare questa possibile, ennesima emergenza del caso che nella realtà mira a sovradeterminare politicamente il carattere disordinato dei rapporti sociali. Come sarà poi ancora più chiaro con l’avvento di Napoleone III, l’estrema contingenza rappresentata dalla singola personalità viene ragionevolmente accettata per impedire che il movimento sociale si protragga dentro alla società, essendo la manifestazione dell’inaspettato, dell’accidentale, dell’imprevisto che mette in scacco la possibilità stessa del calcolo amministrativo65. 64 Stein, Anhang, cit., p. 40. I. Shapiro, S. Bedi (eds), Political Contingency. Studying the Unexpected, the Accidental and the Unforeseen, New York-London, New York U.P., 2007. 65 Cfr. Capitolo quarto La sociologia dell’individuo 1. Modernità sociologica Il diritto amministrativo è la forma generale con cui in Europa si risponde alla lotta sulle istituzioni pubbliche. Se per Lorenz von Stein il compito della scienza dell’amministrazione è trasformare il cittadino dello Stato in uomo societario, il diritto amministrativo si assume il compito di intervenire nella società per mediare puntualmente le sue tensioni1. Rimane tuttavia come problema ineliminabile la questione della costituzione dell’individuo della società, una volta che si evidenzia il limite politico di quelle dottrine che affermano l’individuo e l’individualità come presupposti della società stessa2. La storia della sociologia classica tedesca è un lungo tentativo di risposta a questo problema. Essa è pienamente comprensibile solo tenendo presente una costellazione di concetti, come razionalizzazione, società, comunità, e appunto individuo, che ne hanno stabilito il carattere innovativo sia nei confronti della più classica e tradizionale scienza tedesca dello Stato, sia, in maniera ancor più rilevante, rispetto al discorso politico moderno. Se da una parte la sociologia classica tedesca si assume il compito di ricostruire storicamente l’evoluzione del razionalismo occidentale, nella sua doppia incarnazione di 1 Cfr. L. Mannori, B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 455 sgg. 2 Cfr. E. Santoro, Autonomia individuale, libertà e diritti: una critica dell’antropologia liberale, Pisa, ETS, 1999. 118 la società come ordine sistema economico capitalistico e di apparato statale amministrativo e rappresentativo, dall’altra essa è anche indagine di una crisi, assume cioè come sua problematica centrale la condotta o lo stile di vita del singolo, i limiti e le possibilità del suo agire, e il modo in cui i rapporti associativi stabiliscono le condizioni di costituzione dell’individuo stesso3. Come è stato giustamente scritto, proprio il «veemente restare fedele all’individuo, come direzione problematica centrale e fondata della disciplina, contrassegna forse il “ruolo particolare della sociologia tedesca”»4 nel periodo anteriore alla prima guerra mondiale. Proprio perché i processi di integrazione e di differenziazione che contraddistinguono la modernità, intesa appunto come affermazione del razionalismo, del capitalismo, dello Stato, sembrano aver prodotto e continuare a produrre gli effetti più controversi proprio nell’individuo, quest’ultimo diviene l’osservatorio privilegiato da cui viene ripensata l’età moderna nel suo complesso. Nonostante le innegabili differenze di impostazione, questa intenzione è ciò che accomuna nella teoria e nella pratica sociologica Ferdinand Tönnies, Georg Simmel, Werner Sombart e Max Weber, i rappresentanti più eminenti della sociologia classica tedesca. Tale attenzione verso l’individuo è inaugurata da Gemeinschaft und Gesellschaft, l’opera con la quale, nel 1887, Tönnies inizia la propria carriera intellettuale e, allo stesso tempo, apre in Germania il discorso sociologico nel suo complesso. Con la sua antitesi essa è, come ha scritto Niklas Luhmann, la prima 3 Ciò è espresso nel modo più chiaro da G. Simmel, Einleitung in die Moralwissenschaft. Eine Kritik der ethischen Grundbegriffe (1893-94), Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1989, vol. II, p. 119: «Di conseguenza la socializzazione [Vergesellschaftung] è in un doppio senso la forma degli individui: in primo luogo la società stessa è una forma della quale gli individui formano il materiale, ma che consiste solo di questo materiale; poi l’individuo, considerato in sé e per sé, ottiene le proprie qualità, la sua forma essenziale, attraverso le relazioni sociali». 4 H.J. Dahme, Der Verlust des Fortschrittsglaubens und die Verwissenschaftlichung der Soziologie. Ein Vergleich von Georg Simmel, Ferdinand Tönnies und Max Weber, in O. Rammstedt (Hrsg.), Simmel und die frühen Soziologen. Nähe und Distanz zu Durkheim, Tönnies und Max Weber, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1988, pp. 222-274, p. 259. Ma cfr. anche S. Breuer, Von Tönnies zu Weber. Zur Frage einer ‘deutscher Linie’ der Soziologie, in «Berliner Journal der Soziologie», 6, 1996, pp. 227-245. 4. la sociologia dell’individuo 119 opera sociologica a proporre una distinzione plausibile e utilizzabile tra ordine e organizzazione, intendendo entrambi come fenomeni sociali. Se l’organizzazione non è più immediatamente l’espressione dell’ordine della società, ma dipende da mediazioni costanti che devono riferirsi alla società stessa, si creano «complessi di aspettative orientate al “sociale” e alla “solidarietà”, che hanno buone chance di esprimere l’insufficienza della semplice organizzazione e di diventare concetti che esprimono desiderata, concetti di opposizione»5. La sociologia si colloca – e storicamente sorge – nello scarto tra l’ordine della società e la sua necessaria organizzazione. Proprio la definitiva consapevolezza che non è più possibile attribuire al singolo uno status ascritto, sebbene la società come ordine produca delle posizioni che gli individui possono modificare con difficoltà o solo casualmente, è un altro dei motivi che impone di ripensare l’individualità e i suoi possibili movimenti. Per Tönnies il singolo si dispone all’interno dei differenti rapporti associativi stabilendo la loro impronta, di modo che «non esiste individualismo nella storia e nella cultura tranne quello che procede dalla comunità e ne rimane condizionato, o quello che produce la società e la sostiene»6. Nella comunità, quindi, il singolo si afferma faticosamente, in contrasto con l’assetto complessivo delle relazioni e delle norme vigenti; mentre nella società la presenza di un modello determinato di individualità e, di conseguenza, di una pluralità di individui allo stesso tempo uguali e indipendenti, viene considerata come il presupposto a 5 N. Luhmann, Organisation und Entscheidung, Opladen-Wiesbaden, Westdeutscher Verlag, 2000; trad. it. Organizzazione e decisione, Milano, Bruno Mondadori, 2005, p. 7. 6 F. Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft. Grundbegriffe der reinen Soziologie, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1979; trad. it. Comunità e società, Milano, Comunità, 1979, p. 12. Cfr. L. Clausen, C. Schlüter (Hrsg.), Hundert Jahre «Gemeinschaft und Gesellschaft». Ferdinand Tönnies in der internationalen Diskussion, Opladen, Leske und Budrich, 1991; F. Osterkamp, Gemeinschaft und Gesellschaft: Über di Schwierigkeiten einen Unterschied zu machen. Zur Rekonstruktion des primären Theorieentwurfs von Ferdinand Tönnies, Berlin, Duncker & Humblot, 2005. 120 la società come ordine partire dal quale è possibile comprendere l’esistenza della società stessa. Non si tratta solamente dell’indicazione di due modelli astratti, destinati a funzionare esclusivamente come concetti sociologici formali. Per Tönnies, rintracciare i motivi di contrapposizione, ma anche di continuità, tra i due paradigmi, significa infatti stabilire un’interpretazione del movimento storico della modernità, i cui primi interpreti sono per lui da punti di vista differenti, Thomas Hobbes e Baruch Spinoza. Non c’è dubbio però che per Tönnies Hobbes è allo stesso tempo il primo teorico della modernità sociologica. Non a caso nel corso di un’attività di ricerca durata un cinquantennio, Tönnies ha dedicato innumerevoli studi critici all’opera del filosofo inglese, oltre ad aver scoperto e pubblicato per primo il manoscritto originale degli Elements of Law Natural and Politic7. Non può quindi stupire che l’imponente lezione del filosofo inglese abbia stabilito radici profonde nell’impianto sociologico tönniesiano, anche attraverso la mediazione di quei radical Philosophers che, nella prima metà dell’Ottocento, sulla scia di Jeremy Bentham, avevano dato inizio alla rinascita degli studi hobbesiani. Tuttavia, oltre a questi motivi, per così dire inerenti alla storia europea della cultura, vi è comunque la convinzione tönniesiana, spesso iterata, che la filosofia di Hobbes e la radicalità della sua analisi siano ancora attuali nell’epoca successiva alla rivoluzione francese, un evento che ha portato definitivamente in primo piano la centralità politica del meccanismo rappresentativo e aperto irrevocabilmente 7 Da ricordare è, in primo luogo, la monografia Thomas Hobbes. Leben und Lehre (19253), Neu herausgegeben und eingeleitet von K.H. Ilting, Stuttgart-Bad Canstatt, Frommann Verlag, 1971, come pure la raccolta di diversi saggi tönniesiani su Hobbes e Spinoza curata da E.G. Jacoby, con il titolo Studien zur Philosophie und Gesellschaftslehre im 17. Jahrhundert, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann Verlag, 1975. Per una ricostruzione della sociologia tönniesiana, con particolare attenzione al ruolo giocato al suo interno dalla filosofia politica di Hobbes, rimando al già citato Ricciardi, Ferdinand Tönnies sociologo hobbesiano. Insiste invece sulla presenza di Spinoza N. Marcucci, Welche Gemeinschaft für Europa? Der Widerstand von Spinozas sozialem Denken gegen Tönnies Soziologie, in Verfassung, Verfasstheit, Konstitution (TönniesForum. Sonderband zum sechsten Internationalen Tönnies-Symposium 2007), Norderstedt, Books on Demand, 2008, pp. 167-193. 4. la sociologia dell’individuo 121 la strada ai rapporti societari anche sul continente8. Se dal punto di vista delle forme politiche vi è un’anacronistica contemporaneità tra le lotte del Seicento e quelle dell’epoca dell’industria, la grande novità è, come abbiamo anticipato, lo sviluppo societario con le sue forme e le sue figure. Su questo terreno si mostra ancora più necessario portare a compimento un illuminismo che non è più limitabile al piano politico e intellettuale, e che impone di svelare le superstizioni della società. Con un senso differente e lungo coordinate divergenti da quelle di Niklas Luhmann, vi è in Tönnies un razionalismo sociologico che mira a liberare la società dalla convinzione di dipendere da autorità diverse da quelle che trovano la loro ragione nei suoi stessi rapporti. Ciò non comporta solo la consapevolezza del carattere derivato e subordinato del potere politico rispetto agli assetti societari, ma anche il disincanto verso le forme di potere sociale che attraversano la stessa società permettendone la rappresentazione come ordine. Dire che siamo di fronte al carattere derivato delle istituzioni politiche non significa negarne l’eventuale autonomia decisionale. Significa invece individuare il fondamento di quella autonomia all’interno della trama stessa della società contemporanea. L’autonomia della decisione politica è possibile perché essa, quando si contrappone ai movimenti della società, dà voce alla costituzione più profonda della società stessa. «La libertà arbitraria (dell’individuo) e il dispotismo arbitrario (di un Cesare o di uno Stato) non costituiscono termini opposti. Essi non sono che la duplice manifestazione dello stesso stato di cose; potranno lottare per un più o un meno, ma per natura sono alleati»9. La sociologia tönniesiana si assume il compito di indagare cosa c’è dietro l’immagine di una società di individui che contrattano le loro prestazioni come se fossero effettivamente uguali e come questa uguaglianza venga invece costantemente negata proprio 8 L. Jaume, Hobbes et l’État représentatif moderne, Paris, Puf, 1986, pp. 127-133, il quale a proposito degli esiti politici della rivoluzione francese parla significativamente di un «momento hobbesiano». 9 Tönnies, Comunità e società, cit., p. 256. 122 la società come ordine dai concetti universali su cui si fonda. La comunità, considerata tradizionalmente la forma naturale e primaria di associazione umana, diviene il presupposto costantemente negato dalla società moderna. Il carattere parziale e separato di ogni esperienza comunitaria, tuttavia, rende impossibile la sua riproduzione su scala globale, facendo della comunità una silenziosa e inavvertita legittimazione della società. Se l’assenza di dominio e l’uguaglianza immediata sono superstizioni della comunità, l’uomo astratto e la stessa comunità sono superstizioni della società. Il retaggio hobbesiano e spinoziano emerge dunque inevitabilmente nelle articolazioni fondamentali che sostengono la proposta sociologica tönniesiana, perché Tönnies individua nella filosofia di Hobbes così come in quella di Spinoza il punto di partenza del razionalismo e del volontarismo moderni; e tanto la razionalità quanto il primato della volontà sono per lui caratteristiche centrali dell’individuo. Ma, soprattutto, dagli studi hobbesiani deriva un’utilizzazione del diritto naturale che non viene inteso come insieme ideale di norme, ma come costituzione materiale di ogni realtà associativa: un complesso di norme sociali che nella società moderna mostra l’urgenza della statuizione positiva. Per decenni l’opera tönniesiana è stata letta nei termini di una celebrazione dell’empito comunitario, quasi fosse una celebrazione tardoromantica delle ideologie organicistiche che hanno dominato l’Ottocento tedesco e che, soprattutto coniugandosi con un riferimento peculiare al popolo10, hanno poi favorito e accompagnato l’affermazione del nazionalsocialismo in Germania. È inoltre fuori discussione che quello di comunità sia stato per tutta la prima metà del XIX secolo, il concetto più controverso della sociologia tedesca11. Tuttavia, come era stato chiaramente rilevato all’epoca12, nonostante per definire la comunità Tönnies 10 Cfr. F. Ferraresi, Figure dell’organicismo tedesco. Lineamenti di una storia del concetto di comunità da Kant a Jellinek, in «Filosofia politica», 13, 1999, pp. 39-68. 11 S. Breuer, „Gemeinschaft“ in der „deutschen Soziologie“, in «Zeitschrift für Soziologie», 31-5, 2002, pp. 354-372. 12 Cfr. S. Landshut, Zur Kritik der Soziologie (1929), in Id., Kritik der Soziologie und andere Schriften zur Politik, Neuwied am Rhein-Berlin, Luchterhand, 1969, p. 4. la sociologia dell’individuo 123 parli della sua originarietà e naturalità, all’interno dell’antitesi tra i due modelli associativi la priorità logica spetta al concetto di società. Tale priorità è fondata sul riconoscimento che, nonostante la sua contraddittorietà, il movimento storico della società moderna stabilisce dei criteri irrinunciabili per la legittimità politica dell’individuo. Ineffettuale appare dunque la possibilità di eliminare dal concetto di individuo astratto il riferimento all’universalità dell’uguaglianza e alle potenzialità associative che quella apre13. A partire dalla piena realizzazione storica della società e dalla sua continua e inarrestabile espansione, destinata a rendere obsolete le forme attuali di organizzazione e di normatività politica, prima fra tutte quella incentrata sullo Stato nazionale14, Tönnies si rivolge alla comunità in quanto antefatto negato della società e dei suoi individui. Ciò non significa affermare l’esistenza di strutture astoriche, e quindi ineliminabili, che si presentano in forza di una segreta sostanzialità, ma piuttosto stabilire qual è l’individuo concretamente presente e quindi indagare quelle forme di relazione e di normatività che sembrano non rispondere alla razionalità dell’individuo contrattuale. In questo senso la riflessione sulla comunità si presenta come indagine sui limiti e i punti di crisi del contrattualismo moderno; come tentativo di portare alle estreme conseguenze sia la forma razionale delle 30; e H. Freyer, Soziologie als Wirklichkeitswissenschaft. Logische Grundlegung des Systems der Soziologie, Leipzig-Berlin, B.G. Teubner, 1930, p. 186; ma cfr. anche il riconoscimento di H. Plessner, I limiti della comunità. Per una critica del radicalismo sociale (1924), Roma-Bari, Laterza, 2001. 13 Cfr. a questo riguardo G. Simmel, Die beiden Formen des Individualismus (1901), ora in Id., Aufsätze und Abhandlungen 1901-1908 (Gesamtausgabe Band 7), Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1995, pp. 49-56. 14 «Infatti anche le odierne tendenze nazionali sono nel complesso solo delimitazioni temporanee delle idee internazionali suscitate dal “traffico mondiale”», F. Tönnies, Historismus und Rationalismus (1894), in Id., Soziologische Studien und Kritiken, Jena, Fischer, 1925, vol. I, pp. 105-126, p. 106. Sulla rilevanza della contrapposizione tra razionalismo e storicismo nella sociologia tönniesiana cfr. C. Bickel, Ferdinand Tönnies. Soziologie ������������������������������������������������������������������������� als skeptische Aufklärung zwischen Historismus und Rationalismus, Opladen, Westdeutscher Verlag, 1991 e G. Rudolph, Die philosophisch-soziologischen Grundpositionen von Ferdinand Tönnies. Ein Beitrag zur Geschichte und Kritik der bürgerlichen Soziologie, Hamburg-Harvestehude, Rolf Fechner Verlag, 1995. 124 la società come ordine relazioni sociali che esso pretende, sia la forma politica che esso vuole produrre a partire da quelle relazioni15. Anticipando la tesi di Macpherson sul nesso tra la genesi della società capitalistica e la nascita dell’individualismo moderno, la descrizione tönniesiana della Gesellschaft assume come pienamente attuale l’immagine hobbesiana dello stato di natura: in questo ambito ognuno sta per conto proprio e in uno stato di tensione contro tutti gli altri. I campi di attività e di potenza sono nettamente delimitati tra loro, cosicché ognuno rifiuta all’altro contatti ed ammissioni, che sono considerati quasi come atti di ostilità. Tale atteggiamento negativo è il rapporto normale tra questi “soggetti di potenza”, e designa la società nello stato di quiete. Un simile concetto di società denuncia immediatamente la necessità di figure di mediazione che riportino a unità questa massa di individui, dal momento che, nell’universale e bellicosa indifferenza che la descrizione rivela, essi «vivono e abitano pacificamente l’uno accanto all’altro»16. Per identificare pienamente quelle figure di mediazione, è tuttavia necessario ricostruire la storia dell’individuo societario, perché quest’ultimo è in primo luogo definito da uno specifico tipo di volontà, chiamata da Tönnies «volontà arbitraria» [Kurwille], in forza della quale è dominato dal pensiero dello scopo, in modo da orientare tutte le proprie decisioni e azioni alla possibilità di raggiungere i propri fini, e quindi alla continua appropriazione del futuro, non esistendo di fatto un unico scopo reale che possa soddisfare permanentemente quella volontà e il suo pensiero. Se, come si vedrà, nella comunità il legame normativo deve apparire come immediatamente naturale, nella società esso acquista questa qualità, è “diritto naturale”, in forza della sua socialità, vale a dire 15 Che le trasformazioni del contrattualismo siano un argomento fondante della sociologia tedesca nel suo complesso è mostrato anche da W. Sombart, Die Anfänge der Soziologie, in M. Palyi (Hrsg.), Hauptprobleme der Soziologie. Erinnerungsgabe für Max Weber, München und Leipzig, Duncker & Humblot, 1923, vol. I, pp. 3-19; cfr. a questo proposito B. Accarino, Mercanti ed eroi. La crisi del contrattualismo tra Weber e Luhmann, Napoli, Guida, 1986. 16 Tönnies, Comunità e società, cit., p. 83. 4. la sociologia dell’individuo 125 di una scelta voluta da tutti gli individui. In questo senso il diritto della società non è solo convenzionale, perché assume positivamente il valore costitutivo di una serie di finzioni, ma soprattutto perché individua a priori nella convenzione l’unica via per garantire il mantenimento della pace. «Chiamo convenzione la forma semplice della volontà generale societaria in quanto pone questo diritto naturale»17. La convenzione è il carattere primario di una società, alla quale il diritto naturale fornisce le regole generali e intrascendibili di funzionamento, divenendone di fatto la costituzione reale che deve essere osservata pena la decadenza della stessa forma societaria. Convenzione è volontà precariamente, ma praticamente e costantemente rivolta all’accordo nonostante il disaccordo e l’indifferenza costitutivamente presenti18; essa è, allo stesso tempo, presupposto e forma della pace societaria; è necessaria per far accettare anche quei rapporti di subordinazione e di dipendenza sanciti dal diritto privato societario che altrimenti farebbero dello scontro un evento evidente e improcrastinabile. Anche gli ordinamenti e le istituzioni che rendono possibile la pacifica convivenza devono essere perciò considerati come scopi che l’individuo societario consapevolmente si pone; essi sono le soluzioni escogitate da individui societari, pienamente consapevoli delle difficoltà insite nella loro socievolezza e in quella dei loro simili. Si tratta quindi di partire dalla forma stessa dell’individualità moderna. Essa viene indagata da Tönnies muovendo dal riconoscimento che, dopo la rivoluzione francese, si confrontano due modelli che sono allo stesso tempo opzioni specifiche sulla forma politica che lo Stato deve assumere: da una parte il paradigma contrattualistico, dall’altra quello storicistico. Il primo immagina 17 Ibid., p. 94. momento che ognuno cerca – e può solo cercare – il proprio vantaggio personale: «prima e al di fuori della convenzione – e anche prima e al di fuori di ogni contratto particolare – il rapporto di tutti verso tutti può essere concepito come un rapporto di ostilità potenziale o come una guerra latente, contro cui tutti quegli accordi delle volontà spiccano poi come altrettanti trattati e conclusioni di pace» (ibid., p. 96). 18 Dal 126 la società come ordine un individuo razionale, perfetto soggetto contrattuale che sorge dalla tabula rasa di tutte le sue connessione storiche e ambientali per potere liberamente concludere contratti – primo fra tutti quello sociale – che ne rendono evidente la libertà e l’uguaglianza; il secondo pretende invece la vigenza, il rispetto e la valorizzazione delle differenze affermatesi nel tempo, invoca un’eticità inerente ai rapporti consolidati, in definitiva il fatto che la durata garantirebbe non solo la legittimità delle istituzioni politiche, ma anche quella della posizione che ogni singolo occupa nella società presente. La consapevolezza del carattere alternativo nella teoria e della compresenza nella realtà di questi due paradigmi caratterizza la prestazione sociologica di Tönnies, il quale, a differenza di Simmel e di Weber, rifiuta l’alternativa offerta in tema di individualità dalla filosofia di Nietzsche, rinvenendovi il segno della celebrazione di una morale «aristocratica e androcratica», esplicitamente riferita a individui particolari, in grado, in forza di una volontà unica e dominatrice, di distinguersi da quella massa che, tanto sociologicamente quanto eticamente, viene considerata come l’ultimo e più devastante esito del più gretto utilitarismo19. A questa specifica celebrazione dell’individualità, così come, su un versante diverso, a quella storicistica, Tönnies oppone il movimento specifico della società moderna come luogo di genesi e sviluppo anche dell’individualità. All’inizio dell’età moderna l’accelerazione e l’intensificazione dei traffici impone una normazione che coincida con l’ordinamento sociale che si sta affermando. I traffici e il loro diritto stabiliscono la centralità di un tipo umano che non preesiste in assoluto, che non è cioè dovuto a un’antropologia positivamente esistente, quanto piuttosto a una considerazione antropologica politicamente funzionale alla nuova situazione sociale ed economica. Allo stesso tempo il nuovo ordine sociale agisce sugli individui che, obbligati dalla necessità, ma in ogni caso consapevol19 Cfr. F. Tönnies, Der Nietzsche Kultus. Eine Kritik, Leipzig, Reisland, 1897, p. 74. G. Simmel, Recensione a F. Tönnies, Der Nietzsche Kultus, in «Deutsche Literaturzeitung», 23 Oktober 1897, Nr. 42, col. 1645-1651 (entrambi questi testi sono ora disponibili in F. Tönnies, Il culto di Nietzsche, Roma, Editori Riuniti, 1998). 4. la sociologia dell’individuo 127 mente, si presentano sul mercato: esso «livella le loro differenze ed asperità, dà a tutti lo stesso aspetto, la stessa lingua e lo stesso accento, lo stesso denaro, la medesima formazione, la medesima avidità, la medesima curiosità». Il tipo umano societario è in primo luogo il frutto dell’antropologia politica che il pensiero giusnaturalistico ha posto come base necessaria del proprio discorso politico, pretendendolo come presente e reale. Il suo essere “naturalmente” una macchina desiderante, in continuo potenziale conflitto con tutti i suoi simili, crea un’immagine della società che è a sua volta il fondamento sul quale viene stabilita la necessità di una persona sovrana che da una parte ne rispecchi l’indeterminata libertà di volere e dall’altra faccia valere la propria assoluta superiore potenza20. Allo stesso tempo, tuttavia, questa astrazione mostra il suo carattere costitutivo nella realtà immediata degli individui che vengono progressivamente trasformati e letteralmente identificati con l’uomo astratto della teoria. Il razionalismo e quella sua espressione normativa che è il diritto naturale moderno sono, dunque, anche un processo di disciplinamento che dà come frutto in continua trasformazione il tipo umano considerato a posteriori come il fondamento naturale di tutto il processo di continua evoluzione che, investendo i singoli, ne fa i portatori dell’individualismo moderno. Il tipo dell’uomo moderno è il presupposto e l’esito del diritto naturale razionale. «L’uomo astratto – la più artificiale, regolare e raffinata di tutte le macchine – è costruito e inventato, e deve essere considerato come uno spettro nella fredda e chiara verità del giorno»21. Questo tipo umano pretende e, allo stesso tempo, consente l’affermarsi di una concezione del tempo che può essere definita come tempo in movimento: un moto di inarrestabile e ansiosa appropriazione del futuro. Il movimento è senza dubbio per Tönnies la caratteristica fondamentale della società moderna. «Movimenti, in senso proprio e metaforico, furono all’ordine del giorno in 20 Cfr. P. Costa, Il progetto giuridico. Ricerche sulla giurisprudenza del liberalismo classico. I: Da Hobbes a Bentham, Milano, Giuffrè, 1974. 21 Tönnies, Comunità e società, cit., p. 255. 128 la società come ordine questi secoli di “progresso”, di accumulazione programmata e regolazione delle forze popolari disponibili, di distruzioni e ricostruzioni, di traffici e accelerazioni, di livellamento e agglomerazione – in questi secoli di capitalismo rivoluzionario e di politica rivoluzionaria»22. Questa dinamica dominante nella società degli ultimi quattro secoli è stata resa possibile da un diritto naturale che, allo stesso tempo, stabilisce sia le regole fondamentali della proprietà e dell’appropriazione, sia quelle in forza delle quali gli individui possono decidere illimitatamente del loro destino. L’ordine della società sarebbe in altri termini possibile perché alla sua base vi è un ordinamento che è il diritto naturale della società. Nel primo senso il paradigma contrattualistico legittima un unico modo – quello privato – di appropriarsi della ricchezza, dal momento che l’individuo «può soltanto scegliere tra appropriarsi con violenza dell’oggetto desiderato (ciò che è contrario al diritto naturale societario) ed ottenerlo nel traffico mediante la vendita della propria forza lavoro»23. La violenza è però ciò che è stato bandito al momento della costituzione della società. L’individuo può dunque solo sperare di migliorare la propria posizione attraverso una serie infinita di contratti, perché questa è ora la forma razionale e quindi naturale del suo agire. D’altra parte questa stessa forma è legittimata all’origine dal presupposto che, attraverso il loro accordo reciproco, gli individui sono in grado di modificare ogni loro condizione – quindi al limite la forma stessa dell’appropriazione. Il movimento tipico della società moderna in questo modo si sdoppia: da una parte viene affermato il valore esclusivo dell’individuo all’interno degli scambi contrattuali, mentre il «movimento contrario è un ritorno al generale [zum Allgemeinen] o comunque un’aspirazione in questo senso»24. Vi è quindi un dissidio tra i presupposti individualistici dell’età moderna e la forma storica che essa tende ad assumere. 22 Tönnies, Il culto di Nietzsche, cit., pp. 48-49. Comunità e società, cit., p. 115. 24 F. Tönnies, Individuum und Welt in der Neuzeit (1913), in Id., Fortschritt und soziale Entwicklung. Geschichtsphilosophische Ansichten, Karlsruhe, Verlag G. Braun, 1926, pp. 5-35, p. 7. 23 Tönnies, 4. la sociologia dell’individuo 129 La soluzione proposta da Tönnies, e da lui sempre più approfondita durante il decennio weimeriano, consiste nel privilegiare con sempre maggiore enfasi il senso politico del diritto naturale. Il suo significato essenziale sarebbe, infatti, di porre «gli individui liberi gli uni di fronte agli altri e sopra di loro la volontà statale prodotta dalle loro volontà, postulando una ragione calcolante in modo corretto [ein richitg rechnende Vernunft] in loro quando concludono dei contratti e in essa quando dà una legge»25. Nel momento in cui il diritto naturale viene interpretato come diritto politico, deve essergli riconosciuta la capacità di eliminare quello stato di natura che, invece di essere cancellato dalla fondazione statale, si è riprodotto nella società. In altri termini, il diritto naturale non riproduce solo la ragione della società, ma è anche il veicolo attraverso il quale gli individui possono dare forma razionale alla loro convivenza. Esso è l’ordinamento della società perché ne rivela e ne garantisce l’ordine26. Allo stesso tempo, viene così confermato che, sia nel suo moto normale sia quando si tratta delle sue contraddizioni, per la società il diritto stabilisce una forma intrascendibile, perché è attraverso il diritto che la moderna individualità costruisce le sue modalità di organizzazione. Di conseguenza la stessa proposta tönniesiana di affermare la democrazia come unica forma di sovranità assoluta, davvero totalmente adeguata ai criteri della statualità moderna, fa leva su categorie giuridico-politiche, delle quali egli mette in evidenza l’ormai decisiva connotazione sociologica. Ciò vale in primo luogo per il concetto di “persona”, che diviene così il soggetto specifico della volontà arbitraria: la persona è la costruzione artificiale, grazie alla quale gli individui possono entrare in relazione e perseguire i propri scopi, non tanto prescindendo dalle loro eventuali differenze, quanto soprattutto facendo valere la loro naturale uguaglianza. Da un lato essa dunque consente 25 Tönnies, Historismus und Rationalismus, cit., pp. 109-110. diritto generale e naturale – in questo senso disgregatore, sovvertitore, livellatore – si identifica in tutto e per tutto con l’ordinamento sociale, configurandosi nella sua forma più pura come diritto del traffico o commerciale» (Tönnies, Comunità e società, cit., p. 255). 26 «Il 130 la società come ordine la circolazione societaria, essendo l’elemento convenzionale e fittizio che permette al diritto di regolare i rapporti sociali come se effettivamente si svolgessero tra individui uguali; dall’altro lato, tuttavia, nell’universo concettuale tönnesiano, il concetto di persona estende a ogni individuo27 le caratteristiche che Hobbes aveva pensato per la persona sovrana, perché, solo in questo modo, la democrazia può essere praticamente articolata come lo spinoziano omnino absolutum imperium28. L’individuo sociologico che Tönnies assume come soggetto del suo discorso è libero nella sua azione, ma non nella sua volontà. La struttura più intima del suo desiderio è determinata dalle relazioni complessive nelle quali egli è inserito: un desiderio che non è mai completamente trasparente per il suo soggetto, essendo determinato strutturalmente dalla presenza simultanea di brama e paura. L’individuo non è perfetto nel suo desiderio, ma instabile materia in movimento. Ed è a questo punto che Tönnies opera la traduzione del concetto spinoziano di sostanza nel concetto di formazione sociale e più specificamente di società. «Il suo concetto di sostanza comprende l’intera realtà oggettiva»29. Grazie alla sua perfezione questa sostanza non ha bisogno «di alcuna causa esterna; la sua esistenza dovrebbe conseguire semplicemente dalla sua Natura, dalla sua essenza»30. In questa sostanza le cose si collocano perciò in un ordine necessario che non è orientato verso un fine e non è nemmeno immediatamente evidente, ma può essere riconosciuto nelle sue probabili tendenze, essendo un ordine non statico, ma un ordine in movimento, un ordine 27 Ibid., p. 220. 28 B. Spinoza, Trattato politico, testo e traduzione di P. Cristofolini, Pisa, Ets, 1999, cap. X, 1. Per l’affermazione della democrazia come unica forma assoluta dello Stato e la conseguente proposta di una sua radicale applicazione cfr. F. Tönnies, Demokratie und Parlamentarismus (1927), in Id., Soziologische Studien und Kritiken, Fischer, Jena 1929, vol. III, pp. 40-84, come pure, Id., Demokratie, in Schriften der Deutschen Gesellschaft für Soziologie, 1. Serie, 5. Band, Verhandlungen des fünften Deutschen Soziologentages vom 26. bis 29. September 1926 in Wien, Tübingen, J.C.B. Mohr, 1927; trad. it. in H. Kelsen, Il primato del parlamentarismo, Milano, Giuffrè, 1982, pp. 207-233. 29 Tönnies, Studie zur Kritik des Spinoza, cit., p. 302. 30 Ibid., p. 303. 4. la sociologia dell’individuo 131 sottoposto a uno sviluppo. Vale la perna ribadire che la ricerca delle regole interne – le sue leggi naturali, come le chiama Marx – di questo ordine non intenzionale attraversa le scienze sociali dai loro esordi tardo settecenteschi fino a tutto il Novecento, sia che si chiami capitalismo in Marx, dominio burocratico in Max Weber o sistema sociale in Talcott Parsons. 2. L’ordine dell’uomo collettivo Non è in questione la preferenza per l’ordine invece che per la confusione, che può variare tra individuo e individuo, né si deve confondere questo ordine con un’armonia; tanto meno il fatto che la società si presenti come ordine significa che effettivamente essa sia un ordine naturale. Discutendo della tendenza a percepire la natura come ordine, Spinoza annota che «gli uomini prendono l’immaginazione per l’intelletto, essi perciò credono fermamente che ci sia un ordine nelle cose, ignari come sono della natura tanto delle cose quanto di se stessi». L’ordine percepito è dunque un effetto dell’immaginazione e dell’idea che esista un fine interno alla natura stessa e quindi anche all’uomo. Tuttavia – scrive Spinoza – «questa dottrina finalistica sovverte totalmente la natura. Essa, infatti, considera come effetto ciò che in realtà è causa, e viceversa»31. La società, tuttavia, si presenta effettivamente come ordine, ovvero come insieme di cause che determino la volontà e quindi le azioni degli uomini. Questo reticolo di cause, ai cui effetti nessuno può pensare di sottrarsi individualmente se non in maniera casuale, è per Tönnies il significato più rilevante della potentia spinoziana, che «non significa altro che causalità» universale32. L’effetto più rilevante di questa posizione è la negazione del concetto di responsabilità, nel senso che nessuno può essere considerato “colpevole” di ciò che opera individualmente, perché, come abbiamo visto, la 31 B. Spinoza, Ethica, Firenze, Sansoni, 1984, I, XXXVI, appendice. p. 259. Cfr. anche P.-U. Merz-Benz, Tiefsinn und Scharfsinn. Ferdinand Tönnies’ begriffliche Konstitution der Sozialwelt, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1995, pp. 138 sgg. 32 Ibid., 132 la società come ordine volontà non è un effetto dell’intelletto individuale, ma della causazione universale, ovvero della società. Nessuno può farci nulla se non ha conosciuto meglio il suo vero interesse. O si tratta di una manchevole capacità di comprendere e in questo caso egli è esentato dall’imputazione, come un bambino; oppure della sua volontà, ma di questa nessuno è manchevole, infatti grazie alla sua riflessione attuale ognuno mostra di cercare ciò che è meglio per lui. Dunque se egli non è venuto a conoscenza è colpa delle circostanze, oppure dei suoi insegnanti, educatori, dei legislatori ecc. Ma le circostanze non hanno alcuna colpa: esse sono cause; e per gli uomini colpevoli si ripete il rovesciamento. Non c’è alcuna colpa e alcun merito; vi sono solamente comportamenti saggi o non saggi33. A differenza dell’ordine comunitario, perciò, in quello societario ognuno non trova assegnata la sua posizione e non svolge il suo ruolo in base alla sua persona. Esso non si basa sulla legittimazione del passato, della tradizione, o dei legami sociali. Esso è un ordine in movimento che, proprio per questo, coinvolge gli individui in modo universalmente uguale. Esso si presenta come costruzione astratta e impersonale, con la capacità di comporsi grazie ai desideri, e quindi alle volontà, degli individui. Sarebbe perciò un errore negare che lo spazio della libertà della decisione può essere solo collettivo, perché essa è possibile solamente riconoscendo a tutti gli individui l’eguale capacità di andare oltre la propria ignoranza, l’eguale capacità di agire proprio perché vogliono la loro volontà. È assolutamente chiaro, secondo Tönnies, che questa uguaglianza non è realmente presente, ma che essa è una «un’affermazione che rappresenta l’uomo collettivo – sia in quanto totalità non organizzata, sia in quanto vincolato in una collettività, in uno Stato, e nella forma della sua volontà collettiva». Ciò significa che a tutti gli uomini viene attribuita l’eguale capacità di decidere, sebbene la società come ordine condizioni in maniera differente i diversi individui. Gli uomini in definitiva sono uguali proprio per la relazione che stabiliscono con l’uomo collettivo. Essi 33 Tönnies, Studie zur Kritik des Spinoza, cit., p. 291. Vanno almeno ricordati a questo proposito gli studi statistici tönniesiani sulla criminalità, sui quali cfr. da ultimo M. Deflem, Ferdinand Tönnies on Crime and Society: An Unexplored Contribution to Criminological Sociology, in «History of the Human Sciences», 12, 1999, pp. 87-116. 4. la sociologia dell’individuo 133 sono realmente uguali in quanto possono pensare nei termini di permesso e vietato quando riconoscono la differenza tra bene e male, di conseguenza sono in effetti capaci di affermare il bene così come lo afferma l’uomo collettivo che condiziona la loro volontà, e di negare il male così come negato proprio da quell’uomo34. Emerge così il carattere di fondo di tutta la sociologia tönniesiana, che trova la sua enunciazione in Gemeinschaft und Gesellschaft, per essere poi approfondito negli scritti successivi: l’intera opera di Tönnies si colloca all’interno di un campo di tensione che distanzia e unisce politica e sociologia. Le distanzia perché la prima ha «esclusivamente a che fare con l’uomo in quanto entità razionale»35, mentre la seconda è ancora fondata su di un rapporto di violenza [Gewaltverhältnis], un rapporto di potere e violenza, che traspone sul piano della statualità i rapporti di dipendenza personale che si sono stabiliti nella società. Allo stesso tempo esso le unisce, perché in definitiva l’indagine sociologica mira a individuare le condizioni nelle quali tutti i singoli possono partecipare alla condizione politica [politischer Zustand], cioè a una condizione politica e civile libera da quelle coazioni esterne che appaiono oramai irrazionali rispetto allo sviluppo della individualità. La sociologia viene perciò affermata come scienza specifica dello Stato democratico, perché esso deve essere la realizzazione della razionalità sociale e solo la sociologia dovrebbe essere in grado di mostrare la via verso il superamento delle contraddizioni societarie. Dal momento che, diversamente da quanto preteso dall’ideologia liberale, il rapporto tra società e Stato36 non concerne due piani separati e autonomi, ma convergenti, 34 Tönnies, Studie zur Kritik des Spinoza, cit., p. 306. Tönnies, Soziologie und Politik, in «Zeitschrift für Politik», 1, 1908, pp. 219-229, p. 228. 36 Il 9 gennaio 1881 Tönnies scrive a Friedrich Paulsen che, con il testo presentato alla facoltà di filosofia di Kiel, con il quale per la prima volta aveva abbozzato il tema Gemeinschaft und Gesellschaft, aveva voluto affrontare «il contrasto che i moderni (Stein, Gneist ecc.) hanno falsamente trattato alla maniera liberale come contrasto tra Stato e società» (F. Tönnies, F. Paulsen, Briefwechsel 1876-1908, hrsg. von O. KloseE.G. Jacoby-I. Fischer, Kiel, Hirt, 1961, pp. 101-102). 35 F. 134 la società come ordine l’indicazione delle contraddizioni del concetto di società è per Tönnies la condizione necessaria per la realizzazione di quel Gemeinwesen, che egli individua come la struttura politica ultima, nella quale la politicità dovrebbe trovare il suo senso dispiegato in quanto prodotto tutto artificiale della volontà degli individui associati e, allo stesso tempo, risolvere la persistente antitesi tra comunità e società. 3. La legge della società e la norma comunitaria Se, grazie a Hobbes, la società tönniesiana ha una precisa matrice, più complesso è rintracciare la genealogia del concetto di comunità. Fondamentali per la sua definizione sono senza dubbio stati gli studi di Henry Sumner Maine sul diritto antico, con la loro distinzione tra «società stazionarie» e «società progressive». Rilevante è soprattutto che il passaggio classicamente conosciuto come from status to contract, venga descritto da Maine come «contraddistinto dalla graduale dissoluzione della connessione familiare e dalla nascita al suo posto dell’obbligazione individuale»37. In questo modo, tuttavia, viene individuata la soglia di passaggio tra la comunità e la società, ma non ancora il carattere fondamentale della Gemeinschaft tönniesiana. Quest’ultima è definita da un tipo specifico di volontà – la volontà essenziale [Wesenwille] – che, sebbene percepita come identico possesso comune di ogni partecipante, si manifesta e agisce attraverso ogni singolo. Nonostante le radicali differenze tra la volontà arbitraria e quella essenziale, comune a entrambe è la possibilità dei loro rispettivi soggetti di decidere la direzione che la volontà deve o può prendere: «anche 37 H.S. Maine, Ancient Law: Its Connection with the Early History of Society and its Relation to Modern Ideas (1861), London, Murray, 189415, pp. 168-170. Sulla ripresa tönniesiana delle tesi di Maine cfr. Tönnies, Comunità e società, cit., pp. 229-230, come pure Id., Status und contractus. Eine sozialpolitische Betrachtung, in «Die Zukunft», 1, 1892, pp. 250-257. Sul rapporto Maine-Tönnies cfr. Merz-Benz, Tiefsinn und Scharfsinn. Ferdinand Tönnies’ begriffliche Konstitution der Sozialwelt, cit., pp. 287-296 e M. Piccinini, Tra legge e contratto. Una lettura di Ancient Law di Henry S. Maine, Milano, Giuffré, 2003. 4. la sociologia dell’individuo 135 colui che è necessitato agisce con una volontà libera – quamquam coactus tamen voluit»38. Ciò dimostra che non esistono per Tönnies comunità anteriori, o addirittura estranee, alla socialità espressa dalle relazioni, come se fossero l’emanazione immediata di una condizione originaria; al contrario «la cosa principale non è in primo luogo l’emanazione [Hervorgehen], bensì il durevole rapporto interno»39. La comunità tönniesiana non può essere identificata con l’uso che considera la lingua, il lavoro, il popolo o addirittura la stirpe come luoghi d’origine e principio di legittimazione della comunità. Come lo stesso Tönnies fa valere contro Lorenz von Stein, in tutti quei casi si è di fronte a un «non-concetto [Unbegriff] di comunità», perché «si pensa solo ai fatti oggettivi di un’unità che poggia su caratteristiche o attività comuni, su connessioni esteriori»40. Come nel concetto di società, anche in quello di comunità la categoria di rapporto è quindi di importanza centrale. Attraverso di essa penetra nella comunità un senso soggettivo specifico che, se da una parte verifica la libertà del volere dell’essere umano in quanto tale, dall’altra impone di considerare l’assetto in cui essa si esplica non nella sua unità statica, ma nella dinamica temporale. La differenza essenziale consiste nel fatto che, nella comunità, i rapporti non sono solamente pre-contrattuali, quando ci si riferisce a quelli storicamente precedenti all’affermazione dello Stato e del capitalismo moderni, ma sono addirittura a-contrattuali, nel momento in cui designano situazioni che hanno luogo all’interno della società, ma nelle quali i loro soggetti si sottraggono alla sua normazione. Ed essi possono esserlo perché tale è la radice della comunità che Tönnies vede espressa in primo luogo e con maggiore evidenza nelle relazioni tra la madre e i figli, e quindi in 38 F. Tönnies, Die Tatsache des Wollens, Berlin, Duncker & Humblot, 1982, p. 111. Sulla genealogia del concetto di volontà in Tönnies, cfr. J. Zander, Sozialgeschichte des Willens. Arthur Schopenhauer und die Anfänge der deutschen Soziologie im Werk von Ferdinand Tönnies, in «Schopenhauer-Jahrbuch», 69, 1988, pp. 583-592. 39 F. Tönnies, Der Begriff der Gemeinschaft (1919), in Id., Soziologische Studien und Kritiken, vol. I, cit., pp. 266-276, p. 269. 40 Ibid. 136 la società come ordine quella sentimentale e tra fratelli: tutte relazioni che, per definizione, sono aliene dallo scambio e dal potere41. Tuttavia, nemmeno la comunità può essere compresa come un mero concetto formale sottratto al tempo storico in cui viene impiegato. Nel mondo occidentale, infatti, essa non è stata solamente erosa dall’affermarsi dell’organizzazione capitalistica del lavoro e dalla razionalizzazione della politica statale, ma ha trovato come suo limite quel diritto romano che ha fornito il modello e le nozioni fondamentali al diritto moderno. «Il diritto romano ha […] contribuito con decisa tendenza alla dissoluzione di tutte le comunità contrarie alla costruzione di un diritto privato fondato sul presupposto di individui capaci di agire»42. La valorizzazione del diritto romano come legislazione storica dell’Occidente ha tuttavia anche un altro effetto di vasta portata. Infatti, dal momento che la sua vicenda è di fatto contemporanea alla dissoluzione storica dei rapporti comunitari, la sua presenza è anche il primo segno della negazione di quella radice della comunità di cui si è detto in precedenza. Essa lo è perché centrata sul ruolo giuridico e politico del patriarcalismo, inteso come specifica espressione del potere all’interno della comunità. La comunità tönniesiana è determinata così da una «radice», espressa nella forma più chiara dal rapporto materno, che ne stabilisce i caratteri, per così dire, ideali, e da una realtà persistente che è la loro tendenziale negazione, dal momento che «la paternità [Vatertum] fonda nella forma più pura l’idea del dominio [Herrschaft] nel senso comunitario»43. Sebbene il potere paterno non sia necessariamente impiegato a esclusivo vantaggio del suo detentore, ma piuttosto come ausilio per i suoi compiti educativi, esso apre all’interno della comunità lo spazio di una subordinazione e di una gerarchia fondate sulla dignità originaria della figura paterna. Se viene considerato come potestas, 41 Tönnies, Comunità e società, cit., p. 51. Ma cfr. anche Id., Die sittliche Bestimmung der Frau, in «Ethische Kultur», 3, 1895, pp. 25-27 e Id., Geist der Neuzeit (1935), in Ferdinand Tönnies Gesamtausgabe, Berlin-New York, De Gruyter, 1988, vol. XXII, pp. 3-223, in part. pp. 27-30. 