Un quadro di riferimento per la cittadinanza A cura di Milena Santerini 1. La cittadinanza tra “educazione” e “istruzione” ..................................................2 2. I confini della cittadinanza..............................................................................3 3. Identità e appartenenze.................................................................................4 4. Alterità/relazioni ..........................................................................................6 5. Diritti e dignità della persona..........................................................................9 6. Partecipazione e cittadinanza attiva ............................................................... 11 7. Bibliografia ................................................................................................ 12 1. La cittadinanza tra “educazione” e “istruzione” La cittadinanza non è soltanto uno status giuridico o politico, ma soprattutto un ruolo e un ideale. Si può possedere il documento di identità rilasciato da un determinato stato, ma essere cittadini significa molto di più: vivere un senso di appartenenza, esercitare diritti e doveri, partecipare alla res publica. Per questo, l’educazione alla cittadinanza nella scuola è sempre stato un oggetto discusso e controverso, sospeso tra “educazione” e “istruzione” 1. Da un lato, nella storia italiana, l’educazione civica ha rappresentato, in taluni casi e in alcuni periodi, un indottrinamento e inculca mento di norme e disciplina. D’altro canto, c’è chi accusa l’educazione alla cittadinanza di essere una sorta di catechismo che vorrebbe imporre valori morali, attribuendo la crisi della scuola all’”Educazione” ed esaltando, al contrario, il ruolo della “Cultura”. Se educazione è attribuire senso al mondo, essa non può essere disgiunta dalla cultura da cui è prodotta e che contribuisce a modificare e trasformare. In questo campo, una visione di tipo illuministico potrebbe affermare che il sapere libera e ogni istruzione è anche educazione; è però altrettanto chiaro che la cittadinanza in quanto paradigma si “insegna” solo attraverso la relazione stessa: tra insegnante e studente, tra gli studenti e nel rapporto con gli altri nel mondo circostante (Galichet 2005). Il campo del civismo non è solo sapere, obbedienza alle regole, informazioni disciplinari, ma sensibilità, responsabilità, azione. Mentre si discute ancora intorno a problemi che hanno accompagnato l’educazione civica dalla sua nascita avvenuta con lo Stato-nazione, nel frattempo il tema della cittadinanza nel mondo attuale si presenta in modo nuovo ed interroga la scuola, chiedendo di superare contrapposizioni anguste. Globalizzazione, individualismo sociale, reti di reti, pluralismo etico ed etnico rendono difficile l’esercizio del “vivere insieme”, vera sfida per le nuove generazioni. Non a caso, di fronte a tale complessità, vari ricercatori scelgono un approccio olistico che richiede l’integrazione tra gli aspetti cognitivi e di comportamento, oltre che il riconoscimento delle varie dimensioni che la compongono, nello spazio – la cittadinanza a livello politico-globale - e nel tempo – come progetto per il futuro (Cogan e Derricott 1998). Se, quindi, la cittadinanza non può limitarsi alla conoscenza delle leggi dello Stato, né essere ristretta all’osservanza delle regole sociali e civili, tuttavia non può neanche essere dilatata all’infinito. Le dimensioni della cittadinanza, come si è detto, sono molteplici e coprono tutto il campo della vita sociale, civile, politica.. come insegnarla? A livello internazionale, le opzioni sono almeno tre: materia separata, con uno statuto specifico e un numero variabile di ore. Nel caso della materia integrata, invece, la cittadinanza si presenta come una dimensione associata ad una o più discipline, come la storia, le scienze sociali o il diritto. Infine, l’approccio trasversale la propone come tematica riguardante la progettualità della classe e della scuola. L’inclusione della cittadinanza nella scuola dai tre punti vista esaminati (materia separata, interdisciplinarità, trasversalità) richiede che tali scelte non siano messe in alternativa. Dato che non esistono soluzioni-miracolo, i tre approcci possono e devono coesistere, non solo in via di principio, scegliendo l’et-et e non l’aut-aut. E’ fondamentale prevedere lo spazio orario in cui trasmettere abilità e conoscenze intorno alla cittadinanza dal punto di vista sociale, civico e politico; la realizzazione degli obiettivi civici è, però, compito dell'intera comunità scolastica, attraverso gli opportuni raccordi interdisciplinari; allo stesso tempo, l’esigenza di pensare in modo 1 Sull’argomento di questo testo cfr. Santerini M., La scuola della cittadinanza, Laterza, Roma‐Bari 2010. 2 critico, autonomo e consapevole riguarda tutti gli insegnamenti e tutti gli insegnanti. In mancanza di una riorganizzazione di tutto il contesto scolastico nella direzione della partecipazione, della responsabilità e della cooperazione, parlare di cittadinanza diverrebbe contraddittorio. Per pretendere uno spazio nella scuola e rivendicare una presenza specifica, la “nuova” educazione alla cittadinanza deve costruire un impianto coerente, che può essere molto diverso a seconda dell’orientamento non solo delle politiche e dei programmi nazionali, ma anche della scuola o dell’insegnante. La cittadinanza a scuola può essere così costruita o sul modello della progressione morale (dal “convenzionale” all’autonomia di giudizio”) o sul modello dei cerchi concentrici (“dal piccolo al grande”) o nello schema applicativo (dal conoscere la legge ad applicarla) o in altri modi ancora. Dare una struttura organica alla dimensione civica è un compito reso particolarmente difficile dal fatto che questo campo risponde difficilmente alle regole della formalità scolastica (saperi codificati, metodi ad essi collegati) e non può facilmente essere considerata una disciplina dotata di un proprio specifico codice concettuale, nel senso che Jerome Bruner attribuisce a questa idea, al pari di altre come la matematica o la letteratura. La cittadinanza è, in sintesi, un campo caratterizzato dall’eterogeneità, oggetto di diverse letture: giuridica, storica, valoriale, interculturale e così via. Nell’ambito dell'educazione che un tempo si chiamava “civica” si intrecciano vari nuclei tematici, nell’ottica dei diritti, della storia, della politica, raramente connessi in modo organico. Più spesso, come ha osservato Elio Damiano, prevale una visione cumulativa del curricolo, che dispone in un ordine a volte casuale, spesso organizzato dal filo conduttore dei manuali scolastici, i concetti o le nozioni da insegnare. Ricondurre ad unità le diverse anime dell’educazione alla cittadinanza può sembrare un compito impossibile o semplicemente inutile. Tuttavia, la sfida dell’integrazione, e cioè garantire coerenza a un campo oggettivamente multidimensionale, va raccolta. Si tratta di riconoscere la continuità e la consequenzialità tra il conoscere e il fare, tra il sapere e i comportamenti, i contenuti e gli atteggiamenti, per costruire l’insegnamento della cittadinanza intorno a questa complessità (Santerini 2001). Come si è già visto, non si può pensare l’educazione alla cittadinanza se non come un progetto che si sviluppa tra il “sapere”, l’essere” e il “fare”, considerando tali dimensioni come aspetti interconnessi e inseparabili. La pluralità dei riferimenti e delle dimensioni della cittadinanza, che costituiscono la sua eccezionalità nel panorama dell’educazione scolastica, la rendono un campo non meramente disciplinare, ma soprattutto un luogo di conoscenze, idee, pensiero, sentimenti, emozioni e decisioni che attraversano tutta la vita e coinvolgono mente, mani e cuore degli alunni/studenti. Un approccio di questo tipo si presenta sotto il segno dell’integrazione tra le dimensioni cognitive (conoscere, pensare criticamente, concettualizzare, giudicare), affettive (provare, fare esperienza, attribuire significato, valutare positivamente valori come la giustizia, l'equità, la libertà, la solidarietà, essere capaci di decentramento e di empatia) ed infine deliberative (compiere scelte ed azioni, mettere in atto comportamenti in tali direzioni). Pensiero, credenze e azioni convergono in una nuova visione della cittadinanza. 