42 Tönnies, Comunità e società, cit., p. 257. 43 Ibid., p. 53. 4. la sociologia dell’individuo 137 cioè come potere sui figli, esso è l’origine della possibilità di un potere che si prende cura di coloro che, venendo considerati come inferiori, sono soggetti al suo comando, perché vengono «sentiti soltanto come una frazione o parte integrante». Se viene invece inteso come manus, ovvero come potere maritale, esso stabilisce la necessità di un soggetto che «è l’autore principale di un’opera per la quale ha bisogno di aiuto. In questa ipotesi egli associa a sé, ove sia possibile, individui pari a lui, ponendoli pur sempre sotto la sua tutela e la sua dipendenza»44. Queste sono perciò le forme tipiche del potere comunitario che non è mai astrazione normativa, ma sempre potere sui corpi, poiché non vi è differenziazione tra il singolo e la sua funzione, tra la possibilità di scegliere il proprio agire e ciò che viene percepito come obbligo. Già per la forma di espressione della volontà essenziale, «ogni potere comporta un dovere», nel senso che non si dà apertura su di una gamma illimitata di possibilità, ma piuttosto coazione, già interiorizzata, ad agire in una determinata direzione. Il tipico agire in comunità è quindi un perseverare in conformità al dovere, che, tuttavia, non è mera abitudine, ma è costume [Sitte], nel senso di una volontà che sceglie la continuità di un comportamento determinato. Risalta così il profondo legame con il passato che caratterizza la norma comunitaria stabilita dal costume. Essa non possiede infatti una legittimità fondata sulla qualità del comando, come è nel caso delle norme stabilite da un’istituzione razionale o anche dalla volontà di un uomo; essa è piuttosto – e letteralmente – consentita dalla continuità dell’obbedienza. «Il primo pensiero non è che gli antenati l’abbiano voluto o ordinato, bensì che sia comandato perché essi l’hanno fatto»45. In questo modo la necessità dell’azione compiuta impone la presenza fisica delle figure che incarnano l’autorità, sia essa quella del padre, del prete o dell’anziano, perché la norma non vale in sé e nemmeno perché viene “detta”, come nel caso della legge nei moderni ordinamenti giuridici, ma solamente perché 44 Ibid., 45 F. p. 232. Tönnies, Die Sitte, Frankfurt a.M., Rütten und Loening, 1909, p. 17. 138 la società come ordine tanto chi comanda, quanto chi obbedisce, itera un comportamento passato. È evidente, dunque, che la comunità non sottintende una condizione di uguaglianza tra tutti i suoi membri; al contrario in essa esistono delle «disuguaglianze reali», che non possono venire percepite come contraddizione rispetto alla distribuzione sociale dei ruoli: «esse non possono estendersi oltre un certo limite, perché al di là di esso viene soppressa l’essenza della comunità in quanto unità del differente»46. Nella comunità tanto il dominio, a partire da quello paterno, quanto la disuguaglianza sono possibili nella misura in cui non mettono in discussione la concordia47 e il costume, cioè fino a che non annunciano la nascita di figure individuali che con il loro agire aprono la strada alla differenziazione consapevole. Dal punto di vista storico, Tönnies considera perciò rapporti comunitari quello tra padrone e servo nelle società di antico regime, le relazioni all’interno delle corporazioni e delle gilde, così come quelle all’interno del villaggio, mentre la città della prima età moderna è il luogo di passaggio dove si manifesta per la prima volta l’individualità societaria. In essa infatti compaiono figure come il laico, lo straniero, l’ebreo, la cui presenza non ha storicamente il valore di quella di un ospite, ma vale come eccezione reale che annuncia il cambiamento radicale. Compaiono soprattutto le figure prodotte dalla frantumazione del mondo artigiano organizzato nelle corporazioni: in primo luogo gli imprenditori, che nascono dal mutamento di ruolo sociale e di funzione dei maestri artigiani. È tuttavia il garzone a rendere evidente la nuova situazione: spesso fuggito dalla campagna in città per essere libero dai vincoli feudali, ora egli è completamente conscio delle sue capacità e possibilità e manifesta con la sua persona che «l’individualismo aspira a uscire dalla comunità che 46 Tönnies, Comunità e società, p. 61. può chiamare concordia o spirito di famiglia (concordia, in quanto associazione e unità di cuore), una forma complessiva della volontà comunitaria determinante che è diventata così naturale come la lingua stessa, e che quindi riunisce in sé una molteplicità di comprensioni e ne fornisce la misura mediante proprie norme» (ibid., p. 64). 47 «Si 4. la sociologia dell’individuo 139 lo opprime e lo ostacola»48. Viene così aperta la strada a soggetti individuali e a forme di rapporto che considerano il passato come pesante ipoteca da cui liberarsi. Se dunque la società è caratterizzata da una temporalità dominata dalla prefigurazione e quindi dalla continua appropriazione del futuro, la comunità investe completamente sul passato. Per entrambe il presente è così qualcosa da vivere in funzione di un altro tempo che gli dà significato. È questa zona temporale non transitabile a permettere la loro occasionale e precaria sovrapposizione, già insita nel fatto che i rapporti comunitari, come accennato, non solo sono storicamente precontrattuali, ma anche sociologicamente acontrattuali. Nel presente, che è oramai un presente innegabilmente societario, se nei rapporti comunitari prevale l’elemento del dominio e il consentire si trasforma in inimicizia, la normazione del costume viene automaticamente sostituita dalla mediazione giudiziaria. A questo punto la sentenza di un giudice – quindi di un’istanza esterna al rapporto, che considera le parti come quelle astrattamente uguali di un rapporto contrattuale – diviene l’unico modo per mantenere la pace e, allo stesso tempo, la potente obliterazione di ogni normatività che faccia riferimento non solo al costume, ma, più in generale, a ogni altra possibile normazione sociale. A questo punto, tuttavia, l’individuazione di una normatività estranea all’ordine della legge societaria presenta un doppio problema. Da una parte, infatti, vi è tutta quella tradizione filosofica e giuridica tedesca che, durante l’Ottocento, ha affermato un fondamento etico del diritto49; dall’altra parte appare inattuale riproporre semplicemente il costume come fonte di un diritto non 48 Tönnies, Geist der Neuzeit, cit., p. 37. quanto dal punto di vista della sua genesi il diritto sia sempre stato pensato come poggiante sull’eticità [Sittlichkeit] o inscindibile da essa, i pensatori romantici e della restaurazione volevano pensarlo anche dal punto di vista teorico esclusivamente in questo senso. Essi avevano ragione che esso deve essere concepito anche in questo modo. Ma inutilmente si sforzano di rappresentare il diritto di una società capitalistica come riempito di contenuto etico [von sittlichem Inhalt]» (F. Tönnies, Gemeinschaft und Individuum (1914), in Id., Soziologische Studien und Kritiken, Jena, Fischer, 1926, vol. II, pp. 200-208, p. 202). 49 «Per 140 la società come ordine contrattuale, perché grazie a esso la comunità ha conosciuto il dominio e la disuguaglianza. Tönnies vuole perciò evitare sia la frettolosa deduzione di ogni Sittlichkeit dalla Sitte, sia stabilire una precisa delimitazione nei confronti delle norme dell’ordinamento giuridico societario. Proprio per questo, quando egli distingue: i rapporti etici [sittlich] da quelli giuridici, il termine “etico” [sittlich] ha un senso sociologico e non è ethisch. Esso deve riassumere solo quei rapporti sociali che, nella loro essenza, non sono sottoposti alla conoscenza giudiziaria, oppure non hanno ancora raggiunto un tale riconoscimento50. La precisazione non è evidentemente solo terminologica. Essa è ancora una volta motivata in primo luogo dalla centralità che la sociologia tönniesiana dell’«individuo razionale» riconosce ai rapporti; infatti, intendere sittlich come mero riferimento all’etico, cioè come parte di un ordinamento complessivo, significherebbe assumere, come già accade nel diritto, un punto di vista che attribuisce il primato alla norma invece che ai soggetti concretamente presenti. Inoltre, il fatto che la decisione giudiziaria rappresenti la soglia oltre la quale non è più possibile pensare una norma sittlich, mostra quanto sia vero che, come si è detto, all’interno dell’antitesi tra comunità e società, la priorità logica spetta comunque alla seconda. Infatti, la normatività comunitaria non è oramai più in grado di stabilire un criterio paritetico o addirittura totalmente alternativo rispetto all’imperante normazione giuridica, ma può darsi solamente come sottrazione rispetto a essa. In questo modo, tuttavia, sebbene non esista per Tönnies alcuna possibilità di reintegrazione comunitaria dei rapporti societari, il riferimento alla comunità e alla sua etica non giuridica si pone come correlato critico di quei rapporti; esso cessa di essere una superstizione societaria, per indicare uno spazio aperto alla trasformazione, nel momento in cui il diritto si presenta come il lessico dell’ordine della società. 50 Ibid., p. 203. Cfr. C. Bickel, Soziologie und Ethik bei Tönnies. Seine Auseinandersetzung mit zeitgenössischen Strömungen der Sozialethik, in H. Holzhey (Hrsg.), Ethischer Sozialismus. Zur politischen Philosophie des Neukantismus, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1994, pp. 238-282. Capitolo quinto Storia e sistema: il lavoro 1. Un oscuro desiderio di libertà Nella seconda metà dell’Ottocento il lavoro diventa definitivamente il luogo di determinazione dei ruoli sociali, imponendosi come concetto d’ordine per eccellenza, ovvero come rapporto grazie al quale vengono stabiliti il valore e l’articolazione del singolo nella società. Esemplare è in questo senso la definizione data nel 1875 da Gustav Schmoller: L’odierno concetto di lavoro, anche quello puramente individualistico, ha al contrario un contenuto etico; chiamiamo lavoro quell’attività razionale che, con uno sforzo duraturo, aspira a operare qualcosa di legittimamente riconosciuto all’interno del sistema degli scopi umani, essendo in un certo senso divenuto uno scopo in sé, valendo per noi come scuola di tutte le virtù, come sostegno di ogni proprietà e come fondamento della nostra organizzazione sociale1. L’identificazione di un contenuto etico del lavoro si scontra tuttavia con quelle lotte e quei comportamenti operai che, anche 1 G. Schmoller, Über einige Grundfragen des Rechts und der Volkswirtschaft. Ein offenes Sendschreiben an Herrn Professor Dr. Heinrich von Treitschke, Jena, Druck und Verlag von Friedrich Mauke, 1875, p. 33. Sulla controversia tra Schmoller e Treitschke rimando a M. Ricciardi, Bürgerschaftsrecht des arbeitenden Individuums? Die Legitimation der Gesellschaft im deutschen sozialwissenschaftlichem Diskurs in Auseinandersetzung mit dem „englischen Modell“, in M. Kirsch, A.G. Kosfeld, P. Schiera (Hrsg.), Der Verfassungsstaat vor der Herausforderung der Massengesellschaft – Konstitutionalismus um 1900 im europäischen Vergleich, Berlin, Duncker & Humblot, 2002, pp. 391-406. 142 la società come ordine quando assumono l’attività lavorativa come principio d’identità individuale e collettiva, mostrano una scarsa tensione a confermare il sistema di quegli scopi societari che Schmoller assume come genericamente umani. Sembra quasi che quanto più viene legittimato come fattore costituzionale dell’ordine della società e del suo Stato, il lavoro si presenti come momento di indisciplina che la coazione del bisogno e del comando non bastano a regolare2. Si potrebbe dire che non risulta più immediatamente evidente la subordinazione del lavoro alla società che, come abbiamo visto, la scienza sociale degli idéologues aveva tanto fiduciosamente postulato. Già nei suoi studi sulla condizione dei lavoratori agricoli della Germania del suo tempo, Max Weber è consapevole della grande trasformazione soggettiva che si è prodotta presso quei lavoratori che si sono almeno parzialmente liberati dagli obblighi derivanti dalla costituzione del lavoro fondata sulla dipendenza personale dal proprietario terriero. Essi, scrive Weber: «hanno conosciuto la libertà, ed è evidente che essi sono sempre più inclini a sacrificare il loro benessere materiale all’oscuro desiderio di essa»3. Weber non è però così accondiscendente verso questo oscuro desiderio di libertà, perché esso gli appare come una rottura senza risarcimenti dell’unità etica che collegava proprietari e contadini nel patriarcalismo agrario. La sua soluzione negli anni Novanta non va oltre la richiesta al Reich guglielmino di comprendere fino in fondo la propria ragion di Stato, promuovendo la formazione di un ceto di contadini autonomi, invece di permettere la nascita di un proletariato agrario che si sarebbe inevitabilmente confrontato con i grandi proprietari terrieri, favorendo per di più una sempre più vasta immigrazione di lavoratori polacchi e russi4. Ciò che però lo colpisce veramente è la situazione che si stabilisce 2 Si vedano le interessanti annotazioni di G. Maifreda, La disciplina del lavoro. Operai, macchine e fabbriche nella storia italiana, Milano, Bruno Mondadori, 2007. 3 M. Weber, Dalla terra alla fabbrica. Scritti sui lavoratori agricoli e lo Stato nazio­ nale (1892-1897), Roma, Laterza, 2005, p. 155. 4 Cfr. S. Mezzadra, Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, Verona, Ombre corte, 20062, pp. 9-46. 5. storia e sistema: il lavoro 143 nel passaggio dal dominio patriarcale e personale al lavoro inteso quale obbligo contrattuale, duraturo e senza alternative. Nella zona d’ombra in cui vivono i proletari agricoli che, avendo intravisto la libertà sono disposti a sacrificarle anche il loro benessere materiale, scompare ogni accezione del lavoro come dovere. «Nella mente di questi uomini il concetto di lavoro si separa completamente dal concetto di dovere; l’uomo penserebbe di vendersi, se assumesse il lavoro come dovere contrattuale duraturo». In questo modo viene portato alle sue estreme conseguenze l’individualismo del lavoro, mostrandone in definitiva il carattere di impossibile proprietà personale. Paradossalmente l’individuo che lavora per sé, non lavora per la società. L’uomo lavora nel suo proprio interesse; se non lavora non guadagna nulla, in certe circostanze soffre la fame o si impone restrizioni, ma non commette una violazione di un dovere che grava su di lui e che lui stesso sente come tale; quando lavora, lo fa magari effettivamente perché deve, ma secondo il suo modo di vedere lo fa perché gli piace5. Weber è consapevole che il «concetto peculiarmente prussiano del “dannato obbligo e dovere”», da lui richiamato poco oltre con qualche nostalgia, non è restaurabile nel lavoro agricolo e, tanto meno, nel lavoro industriale. Con un’attitudine non molto diversa da quella che impronta le sue ricerche sulla protostoria dell’imprenditorialità capitalistica, l’interesse weberiano verso le trasformazioni del lavoro è in primo luogo motivato dalla necessità di scoprire al loro interno la persistenza o la produzione di un qualche movente etico. Weber lo cerca tanto negli individui messi al lavoro, quanto negli individui che lavorano, ovvero indagando sia il lavoro come insieme di mansioni tecniche per la produzione di merci, sia quale attività cooperativa sebbene subordinata alla direzione imprenditoriale. Il luogo delle specifiche ricerche weberiane è la fabbrica tessile di Oerlingenhausen, nella quale Weber «si immerge nell’esame dei libri paga e dei registri orari del telaio, calcola con alacrità le curve delle prestazioni orarie, giornaliere 5 Weber, Dalla terra alla fabbrica, cit., p. 68. 144 la società come ordine e settimanali dei tessitori, allo scopo di sondare le cause psicofisiche delle variazioni di produttività»6. L’interesse weberiano per l’organizzazione del lavoro all’interno di una grande impre­sa capitalistica ha doppia matrice. La prima è intimamente collegata ai suoi studi sulle peripezie dello spirito del capitalismo, mentre la seconda è la grande inchiesta promossa dal Verein für Sozialpolitik sulle condizioni del lavoro industriale dentro e fuori la fabbrica. La fabbrica di Oerlingenhausen gli offre la possibilità di coniugare i suoi interessi scientifici con i progetti del Verein, non sempre condivisi nella loro imposta­zione. E si tratta di un luogo particolarmente favorevole. L’imprenditore che vi orga­nizza la produzione e il lavoro, dedicando parte «della sua vita laboriosa all’educazione e al benessere dei propri operai», come annota sempre Marianne Weber, è «un uomo sinceramente giusto, formato all’etica puritana»7. Almeno inizialmente è questa figu­ra soggettiva il centro dell’interesse weberiano. Come aveva chiarito pochi anni prima, questo tipo di imprenditore aveva scelto l’ascesi intramondana, divenendo all’alba della modernità il testimone e promotore di una condotta di vita8 alla quale, invece, i poveri erano obbligati, non solo dalle condizioni materiali in cui vivevano, ma anche dalle convinzioni e dalle attività dei ricchi calvinisti puritani. Già Calvino, infatti, aveva stabilito una cogente simmetria tra povertà e obbedienza a Dio, mentre gli «Olandesi (Pieter de la Court e altri) avevano secolarizzato questo concetto nel senso che la massa degli uomini lavorerebbe soltanto se a ciò li costringe la necessità, e questa formula­zione di un motivo ispiratore dell’economia capitalistica sfociò poi ulteriormente nella corrente della teoria della “produttività” dei bassi salari»9. Avviene così, secondo Weber, la transizione da un’etica che riconosce il proprio fondamento 6 Marianne Weber, Max Weber. Ein Lebensbild, Tübingen, Mohr, 19843; trad. it. Max Weber. Una biografia, Bologna, il Mulino, 1995, p. 414. 7 Ibid., p. 472. 8 Cfr. P. Schiera, La conception weberienne de la discipline et le thème de la “Lebens­führung”, in «Scienza & Politica», 8, 1993, pp. 73-91. 9 Weber, L’etica protestan­te e lo spirito del capitalismo, cit., pp. 187-188. 5. storia e sistema: il lavoro 145 religioso a quell’etica utilitaristica che diviene il principio motore dell’economia capitalista e della sua società. Non cambia molto, tuttavia, se mercanti e imprenditori calvinisti hanno po­tuto rispondere “liberamente” alla loro vocazione, mentre i lavoratori sono stati costretti a un ascetismo involontario dalle coazioni della loro condizione. Alla fine l’opera di disciplinamento esterno ottiene gli stessi risultati dell’autodisciplinamento10. «La considerazione del lavoro come “professione” diventò per l’operaio moderno al­trettanto caratteristica quanto per l’imprenditore la corrispondente concezione del profitto»11. Non esiste dunque una differenza di destino tra operai e imprenditori, anche se la simmetria che Weber stabilisce tra capitalisti e operai nella comprensione delle loro differenti professioni si fonda su un’altrettanto esplicita asimmetria, dato che lo stile di vita che pone in diretta relazione azione e rinuncia è per lui fondato su un «mo­tivo ascetico fondamentale dello stile di vita borghese»12. D’altra parte già la «limita­zione al lavoro qualificato», che dovrebbe evidenziare la rinuncia quale tratto specificamente moderno della soggettività borghese, non è una scelta che ogni operaio può compiere solo sulla base delle proprie capacità e inclinazioni. Siamo così di fronte a un campo di tensione che da una parte congiunge precariamen­te l’originaria etica protocapitalistica dei protestanti puritani con gli sviluppi utilitaristici del capitalismo stesso, mentre dall’altra pone la diversità strutturale dei soggetti che a­bitano l’universo capitalistico, interrogandosi tanto sulle loro concrete occupazioni quanto sul loro attuale stile di vita. Se nei confronti dell’etica protocapitalistica non è possibile alcuna nostalgia, ma piuttosto un interesse presente a riattivarla, nei confronti dell’utilitarismo contemporaneo non è pensabile alcuna condanna, perché esso descrive realisticamente, e in maniera in definitiva inconfutabile, la smania acqui­sitiva e senza rinunce 10 Sul significato storico-costituzionale del processo moderno di disciplinamento cfr. P. Schiera, Specchi della politica. Disciplina, melancolia, socialità nell’Occidente mo­derno, Bologna, il Mulino, 1999. 11 Weber, L’etica protestan­te e lo spirito del capitalismo, cit., p. 189. 12 Ibid., p. 191. 146 la società come ordine che definisce ogni individuo. Questa polarità stabilisce così da una parte l’internità critica e sempre problematica di Weber al modo di intendere l’economia proprio della Scuola storica che faceva capo a Gustav Schmoller, dall’altra l’attenzione, sebbene a distanza, all’affermarsi definitivo della rivoluzione marginalista. Schmoller e in definitiva lo stesso Verein für Sozialpolitik rischiavano sempre di sovra­determinare l’agire economico individuale a partire da un’etica dell’agire collettivo che culminava nella valorizzazione storicamente determinata della capacità di mediazione burocratica e statale. D’altra parte i marginalisti, e in particolare Carl Menger, eserci­tano un’attrazione scientifica notevole su Weber. Loro è, infatti, la teorizzazione di un soggetto idealtipico, le cui scelte non sono interpretate naturalisticamente secondo una psicologia e tanto meno sulla scorta di un’etica, ma come calcolo razionale dei costi e dei benefici che ogni scelta comporta. L’astrazione scientifica di un homo oeconomicus, costantemente alla ricerca razionale del proprio massimo utile, consente di interpretare oggettivamente il soggetto necessario del capitalismo contemporaneo13. A questa posizione scientifica, tuttavia, per quanto più logicamente coerente di quella schmolle­ riana, nella quale in continuazione i giudizi di valore s’incaricano di collegare e legit­timare proposizioni altrimenti contraddittorie, manca quel «fondamento decisivo nella vita personale»14 che Weber aveva cercato di rintracciare nella sua ricerca sul Le­bensstil che aveva improntato il nascente capitalismo. Il campo di tensione è così defi­nito dalla polarità tra una scienza 13 Questa tensione weberiana emerge molto chiaramente in Die Grenznutzlehre und das „psychophysiche Grundgesetz“ (1908), poi in Gesammelte Aufsätze für Wissenschaftslehre, cit., pp. 384-399; trad. it. La teoria dell’utilità mar­ginale e la «legge fondamentale della psicofisica», in Id., Saggi sulla dottrina della scienza, Bari, De Donato, 1980, pp. 143-159. Cfr. anche M. Zafirovski, Max We­ber’s Analysis of Marginal Utility Theory and Psychology Revisited: Latent Propositions in Economic Sociology and the Sociology of Economics, in «History of Political Econ­omy», 33, 2001, pp. 437-458 e W. Feuerhahn, Sociologie, économie et psychophy­sique. Une lecture de «La théorie de l’utilité marginale et la loi fondamentale de la psychophysique» de Max Weber, in «Revue française de sociologie», 46/4, 2005, pp. 783-797. 14 Weber, Antikritisches Schlußwort zum «Geist des Kapitalismus», cit. p. 296. 5. storia e sistema: il lavoro 147 economica, quella marginalista, secondo Weber as­solutamente in grado di dare conto della realtà acquisitiva del suo tempo, e un’altra, quella storica, che riconosce la necessità di un’etica, ma, ignorando la centralità, per Weber inderogabile, dell’individuo, finisce per produrre un discorso scientifico conti­nuamente sovradeterminato politicamente15. Questo campo di tensione attraversa tutta l’opera weberiana e di esso fa parte anche la frattura tra chi ha scelto il Beruf e chi vi è stato obbligato, che evidentemente rappre­senta allo stesso tempo una cesura interna al Geist capitalistico e che motiva invece l’interesse di Weber verso il ceto imprenditoriale del suo tempo. In questo senso, quando l’inchiesta del Verein è ancora in fase di gestazione, Weber scrive al fratello dichiarando quali sono le sue priorità nella ricerca. La sua idea è di proporre un’inchiesta sulla situazione del lavoro intellettuale nella grande industria moderna [Lage der geistigen Arbeit in der modernen Großindustrie]. Questa «etichetta popolare» dovrebbe, però, coprire un’indagine che si rivolge in primo luogo alla «struttura inter­na e alle chance di vita che la grande industria chiusa forma ovvero crea», e ai «più diversi strati superiori del personale complessivo della grande industria: inclusi gli stessi imprenditori secondo la misura e il tipo delle esigenze spirituali [geistig] che affrontano, le loro necessità di formazione ecc.». Il termine geistig è utilizzato qui da Weber in ri­ferimento al lavoro specificamente intellettuale all’interno della grande impresa, per cui per la stessa preparazione del questionario sono già rilevanti «chimici, ingegneri ecc. e “impiegati” con mansioni direttive», ma lo stesso termine lascia trapelare l’altra sua connotazione semantica che rimanda a quel Geist storicamente specifico e deter­minato di cui Weber vuole osti- 15 Cfr. W. Hennis, Max Weber Fragestellung. Studien zur Biographie des Werks, Tübingen, Mohr, 1987, pp. 117-166 e Id., «Die volle Nüchternheit des Urteils». Max Weber zwi­schen Carl Menger und Gustav Schmoller. Zum hochschulpolitischen Hintergrund des Wertfreitheitspostulats, in Max Webers Wissenschaftslehre. Interpretation und Kritik, hrsg. von G. Wagner, H. Zipprian, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1994, pp. 105-145; K. Tribe, Strategies of Economic Order. German Economic Discourse 17501950, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1995, pp. 66-94. 148 la società come ordine natamente rintracciare la storia. Siamo così di fronte al doppio registro che stabilisce il tono di tutta la ricerca weberiana. Con un’ineluttabile priorità alla quale non si può sfuggire, la struttura oggettiva dei rapporti sociali moderni, quella struttura che, divenuta «la gabbia d’acciaio», racchiu­de e obbliga ogni tipo di agire che non miri a estraniarsi totalmente dalle sue regole. Allo stesso modo essa opera sulla vicenda soggettiva degli individui che hanno ampiamente contribuito a co­struire questa struttura, ma che, allo stesso tempo, forse, conservano una traccia dello spirito originario e della corrispondente etica che li ha spinti all’azione. Già gli impie­gati rientrano in questa ricerca in maniera più obbligata che necessaria, data non solo la difficoltà di occuparsi delle loro richieste e rivendicazioni, ma anche il fatto che il lasciarli da parte farebbe mancare «l’olio lubrificante per tenere la cosa in moto all’interno del Verein, per come è ora»16. In questo quadro generale per Weber dovrebbe collocarsi l’inchiesta. Il suo impegno si limita in realtà alla redazione di un promemoria per i ricercatori sul campo e a un lungo saggio nel quale, discutendo i risultati della psicologia del lavoro contempora­nea, riporta anche gli esiti delle sue ricerche nella fabbrica di Oerlingenhausen. Ri­spetto alle sue intenzioni iniziali l’inchiesta finisce perciò per battere altre strade, al punto che egli non sarà tra i curatori dei volumi frutto dell’indagine, né sarà presente alla loro presentazione e discussione17. D’altra parte anche il suo specifico lavoro d’inchiesta non si muove lungo le direttrici che quella lettera esplicitava. Come scriveva Marianne Weber, si trattò di una lunga e attenta analisi del lavoro di fabbrica, seb­bene nella sua ricerca sul campo Weber non abbia 16 Max ad Alfred Weber, 3 settembre 1907, in Weber, Briefe 1906-1908, cit., p. 383. 17 Cfr. N.M. De Feo, Riformismo Razionalizzazione Au­tonomia operaia. Il Verein für Sozialpolitik 1872-1933, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 1992, pp. 199-219; I. Gorges, Sozialforschung in Deutschland 1872-1914. Gesellschaftliche Einflusse auf Themen- und Methodenwahl des Vereins für Sozialpolitik, Königstein/Ts., Hain, 1980, pp. 457-470; D. Lindenlaub, Richtungskämpfe im Verein für Sozialpolitik im Kaiserreich vornehmlich vom Beginn des ‘neuen Kurses’ bis zum Ausbruch des ersten Weltkrieges, 1890-1914, Wiesbaden, Steiner, 1967, pp. 137 sgg. 5. storia e sistema: il lavoro 149 intervistato direttamente i lavorato­ri della grande impresa. A questa scelta contribuiscono diversi fattori. In primo luogo si deve notare che essa si discosta dal precedente più prossimo della ricerca sociologi­ca tedesca che aveva trovato voce anche all’interno del Verein. Pochi anni prima, nel 1903, infatti, Ferdinand Tönnies nel suo contributo all’inchiesta sulla gente di mare aveva sostenuto che «la fonte principale per una ricerca sulla condizione sociale di un determinato gruppo o classe è tuttavia necessariamente quella stessa classe»18. È evidente che le situazioni e le posizioni sono assolutamente diverse. Nel 1896-97 Tön­nies si era buttato nella mischia dello sciopero di Amburgo mettendo a repentaglio, nelle condizioni stabilite dalle leggi antisocialiste, e soprattutto dalla Umsturzvorlage del 17 dicembre 1894, non solo la sua carriera accademica, ma anche la sua più generica accettabilità nei circoli scientifici. Già all’epoca aveva prodotto una serie di saggi che rompevano con la tradizione di studi sulla condizione della classe operaia costituita da narrazioni delle privazioni e dello sfruttamento di cui era oggetto, per cercare di mo­strare lo stesso punto di vista operaio così come emergeva da una durissima lotta19. Weber non disconosce la necessità di ricostruire il punto di vista soggettivo di parte operaia. Anzi insiste affinché i ricercatori del Verein producano interviste strutturate che raccolgano la voce dei lavoratori, ma è soprattutto convinto che a essere restituito debba essere il quadro oggettivo dei rapporti. Il ricercatore non dovrà interrogarsi sulla legittimità di eventuali rivendicazioni degli operai, ma cercare di ricostruire 18 Cfr. F. Tönnies, Die Ostsseehäfen Flensburg, Kiel, Lübeck, in Die Lage der in der Seeschifffahrt beschäftigen Arbeiter, (Schriften des Vereins für Sozialpolitik), vol. 104, I Abt., T. 1, Leipzig-Berlin, Duncker & Humblot, 1903, pp. 509-614, p. 515. Per la ricostruzione delle diverse stagioni della “sociologia del lavoro” tedesca rimane fondamentale H. Schuster, Industrie und Sozialwissenschaft. Eine Praxisgeschichte der Arbeits- und Industrieforschung in Deutschland, Opladen, Westdeutscher Verlag, 1987. 19 Cfr. F. Tönnies, Der Hamburger Strike von 1896/97, in «Archiv für soziale Ge­setzgebung und Statistik», 10, 1897, pp. 173-238; Id., Die Enquête über Zu­stande der Arbeit im Hamburger Hafen, in «Archiv für Gesetzgebung und Statistik», 12, 1898, pp. 303-348. 150 la società come ordine la loro ge­nesi e il loro rapporto con l’organizzazione complessiva dell’impresa, così come la vi­cenda individuale del singolo operaio. Esse dovranno in definitiva essere considerate e analizzate come «sintomi di attriti insiti nel processo di sviluppo»20, dovranno cioè essere inquadrate sullo sfondo di un movimento oggettivo di razionalizzazione dei rap­porti di lavoro che non potranno in nessun caso trascendere. D’altra parte Weber è consapevole sia delle difficoltà che porrebbe a lui il rapporto con gli operai, sia degli ostacoli che porrebbero gli imprenditori. Quest’ultimo impe­dimento gli era già stato chiaro in occasione dell’inchiesta sui lavoratori agricoli a est dell’Elba, di cui abbiamo già parlato. Già allora, infatti, aveva dovuto accontentarsi del «punto di vista che datori di lavoro agricoli capaci e senza dubbio benevoli danno riguardo alla condizione dei loro lavoratori», affidandosi ai pastori e alla fiducia di cui godevano all’interno delle comunità per ricostruire il «punto di vista soggettivo dei lavoratori»21. Accanto all’atteggiamento diffidente degli imprenditori, che si ripeterà anche in questa occasione, determinando il sostanziale fallimento dell’inchiesta del Verein22, vi sono tuttavia motivazioni legate allo stesso rapporto tra il ricercatore sociale e i sog­getti da intervistare, dal momento che la distanza politica tra le due figure finisce per influenzare in maniera determinante non solo le risposte, ma anche la loro successiva interpretazione da parte del 20 M. Weber, Erhebungen über Auslese und Anpassung (Berufwahl und Berufschick­sal) der Arbeiterschaft der geschlossenen Großindustrie, in Id., Gesamtausgabe, cit., Abt. 1: Schriften und Reden, vol. 11: Zur Psychophysik der industriellen Arbeit. Schrif­ten und Reden 1 908-1912, hrsg. von W. Schluchter in Zusammenarbeit mit Sabine Frommer, Tübingen, Mohr, 1995, pp. 78-149; trad. it. Introduzione metodologica alle ricerche del “Verein für Sozialpolitik” sulla selezione e l’adattamento della manodopera (scelte professionali e curriculum professionale) nella grande industria “chiusa” in Id., Metodo e ricerca nella grande industria, Milano, FrancoAngeli, 1983, pp. 67-119, p. 69. La traduzione italiana è stata in alcuni casi modificata. Cfr. ora l’ottimo lavoro di M. Basso, Natura e disciplinamento. Max Weber sul lavoro industriale, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», 39, 2009, pp. 125-140. 21 Weber, Dalla terra alla fabbrica, cit., p. 39. 22 Cfr. Schuster, Industrie und Sozialwissenschaft, cit., pp. 213-230. 5. storia e sistema: il lavoro 151 ricercatore. In questo senso, parlando del volume di interviste di Adolf Levenstein, ricercatore sociale e militante socialdemocratico, Weber ri­leva che quest’ultimo «in quanto “compagno” può utilizzare il “tu”», stabilendo una vi­cinanza altrimenti impossibile per il ricercatore esterno. Le conseguenze di questa distanza emergono sul piano dell’interpretazione dei dati raccolti, nel momento in cui le aspirazioni, i desideri, le rappresentazioni degli operai appaiono talmente diversi dalle dottrine ufficiali anche socialiste «che si può correre il pericolo di vedere nel proletario […] solo il “piccolo-borghese” in una situazione di interessi modificata quasi casualmente»23. Ancora una volta è sul terreno dello stile di vita che si giocano le affinità e le differenze. E questa sarà anche l’ultima indicazione data da Weber ai ricercatori del Verein, ricordando loro che lo sviluppo della grande fabbrica induce mutamenti in larga misura indifferenti all’organizzazione capitalistica o socialistica della produzione: «essa esercita sugli uomini e sul loro “stile di vita” degli effetti di vasta portata che le sono specificamente propri». Essa impone, e qui affiora tutta l’insoddisfazione webe­riana per la soluzione marginalista e, allo stesso tempo, la sua ricetta senza prescrizioni di un possibile diverso sviluppo, forme di agire fondate esclusivamente sul calcolo ra­zionale e la riduzione di ogni relazione politica al suo interno al «calcolo privato dei co­sti e dei profitti dell’imprenditore», al punto che l’introduzione di una «qualsiasi forma di “solidarietà” economica comunitaria, modificherebbe radicalmente lo spirito che regna in questa mostruosa gabbia, e nessuno può nemmeno sospettarne le conseguen­ze». Come abbiamo detto, tuttavia, il versante soggettivo che può provocare eventuali deviazioni dagli sviluppi in atto rimane costantemente subordinato all’indagine sull’affermazione oggettiva del capitalismo di fabbrica. L’inchiesta deve quindi accon­tentarsi della consapevolezza che l’apparato di fabbrica «ha trasformato 23 La consapevolezza di queste difficoltà emerge esplicitamente in M. Weber, Zur Methodik sozialpsychologischer Enquêten und ihrer Bearbeitung (1909), ora in Gesamtausgabe, Abt. 1: Schriften und Reden, vol. 11: Zur Psychophysik der in­dustriellen Arbeit, cit., pp. 388-398. 152 la società come ordine il volto spiri­tuale del genere umano sì da renderlo irriconoscibile e lo trasformerà ancora ulterior­mente»24. 2. Psicofisica del lavoro quotidiano Indagare il lavoro industriale ha avuto per lo sviluppo dell’opera weberiana un signifi­cato politico complessivo che va oltre il chiaro intento metodologico che caratterizza gli interventi specifici. Esplicitamente, nel pieno della disputa sui giudizi di valore, Weber sottolinea, infatti, che «il Verein für Sozialpolitik entra con questa ricerca nel campo dei lavori utili a scopi esclusivamente scientifici»25. I contributi che verranno pubblicati dovranno quindi avere uno scopo esclusivamente inerente alla scienza sociale, restan­do lontani da ogni possibile tendenza della politica sociale. Accanto a questa battaglia interna al Verein, gli scritti weberiani contengono una seconda intenzione metodologica. Il loro fine, infatti, è esplicitamente quello di verificare da un lato le ipotesi collegate in gradi diversi all’evoluzionismo sociale di derivazione più o meno darwiniana, mentre dall’altro lato si tratta di segnare i confini con una scienza sperimentale come la psico­logia e, più in generale, fare i conti con il necessario carattere quantitativo delle scien­ze sociali moderne. I dubbi di Weber sulla possibilità di trovare riscontri positivi alle ipotesi evoluzioniste sono molto espliciti. In ogni caso per lui è necessario riconoscere che il “sociale” in quanto terreno di indagine si configura come un campo chiuso, i cui rapporti interni possono avere eventuali cause di ordine storico che devono essere considerate priorita­riamente rispetto a nebulose ipotesi biologiche legate alla ereditarietà del carattere e delle inclinazioni. L’indicazione ai ricercatori è di conseguenza «di non partire da ipo­tesi intorno all’ereditarietà nell’analizzare i fondamenti delle differenze nell’idoneità del lavoro […] è opportuno 24 Weber, Introduzione metodologica alle ricerche del “Verein für Sozialpolitik”, cit., p. 119. 25 Ibid., p. 67. 5. storia e sistema: il lavoro 153 invece incominciare sempre con un’indagine volta ad ac­certare gli influssi dell’origine sociale e culturale, dell’educazione e della tradizione e di procedere fin dove è possibile con questo principio esplicativo»26. Weber si allontana così decisamente dal sostanzialismo che sta alla base di quelle ipo­tesi, giungendo in tal modo anche a prendere le distanze dal fratello, che era invece assai più sensibile tanto all’evoluzionismo sociologico quanto al vitalismo che caratte­rizzava la cultura non solo tedesca dell’epoca. Weber prende molto più sul serio il confronto con la psicologia sperimentale che produce dati con una pretesa di oggettività e quindi comparabili con quelli della ricerca economica. Il serrato confronto avviene in particolare con le opere di Emil Kraepelin e con quelle più significative della sua scuola. Le indagini di Kraepelin, verso il quale Weber mostra a più riprese il massimo rispetto scientifico, approdano alla costruzione di una Arbeitskurve che dovrebbe rappresentare il rapporto tra tempo di lavoro e affa­ticamento. L’idea che la fonda è quella del lavoro come mera fatica fisica, rispetto alla quale si può stabilire in quale periodo della giornata, della settimana, del mese viene concentrato il massimo sforzo. In modo complementare si possono così stabilire, se­condo Kraepelin, i tempi e i modi necessari affinché le energie fisiche e psichiche im­piegate possano essere reintegrate27. Il dispendio di energia viene allo stesso tempo collegato tanto alla capacità di apprendimento delle mansioni quanto all’addestramento del singolo operaio, quanto infine alla possibilità di avere un tempo sufficiente di non lavoro e di sonno. L’obiezione generale, per così dire econo26 Ibid., p. 93. Su questo terreno è d’altra parte massima la distanza dell’impostazione di Weber rispetto a quella di suo fratello Alfred. Sull’impegno di entrambi all’interno del Verein cfr. E. Demm, Max und Alfred Weber im Verein für Sozialpolitik, in W.J. Mommsen, W. Schwentiker (Hrsg.), Max Weber und seine Zeitgenossen, Zürich, Vandenhoeck & Ruprecht, 1988, pp. 137-136. 27 Cfr. E. Kraepelin, Die Arbeitskurve, Leipzig, Engelmann, 1902. Sulle ricerche di Kraepelin cfr. A. Ebbinghaus, Arbeiter und Arbeitswissenschaft: Zur Entstehung der “wissenschaftli­chen Betriebsführung”, Opladen, Westdeutscher Verlag, 1984, pp. 183-187. 154 la società come ordine mica, opposta da Weber a questo approccio è che l’impresa moderna non punta al risparmio di energia, ma a ri­sparmiare sui costi. La fatica fisica non è quindi un problema prioritario nel calcolo della redditività. Anche sul terreno della costruzione dell’ipotesi scientifica vi è un’altra obiezione che vale la pena sottolineare, perché sottintende una presa di posi­zione sulla misurazione della qualità dell’individuo al lavoro che emergerà in tutta chia­rezza come vedremo a proposito delle medie statistiche. Articolare l’indagine psicolo­gica attorno ai criteri della durata e dell’intensità dello sforzo emotivo impedisce l’accesso alla dimensione specificamente individuale della ricerca che, come vedremo, è invece una preoccupazione fondamentale dell’intervento weberiano: «è vero che i vecchi “quattro temperamenti” oggi sono stati perlomeno sostituiti dalle quattro possibili combinazioni di intensità e durata della “situazione emotiva” presente di volta in volta. Tuttavia il contenuto qualitativo insito nei vecchi concetti va in questo modo perso»28. Percorsa da questa tensione quantitativa per stabilire una base oggettiva delle sue ricerche, la psichiatria finisce per considerare il proprio oggetto di studio come se­condario e derivato, inclinando sempre più a considerare «“reali” i processi somatici e [ritenendo] quelli psichici “modi fenomenici” accidentali»29. In questo modo essa evita di interrogarsi sulle motivazioni stesse della scelta lavorativa, come pure sull’accettazione dell’intero destino lavorativo, considerandole come presupposti indi­scussi perché indiscutibili di tutto il suo discorso. Weber, al contrario, 28 Weber, Introduzione metodologica alle ricerche del “Verein für Sozialpolitik”, cit., p. 88. 29 M. Weber, Zur Psychophysik der industriellen Arbeit, in Gesamausga­be, Abt. 1: Schriften und Reden, cit., pp. 162-380, p. 226; trad. it. Sulla psicofisica del lavoro industriale, in Weber, Metodo e ricerca nella grande industria, cit., pp. 121-297, p. 168. Nonostante questa pregnante critica un discorso a parte meriterebbe il rapporto specifico di Weber con la psicologia e, soprattutto, con la psicanalisi, così come per esempio emerge nella celebre lettera a Else Jaffé del 13 settembre 1907 (cfr. Weber, Briefe 1906-1908, cit., pp. 393-403). Cfr. anche S. Frommen, Bezüge zu experimenteller Psychologie, Psychiatrie und Psychopathologie in Max Webers methodo­logischen Schriften, in Max Weber Wissenschaftslehre, cit., pp. 239-258. 5. storia e sistema: il lavoro 155 pur consapevole della difficoltà di una regressione causale che giunga fino alle basi motivazionali delle azioni, le considera un dato irrinunciabile quando si voglia risalire ai motivi che hanno prodotto per esempio un accordo sul cottimo. La distanza che Weber stabilisce tra il suo metodo individualizzante e le regolarità presupposte dalla psicologia sperimentale si rispecchia peraltro nella critica puntigliosa all’utilizzazione delle medie statistiche per descrivere i fenomeni di massa. Vi è infatti per lui una relazione non scontata tra le ricerche sui casi singoli e le emergenze di massa. Quando Weber afferma che è ne­cessario «orientarsi costantemente verso le medie», per distinguere «ciò che è totalmente singolare da ciò che è generalmente eccezionale», annuncia in modo chiarissimo la sua attenzione per la singolarità, per quella espressione individuale che deve servire da fondamento di ogni esemplificazione dei fenomeni collettivi. Per Weber è assodato che «l’indagine sul caso singolo ha principalmente, allo stato attuale dei problemi, un valore e un senso di “critica dei numeri”»30. L’analisi dei rapporti di fabbrica mo­stra in modo assolutamente chiaro che i metodi esclusivamente quantitativi della psico­logia sperimentale non possono divenire patrimonio di tutte le scienze sociali anche perché essa opera all’interno di laboratori, nei quali riesce a controllare pienamente i propri esperimenti, mentre le seconde devono fare i conti con la dimensione immedia­tamente di massa dei fenomeni. Affermare questa dimensione non significa tanto per Weber contestare la validità dei risultati ottenuti sperimentalmente; non significa cioè negare in assoluto l’attendibilità scientifica delle prove sperimentali; significa piuttosto sottolineare la specificità dei rapporti di fabbrica. Qui, infatti, la dimensione di massa esprime una serie di variabili sul piano delle motivazioni, dell’organizzazione e dei rapporti di potere che non solo sono difficilmente misurabili, ma che rimandano anche al carattere immediatamente politico del rapporto di lavoro. La psicologia sperimentale paradossalmente assume una prospettiva ecces30 Weber, Sulla psicofisica del lavoro industriale, cit., p. 185. 156 la società come ordine sivamente individualizzante31. Essa riduce ogni singolo alla dimensione naturalistica dell’animale da lavoro o, per meglio dire, a quello artificiale della macchina umana e ignora non solo le motivazioni che fanno di ogni singolo un individuo, ma anche il quadro complessivo nel quale si inseriscono dando loro senso32. Essa così si sottrae alla comprensione di quelle indivi­dualità storiche che, senza avere una costituzione organicamente stabile e definita, sono tuttavia presenti come fenomeni di massa che raccolgono una pluralità per quanto disomogenea di individui attorno a un’unica e determinata azione storica che rimane comunque per Weber attribuibile agli individui che la compongono33. Per restare all’interno di quella che sarà la sistemazione complessiva delle categorie weberiane, si potrebbe dire che, se da un lato la fabbrica non è un laboratorio, dall’altro essa non è nemmeno una comunità di produzione, ma un processo di messa in società che può conoscere solo una istituzionalizzazione economica e giuridica, ma non una composi­zione di interessi individuali presenti. 31 «Qui, tuttavia, non ci interessa ancora il problema della misurazione delle diffe­ renze individuali delle persone, ma il problema della misurazione di massa degli effetti dei lavori differenti e di differenti condizioni di lavoro» (ibid., p. 164). Cfr. anche P.F. Lazarsfeld, A.R. Oberschall, Max Weber and Empirical Social Research, in «American Sociological Review», 30, 1965, pp. 185-199. 32 «Alla fine, comunque, il punto decisivo è che la storia non opera in alcun modo solo nell’ambito di quell’“aspetto interiore”, ma “concepisce” l’intera costellazione del mondo “esterno”, da un lato, come motivo e, dall’altro, come risultato dei “processi interni” dei soggetti dell’azione storica – cose che nella loro molteplicità concreta, niente hanno a che fare con i laboratori di psicologia o con le espressioni puramente “psicologiche”, comunque si voglia definire il concetto di psicologia» (M. Weber, Knies und die Irrationalitätsprobleme (1903-1906), poi in Gesammelte Aufsätze für Wissenschaftslehre, cit., pp. 42-145; trad. it. Knies e il problema dell’irrazionalità, in Id., Saggi sulla dottrina della scienza, cit., pp. 43-141, p. 75). 33 «Il fatto che ciò che è in generale uguale in una pluralità disomogenea di indivi­ dui costituisca un “fenomeno di massa” non impedisce che il suo significato storico stia nel contenuto individuale, nella causa individuale, negli effetti individuali di ciò che è comune a questa pluralità (ad esempio: una concreta idea religiosa o una costellazione concreta di interessi economici)» (ibid., p. 49). Non si deve dimenticare che questo è anche il momento storico della sistematizzazione delle masse e dei fenomeni di massa all’interno del discorso politico e delle scienze sociali. Cfr. anche S. Ca­vazza, Dimensione massa. Individui, folle, consumi 1830-1945, Bologna, il Mulino, 2004. 5. storia e sistema: il lavoro 157 Un esito di questo confronto è dunque l’affinamento della metodologia weberiana, che annuncia il passaggio dall’economia politica alla sociologia. Vi sono tuttavia altri percorsi dell’analisi di Weber che aprono direttamente il discorso sul rapporto politico che s’instaura all’interno della fabbrica e che, come vedremo, rimarranno come co­stanti anche nei suoi interventi pubblici. Si deve perciò tornare all’analisi delle motivazioni che portano ad accettare il destino di fabbrica, perché essa si presen­ta in prima battuta come snodo tra le diverse esigenze disciplinari e quindi come punto di partenza per considerazioni di più immediata portata politica. Scrive dunque Weber che, accanto alle discipline fisiologiche, psicologiche e igieniche, ci sono le discipline economiche. Esse considerano il lavoratore da diversi punti di vista, ma la prospettiva privilegiata è pur sempre quella della «redditività economica pri­vata», in forza della quale il lavoratore non è nient’altro «che un mezzo di produzione redditizio, delle cui qualità e “capricci” bisogna “tener conto”, come di un qualsiasi strumento di lavoro meccanico»34. Lo strumento umano non è tuttavia utilizzabile al di fuori di quelle forme di coazione e di scambio che sfuggono al metodo della psicolo­gia sperimentale con il suo intendere il lavoro come mera fatica, poi misurabile in base a calcoli ergonomici. La stessa meccanizzazione della produzione non è avvenuta per Weber sulla spinta del progredire autonomo dello sviluppo tecnico, ma piuttosto con lo scopo e la necessità di dare ritmo al lavoro, «perché essa rende notevolmente più facile la produzione delle reazioni tipiche, senza che siano necessari impulsi articolati della volontà e ciò sia in prestazioni “fisiche” che “in­tellettuali”»35. Coerentemente con il suo discorso, tuttavia, Weber non riduce il la­voro di fabbrica alla sua meccanicità, delineando un quadro assai più complesso, nel quale all’interno delle reali condizioni lavorative non è sempre semplice distinguere sia tra lavoro qualificato e non qualificato sia tra lavoro manuale 34 Weber, 35 Ibid., Sulla psicofisica del lavoro industriale, cit., p. 178. p. 132. 158 la società come ordine e lavoro intellettuale36. Per tutti questi motivi la selezione della manodopera più adatta non avviene secondo le modalità previste dalle teorie evoluzioniste. L’adattamento non è naturale, ma discipli­nato e selettivo, così come l’aumento delle prestazioni non dipende esclusivamente dalle condizioni di erogazione della forza lavoro, ma da ciò che le stabilisce e dalle loro conseguenze: la possibilità d’impiegare il mezzo estremo, la frusta – sempre minac­ciosa – della disoccupazione, contribuisce al dispiegamento dell’efficienza delle mae­stranze almeno nella stessa misura della dipendenza diretta del guadagno dalla presta­zione, stabilita nel sistema di salario a cottimo37. La figura del salario, che nella fabbrica di Oerlingenhausen è calcolato appunto a cottimo, con la sua necessità e il suo ammontare, con il suo essere l’espressione formale di una simmetria mercantile, coagula dunque più contraddizioni di quanto il semplice calcolo possa rilevare. Si può dire che, se dal punto di vista del calcolo del capitale il salario è la forma conclusiva del rapporto di lavoro, da quello dei lavoratori essa è invece una figura non statica ma aperta che, dato il carattere fisso del salario nominale, impone di agire sulla qualità del tempo di lavoro che viene ceduta. In questo senso esso non è solo la registrazione con­tabile di una compravendita, ma l’espressione dinamica di un rapporto per il quale si rivelano insufficienti i criteri dell’economia politica e diviene una volta di più necessa­rio rivolgersi alla storia e alla sociologia: in primo luogo, sul piano delle considerazio­ni razionali, ci scontreremo sempre e comunque con il fatto che i lavoratori regolano sistematicamente la misura e il tipo delle loro prestazioni per scopi materiali (cioè di guadagno), la aumentano e la diminuiscono o, coesistendo più prestazioni, cambiano tipo di combinazione38. La segmentazione della mansione lavorativa, la ricerca di mezzi tecnici per conoscere la produttività di ogni singolo addetto, l’im36 Weber, Introduzione metodologica alle ricerche del “Verein für Sozialpolitik”, cit., pp. 102-103. 37 Id., Sulla psicofisica del lavoro industriale, cit., p. 179. 38 Ibid., p. 183. 5. storia e sistema: il lavoro 159 putazione delle quote di salario a ogni frazione di prodotto, tutta questa serie di calcoli non è sufficien­te a dare conto dell’agire complessivo dei lavoratori. L’arcano della cooperazione non è risolvibile a partire dal singolo lavoro e tanto meno frazionandolo. Il salario, in particolare nella sua forma monetaria, e ancor più di quando non segue criteri tradizionali ma razionali e fondati sulla contabilità, è per Weber una figura della razionalizzazione capitalistica del rapporto di produzione; il suo studio rivela però che all’interno della fabbrica non si incontrano solo contraenti, ma si contrappongono due potenze [Mächte] con le loro diverse strategie. Ciò che lo studio del salario rivela, infatti, è che le necessità ca­pitalistiche di controllo e di accrescimento della produttività sono contrastate giorno per giorno, incidendo in maniera consistente sulla cooperazione che produce i profitti. In questo senso si è parlato di politicità del rapporto di lavoro, perché controllo sulla produzione e dominio del tempo si rivelano non essere nella piena disponibilità della decisione imprenditoriale. Non solo il materiale scientifico utilizzato da Weber si riferi­sce a industrie «nelle quali esiste una notevole influenza dei lavoratori sui ritmi e la qualità della produzione»39, ma anche, per quanto riguarda il suo studio specifico sulla fabbrica di Oerlingenhausen, egli deve registrare che «d’altro canto, il tempo di lavoro dipende in misura tuttavia considerevole non dalla particolare capacità, bensì anche dalla volontà dell’operaio, che può lasciare fermo il telaio, per accomodare un filo rotto o per rimediare a un groviglio nel filo dell’ordito, tanto a lungo quanto vuole o abbisogna per riposarsi»40. Il susseguirsi dei numeri e delle tabelle puntigliosamente approntate da Weber, i controlli numerici più moderni, le innovazioni tecniche organizzative, lasciano emergere quello che si profila come uno scacco dell’opera di disciplinamento e selezione della forza lavoro. All’interno dell’innovazione costante dei mezzi di controllo della produttività, che d’altra parte gli operai «se ne avessero 39 Ibid., 40 Ibid., pp. 190-191. p. 196. 160 la società come ordine il potere [Macht]» rifiuterebbero, sopravvivono forme di resistenza al lavoro sia esso monotono sia che necessiti di impegno intellettua­le. I calcoli weberiani, confermati dalle «opinioni dei direttori», mostrano che «la peg­giore giornata lavorativa è il lunedì»41. Weber scopre così la persistenza di quel San Lunedì che è stato uno dei costumi più diffusi tra i lavoratori europei nella prima fase dell’industrializzazione42. Ma altri comportamenti soggettivi anche più significa­tivi sono registrati dallo sguardo oggettivo di Weber. Il tempo di lavoro non scorre più omogeneo all’interno della fabbrica, ma è caratterizzato da rallentamenti e da sottra­zioni, è improntato da uno scontro di potere all’interno del quale, come ora vedremo, Weber cerca di rinvenire gli elementi etici che mostrino la continuità con lo spirito originario del capitalismo. Il punto è che all’interno dell’azienda i rischi si dispongono asimmetricamente, al punto da impedire che si stabilisca un’unità complessiva di intenti e di interessi. Come abbiamo detto, la fabbrica non è una comunità di produzione. I lavoratori, infatti, non dipendono interamente dalle loro scelte né per quanto riguarda la produttività né per quanto concerne la qualità della produzione. L’agire dell’imprenditore è il presupposto indiscutibile di ogni effetto che loro possono produrre ed è tale non solo in fabbrica, ma per l’esistenza complessiva dei lavoratori: «la tan­to diffusa affermazione secondo la quale “è l’imprenditore” a correre il rischio dell’impresa è, anche solo in un’accezione strettamente economica, totalmente falsa»43. Il rischio dei lavoratori non è solo il fallimento dell’azienda, con il loro conseguente licenziamento, ma anche di trovarsi a lavorare con macchine inadeguate o con materia prima scadente. Ma il rischio principale è che il processo lavorativo sia completamente sottratto al loro controllo e la risposta non viene data in termini individuali, 41 Ibid., p. 197. a questo riguardo E.P. Thompson, Time, Work-Discipline and Industrial Capitalism, in «Past and Present», 38, 1967; trad. it. Tempo, disciplina del lavoro e capitalismo industriale, in Id., Società patrizia e cultura plebea. Otto saggi antropologia storica sull’Inghilterra del Settecento, Torino, Einaudi, 1981, pp. 3-55. 43 Weber, Sulla psicofisica del lavoro industriale, cit., p. 205. 42 Cfr. 5. storia e sistema: il lavoro 161 ma co­struendo strategie solidali, per quanto non necessariamente politicamente strutturate, di controllo sul ciclo di lavorazione: il “frenare”, non solo quello involontario, conforme allo stato d’animo, bensì quello consapevole e intenzionale, si riscontra anche in assenza di qualsiasi forma di organizzazione sindacale, ovunque si stabilisca una certa solidarietà tra i lavoratori o tra una parte significativa di essi. Parlando in termini molto generali, questa è, molto spesso, la forma con cui i lavoratori – coscienti e tenaci, ma muti – mercanteggiano e lottano per ottenere un prezzo di vendita più alto per la pro­pria prestazione44. 3. Sotto il dominio del capitalismo Siamo così nuovamente di fronte al problema delle motivazioni. Se esso non è risolvibi­le con gli strumenti della psicologia, le sue soluzioni sembrano essere solamente due. La prima è la sempre presente frusta della minaccia della disoccupazione, accompa­ gnata dalla disciplina di fabbrica che si incarica di stabilire delle motivazioni che, per quanto meccaniche e per nulla interiorizzate, sono assolutamente efficaci dal punto di vista della produttività. La seconda soluzione è un’etica della responsabilità del lavoro che s’incarichi di razionalizzare quei comportamenti, certamente non irrazionali dal punto di vista soggettivo ma incompatibili con la prospettiva della redditività aziendale. Queste due soluzioni non si presentano come alternative. Esse convivono nello stesso spazio, al punto che ognuna tende sempre a mostrare anche la possibilità dell’altra, come pure l’eventualità, compresa da Weber, ma che rimane da lui impensata e im­pensabile, che, come abbiamo visto, la solidarietà tra i lavoratori modifichi «radical­mente lo spirito che regna in questa mostruosa gabbia». Sottrarsi alla disciplina di fabbrica non stabilisce per Weber un agire irrazionale o tra­dizionalistico, ma contiene una tensione razionale a voler partecipare alla determina­zione del salario. Questa tensione si esprime in una «forma di lotta», che non ha 44 Ibid., pp. 205-206. 162 la società come ordine biso­gno di un apparato organizzativo e, proprio per questo, per Weber è più immediata, diffusa, incisiva dello stesso sciopero. Anzi, nell’asimmetria costitutiva tra imprenditore e lavoratori che essa evidenzia, nel mostrare la possibilità di una rottura del nesso tra autorità e obbedienza, cioè del rapporto sociale in fabbrica, si dà la possibilità di una rottura anche di quella tensione partecipativa che essa contiene ed esprime: il licen­ziamento, senza motivi validi, di un lavoratore non noto come incapace, per una presunta opera di “frenaggio”, in una situazione in cui i lavoratori non fossero del tutto privi di potere [machtlos], comporterebbe il sorgere di un odio [Odium], nei confronti dell’imprenditore, non facile da reggere45. E l’odio è qualcosa di più della generi­ca conflittualità. Cancella la tensione a partecipare perché l’eventuale sanzione è ogget­ tivamente impossibile da ricondurre al comportamento di un singolo lavoratore: «l’avversario non è in alcun modo in grado di dimostrare al singolo che e con quanta forza egli ha effettivamente frenato»46. Prodromo dell’individualismo metodologico che in seguito Weber notoriamente sistematizza con tanta incisività47, questa affer­mazione ne lascia intravedere il senso politico profondo. La sospensione della possibili­tà di imputare al singolo un agire determinato contiene in sé l’impossibilità stessa di continuare a definire la relazione nei termini di quel rapporto sociale che sta alla base dell’intera sociologia weberiana. L’imputazione al singolo non è solo un criterio metodologico; o meglio, quest’ultimo schiude anche la possibilità di tipizzare i comportamenti oggettivamente, sfuggendo alla loro coniugazione meramente soggettiva. Ciò non vale per Weber solamente di fronte all’indisciplina operaia, ma anche di fronte alle modalità di costruzione 45 Ibid., p. 207. 46 Ibid. 47 «Per l’interpretazione intelligibile dell’agire, a cui la sociologia aspira, queste for­mazioni sono invece semplicemente processi o connessioni dell’agire specifico di singo­li uomini, poiché questi soltanto costituiscono per noi il sostegno intelligibile di un agire orientato in base al senso» (Weber, Economia e società, cit., vol. I, p. 12). 5. storia e sistema: il lavoro 163 del discorso scientifico. Nel corso della ricerca sul campo delle prestazioni lavorative si è continuamente imbattuto «nel significato delle caratteristiche individuali», verificando come «non tutti ma moltissimi operai mostrano in modo evidente qualità “tipiche”, che cioè si ripetono in maniera simile nella maggioranza dei loro rendimenti lavorativi»48. L’individualizzazione non è per Weber la valorizzazio­ne della singolarità, ma il presupposto della tipizzazione. E si tratta di un procedimento tanto più necessario, nel momento in cui la stessa scienza sociale indulge alla costru­zione di “oggetti scientifici” ambigui quando non confusi. Su questo terreno il passaggio dall’economia politica alla sociologia emerge in forza di una critica diretta che è allo stesso tempo una presa di posizione all’interno del dibattito sul metodo sociologico. Categorie come milieu o anche predisposizione – ma si dovrebbe aggiungere su di un piano solo apparentemente eterogeneo la distanza di Weber dalla categoria simmeliana di interazione – grazie alla quale «i sociologi suddividono tutte le (ipotetiche) determinanti della qualità concreta di individuo»49, finiscono per lasciare indeterminati i caratteri dell’individuo stesso e precludono la via di ogni possibile tipizzazione. D’altra parte la stessa tipizzazione delle forme di agire individuale non è pensabile naturalisticamente, ma essa è possibile solo se è frutto di una disciplina o di un’etica razionalmente ricostruibili, altrimenti il deprecato ricorso alle predisposizioni tornerebbe ad avere validità ed efficacia. Weber è talmente colpito dall’impatto politico che la sot­trazione alla disciplina di fabbrica evidenzia da prevedere che essa diverrà la forma di lotta predominante nel futuro: «con l’aumento del potere delle associazioni operaie, questa forma di lotta è destinata a divenire predominante, a spese dello sciopero, pri­vo, al confronto, di grandi prospettive»50. Se ci si attiene agli eventi storici dei decenni successivi, mai previsione fu più improbabile e disattesa. Se si guarda alla grande stagione 48 Weber, Sulla psicofisica del lavoro industriale, cit., p. 279. p. 280. 50 Ibid., p. 207. 49 Ibid., 164 la società come ordine europea di scioperi tra il 1905 e il 1907, cioè all’immediata vigilia del saggio weberiano, l’affermazione appare ancora più incredibile51. È davvero diffici­le dare ragione di una simile previsione. Se si esclude la possibile rivolta del “borghe­se” Weber contro quanto era successo nel biennio precedente, rimane la sua ricerca delle modalità che anche in fabbrica riescono a stabilire un «fondamento decisivo nella vita personale» a partire dal lavoro stesso. Il sottrarsi alla disciplina di fabbrica sembra essere colto nel suo rovescio, nel suo essere comunque legato alla prestazione lavorativa, mentre lo sciopero allude a una rottura esplicita del rapporto sociale, a una sottra­zione che nega il rapporto formale di lavoro. D’altra parte proprio la centralità ricono­sciuta alla categoria di rapporto spiega perché, a differenza di quanto accaduto nella ricerca sui lavoratori agricoli, il riferimento alla costituzione del lavoro [Arbeitsverfassung] non giochi qui alcun ruolo52. Qui non è questione di comunità di interessi o di produzione; se è rinveni­ bile un contenuto etico nelle diverse forme di agire, esso si colloca nella posizione e nei comportamenti che le differenti individualità assumono all’interno dell’azienda. Non è probabilmente casuale da questo punto di vista che Weber evidenzi subito il contenuto etico che motiva l’agire dei sindacalisti socialdemocratici all’interno delle fabbriche. Quel contenuto etico ha due conseguenze: da una parte una produttività su­periore a quella di tutti gli altri operai, dall’altra parte una maggiore combattività per vedere riconosciuto il valore del loro lavoro. È invece certamente significativo che Weber individui lo stesso atteggiamento nelle operaie che, provenendo da conventicole pietiste, mostrano nei fatti la stessa intransigenza nel difendere le proprie pretese, seb­bene con un «senso di giustizia estremamente individualistico», cioè non inserito in progetti collettivi e per di più con una ostilità manifesta verso ogni forma di sindacaliz­zazione. Questi sono i due poli etici 51 Cfr. per la Germania D. Groh, Intensification of Work and Industrial Conflict in Germany 1896-1914, in «Politics and Society», 8, 1978, pp. 350-397. 52 Cfr. l’introduzione di F. Ferraresi, S. Mezzadra a Weber, Dalla terra alla fab­brica, cit., pp. XVII-XXIII. 5. storia e sistema: il lavoro 165 che emergono dalla ricerca weberiana: il “tipo” del sindacalista socialdemocratico, del quale gli imprenditori dovrebbero secondo Weber riconoscere l’utilità più di quanto ne biasimino e temano la combattività, e l’operaia di ambiente pietistico, i cui comportamenti vengono letti «alla luce dell’abitudine dei pietisti di disprezzare luoghi di piacere (come i locali da ballo) come conseguenze dell’“ascesi protestante”, in altre parole, della conseguente disposizione interiore nei confronti della propria professione “voluta da Dio”»53. Nella loro polarizzazione queste due figure “etiche” sembrano rappresentare il ricono­scimento del lavoro come professione «sotto il dominio del capitalismo»54. Entram­be mostrano, per così dire, un’eccedenza etica rispetto al loro essere semplicemente delle macchine da lavoro. Entrambe contribuiscono a porre il problema che d’ora in avanti Weber avrà sempre presente. Esse mostrano che non è possibile ridurre gli in­dividui al ruolo di macchine umane, mentre allo stesso tempo incarnano i tipi umani che più di tutti gli altri sono disponibili a spingere in avanti il processo di universale burocratizzazione, di calcolabilità, di razionalizzazione costante dell’economia capitali­stica. Il Mensch, che parte dalla più recente e interessante letteratura ha individuato quale oggetto centrale della scienza weberiana55, si trova catturato in questo doppio movimento: da una parte l’agire motivato dalla consapevolezza etica della sua indivi­dualità, 53 Weber, Sulla psicofisica del lavoro industriale, cit., p. 211. Introduzione metodologica alle ricerche del “Verein für Sozialpolitik”, cit., p. 107. Cfr. S. Seidman, M. Gruber, Capitalism and Individuation in the Sociology of Max Weber, in «The British Journal of Sociology», 28, 1977, pp. 498-508. 55 A partire dai contributi di Hennis, Max Webers Fragestellung. Studien zur Bio­graphie des Werkes, cit., e Max Webers Wissenschaft von Menschen: neue Studien zur Biographie des Werks, Tübingen, Mohr, 1996; ma cfr. anche H.H. Nau, Eine “Wissenschaft vom Menschen”: Max Weber und die Begründung der Sozialökonomik in der deutsch­sprachigen Ökonomie 1871 bis 1914, Berlin, Duncker & Humblot, 1997; L.A. Scaff, Fleeing the Iron Cage. Culture, Politics and Modernity in the Thought of Max Weber, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 1989; e, con specifico riferimento agli scritti finora analizzati, R.M. Brain, The Ontology of the Questionnaire: Max Weber on Measurement and Mass Investigation, in «Studies in History and Philosophy of Science», 32, 2001, pp. 647-684. 54 Id., 166 la società come ordine dall’altra l’adesione quasi paradossale al meccanismo che nega ogni individua­lità. L’impossibile ontologia weberiana finisce così per essere presa nello scacco del suo soggetto, cioè del tipo di individuo che, al momento della genesi del capitalismo, è stato il portatore dello spirito capitalistico e ora si trova a doverlo riaffermare dentro le condizioni che egli stesso ha generato, ma che gli sono completamente sfuggite di mano. A più riprese Weber nega che si possa oltrepassare l’orizzonte stabilito dalla razio­nale calcolabilità della burocratizzazione universale; non è possibile sottrarsi a questo destino riattivando lo spirito originario, perché la macchina universale è esattamente l’incarnazione di quello spirito. La burocrazia è la vera macchina umana: «di fatto non esiste niente al mondo, nessun macchinario al mondo, che lavori con tanta precisione come fa questa macchina umana [Menschenmaschine] – e per di più: così a buon mer­cato!»56. Si dovrebbe dire che proprio perché l’uomo è nella macchina non è possi­ bile mutare nulla di ciò che sta accadendo. «La domanda che ci occupa non è: come si può cambiare qualcosa in questo sviluppo? Infatti non si può farlo. Bensì: che cosa consegue da esso?»57. Queste domande riecheggiano le indicazioni ultime che, come abbiamo visto, Weber aveva dato ai ricercatori che si sarebbero impegnati nell’inchiesta del Verein. A esse tuttavia si aggiunge una preoccupazione, che ritornerà sempre più spesso anche negli 56 M. Weber, Debatterede auf der Tagung des Vereins für Sozialpolitik in Wien 1909 zu den Verhandlungen über «Die wirtschaftlichen Unternehmungen der Gemeinden», in Id., Gesammelte Aufsätze zur Soziologie und Sozialpolitik, cit., pp. 412-416, p. 413. 57 Ibid., p. 414. Weber riprende i termini di questo discorso, con incisività forse ancora maggiore, nel 1918 scrivendo: «Una macchina inanimata è spirito rappreso. Solo questo dà ad essa il potere di costringere gli uomini al suo servizio e di determinare in maniera tanto imperativa il ritmo quotidiano della loro vita lavorativa, come avviene effettivamente in fabbrica. Spirito rappreso è anche quella macchina vivente che è rap­presentata dall’organizzazione burocratica con la sua specializzazione del lavoro pro­fessionale, la sua delimitazione delle competenze, i suoi regolamenti e i suoi rapporti di subordinazione ordinati gerarchicamente» (M. Weber, Parlament und Regierung im neugeordneten Deutschland (1918), poi in Id., Gesammelte politische Schriften, Tübingen, Mohr, 19885, pp. 306-443; trad. it. Parlamento e governo nel nuovo or­dinamento della Germania e altri scritti politici, Torino, Einaudi, 1982, p. 93). 5. storia e sistema: il lavoro 167 anni successivi, sulla necessità di sottrarsi al modello d’ordine, che sembra replicare quello dell’antico Egitto, nel quale ognuno cerca solo il posto migliore da occupare: che il mondo non conosca oggi altro che tali uomini d’ordine [Ordnungsmenschen], è lo sviluppo nel quale siamo in ogni caso coinvolti; e la questione di fondo quindi non sta nel chiedersi come possiamo promuovere e accele­rare questo sviluppo, ma nel sapere che cosa abbiamo da opporre a un tale meccani­smo per conservare un resto di umanità [Menschentum] in questa parcellizzazione dell’anima, in questo dominio assoluto dell’ideale burocratico58. Chi è allora il perfetto uomo d’ordine? Il tipo burocratico che è sempre alla ricerca del giusto posto da occupare, oppure il sindacalista socialdemocratico o l’operaia di ambiente pietistico, che con i loro comportamenti rivendicano giustizia e contemporaneamente affermano il proprio lavoro come professione? In verità, i lavoratori come tali esprimono per Weber entrambe le facce di questo problema. Essi sono i portatori di quelle pretese di giustizia materiale che continuamente rischiano di mettere in crisi il carattere formale del diritto moderno59, mentre il loro lavoro è a pieno titolo uno dei caratteri costitutivi dello stesso dominio capitalistico. Poco prima della morte Weber salda il debito che aveva lasciato scoperto. Nell’Etica protestante i lavoratori, come abbiamo visto, ricoprivano un ruolo quasi residuale rispetto alla genesi e al dispiegarsi dell’individualità imprenditoriale capitalista. Se è vero che il «nostro pro­blema» rimane «la genesi del capitalismo d’impresa borghese con la sua organizzazione del lavoro libero», è anche vero che, con frasi che “imitano” la prosa del Manifesto di Marx ed Engels, Weber afferma che un carattere 58 M. Weber, Debatterede auf der Tagung des Vereins für Sozialpolitik in Wien 1909, cit., p. 414. Ma si veda l’ottimo lavoro di F. Ferraresi, Il fantasma della comunità. Concetti politici e scienza sociale in Max Weber, Milano, Franco Angeli, 2003, specialmente pp. 228-234 e 377 sgg. 59 Cfr. D. Kettler, V. Meja, «Sancho Pansa als Statthalter». Max Weber und das Problem der materialen Gerechtigkeit, in Max Webers Wissenschaftslehre, cit., pp. 713-754. 168 la società come ordine peculiare dell’Occidente è «l’antitesi [Gegensatz] moderna tra imprenditore della grande industria e libero lavoratore salaria­ to»60. Nel carattere formale di questa libertà Weber tuttavia vede un elemento di garanzia dell’indipendenza individuale, non una diminuzione della libertà stessa61. La formalità assoluta del diritto è ciò che dovrebbe rendere accettabile quel «contratto unilaterale di sottomissione»62 che è il contratto di lavoro. Su questo terreno, tuttavia, risulta assai complesso riconoscere solo una Herrschaft impersonale come quella del capitalismo. In altri termini la presenza della Herrschaft non appare solo come «un caso speciale della Macht»63, cioè di una relazione la cui forma può essere decisa nel corso della lotta; essa appare piuttosto come un’eccedenza politica che verifica pra­ticamente l’asimmetria costitutiva del rapporto sociale. Se la Macht, infatti, è, in termi­ni weberiani, l’espressione di una relazione che si forma grazie alla 60 Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, cit., p. 11. Scrive Weber: «“Lotte di classe” tra strati di creditori e strati di debitori, tra proprietari fondiari e nullatenenti o servi della gleba o affittuari, tra soggetti interessati al commercio e con­sumatori o proprietari fondiari, si sono sempre avute ovunque diverse costellazioni. Ma già le lotte del Medioevo occidentale tra datori di lavoro a domicilio e lavoratori a do­micilio si rinvengono altrove soltanto in forma iniziale». La differenza specifica con Marx è che per Weber il problema non è tanto il carattere storicamente costitutivo di queste lotte, ma la peculiarità di quello spazio fisico e concettuale che viene nominato come Occidente, cioè tra ciò che avviene al suo interno e ciò che non si è verificato nel resto del mondo. Cfr. anche G. Schöllgen, Max Webers Anliegen, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1985, pp. 46-61. 61 Esemplare a questo proposito è la lunga recensione a P. Lotmar, Der Arbeitsver­ trag, ora in M. Weber, Gesamtausgabe, cit., Abt. 1: Schriften und Reden, vol. 8: Wirtschaft, Staat und Politik. Schriften und Reden 1900-1912, hrsg. von W. Schluchter in Zu­sammenarbeit mit P. Kurth und B. Morgenbrod, Tübingen, Mohr Siebeck, 1998, pp. 37-61, che cul­mina con la citazione di Jhering «La forma è la nemica giurata dell’arbitrio, la gemella della libertà». Cfr. comunque S.P. Turner, Two Theorists of Action: Ihering and Weber, in «Analyse und Kritik», 13, 1991, pp. 46-60. Sulla sociologia giuridica di Jhering cfr. inoltre M. Ricciardi, Tra violenza e norma. Rudolf von Jhering e il diritto della società, in «Giornale di storia costituzionale», 18, 2009, pp. 111-132. 62 Weber, Debatterede zu den Verhandlungen des Vereins für Sozialpolitik in Mannheim 1905, cit., p. 394. Cfr. però M. Coutu, La naissance du contrat de travail comme concept juridique: Max Weber et Hugo Sinzheimer, critiques de Philipp Lotmar, in «Canadian Journal of Law and Society», 24, 2009, pp. 159-179. 63 Weber, Economia e società, cit., p. 44. 5. storia e sistema: il lavoro 169 lotta tra le parti, alla Herrschaft, costituita in una situazione di monopolio, corrisponde la tendenza a trasformarsi in dominio autoritario, riducendo quel «minimo di interesse personale da parte di colui che obbedisce [che] rimane normalmente come indispensabile molla della obbedienza»64. Su questo terreno, sul quale il bisogno di obbedire non è solo precario e disciplinato65, ma anche personalmente rischioso, risulta assai complesso riferirsi al Mensch, cioè a un tipo unitario di individualità; e il rapporto sociale rischia sempre di essere restituito alla possibilità di una tensione «assai difficile da reggere». 64 Ibid., p. 47. A. D’Attorre, Perché gli uomini ubbidiscono. Max Weber e l’analisi della so­cietà umana, Napoli, Bibliopolis, 2004. 65 Cfr. Capitolo sesto La struttura dell’ordine 1. La scienza dell’ordine Nel 1937 Talcott Parsons pubblica The Structure of Social Action. Molte �������������������������������������������������������� cose sono cambiate da quando sulla soglia dell’Ottocento, attraverso il linguaggio delle scienze sociali, aveva cominciato ad affermarsi la società come ordine. Con una coincidenza degna di nota, un anno prima, Leo Strauss era tornato a interrogare la filosofia politica di Hobbes, rintracciando in essa l’origine di quel passaggio dalla filosofia alla storia che permette la nascita della società moderna. Scrive Strauss: Se l’ordine del mondo umano non è basato su un ordine superumano ma deriva unicamente dal volere dell’uomo, allora non esiste alcuna garanzia filosofica o teologica per tale ordine. L’uomo quindi può convincere se stesso della sua capacità di ordinare il suo mondo solo con la realtà della sua attività ordinatrice. Questo spostamento fondamentale del problema dell’ordine comporta per Strauss la completa storicizzazione dell’azione umana, alla quale è attribuita la capacità costante di modificare le stesse condizioni in cui si colloca. In questo modo l’esito dell’azione è un’evoluzione costante verso una maggiore perfezione dell’ordine, al punto che in Hobbes anche lo stato di natura assume «un significato storico – non, in vero, come condizione di assoluta mancanza di ordine, ma come condizione di ordine estremamente 172 la società come ordine imperfetto»1. Come vedremo, questa soluzione straussiana non è del tutto soddisfacente. Essa tuttavia riflette quella che dalla fine del XVIII secolo diventa la vocazione stessa della sociologia, nel suo farsi progressivamente scienza del sociale per eccellenza, ovvero la istituzionalizzazione dell’ordine della società2. In modo controverso ed equivoco la genesi della sociologia ha risposto alla peculiare domanda di ordine suscitata dalle rivoluzioni atlantiche. Questo nesso tra disordine e sociologia viene enunciato in modo incisivo da un contemporaneo di Parsons, il quale, in riferimento al periodo rivoluzionario tra Sette e Ottocento, scrive: «Molte volte in precedenza c’era stato disordine sociale senza produrre sociologi. Nella particolare situazione sociale del periodo c’era un unico elemento. Questo unico fattore era l’esistenza della scienza»3. La compresenza di disordine e scienza finisce così per porre in maniera del tutto nuova il problema dell’ordine. Rispetto alle dottrine politiche dei secoli prerivoluzionari il cambiamento di registro non potrebbe essere più radicale. Nei secoli precedenti la preoccupazione fondamentale era stata quella di stabilire un ordine, percependo in continuazione non solo e non tanto la sua instabilità e la sua costante incertezza, ma avendo sempre presente la possibilità concreta della catastrofe dell’ordine medesimo. Questa paura della catastrofe, certamente motivata da eventi storici di portata epocale, penetra peraltro nei sistemi di pensiero sei e settecenteschi, divenendone un presupposto anche oltre la vigenza delle sue cause effettive. La progressiva scoperta 1 L. Strauss, The Political Philosophy of Hobbes: Its Bases and its Genesis, Oxford, Oxford University Press, 1936; trad. it. Che cos’è la filosofia politica? Scritti su Hobbes e altri saggi, Urbino, Argalia, 1977, p. 268. Cfr. anche A. Anter, Lehrmeister Thomas Hobbes. Carl Schmitt, Talcott Parsons und Hobbes’ Argument der Ordnung, in R. Voigt (Hrsg.), Der Hobbes-Kristall. Carl Schmitts Hobbes-Interpretation in der Diskussion, Stuttgart, Steiner, 2009, pp. 167-184. 2 Che le scienze sociali, e in particolare la sociologia, siano il bersaglio polemico della ricostruzione straussiana della nascita della storicità della società moderna appare chiaramente in L. Strauss, Natural Right and History, Chicago-London, The University of Chicago Press, 1953; trad. it. Diritto naturale e storia, Venezia, Neri Pozza, 1957. 3 M. De Grange, Comte’s Sociologies, in «American Sociological Review», 4, 1939, pp. 17-26, p. 18. 6. la struttura dell’ordine 173 di un ordine sociale che fonda, legittima e in definitiva rende possibile l’ordine sovrano è invece l’innovazione che le scienze sociali introducono nel paradigma politico della modernità. Si afferma la convinzione che l’ordine può e deve essere continuamente ristabilito, più che avere la necessità di essere stabilito in una qualsivoglia forma che si pretende definitiva. Sia che si tratti dell’ordine tradizionale che l’azione degli uomini ha tanto inopinatamente quanto temporaneamente messo a repentaglio, sia che si pensi all’ordine progressivo della “società”, un ordine “sociale” comunque esiste; si tratta di restaurarlo, come pensavano i reazionari francesi4, o di liberarlo dalle catene della tradizione, come recita il sogno democratico di una società di eguali della generazione di scienziati sociali tra Otto e Novecento. La diversa considerazione del problema dell’ordine finisce per essere così il crinale che separa la sociologia dalle dottrine politiche della prima età moderna. Come abbiamo visto, questa osservazione non è una constatazione occasionale rivolta a una singola teoria, ma si estende a tutte le scienze sociali che, proprio in forza della cesura epistemologica che producono a proposito del concetto di ordine, arrivano a porsi come «forma postmoderna della teoria politica»5. Non è rilevante qui stabilire se davvero siamo di fronte a un nuovo o diverso sintomo di un ipotetico passaggio dal moderno al postmoderno. Più rilevanti sono i due termini che emergono chiaramente dalle osservazioni di Wolin: il primo è la centralità assegnata all’ordine, alla sua 4 Cfr. R. Spaemann, Der Ursprung der Soziologie aus dem Geist der Restauration. Studien über L.G.A. de Bonald, München, Kosel, 1959; trad. it. L’origine della sociologia dallo spirito della Restaurazione. Studi su L.G.A. Bonald, Roma-Bari, Laterza, 2002; ma anche R.A. Nisbet, The French Revolution and the Rise of Sociology in France, in «The American Journal of Sociology», 49, 1943, pp. 156-164 e R.A. Nisbet, Conservatism and Sociology, in «The American Journal of Sociology», 58, 1952, pp. 167-175. 5 Lo nota con grande precisione Sydney Sheldon Wolin affermando che «dove i teorici dei primi tempi erano assillati dalla fragilità dell’ordine e dalle difficoltà di mantenerlo, la teoria postmoderna sembra soffrire di un eccesso di ordine». E conclude: «L’ordine è la realtà empirica della teoria postmoderna» (cfr. S.S. Wolin, Legitimation, Method, and the Politics of Theory, in «Political Theory», 9, 1981, pp. 401-424, pp. 416 e 420). 174 la società come ordine fattualità, al suo essere appunto considerato una realtà empirica data, al punto da aprire la possibilità di costruire su di esso la teoria; il secondo punto è lo spostamento che si annuncia a partire da questo dato: la scienza sociale non si realizza attraverso la cancellazione della teoria politica; essa diviene piuttosto la forma contemporanea della teoria politica. Ciò non significa, tuttavia, che siamo di fronte alla “sublimazione della politica”, alla sua scomparsa per il venir meno della possibilità dell’azione politica a fronte del primato dell’azione sociale. E non è nemmeno vero che all’epoca dell’ordine presupposto corrisponda un’«età dell’organizzazione», nella quale le situazioni impolitiche risulterebbero indistinguibili da quelle autenticamente politiche6. Mentre, da una parte, questa sorta di rimpianto per il politico rischia di ridurre l’azione politica all’occasionalismo dell’azione esemplare, la sola che sarebbe in grado di reintrodurre la distinzione tra ciò che è politico e ciò che non lo è, dall’altra esso si vieta di cogliere il carattere intrinsecamente politico dell’azione sociale. Conformemente alla lettera dell’affermazione di Wolin citata in precedenza, vale la pena invece indagare come Parsons immagina la politica dell’azione. Il problema non è dunque per noi ascrivere Parsons a una corrente politica determinata7 e nemmeno di individuare qual è l’ideale politico della sua opera8. Non si tratta qui 6 Cfr. S.S. Wolin, Politics and Vision. �������������������������������������������� Continuity and Innovation in Western Political Thought, Boston, Little, Brown and Company, 1960; trad. it. Politica e visione: continuità e innovazione nel pensiero politico occidentale, Bologna, il Mulino, 1996 che rimane comunque una riflessione assolutamente rilevante sull’argomento. Cfr. anche le annotazioni critiche di C. Pateman, The Disorder of Women. Democracy, Feminism and Political Theory, Stanford, Stanford University Press, 1989, in part. pp. 90 sgg. 7 Per esempio J.C. Alexander, Parsons as a Republican Critic of Industrial Society: A New Understanding of the Early Writings, in G. Pollini, G. Sciortino (eds), Parsons’ The Structure of Social Action and Contemporary Debates, Milano, FrancoAngeli, 2001, pp. 15-23. 8 U. Gerhardt, Talcott Parsons: An Intellectual Biography, Cambridge, Cambridge University Press, 2002 ha riletto l’intera opera parsonsiana come trasposizione sociologica di un ideale democratico che sarebbe stato diversamente e “progressivamente” modulato nelle diverse “epoche” storiche della sua produzione scientifica. 6. la struttura dell’ordine 175 nemmeno di affrontare l’opera del giovane Parsons rintracciandone le coordinate proprie all’interno della storia del pensiero sociologico, tentativo ovviamente necessario e legittimo che tuttavia conduce a considerarla come un episodio, più o meno rilevante, all’interno dello sviluppo, più o meno lineare, della sociologia in quanto disciplina scientifica. In questa sede gli scritti degli anni Trenta di Parsons saranno letti in una prospettiva diversa. In questione è il carico di politicità che essi esprimono: nel doppio senso cioè della loro capacità di interpretare il momento storico e di dare un impulso originale alla storia. La tesi di partenza di quegli scritti girava in maniera più o meno esplicita per l’Europa e aveva finito per essere chiaramente enunciata da John Maynard Keynes nel 1926. Nel testo keynesiano Parsons trova già stabilito e criticato il percorso di una lunga tradizione filosofico-politica che troverebbe la propria origine nell’«individualismo conservatore» di Locke, attraverserebbe l’economia politica, per trovare infine il proprio compimento nel darwinismo. Gli economisti insegnavano che la ricchezza, il commercio e le macchine erano figli della libera concorrenza, che la libera concorrenza aveva costruito Londra. Ma i darwinisti potevano offrire un risultato ancora migliore: la libera concorrenza aveva fatto l’uomo9. È in questo periodo e con queste letture che il giovane Talcott Parsons attraversa l’Europa in una sorta di grand tour che dalla London School of Economics approda alla weberiana Heidelberg, per tornare poi negli Stati Uniti e porsi esplicitamente il problema di dare una nuova forma alla teoria sociale. Facendo proprio quell’argomento, egli inizia a lavorare alla trama de La struttura dell’azione sociale, un testo che si occupa solo di studiosi europei e non cita nessuno dei padri fondatori della scienza sociale negli Stati Uniti, e compie così la sua rivolta contro la sociologia statunitense10, contro il darwinismo sociale, contro il positivismo, 9 J.M. Keynes, The End of Laissez-faire, London, Hogarth, 1927; trad. it. La fine del lasciar fare, Torino, UTET, 19782, pp. 83-108, p. 89. 10 Cfr. J.C. Alexander, Parsons’ “Structure” in American Sociology, in «Sociological Theory», 6, 1988, pp. 96-102. Sulla sociologia statunitense precedente cfr. H. 176 la società come ordine contro il comportamentismo, portando oltre Atlantico, certamente non per primo e non da solo, ma di sicuro in maniera del tutto originale, quello che non solo considera il nucleo fondamentale dell’evoluzione teorica delle scienze sociali, ma più in generale l’incarnazione dello stesso nucleo evolutivo del «nostro proprio pensiero (cioè moderno occidentale)»11. Nella Harvard degli anni Trenta, all’interno di una continuità rivendicata e affermata, Parsons opera così una doppia cesura tanto nei confronti della tradizione politica occidentale moderna quanto all’interno della tradizione sociologica. Egli, anzi, innesta esplicitamente la seconda sulla prima facendo della rottura con l’episteme di impronta hobbesiana e lockiana la condizione di possibilità dello stesso rinnovamento della sociologia. Una prima annotazione va fatta a proposito del modo in cui il testo è costruito, perché la sua struttura è già l’applicazione di quello che per Parsons è il metodo sociologico. Gli autori trattati non figurano come “personaggi” di una storia intellettuale del pensiero sociologico e politico moderno. Le loro dottrine sono invece i fatti empirici, la cui osservazione è necessaria per la costruzione della teoria. La Struttura dell’azione sociale è perciò un’esemplificazione del “realismo analitico” parsonsiano, perché anche i concetti della scienza sociale non devono corrispondere a «fenomeni concreti, ma ad elementi di tali fenomeni che possono essere analiticamente scissi da altri elementi»12. In questo senso Schwendinger, J.R. Schwendinger, The Sociologists of the Chair. A Radical Analysis of the Formative Years of North American Sociology 1883-1922, New York, Basic Book, 1974. 11 T. Parsons, The Place of Ultimate Values in Sociological Thought, ora in Id., The Early Essays, Chicago-London, Chicago University Press, 1991, pp. 231-257, p. 245. 12 T. Parsons, The Structure of Social Action. A Study in Social Theory with Special Reference to a Group of Recent European Writers, New York, The Free Press, 1968, p. 730; trad. it. La struttura dell’azione sociale, Bologna, il Mulino, 1962, p. 896. Sul testo parsonsiano e più in generale sui suoi primi scritti cfr. C. Camic, The Making of a Method: A Historical Reinterpretation of the Early Parsons, in «American Sociological Review», 52, 1987, pp. 421-439; C. Camic, Structure after 50 Years: The Anatomy of a Charter, in «The American Journal of Sociology», 95, 1989, pp. 37-107; E.A. Tityakin, Exegesis or Synthesis? Comments on 50 Years of the Structure of Social Action, in 6. la struttura dell’ordine 177 la teoria parsonsiana, anche quando si occupa di altri teorici, pretende di garantire al suo interno un riferimento empirico, solo che quest’ultimo diviene funzionale non alla ricostruzione del pensiero altrui, ma alla dinamica evolutiva del sistema nel suo complesso. Non è quindi molto rilevante confrontare Parsons con gli scritti di Hobbes o di Locke, e tanto meno con le opere di Alfred Marshall, Vilfredo Pareto, Emile Durkheim, Max Weber, cioè dei quattro pensatori che avrebbero nel modo più pregnante annunciato la trasformazione della teoria sociale che ora lui definisce. Non ha senso chiedersi quanto fedele sia l’interpretazione parsonsiana dei singoli autori trattati, perché il criterio non è storico o critico, ma l’applicazione di un metodo sociologico che, non volendo semplicemente rispecchiare l’insieme dei dati empirici, lavora alla loro scomposizione analitica in vista della costruzione della teoria13. Si potrebbe dire che in questa scelta metodologica è già all’opera l’identificazione di un principio d’ordine. Marshall, Pareto, Durkheim e Weber sono gli elementi dell’ordine empirico che consentono la teoria parsonsiana. Con una mossa sorprendente e celebre La struttura dell’azione sociale inizia con l’annuncio inattuale della morte di Herbert Spencer. Parsons riprende questa affermazione dallo storico del pensiero politico Crane Brinton, chiedendosi se si sia trattato di un omicidio o di un suicidio e fornendo anche immediatamente la risposta. Il sacrificio di Spencer è stato il frutto «della vendetta del geloso dio “Evoluzione”: in questo caso dell’evoluzione della «The American Journal of Sociology», 96, 1990, pp. 452-455 e la replica di C. Camic, Interpreting the Structure of Social Action: A Note on Tiryakin, in «The American Journal of Sociology», 96, 1990, pp. 455-459; M. Bortolini, L’immunità necessaria. Talcott Parsons e la sociologia della modernità, Roma, Meltemi, 2005, in particolare pp. 71-102. Sulla formazione del metodo parsonsiano cfr. R. Münch, Talcott Parsons and the Theory of Action I. The Structure of the Kantian Core, in «American Journal of Sociology», 86, 1981, pp. 709-739; R. Münch, Talcott Parsons and the Theory of Action II. The Continuity of the Development, in «American Journal of Sociology», 87, 1982, pp. 771-826. 13 Questa scelta metodologica resterà peraltro inalterata nel tempo, cfr. T. Parsons, Review of A. Nisbet, The Sociological Tradition, in «American Sociological Review», 32, 1967, pp. 640-643. 