2. I confini della cittadinanza Dal punto di vista dei “confini” è possibile però individuare alcune dimensioni che possono concorrere a strutturare questo campo così vasto. Può essere utile, a questo scopo, il quadro elaborato da Pagé e Gagnon per analizzare e descrivere cosa ci sia 3 dentro la “scatola nera” della cittadinanza, e individuare i diversi modi con cui le società fanno fronte al pluralismo sociale. Nel quadro la cittadinanza si presenta su due assi: su quello verticale dell'IDENTITA' si trovano, ai due poli, i macro-concetti della identità nazionale e delle appartenenze sociali, culturali e sovranazionali; su quello orizzontale dell'UGUAGLIANZA si trovano invece i poli del regime effettivo dei diritti e della partecipazione politica e civile. I singoli elementi non possono essere considerati isolatamente, ma in stretto legame fra loro. Ogni paese sceglierà, cioè, come configurare l’identità, come gestire le appartenenze, quale regime di diritti affermare o quali regole della partecipazione stabilire. (Gagnon, Pagé, 1999). Attraverso tale immagine-quadro emerge che la città è fatta di cultura civica, così come espressa nella Costituzione, e di quel complesso equilibrio che regola l’integrazione delle differenze, il regime dei diritti effettivi, il grado di partecipazione e così via, e che tali processi sul piano sociale, civile, politico e storico-culturale vanno colti nel loro divenire: la cittadinanza è passato, norme, istituzioni ma anche progetto politico per il futuro di un paese. Questi concetti sono da considerare non solo come strumenti per analizzare il quadro civico, ma anche come linee guida per la formazione. Identità/ appartenenze, relazioni/alterità, dignità/diritti e partecipazione/ cittadinanza attiva sono peraltro proposti anche come obiettivi di apprendimento per la scuola (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Documento di indirizzo per la sperimentazione dell’insegnamento “Cittadinanza e Costituzione”, marzo 2009). Sul piano educativo, non possiamo vedere questi elementi in modo statico, bensì in tensione dinamica interna fra loro. Se consideriamo il rapporto che si costituisce tra i termini esaminati, potremmo così parlare di un percorso che va dal senso di identità alla relazione con gli altri, e anche di uno stretto legame tra il rispetto dei diritti e della dignità umana e la partecipazione sociale e politica. Un itinerario educativo potrà così lavorare su queste dimensioni fondamentali, aiutando alunni e studenti ad appartenere, aprirsi agli altri, scoprire la diversità e l’uguaglianza, rispettare i diritti, partecipare alla vita comune. 3. Identità e appartenenze Dal punto di vista psicosociale l’identità riguarda elementi come il senso della corporeità, il rapporto tra la percezione individuale e l'esplorazione dell'ambiente esterno, lo sviluppo temporale del sé; tuttavia, anche se appare paradossale, l’identità ha una valenza prevalentemente sociale, perché si forma in un contesto, nella comunità, attraverso il "gioco di specchi" con cui ognuno si confronta con il giudizio di sé e quello dato dagli altri. Si tratta dell’esigenza, secondo Giovanni Jervis, di “costruire e difendere un’immagine di sé dotata almeno di una solidità minimale, e cioè in pratica abbastanza solida da confermarci che esistiamo senza dissolverci” (Jervis, 1997, p.33) La questione dell’ identità è emersa in modo acuto, come ha osservato Jean-Claude Kaufmann, con l’enfasi sulla soggettività posta dagli sviluppi più recenti della modernità e cioè dalla cultura del disincanto, dello sradicamento, della molteplicità. Il processo di creazione identitaria si lega al fenomeno dell’individualismo, al potere del soggetto e al suo diritto/dovere di dare senso alla vita (Kaufmann, 2004). E’ presente, in ciascuno di noi, una domanda di identificazione ed un bisogno di differenziazione. La comunicazione avviene sotto il segno del bisogno di capire chi si è, che posto si occupa, quale ruolo si gioca, come definire le proprie relazioni. L’identità si configura 4 come una sintesi dinamica tra sé e l'esterno e come elaborazione del patrimonio di acquisizioni, anche inconsce, che si sviluppano nel corso della vita attraverso il confronto con l'ambiente e con gli altri. Come si vede, l’identità, pur essendo il risultato di un processo interiore, assume inevitabilmente anche un profilo storico-sociale, perché si connette al modo in cui le giovani generazioni recepiscono e rielaborano valori, ideali e tradizioni del gruppo sociale cui appartengono e che vengono loro proposti per introdurli in una collettività. Una visione di tipo esplicitamente storico è quella offerta dall’identità narrativa di Paul Ricoeur, incentrata sul racconto temporale della vicenda umana. Sottolineando “ciò che resta identico nella vita umana”, Ricoeur non propone qualcosa di immutabile, inalterabile o la fissa riproposizione di sé, bensì la rispondenza della vicenda umana nei suoi molteplici sviluppi ad una “promessa”, la possibilità di tenere/mantenere il proprio sé malgrado il mutare delle situazioni e dei contesti, la “permanenza del proprio sé nel tempo” nell’intreccio con altri (Ricoeur 1988, pp.375-376). La valenza socio-culturale dell’identità rimanda alla dimensione collettiva. Essa si costruisce, infatti, in base a norme di appartenenza, spesso per opposizione, magari di tipo simbolico (come nel caso degli immigrati che si confrontano con la diversità di una nuova situazione), all’interno degli scambi sociali. Senza arrivare a dissolverlo nella relazione, occorre ricordare che il senso di identità si sviluppa nella fiducia ed in una coscienza storica della propria appartenenza ad un gruppo da cui si eredita un patrimonio di tradizioni e di valori; allo stesso tempo, però, l’identità si sviluppa anche attraverso il rapporto con altri che non si collocano al’interno di tale appartenenza “primaria”, maturando, cioè, una serie molteplice di appartenenze. L’educazione contribuisce a far evolvere il senso di identità chiuso nei legami “di sangue” della “razza” e nei miti fondatori di una comunità etnico-culturale, verso un “territorio umano” più largo, che è quello della città in cui si vive, dello Stato nazionale e del mondo. Un’identità troppo sostanziale equivale ad un modello di appartenenza “biologico” che enfatizza il passato e le radici comuni; all’inverso, una cittadinanza disincarnata rischia di consistere solo nell’adesione a norme procedurali (Galichet, 2005, p.14). Nel linguaggio di Ricoeur, si potrebbe dire che il progetto educativo può fondare una “cittadinanza narrativa” basata cioè sulla coscienza riflessa di legami storici più che dal senso immediato di un medesimo sentire. In questo senso si può parlare di appartenenze al plurale e non esclusive. Ciascuno fa parte di gruppi sociali, culturali, religiosi, di culture in più paesi, in una cerchia che diviene via via sempre più ampia. La tematica dell’appartenenza tocca anche l’identità nazionale, intesa come uno degli obiettivi dell’educazione alla cittadinanza. Ciò significa trasmettere alcuni elementi "tradizionali" del vivere insieme: conoscenza della cultura civica, comunicazione della lingua materna, accettazione delle norme costituzionali ed istituzionali del paese, patrimonio culturale (storia, simboli, miti). Tuttavia, la realtà di pluralismo culturale in cui ormai tutti i paesi vivono impone di ripensare l’dea di identità nazionale. L’immigrazione costituisce davvero una minaccia all’identità italiana? L’affievolimento del senso di appartenenza può difficilmente essere imputato all’arrivo degli “altri”. Va ricordato, infatti, che la base dell’unità di un paese consiste piuttosto nella scelta quotidiana e nella volontaria adesione ai valori e alle scelte comuni. La minaccia più grave all’identità e alla cultura comune non è forse quella che viene dall’esterno o dagli immigrati, ma dalla mancanza di accesso alla cultura da parte di tutti i cittadini attraverso la scuola, come premessa e condizione di un'identità e di una cultura civica comuni, capaci di integrare le differenze. La scuola di base per tutti nasce infatti, come scrive Elio Damiano, come una conquista democratica, ma anche come "indicatore dell'unità della nazione, strumento privilegiato dell'unità linguistica, culturale e sociale, espressione tangibile della convergenza simbolica di tutte le classi 5 sociali" (Damiano, 1984, p.80). Anziché rimpiangere una mitica comunità di origine, capace di garantire automaticamente una indistruttibile coesione sociale, si tratta piuttosto di sviluppare, ove possibile, i vincoli di identità simbolica, come la lingua e la storia, proiettando anche nel futuro un senso di identità come acquisizione dinamica e partecipazione ad una costruzione collettiva. La lingua, in quanto codice comunicativo non puramente strumentale, racchiude in sé un senso forte di potenziale uguaglianza e dignità dei cittadini in quanto membri della stessa comunità culturale. L'insegnamento della storia, a sua volta, non