178 la società come ordine teoria scientifica»14. Dopo questo incipit, che esprime la vigenza di una sorta di legge del contrappasso applicata a quello che per tutta la seconda metà dell’Ottocento era stato il massimo teorico dell’evoluzionismo sociale, Spencer viene davvero abbandonato al suo oblio, ritornando rarissime volte nelle pagine successive. In poche e rapide annotazioni Parsons descrive le cause della morte scientifica di Spencer e dell’assenza di memoria che lo circonda. Spencer è stato l’ultimo epigono di una tradizione positivisticoutilitarista, fondata su una concezione razionalistica dell’individuo, pervasa da un’incrollabile fede nel progresso, convinta che la religione sia l’ultimo residuo di una concezione prescientifica della natura e dei suoi fenomeni. In verità lo stesso Parsons non è completamente innocente da nessuno di questi peccati. Il movimento della sua teoria non elimina alla radice nessuna di quelle “colpe”, mirando invece a ricomprenderle nello stadio superiore dell’evoluzione che secondo lui la scienza sociale ha oramai raggiunto. Parsons è un evoluzionista, sebbene di un tipo particolare e con un approccio assai più sofisticato di quello spenceriano. Come vedremo, il banco di prova dell’evoluzionismo è il rapporto tra individuo e ordine sociale; la vera colpa di Spencer è di essere stato l’araldo di una scienza che aveva sì una teoria dell’individuo, ma la utilizzava per negare il problema dell’ordine, non come problema fattuale, ma come componente essenziale della teoria sociologica. Con questo suo cogliere la centralità del problema dell’ordine, Parsons intercetta un movimento profondo all’interno della sociologia statunitense, che spiega la centralità che la sua figura e la sua opera assumeranno nei decenni successivi15. Qualche anno dopo, Robert A. Nisbet incisivamente scrive: Oggi, troviamo chiaramente un orientamento radicalmente differente. L’orientamento principale non è il cambiamento, ma l’ordine. È tramontata la fede razionalistica nel potere della storia di risolvere tutti i problemi orga- 14 Parsons, La struttura dell’azione sociale, cit., pp. 17-18. G. Roscher, Talcott Parsons et la sociologie américaine, Paris, PUF, 1972, trad. it. Talcott Parsons e la sociologia americana, Firenze, Sansoni, 1972. 15 Cfr. 6. la struttura dell’ordine 179 nizzativi ed è tramontato anche il mito razionalistico dell’individuo autonomo e che si stabilizza da sé16. In questione non è tuttavia il retaggio razionalistico della modernità, che in Parsons riaffiora continuamente, o il fondamento individualistico del discorso sociologico, che in realtà Parsons non abbandona, ma declina in maniera peculiare. A essere in questione è piuttosto la scelta di inserire quegli elementi nella trama dell’ordine societario, che diviene così il presupposto e non l’esito tanto del razionalismo quanto dell’individualismo. Confermando in qualche misura il giudizio di Nisbet, prendere le mosse dall’ordine della società significa in ogni caso ragionare nei termini della statica sociale piuttosto che della dinamica; significa pensare l’integrazione di ruoli predefiniti piuttosto che la loro trasformazione. In una delle pochissime menzioni che la Struttura riserva al “padre della sociologia”, Auguste Comte, al quale viene così riservata una sorte anche peggiore di quella di Spencer, Parsons scrive che, modificando appunto in maniera decisiva l’approccio comtiano, Durkheim concepisce fin dall’inizio come centrale il problema dell’ordine. «Sul piano logico esso viene prima del problema del cambiamento, e una volta messa in discussione la soluzione di Comte, era naturale che avesse la precedenza»17. 2. Il sovrano e il potere Si deve immediatamente notare che Parsons non intende risolvere il problema dal quale prende le mosse sul piano della storiografia sociologica. Il paragrafo forse più discusso de La Struttura 16 Nisbet, Conservatism and Sociology, cit., p. 167, che conclude: «Il concetto di gruppo sociale è diventato centrale più di ogni altro nella sociologia contemporanea. Come concetto esso copre l’intero insieme di problemi connessi con integrazione e disintegrazione, sicurezza e insicurezza, adattamento e disadattamento. Esso è in acuto contratto con il primato dell’individuo nella prima sociologia americana». 17 Parsons, La struttura dell’azione sociale, cit., pp. 385-386. D’altra parte per Parsons la «maggiore differenza tra Comte e Durkheim è costituita dal fatto che quest’ultimo non condivideva l’interesse di Comte per i problemi della dinamica sociale, ma si interessò esclusivamente a quella che Comte avrebbe definito “statica sociale”». 180 la società come ordine dell’azione sociale si intitola «il problema hobbesiano dell’ordine». Viene così indicato non solo qual è il problema al quale il testo parsonsiano intende dare una soluzione, ma anche qual è la soluzione alternativa con la quale decide di confrontarsi. In questo modo, tuttavia, Parsons compie anche un’altra rilevante mossa, annettendo tutta la teoria politica moderna alla fondazione stessa della problematica sociologica. D’altra parte il positivismo è il bersaglio polemico esplicito anche se indistinto della critica parsonsiana, mentre il suo antefatto storico, ovvero l’utilitarismo, è oggetto di molte distinzioni e di continui ritorni. Così, sulla scorta di Elie Halévy, che è il suo riferimento storico-filosofico su questo terreno, Parsons traccia una netta linea di separazione tra Hobbes e gli altri utilitaristi18, mentre allo stesso tempo scopre continuità inaspettate tra filosofia politica e sociologia, come quella tra Hobbes e Durkheim19. Anche in questo caso si potrebbe parlare di una mossa non del tutto originale: basti pensare a come Durkheim utilizza Montesquieu e Rousseau o Tönnies incorpora Hobbes e Spinoza nel proprio impianto sociologico. Ciò che però risalta è la quantità di apporti che Parsons utilizza, assommando filosofi politici ed economisti, i quali, mentre sono la prova del suo specifico evoluzionismo scientifico, dimostrano anche la politicità che ormai inerisce a ogni ambito disciplinare. Ciò che rischia in continuazione di “esplodere” è la distinzione tra le diverse discipline, così come la loro gerarchia interna tanto cara al positivismo. A differenza di altri autori classici, Hobbes ritorna dunque in continuazione nel testo perché è colui che ha individuato con radicalità teorica il problema da decifrare, sebbene lo abbia risolto in una maniera che a Parsons appare in sé incoerente 18 È difficile sopravvalutare la portata che l’opera di Halévy, tradotta in inglese nel 1928, mentre Parsons è in Europa, ha avuto per la formazione del testo parsonisiano. Da una parte vi è il riconoscimento esplicito dello stesso Parsons (cfr. A Seminar with Talcott Parsons at Brown University, cit., p. 14). Dall’altra parte vi è l’assunzione del «principe de l’identité naturelle des intérêts» quale cifra complessiva dell’utilitarismo ovvero, ben oltre l’opera di Bentham e dei suoi discepoli, risalendo cioè fino a Hobbes e Locke. 19 Parsons, La struttura dell’azione sociale, cit., p. 409, nota 2. 6. la struttura dell’ordine 181 e ormai superata. La soluzione hobbesiana appare incoerente perché, in una condizione di universale conflittualità, introduce «una momentanea identità di interessi: la sicurezza dalla quale deriva il contratto sociale»20. Ma, più in profondità, ciò che non lo soddisfa della soluzione hobbesiana è il suo carattere trascendente, ovvero il fatto che quello che Parsons chiama «l’agente di controllo», il sovrano hobbesiano, sia collocato in una posizione esterna e superiore agli individui in lotta. Scopo di tutta la sua trattazione è invece «una interpretazione del fondamento dell’ordine in una società come in un certo senso “immanente”, basato cioè sulla natura [character] della società stessa»21. Diversamente da quanto sostenuto da Leo Strauss, per Parsons il problema dell’ordine, così come posto da Hobbes, rimanda in continuazione al suo opposto simmetrico, cioè al caos, al punto che, per quanto il fine dell’argomentazione sia bandire il caos dall’orizzonte della politica, esso continua a profilarsi minaccioso in ogni atto di disobbedienza, in ogni resistenza, in ogni messa in discussione dell’unica e indiscutibile normatività sovrana. Il problema dell’ordine per Hobbes è letteralmente contemporaneo al Leviatano, esso non si risolve completamente nel passaggio dall’ordine manchevole dello stato di natura all’ordine sovrano, ma attraverso quest’ultimo pone l’alternativa tra ordine e caos che l’argomentazione parsonsiana mira invece a superare. In altri termini, per Hobbes, la minaccia del disordine non è data dalla presenza logicamente necessaria di uno stato di natura antecedente allo Stato, ma dal sempre possibile manifestarsi attuale della pretesa di un’alternativa allo Stato. Il successo di una simile pretesa stabilisce le condizioni per la fuoriuscita dalla dialettica tra ordine e disordine, per approdare a una situazione di caos. Per Parsons, invece, all’interno della struttura sociale contemporanea la possibilità del caos non è neppure contemplabile, e il disordine diventa una funzione del sistema e nemmeno particolarmente rilevante. È noto che gran 20 Ibid., p. 301. Cfr. anche G. Wagner, Parsons, Hobbes und das Problem sozialer Ordnung, in «Zeitschrift für Soziologie», 20, 1991, pp. 115-123. 21 Ibid. 182 la società come ordine parte della critica successiva si è esercitata attorno al ruolo minore se non addirittura inesistente che Parsons assegna al conflitto22. In realtà, Parsons opera un’inversione radicale dei termini della questione, facendo di quella che è considerata l’anima razionale e normata dell’individuo la fonte della sua propensione al conflitto, mentre quelli che in primo luogo Pareto, ma poi in modo diverso Durkheim e soprattutto Weber, hanno indicato come componenti dell’individualità non logiche, o precontrattuali, o orientate al valore divengono il fondamento stesso della possibilità dell’ordine sociale. L’argomento centrale dell’opera parsonsiana è infatti così riassumibile: una lunga tradizione di pensiero che congiunge Locke e gli economisti classici, i positivisti e il darwinismo sociale, ha immaginato l’individuo alla stessa stregua di uno scienziato sociale. Questo individuo si poneva una serie di scopi casuali, cioè non fissabili in una gerarchia prestabilita, e li raggiungeva utilizzando i mezzi più appropriati. Se vi erano dei limiti a questa razionalità dispiegata, essi erano unicamente dovuti alle rigidità ambientali, a una temporanea ignoranza o all’errore. Come il solo Hobbes riconosce, i mezzi più appropriati per raggiungere quei fini sarebbero in realtà la forza e la frode, mentre gli utilitaristi successivi e con loro i positivisti, le relegano nell’ambito dei comportamenti irrazionali, finendo per supporre una generale comunità di interessi accessibile a tutti coloro che si comportano secondo ragione. La valorizzazione di quegli aspetti “irrazionali” motiva così il destino particolare di Hobbes, il quale non può essere serenamente dimenticato come Spencer, essendo piuttosto necessario sottrarlo all’oblio in cui per secoli l’avrebbe gettato il predominio della dottrina lockeana. Hobbes aveva ragione nella sua descrizione dell’uomo e delle sue passioni, mentre Locke non si pone più il problema dell’ordine, considerandolo già risolto nello stato di natura, dove la ragione permette agli uomini di riconoscere la 22 A.W. Gouldner, The Coming Crisis of Western Sociology, New York-London, Basic Books, 1970; trad. it. La crisi della sociologia, Bologna, il Mulino, 1980, ma cfr. anche J.C. Alexander, Theoretical Logic in Sociology. Vol. IV: The Modern Reconstruction of Classical Thought: Talcott Parsons, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 1985, pp. 63-67. 6. la struttura dell’ordine 183 reciproca uguaglianza e indipendenza, così come l’obbligo razionale di rispettare i diritti altrui. Locke, in altri termini, fa coincidere l’ordine normativo con quello fattuale, facendo dello stato di natura una prefigurazione di quello civile. Mentre Hobbes, anche grazie alla forza e alla frode, tiene costantemente aperto lo spazio tra l’ordine fattuale – che in realtà per lui è, come detto, un caos empirico – e l’ordine normativo, per Locke l’ordine fattuale non è conflittuale e può quindi coincidere con quello normativo. L’interpretazione di Hobbes di un ordine individualistico è corretta, mentre quella di Locke e dei suoi successori è errata. Ciononostante la situazione non è uno stato di guerra controllabile soltanto da un sovrano assoluto, ma uno stato di ordine relativamente spontaneo. Hobbes era nel giusto dal punto di vista teoretico, ma non rispetto ai fatti. La teoria sulla quale Locke si basava non spiegava in modo soddisfacente i fatti, e da questo deriva la necessità di ricorrere a un postulato metafisico implicito, quello dell’identità naturale degli interessi23. Su questo terreno, peraltro, si deve registrare un altro scarto della teoria sociologica parsonsiana. I due tipi di ordine non possono per lui evidentemente coincidere; ciò nonostante non si pone il problema di stabilire una nuova linea di separazione. Muovendo dalla constatazione che nemmeno la presenza di un «caos normativo» significa necessariamente l’assenza di un ordine fattuale, egli mira piuttosto ad affermare il carattere autonomamente normativo dell’ordine sociale per il suo essere «sempre un ordine di fatto per quanto esso è suscettibile di analisi scientifica». Ciò significa in primo luogo che l’apparato politico istituzionale viene relativizzato nella sua funzione normativa, mentre in secondo luogo l’ordine sociale «non può avere stabilità senza l’effettivo funzionamento di alcuni elementi normativi»24. La soluzione parsonsiana del problema dell’ordine approda così a una distinzione tra lo Stato e il potere e con questa distin- 23 Parsons, La struttura dell’azione sociale, cit., p. 451. Cfr. però M. Merlo, La legge e la coscienza: il problema della libertà nella filosofia politica di John Locke, Milano, Polimetrica, 2006. 24 Parsons, La struttura dell’azione sociale, cit., p. 125. 184 la società come ordine zione mostra come il paradigma politico del suo pensiero sociologico sia in definitiva postliberale. Infatti, se assumiamo come cifra pratica del liberalismo europeo fino alla prima guerra mondiale la finzione della separazione tra Stato e società, quest’ultima non gioca in Parsons alcun ruolo. Il presupposto non esplicitato di tale separazione era che la società fosse appunto il regno delle relazioni mercantili e contrattuali che si svolgevano su di un piano di assoluta uguaglianza e libertà, mentre la coazione e la forza erano relegate nello Stato, il male necessario. Le relazioni societarie, specialmente nel liberalismo britannico così come l’ha in mente Parsons, non sono relazioni di potere, al punto che Spencer può pensare che con l’espansione dei rapporti contrattuali si possa giungere a una sorta di estinzione dello Stato. In Parsons non vi è traccia di questa idea, mentre allo stesso tempo si assiste a una relativizzazione della forma politica rispetto alla centralità affermata dell’interazione societaria. Quest’ultima è caratterizzata da una competizione razionale per l’appropriazione delle risorse non solo tra gli individui isolati, ma anche tra classi di individui. D’altra parte, seguendo Schumpeter, Parsons riconosce a Marx di aver riportato la lotta per il potere dal cielo della politica alla terra dei rapporti sociali25. Marx è colui che ha posto in termini realisti il problema del potere, così come Hobbes aveva fatto per quello dell’ordine. L’innovazione di Marx, e ciò lo distacca dalla corrente utilitarista e positivista in cui comunque Parsons per il resto lo colloca, è data dal fatto che egli ha sottratto la lotta per il potere alla cieca lotta individuale, per inserirla «in un determinato schema istituzionale, implicante un’organizzazione sociale definita»26. Anche in questo caso, tuttavia, la soluzione di Parsons è totalmente differente. I rapporti sociali per Parsons sono possibili a partire dalla priorità relativa riconosciuta ai fini di un individuo rispetto a quelli di un altro. «Questo elemento può essere 25 T. Parsons, Social Classes and Class Conflict in the Light of Recent Sociological Theory, in «The American Economic Review», 39, 1949, pp. 16-26; trad. it. Classi sociali e lotta di classe alla luce della teoria sociologica moderna, in Id., Società e dittatura, Bologna, il Mulino, 1956, pp. 189-204. 26 Parsons, La struttura dell’azione sociale, cit., p. 147. 6. la struttura dell’ordine 185 chiamato l’elemento del potere, o l’elemento politico»27. Ora questo elemento politico preesiste alle altre relazioni possibili, deve cioè essere deciso nel suo esito affinché si possa perseguire un fine economico e scegliere il mezzo più adeguato per quel fine. Scrive Parsons: È soltanto nella misura in cui la questione del potere ha trovato soluzione che le relazioni tra individui possono dispiegarsi a livello economico o tecnologico. Lo scambio economico impone l’assenza di coercizione come mezzo di acquisizione – ossia, una limitazione nell’esercizio del potere28. Nel decennio successivo la riflessione parsonsiana sul potere si approfondirà in maniera decisiva, facendone una risorsa che circola all’interno del sistema e che deve perciò essere colta in questa sua dinamica individuale e interindividuale29. È però importante sottolineare che, affinché ci sia l’ordine sociale, il problema politico del potere deve essere già risolto, nel senso che una distribuzione del potere deve essere comunque già avvenuta sebbene non come esito naturale dell’accettazione di una superiorità razionale30. In altri termini il problema del potere è risolto nei termini della sua accettazione non logica e non può trovare soluzione in una sfera separata e autonoma. La relativizzazione della forma politica non significa perciò la neutralizzazione del problema del potere, ma la registrazione della limitata possibilità di risolverlo a quel livello. Diversamente da quanto pensava Spencer, e come invece registrava Durkheim, «lo Stato […] ha costantemente aumentato il suo potere e la sua importanza quale elemento essenziale nel 27 T. Parsons, Prolegomena to a Theory of Social Institution (1934-35), in «American Sociological Review», 55, 1990, pp. 319-333, p. 324; trad. it. Prolegomeni a una teoria delle istituzioni sociali, Roma, Armando, 1995, p. 47. 28 Ibid., p. 48. 29 T. Parsons, On the Concept of Political Power, in Id. Politics and Social Structure, New York, The Free Press, 1969, pp. 352-404; trad. it. Sul concetto di potere politico, in Id., Sistema politico e struttura sociale, Milano, Giuffrè, 1975, pp. 451-506. 30 «E soprattutto questo non implica soltanto la distribuzione della ricchezza, ma anche del potere. Senza una distribuzione relativamente controllata del potere non può esistere alcun sistema sociale» (Parsons, La struttura dell’azione sociale, cit., p. 309). 186 la società come ordine processo di sviluppo dell’individualismo»31. Non si tratta quindi di due processi opposti, come pretendono le narrazioni liberali, ma di tendenze contemporanee che si sono rafforzate vicendevolmente. Ciò che tuttavia è radicalmente cambiato, è che lo Stato esercita un controllo sempre più «distante e impersonale», non riuscendo a esercitare alcun «controllo fondato sull’autorità morale». Nel sistema parsonsiano lo Stato si trova così di fronte alla necessità legittimata della sua espansione, mentre contemporaneamente viene dichiarata l’insufficienza della sua normatività. Lo Stato esercita sempre più il controllo «impersonale del diritto, basato sulla sanzione della coercizione fisica»32, ma questa è di fatto l’autorità richiesta e prevista dalla parte razionale dell’azione sociale. E per rispondere a questa necessità esso non può che continuare a essere il meccanismo razionale che Hobbes ha inventato. Nella dottrina hobbesiana, tuttavia, lo Stato era il limite esterno, l’ostacolo che impediva il movimento caotico e potenzialmente sempre polemologico della libertà. Era cioè una costrizione esterna che non intaccava il foro interno e lasciava liberi gli individui negli ambiti che la legge non regolava. Ciò che Parsons dichiara insufficiente è questa libera economia del desiderio che si arresta solamente di fronte a ostacoli esterni. Hobbes affermava che la felicità è un continuo e inarrestabile progredire del desiderio; Parsons assume questa centralità del desiderio, ma vi pone immediatamente un limite interno che definisce controllo normativo, sapendo che «la capacità di espansione dei desideri in mancanza di un controllo normativo è illimitata»33. Il punto fondamentale è che il controllo normativo non può risiedere nella sovranità statale, proprio perché essa in ogni caso rappresenta solamente un controllo esterno. Sul terreno del rapporto tra individuo e norma la cesura è chiara ed evidente, perché «l’individuo concreto normale» è per Parsons «una personalità moralmente disciplinata». E, a differenza di quanto avveniva nell’impianto 31 Ibid., p. 423. 32 Ibid. 33 Ibid., p. 499. 6. la struttura dell’ordine 187 lockiano, questa disciplina vale per un individuo universalisticamente inteso, cioè in maniera del tutto indifferente alla posizione sociale che occupa a partire dalla proprietà, dal genere o dalla fede religiosa. Questo è in definitiva il motivo per cui l’individualità hobbesiana pur con il suo correlato di caotico disordine rappresenta comunque un costante punto di attrazione del discorso parsonsiano. Il paradosso che ne risulta è il seguente: Hobbes è il teorico dell’individualità, ma l’ordine in cui risolve le relazioni di queste individualità è per Parsons del tutto insoddisfacente; Locke in definitiva produce un ordine non coercitivo, ma a partire da un’idea dell’individualità del tutto insostenibile34. 3. La legittimità del fattuale Parsons dissolve così sul piano della costruzione dell’ordine sociale la dicotomia tra libertà e costrizione, trasformando la definizione di ciò che deve intendersi come normativo. Per Hobbes, come dimostra la distinzione fondamentale tra diritto e legge, la norma è essenzialmente esterna, perché il caos delle normatività individuali non può trovare una composizione se viene lasciato al suo libero dispiegarsi. Parsons invece attinge da Durkheim la possibilità che le norme non siano solo una condizione dell’azione della quale l’individuo razionale tiene conto per raggiungere i propri scopi particolari, ma che nell’ordine sociale le norme sono state interiorizzate dall’attore, diventando un elemento dell’azione stessa. Siamo così di fronte al punto di sutura di un’individualità che si presenterebbe altrimenti come irrimediabilmente scissa. L’individuo parsonsiano comporta «l’adesione volontaria [alla norma] come un dovere»35. In questo 34 Sulla lettura parsonsiana dei classici dell’utilitarismo cfr. C. Camic, The Utilitarians Revisited, in «The American Journal of Sociology», 85, 1979, pp. 516-550; L. Mayhew, In Defence of Modernity: Talcott Parsons and the Utilitarian Tradition, in «American Journal of Sociology», 89, 1984, pp. 33-60; H. Wenzel, Die Ordnung des Handels. Talcott Parsons’ Theorie des allgemeinen Handlungssystem, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1990, pp. 100-112. 35 Parsons, La struttura dell’azione sociale, cit., p. 477. 188 la società come ordine modo egli si obbliga da sé, si autodisciplina, non per la paura della punizione, ma per la condivisione dei valori o fini ultimi dell’ordine sociale. Alla base di questa posizione vi è la convinzione che i bisogni in senso utilitaristico «non possono costituire la base di un ordine normativo»36, perché sono per definizione casuali. Allo stesso tempo però essi sono anche ineliminabili, o meglio, continuano a far parte in modo determinato della logica parsonsiana dell’ordine. D’altronde se così non fosse la costruzione teorica sarebbe totalmente avulsa dalla realtà e non arriverebbe a restituirne il senso come invece pretende. Soprattutto in Alfred Marshall, Parsons trova la conferma che non è possibile comprendere lo sviluppo economico muovendo dai bisogni biologici dell’uomo o dai suoi bisogni artificiali, ovvero dalla sua razionalità dispiegata. Fondamentale è il riferimento di Marshall alle activities quale motore reale dello sviluppo capitalistico. Queste “attività” sono, di fatto, il motore dello sviluppo della libera impresa, ma Marshall vi connette un’importanza morale, che le porta oltre il loro immediato fine utilitaristico, essendo più profondamente motivate e mosse dal fine “collettivo” del prosperare [thrive]. Se così non fosse, se le motivazioni delle activities fossero interpretabili solo in chiave biologica o psicologica, secondo Marshall, si finirebbe per prosperare individualmente, ma non si riuscirebbe a beneficiare l’ambiente. Marshall è per Parsons la traduzione ancora imperfetta e manchevole in economia politica dello spirito del 36 Ibid., p. 481. Sul concetto parsonsiano di ordine cfr. G. Sciortino, Sul concetto di ordine normativo nella teoria dell’azione, in G. Sciortino et al., Talcott Parsons. La cultura della società, Milano, Mondadori, 1998, pp. 98-124; D.P. Ellis, The Hobbesian Problem of Order: A Critical Appraisal of the Normative Solution, in «American Sociological Review», 36, 1971, pp. 692-703; J.H. Barnsley, On the Hobbesian Problem of Order: A Comment, in «American Sociological Review», 37, 1972, pp. 369-373; D.P. Ellis, Reply to Barnsley, in «American Sociological Review», 37, 1972, pp. 373-376; T. Burger, Talcott Parsons, the Problem of Order in Society, and the Program of an Analytical Sociology, in «The American Journal of Sociology», 83, 1977, pp. 320-339; E. Schwanenberg, The Two Problems of Order in Parsons’ Theory: An Analysis from Within, in «Social Forces», 49, 1971, pp. 569-581; R. Prandini, In difesa dell’ordine volontaristico: Talcott Parsons teorico della condizione umana e dell’evoluzione sociale, in «Quaderni di teoria sociale», 2, 2002, pp. 121-150. 6. la struttura dell’ordine 189 capitalismo weberiano. E qui si riapre il problema dell’azione sociale che Parsons aveva definito a partire dalla dialettica tra Hobbes e Locke. Se negli esiti Marshall è in definitiva lockiano, perché pretende che la ragione domini le passioni, la sua concettualizzazione delle activities permette a Parsons di sostenere che le azioni economiche sono inserite, ma non danno origine e nemmeno producono un ordine. Importante è notare il rifiuto dello specifico modello di azione che Parsons trova formulato in Marshall, secondo il quale: «il “sociale” è concepito come risultante delle varie forze dell’attività individuale»37. In altri termini il “sociale” non può essere soltanto un esito, perché altrimenti viene consegnato allo scontro e alla lotta degli individui che vengono pensati come destinati a imporsi o a soccombere in dipendenza del successo delle loro azioni. Al contrario proprio il carattere continuo e non dialettico assegnato da Marshall allo sviluppo consente una diversa comprensione del sociale. Quando Parsons scrive che, grazie a Durkheim, «l’elemento sociale viene definitivamente estromesso dalla categoria dei fatti, o condizioni dell’azione, e assume uno status soggettivo»38, non solo indica il fondamento individuale del sociale, ma, ancora una volta, ne sostiene il carattere autonomamente normato, non in quanto figura complessiva, ma in forza della costituzione degli individui. Marshall ha allargato il campo dell’economia per includervi le attività di individui determinati che non sono risolvibili nei termini delle grandi categorie attraverso le quali si esprimeva l’economia classica, e in particolare quella teoria del valore lavoro che, secondo Parsons, dal Secondo trattato sul governo attraverso Ricardo, arriva fino a Marx. Il superamento della centralità dell’azione economica è fondamentale, non solo per la definizione del sociale, ma anche per la costruzione della legittimità politica dell’azione sociale. 37 T. Parsons, Economics and Sociology: Marshall in Relation to the Thought of His Time, ora in Id., The Early Essays, cit., pp. 69-94, p. 74. Cfr. anche B.C. Wearne, Talcott Parsons’s Appraisal and Critique of Alfred Marshall, in «Social Research», 48, 1981, pp. 816-851. 38 Parsons, La struttura dell’azione sociale, cit., p. 505. 190 la società come ordine Il concetto di azione deve perciò individuare altri moventi da quelli razionali, moventi che – utilizzando la terminologia paretiana – sono definiti come non logici, sebbene non siano necessariamente illogici dal punto di vista dell’osservatore. Questi moventi non logici corrispondono alla razionalità rispetto al valore della sociologia weberiana. Sono questi valori comunque tematizzati che stabiliscono la dimensione societaria, non il suo essere parte di uno sviluppo. Pareto, inoltre, è anche l’unico dei “sociologi parsonsiani” che riafferma la presenza costitutiva della forza e della frode nei comportamenti umani39. Questo elemento “machiavellico”, come riconosce Parsons, ripropone una sorta di teoria ciclica della storia segnata dall’avvicendamento tra il tipo della “volpe” e quello del “leone”, introducendo un elemento negativo nell’antropologia parsonsiana, che lui stesso prevede scarsamente comprensibile visto dagli Stati Uniti. In realtà quell’elemento è pienamente inserito nella traccia teologico-politica che attraversa la sua riflessione che, dalla constatazione apparentemente occasionale che il sovrano hobbesiano tiene lo stesso luogo occupato da Dio nella teologia cristiana giunge, come vedremo, fino alla rilettura del ruolo della profezia in Weber. L’antropologia sociologica parsonsiana si costruisce così nel distacco sia dall’ottimistica fede nel progresso propria della borghesia liberale europea, sia dallo slancio riformistico della prima fase del New Deal roosveltiano40, mentre allo stesso tempo la trama del suo 39 Vale la pena segnalare che Pareto è stato un autore assai letto e rilevante a Harvard. Proprio per questo la scelta parsonsiana assume ancora maggior peso: cfr. B.S. Heyl, The Harvard ‘Pareto Circle’, in «Journal of the History of the Behavioral Sciences», 4, 1968, pp. 316-334. Il testo di riferimento all’epoca era sicuramente quello di G.C. Homans, C.P. Curtis Jr, An Introduction to Pareto. His Sociology, New York, Alfred A. Knopf, 1934, nato dal seminario tenuto nei due anni precedenti a Harvard dal già citato Lawrence J. Henderson. L’interesse politico per Pareto è legato alla crisi degli anni Trenta. All’interno di quest’ultima le azioni non sono più nemmeno apparentemente determinate dalla razionalità di scelte basate su conoscenze precise e scopi chiaramente stabiliti: «in tempi come il presente le fondazioni non-logiche della società sono messe a nudo, e il fallimento di storici e sociologi nel descrivere adeguatamente la società è reso manifesto» (Ibid., p. 6). 40 L’iniziale adesione a quello slancio riformistico è testimoniata dagli scritti autobiografici dello stesso Parsons. Il suo declino all’interno degli scritti degli anni 6. la struttura dell’ordine 191 ordine sociale propone i caratteri di una comunità societaria nella quale un «protestante con tendenze scettiche»41, quale lui stesso si definisce, rielabora gli esiti del calvinismo politico. L’uomo è, per Parsons, una «creatura attiva, creativa e valutativa». L’elemento soggettivo e volontaristico è tuttavia ricompreso all’interno di un sistema condiviso di valori che impedisce che ogni azione debba svolgersi in vista di fini ultimi proprio perché già li comprende. Il paradosso di quelli che Parsons chiama fini o valori ultimi è che essi pur essendo fini concreti, non sono collocati in una posizione ulteriore rispetto ai fini che si pone l’individuo razionale, ma ne costituiscono un fattore. Essi non stabiliscono perciò il fine ultimo verso il quale il sistema dell’azione nel suo insieme tende a evolvere, sono piuttosto le condizioni di possibilità della stessa esistenza del sistema sociale. Essi hanno un’esistenza concreta, ma non una dimensione positiva nel senso della sociologia ottocentesca o addirittura del diritto. In realtà questo sistema di fini ultimi è necessario per risolvere il problema dell’ordine. Qui emerge lo scarto tra Smith e Parsons, il quale non riesce ad affidarsi meramente alla simpatia reciproca tra gli individui, ma all’interno della grande crisi della società come ordine che negli anni Trenta lacera tanto l’Europa quanto gli Stati Uniti, egli riscopre la necessità dell’ordine come sistema che rende possibile la società. Questo ordine deve essere necessariamente già presente e sistematicamente attivo nel momento in cui gli individui decidono la direzione del loro agire. Esso è necessariamente l’esito di una disciplinamento nella scelta dei fini che agisce come presupposto: «l’esistenza di un sistema di tali fini comuni ai membri di una comunità sembra essere la sola alter- Trenta e Quaranta è ricostruito da H. Brick, The Reformist Dimension of Talcott Parsons’s Early Social Theory, in T.L. Haskell, R.F. Teichgraeber (eds), The Culture of the Market: Historical Essays, Cambridge, Cambridge University Press, 1993, pp. 357-396 e H. Brick, Talcott Parsons’s “Shift away from Economics”, 1937-1946, in «The Journal of American History», 87, 2000, pp. 490-514. 41 Parsons, The Place of Ultimate Values in Sociological Thought, cit., p. 252. Cfr. anche B.C. Wearne, The Theory and Scholarship of Talcott Parsons to 1951: A Critical Commentary, Cambridge, Cambridge University Press, 1989, pp. 11-18. 192 la società come ordine nativa a uno stato di caos: un fattore necessario della stabilità sociale»42. In questo modo essi determinano anche la temporalità del sistema dell’azione, perché appunto non figurano come obiettivo da raggiungere alla fine di uno scorrere lineare del tempo, ma come anticipazione soggettiva di uno «stato di cose desiderabile nel futuro». Tale futuro non è in alcun modo utopico, ma sembra essere al contrario l’estensione al futuro della legittimità del presente. Il tempo del soggetto risulta così mobilitato in un duplice modo. Da una parte con le sue scelte razionali egli si muove verso un futuro teleologicamente orientato. Dall’altra parte, poiché i fini ultimi vivono attraverso e all’interno delle sue azioni razionali, egli attira, per così dire, il futuro verso di sé con un moto essenzialmente circolare, la cui idea come abbiamo visto Parsons trova in Pareto e che contrappone alle teleologie utilitaristiche. L’individuo parsonsiano non scruta ansiosamente l’avvenire per scoprire quale sarà il destino possibile dei suoi desideri, ma lo anticipa continuamente mettendo a valore le risorse che trova a sua disposizione all’interno del sistema. Egli è estraneo sia allo spirito prometeico dell’individuo hobbesiano con la sua ansia di futuro43, sia alle angosce di quello weberiano di fronte al sempre possibile scontro dei valori. Ciò è vero nonostante Weber rappresenti per Parsons una sorta di compimento preliminare dell’evoluzione della scienza sociale: in primo luogo per la sua lettura del capitalismo in chiave comparativa e non evolutiva, quindi per la centralità riconosciuta all’individualità con la tesi di uno spirito del capitalismo legato alla vocazione individuale. Se Parsons avrà sempre dubbi sull’efficacia complessiva dei tipi ideali, manterrà invece costantemente 42 Parsons, The Place of Ultimate Values in Sociological Thought, cit., pp. 241-242. 43 Si veda T. Hobbes, Leviathan, ed. with an introduction by C.B. Macpherson, London, Penguin books, 1985; trad. it. Leviatano, Firenze, La Nuova Italia, 1976, p. 103 con il riferimento a Prometeo «che, interpretato, vale uomo prudente» il cui destino incatenato «al monte Caucaso, luogo dall’ampia veduta», serve come identificazione dell’uomo «che, preoccupato per il futuro, guarda troppo lungi davanti a sé, ha il cuore roso, per tutto il giorno, dal timore della morte, della povertà o di altra calamità, e non trova riposo né pausa alla sua ansietà, se non nel sonno». 6. la struttura dell’ordine 193 il riferimento a questa radice “individuale” dello sviluppo sociale ed economico. Weber finisce per rappresentare soprattutto il compimento di una logica che, secondo Parsons, riconosce negli aspetti “rituali” dell’azione la manifestazione concreta dei fini o valori comuni che la attraversano. Il problema dell’azione è per Parsons un problema sociale: siamo cioè di fronte a una teoria non individualistica dell’azione individuale. Proprio perché non hanno collocazione ulteriore rispetto al sistema globale o totale dell’azione, i valori ultimi devono trovare dei momenti determinati di emersione all’interno del sistema stesso. E ciò segna la centralità di Weber nel discorso parsonsiano. L’intuizione che in Weber «la burocrazia […] ha in un certo senso la stessa funzione della lotta in classe in Marx e della concorrenza in Sombart»44, apre la strada a una concezione delle istituzioni sociali come luoghi di costante mobilitazione dell’ordine nel suo complesso e non solo come bastioni di difesa di determinati rituali sociali. Se da un lato vi sono perciò le istituzioni sociali, che «sono intimamente connesse con gli orientamenti ultimi di valore comuni ai membri di una comunità e, almeno in parte, traggono origine da tali orientamenti»45, dall’altra vi è appunto tutta la traduzione parsonsiana di Weber. Non importa qui stabilire quanto questa traduzione sia stata anche un tradimento, certo è che già la scelta di rendere la Herrschaft weberiana con authority non indica solo una strategia di neutralizzazione, ma fa parte di una ridislocazione complessiva di concetti weberiani quali burocrazia, carisma e di agire orientato al valore. E lo stesso discorso andrebbe probabilmente fatto sullo specifico campo semantico e sullo statuto concettuale di action rispetto a quelli del weberiano Handeln46. 44 Parsons, La struttura dell’azione sociale, cit., p. 627. Prolegomeni a una teoria delle istituzioni sociali, cit., p. 54. 46 La polemica sulla lettura parsonsiana di Weber esplode con il saggio J. Cohen, L.E. Hazelrigg, W. Pope, De-Parsonsizing Weber: A Critique of Parsons’ Interpretation of Weber’s Sociology, in «American Sociological Review», 40, 1975, pp. 229-241 e la risposta di T. Parsons, On “De-Parsonsizing Weber”, in «American Sociological Review», 40, 1975, pp. 666-670. 45 Parsons, 194 la società come ordine Il carisma, sottratto all’ineffabilità del suo essere una potenza rivoluzionaria, diviene «una qualità empirica osservabile in uomini e cose, in relazione alle azioni e agli atteggiamenti umani»47. Esso non è un’irruzione straordinaria all’interno della normalità dell’ordine sociale, ma il fondamento stesso della sua legittimità così come empiricamente emerge nell’esistenza dei fini ultimi. Così come avviene nella lunga ricostruzione del concetto weberiano di profezia, il punto di approdo di Parsons è una profezia senza profeti e un’autorità carismatica senza leader. Su questo terreno si evidenzia lo spostamento operato da Parsons, perché lo stesso meccanismo centrale della legittimazione è sottratto definitivamente alla forma politica e alle sue espressioni organizzate, per essere prodotto interamente sul piano del “sistema globale” dell’azione sociale. «La legittimità è così l’applicazione istituzionale, o l’espressione del carisma»48, che invece di esaurirsi nella sua istituzionalizzazione, diventa il fondamento costante, ripetuto e individualizzato della legittimità. Se, dal punto di vista oggettivo, tutta l’azione può essere considerata logica, solo rivolgendosi a quello soggettivo si possono cogliere elementi non logici o tradizionali, ovvero quelle regolarità, che stabiliscono la legittimità del fattuale. «L’elemento d’ordine dei fenomeni concreti» consiste in definitiva nel fatto che i valori particolari si trovano comunque in «rapporti costanti gli uni rispetto agli altri»49. La legittimità dell’inavvertita decisione politica che consente poi le relazioni economiche si colloca quindi in quell’ambito che Parsons definisce «ordine concreto totale». Qui, infatti, dovrebbero compendiarsi quegli elementi sociali che assumono però immediato segno politico: l’ordine di fatto, la norma di efficienza e la norma di legittimità. 47 Parsons, La struttura dell’azione sociale, cit., p. 819. p. 820. 49 Ibid., p. 921. 48 Ibid., Capitolo settimo L’ordine ritrovato 1. Metafisica e scienze sociali Nel 1924 Alfred North Whitehead si trasferisce a Harvard per insegnare filosofia. Vi rimane fino al 1937, e durante questo periodo influenza in modo significativo la formazione di una generazione di scienziati sociali. Nella sua «filosofia dell’organico» essi trovano sia le ragioni per rinnovare il confronto con le scienze naturali, sia gli argomenti per prendere commiato da parti significative della storia delle proprie discipline scientifiche. L’esito dell’approdo negli Stati Uniti della filosofia di Whitehead1 è così il rinnovamento del canone di scienze sociali che in apparenza si presentano come fortemente improntate alla prassi e finiscono in alcuni casi per rivendicare un approccio che, se non può evidentemente esimersi dal produrre teoria, sembra comunque connotato da una distanza ricercata tra teoria e scienza politica, tra teoria sociologica e ricerca empirica2. Le categorie introdotte da Whitehead forniscono i nessi necessari per l’immaginazione di 1 Su Whitehead cfr. da ultimo I. Stengers, Penser avec Whitehead. Une libre et sauvage création de concepts, Paris, Seuil, 2002. Interessante è anche A. Fairchild Pomeroy, Marx and Whitehead. Process, Dialectics and the Critique of Capitalism, Albany, State University of New York Press, 2004. 2 Si vedano le ricostruzioni di I. Katzenelson, Desolation and Enlightment. Politi������� cal Knowledge after Total War, Totalitarism, and the Holocaust, New York, Columbia University Press, 2003 e J.G. Gunnell, Imagining the American Polity. Political Science and the Discourse of Democracy, University Park, The Pennsylvania State University Press, 2004. 196 la società come ordine progetti disciplinari di lungo periodo e di grande portata: dalla sociologia di Talcott Parsons e di Robert K. Merton alla scienza politica di Harold Lasswell3. Non siamo evidentemente di fronte alla trasposizione negli specifici ambiti disciplinari di una filosofia che peraltro si presenta orgogliosamente nella forma di una metafisica rinnovata e reinventata. Non è nemmeno possibile affermare che siamo di fronte alla narrazione che funziona da genesi unica e nascosta di molte altre. Ciò che non si può invece negare è che quella filosofia, e in particolare due testi di Whitehead – La scienza e il mondo moderno del 1925 e Processo e realtà del 1929 –, agiscono come punto di riferimento per diversi scienziati sociali, entrando a far parte di uno specifico ordine della teoria delle scienze sociali che si presenta come profondamente differente dai suoi antecedenti europei. Non si può d’altronde trascurare che la filosofia di Whitehead, ripensando contemporaneamente la filosofia e la scienza occidentali, offre esplicitamente i prolegomeni per una teoria della società. Quest’ultima risulta fondata sul carattere dinamico di un organicismo che, serenamente abbandonata la tradizione europea delle infinite variazioni intorno all’analogia tra la “società”, o ancor prima il “corpo politico”, e il corpo umano, rivendica il carattere compiutamente metaforico del riferimento a un organismo pensato come insieme di strutture complesse. Essa non ha cioè la necessità stringente di dimostrare e richiamare in continuazione l’analogia tra le funzioni dell’organismo e quelle della società, ma afferma, grazie a un processo di astrazione, la 3 Sull’influenza esercitata da Whitehead su Lasswell si possono vedere le rapide annotazioni di H. Eulau, The Maddening Methods of Harold D. Lasswell: Some Philosophical Underpinnings, in «The Journal of Politics», 30, 1968, pp. 3-24, riprese da M. Stoppino, Potere ed élites politiche. Saggi sulle teorie, Milano, Giuffré, 2000, pp. 72 sgg. Nonostante gli espliciti riconoscimenti e i prestiti evidenti in termini di vocabolario non esiste invece a mia conoscenza una ricostruzione puntuale del rapporto tra Whitehead e Parsons, cfr. comunque quanto scrive C. Camic nell’introduzione a T. Parsons, The Early Essays, cit., pp. XXXIII-XXXIV. Non si può infine dimenticare che, per indicare la relazione tra storia e teoria della scienza, Robert K. Merton pone una citazione di Whitehead a epigrafe dell’introduzione del suo Social Theory and Social Structure: Toward the Codification of Theory and Research, Glencoe, The Free Press, 1949; trad. it. Teoria e struttura sociale, Bologna, il Mulino, 1959, p. 7, ma anche p. 13. 7. l’ordine ritrovato 197 presenza di funzioni determinate che sono necessarie per l’esistenza della struttura. Contro ogni immaginario semplicemente meccanicistico la scienza sociale riafferma così in maniera assai decisa la priorità della struttura complessiva sulle parti che la compongono, nella convinzione che la «definizione stessa di un tutto organico si riferisce a un qualche cosa, all’interno del quale i rapporti determinano le proprietà delle parti. Le proprietà dell’insieme non sono semplicemente una risultante delle proprietà delle parti. Ciò è vero, si tratti di un organismo o di un’altra unità, ad esempio una “mente”, una “società” ecc.»4. A questo riguardo, va almeno segnalato che l’altro costante punto di riferimento di Parsons – così come di molti altri studiosi formatisi a Harvard – è stato senza dubbio il biochimico Lawrence J. Henderson. Le sue opere The Fitness of the Environment e The Order of Nature svolgono un ruolo determinante sia per la differenziazione del sistema sociale da quello della natura, sia per la definizione del concetto di ordine. È significativo, in particolare, come Herderson individui la specificità di un ordine dinamico diverso da quello che appare a una considerazione esclusivamente statica della natura. La correlazione di tempo e ordine rende così possibile l’idea di una “evoluzione” come “processo” che, lungi dal deformare la situazione, rende manifesto il carattere comunque ordinato dei movimenti della materia. L’acquisizione che i movimenti non sono una negazione dell’ordine, bensì una sua parte necessaria, legittima nuovamente la teleologia all’interno dei sistemi scientifici, sebbene essa sia ora fondata sulla struttura stessa dei singoli elementi e non dedotta dall’unità della natura in quanto tale. Questo nuovo ordine è, per così dire, nascosto se si considerano le proprietà della materia astrattamente e staticamente, perciò esso è riconoscibile e intellegibile solo attraverso i suoi effetti. Esso diviene evidente solo se viene preso in considerazione il tempo. Esso ha un significato dinamico e legato all’evoluzione. Esso è associato con il sistema periodico degli elementi, 4 T. Parsons, La struttura dell’azione sociale, cit., p. 52, il quale inoltre annota che «l’analisi più completa del concetto generale di “organico” di cui disponiamo è contenuta nelle opere di Whitehead». 198 la società come ordine più o meno nello stesso modo in cui l’ordine funzionale è collegato a quello strutturale in biologia. Perciò esso non è indipendente dall’altro ordine, ma si può dire che giaccia nascosto nell’altro5. Questo discorso e i suoi singoli termini sono, come si vedrà, assolutamente significativi e, non a caso, le ricerche di Henderson si indirizzeranno nel tempo in maniera sempre più netta verso la sociologia, mostrando il proprio riferimento alla dottrina di Pareto. La filosofia dell’organismo di Whitehead, invece, mentre si appropria delle acquisizioni della matematica, della fisica e della biologia, riconosce il proprio debito nei confronti del concetto spinoziano di sostanza e della teorizzazione leibniziana della comunità. Proprio la coniugazione di scienza, filosofia e scienza sociale fa peraltro sì che il riferimento all’organismo non sia motivato e fondato da uno slancio vitalistico, come pure avviene negli stessi anni in Francia grazie alla filosofia di Bergson, ma piuttosto in conformità a quella che Whitehead giunge a definire con significativo ossimoro «teoria del meccanicismo organico»6. È solo marginalmente rilevante invece che l’opera di Whitehead possa essere letta anche come contributo per la risoluzione della crisi che la politica sta attraversando7, ciò che conta sono gli 5 L.J. Henderson, The Order of Nature. An Essay, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1917, pp. 184-185. La sua rilevanza è evidente in T. Parsons, A Paradigm of Human Condition, in Id., Action Theory and the Human Condition, New York, The Free Press, 1978, pp. 352-433. 