va messo al servizio di un'operazione mitica o ideologica, che può produrre conseguenze pericolose, ma è mezzo di formazione di una coscienza critica, cioè via privilegiata per favorire la capacità di comprendere gli uomini e i fatti del proprio tempo alla luce del passato comune e di una prospettiva di convivenza civile che è sempre frutto di una faticosa costruzione unitaria. Anche l’itinerario verso l'identità di "cittadini del mondo" passa attraverso l'integrazione delle appartenenze, non la loro sottrazione. L’educazione alla mondialità, infatti, non consiste nella semplice trasmissione di ideali cosmopolitici di stampo astrattamente illuministico, ma nello sviluppo della coscienza di vivere in un orizzonte di legami internazionali che configurano, a loro modo, una sorta di “patria” più ampia, con una sua storia che ci coinvolge anche al di là delle nostre percezioni immediate e verso cui si pone un’esigenza di fedeltà analoga a quella verso la storia della propria città o della propria nazione. La globalizzazione esige non di rinunciare a identità particolari ma di vivere anche un’identità più larga capace di affrontare il pluralismo delle appartenenze superando la paura dell’altro. La necessità di affrontare la tensione positiva e dinamica tra esigenze del particolarismo - con il rischio di chiusura difensiva nella propria identità culturale o etnica – e l’apertura all’universale – con il rischio di non vivere pienamente nessuna identità – risulta chiara. L'educazione alla cittadinanza come appartenenza ad un progetto comune e costruzione della coesione sociale diviene, nella società attuale, un obiettivo associato e complementare dell'autonomia e dell'emancipazione, superando sia l'individualismo, sia i particolarismi. La cittadinanza chiede un lavoro dinamico di memoria e di integrazione in una storia; comporta un progetto di inclusione dei nuovi arrivati (in senso generazionale, etnico, sociale); fonda il riconoscimento degli altri in un'interdipendenza reciproca. 4. Alterità/relazioni Il piano dell’alterità e della relazione è strettamente connesso a quello dell’identità e delle appartenenze. La relazione che si instaura tra le persone può essere qui intesa come la vocazione originaria dell'esperienza educativa. “Io” sono con gli altri e la convivenza sociale è un essere per l’altro. L’attenzione nei confronti della relazione aiuta a correggere l’inflazione di soggettivismo che scaturisce da una retorica dell’identità molto diffusa negli ultimi decenni: in questo senso, sociologi e filosofi della “modernità”, da Norbert Elias a Charles Taylor, hanno ammonito a non separare il soggetto dalle sue interdipendenze e a non collocarlo in modo astratto fuori dal contesto in cui vive. D’altra parte, nelle teorie che esaltano la costruzione di sé, l’iperrelazione rischia di annullare la specifica fisionomia e l’autonoma identità del soggetto: esasperando tale approccio, infatti, si è, solo in quanto si è detti. La tensione verso o contro l’altro è al centro del problema della cittadinanza, affrontato e descritto in tutte le teorie politiche da Rousseau in poi. Qui non interessa 6 esaminare in termini generali questo immenso campo, ma mettere a fuoco la possibilità educativa della relazione con gli altri nella convivenza sociale. François Galichet definisce paradigmatico quel modello che “instaura la cittadinanza come un movimento volontario verso l’altro in particolare e verso la comunità in generale; che la faccia emergere dall’individuo come un’esigenza costitutiva di sé stesso e non come una legge imposta dall’esterno e solo in seguito interiorizzata” (Galichet, 2005, p.46). La relazione con l’altro è quindi il fondamento dell’uguaglianza, nel senso che costituisce una tensione a far crescere, a “rendere uguale” (ovviamente nei saperi e nelle capacità e cioè non per annullare l’altro ma per renderlo autonomo). L’educazione, nella sua ricerca di una radicale uguaglianza, diviene compimento della democrazia stessa. La sola coesistenza pacifica non è sufficiente. C’è bisogno di un progetto per vivere insieme, il cui ideale regolatore sia la relazione nella reciprocità: l’educazione alla cittadinanza fonda e “precede” la cittadinanza stessa, come senso di responsabilità verso l’altro (ivi, 46ss). La dimensione dell’alterità mette in gioco soprattutto la