6 «Definirò la teoria di questo libro teoria del meccanicismo organico. Secondo questa teoria, le molecole possono correre ciecamente in armonia con le leggi generali, ma si differenziano nelle loro qualità intrinseche conformemente ai piani organici generali delle situazioni nelle quali si trovano» (A.N. Whitehead, Science and the Modern World. Lowell Lectures 1925, Cambridge, Cambridge University Press, 1930; trad. it. La scienza e il mondo moderno, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, p. 95). 7 Cfr., per esempio, A.H. Johnson, The Social Philosophy of Alfred North Whitehead, in «The Journal of Philosophy», 40, 1943, pp. 261-271. Sulla questione specifica dell’organicismo di Whitehead vale comunque il riconoscimento di H.D. Lasswell, The Analysis of Political Behaviour, in «Psychiatry», 2, 1939; trad. it. Uno schema generale: persona, personalità, gruppo, cultura, in Id., Potere, politica e personalità, a cura di M. Stoppino, Torino, UTET, 1975, pp. 613-657, p. 631: «Uno dei meriti di Whitehead, e non tra i meno importanti, è quello di aver liberato la concezione dell’organico dalla fraseologia dei secoli precedenti, ormai consunta e resa inservibile dalle polemiche». In questo modo la fraseologia organicista viene anche liberata dalla sua ipoteca politica 7. l’ordine ritrovato 199 strumenti che essa offre per la ridefinizione del linguaggio e dei concetti della sociologia, della scienza politica e dell’antropologia dei decenni successivi. La «teoria del meccanicismo organico» offre al discorso delle scienze sociali una specifica temporalità, basata sulla periodicità piuttosto che sulla unicità degli eventi, i lineamenti di una conseguente dottrina della società, nella quale inevitabilmente l’ordine interno è la ragion d’essere della società stessa, e infine, una considerazione dell’individuale – sia esso il singolo evento o il singolo individuo – che lo colloca all’interno della «molteplicità di eventi» che caratterizzano la realtà del processo tanto fisico quanto sociale. Queste relazioni tra una prestazione squisitamente filosofica e le scienze sociali statunitensi a ridosso della seconda guerra mondiale sono rese possibili dal linguaggio adottato da Whitehead che, mentre sembra essere fortemente influenzato da quello della sociologia, ne anticipa alcuni elementi essenziali. Così una società è, per ognuno dei suoi membri, un ambiente con qualche elemento d’ordine in sé, persistente a causa delle relazioni generali fra i propri membri. Un tale elemento di ordine è l’ordine prevalente nella società. Ma non c’è società in isolamento. Ogni società deve essere considerata nello sfondo di un ambiente più vasto di entità reali, che anche forniscono le loro oggettivazioni, alle quali i membri della società devono conformarsi8. Vengono così posti in primo piano sia il riferimento alla centralità del problema dell’ordine sia quello del rapporto tra sistema sociale e ambiente. L’esistenza di un ordine che permette l’esistenza fattuale dell’organismo sociale non viene concepita in conservatrice, per renderla disponibile, scrive ancora Lasswell, a delineare una diversa relazione tra le «entità globali» e un individuo pensato come «tormentato e insicuro» e perciò bisognoso di identificazione con la totalità sistemica. 8 A.N. Whitehead, Process and Reality. An Essay in Cosmology. Gifford Lectures Delivered in the University of Edinburgh During the Session 1927-28, corrected edition ed. by D.A. Griffin, D.W. Sherburne, New York, The Free Press, 1978; trad. it. Il processo e la realtà. Saggio di cosmologia. Lezioni Gifford tenute all’università di Edimburgo nella sessione 1927-28, Milano, Bompiani, 1965, p. 201. Sul rapporto tra ordine e teoria in Whitehead cfr. M. Code, Order and Organism. ��������������������� Steps to a Whiteheadian Philosophy of Mathematics and the Natural Sciences, Albany, State University of New York Press, 1985. 200 la società come ordine contrapposizione al caos quale suo opposto negativo9, ma piuttosto in relazione alla presenza di un determinato tasso di disordine che condiziona sia la genesi sia la sua durata nel tempo della società stessa. Il termine “disordine” si riferisce a una società che riesce solo parzialmente a imprimere le sue caratteristiche sotto forma di leggi prevalenti. Questa dottrina, che l’ordine è un prodotto sociale, appare alla scienza moderna quale teoria statistica delle leggi naturali, e nell’accento posto sulla relazione genetica10. L’ordine si trova confrontato da una parte con la sua parzialità e dall’altra con il carattere ideale che gli compete nella genesi della società stessa. L’ordine è inteso come elemento dinamico che non esaurisce la costituzione presente della società proprio perché si è presentato da subito come condizione parziale e da raggiungere fattualmente nel momento della sua origine. Esso si presenta come assetto normativo vigente in maniera prevalente all’interno di determinati confini, che definiscono la società nella sua specificità rispetto ad altre società con le quali essa intrattiene relazioni e assieme alle quali è inserita in un organismo più vasto. La dottrina che ogni società richiede un ambiente sociale più vasto conduce alla distinzione che una società può essere più o meno “stabilizzata” in rapporto a certi tipi di cambiamento in quell’ambiente. Una società è “stabilizzata” in rapporto a una specie di cambiamento quando può persistere in un ambiente le cui parti rilevanti mostrano quel tipo di cambiamento11. 9 Whitehead, Il processo e la realtà, cit., p. 206: «Ma può evidentemente esservi uno stato nel quale non ci siano società prevalenti che assicurino una qualsiasi congruente unità di effetto. Questo è uno stato di disordine caotico; è un disordine che si avvicina al senso assoluto del termine. In tale stato ideale, quello che è dato per qualsiasi entità reale è il risultato di decisioni opposte e contrarie al mondo stabilito. Disordine caotico significa mancanza di una definizione dominante dei contrasti compatibili nelle soddisfazioni raggiunte, e un conseguente indebolimento dell’intensità». 10 Ibid., pp. 205-206. 11 Ibid., p. 219. 7. l’ordine ritrovato 201 Ordine, cambiamento e stabilità finiscono così per insistere sulla stessa struttura senza pregiudicarne l’esistenza, ma determinando in definitiva le possibilità di una sua “evoluzione” che, su queste basi rinnovate, torna a essere un concetto chiave delle scienze sociali. Parlare di ordine significa in questo contesto, come vedremo, stabilire una specifica equivalenza tra mutamento e invariabilità, tra “storia” e “tradizione”. Se infatti la persistenza delle strutture non viene interpretata come immutabilità, allo stesso tempo le loro modificazioni non stabiliscono la priorità dell’innovazione, ma piuttosto dell’adeguamento sistematico. La continuità nel tempo viene così letta come la ricorrenza di caratteristiche determinate all’interno di un processo. Il carattere processuale degli eventi, tuttavia, non si risolve, e non può risolversi, nella casualità delle variazioni. E d’altra parte, se così fosse, non sarebbe possibile riconoscere e stabilire alcun principio d’ordine all’interno del processo stesso. Alla nozione matematica di periodicità Whitehead assegna un carattere fondativo della stessa possibilità di conoscere. Dal momento che «il generale ricorrere di fenomeni fa parte della nostra esperienza normale», è per lui indiscutibile che «senza questa ricorrenza il sapere sarebbe impossibile, perché nulla potrebbe essere riferito a una nostra esperienza anteriore»12. La ripetizione secondo un ordine e, allo stesso tempo, come verifica costante dell’ordine medesimo, non implica l’«accettazione di un’irrazionalità finale»13. In altri termini il carattere periodico degli eventi non comporta l’assenza di mutamento, né significa affermare che i cambiamenti avvengano secondo la più assoluta casualità, quanto piuttosto la relativizzazione dell’individualità all’interno del carattere continuo e ripetitivo dell’ordine. Siamo così di fronte a un impianto fortemente tributario della storia della scienza che contiene al suo interno indicazioni di carattere metodologico che funzionano come fondamento del discorso sulla società. Da questo punto di vista la filosofia di Whitehead 12 Whitehead, 13 Ibid., p. 23. La scienza e il mondo moderno, cit., pp. 48-49. 202 la società come ordine offre la possibilità di sottrarsi al dominio del dato empirico. Essa legittima infatti la centralità di un’astrazione teorica che connette e misura le diverse emergenze individuali senza tuttavia cedere di fronte all’unicità e alla irripetibilità dell’evento. Il fatto concreto è, dunque, processo; analizzabile primariamente nella sottostante attività di prensione, e negli eventi prensivi realizzati. Ogni evento è una realtà di fatto individuale risultante da una individualizzazione dell’attività che ne è il substrato. Ma individualizzazione non significa indipendenza sostanziale14. La singolarità non viene certamente obliterata, ma compresa a partire dal ruolo o dalla funzione svolta all’interno di quel processo. La posizione dell’evento viene così prefigurata nel complesso gioco di astrazioni che si svolge tra teoria e realtà, dal momento che esso «è lo stringersi in unità di un modello di aspetti». Nonostante la centralità che, come vedremo, assume il riferimento alla funzione, non si può dire che l’evento sia relegato a una posizione inerte e passiva, perché esso trova il proprio significato come agente della persistenza e del mutamento. «L’evento costituisce un valore strutturato con una permanenza inerente a tutte le sue parti; e, a motivo di questa permanenza inerente, l’evento è importante per la modifica del suo ambiente»15. Dal momento che l’evento non è mai concepibile come un unico, ma sempre all’interno di una molteplicità di eventi, esso impone la produzione di una teoria che chiarisca i loro nessi reciproci e con l’ambiente. In questo senso Whitehead può sostenere che: «attraverso un processo di astrazione costruttiva possiamo arrivare ad astrazioni quali le frazioni di materia con collocazione semplice, nonché altre quali le menti incluse nel sistema scientifico. Di conseguenza l’errore reale sta in quello che ho chiamato “la fallacia della concretezza mal posta”»16. 14 Ibid., p. 85. p. 137. Lasswell, Uno schema generale: persona, personalità, gruppo, cultura, cit., p. 613 scrive: «La terminologia che impiego deriva in parte dalla scuola logica di Cambridge, e specialmente da A.N. Whitehead. Questa derivazione è evidente nell’uso di espressioni come “evento” e “molteplicità di eventi”». 16 Whitehead, La scienza e il mondo moderno, cit., p. 73. 15 Ibid., 7. l’ordine ritrovato 203 Non incorrere in questa fallacia – spesso richiamata da Talcott Parsons, anche per criticare «la tendenza [di Max Weber] a reificare i suoi concetti di tipo ideale»17 – significa assumersi la responsabilità di formulare una serie di astrazioni che consentano di “riprodurre” l’ordine della natura. E, coerentemente con il passaggio dall’analogia alla metafora in relazione all’organismo, dal punto di vista delle scienze sociali questa riproduzione non è una mimesi, ma un’attività che, mentre ritrova l’ordine come riferimento, contribuisce a produrlo come zona di conformità in cui coincidono la norma e le deviazioni, il mutamento e la sua conservazione18. Ciò che la filosofia di Whitehead in definitiva consente è la possibilità di immaginare un mutamento controllato dagli stessi elementi che compongono la struttura, dal momento che, pena il deperimento dell’organismo stesso, viene teorizzato l’agire “integrato” di tutti gli elementi presenti. Non siamo perciò di fronte a una teoria statica della società, quanto piuttosto a una teoria dinamica che si fonda sull’esistenza fattuale di elementi che agiscono in comune e, in ultima analisi, sulla conservazione dei movimenti del sistema. 2. Tacco e martello Whitehead d’altra parte riconosce al Medioevo – in quanto «lungo tirocinio della mentalità dell’Europa occidentale nel senso dell’ordine» – la genesi ancora imperfetta e la pratica paradossalmente troppo meccanicistica della «concezione di un sistema definito e coerente che fissava nei suoi particolari la legalità della struttura sociale e, sempre nei particolari, fissava il comportamento di questo sistema». Assume perciò un chiaro significato il riconoscimento, a prima vista anacronistico se non addirittura ingenuo, di una «fede istintiva nell’esistenza di un Ordine della 17 Parsons, La struttura dell’azione sociale, cit., p. 924. D.H. Wrong, The Problem of Order. What Unites and Divides Society, New York, The Free Press, 1994. 18 Cfr. 204 la società come ordine Natura [che] può essere scoperta in ogni evento circostanziato»19, e nel quale la «supremazia dell’idea di funzionalità»20 è necessaria per dare significato alla continuità e alla ripetizione di eventi che altrimenti sarebbero riferiti esclusivamente a se stessi e non al sistema nel suo complesso. Come nella filosofia dell’organismo anche nella teoria delle scienze sociali il criterio della funzionalità assume un significato che non è solo metodologico, cioè esterno e ordinativo per gli eventi, ma interno e inerente alla loro stessa definizione. Nonostante tutte le discussioni metodologiche ed epistemologiche a cui ha dato origine21, il funzionalismo non è meramente un problema di metodo ma riguarda, come in definitiva sostiene Talcott Parsons, la costituzione stessa del sistema sociale, il suo essere già immaginato, letteralmente costituito, come ordine: «il problema funzionale dei sistemi sociali può essere sintetizzato come il problema dell’allocazione e dell’integrazione»22. Nella soluzione del problema funzionale il sistema sociale trova conferma costante sia di quali sono i suoi elementi costitutivi sia della dinamica alla quale essi sono costantemente sottoposti. Gli imperativi funzionali a cui esso risponde sono il segno che ogni dinamica si risolve all’interno del sistema medesimo, in modo da delimitare la soggettivazione della stessa azione sociale. Ciò significa che ogni azione, essendo intesa come «un processo che si verifica all’interno o nella costituzione di sistemi di mantenimento dei confini concepiti entro un determi- 19 Whitehead, La scienza e il mondo moderno, cit., pp. 20 e 22. p. 48. 21 Cfr. K. Davis, The Myth of Functional Analysis as a Special Method in Sociology and Anthropology, in «American Sociological Review», 24, 1959, pp. 757-773; E. Nagel, A Formalization of Functionalism, in Id., Logic Without Metaphysics, and other Studies in the Philosophy of Science, Glencoe, The Free Press, 1957, pp. 247-283; C.G. Hempel, The Logic of Functional Analysis, in Id., Aspects of Scientific Explanation and Other Essays in the Philosophy of Science, New York, The Free Press, 1970, pp. 297-330; P.A. Munch, The Concept of ‘Function’ and the Functional Analysis in Sociology, in «Philosophy of the Social Sciences», 6, 1976, pp. 193-213. 22 T. Parsons, E.A. Shils et alii, Toward A General Theory of Action (1951), New York-Evanston, Harper & Row, 1962, p. 25. Cfr. anche H. Bershady, Ideology and Social Knowledge, Oxford, Blackwell, 1973, pp. 93 sgg. 20 Ibid., 7. l’ordine ritrovato 205 nato schema di riferimento»23, ed essendo quindi per definizione sociale, trova il proprio significato nella connessione con le altre azioni che pure si presentano come individuali. La proprietà più generale e fondamentale di un sistema è l’interdipendenza di parti o variabili. L’interdipendenza consiste nell’esistenza di determinate relazioni tra le parti o variabili in contrasto con la casualità della variabilità. In altri termini, interdipendenza è ordine nella relazione tra i componenti che entrano in un sistema24. Questa definizione evidenzia peraltro la continuità tra l’uso sociologico del funzionalismo e il suo significato negli studi antropologici all’intero dei quali, in maniera pressoché contemporanea alla filosofia dell’organismo, esso emerge come antidoto alla storicità distorta di quelle storie congetturali che vedevano le vicende delle società preletterarie esclusivamente come stadi preparatori verso la loro “modernizzazione”. In modi diversi ma convergenti la soluzione funzionalista investe perciò il piano della storicità dei fatti sociali stabilendone il fondamento di legittimità all’interno delle teorie delle scienze sociali. Il sistema sociale non è privo di storia, ma gli eventi individuali figurano come originali ripetizioni inserite in un ordine sistematico. Per certi versi il funzionalismo può anche apparire perciò una «trista scienza», perché, volendo evitare la distorsione della storia, questa attenzione per l’ordine e i suoi elementi costitutivi è motivata da una tensione spasmodica alla stabilità assunta come valore e come caratteristica stessa del sistema sociale25. Mentre la 23 T. Parsons, T.F. Bales, E.A. Shils, Working Papers in the Theory of Action, New York, The Free Press, 1953, p. 165. 24 Parsons, Shils et alii, Toward A General Theory of Action, cit., p. 107. Cfr. anche W. Buxton, Talcott Parsons and the Capitalist Nation-State. Political Sociology as a Strategic Vocation, Toronto, University of Toronto Press, 1985, pp. 117 sgg. 25 D. Gregg, E. Williams, The Dismal Science of Functionalism, in «American Anthropologist», 50, 1948, pp. 594-611, p. 621: «La procedura funzionalista consiste ovviamente nell’esaminare le società già esistenti e assumere che queste società sono complessi armoniosamente funzionanti – e in equilibrio – per il semplice fatto della loro esistenza. Il funzionalista nota con riverenza e ammirazione che ogni parte è necessaria per l’esistenza continuata di una data società in un dato stato»; ma cfr. anche la replica di A.R. Radcliffe-Brown, Functionalism: A Protest, in «American Anthropologist», 51, 1949, pp. 320-332. 206 la società come ordine scienza sociale registra il carattere strutturale della molteplicità degli eventi sociali, vale a dire il loro carattere impersonale e oggettivo, essa registra anche il fatto che un «sistema agisce per sostenere la sua propria struttura piuttosto che per rivoluzionarla. Ciò è coerente con il fatto che più atti devono essere più ripetitivi che innovativi se un sistema è stabile. Più specificamente, la stabilità strutturale è favorita dall’intrappolamento [entrapment] di ogni individuo in un limitato segmento del tutto»26. Questo intrappolamento dell’individuale, di cui parla Lasswell, avviene significativamente costruendo dei criteri di equivalenza che valgono tanto per il singolo quanto per il sistema nel suo complesso. D’altra parte: La moderna tecnica logica ha reso più evidente di quanto non fosse in precedenza che il compito intellettuale che abbiamo di fronte non è la scoperta di un piccolo numero di nuove categorie fondamentali con le quali designare il contesto dell’interazione. È piuttosto evidente che tutti i sistemi globali sono formalmente equivalenti (quindi intercambiabili) a livelli corrispondenti di astrazione (e senza riguardo per le possibili differenze nel numero di termini chiave impiegati a ogni livello)27. La convinzione dell’effettiva esistenza di questa equivalenza funzionale costituisce una sorta di chiave di volta attorno alla quale si dispongono progressivamente le scienze sociali statunitensi dopo la seconda Guerra mondiale28. In essa non risuona però solo l’eco di una passione per l’ordine, ma anche l’idea che adeguandosi all’ordine della “natura sociale” le possibilità di intervento dello scienziato sociale siano pressoché illimitate. Essa è il punto di approdo dell’universalismo della scienza sociale contemporanea. 26 H.D. Lasswell, The Political Science of Science: An Inquiry into the Possible Reconciliation of Mastery and Freedom, in «The American Political Science Review», 50, 1956, pp. 961-979, p. 963. 27 Ibid., pp. 964-965. 28 Un’altra rilevante testimonianza di questa tendenza è D. Easton, The Decline of Political Theory, in «The Journal of Politics», 13, 1951, pp. 36-58, del quale si veda anche Harold Lasswell; Policy Scientist for a Democratic Society, in «The Journal of Politics», 12, 1950, pp. 450-477. 7. l’ordine ritrovato 207 Pochi anni più tardi, Hannah Arendt osserva che «l’argomentazione definitiva, avanzata a favore di quell’intervento umano all’interno della natura che si esplica con l’indagine scientifica, è in una frase di Whitehead: “[Oggi] la natura è un processo”»29. Va subito detto che negli scritti arendtiani degli anni Cinquanta emerge costantemente un’attenzione assai critica ma tutt’altro che occasionale nei confronti degli sviluppi delle scienze sociali. La tendenza è a evidenziare il rischio insito nella loro pretesa di spiegazione globale, per non dire “totalitaria”30, degli eventi sociali che punta a produrre una “normalità” che, dall’accezione statistica si sposta progressivamente prima sul piano valutativo e poi su quello normativo. Proprio sul terreno della concezione dell’azione e della sua storicità, Arendt impatta con forza le scienze sociali del secondo dopoguerra. In primo luogo, infatti, le scienze sociali si «accostano all’uomo come a un essere pienamente inserito nella natura, la cui vita può essere sottoposta allo stesso trattamento destinato a qualunque altro “processo naturale”»31. Esse lo considerano cioè come prodotto modellabile a piacere dal processo da cui prendono le mosse. Tuttavia, 29 H. Arendt, The concept of history: Ancient and Modern, in Id., Between Past and Future: Eight Exercises in Political Thought, Harmondsworth, Penguin Books, 1977, pp. 41-90; trad. it. Il concetto di storia: nell’antichità e oggi, in Id., Tra passato e futuro, Milano, Garzanti, 1991, pp. 70-129, p. 95. 30 Cfr. H. Arendt, Social Science Techniques and the Study of Concentration Camps, in «Jewish Social Studies», XII, 1950, pp. 49-64; trad. it. Le tecniche della scienza sociale e lo studio dei campi di concentramento, in Id., L’immagine dell’inferno. Scritti sul totalitarismo, Roma, Editori Riuniti, 2001, pp. 113-131. In maniera assolutamente esplicita Arendt, Il concetto di storia, cit., p. 128, scrive: «Il punto decisivo è questo: la nostra tecnologia, che nessuno può accusare di non funzionare, è basata su questi principi, e le nostre tecniche sociali, che hanno il loro autentico terreno sperimentale nei paesi totalitari, allo scadere di un certo lasso di tempo diverranno senz’altro applicabili al mondo delle relazioni e delle faccende umane così com’è già avvenuto per il mondo degli oggetti fatti dall’uomo». Una ricostruzione completa del rapporto di Arendt con le scienze sociali contemporanee dovrebbe ovviamente considerare anche The Human Condition, Garden City, N.Y, Doubleday, 1958; trad. it. Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 19882, nel quale la loro critica affiora in continuazione all’interno della più generale critica delle trasformazioni dell’azione in forza della comprensione processuale della natura e del lavoro. 31 Arendt, Il concetto di storia, cit., p. 91. 208 la società come ordine per Arendt non è tanto questione di un rimpianto umanistico verso l’uomo come soggetto autentico delle proprie azioni. Questa sarebbe solamente l’altra faccia, ugualmente problematica, di una costruzione universalistica nella comprensione dell’azione. Ciò che Arendt mette sotto accusa è il rovesciamento dell’universalità nella forma del processo, cioè la tensione a eliminare ogni aleatorietà dell’azione, il ridurla a un agire composto, ordinato, integrato nella molteplicità delle forme dell’agire. «Il processo, che solo rende significante tutto quanto si trova ad abbracciare, acquista così il monopolio dell’universalità e della significazione»32. Il primato riconosciuto alla processualità oblitera necessariamente la storicità delle strutture sociali, collocando sul piano della più totale contemporaneità tutti gli oggetti che costruisce, mentre si mostra in grado di “nominare” solo gli oggetti che possono essere ridotti a quel piano. Questi studiosi hanno presenti soltanto le funzioni; a loro avviso, tutte le cose che assolvono alla stessa funzione possono essere chiamate con lo stesso nome. È come se avessi il diritto di chiamare “martello” il tacco della mia scarpa soltanto perché, come gran parte delle donne, me ne servo per piantare i chiodi sul muro33. Mentre realizza l’irresistibile presa del potere da parte della scienza sociale, cioè il potere di nominare tutti gli eventi di ciò che essa stessa definisce come processo sociale, l’irritata arguzia della filosofa sanziona quella che le appare una strutturale incapacità di rilevare le distinzioni e le differenze, favorendo un’universale sostituibilità di ruoli, azioni e concetti. Lo statuto delle scienze sociali è presidiato da una riduzione costante al piano di un’obbligata immanenza, a un’apparente orizzontalità di rapporti sociali che necessariamente, come vedremo, ammettono al massimo deviazioni, ma non contraddizioni, rapporti che diventano politici non per la vigenza di un criterio, ma in forza della supplenza reciproca delle funzioni. 32 Ibid., p. 97. 33 H. Arendt, What Is Authority?, in Id., Between Past and Future, cit., pp. 91-141; trad. it. Che cos’è l’autorità, in Id., Tra passato e futuro, cit., pp. 130-227, p. 143. 7. l’ordine ritrovato 209 Non appare perciò del tutto vero che la sociologia venga ridotta dal funzionalismo a un’«impresa misantropica di liquidazione delle considerazioni politiche»34. Cancellando, come vedremo, l’impossibile sintesi pluralistica essa, non differentemente dalle altre scienze sociali, appronta piuttosto un meccanismo di produzione di relazioni politiche che mira a mettersi al riparo da qualsiasi imprevista richiesta o traumatica rottura35. 3. L’ordine della teoria La critica arendtiana delle scienze sociali mette in evidenza una questione reale che è però consustanziale alla democrazia così come viene immaginata dalle scienze sociali non solo statunitensi. Già Ferdinand Tönnies aveva definito la convivenza democratica come das Leben in der Fläche, una vita di superficie nella quale il riferimento alla tradizione e al passato non scompare, ma diviene un necessario supplemento del presente. Le strutture e le funzioni, in quanto esito di procedure di astrazione, trovano la loro giustificazione in questa comprensione specifica della convivenza tra cittadini, cioè non tanto nell’azzeramento del tempo, ma nella costruzione di una temporalità che pretende di muoversi completamente e senza residui all’interno dell’ordine democratico. D’altra parte, scrive ancora Lasswell, 34 I.L. Horowitz, Sociology and Politics: The Myth of Functionalism Revisited, in «The Journal of Politics», 25, 1963, pp. 248-264, p. 250. 35 Rielaborando l’elitismo di matrice europea, e sulla base della teoria schumpeteriana della democrazia, le scienze sociali si propongono come sintesi finalmente perfetta tra l’analisi delle politiche pratiche e la ricomposizione di un quadro ideale certo. Schumpeter «assegnava alla massa del pubblico il compito di routine di selezionare e, quando le condizioni lo consentivano, di rimpiazzare la classe governante [leadership class], ma lasciava che fossero le elite a fare realmente le politiche pubbliche [public policy]. La nuova teoria politica – politica dell’interesse per avere la meglio sulle ideologie pericolose, scelta razionale per avere la meglio sugli eccessi della democrazia, politiche basate sugli esperti per avere la meglio sulle opzioni partecipatorie disordinate, il consenso liberale per tenere tutto insieme – aggiungeva una scienza politica delle idee che […] affrontava le “grandiose alternative e gli ‘ismi’”», così K. Prewitt, Political Ideas and a Political Science for Policy, in «The Annals of the American Academy of Political and Social Science», 7, 2005, pp. 14-29, p. 26. 210 la società come ordine «il principio della temporalità non comporta che ci si occupi soltanto dei cambiamenti, ad esclusione degli aspetti stabili delle situazioni». L’universale sostituibilità è perciò il segno di una statica molto specifica e determinata, ma non assoluta. «Da un punto di vista operativo, le scienze sociali potrebbero essere meglio designate come scienze della linea di condotta, in quanto la loro funzione è di fornire le informazioni pertinenti con l’integrazione dei valori attuati e incorporati nelle relazioni interpersonali»36. Designare questa linea di condotta significa riformulare compiutamente il rapporto della scienza con il tempo, fornendo i codici di organizzazione e di interpretazione di questa società che la stessa scienza sociale definisce come una democrazia compiuta ed espansiva. La formalizzazione di questo discorso avviene attraverso un percorso accidentato e tutt’altro che lineare che si fonda sul superamento della preoccupazione di dover veder rappresentata in ogni momento l’unità del potere nell’unità del rappresentante sovrano, pena la decadenza dello Stato medesimo. Si tratta in buona misura della grande crisi che, nei primi decenni del Novecento e per la prima volta a livello globale, mostra l’incapacità della società di mostrarsi e legittimarsi come ordine. Questa crisi ha un culmine evidente nella rivoluzione d’ottobre, ma si protrae fino alla seconda guerra mondiale. Essa tuttavia si riverbera anche nella necessità improrogabile e lacerante di decidere tra unità e pluralismo, che trova espressioni celeberrime per esempio nel saggio di Santi Romano sulla crisi dello Stato37 o in quello di Carl Schmitt sull’etica dello Stato38. La tentazione pluralistica, espressa come esplicita antitesi all’unità sovrana dello Stato o 36 H.D. Lasswell, A. Kaplan, Power and Society. A Framework for Political Inquiry, New Haven-London, Yale University Press, 1950; trad. it. Potere e società. Uno schema concettuale per la ricerca politica, Milano, Etas Kompass, 1969, pp. 4-5. 37 S. Romano, Lo Stato moderno e la sua crisi (1909), in Id., Lo Stato moderno e la sua crisi. Saggi di diritto costituzionale, Milano, Giuffrè, 1969, pp. 3-26. 38 C. Schmitt, Staatsethik und pluralistischer Staat (1930), in Id., Positionen und Begriffe im Kampf mit Weimar – Genf – Versailles 1923-1939, Hamburg, Hanseatische Verlagsanstalt, 1940, pp. 133-145. 7. l’ordine ritrovato 211 anche in maniera opposta come sua massima realizzazione, trova peraltro varie e interessate espressioni negli Stati Uniti39. Dopo la guerra queste preoccupazioni sembrano essere completamente scomparse. Lo rileva seccamente Otto Kirchheimer, sottolineando la modificazione profonda che ciò implica dal punto di vista della concezione della sovranità. «Sono passati appena dieci o quindici anni da quando lo Stato era dichiarato moribondo nelle teorie pluralistiche»40. Secondo Kirchheimer quelle teorie avevano rappresentato l’aggiornamento quasi necessario delle classiche teorie liberali di fronte alle trasformazioni che avevano caratterizzato il XX secolo. Le discrepanze sempre crescenti tra il potere del soggetto e l’impotenza dell’oggetto della dominazione hanno dato vita a una messe di interpretazioni diverse. Esse sono state utilizzate per costruire la teoria totalitaria dello Stato. Ma lo stesso insieme di fatti ha anche sostenuto i dubbi, spesso espressi ai nostri giorni in campi politici opposti, se il termine “Stato” può essere considerato un punto di partenza appropriato per l’inchiesta sulla relazione di potere delle forze sociali nella società di oggigiorno41. Il fatto che vi siano relazioni di potere che eccedono il campo stabilito dalla relazione di dipendenza statale si riflette nella propensione delle scienze sociali a considerare il fenomeno stesso del potere. A partire dalla necessità di dominare quella eccedenza sembra aprirsi infatti una divaricazione per cui i «filosofi sociali sono diventati scienziati sociali, e il loro interesse si è focalizzato 39 Cfr. W.Y. Elliott, The Pragmatic Revolt in Politics. Syndicalism, Fascism, and the Constitutional State (1928), New York, Howard Fertig, 19682. �������������������� Per un altro versante del pluralismo, diverso ma non estraneo, cfr. R. Baritono, La democrazia vissuta. Individualismo e pluralismo nel pensiero di Mary Parker Follett, Torino, La Rosa, 2001. 40 O. Kirchheimer, In Quest of Sovereignty, in «Journal of Politics», 6, 1944, pp. 139-176, p. 139. 41 Ibid., pp. 139-140. Annota ancora Kirchheimer a p. 173: «Le teorie pluraliste, per esempio, avevano cercato di fare virtù del fatto che i reali governanti della società non si possono scoprire; esse scoprirono invece una moltitudine di varie organizzazioni alle quali facevano credito del dono di veder “compensati” i loro conflitti in una sorta di superassociazione cooperativa. Va tutto bene fino a quando gli interessi divergenti si “compensano” da soli, oppure sono così omogenei da rendere l’arbitrato della “supercassa di compensazione” una mera operazione tecnica». 212 la società come ordine sugli aspetti operazionali della politica, ovvero, detto in maniera più semplice, sul modo in cui la politica lavora»42. Ciò significa che non è più in questione la decisione fondamentale dell’associazione politica, come se lo scontro con il totalitarismo nazifascista e il confronto della guerra fredda dimostrassero che il fondamento stesso del potere è strutturalmente diverso nei regimi democratici, al punto da non dover e non poter essere messo in discussione: non per un dato normativo o per un divieto, ma perché metterlo in discussione appare semplicemente inutile. Ciò non significa evidentemente che il «sistema sociale della democrazia» non si senta sfidato e impegnato in una battaglia epocale, ma che è stata raggiunta la certezza che il paradigma delle scienze sociali e politiche è in grado di mostrare sia come impedire gli effetti dirompenti dell’alternativa pluralistica sia come avere la meglio sulle alternative esterne. La democrazia che si è affermata in Occidente non è più considerata come forma di governo che può essere realizzata su una scala più o meno limitata, ma essa già rappresenta l’organizzazione politica finalmente realizzata di quello che, come abbiamo visto, Talcott Parsons aveva definito il «sistema sociale totale». Harold Lasswell può nello stesso senso sostenere che: «La principale aspettativa compresa nell’ideologia democratica è che è possibile realizzare la democrazia universale, ponendo in essere su una scala globale lo stesso equilibrio che è stato ripetutamente attuato entro comunità più limitate [in more parochial communities]»43. Se contro la democrazia occidentale sono concepibili solo alternative non democratiche, all’interno di questo ordine democratico, che è in definitiva pleonastico definire occidentale, vi sono differenze di 42 R.S. Lynd, Power in American Society as Resource and Problem, in A. Kornhauser (ed), Problems of Power in American Democracy, Detroit, Wayne State U.P., 1957, pp. 1-45, p. 3, che prosegue: «l’attuale approccio operazionale tende verso l’analisi della tattica di potere senza una teoria del potere diversa dalla tradizionale dottrina liberale del flusso delle forze in competizione». 43 H.D. Lasswell, Power and Personality, New York, The Viking Press, 19632, p. 108; trad. it. Potere e personalità, in Id., Potere, politica e personalità, cit., pp. 397-594, p. 482. 7. l’ordine ritrovato 213 grado, cioè di evoluzione all’interno di un sistema globale, che è “progressivamente” democratico. Come raggiungere questo sistema di equilibri progressivi, già pensato oltre la dimensione esclusivamente locale e in vista della sua dimensione globale, è il problema che la scienza sociale americana ha di fronte negli anni Quaranta. L’alternativa è tra una teoria sociale che si assume il compito e la responsabilità dell’autonomia del proprio statuto scientifico e una social policy, come disciplina quasi pratica di supporto alle decisioni politiche sulle trasformazioni sociali. Nelle mutate condizioni storiche l’affiorare di questa alternativa replica la sua irruzione in Germania alla fine degli anni quaranta dell’Ottocento. Esattamente un secolo prima il dibattito sulla necessità di mantenere la centralità delle tradizionali Staatswissenschaften o di riconoscerla alla nascente sociologia aveva stabilito le coordinate di uno scontro che era allo stesso tempo scientifico e politico e anzi, forse per la prima volta, era politico proprio perché era scientifico. D’altra parte è noto, e anche esplicitato nel dibattito statunitense, che il riferimento alla policy altro non è che la “traduzione americana” della Staatswissenschaft tedesca da parte di John W. Burgess, fondatore nella seconda metà del XIX secolo della Faculty of Political Science and Public Law alla Columbia University. Come, in modo incisivo, scrive ancora Lasswell: Egli ebbe ragione, ovviamente, di evitare una traduzione letterale della parola che significava “le scienze dello stato” [Staatswissenschaften], poiché negli Stati Uniti l’espressione tecnica “stato” ha sempre sopportato la conseguenza del fatto che il termine non è nell’uso comune per designare la nazione come un tutto. Era però disponibile la parola Politik; e avrebbe potuto essere tradotta, e anzi meglio tradotta, con “politica” [policy]44. Richiamare questa tradizione americana è quindi “funzionale” alla costruzione di quella political science for policy, una 44 Ibid., p. 495. Lasswell aveva già chiarito che: «il termine politica [policy] è impiegato per designare il bisogno di chiarificare i fini sociali che si debbono favorire con una determinata allocazione (compresa l’auto-allocazione delle risorse scientifiche [scientific energy]» (ibid., p. 494). Sulla vicenda statunitense dello Stato cfr. R. Baritono, Uno Stato a “bassa densità”? L’esperienza storica statunitense, in R. Gherardi, M. Ricciardi, Lo Stato globale, Bologna, CLUEB, 2009, pp. 81-110. 214 la società come ordine scienza del governo che assume come proprio oggetto privilegiato i modi di funzionamento del potere. «Una particolare attenzione va diretta ai modi in cui possono essere guidate le istituzioni di potere: con l’uso di parole indirizzate a vasti gruppi, con l’uso di promesse in negoziati diretti con individui e rappresentanti di gruppi, con l’uso dei beni e dei servizi, o con l’impiego degli strumenti della violenza»45. Come dicevamo, questa gestione delle istituzioni del potere è legittimata dal carattere a priori democratico delle istituzioni stesse, nel momento in cui l’ordine sociale e l’ordine democratico vengono assunti come coincidenti. Le istituzioni sono quindi quegli ambiti in cui possono essere compiuti atti che non interrompono la continuità dell’ordine, facendo del potere stesso un elemento di questa continuità. «Dal punto di vista dell’ordine sociale, gli atti svolgono una funzione catartica quando dissipano gli impulsi ostili senza alcuna rottura [disruption], o anche una alterazione rilevante nel sistema sociale come un tutto»46. La possibilità di evitare la disruption, il fantasma del pluralismo di Harold Laski47, non è fondata su un ingenuo ottimismo nei confronti della democrazia in quanto regime ideale, ma sulle certezze che proprio la scienza sociale fornisce nell’interpretare e governare le forme dell’agire individuale e collettivo. Detta in altri termini: la scienza sociale diviene la scienza dell’ordine democratico, mostrando come sia possibile governare e amministrare le differenze individuali all’interno della società. La catarsi non è un riferimento meramente letterario, ma la modalità specifica di quello che abbiamo già nominato come intrappolamento dell’individuale. Essa è il riconoscimento, lucido fino al cinismo, che, per esempio, il procedimento tecnico che ha luogo nelle sale cinematografiche, mentre mette in scena una forma di divertimento, è in grado di influenzare e modificare la «molteplicità di eventi»48 che danno vita a una personalità. Infatti, «sebbene queste 45 Laswell, Potere e personalità, cit., p. 496. p. 498. 47 Cfr. M. Piccinini, “Sovereignty” e “Disruption”: note su «The Problem of Sovereignty» (1915) di Harold Laski, in «Filosofia politica», 3, 1992, pp. 507-527. 48 Lasswell, Potere e personalità, cit., p. 479. 46 Ibid., 7. l’ordine ritrovato 215 stanze delle ombre (cinematografi) permettano la prosecuzione di processi autistici in un ambiente sociale, l’aggressività e la vigoria della successione delle immagini filmiche sottomettono a una certa disciplina le fantasticherie private degli spettatori»49. Come ribadisce la gelida descrizione della catarsi sportiva50 quest’opera di disciplinamento è significativa perché, assieme al segno ormai indelebile del collettivo, porta anche quello della sua apparente spoliticizzazione perseguita in nome dell’equilibrio sociale democratico. Il tratto più interessante è che quest’ultima non è una mera neutralizzazione nel senso schmittiano, e quindi nemmeno la verifica postuma delle capacità prognostiche di Tocqueville, ma una moltiplicazione indefinita delle relazioni di potere. Essa produce una relativizzazione della rilevanza complessiva del potere politico, mentre mostra in maniera sempre più evidente l’esistenza di “poteri sociali” non riconducibili non solo all’istituzione statale, ma nemmeno alla sfera più ampia del Government. Non è solo perciò, come affermava Lasswell, che lo “Stato” non ha mai goduto buon nome negli Stati Uniti, ma anche che esso non appare come il luogo unico del potere. Dal punto di vista degli assetti disciplinari ciò impone un ripensamento radicale non solo della vicenda ottocentesca della scienza politica statunitense, ma delle scienze sociali nel loro complesso, comportando in definitiva una ripoliticizzazione delle stesse scienze sociali a fronte di un esito che invece appare come conclusione di un lungo percorso di depoliticizzazione. D’altra parte, anche l’estrema semplificazione delle relazioni politiche che sembra connessa con la centralità assegnata a una teoria delle elite variamente declinata, si 49 Ibid., p. 499. 50 «La nostra civiltà ha elaborato altri metodi per indurre grandi quantità di perso- ne in uno stato di relativa calma e a liberarsi delle ostilità. Uno è quello degli sport spettacolari, come il football o il baseball, nei quali, dopo essere rimasti per un periodo considerevole (seduti o in piedi) sopra una piattaforma in movimento spinta da un motore a gas o elettrico, grandi masse di persone si siedono di nuovo, mentre un numero limitato di giovani vigorosi cercano di ostacolare reciprocamente, con interventi permessi da determinate regole, i loro sforzi di colpire o di portare un piccolo oggetto da un posto all’altro. In seguito la gente si disperde, sedendo di nuovo su piattaforme che la riporta nei luoghi dai quali è partita» (ibid., pp. 499-500). 216 la società come ordine mostra oltremodo problematica se «l’élite della democrazia (“la classe dominante”) è vasta quanto la società»51. Da parte sua la scienza sociale si confronta anche con una trasformazione radicale evidenziata dal fatto che, alla fine della seconda guerra mondiale, per la prima volta vi sono più scienziati sociali impiegati dal governo o dalle imprese private che non occupati nelle università. Essa rischia di soccombere al proprio successo e, se davvero vuole intendere la democrazia come ordine, non può abdicare al ruolo che le consentirebbe di esprimere giudizi e non solo di descrivere i fatti sociali. L’esito ultimo del XIX secolo è stato la depoliticizzazione della scienza politica al punto che la specificità statunitense sarebbe ora, secondo E. A. Shils, «una peculiare scienza politica apolitica»52. E, sempre secondo Shils, la sociologia non è riuscita, e tuttora non riesce, a compensare il carattere apolitico della scienza politica. In primo luogo, al fine di provare il loro diritto all’esistenza i sociologi cercarono di trovare una sfera di eventi lasciati intonsi dalle vecchie scienze sociali. La distinzione tra Stato e società civile era a portata di mano in una società liberale e i sociologi la afferrarono. Sebbene essi abbiano trovato una giustificazione della loro esistenza indipendente nei numerosi “problemi sociali” sorti in connessione con l’urbanizzazione e l’immigrazione, di rado si sono aspettati di vederli risolti dall’azione di governo [governtmental action] e, anche quando l’hanno fatto, non hanno incorporato questa relazione con la realtà nella loro teoria. La loro teoria, infatti, inclinava verso la visione che le decisioni politiche erano impotenti a influire sui “processi sociali”53. Sia stato per il predominio del darwinismo sociale o per il tormento dei valori trasmesso dalla lezione weberiana, la scienza sociale nel suo complesso si è ritirata nel dominio incontrastato della descrizione, in un empirismo che ora rivela che la «scienza politica è diventata una disciplina descrittiva moralmente priva di direzione e scientificamente sterile»54. Il punto sembra essere 51 Ibid., p. 483. Shils, Social Science and Social Policy, in «Philosophy of Science», 16, 1949, pp. 219-242, p. 220. 53 Ibid., p. 221. 54 Ibid. 52 E.A. 7. l’ordine ritrovato 217 il tratto prescrittivo che dovrebbe emergere nelle descrizioni neutrali delle scienze sociali. In quanto descrizioni di movimenti, quelle delle scienze sociali dovrebbero individuare una tendenza che, il più delle volte, è anche l’articolo commercializzabile nella descrizione stessa, visto che è ciò che i committenti pubblici o privati vogliono sapere. Individuare quella tendenza è, tuttavia, allo stesso tempo, la modalità con cui si stabilisce la specifica legittimità degli elementi che costituiscono il presente sociale. Ciò significa spingere per una ripoliticizzazione della scienza sociale nel suo complesso, sebbene essa si presenti nelle vesti paradossali di una politicizzazione senza politica. La seconda metà degli anni quaranta e i primi anni cinquanta sono attraversati da questa necessità di ripensare la politica della teoria delle scienze sociali55. Nel modo più chiaro ciò appare in uno scritto dal valore chiaramente programmatico di «un inguaribile teorico»56 come Talcott Parsons. In esso molti dei termini finora incontrati compaiono per essere riformulati, a partire dalla convinzione che «i tempi sono maturi per il tentativo di affrontare la teoria come un compito comune dei membri teoricamente interessati del gruppo professionale, piuttosto che con “teorie”, con la discussione critica del lavoro di schemi concettuali di una varietà di gente differente»57. Spingere per la formulazione di una «singola struttura concettuale superiore» presuppone ovviamente modalità condivise di descrivere l’oggetto scientifico che le scienze sociali condividono, come pure una precisa divisione dei compiti in relazione 55 Oltre ai saggi discussi nel testo cfr. G.H. Grosser, Memorandum to the United Nations Concerning the Role of Social Science in the Service of Peace and Security, in «Social Forces», 24, 1945, pp. 145-151; R.K. Merton, Sociological Theory, in «American Journal of Sociology», 50, 1945, pp. 462-473; R. Bendix, Social Science and Social Action in Historical Perspective, in «Ethics», 56, 1946, pp. 208-218; E. Ginzberg, Social Science and Established Order, in «Science», 107, 1948, pp. 607-611; R.K. Merton, The Role of Applied Social Science in the Formation of Policy: A Research Memorandum, in «Philosophy of Science», 16, 1949, pp. 161-181. 56 Così lo definisce W.C. Mitchell, Sociological Analysis and Politics. The Theories of Talcott Parsons, Prentice-Hall, Englewood Cliffs N.J., 1967, pp. 1-19. 57 T. Parsons, The Position of Sociological Theory, in «American Sociological Review», 13, 1948, pp. 156-164, p. 157. 218 la società come ordine alle prospettive da cui quell’oggetto viene osservato. All’interno di un immaginario scientifico nel quale il vocabolario biologico serve a determinare un quadro di riferimento ormai definitivamente struttural-funzionalistico, dovrebbe essere comune a tutte le discipline del sociale, in primo luogo, la comprensione dell’ordine come coordinazione delle attività dei vari membri in modo tale che essi siano impediti a bloccarsi reciprocamente l’uno con l’altro o a distruggersi l’un l’altro con una reale distruzione fisica degli organismi e, dall’altra parte, che siano sufficientemente ingranati gli uni con gli altri così che contribuiscano mutualmente al funzionamento del sistema come un tutto58. In un sistema che è mera coordinazione senza subordinazione, ancora una volta ritorna il problema dell’intrappolamento dell’individuale, della centralità assegnata ai ruoli perché in essi ogni individualità possa funzionare come ingranaggio del sistema nel suo complesso. Il campo specifico che Parsons riserva alla sociologia è, non a caso, quello delle relazioni istituzionali, dal momento che le istituzioni sono la «spina dorsale» del sistema sociale e i percorsi di istituzionalizzazione rappresentano la molteplicità delle motivazioni e delle azioni considerate dal punto di vista del sistema stesso. E proprio sul terreno privilegiato delle istituzioni si mostra la distanza annunciata tra storia e tradizione, dal momento che qui si misura sia la specificità della sociologia rispetto all’antropologia, sia la sua capacità di utilizzare il passato in funzione del presente. Il concetto sociologico di cultura diviene in questo senso il nesso necessario tra individui e istituzioni, ovvero della possibilità stessa di istituzionalizzare gli individui, perché esso presuppone la continuità dei valori ideali nella loro esistenza stessa. La differenza rispetto al consueto uso antropologico del concetto di cultura sta nel nostro interesse al ruolo particolarmente strategico giocato nella tradizione culturale da quegli elementi che definiscono i modelli ideali che governano l’azione degli individui. Il loro significato strategico deriva 58 Ibid. 7. l’ordine ritrovato 219 dal fatto che questi sono i modelli di cultura che sono suscettibili di istituzionalizzazione […] non c’è una differenza sostanziale tra modelli culturali e istituzionali, si deve piuttosto assumere che tutti i modelli istituzionali sono culturali59. La cultura come tradizione individualizzata designa la presenza di valori o ideali, ovvero «di ciò che è desiderabile e che influenza la selezione dei modi, dei mezzi e dei fini disponibili dell’azione»60. I valori impongono in primo luogo la persistenza di un riferimento soggettivo che Parsons si rifiuta di cancellare. L’azione deve essere ricondotta al movimento psicologico interno dell’individuo, al suo specifico e particolare punto di vista, e non può essere semplicemente motivata dalla razionalità del sistema nel suo complesso. In secondo luogo, tuttavia, proprio per la relazione specifica che intrattiene con il tempo, la cultura, in quanto sistema di produzione e di manifestazione dei valori, si presenta come supplemento necessario a quel presente che dovrebbe esaurire la temporalità del sistema sociale. Già nel 1937 Parsons aveva affermato che «l’azione è non-spaziale ma temporale», perché la sua logica corrisponderebbe alla relazione di mezzi e di fini collocati in tempi diversi. Questa relazione sarebbe però assai problematica se i fini fossero collocati in un futuro irraggiungibile o fossero solo motivati da un passato immutabile. Il sistema culturale per operare coerentemente, e soprattutto con successo, deve quindi essere sottratto alla relazione con il tempo e funzionare come supplemento che interviene quando e dove il processo sociale verrebbe altrimenti insidiato dalla sua temporalità. 59 Ibid., p. 161. Cfr., a questo proposito, F. Bourricaud, L’individualisme institutionnel. Essai sur la sociologie de Talcott Parsons, Paris, Presses Universitaires de France, 1997. 60 «Un valore è una concezione, esplicita o implicita, distintiva di un individuo o caratteristica di un gruppo, di ciò che è desiderabile e che influenza la selezione dei modi, dei mezzi e dei fini disponibili dell’azione […] Una concezione identifica il valore come costruzione logica comparabile alla cultura o alla struttura sociale», così suona la definizione dell’antropologo Clyde Kluckhohn che in seguito verrà spesso richiamata da Parsons, cfr. Parsons, Shils et alii, Toward A General Theory of Action, cit., p. 395. 220 la società come ordine I sistemi culturali si distinguono dagli altri in quanto sono insieme nonspaziali e atemporali. Essi consistono, come dice il professor Whitehead, di oggetti eterni, nel senso stretto del termine eterno, di oggetti cioè non di durata indefinita, ma ai quali non si può applicare la categoria di tempo. Essi non sono coinvolti nel “processo”61. L’estraneità a quella processualità, che altrimenti viene dichiarata come caratteristica universale tanto nella società quanto nella natura, è evidentemente un punto di fondamentale importanza. D’altra parte solo in questo modo i valori possono essere “assicurati”, cioè sottratti alla storicità che potrebbe metterli in discussione. Solo così essi possono essere considerati un fondamento indiscutibile dell’ordine democratico perché letteralmente fuori dal tempo. Se la cultura è una tradizione individualizzata che attualizza i valori, istituzionalizzazione significa fare agio sul governo dell’azione individuale operato dai valori espressi in modelli culturali. In questo caso il sistema sociale è la forma dispiegata che cattura – e si vorrebbe tendenzialmente coincidente con – questa disposizione all’autogoverno individuale reso possibile dalla tradizione culturale. In esso la politica non può più essere pensata come azione esteriore del Government e, proprio per questo, non può più essere identificata con un campo teorico autonomo. «Non posso concepire una teoria politica intesa come uno schema concettuale teoricamente caratteristico di una scienza sociale puramente empirica che non sia sociologica, economica, antropologica o psicologica»62. Nonostante abbia storicamente a che fare con le azioni e la loro istituzionalizzazione, la teoria politica non condivide con le scienze sociali lo schema concettuale basato sulla specifica considerazione dell’ordine che abbiamo appena visto, perché essa non privilegia il presente ma insiste sul futuro auspicabile delle idee e delle istituzioni politiche o sul loro passato. Il fatto che essa si occupi di un futuro e di un passato empiricamente non conoscibili, la rende inconciliabile con l’ordine della teoria delle 61 Parsons, 62 Parsons, La struttura dell’azione sociale, cit., p. 936. The Position of Sociological Theory, cit., p. 164. 7. l’ordine ritrovato 221 scienze sociali. Eppure una politica senza teoria riemerge in continuazione all’interno delle scienze sociali. Essa è particolarmente evidente quando esse affrontano il tema del potere. Lo si rileva immediatamente dalla critica di Robert K. Merton al contributo di Parsons63. Merton riconosce che ormai la storia della teoria non esprime più la teoria empiricamente applicabile, e quindi che essa non fornisce più necessariamente il materiale per gli schemi concettuali da costruire. Egli avverte però quanto possa essere «fuorviante descrivere la non conformità con particolari “istituzioni sociali” come “comportamento deviante”». Non si può dire che quella di Merton sia una teoria radicalmente alternativa a quella parsonsiana. Essa ne accetta gli elementi basilari, ma rifiuta il tentativo di unificazione teorica, cioè la costituzione di sistema totale della scienza sociale. Certamente – e ciò è rilevante anche dal punto di vista della comprensione della società come ordine – essa attribuisce un valore all’anomalia, e quindi al disordine, che la dottrina parsonsiana non ammette. Per Merton, infatti, il dato anomalo, imprevisto e rilevante, non è tanto il segno di una patologia, ma «l’occasione per lo sviluppo di una nuova teoria o per l’ampliamento di una teoria esistente»64. Siamo così di fronte a una diversa politica della teoria che paradossalmente, proprio perché valorizza fino a dove è possibile il disordine e la sua produttività, contribuisce in maniera determinante alla istituzionalizzazione della società come ordine. 63 R.K. Merton, Discussion of T. Parsons, The Position of Sociological Theory, in «American Sociological Review», 13, 2, 1948, pp. 164-168, p. 168. 64 Merton, Teoria e struttura sociale, cit., p. 148. Capitolo ottavo L’individuo della sociologia 1. Pensiero ideologico e diritto positivo All’inizio degli anni Sessanta, con una mossa apparentemente anacronistica, Niklas Luhmann interviene nel dibattito sulla fine delle ideologie affermandone senza mezzi termini la necessità all’interno dei sistemi sociali complessi1. Egli tuttavia pretende di farlo andando oltre la legittimità che pure aveva riconosciuto all’ideologia la sociologia della conoscenza. Quest’ultima, che pure rappresenta il tentativo più articolato di replicare alla critica marxiana, finisce soltanto per confermarla, convalidandola anche oltre l’ambito specifico rispetto al quale era stata formulata. Se Marx, infatti, indica una relazione necessaria tra le idee della classe dominante e il suo dominio, la sociologia della conoscenza estende questo argomento a ogni forma di discorso politico, riconducendo ogni ideologia alla situazione sociale che l’ha prodotta. D’altra parte, da molti punti di vista, sulla questione dell’ideologia e del suo rapporto con la storia del dominio, Marx 1 Le voci più rilevanti di questo dibattito sono O. Brunner, Das Zeitalter der Ideologien. Anfang in Ende (1954), in Neue Wege der Verfassungs- und Sozialgeschichte, Gottingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 19682, pp. 45-63; trad. it L’epoca delle ideologie. Inizio e fine, in Id., Per una nuova storia costituzionale e sociale, Milano, Vita e pensiero, 1970, pp. 217-239; R. Aron, L’opium des intellectuels, Paris, Calmann-Levy, 1955; trad. it. L’oppio degli intellettuali, Milano, Cappelli, 1958; D. Bell, The End of Ideology. On the Exhaustion of Political Ideas in the Fifties, Glencoe, The Free Press of Glencoe, 1960; trad. it. La fine dell’ideologia. Il declino delle idee politiche dagli anni Cinquanta a oggi, Milano, Sugarco, 1991. 224 la società come ordine è molto meno dogmatico di molti suoi critici, per non dire di molti suoi epigoni. Per Marx gli individui sono i destinatari inconsapevoli dei messaggi provenienti da una sovrastruttura che pure contribuiscono a creare, ma che non sono in grado di riconoscere completamente e tanto meno di governare. Allo stesso tempo, sono proprio gli individui con le loro attitudini private e singolari a dare una direzione inconsapevole alle trasformazioni pubbliche e collettive delle forme materiali dei rapporti sociali. Che in pari tempo vecchi ricordi, ostilità personali, timori e speranze, pregiudizi e illusioni, simpatie e antipatie, convinzioni, articoli di fede e principi legassero all’una o all’altra delle case reali, non lo si può negare. Al di sopra delle differenti forme di proprietà e delle condizioni sociali di esistenza si eleva tutta una sovrastruttura di impressioni, di illusioni, di particolari modi di pensare e di particolari concezioni della vita. La classe nel suo complesso crea questa sovrastruttura e le dà una forma sulla base delle sue proprie condizioni materiali e delle corrispondenti relazioni sociali. L’individuo singolo, cui queste cose pervengono attraverso la tradizione e l’educazione, può immaginarsi che esse costituiscano i veri motivi determinanti e il punto di partenza delle sue attività2. Mentre afferma la centralità politica dei rapporti materiali di produzione, Marx non relativizza il significato delle forme ideologiche, ma ne sostiene l’intima connessione con la storia del dominio; sostiene che il loro sviluppo è comprensibile solo dentro a quella storia. Allo stesso tempo, tuttavia, la storia del dominio è possibile solo grazie al modo in cui essa è interpretata, legittimata e utilizzata dagli individui. Essa ha per Marx un carattere intrinsecamente politico perché implica la costituzione di gerarchie che non sono immediatamente evidenti se si considera solo la subordinazione prodotta nelle istituzioni politiche. In definitiva ciò che ha sempre fatto problema nella posizione marxiana è l’avere sostenuto che le forme ideologiche non possono avere un carattere sociologicamente amorfo. Ogni opinione, privata o pubblica, ma anche ogni acquisizione scientifica non è bollata come irrilevante, 2 Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, cit., pp. 209-210. ������������������� Cfr. anche N. Abercrombie, S. Hill, B.S. Turner, The Dominant Ideology Thesis, London, G. Allen & Unwin, 1980. 8. l’individuo della sociologia 225 ma la sua pretesa di verità così come la sua eventuale pretesa di essere un valore fondamentale è circoscritta alla storia della società nella quale e per la quale è prodotta. Proprio per questo motivo la critica marxiana dell’ideologia ha posto un problema del quale la scienza sociale non è mai arrivata completamente a capo. Da questo punto di vista non è davvero soddisfacente nemmeno la posizione, sostenuta in primo luogo da Max Weber, che per salvare la scienza sociale impone di separare opinione e verità, valori e discorso scientifico, perché essi sono uniti da un nesso evidente e incancellabile. La sociologia della conoscenza riconosce invece come strutturale lo scarto tra verità e conoscenza che si è prodotto all’interno della stessa scienza sociale. Essa riconosce in primo luogo che, proprio perché «la crisi è penetrata nel cuore dell’indagine empirica», la conoscenza sociologica è diventata un presupposto necessario dell’azione politica. Essa indica di conseguenza la sociologia come scienza della politica perché essa è in grado di riconoscere le specificità delle parti in lotta individuandone il nesso con la totalità. La scienza sociologica della politica appare, «nella sua forma più avanzata, come un tentativo costantemente rinnovato di raccogliere in una sintesi tutte le prospettive tendenti a una integrazione dinamica»3. Luhmann non è però particolarmente interessato a rivalutare la sociologia della conoscenza, né è particolarmente attratto da una ripresa della critica dell’ideologia. Il paradosso della sociologia della conoscenza4, che trasforma la storicizzazione marxiana del dominio in relativizzazione di ogni forma di sapere politico riconducendolo alle condizioni sociali della sua produzione, gli appare come la forma positiva del rapporto che si stabilisce tra comunicazione sociale e forma della società. Egli prende decisa- 3 K. Mannheim, Ideologie und Utopie, Bonn, Cohen, 1929; trad. it Ideologia e utopia, Bologna, il Mulino, 1957, pp. 107 e 182. 4 W.A. Mullins, Truth and Ideology: Reflections on Mannheim’s Paradox, in «History and Theory», 18, 1979, pp. 141-154 e C. Geertz, Ideology as a Cultural System, in Id., Ideology and Discontent, New York, Free Press, 1964, pp. 47-76; trad. it. Ideologia come sistema culturale, in Id., Interpretazione di culture, Bologna, il Mulino, 1998, pp. 223-272. 226 la società come ordine mente posizione a favore dell’ideologia, perché riconosce il carattere epocale del suo avvento, non tanto come specifico concetto storico-politico, quanto come modalità pratica di organizzazione della relazione tra pensiero e verità. Proprio perché registra la possibilità costante della trasformazione dei contenuti del pensiero, l’ideologia diviene un elemento costitutivo della comunicazione politica. L’ideologia non è per Luhmann il sintomo di una crisi, né tanto meno la decadenza o la deformazione del pensiero, ma la forma storica in cui esso si presenta dalla fine del Settecento. Il pensiero ideologico caratterizza un determinato periodo della storia della verità, e precisamente il periodo in cui le idee-guida del pensiero e dell’azione pubblici hanno perso la propria capacità di esprimere la verità, il che significa che esse non possono essere né vere né false, ma si situano al di fuori della conoscenza possibile5. Il pensiero ideologico rappresenta per Luhmann un’acquisizione evolutiva da indagare, perché si colloca sulla medesima soglia di trasformazione storica che vede l’avvento del funzionalismo. Come il funzionalismo, anche il pensiero ideologico esibisce la propria impossibilità di fornire spiegazioni onnicomprensive e, soprattutto, l’assenza di un fondamento che ne garantisca il legame con la verità. Non si tratta quindi di ricondurre la singola ideologia alla sua causa, ma di cogliere quale funzione di orientamento essa svolge nei confronti dell’azione all’interno di un ambiente che essa non costituisce in maniera decisiva e non può di conseguenza criticare in maniera radicale. La funzione dell’ideologia è quindi necessariamente contingente, perché in definitiva tale è già l’ambiente nel quale agisce. Ciò che la caratterizza è «la legittimazione ponderata, la ponderatezza della struttura di legittimazione e l’esclusione artificiale di altre possibilità, in contrasto con l’azione giusta che non conosce il proprio fine, che è ispirata unicamente dall’opera da compiere, dallo stile tramandato 5 N. Luhmann, Wahrheit und Ideologie, in «Der Staat», 1, 1962, pp. 431-448; trad. it. Verità e ideologia. Proposte per una ripresa del dibattito, in Id., Illuminismo sociologico, Milano, Il Saggiatore, 1983, pp. 57-71, p. 58. 8. l’individuo della sociologia 227 del gesto da riprodurre, e che in tutto ciò realizza se stessa»6. Il rovesciamento rispetto alla comprensione abituale dell’ideologia è davvero rimarchevole, perché per Luhmann la sua funzione non consiste nel motivare l’azione e nel legittimarla in ogni sua conseguenza anche se non prevista o non voluta. Essa serve piuttosto a neutralizzare determinate conseguenze dell’azione e, proprio per questo, le ideologie possono essere considerate come funzionalmente equivalenti. Esse svolgono una funzione d’ordine, non tanto perché legittimino uno specifico ordine esistente, ma perché sono modalità specifiche di «conferire un ordine convincente a determinate conseguenze dell’azione in rapporto a possibilità differenti»7. Lo stesso movimento sperimentato dal pensiero con la sua ideologizzazione investe anche il diritto nel corso della sua inarrestabile positivizzazione. Siamo di fronte a processi che non sono solo contemporanei dal punto di vista storico, ma condividono soprattutto la medesima forma. «La positivizzazione del diritto consiste nella possibilità di attribuire validità giuridica legittima a un contenuto qualsiasi»8 a partire dal carattere formalmente valido con cui viene presa la decisione. Come l’avvento dell’ideologia significa la possibilità di legittimare, sostenere, criticare, abbandonare i valori, prendendo commiato da ogni ontologia sociale fondata sulla verità, così la positivizzazione del diritto evidenzia il tramonto di ogni diritto naturale fondato su un’idea assoluta di giustizia. Il diritto positivo è in definitiva la forma della normazione contingente delle norme, così come l’ideologia è la forma della valutazione contingente dei valori. La simmetria logica tra i due processi rivela anche una supplenza materiale dell’ideologia nei confronti del diritto, perché in forza del suo carattere strutturalmente plurale essa garantisce anche che tutti i valori possano potenzialmente diventare contenuti del diritto. 6 Ibid., p. 65. p. 71. 8 N. Luhmann, Positives Recht und Ideologie (1967), in Soziologische Aufklärung 1, Wiesbaden, VS Verlag, 2005, pp. 224-255; trad. it. Diritto positivo e ideologia, in Id., Illuminismo sociologico, cit., pp. 205-233, p. 208. 7 Ibid., 228 la società come ordine In altri termini: senza la variabilità e infondatezza dei valori che l’ideologia dimostra, non sarebbe nemmeno possibile la piena positivizzazione del diritto. Luhmann non si riferisce evidentemente a uno specifico sistema politico e tanto meno a una specifica ideologia. Ciò che gli interessa è il meccanismo fondamentale che caratterizza il pensiero ideologico, ovvero il privilegiare un elemento della realtà a scapito di altri, nell’impossibilità ormai consapevole e dichiarata di poter fornire una valutazione della realtà che riguardi tutti gli individui e tutti gli aspetti della realtà. Il pensiero ideologico è perciò articolato sulla comunicazione legittima di differenze, e queste ultime, come in altri discorsi politici contemporanei, assumono per Luhmann un ruolo strategico9, in particolare, come vedremo, per la costruzione del senso. Io prendo piuttosto le mosse dal fatto che il senso può essere esperito solo sulla base di una differenza costitutiva, che da parte sua raffigura la complessità. Si tratta da una parte della differenza dell’eccesso di possibilità e dall’altra parte della realtà di ogni comportamento di utilizzo del senso: una differenza che, in modo totalmente simile alla différance di Jacques Derrida, diviene differenza solo grazie alla dimensione temporale; cioè grazie al fatto che a ogni esperienza del senso si può collegare un’altra esperienza o un altro agire10. La differenza è dunque un’evoluzione costitutiva in un sistema sociale fondato sulle comunicazioni. La citazione di Gregory Bateson, più volte utilizzata da Luhmann, è da questo punto di vista assai significativa: «A bit of information is defineable as difference which makes differences». La società consiste di azioni comunicative, il cui contenuto è la differenza, intesa non come evento singolare che si discosta dalla media o dalla normalità degli eventi, bensì come carattere regolare dei processi che avven9 Cfr. H. de Berg, M. Prangel (Hrsg.), Differenzen. Systemtheorie zwischen Dekonstruktion und Konstruktivismus, Tübingen-Basel, Francke, 1995, in part. il saggio di A. Nassehi, Différend, Différance und Distinction, pp. 37-60. 10 N. Luhmann, Ideengeschichte in soziologischer Perspektive, in Id., Ideenevolution, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 2008, pp. 234-252, pp. 239-240. Cfr. ������������������ però G. Teubner, Economics of Gift – Positivity of Justice: The Mutual Paranoia of Jacques Derrida and Niklas Luhmann, in «Theory, Culture and Society», 18, 2001, pp. 29-47. 8. l’individuo della sociologia 229 gono nel sistema sociale, al punto che le costanti e le identità esistenti possono essere considerate solamente come differenze di differenze. C’è qui un primo motivo di distanza tra un approccio storico e uno evolutivo alle semantiche storico-sociali, dovuto alla concezione luhmanniana della processualità degli avvenimenti all’interno del sistema sociale. Per Luhmann, infatti, i processi sociali «hanno una storicità immanente», che non consiste necessariamente degli eventi particolari e individuali che interessano allo storico. La loro temporalità deriva invece dalla selezione e dalle connessioni tra gli avvenimenti che costituiscono il senso di un processo. I processi sociali sono caratterizzati da una continuità che vive anche delle sospensioni dell’agire. Perciò essi sono il frutto di una selezione di eventi che non sono necessariamente continui e non dipendono quindi da una concatenazione causale costante e definita. «Con la rinuncia alla contiguità si ottiene anche che non solo ciò che è immediatamente precedente, bensì anche eventi anteriori possiedono rilevanza selettiva, sebbene nel frattempo altri sono seguiti»11. Quella che, come vedremo, Luhmann chiama la tradizione semantica fornisce a questa organizzazione processuale delle differenze la struttura d’ordine consolidata ed è l’espressione di quel modo ideologico del pensiero che realizza un’inversione fondamentale rispetto a una millenaria tradizione ontologica: non la stabilità, la continuità, la costanza forniscono la regola di ciò che è permanente e perciò legittimo, ma la variabilità stabilisce la regola delle norme e dei valori che devono essere osservati: «ciò che è permanente si fonda allora su ciò che è “transeunte”: un pensiero inconcepibile per la tradizione ontologica»12. Ideologia e diritto positivo garantiscono l’integrazione di un sistema sociale definito dalla possibilità costante delle sue variazioni. 11 N. Luhmann, Geschichte als Prozess und die Theorie sozio-kultureller Evolution, in K.-G. Faber, C. Meier (Hrsg.), Theorie der Geschichte 2: Historische Prozesse, München, Dtv, 1978, pp. 413-440, pp. 430-431. 12 Luhmann, Diritto positivo e ideologia, cit., p. 223. 230 la società come ordine 2. Semantica come processo storico La centralità assegnata alla variazione pone la questione della sua affermazione, del modo in cui le idee presenti si sono evolute nel loro opposto, in ultima istanza, impone di riconsiderare la relazione esistente tra mutamento della struttura sociale ed evoluzione delle idee. Se, infatti, l’ideologia è la forma ultima e contemporanea dell’evoluzione e del movimento delle idee, Luhmann deve determinare quali variazioni delle semantiche storico-sociali hanno permesso la nascita del pensiero ideologico all’interno del processo di affermazione del sistema sociale differenziato su base funzionale. In realtà nell’accezione di Luhmann l’ideologia e la semantica sono quasi sinonimi che indicano la medesima funzione di «guida del comportamento empirico attraverso le idee». Esse rendono evidente la presenza del germe della differenza e la necessità di un giudizio che non può più basarsi esclusivamente su ciò che emerge direttamente all’interno della comunicazione politica. Risultano cioè decisive «la dislocazione del problema dell’orientamento sociale a un livello di secondo ordine e la rinunzia a una realtà che sia risultato di consenso»13. Proprio perché queste operazioni sono comprensibili solo al livello del sistema sociale, le semantiche storico-sociali sono inoltre per Luhmann parte integrante di uno specifico processo che esplicita e perciò realizza il dissolvimento dell’individuale. Registrare questa evanescenza non significa proporre una qualche fondamentale alternativa tra sociale e individuale, bensì ricostruire l’esito storico e sociologico dell’evoluzione della società negli ultimi duecento anni. Si tratta quindi di comprendere il ruolo recitato dalle semantiche storico-sociali all’interno di questa evoluzione, notando che per Luhmann l’affermazione progressiva della sociologia quale scienza del sistema sociale esprime un autentico mutamento di paradigma. Essa, infatti, non è per lui semplicemente una nuova 13 N. Luhmann, Die Gesellschaft der Gesellschaft, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1998, vol. II, p. 1079; trad. it. N. Luhmann, R. De Giorgi, Teoria della società, Milano, FrancoAngeli, 2000, p. 385. 8. l’individuo della sociologia 231 scienza che si affianca a quelle preesistenti, magari ridefinendone i confini disciplinari, ma senza produrre mutamenti strutturali. In quanto scienza del sistema sociale, la sociologia impone invece una ridefinizione dello statuto di tutte quelle scienze che tradizionalmente si sono occupate del “sociale”, considerandolo come un oggetto periferico del loro ambito centrale di interesse, oppure interpretandolo in base a una tradizione a esso anteriore e perciò a esso di fatto estranea. La sociologia è però costretta a sottoporre se stessa a una costante opera di autocritica, comunemente interpretata come il percorso più o meno lineare verso la piena maturità scientifica di una disciplina accademica, ma dovuto in buona misura alla necessità di rimodulare costantemente il rapporto con un oggetto che si modifica in continuazione sia sotto la spinta dei suoi movimenti interni sia grazie alle stesse conoscenze che la sociologia produce e applica al “sociale”. L’evanescenza dell’individuale corrisponde quindi anche al dissolvimento di una specifica disposizione delle scienze sociali nei confronti del sociale. Esso è una conseguenza inevitabile di ogni sociologia della differenza, perché il carattere strategico attribuito a quest’ultima comporta necessariamente la relativizzazione della singolarità, proprio perché a nessuna singolarità può essere riconosciuta una differenza ontologicamente fondata. La realizzazione e il superamento (un’autentica Aufhebung) dell’illuminismo operati dalla sociologia muovono dal ridimensionamento necessario dell’individuale conseguente al riconoscimento dell’universalismo delle differenze. Non convincerà i sociologi l’idea secondo la quale l’individuo singolo attraverso la riflessione sulla propria razionalità, può scoprire ciò che accomuna tutti gli uomini e raggiungere il consenso, se non addirittura la verità. E altrettanto scettica sarà la loro reazione di fronte all’opinione secondo la quale quel tipo di riflessione e quegli elementi comuni possono assumere la forma di regole pratiche di realizzazione che, una volta scoperte, possono essere applicate da chiunque14.. 14 N. Luhmann, Soziale Aufklärung, in Id., Soziologische Aufklärung 1, cit., pp. 83-115; trad. it. Illuminismo sociologico, in Illuminismo sociologico, cit., pp. 73-102, p. 74. 232 la società come ordine «Quest’opera di disincantamento» mostra che il rapporto tra autore e azione viene radicalmente ridefinito nell’epoca della società15 e che, di conseguenza, il ruolo di fondamento riconosciuto all’azione individuale è l’ultimo residuo magico di un mondo altrimenti sociologicamente disincantato. La sociologia scopre e organizza i diversi livelli della dipendenza dell’individuale dal sistema sociale nel quale esso è inserito, «in modo più ampio di quanto generalmente si supponeva e di quanto, in particolare, è disposto a riconoscere l’individuo che agisce»16. Si tratta quindi per Luhmann di ricostruire i gradi di questa dipendenza, la sua emergenza storica che, con l’avvento del pensiero ideologico e con il processo di positivizzazione del diritto, fa parte integrante della modificazione in senso funzionale della società e della trasformazione sociologica della teoria sociale. Gli studi luhmanniani sulle semantiche storico-sociali hanno quindi una profonda motivazione interna alla sua opera17, anche se praticamente devono molto all’incontro con la Begriffsgeschichte di Reinhart Koselleck. Il debito è dichiarato apertamente da Luhmann, sia riconoscendo l’anticipazione operata dalla prestazione storiografica, sia evidenziando la relazione indissolubile che intercorrerebbe tra storicismo e funzionalismo. A unire i due movimenti sarebbe la comune consapevolezza della costante variazione dei contenuti di senso all’interno delle relazioni sociali intervenuta in corrispondenza della Sattelzeit, della svolta epocale avvenuta tra Sette e Ottocento, che proprio Koselleck ha definito nella maniera più pregnante. Con il loro avvento la domanda sulla verità della comunicazione sociale viene sostituita da quella sulla possibilità e sulla continuità della sostituzione. Se lo storicismo si occupa della molteplicità delle variazioni, il funzionalismo garantisce «la non arbitrarietà della 15 Cfr. M. Ricciardi, Performance, potere, azione politica. Appunti per una discussione, in «Scienza & Politica», 36, 2007, pp. 43-57. 16 Luhmann, Illuminismo sociologico, cit., p. 76. 17 Cfr. a questo proposito C. Baraldi, G. Corsi, E. Esposito, Semantica e comunicazione. L’evoluzione delle idee nella prospettiva sociologica di Niklas Luhmann, Bologna, Clueb, 1987. 8. l’individuo della sociologia 233 variazione»18. Luhmann intende lo storicismo come uno specifico atteggiamento verso la storia, ovvero come la consapevolezza irrinunciabile del carattere storicamente determinato di ogni relazione umana. Esso è perciò l’espressione di un problema del quale il funzionalismo fornisce la soluzione pratica. Ciò nonostante il diverso rapporto con l’azione stabilisce una differenza fondamentale, teoricamente fondata, tra l’evoluzione della semantica storico-sociale di Luhmann e la storia dei concetti. Già per la differenza che viene giustamente posta tra di essi e la parola, i concetti koselleckiani hanno il significato politico di costituire quella che Koselleck chiama un’«unità di azione [Handlungseinheit]». Il concetto non serve solo a denominare l’azione, ma anche a «foggiarla e a crearla. Non è soltanto un indicatore, è anche un fattore di gruppi politici o sociali»19. Il concetto unifica una molteplicità di contenuti semantici in vista di un’azione di cui identifica il soggetto secondo la modalità classica «discorso – soggetto – azione». Le semantiche luhmanniane non sono interessate al soggetto dell’azione, perché l’unità elementare del sistema sociale non sono le singole azioni per quanto sociali, ma le azioni comunicative. Le semantiche entrano a far direttamente parte dell’evoluzione sociale in quanto sono in relazione immediata con essa. La registrano da una parte e la favoriscono dall’altra, ma non come strumenti a disposizione di soggetti, quanto piuttosto come indicatori dello sviluppo stesso. Il confronto con Koselleck getta luce anche sul modo in cui il riferimento allo storicismo serva a Luhmann per chiarire ulteriormente il rapporto suo e della sociologia con l’illuminismo. Proprio perché culmina con la Sattelzeit, esso coincide con la 18 N. Luhmann, Gesellschaftliche Struktur und semantische Tradition, in Id., Gesellschaftsstruktur und Semantik, Frankfurt a.M, Suhrkamp, 1980, pp. 9-71; trad. it. Struttura sociale e tradizione semantica, in Id., Struttura della società e semantica, Roma-Bari, Laterza, 1983, p. 7. 19 R. Koselleck, Vergangene Zukunft: zur Semantik geschichtlicher Zeiten, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1979; trad. it. Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Casale Monferrato, Marietti, 1986, p. 182. Cfr. L. Scuccimarra, La Begriffsgeschichte e le sue radici intellettuali, in «Storica», 10, 1998, pp. 7-99. 234 la società come ordine presenza di Kritik e Krise20, ovvero di una critica storica della ragione – anche di quella illuministica – che delegittima le istituzioni presenti, introducendo costantemente e metodicamente il dubbio sul loro carattere storicamente razionale. L’avvento di questa «coscienza rivoluzionaria» porta sì a «una strumentalizzazione della semantica ai fini della guida» politica, ma mostra anche l’insufficienza e l’imbarazzo di ogni «critica dell’ideologia» che finisca per «piangere poi sulla generale erosione del patrimonio culturale». Questo rimprovero è un episodio della lunga disputa luhmanniana con Jürgen Habermas. Esso è qui rivolto alla tendenza a limitare la crisi a un evento momentaneo e comunque passeggero all’interno dello sviluppo della ragione illuministica21. Per Luhmann, al contrario, con il lavoro del concetto «l’illuminismo, con la sua contraddizione di critica e pretesa di verità, urta contro i propri confini». Il concetto è l’esito più inquietante dell’illuminismo, nella misura in cui ne svela le illusioni, che non si possono risolvere accusando la società e la sua comunicazione di non essere all’altezza delle prospettive aperte dall’illuminismo stesso, perché ciò può avvenire solo: «a prezzo di una rinuncia alla profondità dell’autoriflessione della coscienza storica, dischiusa da Hegel e ancora visibile in Marx. Il concetto non si ferma là dove si discute se sia in genere possibile una teoria non-rivoluzionaria della società moderna, vale a dire se possa riflettersi»22. Gli studi luhmanniani sulla tradizione semantica sono dunque vicini allo storicismo, ma hanno anche l’intento politico di aprire una diversa prospettiva rispetto a quella storica insita nella centralità assegnata ai concetti. A questo riguardo, non è certamente casuale la scelta di parlare di «tradizione semantica», ovvero del 20 R. Koselleck, Kritik und Krise: ein Beitrag zur Pathogenese der bürgerlichen Welt, Freiburg, Alber, 1969; trad. it. Critica illuminista e crisi della società borghese, Bologna, il Mulino, 1972. 21 Luhmann si riferisce a J. Habermas, Legitimationsprobleme im Spätkapitalismus, Frankfurt a.M, Suhrkamp, 1973; trad. it. La crisi di razionalità nel capitalismo maturo, Roma-Bari, Laterza, 1975. 22 Luhmann, Struttura sociale e tradizione semantica, cit., p. 9. 8. l’individuo della sociologia 235 modo in cui si accumulano e si legittimano le variazioni semantiche, piuttosto che di una storia per quanto sociologica delle variazioni medesime. L’approccio luhmanniano alle semantiche rappresenta per un verso l’apice del suo illuminismo sociologico, proprio perché nella maniera più compiuta chiarisce il superamento dell’illuminismo operato dalla sociologia, in quanto scienza non-rivoluzionaria della riflessione della società moderna. Per un altro verso gli studi luhmanniani si inseriscono a pieno titolo nell’attenzione che, a partire da quegli stessi anni, altri scienziati sociali dedicano sia al passaggio cruciale tra Sette e Ottocento sia a temi trattati anche da Luhmann. Si pensi, per esempio, al Foucault della Storia della sessualità e degli scritti sulla nascita della biopolitica. Vi sono all’interno di queste ricerche evidenti e innegabili differenze, ma si può suggerire che esse (e si possono aggiungere molti testi di Pierre Bourdieu) non prendono le mosse e nemmeno valorizzano prioritariamente le trasformazioni politiche e istituzionali più radicali – la rivoluzione come evento – ma in modi diversi analizzano e ricostruiscono una più ampia ridislocazione del potere che impone una sua istituzionalizzazione, per così dire, di secondo grado, che non si trova iscritta principalmente nelle istituzioni politiche, nemmeno in quelle uscite dalla rivoluzione, ma si rivela e si istituzionalizza grazie alle modificazioni del linguaggio politico e sociale. Tutti questi studi si rivolgono perciò al momento genetico della società intesa come ordine, a partire da quel lungo momento che, come abbiamo visto, tra il XVIII e il XIX secolo, modifica sia la concezione dell’ordine sia quella della società. Le ricerche di Koselleck sulla storia dei concetti storicopolitici sono orientate ai processi di democratizzazione, quelle di Foucault ai dispositivi di verità e quindi alla relazione tra i soggetti nel potere, quelle di Bourdieu indagano la relazione tra i diversi tipi di capitale e i modi di dominazione, quelle di Luhmann sono soprattutto orientate all’affermazione e all’organizzazione della società differenziata funzionalmente. Definire questo passaggio è uno dei problemi fondamentali con cui si confronta la sociologia fin dalla sua stagione classica. La distinzione tra società segmentarie e società differenziate 236 la società come ordine funzionalmente risale alla Divisione del lavoro sociale di Emile Durkheim, il quale tuttavia era più interessato alla possibile illegittimità della società moderna che a produrre una classificazione storicamente e concettualmente sostenibile23. Correggendo Durkheim, Luhmann afferma l’esistenza di tre tipi di differenziazione sociale. Quella segmentaria, basata sull’appartenenza a famiglie, prevede una complessità molto bassa perché tutti i sottosistemi sono simili. La società stratificata, che in Durkheim non c’è, prevede la presenza di strati diseguali e una comunicazione specifica all’interno di ciascuno di essi. Ogni strato funziona per l’altro come ambiente. Si impone così la generalizzazione di alcuni sistemi di norme – soprattutto di quelle religiose – e la specificazione di altre – come quelle giuridiche – che funzionino da riferimento differenziato ma comune per tutta la società. Il problema di fare della diseguaglianza una gerarchia stabile e definita è il limite di complessità della società stratificata. In essa, che è l’antica società per ceti nel corso della sua evoluzione, si annunciano già sottosistemi che vengono differenziati in base alle loro funzioni, ma le situazioni concrete vengono decise in ultima istanza in base alla gerarchia, perché l’ambito funzionale deve essere delimitato in base all’ordine della struttura. Il terzo tipo di società è quello definito dalla differenziazione funzionale, che «si è realizzata un’unica volta soltanto: nella società moderna che deriva dall’Europa. A causa della sua forma di differenziazione, questa società ha tratti unici nel loro genere e storicamente senza confronti. Essa forma in ogni singolo caso un tipo per sé»24. L’avvento di questa società è così l’unico, autentico evento rivoluzionario. Allo stesso tempo, essa è inserita in un processo storico che si annuncia frammentariamente nel tardo medioevo e assume la sua forma irreversibile alla fine del XVIII secolo, inizialmente peraltro solo in alcune parti d’Europa. La differenziazione funzionale in sottosistemi significa che, sebbene tutte le 23 Cfr. G. Poggi, Emile Durkheim, Bologna, il Mulino, 2003, pp. 66-67 e N. Luhmann, La società, in Id., Illuminismo sociologico, cit., pp. 155-178. 24 Luhmann, Struttura sociale e tradizione semantica, cit., p. 25. 8. l’individuo della sociologia 237 funzioni societarie debbano essere considerate importanti a livello sistemico, esse non possono essere gerarchizzate e istituzionalizzate come accadeva per gli strati. Ogni sottosistema funzionale è atteso da una prestazione richiesta dagli altri sottosistemi. Muta così la posizione dei «sistemi psichici che, nel contesto sociale, appaiono come persone». Ognuno di quelli che, almeno per comodità, noi continuiamo a chiamare individui deve poter essere incluso in ogni sottosistema funzionale, sebbene, come vedremo, la vera cifra della sua esistenza è che a questa potenziale e generale inclusione corrisponda necessariamente un’altrettanto radicale esclusione. In questo modo l’individuo assume una doppia valenza per il sistema sociale globale. Esso è allo stesso tempo ambiente, cioè una differenza specifica con la quale comunicare, e un sottosistema sociale, ovvero una differente specificazione della società come sistema sociale. Questo è però l’«individuo della sociologia» che «deve essere un sistema sociale e non una cellula vivente o un cervello o una coscienza; infatti questi sarebbero sistemi che non si riproducono attraverso operazioni sociali»25. Di fronte a queste variazioni evolutive e all’accresciuta complessità che ne deriva nasce l’esigenza di una semantica che risolva quelle che Luhmann definisce «le esigenze di preordinamento», ovvero appronti i percorsi all’interno di un sistema sociale che, per quanto definito dalla sua variabilità e dalla sua mutabilità, presenta pur sempre la società come ordine. Le variazioni semantiche sono una risposta all’aumento della complessità sistemica e alla contingenza delle operazioni che si svolgono all’interno del sistema stesso. Esse non sono quindi arbitrarie, ma trovano la loro motivazione più profonda nella funzione che svolgono all’interno della produzione di senso. Rispetto a Max Weber, nei confronti del quale opera una continua e non sempre silenziosa presa di distanza, il senso non è per Luhmann l’ultimo rifugio dell’intenzionalità individuale, ma 25 N. Luhmann, Die Tücke des Subjekts und die Frage nach den Menschen, in Id., Soziologische Aufklärung 6: Die Soziologie und der Mensch, Wiesbaden, VS Verlag, 20052, pp. 149-161, p. 158. 238 la società come ordine una forma sociale che permette l’identificazione di tipi. Dire che «tutti i tipi e le azioni umane si svolgono conformemente al senso e sono accessibili a se stessi solo in conformità al senso» significa stabilire la priorità dell’universale sull’individuale. Diversamente da quanto sostenuto da Weber, l’analisi storico-sociologica non deve perciò essere ricondotta al senso intenzionato individualmente, ma deve prendere le mosse dall’esistenza di un senso che è la struttura universale in cui si rende presente la molteplicità di ulteriori collegamenti che ogni esperienza vissuta e ogni azione implicano e anche la garanzia delle selezioni e delle scelte possibili. «Dipende da questa struttura che “il tutto” del mondo co-implicato è accessibile non come pienezza, bensì solo per selezioni, seriazioni o aggregazioni con la rinuncia ai dettagli». Qui la rinuncia all’universalità faustiana di cui parla Weber alla fine dell’Etica protestante diviene un carattere positivo e quotidiano del senso e della sua produzione. Essa non esprime «il motivo ascetico fondamentale della vita borghese» e, di conseguenza, non rappresenta nemmeno il tentativo di avere uno stile, la ricerca di scoprire e seguire la propria vocazione, riconoscendo «che azione e rinuncia si condizionano inevitabilmente a vicenda»26. La ricerca di uno stile di vita basato su questo riconoscimento mostrerebbe in ogni caso la tensione verso la costituzione di un tipo umano che impone un processo di individualizzazione. In Weber, come abbiamo visto, domina la tensione tra la nostalgia dell’individualità e il suo esito burocratico, tra il senso intenzionato individualmente e il dominio del capitalismo. Al contrario in Luhmann la rinuncia non comporta alcuna malinconia e tanto meno alcuna indefinita tragicità. Talvolta il riconoscimento della sua ineluttabilità è accompagnato da una divertita ironia27 che ne fa comunque il presupposto di un agire che ha perso ogni tratto eroico e proprio per questo annuncia il trionfo dell’universale e l’inesorabile evanescenza dell’indivi- 26 Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, cit., p. 191. Luhmann, Die Soziologie und der Mensch, in Id., Soziologische Aufklärung 6, cit., pp. 252-261. 27 N. 8. l’individuo della sociologia 239 duale. Inoltre, il fatto che il senso permetta l’accesso al mondo mediante tipizzazioni, significa che esso stabilisce delle differenze che ogni singolo riconosce come legittime. Sebbene non tutto il senso sia tipizzato, e si possano presentare eventi sorprendenti, lo sforzo immediato è quello di stabilire il senso come ordine, ovvero inserire l’evento in un tipo. Il tipo è da questo punto di vista l’ordine del senso che permette la selezione in base a differenze conosciute e presenti. La capacità di selezionare contenuti in base alla loro funzione è il carattere fondamentale della società differenziata funzionalmente. L’insieme delle forme di una società, utilizzabili per questa funzione (a differenza dei vissuti e delle azioni che attualizzano il senso), vogliamo chiamarlo semantica di una società, il suo apparato semantico vogliamo chiamarlo la sua riserva di regole di elaborazione del senso già approntato28. La semantica è quindi lo strumento di quella istituzionalizzazione di secondo livello di cui abbiamo parlato in precedenza ed essa avviene sul piano della società nel suo complesso, non all’interno di uno specifico sottosistema e tanto meno prioritariamente nel sottosistema politico. Proprio per il suo essere l’effetto di una tradizione, la semantica non è legata al sorprendente o all’inusitato, ma stabilisce una trama continua definita da regole riconoscibili. Essa non regola, né viene espressa dagli infiniti frammenti quotidiani di vita che si incrociano senza comunicare, perché altrimenti si dovrebbe riconoscere un valore costitutivo a quegli enunciati elementari e a quei conflitti minimi, che per la sua stessa funzione essa tende invece a neutralizzare. «La semantica di una società su questo semplice piano è a mo’ di frammenti, e i frammenti s’intersecano, a disposizione di ognuno. Qui conta ogni maledizione dei vogatori nelle galere»29. È interessante notare che il riferimento ai vogatori nelle galere ritorna un’altra volta nell’opera di Luhmann, con lo scopo di negare la rilevanza dell’ethos individuale per la formulazione di un’etica moderna. 28 Luhmann, 29 Ibid. Struttura sociale e tradizione semantica, cit., p. 17. 240 la società come ordine Scrive ironicamente Luhmann che non si sente mai parlare di un ethos dei vogatori nelle galere, essendo quest’ultimo una pretesa eminentemente aristocratica, di chi vuole farsi valere come differenza specifica rispetto ad altri, ma anche, e forse soprattutto, come specifica eccezione nei confronti della società in quanto sistema sociale30. Il riferimento ai vogatori serve così a individuare gli estremi di legittimità delle semantiche sociali legittime. Il carattere frammentario e violento della loro comunicazione è l’opposto di ogni azione comunicativa inserita in un ordine che voglia giungere a farsi sistema sociale. Allo stesso tempo, tuttavia, in questo stesso ordine non può trovare alcuna sistemazione un’individualità che, volendo affermare la propria assoluta singolarità, interrompe ugualmente il tessuto continuo della comunicazione sociale. Le semantiche luhmanniane, proprio per il loro carattere di forma, devono invece condensare le possibilità disponibili universalmente alla comunicazione della società. Questo motiva la scelta di considerare non solo quella consolidata nelle opere scritte, ma, con un’ulteriore e significativa specificazione, soprattutto la semantica colta, nel senso specifico di coltivata per la comunicazione. Il riferimento continuo e costante alla scrittura, infatti, garantisce la possibilità che l’evoluzione avvenga per cause endogene anche all’interno dei singoli sottosistemi, come accade in maniera esemplare nel sottosistema giuridico31. Fissare per iscritto quello che Luhmann chiama il patrimonio ideale contiene infatti già lo stimolo a cambiarlo, a sottoporlo a una comunicazione più ampia e non individualmente controllabile, a fare della critica e dell’autocritica una funzione sociale. Le variazioni all’interno delle semantiche possono avvenire a questo punto in conti- 30 N. Luhmann, Ethik als Reflexionstheorie der Moral, in Gesellschaftsstruktur und Semantik. Studien zur Wissenssoziologie der modernen Gesellschaft, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1993, vol. III, pp. 358-447, p. 375. 31 Cfr. a questo proposito P. Schiera, Schrift(lichkeit) und Melancholie als mögliche Legitimationsfaktoren der modernen Politik, in T. Stammen (Hrsg.), Politik - Bildung - Religion. Hans Maier zum 65. Geburtstag, Paderborn, Ferdinand Schöningh, 1996, pp. 129-151. 8. l’individuo della sociologia 241 nuazione, anche se per lo più esse sono senza successo. Il lavoro semantico non è solo l’adattamento della semantica esistente ai singoli sistemi funzionali, non è cioè solamente un passaggio da un ordine a un altro. Così come accade per l’evoluzione sociale nel suo complesso, possono esserci periodi anche lunghi in cui non cambia nulla in quella che appare la semantica fondamentale di una società, proprio perché essa si sviluppa quasi silenziosamente lungo le linee stabilite dai propri fondamenti. Ciò non toglie che la sua modificazione anche radicale possa essere spiegata grazie a una teoria dell’evoluzione che considera la storia come processo e che «tenta di spiegare come sorge l’imprevedibile». In ogni caso, proprio in quanto tradizione, la semantica svolge in primo luogo una funzione di legittimazione dell’ordine esistente in quanto ordine e per farlo deve in primo luogo riflettere la sua propria legittimità. «Non si tratta soltanto di un bisogno semantico, teoricamente determinabile, di sorreggere il nuovo ordine: esso deve autoritenersi buono o forse anche potersi realizzare per il tramite dell’autocritica». La funzione della semantica è quindi di fornire e riformulare in continuazione il linguaggio della provvisorietà e della trasformazione della società come sistema sociale. 3. La fuga nel soggetto È evidente che c’è una discreta differenza tra non avere niente da dire e non possedere una grammatica per esprimere adeguatamente le proprie idee. C’è però altrettanta differenza tra l’idea di una semantica frammentata e perciò ineffettuale e una semantica di fatto istituzionalizzata nella società. La semantica della società è tale per Luhmann sia nel senso oggettivo sia in quello soggettivo del genitivo. Non è la semantica degli individui che la praticano, ma della società che la consente, la riproduce e la riconduce a unità. Ed è solo in risposta alla complessità della società che si sviluppano linee semantiche che «raffinano la sensibilità in deter- 242 la società come ordine minate direzioni e la rendono indifferenti in altre»32. Questa priorità della società determina in maniera cogente quel processo di costruzione e dissoluzione dell’individuo, di cui Luhmann segue le tappe, muovendo dalle trasformazioni e dal disfacimento della semantica degli strati superiori dell’antica società per ceti, attraversando la formulazione dell’antropologia politica della prima età moderna, fino a ricostruire la semantica complessiva dell’evanescenza dell’individualità moderna segnata dal passaggio dall’individuo alla persona, dall’azione al ruolo. Come abbiamo già detto, il passaggio fondamentale per Luhmann è quello dall’individualità segnata dall’inclusione a una caratterizzata dall’esclusione. L’evoluzione sociologica di questo processo mostra la progressiva insufficienza e infine la catastrofe della semantica cetuale fondata sull’interazione. Essa è importante per la sua ostinata negazione di ciò che si sta producendo e non perché ne anticipi i tratti fondamentali. Secondo Luhmann i secoli XVII e XVIII sono percorsi da una doppia e opposta tensione: vi è il tentativo di «pensare, trattare, istituzionalizzare gli individui più individualmente, mentre nella realtà si trattava di spostare l’individualità dall’inclusione all’esclusione»33. Mentre il destino dell’individualità è quello di non essere definita dall’appartenenza a nessuno dei sottosistemi presenti, nell’antica società per ceti formare, ma anche esibire la propria individualità significa dimostrare di essere parte di un ordine, di aver acquisito la capacità di non discostarsi da esso, di esservi completamente incluso. In questo tipo di società l’ordine non è la risultante dei movimenti singolari dell’universale, ma il presupposto al quale tutti i comportamenti devono disciplinatamente orientarsi. «Nei sistemi sociali sviluppati di questo tipo si trovano esposizioni semantiche dell’ordine complessivo, che spiegano l’unità di ciò 32 Luhmann, Struttura sociale e tradizione semantica, cit., p. 22. Cfr. anche U. Stäheli, Sinnzusammenbrüche. Eine dekonstruktive Lektüre von Niklas Luhmanns Systemtheorie, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 2000. 33 N. Luhmann, Individuum, Individualität, Individualismus, in Id., Gesellschaftsstruktur und Semantik, cit., vol. III, pp. 149-258, p. 165. 8. l’individuo della sociologia 243 che è differenziato o, comunque, la rendono plausibile»34. La semantica che governa questa società è perciò sviluppata per l’interazione che si svolge all’interno dello strato elevato, non per la società nel suo complesso. Essa presiede a un «ordine della comunicazione» che legittima quella differenziazione sistemica. La comunicazione avviene perciò in modo polarizzato aumentando in misura sempre maggiore negli strati elevati, all’interno dei quali sono prese le decisioni vincolanti sul mantenimento della disuguaglianza e sulla ripartizione delle risorse. Gli appartenenti allo strato superiore «sono disciplinati dalle regole di comunicazione interna al sistema» e non possono uscire da quel sistema perché al di fuori di esso non esistono. La loro esistenza, come la loro disciplina, dipende dal sistema in cui sono inseriti. «Essi non vengono disciplinati da una determinazione estranea, bensì dall’impossibilità di uscirne»35. La loro società è dominata da simmetrie che non ammettono eccezioni, né conoscono movimenti delle posizioni sociali. Di contro a ciò sta, tuttavia, il fatto che i grandi sistemi funzionali della società si demarcano proprio sulla base di sistemi di interazione asimmetrica: sulla base della differenza tra autorità e suddito, tra produttore e consumatore, tra insegnante e alunno, tra giudice e parti, tra scienziato e beneficiario della scienza. Con il passaggio alla differenziazione funzionale l’interazione asimmetrica comincia, perciò, a prevalere su quella simmetrica, appunto per mezzo di asimmetrie, che sono parimenti indipendenti dalle differenze di strato36. Il passaggio alla differenziazione funzionale non è dunque interpretabile semplicemente come un’estensione delle modalità di comportamento proprie degli strati superiori, registrate nella loro semantica colta e scritta ed escogitate per rispondere dal tardo medioevo alle trasformazioni strutturali. «La semantica intera34 N. Luhmann, Interaktion in Oberschichten: Zur Transformation ihrer Semantikim 17. und 18. Jahrhundert, in Id., Gesellschaftsstruktur und Semantik, cit., pp. 72-161; trad. it. Interazione negli strati elevati. Trasformazione della loro semantica nel XVII e XVIII secolo, in Id., Struttura della società e semantica, cit., p. 69. 35 Ibid, p. 74. 36 Ibid., p. 136. 244 la società come ordine zionale, stabilita nel XVIII secolo, si occupa di un rapporto da persona a persona. Ma, tuttavia, si autointerpreta come modello sociale»37, fondato sulla costante specificazione dell’individualità. Proprio la costante emergenza degli individui finisce così per rappresentare un limite alla stessa comunicazione societaria. Non si ha ancora esperienza di quanto fortemente e in quale portata i grandi mezzi di comunicazione sociale, cioè il diritto e il denaro, possano essere estesi e intensificati attraverso la formazione dell’organizzazione e in quale larga misura, nei vasti campi della vita sociale quotidiana, poi, l’interazione non mantenga più ciò che si autopromette38. La società funzionalmente differenziata non è fondata prioritariamente sulla socialità, ma su modalità viepiù astratte di socializzazione, all’interno delle quali l’individuo ricopre determinati ruoli, senza essere mai totalmente implicato in alcuno di essi. Con l’idealismo tedesco, che per Luhmann rappresenta il vero punto di svolta nelle semantiche dell’individualismo, l’appartenenza al ceto viene dichiarata incompatibile con un’individualità che dovrebbe essere «unica e singolare» e non la riproduzione quasi seriale di un’identità cetuale. A partire da allora è impossibile (sebbene molti non lo vedano!) concepire l’individuo come parte di un tutto, come parte della società. Qualsiasi cosa faccia di sé l’individuo e qualsiasi ruolo abbia la società, egli ha la sua collocazione in se stesso e al di fuori della società. Con la formula “soggetto” non viene simbolizzato altro che questo39. Luhmann conclude la sua analisi della semantica dell’interazione dei ceti elevati facendo riferimento al Versuch einer Theorie des geselligen Betragens pubblicato nel 1799 da Friedrich Schleiermacher, nel quale la socievolezza diventa fine a se stessa; è senza scopo e senza utilità immediata; riguarda solo il piacere che se ne trae. 37 Ibid., p. 149. p. 151. 39 Luhmann, Individuum, Individualität, Individualismus, cit., p. 212. Cfr. anche Id., Die Gesellschaft der Gesellschaft, cit., vol. II, pp. 1016 sgg. 38 Ibid., 8. l’individuo della sociologia 245 Non si può allora avere di mira nient’altro che un libero gioco dei pensieri e delle sensazioni attraverso cui i membri si eccitano e s’istruiscono vicendevolmente. L’azione reciproca, di conseguenza, si ritira in se stessa ed è compiuta; nel suo concetto sono contenuti tanto la forma quanto lo scopo dell’attività sociale, ed essa forma l’intera essenza della società40. Per Luhmann questo è l’annuncio di una sorte di dolce e inavvertita catastrofe delle semantiche dell’interazione. Significativamente l’articolo di Schleiermacher prevede una conclusione che non ci sarà mai, così come non ci sarà mai il modello di individualità piena e profonda che esso prospetta. L’«individualità dell’individuo» si fonda invece sulla sua evanescenza politica, ovvero sull’obliterazione della posizione costitutiva che gli aveva riconosciuto il discorso giusnaturalistico, specialmente legittimando il nuovo ordine sociale fondato su lavoro e proprietà41. La nuova individualità procedurale fondata sulla separazione sociale e sull’esclusione sistemica è invece per Luhmann il presupposto per ridefinire la semantica politica nel suo complesso42. Essa consente di riformulare il comando legittimo nei termini del potere, in luogo di quelli del dominio, proprio perché assume come principio evolutivo la differenza e la distanza tra gli individui, con la conseguente impossibilità di un potere personale e immediato che li ordini. Essa consente inoltre di comprendere la società come un ordine che non possiede né un principio trascendente né uno immanente, com’era stato nella prima età moderna proprio l’individuo. Al contrario, per Luhmann, proprio la costante interpenetrazione tra i diversi sistemi sociali produce necessariamente anche disordine. Ciò vale quindi anche per quei sistemi psichici e sociali che sono gli individui. «Si può perciò anche dire che i sistemi psichici procurano ai sistemi sociali suffi40 Luhmann, Interazione negli strati elevati, cit., pp. 155-156. Luhmann, Am Anfang war kein Unrecht, in Id., Gesellschaftsstruktur und Semantik, cit., vol. III, pp. 11-64. 42 Cfr. N. Luhmann, Staat und Politik. Zur Semantik der Selbstbeschreibung politischer Systeme, in Id., Soziologische Aufklärung 4: Beiträge zur funktionalen Differenzierung der Gesellschaft, Wiesbaden, VS Verlag, 20053, pp. 76-107. Cfr. anche M. King, C. Thornill, Niklas Luhmann’s Theory of Politics and Law, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2005. 41 N. 246 la società come ordine ciente disordine e viceversa»43. La stessa teoria sociale, tuttavia, fatica a cogliere la nuova «individualità dell’individuo», perché, come scrive Luhmann criticando Simmel e Mead, essa si attarda in una teoria che «decompone e ricompone l’individuo in riferimento alle condizioni sociali. Il sociale, tuttavia, è visto solamente come interazione, non come società, e più o meno come occasione presente, non come storia»44. Questa annotazione riporta in primo piano la contiguità tra storicismo e funzionalismo da cui l’analisi luhmanniana della tradizione semantica prende le mosse. Luhmann non cita mai, quanto meno non in passaggi strategici, Friedrich Meinecke. Eppure l’esito dell’indicibilità dell’individuo è già espresso nella sua classica ricerca sulle origini dello storicismo. Forse non è un caso che Meinecke scelga come epigrafe del suo libro il passo di una lettera del 1780 di Goethe a Lavater, cioè un dialogo tra due figure di primo piano dell’epoca indicata da Luhmann come momento di sublimazione dell’individualità moderna. Scrive dunque Goethe: «Ti ho già scritto il motto individuum est ineffabile, dal quale deduco un mondo»? Da molti punti di vista Luhmann si è attenuto a questo motto e ha portato a compimento il programma che esso conteneva. 43 N. Luhmann, Soziale Systeme. Grundriss einer allgemeine Theorie, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 19852, p. 291. 44 N. Luhmann, The Individuality of the Individual: Historical Meanings and Contemporary Problems, in T. Heller, M. Sosna, D.E. Wellbery (eds), Reconstructing Individualism: Autonomy, Individuality, and the Self in Western Thought, Palo Alto, Stanford University Press, 1986, pp. 313-325, p. 314. Capitolo nono Storia e sistema: lo Stato 1. La storia di un sistema Le scienze sociali, e la sociologia in modo particolare, contribuiscono in maniera peculiare a ridefinire l’epistemologia dello Stato moderno. Lo fanno in un modo profondamente diverso da quello del diritto che, per tutto il XIX e la prima metà del XX secolo, ha prodotto la teoria dello Stato nella forma «di un discorso performativo sulla cosa pubblica»1. Per costruire questo discorso e dotarlo di un’effettiva presa sulla realtà, il diritto ha identificato pubblico e universale, stabilendo attraverso le sue norme una gerarchia dei rapporti sociali, di modo che ogni rapporto sia legittimo nella misura in cui ne è sancita e assicurata la rilevanza collettiva. In questo modo anche a istituti particolari, come per esempio quello della proprietà privata, è riconosciuto il carattere vincolante che spetta a ogni interesse universalmente legittimo. Per le scienze sociali il discorso è differente. Come abbiamo visto, esse nascono contemporaneamente al processo di positivizzazione del diritto, ma rispondono fin dall’origine alla costante evidenza dell’insufficienza dell’universale. Tra scienze sociali e diritto esiste tuttavia per tutto il Novecento un rapporto 1 P. Bourdieu, De la maison du Roi à la raison d’État. Un modèle de la genèse du champ bureaucratique, in «Actes de la recherche en sciences sociales», 118, 1997; trad. it. Dalla casa del re alla ragion di Stato. Un modello della genesi del campo burocratico, in L. Wacquant (a cura di), Le astuzie del potere. Pierre Bourdieu e la politica democratica, Verona, Ombre corte, 2005, pp. 37-62, p. 55. 248 la società come ordine di complementarietà storicamente determinato, all’interno del quale viene prodotto lo Stato amministrativo sociale di diritto. Proprio delle scienze sociali è però individuare percorsi di legittimità e di disciplinamento che eccedono le norme del diritto. Esse perimetrano così un ambito fondamentale per comprendere lo Stato in quanto «fenomeno centrale per la storia dell’organizzazione del potere nell’Europa moderna»2. Proprio per questa comprensione della costituzione e degli effetti del potere prima, o persino nonostante la sua formazione giuridica, esse tendono costantemente e necessariamente a eccedere l’ambito della istituzionalizzazione del potere statale, affiancando alla sua storia quella di una società, che diviene anche un luogo specifico della legittimazione dello Stato. Il rapporto così delineato tra lo Stato e la sua società non è per nulla lineare e tanto meno univoco, perché, come scrivono Rotelli e Schiera, di «fronte allo Stato la “società” presenta sempre, spesso contemporaneamente, elementi di resistenza e conservazione ed elementi di superamento e di eversione»3. Ciò spiega peraltro l’enorme impatto che le scienze sociali hanno avuto sulla storiografia contemporanea. La parziale dissonanza della società rispetto allo Stato impone di forgiare strumenti che costruiscono l’epistemologia dello Stato considerandolo in qualche misura come un fenomeno se non transeunte almeno derivato da processi più complessi e di più lungo periodo. Le scienze sociali affrontano lo Stato a partire dalla consapevolezza che la «vita sociale nel suo complesso ha espresso, sta esprimendo, esprimerà sempre di più delle sedi e dei momenti di gestione del potere eccentrici rispetto allo schema monopolistico che fa capo allo Stato»4. Il lessico di queste frasi richiama evidentemente quello weberiano. Su di esso e sulla lezione weberiana ritorneremo diffusa2 E. Rotelli, P. Schiera, Introduzione, in Lo Stato moderno. I: Dal Medioevo all’età moderna, Bologna, il Mulino, 1971, p. 10. 3 E. Rotelli, P. Schiera, Introduzione, in Lo Stato moderno. II: Principi e ceti, Bologna, il Mulino, 1973, p. 7. 4 Ibid., p. 9. Ma cfr. ora P. Schiera, Lo Stato moderno. Origini e degenerazioni, Bologna, Clueb, 2004. 9. Storia e sistema: lo stato 249 mente in seguito. Ciò che si deve ora segnalare è come la storia costituzionale, a cui anche Rotelli e Schiera si richiamano decisamente, faccia chiarezza su alcuni termini di quel lessico, mettendo in evidenza come Weber inserisca gli eventi storici in una dinamica complessiva che mostra definitivamente la dimensione societaria del fenomeno statale. Otto Hintze sottolinea infatti che Weber «non dice cosa “è” una cosa, bensì come lui la vuole “chiamare”. Egli definisce nomi non cose». Con Weber siamo di fronte a una radicale negazione della “sostanza” di ogni concetto politico e sociale, in nome «della funzione, dell’attualità». Questo nominalismo radicale consentirebbe a Weber di cogliere i fenomeni politici nella loro processualità. Proprio per questo la «società diviene per lui “societarizzazione”, e la comunità “comunitarizzazione”»5. Non sfugge a Hintze che la conseguenza di questa innovazione weberiana, cioè fare dello Stato un “episodio” nella configurazione storicamente più ampia dei diversi tipi di dominio, significa affidarsi alla logica del processo e gettare una nuova luce sulla «storia e il sistema della costituzione dello Stato e della società»6. Lo Stato è per Weber una necessità inderogabile di quella costellazione tipicamente occidentale incentrata sulla presenza contemporanea di vari assetti di potere. Come per altri versi il capitalismo, che lo Stato in quanto sistema di dominio si presenti come connessione organizzata di poteri differenti emerge con sufficiente chiarezza nella più nota e comprensiva definizione weberiana di Stato. «Per Stato si deve intendere un’impresa istituzionale di carattere politico nella quale – e nella misura in cui – l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica legittima, in vista dell’attuazione degli ordinamenti all’interno di un determinato territorio». Dal riferimento all’impresa, all’apparato amministrativo fino agli ordinamenti, lo Stato si presenta come una concentrazione di poteri rispetto ai quali il monopolio 5 O. Hintze, Max Webers Soziologie, in Id., Soziologie und Geschichte. Gesammelte Abhandlungen zur Soziologie, Politik und Theorie der Geschichte, hrsg. von G. Oestreich, Göttingen, Vandehoeck & Ruprecht, 19642, pp. 135-147, p. 140. 6 Ibid., p. 143. 250 la società come ordine della forza è solo l’elemento ultimo, senza per questo essere quello concettualmente decisivo, anche se, come vedremo, grazie alla forza si profila il carattere di «associazione di dominio» [Herrschaftsverband] dello Stato stesso. Tutti gli elementi che intervengono nella definizione richiamano la costellazione societaria all’interno della quale lo Stato si colloca. Esso corrisponde alla logica di un processo di costituzione e trasformazione del potere che trova il proprio segno distintivo nella durata e nell’intrinseca razionalità. Si tratta quindi di vedere in quale rapporto si collocano all’interno della vicenda storica dello Stato i concetti di potere [Macht] e dominio [Herrschaft]. Il primo corrisponde per Weber a «qualsiasi possibilità di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte a un’opposizione, la propria volontà, quale che sia la base di questa possibilità», mentre con il secondo si deve intendere «la possibilità di trovare obbedienza presso certe persone per un comando con un contenuto determinato». Va subito sottolineato che mentre il concetto di potere viene definito come «sociologicamente amorfo», perché non arriva a determinare le qualità che consentono a un individuo di far valere la propria volontà all’interno di una situazione data, il concetto di dominio è un «concetto sociologico» e perciò «più preciso», dovendo essere in grado evidentemente di stabilire sia la qualità della persona sia le condizioni in cui il suo comando agisce. A differenza del potere, il dominio non è determinato dalla propria potenzialità, ma è il fatto attuale della presenza di una persona che impartisce «con successo» un comando ad altre persone. Nel concetto sociologico di dominio vi è per Weber un ineliminabile “residuo” di comando personale e individuale che è però fondamentale per la definizione di un concetto, la cui attualità non è di conseguenza «incondizionatamente legata né all’esistenza di un apparato amministrativo né di un’associazione»7. 7 Cfr. Weber, Economia e società, cit., vol. I, pp. 51-53. Cfr. ancora Ferraresi, Il fantasma della comunità. Concetti politici e scienza sociale in Max Weber, cit.; E. Hanke, Max Webers “Herrschaftssoziologie”. Eine werkgeschichtliche Studie, in E. Hanke, W.J. Mommsen (Hrsg.), Max Webers Herrschaftssoziologie. Studien zu Entstehung und Wirkung, Tübingen, Mohr, 2001, pp. 19-46; S. Breuer, Max Webers Herrschaftssoziologie, Frankfurt a.M.-New York, Campus, 1991. 9. Storia e sistema: lo stato 251 Che tra il potere e il dominio non vi sia solo una distinzione metodologica, ma che essi siano anche fasi di un processo sembra confermato dal fatto che Weber parli di «forme di trapasso» dall’uno all’altro, ribadendo che è «soltanto il dominio, e il suo modo di esercizio, che da un amorfo agire in comunità fa scaturire una socializzazione razionale [rationelle Vergesellschaftung]»8. Il dominio rappresenta l’elemento personale che consente la strutturazione di una forma determinata, che proprio per questo non può essere rappresentata come una mera e indeterminata interazione9. Il concetto weberiano di dominio rappresenta il culmine politico di una sociologia ostinatamente orientata all’individuo sia nella sua dimensione storica sia in quella metodologica. Il comando concreto e individualizzato che compare nella definizione del dominio come categoria sociologica non è perciò da intendersi solamente come indicazione della necessità di “individuare” il soggetto della decisione, ma anche come constatazione che comunque individui concreti presiedono all’attività di gestione del potere da parte degli apparati amministrativi. Ciò non sembra tuttavia essere ugualmente vero dal lato dell’ubbidienza. Quest’ultima, infatti, si configura in primo luogo come risposta, obbligata o voluta, ma comunque razionale, al comando ricevuto in base a quel «minimo di interesse personale da parte di colui che obbedisce [che] rimane normalmente come indispensabile molla della obbedienza»10. Oppure l’obbedienza si configura come disciplina, che è di fatto il terzo elemento della logica weberiana del potere. La disciplina è caratterizzata dalla propria immediata dimensione di massa, in quanto «possibilità di trovare obbedienza pronta, automatica e schematica a un certo comando da parte di una molteplicità di uomini». Essa è una consuetudine all’obbedienza che eccede la decisione individuale di corrispondere a comandi specifici. In essa, si potrebbe dire, la 8 Weber, Economia e società, cit., vol. IV, p. 43. Duso, Tipi del potere e forma politica moderna in Max Weber, in Id., La rappresentanza: un problema di filosofia politica, Milano, FrancoAngeli, 1988, pp. 55-82. 10 Weber, Economia e società, cit., vol. IV, p. 43. 9 G. 252 la società come ordine regolarità dell’agire conta molto di più che la regola che impone di obbedire. Non a caso Weber la definisce anche come sottrazione rispetto al tipico agire in società, parlando di un «agire in comunità di una formazione di massa»11. Essendo infatti una sorta di elemento comunitario, evidentemente presente nelle formazioni basate sulla tradizione, ma che ritorna anche nel processo di societarizzazione, essa è anche la condizione necessaria che consente lo Stato moderno come «impresa istituzionale», perché colma lo scarto irrimediabilmente aperto tra il potere come comando personale e la struttura impersonale del dominio burocratico e capitalistico. Riprendendo la dicotomia di Hintze possiamo dire che se il dominio rappresenta l’emergenza storica del potere, la disciplina ne esprime il carattere necessariamente sistematico. Nell’esperienza storica della statualità moderna la connessione tra dominio e disciplina diviene immediatamente evidente, così come essa d’altra parte appare costitutiva della vicenda del capitalismo in quanto processo che accompagna la costituzione storica dello Stato. Essa consente a Weber di dare conto sia di una Herrschaft intesa come struttura allo stesso tempo personale e impersonale, sia della presenza di un individuo – che, se considerato come singolo dovrebbe avere la razionalità dell’homo oeconomicus e, possibilmente le passioni di un puritano delle origini, mentre quando si presenta in massa – come cittadino o come lavoratore – vede svanire i suoi contorni nell’immagine del soldato disciplinato e automaticamente ubbidiente. Senza fare eccezione dall’individuo, cioè senza la disciplina, la stessa ricostruzione weberiana della vicenda dello Stato risulta perciò difficilmente comprensibile. Contro qualsivoglia mitologia della fondazione statale in base all’azione eminente di un singolo o alla potenza di una banda, infatti, Weber afferma ripetutamente l’importanza della continuità dell’agire statale. Per parlare di Stato, più che l’origine è importante individuare gli elementi concreti di funzionamento continuativo dell’apparato statale. Significativo è che questa rivendicazione avvenga contro quel Nietzsche che negli ultimi 11 Ibid., p. 260. 9. Storia e sistema: lo stato 253 decenni è stato giustamente indicato come il suo più importante riferimento intellettuale. Scrive dunque Weber: «È invece arbitrario far cominciare la monarchia e lo Stato – richiamandosi alle concezioni di Nietzsche – quando una stirpe vittoriosa sottomette un’altra stirpe, e crea un rapporto permanente per tenerla in soggezione e in dipendenza»12. Weber non nega il carico di violenza presente nel processo di istituzionalizzazione politica, ma sottolinea con forza ancora maggiore che, affinché si possa parlare di Stato in senso moderno, non ci si può fermare all’imposizione di un rapporto di dominio per quanto organizzato. La conquista e l’assoggettamento non sono in alcun modo sufficienti, al punto che Weber scrive altrove: il nucleo tipico di quella socializzazione [Vergesellschaftung] che oggi chiamiamo “Stato”, consiste da un lato in libere socializzazioni occasionali di predatori, costituite per una campagna militare, sotto capi scelti da esse stesse, e dall’altro nella socializzazione occasionale dei minacciati a scopo di difesa. Mancano del tutto i poteri di scopo, e manca qualsiasi durata. Quando la spedizione o la difesa sono riuscite (oppure fallite), ed il bottino è stato spartito, la socializzazione cessa13. Dunque lo Stato è una specifica socializzazione, o, come abbiamo già visto, una “societarizzazione”. La puntualizzazione non è meramente dettata dal bisogno di precisione lessicale, ma, come aveva intuito Otto Hintze, segnala che la formazione dell’istituzione statale non è dovuta meramente a una generica “socializzazione” in senso sociologico, ma a un processo storico e sistemico, coerente con quello che dà vita alla società moderna. All’interno di questo processo la graduale monopolizzazione della forza è possibile grazie al progressivo affermarsi di una fede condivisa nella «conformità al diritto» dell’agire in comunità degli individui. Il consenso che fonda la legittimità è legato alla contempo- 12 Ibid., p. 243. Weber, Über einige Kategorien der verstehenden Soziologie, in Id., Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftslehre, cit., pp. 427-474; trad. it. Alcune categorie della sociologia comprendente, in Id., Il metodo delle scienze storico-sociali, Torino, Einaudi, 1974, pp. 239-307, p. 273. 13 M. 254 la società come ordine ranea presenza di un monopolio della forza legittimato in termini giuridici. Viene stabilito così un nesso necessario tra istituzionalizzazione, conformità al diritto dell’agire e monopolizzazione della forza. Quest’ultima non può essere intesa in nessun caso come un atto di forza, e nemmeno come necessità in vista dell’assolvimento del compito di garantire la pace interna o esterna, perché, come rilevato da Weber, quest’ultimo è un compito assolto da molte associazioni a cui mancano le caratteristiche fondamentali della statualità moderna. Essa è perciò anche indipendente dalla specifica origine dello Stato, problema che non a caso rimane sempre estraneo alla sociologia storica weberiana14. Weber è prioritariamente interessato al processo di istituzionalizzazione, cioè al progressivo stabilirsi di un ordine normativo condiviso e perciò legittimo, che è sì un «razionale ordinamento casistico» dell’applicazione dei «mezzi coercitivi», ma anche e necessariamente un processo di disciplinamento sociale. Il percorso di istituzionalizzazione si presenta come intensificazione del nesso tra diritto e forza, cioè come agire politico che può pretendere l’uso esclusivo della forza proprio perché si legittima in base alla credenza condivisa nel suo diritto: «fino al punto che comunità politiche (che prendono il nome di “Stati”) sono considerate capaci di fondare, in virtù di un mandato o di una concessione, un esercizio “conforme al diritto” della coercizione fisica da parte di qualsiasi altra comunità»15. La complessa logica weberiana del potere mantiene tuttavia un’apertura specifica grazie alla posizione centrale assegnata al dominio. Questa apertura impedisce di far coincidere totalmente lo Stato con una società disciplinata. Gli uomini ubbidiscono16 perché 14 R. Bendix, Max Weber. An Intellectual Portrait, London, Methuen, 1973; trad it. Max Weber. Un ritratto intellettuale, Bologna, Zanichelli, 1984, p. 274, nota giustamente che se «l’emergere concreto dello Stato moderno ricadeva al di fuori della portata della ricerca di Weber, ciò non era il caso per quanto riguardava i prerequisiti istituzionali di tale Stato. Weber era estremamente interessato alle caratteristiche razionali dello Stato che emergevano dalla lotta patrimoniale e feudale per il potere» (Cfr. comunque A. Anter, Max Weber Theorie des modernen Staates. Herkunft, Struktur und Bedeutung, Berlin, Duncker und Humblot, 1995). 15 Weber, Economia e società, cit., vol. IV, p. 4. 16 Cfr. A. D’Attorre, Perché gli uomini ubbidiscono, cit., in part. pp. 201 sgg. 9. Storia e sistema: lo stato 255 sono gli elementi reali del processo di istituzionalizzazione che si presenta così come il lato oggettivo e non individuale del processo di disciplinamento. 2. Gli individui della società La relazione sociologica tra gli individui e il loro Stato appare invece a Norbert Elias interamente dominata dal processo di costituzione della società. Nella sociologia di Elias il lessico weberiano dello Stato, basato su monopolizzazione della forza e legittimità, su disciplinamento e istituzionalizzazione, su potere e dominio, subisce un’ulteriore e più marcata torsione societaria. In nessun modo affiora l’idea, presente in Pierre Bourdieu, e prima di lui in Max Weber, che il processo di costituzione della società sia anche una «sociodicea, grazie alla quale i gruppi dominanti mirano a produrre una “teodicea dei loro propri privilegi”»17: per Elias la società è una e compatta in maniera sociologicamente rilevante. Questa compattezza sociologica si fonda sui processi che la caratterizzano, che sono tutti processi di lunghissimo periodo, nei quali i monopoli della forza e della tassazione non sono possibili grazie alla particolare legittimità dell’istituzione statale, ma sono modalità di organizzazione della società nel suo complesso18. «La società che definiamo società dei tempi moderni è caratterizzata, soprattutto in occidente, da un livello ben preciso di monopolizzazione»19, 17 P. Bourdieu, La noblesse d’état. Grandes écoles et esprit de corps, Paris, Éditions de Minuit, 1989, p. 377. 18 C. Tilly, Coercion, Capital, and European States, Oxford, Blackwell, 1990; trad. it. L’oro e la spada. Capitale, guerra e potere nella formazione degli Stati europei 900-1990, Firenze, Ponte delle Grazie, 1991, p. 100 afferma che ai due monopoli considerati da Elias si deve aggiungere quello del credito, dal momento che «storicamente, pochi grandi Stati hanno potuto finanziare le loro spese militari con le sole entrate ordinarie. Al contrario, la possibilità di far fronte a un deficit dipendeva dal ricorso a questa o a quella forma di prestito». 19 N. Elias, Wandlungen der Gesellschaft. Entwurf zu einer Theorie der Zivilisation, in Id., Über den Prozess der Zivilisation, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1980; trad. it. Potere e civiltà, in Id., Il processo di civilizzazione, vol. II., Bologna, il Mulino, 1983, p. 144. 256 la società come ordine che non corrisponde alla centralizzazione del potere politico, alla sua collocazione autonoma, ma piuttosto alla costituzione di un «potere sociale centrale». La monopolizzazione è quindi da intendersi come una «divisione delle funzioni» e «la formazione di un permanente e specializzato apparato di dominio per gestire questi monopoli». Il potere sociale centrale non esprime tuttavia il predominio di soggetti o attori sociali determinati, ma è il frutto di una dinamica interna alla società intesa come complesso, al punto che la funzione del dominio è per Elias una necessità della società, un suo principio organizzativo. L’indagine storico-sociologica sull’autocomprensione degli individui e sul mutamento delle loro relazioni mira a cogliere «l’intero campo di conflitti e dell’attività delle energie psichiche individuali, la struttura della conformazione dell’autocontrollo pulsionale così come di quello cosciente». A questa ricerca psicogenetica si accompagna quella sociogenetica, ovvero «lo studio della struttura complessiva di un determinato campo sociale e dell’ordine storico entro cui esso si modifica»20. All’incrocio di queste due linee di ricerca lo Stato rappresenta l’omologo istituzionale dell’individuo moderno, al quale è strettamente legato e dal quale non può prescindere. La storia e il sistema dello Stato e della società si sovrappongono in continuazione di modo che la tendenza alla monopolizzazione del potere finisce per essere riconosciuta come necessità da tutte le parti della società. Le lotte sociali non mirano ormai più a eliminare l’apparato di dominio, ma vertono sul problema di chi deve disporre dell’apparato monopolistico, donde reclutarli e come dipartire oneri e utili. Soltanto dopo che è stato costituito tale monopolio permanente del potere centrale, insieme a un apparato specialistico di dominio, le unità di dominio acquistano il carattere di “Stati”21. Viene così affermata una priorità logica, prima ancora che storica, della società sullo Stato, con il conseguente trasferimento di ogni conflitto dalle modalità di produzione a quelle di distribuzione del dominio. Il meccanismo fondamentale della monopoliz- 20 Ibid., 21 Ibid., p. 372. p. 145. 9. Storia e sistema: lo stato 257 zazione è per Elias in verità un processo di centralizzazione e di controllo dei movimenti della società e, proprio per questo, esso è non solo inestricabilmente connesso, ma addirittura isomorfo al processo di disciplinamento del comportamento degli individui. Il processo con il quale gli individui giungono ad avere il controllo delle proprie emozioni corrisponde alla sempre maggiore capacità sociale di controllare la forza. In questo contesto è perciò necessaria una nuova concettualizzazione della forza, che non può più essere intesa come una “proprietà” individuale da usare seguendo la volontà nelle diverse situazioni, ma piuttosto come una risultante dei diversi movimenti che si sviluppano all’interno del processo societario. Essa è inserita in un processo ed emerge perciò come variabile del processo stesso, non come esito “assoluto” della volontà, perché nessuno possiede sufficiente forza da farsi valere autonomamente. Esemplare è da questo punto di vista la trattazione della monarchia, o meglio del «meccanismo monarchico», proposta da Elias, che dimostra come fin dall’origine per lui non esista un unico punto di forza attorno al quale si organizza la possibile monopolizzazione. Nemmeno per i monarchi, infatti, il possesso della forza è di per sé sufficiente a garantire il potere. Il potere non è solo possesso della forza, ma piuttosto il sapere collocarsi, e il trovarsi collocati, all’interno di un campo di forze, che garantiscono una posizione di potere che è solo apparentemente singolare. Quanto più numerosi sono gli individui divenuti dipendenti attraverso il gioco del meccanismo di monopolizzazione, tanto maggiore diviene la potenza sociale non del singolo individuo dipendente ma della massa dei dipendenti in rapporto ai pochi o all’unico monopolista; e ciò avviene tanto a causa del loro numero quanto della dipendenza in cui vengono a trovarsi i pochi monopolisti, dalla massa crescente di dipendenti per poter conservare e sfruttare le loro chances monopolizzate22. Affinché il singolo monopolista non sia un semplice autocrate, figura semplicemente impossibile nella sociologia di Elias, che 22 Ibid., p. 159. 258 la società come ordine probabilmente la considererebbe come una sorta di residuo del passato più remoto e tramontato, è inevitabile che, con l’aumento del suo potere, egli stesso diventi sempre più una funzione del suo proprio monopolio, al punto che, se i dipendenti si rivoltassero, non lo farebbero per far valere una loro qualche individualità, ovvero una qualche parzialità soggettiva od oggettiva, ma piuttosto la loro superiore socializzazione, il loro essere più coerenti con la presenza e l’agire del monopolio. Il monopolio è dunque l’esito costantemente mutevole di un processo che ha tuttavia come suo costante riferimento la libera concorrenza tra individui. La libera concorrenza, l’eliminazione e la formazione di monopoli sono processi che si implicano reciprocamente, ma non si tratta per Elias di un’evoluzione uniformemente metastorica, quanto piuttosto della successione di fasi diverse, esclusivamente comprensibili all’interno del più vasto processo di civilizzazione, che è l’autentico metaprocesso che spiega e giustifica l’intera sociologia di Elias. Non diversamente da quanto avviene, come vedremo, in Luhmann nel passaggio dalle società stratificate a quelle differenziate funzionalmente, questa evoluzione conosce un prima fondato esclusivamente sulla forza e un dopo fondato sulla funzione. In entrambe queste fasi, tuttavia, si produce una selezione, ma nella seconda «i tipi umani che produce sono quanto mai differenti da quelli della precedente fase di libera competizione», perché nella seconda fase è dominante l’interdipendenza degli individui e l’interesse «di un intero consorzio umano»23 che essi esprimono. In definitiva la monopolizzazione della forza è uno dei modi per imbrigliare la lotta economica, che è il vero movimento che caratterizza la società nel suo complesso. L’epocale processo di disciplinamento, che investe allo stesso tempo i comportamenti individuali e le strutture politiche, ha come teatro una società che non può essere immaginata come qualcosa di astratto e convenzionale, ma come l’insieme concreto delle relazioni che la compongono. L’evoluzione dei comportamenti quotidiani – da quelli tenuti a tavola a 23 Ibid., p. 155. 9. Storia e sistema: lo stato 259 quelli militari a quelli sessuali – così come la progressiva comprensione funzionale del dominio, e quindi della monopolizzazione della forza, sono possibili perché l’uomo di Elias è infinitamente modellabile anche oltre la sua stessa manifesta volontà. La storia della società è perciò una successione di tipi umani che sono i soli a poter rivendicare la propria legittimità, in quanto effettiva espressione dell’evoluzione attuale del processo societario ed espressione attuale della storia universale della società. Il tipo umano d’altra parte non è un individuo concreto, né riassume una “classe” di individui, ma è piuttosto l’effetto della società che si individualizza in quel tipo di uomo, conoscendo così il proprio fine per quanto temporaneo24. Da questo punto di vista è probabilmente significativo che la ricerca di Elias sulla società di corte dovesse avere originariamente come titolo Der Hofmensch, l’uomo di corte. Rovesciando il titolo di un suo celebre saggio del 1939 si potrebbe dire che più che una società degli individui, Elias descrive individui che appartengono necessariamente a una società, che non solo ne oltrepassa le capacità di progettazione e di azione, ma che in qualche misura si contrappone loro come ordine. Siamo cioè di fronte al «fatto che l’intreccio degli uomini possiede un ordine e soggiace a una regolarità, che è più potente e che è qualcosa d’altro rispetto a ciò che i singoli uomini, che formano quell’intreccio, pianificano e vogliono»25. Da questa affermazione della società come ordine si può comprendere la polemica che Elias conduce per decenni contro quella che a lui appare come una assurda simmetria tra due immagini dell’uomo che vengono considerate come reciprocamente esclusive, mentre andrebbero integrate. Questa polemica si rivolge perciò sia contro chi considera «societario» ciò che «è “uguale” in molti uomini, il “tipico” in essi», ma anche contro 24 Cfr. a questo proposito K. Anders, Die unvermeidliche Universalgeschichte. Studien über Norbert Elias und das Teleologieproblem, Opladen, Leske und Budrich, 2000. 25 N. Elias, Die Gesellschaft der Individuen (1939), poi in Id. Die Gesellschaft der Individuen, hrsg. von M. Schröter, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1987, pp. 17-95, p. 60. 260 la società come ordine chi considera societario «ciò che fa ogni uomo diverso, in breve: ciò che lo rende un’individualità più o meno pronunciata, ovvero, così si crede, un elemento extrasocietario, al quale, senza ulteriore riflessione e per lo più in maniera abbastanza oscura, viene ascritta un’origine biologico-naturale oppure metafisica»26. Elias non crede particolarmente all’agire carismatico, ma non crede nemmeno che il disciplinamento sociale produca un irriducibile contrasto con la possibilità di esprimere un’individualità societaria. «La società non è solamente ciò che equipara e tipizza, bensì anche ciò che individualizza. Il diverso grado di individualizzazione tra gli appartenenti ai diversi gruppi e strati lo mostra abbastanza chiaramente»27. Ricostruendo la storia sociologica della società europea della prima età moderna28, Elias descrive un disciplinamento sociale che mira a inserire pienamente gli individui all’interno della società, proprio perché è interpretato come modalità per colmare la distanza tra la società e i suoi individui. Anzi per Elias quella distanza non è mai realmente esistita ed è stata costantemente frutto di un’illusione ideologica che ha portato a immaginare ogni tipo di uomo come «homo clausus, un piccolo mondo a sé che in ultima analisi esiste indipendentemente dal mondo al suo esterno»29. Questo homo clausus sarebbe stato per secoli il soggetto dominante delle scienze dell’uomo. Tra le sue varietà vi sono non soltanto il tradizionale homo philosophicus, ma anche l’homo oeconomicus, l’homo psychologicus, l’homo historicus e, non ultimo, nella sua versione attuale l’homo sociologicus. L’immagine cartesiana del singolo, quella di Max Weber o di Parsons e di molti altri sociologi provengono tutte da una medesima matrice30. 26 Ibid., p. 84. p. 90. 28 Cfr. W. Jäger, „Menschenwissenschaft“ und historische Sozialwissenschaft. Möglichkeit und Grenzen der Rezeption von Norbert Elias in der Geschichtswissenschaft, in «Archiv für Kulturgeschichte», 77, 1995, pp. 85-116. 29 N. Elias, Wandlungen des Verhaltens in den Weltlichen Oberschichten des Abendlandes, in Über den Prozess der Zivilisation, cit.; trad. it. La civiltà delle buone maniere, in Id., Il processo di civilizzazione, vol. I., Bologna, il Mulino, 1982, p. 44. 30 Ibid., p. 45. 27 Ibid., 9. Storia e sistema: lo stato 261 Il correlato sociologico di questo soggetto atomizzato e sovranamente indipendente è per Elias l’uomo comune con la sua tendenza a figurarsi il presente come esito di un passato razionale e di un progetto consapevole. Tutta la sociologia di Elias si basa invece sul presupposto che il presente non era stato progettato e voluto da nessuno e che tuttavia derivò proprio dalle intenzioni e dalle azioni di molti individui. Questo è il vero segreto dell’interdipendenza sociale, della sua inevitabilità, delle leggi che ne regolano l’edificazione e la struttura, del suo processo e della sua evoluzione; questo è il segreto della sociogenesi e della dinamica dei rapporti. Qui non c’è individualismo metodologico all’opera, ma una sostanziale indeterminatezza delle cause particolari che produce la più netta scissione tra l’esito collettivo e l’azione individuale, ovvero l’individuale esiste ma solo come funzione del collettivo, perché alla fine si «formarono anche se non programmate certe leggi che coinvolsero una massa di individui interdipendenti, nacque uno Stato che nessuno dei protagonisti aveva propriamente voluto: la Francia»31. Ciò non significa evidentemente che non esistano cause materiali che rendono necessario il cambiamento in vista dell’affermazione del monopolio pubblico: in primo luogo il passaggio da un’economia naturale basata sul possesso della terra a una finanziaria basata sui movimenti della moneta. Il monopolio non può più essere individuato e limitato in uno spazio chiuso, ma deve essere necessariamente socializzato nella dimensione tendenzialmente più ampia possibile, perché il denaro stesso non può essere limitato a uno spazio finito. Non differentemente da quanto succede con il concetto di società in Locke, il carattere tendenzialmente infinito del processo di civilizzazione è motivato in ultima istanza dall’inarrestabile progressione dell’economia monetaria e finanziaria. Il carattere mobile della proprietà favorisce e rende necessario un controllo centralizzato tanto del fisco quanto della forza, un monopolio che «ormai centralizzato, diviene lenta31 Elias, Potere e civiltà, cit., pp. 214-215. 262 la società come ordine mente uno strumento dell’intera società in cui le funzioni sono divise. Si tratta di quell’organo centrale che chiamiamo Stato». Lo Stato diventa però tanto più necessario quanto più gli individui perdono la presa sulla riproduzione immediata della loro esistenza, quanto più sono costretti al disciplinamento delle loro condotte di vita, quanto più «lunghe e complesse divengono le catene delle azioni individuali che debbono intersecarsi affinché ogni singola azione adempia al suo scopo sociale»32. In quanto organo societario, lo Stato è la forma dell’autocostrizione degli individui, ma anche la misura della loro strutturale insufficienza rispetto ai movimenti complessivi del processo di civilizzazione33. Infatti, se da una parte è vero che Elias si pone come ultimo teorico di una Menschenwissenschaft34, dall’altra parte è altrettanto vero che questa scienza non è per nulla una scienza universale, ma finisce per riassumere il problema storico dell’universalismo moderno, rinvenendo esclusivamente rapporti di interdipendenza e ignorando completamente quella peculiare forma di interdipendenza che è la subordinazione. Il problema non è tanto, o comunque non solo, il problema etico e politico della subordinazione di un uomo a un altro, quanto piuttosto il fatto che a Elias sfuggono completamente gli effetti costituzionali che quella subordinazione produce nella configurazione della società e dello Stato. La sua società contempla solo nominalmente il dominio, in quanto specifica posizione di potere, ma ignora gli scarti che la triade potere, dominio, disciplina evidenziava nella sociologia weberiana. Si deve inoltre aggiungere che l’interdipendenza, e con essa la sovranità della civilizzazione societaria, è legittimata sì storicamente, ma non perché dipenda da specifiche azioni 32 Ibid., pp. 217-218. Breuer, Die Entwicklungskurve der Zivilisation. Eine Auseinanderersetzung mit Norbert Elias, in Id., Die Gesellschaft des Verschwindens: Von der Selbstzerstörung der technischen Zivilisation, Hamburg, Rotbuch-Verlag, 1995, pp. 15-46. 34 Si vedano a questo proposito di saggi raccolti in H. Kuzmics, I. Mörth (Hrsg.), Der unendliche Prozeß der Zivilisation. Zur Kultursoziologie der Moderne nach Norbert Elias, Frankfurt a.M-New York, Campus, 1991 e K.-S. Rehberg (Hrsg.), Norbert Elias und die Menschenwissenschaften. Studien zur Entstehung und Wirkungsgeschichte seines Werkes, Frankfurt a.M, Suhrkamp, 1996. 33 S. 9. Storia e sistema: lo stato 263 storiche, ma perché costituita dal tempo trascorso e dall’attesa di una continuità di quegli stessi processi nel tempo a venire. 3. Una società senza individui Con qualche ragione, e non senza una nota di sarcasmo, Niklas Luhmann scrive che: «Norbert Elias ha osservato questo ordine nella sua fase finale e ha ritenuto come carico di futuro ciò che è stato solo l’agonia e l’involuzione di un vecchio principio»35. L’ordine in questione è quello dell’antica società per ceti e, al di là del rilievo polemico, la questione sollevata da Luhmann è di importanza centrale per cogliere le trasformazioni storiche e sistematiche della costituzione dello Stato e della società. Se, infatti, si stabilisce una continuità ininterrotta all’interno della storia europea diviene difficile se non impossibile cogliere cosa cambi nella comprensione dell’individualità societaria. D’altra parte è anche evidente che proprio per la sua impostazione la sociologia storica di Elias è in qualche modo costretta a far ricorso a elementi di un immaginario filosofico-politico che devono legittimare la storia modello europea. L’antefatto della società della civilizzazione è perciò una società in cui la «vita dei guerrieri, ma anche quella di tutti gli altri che vivono in questa società di guerrieri trascorre incessantemente e direttamente sotto la minaccia di aggressioni violente». Questa società è dominata da una «libertà eccezionalmente ampia» che consente ogni forma di violenza e l’eventuale sconfitta porta con sé l’esposizione alla violenza e alle passioni altrui, a un asservimento così radicale, a forme talmente estreme di tortura fisica che successivamente, quando le torture fisiche, la cattura e la totale umiliazione del singolo saranno divenute monopolio del potere centrale, nella vita quotidiana di norma non esisteranno più36. Come si vede, non solo per i termini utilizzati, ma anche per la collocazione logica all’interno del discorso, la società dei 35 Luhmann, 36 Elias, Individuum, Individualität, Individualismus, cit., p. 158. Potere e civiltà, cit., p. 308. 264 la società come ordine guerrieri finisce per essere l’antefatto della società “civilizzata” in modo non molto differente dallo stato di natura nella filosofia politica di Hobbes. La differenza è che il racconto hobbesiano serve alla successiva fondazione della società politica, mentre in Elias il momento della fondazione scompare all’interno della logica evolutiva del processo. Anche per Luhmann la questione dell’evoluzione è centrale, perché anche una teoria dell’evoluzione politica «come ogni teoria evolutiva deve supporre che ciò che si evolve ci sia già»37. Non c’è di conseguenza un atto o un momento di fondazione destinato a stabilire la logica dello sviluppo successivo. L’approccio evolutivo è propriamente sociologico, perché consente di universalizzare a livello di sistema gli esiti del processo storico38. L’evoluzione è la grammatica di una sociologica implicitamente storica che, non necessariamente in forza di una teleologia, stabilisce quali elementi di continuità e di differenza caratterizzano i sistemi sociali all’interno della società. Eleggendo la società a sistema sociale complessivo, o come avrebbe detto Talcott Parsons a sistema sociale totale, essa individua anche un ambito nel quale, per essere passibili di evoluzione, gli elementi del sistema devono essere sempre già presenti. Essa rifiuta perciò «una spiegazione attraverso il ricorso all’“inizio” dell’evoluzione. Essa non spiega perciò gli esiti evolutivi (come per esempio il dominio politico) attraverso un inizio scatenante, attraverso un initial kick, bensì in maniera circolare»39. D’altra parte se la caratteristica del sistema sociale è la sua complessità, sarebbe assolutamente fuori luogo enfatizzare il momento dell’origine. Essa svolge normalmente la funzione dell’evento semplice, ma decisivo per l’insieme delle azioni successive. Tuttavia, sottolinea Luhmann: «Persino se si guarda il mondo solo da un punto di vista col tempo sorge la complessità. 37 N. Luhmann, Die Politik der Gesellschaft, Frankfurt a.M, Suhrkamp, 2002, p. 412. 38 Si vedano i due interventi di N. Luhmann, Evolution und Geschichte, e di J. Habermas, Zum Thema: Geschichte und Evolution, in «Geschichte und Gesellschaft», 2, 1976, rispettivamente pp. 284-309 e pp. 310-357. 39 Luhmann, Die Politik der Gesellschaft, cit. p. 412. 9. Storia e sistema: lo stato 265 Allora è consigliabile staccarsi dal tema d’origine»40. Ciò vale in maniera ancor più evidente per la società in quanto sistema in cui hanno luogo tutte le comunicazioni dotate di senso. Qualche problema in più c’è, come vedremo, a proposito dello Stato e in particolare proprio per quel dominio politico che Luhmann indica qui come esempio. Ricostruire l’evoluzione di una società che consiste delle comunicazioni che avvengono al suo interno significa per Luhmann, come abbiamo visto, ripercorrerne la semantica. Diversamente da quanto propone Elias, Luhmann ricostruisce una semantica che si evolve da una società stratificata per ceti a una differenziata funzionalmente, con l’esito solo apparentemente paradossale di mostrare come una semantica approntata pensata e articolata per legittimare la separazione di alcuni individui all’interno dell’antica società per ceti finisce per fornire, come abbiamo già visto, il prerequisito per la specifica semantica dell’individuo universale contemporaneo. Noi poniamo dunque la domanda sul contesto della ristrutturazione da una differenziazione fondata sulla stratificazione a una funzionale con aumento della complessità nei rapporti di inclusione e socializzazione; e l’ipotesi guida è che sono questi contesti che hanno attivato il tentativo di pensare, trattare, istituzionalizzare gli individui più individualmente, mentre nella realtà si trattava di spostare l’individualità dall’inclusione all’esclusione41. Come si è visto, se nella società per ceti, infatti, formare, ma anche esibire la propria individualità significa dimostrare di essere parte di un ordine, di aver acquisito la capacità di non discostarsi da esso, ma di aver acquisito la capacità di esservi completamente incluso, dall’epoca della Restaurazione l’individuo non è più pensabile come parte della società. Egli è qualcosa di autonomo e indipendente che è impossibile comprendere a partire dall’ordine sociale complessivo in cui pure si è inserito. Dal punto di vista storico si tratta della catastrofe non 40 Id., 41 Id., Die Gesellschaft der Gesellschaft, cit., vol. II, p. 861. Individuum, Individualität, Individualismus, cit., p. 165. 266 la società come ordine solo della società cetuale dei secoli precedenti, ma anche di una semantica politica e sociale basata sulla centralità e l’eminenza degli strati superiori. È dalla resistenza all’individualità in nome dell’ordine che emerge la moderna individualità degli individui. «Valersi dell’individualità significherebbe: venir fuori dall’ordine. Privatus sta per inordinatus»42. L’interazione degli strati elevati è governata dalla disciplina di sé e del mondo, una disciplina che non può essere semplicemente estesa a tutti gli individui perché fondata sulla separazione e sulla specificità di strati determinati. Il passaggio alla differenziazione funzionale non è dunque interpretabile semplicemente come un’estensione delle modalità di comportamento proprie degli strati superiori, registrate nella loro semantica colta e scritta ed escogitate per rispondere dal tardo medioevo alle trasformazioni strutturali. «Al posto della qualità subentra, nel XVII secolo, sempre più la prestazione, infine intorno al 1700 al posto della prestazione la reciprocità nel senso di una duplice contingenza riflessa, di un’aspettativa reciprocamente complementare di comportamento, di un autorelazionamento sociale»43. Il percorso che Luhmann ricostruisce a proposito dell’individualità non è caratterizzato dall’estensione progressiva dell’idea di individualità propria degli strati superiori a tutti gli individui “inventati” dall’universalismo del tardo settecento. L’idealismo tedesco, come abbiamo già visto, opera una sorta di cesura che cancella l’appartenenza al ceto in nome di un’individualità che dovrebbe essere «unica e singolare» e non la riproduzione quasi seriale di un’identità collettiva. Essere soggetto diviene perciò il risarcimento necessario per un individuo che non è più l’elemento costitutivo della società. L’individuo diviene anzi il “sistema” in cui si mostra al massimo grado il fatto che la società si costituisce riconoscendo le differenze che esclude necessariamente dalla propria costituzione. Questa estraneità dell’individuo nei 42 Cfr. Id., Interazione negli strati elevati: Trasformazione della loro semantica nel XVII e XVIII secolo, cit. 43 Ibid., p. 147. 9. Storia e sistema: lo stato 267 confronti della società non deve essere evidentemente scambiata per indipendenza o per autonomia individuale. Anzi: La semantica dell’individualità sembra addirittura assumere una funzione compensatoria per dipendenze più forti. L’individuo si salva nella soggettività e nella singolarità in quanto descrizioni che non possono essere messe in discussione da alcuna dipendenza empirico causale. Grazie a catene di dipendenza aumentate e più complesse egli è individuo in un senso più radicale44. Una volta sottratto l’individuo come fondamento della società, quest’ultima può consistere solamente di persone, cioè di ruoli che vengono funzionalmente ricoperti in vista di finalità specifiche; e sono queste persone che devono accettare i comportamenti amministrativi e le decisioni politiche. È a queste persone prive di individualità societaria che si rivolgono le procedure di legittimazione, perché nel passaggio evolutivo descritto cambia in maniera notevole anche il senso specifico della disciplina, che non può più essere un sapere di sé e del mondo, ma deve necessariamente diventare una pratica di legittimazione fondata non sull’adesione, ma sulla distanza tra la persona e il sistema burocratico. In Luhmann è assolutamente chiara la relazione tra la centralità sistemica dei procedimenti amministrativi e la costituzione del disciplinamento societario delle persone. L’amministrazione è da questo punto di vista ben più di un insieme di pratiche razionali che mirano alla risoluzione di problemi definiti. Essa è anche, e per certi aspetti soprattutto, una modalità esemplare di comportamento accessibile e riproducibile da tutte le persone. L’agire burocratico-amministrativo è quindi produttivo in un triplice senso: esso produce decisioni, produce forme di agire condiviso, produce persone. Proprio perché – ma anche solo se – giunge a soddisfare questi tre bisogni produttivi, quell’agire stabilisce anche la legittimità del suo apparato, del suo stesso agire, come pure delle forme di agire personale che a esso si riferiscono. La legittimità non poggia di conseguenza su un “libero” riconoscimento, sulla convinzione personale obbligante, bensì al contrario su un clima sociale 44 Ibid., p. 160. 268 la società come ordine che istituzionalizza il riconoscimento di decisioni vincolanti come un’ovvietà, e non le considera come conseguenza di una decisione personale, bensì come conseguenza della validità di una decisione d’ufficio45. È così evidente che la legittimità non è altro che l’attualità di una disciplina sociale presente, diffusa e condivisa. L’effetto di questa attualità è intanto quello di relativizzare il ruolo e il peso della decisione politico-ammnistrativa, che viene così sottratta alla dimensione fondamentale e metafisica in cui l’aveva inserita la dottrina giuridica, in particolare quella schimittiana. «La decisione deve essere trattata come qualcosa di già stabilito, ma non ancora conosciuto»46. Al centro del procedimento amministrativo non c’è l’individuo, perché egli non è una «fonte originaria di senso e di diritto». Ciò significa che in questione non ci sono effetti come il rispetto della dignità umana, ma piuttosto un processo di apprendimento che diviene immediatamente un criterio relazionale. La legittimità disciplinare ottenuta attraverso le procedure amministrative non produce il consenso come immedesimazione nell’ordine, ma grazie alle distanze che produce. Luhmann, non a caso, trova addirittura «enigmatico» il riferimento di Talcott Parsons alla «articulation of power with real commitments»47, perché gli pare che il riferimento agli impegni reali presupponga la necessità per il sistema sociale di un’insostenibile articolazione “identitaria” del giusto e dell’ingiusto. D’altra parte Luhmann è consapevole che «la legittimità in generale non può essere completamente concepita come “internalizzazione” di un’istituzione, come interiorizzazione [Einverseelung] personale di convinzioni formate socialmente», perché essa è appunto un processo di apprendimento costante che deve mantenere la differenza tra il sistema dell’individuo/persona 45 N. Luhmann, Legitimation durch Verfahren, Frankfurt a.M, Suhrkamp, 1983, p. 34. 46 Ibid., p. 109. Ma cfr. a questo riguardo C. Galli, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Bologna, il Mulino, 1996, pp. 331 sgg. 47 Luhmann, Legitimation durch Verfahren, cit., p. 119. Il riferimento è a T. Parsons, Some Reflections on the Place of Force in Social Process, in Id., Sociological Theory and Modern Society, New York, The Free Press, 1967, pp. 264-296. 9. Storia e sistema: lo stato 269 e il sistema sociale. Anzi è proprio la distanza che rimane aperta tra i due sistemi che permette il raggiungimento di una maggiore complessità per entrambi: «In questo modo l’ordine sociale può essere posto come ampiamente indipendente dalle personalità individuali in quanto sistemi di motivazione e proprio per questo permettere una marcata individualizzazione delle personalità»48. A sua volta questa esplicita tensione all’isolamento dei singoli è funzionale sia alla riuscita delle procedure amministrative sia alla risoluzione degli eventuali conflitti. Questa disciplina amministrativa non ha di conseguenza bisogno di un potere che si configuri anche come dominio, perché è completamene mutato il ruolo dell’individuo. Se Otto Brunner accusa Weber di essere in fondo fin troppo legato all’immagine ottocentesca della legittimità come legalità, ma gli riconosce il merito di aver certificato la persistenza di forme di dominio nel mondo razionalizzato contemporaneo49, Luhmann utilizza la ricerca storica di Brunner per relegare il dominio a un passato ormai tramontato. Il concetto di signore avrebbe quindi significato esclusivamente se accoppiato al suo opposto simmetrico “terra”, perché essi erano significativi proprio in quanto «assieme esprimevano la totalità di un ordine sociale». Quest’ultimo era tuttavia di una natura completamente diversa da quello che successivamente è stato chiamato Stato. Ciò è indiscutibile al punto che questa realtà dovrebbe essere onorata «evitando la continuazione del concetto di dominio ed evitando la retrodatazione del concetto di Stato»50. Si deve concludere che, come dicevamo, non tutto ciò che era presente nel passato dello Stato si è evoluto. Il dominio secondo Luhmann fa parte di ciò che è stato definitivamente 48 Luhmann, Legitimation durch Verfahren, cit., p. 119. Brunner, Bemerkungen zu den Begriffen „Herrschaft“ und „Legitimität“, in Neue Wege der Verfassungs- und Sozialgeschichte, Göttingen, Vanderhöck & Ruprecht, 1968, pp. 64-79; trad. it. Osservazioni sul concetto di «dominio» e di «legittimità», in «Filosofia politica», 1, 1987, pp. 100-120. 50 Luhmann, Die Politik der Gesellschaft, cit., p. 417. Cfr. anche le osservazioni di G. Nobili Schiera, A proposito della traduzione recente di un’opera di Otto Brunner, in «Annali dell’Istituto Storico Italo-Germanico in Trento», IX, 1983, pp. 391-410. 49 O. 270 la società come ordine abbandonato nel corso dell’evoluzione politica come dimostra la semantica dello Stato51. La società senza individui conosce forme di potere che non sono solo oltre il dominio, ma per le quali la forza fisica rappresenta l’alternativa da evitare e non la minaccia costante che legittima l’esistenza stessa del potere. L’uso intenzionale della forza fisica nei confronti di persone si ricollega con un mezzo di comunicazione incentrato sulla azione, quale è il potere, per il fatto che questo tipo di forza elimina l’azione attraverso l’azione, ed esclude di conseguenza una trasmissione comunicativa di premesse decisionali ridotte. Caratterizzata com’è da questi fattori, la forza fisica non può certo essere potere, mentre rappresenta il caso limite non superabile di una alternativa da evitare che crea potere52. Il potere può essere così definito come effetto di sistema in quanto mezzo di comunicazione generalizzato simbolicamente che consente di accogliere i vincoli proposti ad altri come se fossero propri. Di conseguenza esso è associato prioritariamente alla libertà piuttosto che alla costrizione, perché, similmente a quanto avviene per la forza fisica, l’attuazione della sanzione negativa connessa al potere pone fine alla specifica comunicazione basata sul potere. Esso non ha bisogno di essere legittimato come potere, ma al massimo di legittimare le decisioni che il rapporto di potere produce. Manca perciò significativamente un riferimento esplicito al nome disciplina, non perché non siano all’opera pratiche che costantemente disciplinano le forme dell’agire, ma perché il sistema sociale ha rinunciato per la propria evoluzione a disciplinare gli individui per regolare le persone. 51 Sulla ricostruzione luhmanniana della semantica dello Stato cfr. N. Luhmann, Metamorphosen des Staates, in Id., Gesellschaftsstruktur und Semantik, cit., vol. IV, pp. 101-137. Molto critico sugli usi luhmanniani dei riferimenti allo Stato è K. von Beyme, Der Staat der politischen System im Werk Niklas Luhmanns, in K.-U. Hellmann, R. Schmalz-Bruns (Hrsg.), Theorie der Politik. Niklas Luhmanns politische Soziologie, Frankfurt a.M, Suhrkamp, 2002, pp. 131-148. 52 N. Luhmann, Macht, Stuttgart, Ferdinand Enke Verlag, 1975; trad. it. Potere e complessità sociale, Milano, Il Saggiatore, 1979, p. 75. Ma cfr. anche N. Luhmann, Klassische Theorien der Macht: Kritik ihrer Prämissen, in «Zeitschrift für Politik», 1969, pp. 149-170; trad. it. La teoria classica del potere. Critica dei suoi presupposti, in Id., Potere e codice politico, Milano, Feltrinelli, 1982, pp. 21-61. 9. Storia e sistema: lo stato 271 4. Modi di dominazione Habitus è invece il nome che Pierre Bourdieu dà alla disciplina. Riprendendo Elias, si potrebbe dire che anche per Bourdieu «non è possibile comprendere la psicogenesi dell’habitus dell’adulto nella società civile se la si considera indipendente dalla sociogenesi della nostra “civilizzazione”»53. Allo stesso tempo Bourdieu ripropone il campo di tensione weberiano tra il dominio e il potere. Il primo è la verità evidente ma occultata di ogni forma di potere. «Non c’è dominio che possa mantenersi senza far disconoscere l’arbitrario su cui esso si fonda»54. Questo costante lavoro del dominio per essere presente, ma contemporaneamente misconosciuto, struttura i differenti campi dove si manifesta il concreto potere dei dominanti: l’economia, la cultura, lo Stato. Se rivelare la tensione nascosta e irresolubile tra dominio e potere impedisce di pensare quest’ultimo come qualcosa di riconoscibile attraverso la sua microfisica, è altrettanto vero che i differenti campi di potere non sono strutturati in via definitiva e con ruoli stabiliti. Il potere è la struttura della società. Come tale esso determina le possibilità d’azione degli individui che si contrappongono nella lotta costante che si svolge all’interno dei diversi campi sociali. Questi individui non si presentano però come liberi agenti in grado di disporsi con la fredda razionalità del calcolo all’interno delle situazioni: non possono farlo perché i loro differenti habitus stabiliscono già in partenza differenti chances materiali e simboliche. 53 Elias, La civiltà delle buone maniere, cit., p. 72. La lezione di Elias torna a più riprese nell’opera di Bourdieu sia con grande consenso sia accompagnata da rilievi critici e prese di distanza. Certamente per Bourdieu lo Stato non è l’apogeo del processo di civilizzazione e il processo di disciplinamento non è il processo di un’indefinita apertura dell’individuo agli altri. Bourdieu, Dalla casa del re alla ragion di Stato, cit., p. 55, scrive: «A differenza di Elias, che fa dello Stato il principio di “civilizzazione”, Duby suggerisce che l’invenzione clericale della cortesia contribuì all’invenzione dello Stato, che a sua volta contribuirà allo sviluppo della cortesia; lo stesso vale per la sapienza, disposizione generale che riguarda tutti gli aspetti della vita». 54 P. Bourdieu, M. De Saint Martin, Le patronat, in «Actes de la Recherche en Sciences Sociales», 1, 1978, pp. 3-82, p. 76. 272 la società come ordine L’habitus investe l’agire sociale degli individui, ma diversamente da quanto avviene nel concetto weberiano di disciplina, esso non ha una dimensione indifferenziata e di massa. Esso è attivato e caratterizzato dall’adeguamento del comportamento individuale a un canone valido in uno specifico campo, uno spazio sociale limitato e circoscritto. Esso non è solamente una funzione universale della massificazione dei comportamenti, ma anche di quella loro segmentazione che differenzia i differenti campi tra di loro, così come i diversi individui all’interno dello stesso campo. In questo modo l’habitus designa sì un agire non compiutamente intenzionale, ma produce anche un effetto di classificazione che è una gerarchizzazione dello spazio sociale complessivo. Bourdieu sottrae il concetto di classe a ogni genealogia naturalisticamente sociologica, e, proprio per questo, riconosce la classificazione materiale degli individui che si manifesta nell’habitus, il quale pur essendo una struttura eminentemente storica, permette, se non obbliga gli esiti sistematici dell’agire individuale. Nell’habitus dunque interagiscono storia e sistema, perché esso è «il prodotto del lavoro di inculcazione e di appropriazione necessaria affinché quei prodotti della storia collettiva che sono le strutture oggettive (per es. della lingua, dell’economia ecc.) giungano a riprodursi, sotto la forma di disposizioni durevoli, in tutti gli organismi (che, volendo, si possono chiamare individui) durevolmente sottomessi agli stessi condizionamenti, dunque messi nelle stesse condizioni materiali di esistenza»55. Non tutti gli individui ricevono gli stessi condizionamenti materiali e culturali; di conseguenza non tutti gli individui esibiscono lo stesso habitus. In altri termini non esiste un habitus che unifichi un gruppo in maniera totalmente identitaria, ma all’interno dello stesso gruppo si incontrano habitus diversi che posizionano gli individui sia verso l’esterno sia all’interno del gruppo stesso. La concettualizzazione dell’habitus ridefinisce per Bourdieu quella che Luhmann chiama l’individualità dell’indivi55 P. Bourdieu, Esquisse d’une théorie de la pratique précédé de trois études d’ethnologie kabyle, Genève-Paris, Droz, 1972, p. 187. 9. Storia e sistema: lo stato 273 duale56, sia dal punto di vista delle singolarità agenti sia da quello della loro eventuale azione collettiva. Se non esiste una massa di individui disciplinati, che si presenta weberianamente come insieme di individui manchevoli, esistono tuttavia gli effetti sistemici che la disciplina dell’habitus produce creando stili di vita. Una delle funzioni della nozione di habitus è di rendere conto dell’unità di stile che unisce le pratiche e i beni d’una gente singolare o di una classe di agenti […]. L’habitus è questo principio generatore e unificatore che ritraduce le caratteristiche intrinseche e relazionali d’una posizione in uno stile di vita unitario, vale a dire in un insieme unitario di scelta di persone, di beni, di pratiche57. Con Bourdieu la disciplina diventa plurale, sebbene nella molteplicità degli habitus – «principi generatori di pratiche distinte e distintive» – non scompaia il dissidio degli individui di fronte alla loro determinazione collettiva, ovvero di fronte alla loro tipizzazione. I comportamenti sussumibili sotto la categoria dell’habitus non rappresentano un orizzonte astratto riconducibile al carattere universale dei rapporti moderni. Essi devono essere letteralmente incorporati nell’individuo, inscritti nei corpi degli uomini e delle donne, perché sono inevitabilmente questi ultimi che agiscono. L’habitus non può dunque essere considerato un «sistema soggettivo ma non individuale di strutture interiorizzate, schemi di percezione, di concezione e di azione che sono comuni a tutti i membri dello stesso gruppo o della stessa classe e costituiscono la condizione di ogni oggettivazione e di ogni appercezione», perché in questo modo «si fonda la concertazione oggettiva delle pratiche e l’unicità della visione del mondo sull’impersonalità e la sostituibilità perfette delle pratiche e delle visioni singolari»58. L’unica possibilità di non fare scomparire l’individuo di fronte alla 56 Per un primo confronto cfr. ora A. Nassehi, G. Nollmann (Hrsg.), Bourdieu e Luhmann. Ein Theorievergleich, Frankfurt a.M, Suhrkamp, 2004. 57 P. Bourdieu, Espace social et espace symbolique, in Id., Raisons pratiques. Sur la théorie de l’action, Paris, Seuil, 1994, pp.15-35, p. 23. 58 Bourdieu, Esquisse d’une théorie de la pratique, cit., p. 188. 274 la società come ordine cogenza quasi ineluttabile dell’habitus è riconoscere la sua costituzione moderna non al di fuori e oltre l’agire disciplinato, ma al suo interno e proprio in forza della coazione di quest’ultimo. Ciò significa non poter immaginare un individuo universale riconoscendo di conseguenza che l’individuo si presenta sistematicamente classificato e differenziato all’interno della storia moderna. Stante l’omologia strutturale che Bourdieu riscontra tra i differenti campi, e tra di essi e l’ordine sociale complessivo, le gerarchie che si manifestano nei primi sono a loro volta presenti e legittimate da ciò che avviene nel secondo. In ognuno di questi campi ha quindi luogo una lotta per la riproduzione delle condizioni strutturali del potere in vista della conservazione del dominio. E quando la «macchina sociale [è] ancora incapace di trovare in se stessa il potere di perpetuarsi, essi sono condannati alla forma elementare della dominazione, cioè al dominio diretto di una persona su una persona»59. Non siamo tuttavia di fronte a un grado zero del dominio, destinato a rimanere tale perché incapace di evolversi. Questa forma elementare di dominazione convive costantemente con quella che potremmo definire la sua espressione complessa, ovvero il dominio fondato sul possesso del capitale simbolico ed esercitato in forza della violenza simbolica. Il capitale simbolico non sarebbe che un altro modo di designare ciò che Max Weber ha chiamato carisma, se, prigioniero della logica delle tipologie realiste, colui che ha capito meglio di ogni altro che la sociologia della religione era un capitolo, e non il minore, della sociologia del potere, non avesse fatto del carisma una forma particolare del potere invece di vedervi una dimensione di ogni potere, cioè un altro nome della legittimità, prodotto del riconoscimento, del disconoscimento, della credenza “in virtù della quale le persone che esercitano dell’autorità sono dotate di prestigio”60. Non importa qui la correttezza di questa interpretazione weberiana, va invece notato che siamo di fronte a un passaggio non inusuale nella sociologia postweberiana, ovvero a una frantumazione del carisma, che non corrisponde alla sua dispersione 59 Id., Le sens pratique, Paris, Les Éditions de Minuit, 1980, p. 223. pp. 243-244. 60 Ibid., 9. Storia e sistema: lo stato 275 individuale che si manifesta nell’accettazione del proprio ruolo sociale come in Talcott Parsons, ma nella sua identificazione come attributo possibile di ogni potere. In questo modo va certamente perduta la specifica capacità di introdurre l’innovazione, il suo essere una potenza innovatrice, creatrice della storia, che per Weber attiene al dominio carismatico. Esso diviene invece la capacità di ottenere l’ubbidienza che non si esercita «nella logica pura delle coscienze conoscenti ma nell’oscurità delle disposizioni dell’habitus». Il potere simbolico è già un potere disciplinato, e quindi sempre legittimo, perché «si esercita solo con la collaborazione di coloro che lo subiscono, in quanto questi ultimi contribuiscono a costruirlo come tale»61. A sua volta la violenza simbolica è tale perché è definita dall’impossibilità per il dominato di pensare il rapporto di dominio con categorie diverse da quelle che già condivide con il dominante e che lo collocano nella sua posizione di subordinazione. Queste categorie gli appaiono naturali e indiscutibili e l’adesione al mondo dei dominanti è perciò allo stesso tempo «spontanea ed estorta» e impone il «potere simbolico come potere di far riconoscere il potere»62. Di qui la critica nei confronti di Weber per aver pensato la legittimazione come attività esclusivamente razionale da parte di individui sottomessi, ovvero per aver indicato la relazione tra dominanti e dominati come gioco aperto e reciproco. Il riconoscimento della legittimità non è, come crede Max Weber, un atto libero della coscienza chiara; esso si radica piuttosto nell’accordo immediato tra le strutture incorporate, divenute schemi pratici, come quelli che organizzano i ritmi temporali […] e le strutture oggettive63. Questa critica non coglie probabilmente pienamente nel segno, ma è significativo che essa venga formulata anche da Luhmann e da Elias, quasi che la relazione tra la posizione dell’individuo e la sua legittimazione del potere politico, ma anche dei poteri sociali, 61 P. Bourdieu, Méditations pascaliennes, Paris, Seuil, 1997; trad. it. Meditazioni pascaliane, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 179. 62 Id., Le sens pratique, cit., p. 226. 63 Id., Meditazioni pascaliane, cit., p. 185. 276 la società come ordine venga individuata come il punto critico della costruzione weberiana nel suo complesso. In maniera in qualche modo rovesciata rispetto all’analisi weberiana, lo stesso campo burocratico non è costitutivamente dominato per Bourdieu da un razionale agire impersonale e universale. I concreti dominanti di quel campo, prima quello dei giuristi poi quello dei funzionari, a presentarsi come rappresentanti dell’universale, assumono invece come proprio quell’agire per appropriarsi dei profitti derivanti dal monopolio che così istituiscono su una quota del capitale simbolico statale. Essi diventano così i gestori e i primi beneficiari di quell’«effetto di Stato», che consiste nella capacità superiore a quello di ogni modo di dominio di far apparire come universali e necessarie le proprie determinazioni. Proprio per questo lo Stato è esso stesso un campo del potere all’interno del quale i possessori dei diversi capitali lottano per potere riprodurre il proprio specifico capitale a scapito degli altri. Dal punto di vista storico più che alla fondazione dello Stato siamo di fronte a processi di «emergenza dello Stato», nei quali «l’istituzione istituita fa dimenticare che essa è l’esito di una lunga serie di atti di istituzione e si presenta con tutte le apparenze del naturale»64. L’istituzionalizzazione in definitiva non è solamente la costruzione della fede negli ordinamenti, ma ben più in profondità l’affermazione della loro naturalità e indiscutibilità. Allo stesso modo la monopolizzazione non è un atto unico e soprattutto esso non avviene solo in vista dell’efficacia degli ordinamenti, quindi «la costruzione del monopolio statale della violenza fisica e simbolica è inseparabilmente costruzione del campo di lotte per il monopolio dei vantaggi annessi a questo monopolio»65. La lotta per la monopolizzazione del monopolio è tuttavia solo una conseguenza dello specifico potere che lo Stato permette, così come la violenza fisica non è sempre la parte più rilevante 64 P. Bourdieu, Esprits d’État. Genèse et structure du camp bureaucratique, in Id., Raisons pratiques, cit., pp.101-133, p. 107. 65 Ibid., p. 131. 9. Storia e sistema: lo stato 277 della violenza che esso può esercitare66. Lo Stato offre, infatti, in primo luogo la possibilità di monopolizzare l’universale, cioè di determinare in continuazione le opinioni legittime affinché non venga messo in discussione l’ordine della società. Esso è la prima affermazione di una logica dell’universale che si presenta fin dalle sue origini come scienza della Stato, ovvero come scienza del controllo e dell’autocontrollo tanto dei sudditi quanto dei funzionari burocratici67. La stessa definizione dello Stato formulata da Bourdieu, riformulando quella weberiana, mostra quanto esso sia implicato nel sistema di più ampi sistemi di potere che lo sorreggono ma che allo stesso tempo esso contribuisce in maniera determinante a riprodurre. «Lo Stato è una X (da determinare) che rivendica con successo il monopolio dell’uso legittimo della violenza fisica e simbolica su un territorio determinato e sulla popolazione corrispondente»68. L’incognita rappresenta la possibile forma che lo Stato può assumere all’interno del campo del potere, ovvero all’interno dei differenti modi di dominazione. In questo modo il potere è sottratto al gioco a somma zero che lo caratterizza nelle trattazioni sociologiche classiche almeno fino a Talcott Parsons, ma ciò non avviene cancellando il carattere di concreto dominio che esso comunque pretende. Il potere sociale comprende al suo interno il potere statale, impedendo che la formalizzazione dell’universale giunga a neutralizzare politicamente la produzione di una costante e strutturale subordinazione sociale. Come già avviene nel concetto weberiano di capitalismo: Il dominio non è l’effetto semplice e diretto esercitato da un insieme di agenti (la “classe dominante”) investiti di potere di coercizione, bensì il risultato indiretto di un insieme complesso di azioni originatesi nella rete di coer- 66 Scrive Bourdieu, ibid., p. 109: «Nella maggior parte dei modelli della genesi dello Stato è stata privilegiata la concentrazione di forza fisica, dai marxisti, inclini a considerare lo Stato come un semplice organo di coercizione, a Max Weber e alla sua definizione classica, o da Norbert Elias a Charles Tilly». 67 O. Christin, P.-E. Will, P. Bourdieu, Sur la science de l’État, in «Actes de la recherche en sciences sociales», 133, 2000, pp. 3-11. 68 Bourdieu, Esprits d’État, cit., p. 107. 278 la società come ordine cizioni incrociate che ognuno dei dominanti, così dominato dalla struttura del campo attraverso il quale si esercita il dominio, subisce da parte di tutti gli altri69. Una cogente presenza unita a una tendenziale indisponibilità alla discrezionalità individuale sembra essere in definitiva la grande innovazione prodotta nel sistema del dominio dalla storia della società. A differenza da quanto accade per esempio in Foucault, per Bourdieu il dominio non si frammenta e non si disperde capillarmente nella microfisica delle relazioni individuali. Esso si presenta come accumulazione di potere in campi determinati e strategici, come sono il campo economico, quello culturale e quello burocratico. Se non esiste una classe dominante costituita come tale dalla posizione occupata in uno solo di quei campi, esiste tuttavia un meccanismo istituzionalizzato di esercizio del dominio, attraverso il quale, grazie alla classificazione degli individui che storicamente caratterizza la società moderna, alcune classi di individui possono far valere la forza della loro posizione. 5. Storia e sistema «Come conclusione Placido disse: - Gallesio s’è tirato addosso lo Stato. Oggi possiamo dire di aver visto lo Stato. Madonna, cos’è lo Stato! Noi abituati a veder sempre e solo il nostro parroco e il Podestà di Niella». Con queste parole, in Un giorno di fuoco, Beppe Fenoglio descrive la reazione dei contadini piemontesi di fronte all’improvvisa irruzione della forza organizzata dello Stato. Quei contadini vedono chiaramente lo Stato come qualcosa di estraneo rispetto alla loro socialità. I poteri sociali con i quali sono abituati a confrontarsi rappresentano delle autorità prossime e conosciute, e in fondo anche prevedibilmente impotenti di fronte a episodi che esulano in maniera significativa dalla 69 P. p. 57. Bourdieu, Espace social et champ du pouvoir, in Id., Raison pratiques, cit., 9. Storia e sistema: lo stato 279 quotidianità. Lo Stato è invece il monopolio di una forza estranea alla quale non ci si può opporre, perché la sua legittimità totalmente razionale risulta così difficilmente decifrabile da consegnare all’evidenza solo una superiorità debordante e irresistibile. L’epifania dello Stato è incarnata dai carabinieri meridionali che dirimono con la forza una questione di famiglia, di proprietà e di sangue che, nelle Langhe di Fenoglio come in mille altri posti, avrebbe trovato una sua composizione in base alla tradizione, oppure non si sarebbe mai chiusa. I contadini di Fenoglio sono gli stupiti testimoni dell’irruzione di uno Stato che si presenta come sproporzione manifesta. Esso tuttavia non è solamente il monopolio della forza, ma anche l’imposizione di un mutamento radicale della normatività collettiva, poiché stabilisce una cesura nella temporalità delle azioni individuali. Esso impone loro una conclusione che non è determinata dagli individui stessi o dalla loro socialità, ma dal quadro complessivo nel quale esse risultano inserite. Questa esternità degli individui alla logica della società e del suo Stato può essere vista come un ritardo che verrà colmato nel corso dell’evoluzione sociale, oppure può essere considerata come il carattere costitutivo di una società all’interno della quale la collocazione degli individui è quanto mai problematica. È su questo terreno che intervengono le scienze sociali, e in particolare la sociologia, rideterminando il rapporto tra lo Stato e gli individui, grazie alla formalizzazione di quella categoria onnivora e tendenzialmente onnicomprensiva che è società. D’altra parte anche per quel che riguarda lo Stato, un oggetto storico a prima vista specificamente e unicamente politico, si deve ricordare quanto scrive Pierre Bourdieu: «La stessa scienza sociale è dalla sua origine parte integrante di questo sforzo di rappresentazione dello Stato che fa parte della realtà dello Stato stesso»70. Le storie sociologiche dello Stato e della società non sono principalmente interessate al carattere passato degli eventi che narrano e mirano a spiegare. Esse muovono piuttosto dalla convinzione che «il vero problema non sia l’età dei dati o degli eventi, ma la 70 Bourdieu, Esprits d’État, cit., p. 105. 280 la società come ordine natura dei dati – la rappresentazione degli eventi – e cosa viene fatto realmente con quei dati». L’uso sociologico alla storia si concretizza nell’«uso del modo narrativo per esaminare e sfruttare la temporalità dell’azione sociale e degli eventi storici»71. Lo Stato in quanto istituzione è storicamente parte dell’ordine della società; come categoria è parte del discorso sociologico. Progressiva istituzionalizzazione della sociologia come disciplina scientifica e analisi del reciproco processo di disciplinamento di Stato e società fanno dunque parte di un unico dispositivo teorico, che non s’incarica solo di descrivere ciò che è avvenuto, ma soprattutto di individuare la tendenza insita nei processi storici. Contrariamente a quanto talvolta più o meno ingenuamente si pensa, il concetto di tendenza non esprime necessariamente un’inclinazione teleologicamente orientata verso il mutamento, ma può anche rappresentare la tensione verso la riconfigurazione dei rapporti sistemici in vista della conservazione della struttura stessa del sistema. Se dello Stato le scienze sociali non raccontano l’origine, ma gli eventi che ne determinano la genesi storica complessa e stratificata, dell’individuo esse raccontano l’agire sociale con i suoi orientamenti e soprattutto con i suoi vincoli, più che l’azione politica che impone autonomamente una forma alla realtà. Ciò che appare come un’obliterazione non solo dell’individuo, ma anche la negazione scientificamente formulata delle possibilità di azione di ogni individualità, è in realtà la modalità specifica di affrontare sociologicamente il problema dell’«individualità dell’individuale», cioè il problema di un’azione ormai interpretabile solamente come agire sociale. Lo nota, con acume e distanza, Carl Schmitt, scrivendo: «Il nostro tempo non è individualistico, ma non per questo deve essere un tempo minore». E, tra i sintomi di questa nuova e per lui fortemente problematica valutazione dell’indivi71 L.J. Griffin, Temporality, Events, and Explanations in Historical Sociology. An Introduction, in «Sociological Methods and Research», 20, 1992, pp. 403-427, p. 405; nello stesso numero della rivista cfr. anche R. Amizade, Historical Sociology and Time, pp. 456-480 e A. Abbott, From Causes to Events. Notes on Narrative Positivism, pp. 428-455. 9. Storia e sistema: lo stato 281 dualità, egli già indica «la sociologia quale nuova scienza delle connessioni fattuali, senza le quali l’uomo singolo non può essere pensato e nelle quali egli scompare completamente»72. Senza soffermarsi sulla scomparsa completa o forse definitiva dell’uomo, vale invece la pena sottolineare come, intrecciando il piano storico con quello sistematico, la sociologia riesca a dare un’indicazione precisa sulla posizione degli individui e sulle loro concrete possibilità di azione. Le storie sociologiche dello Stato, cioè le storie della monopolizzazione o concentrazione del potere, mettono costantemente in evidenza la contemporanea presenza di processi politici, amministrativi e sociologici all’interno della genesi della società e dello Stato. In altri termini, per esse ogni rapporto politico è geneticamente anche amministrativo e sociologico. Con l’avvento delle scienze sociali un rapporto politico è inconsistente se viene raffigurato come sociologicamente vuoto, così come una storia dello Stato che non evidenzi i meccanismi amministrativi operanti nei suoi percorsi costitutivi appare ineffettuale. Da questo punto di vista ricostruire la storia dell’agire sociale, del suo disciplinamento, della sua relazione necessaria con le forme di potere e di dominio, significa immediatamente riconfigurare anche le possibilità politiche dell’azione. L’esito sistematico della teoria non implica necessariamente la costruzione di uno schema di depotenziamento o di neutralizzazione politica, ma per molti versi esso è la descrizione più coerente e appropriata della società come luogo di ogni azione. Nel momento in cui si verifica un «eccesso di richiesta [Überforderung] della società allo Stato», per dirla con Luhmann, o forse piuttosto, come aveva già indicato Marx, una «sovrapposizione [Übergreifung] della società civile sullo Stato» sarebbe probabilmente assai discutibile distinguere a priori agire sociale e azione politica. Proprio perché mostrano il carattere intrinsecamente politico di modalità d’azione finora confinate in ambiti differenti e separati, le scienze sociali possono essere indicate come la forma contemporanea della teoria politica. 72 C. Schmitt, Der Wert des Staates und die Bedeutung des Einzelnen, Tübingen, Mohr, 1914, p. 6.