dialettica tra l’uguaglianza e la disuguaglianza. Come si è visto, l’educazione non si limita a favorire la semplice coesistenza, ma si pone come obiettivo la responsabilità verso l’altro come fondamento della vita civica. Le conseguenze sull’educazione alla cittadinanza sono profonde. Seguendo il pensiero di Galichet, avremo un progetto che non consiste soltanto nel conoscere i meccanismi di funzionamento sociale, osservare le norme, gestire le differenze attraverso il dibattito e regolare i conflitti: secondo questo modo di intendere la cittadinanza, infatti, gli obiettivi da perseguire sarebbero al massimo quelli della tolleranza e di una prudente gestione della convivenza. Il modello pedagogico proposto dall’autore francese è invece quello di una cittadinanza come presa a carico e ricerca di giustizia, come interesse per l’altro. Così commenta questa via radicale Fernand Ouellet: “In questa prospettiva, la cittadinanza è veramente democratica solo se conduce gli alunni a riflettere sullo scandalo della disuguaglianza e se li porta a considerare il problema dell’insuccesso scolastico come il loro problema e non solo degli insegnanti” (Ouellet, 2006, p. 11). Si tratta di un modello di cittadinanza non solo attiva, ma anche solidaristica, che inventa tutti i modi possibili per allargare e includere, esercitare la democrazia, favorire la convivenza anche davanti alle resistenze, riportando la scuola a quel ruolo di “grande egualizzatrice” di un recente passato. Il darwinismo sociale, come è noto, investe l’istruzione mettendo in discussione la responsabilità della scuola nell’offrire a tutti “uguali opportunità di trattamento differenziato”. Ciò significa il diritto di tutti non ad un’astratta e formale posizione di uguaglianza che invita a gareggiare liberamente, ma a un contesto solidaristico che tiene conto della disuguaglianza dei punti di partenza. Un altro aspetto che investe pienamente il tema dell’alterità è quello delle differenze culturali. In una società pluralistica, davanti alla presenza dell’immigrazione si è sviluppato un incontro/scontro tra modi di pensare, parlare, credere. La scuola ha elaborato, di fronte a questi fenomeni, un’educazione basata ora sull’assimilazione, che tende a rendere gli alunni immigrati “uguali” nel senso di culturalmente omogenei, ora su un ingenuo differenzialismo, nel senso dell’esaltazione della diversità. L’altro separato dal noi, individuato come portatore di valori e usi “diversi” per natura e cultura, è stato così oggettivizzato, mentre crescevano l’irrigidimento identitario, il razzismo, l’antisemitismo, la paura e la diffidenza verso lo straniero o il musulmano, il timore del dialogo (Santerini, 2005). L’educazione interculturale “post 11 settembre”, contrastando il conflitto tra gruppi, ha invece tentato di cogliere la pluralità degli elementi interni ad una cultura: i valori, i costumi, le credenze, considerando gli stessi individui come multiculturali (Anolli, 2006); il dialogo si costruisce a partire da una visione dinamica, storica e aperta dei 7 sistemi culturali, che non devono diventare “gabbie” per i membri del gruppo, bensì elementi per scambiare esperienze e costruire insieme nuove sintesi di significato. L’intercultura diviene così un elemento fondamentale della cittadinanza, come obiettivo di rispetto, comprensione e dialogo tra persone di culture diverse. Essere cittadini significa imparare a vivere nel pluralismo e considerare le differenze, non allo scopo di esaltarle e di aumentare la distanza, bensì per tendere ad una coesione sociale che permette di vivere insieme. L’educazione mette a disposizione le risorse per una comprensione profonda dei significati delle parole, delle azioni e dei valori degli “altri”, senza irenismi. La base su cui si poggia questa convivenza può essere solo la ricerca – nel dialogo - di ciò che è comune. La tematica del dialogo è collegata a quella della violenza. I diritti di ciascuno, bambino, uomo o donna, italiano o straniero, giovane o vecchio, sono minacciati non solo dalla fame o dalla guerra, ma anche dai comportamenti prepotenti, dai conflitti sociali, in strada e a scuola, dal bullismo e dagli scontri tra pari in cui spesso si minacciano i più deboli. Non si vuole qui affrontare il complesso nodo dell'origine della violenza o la sua risposta educativa, ma collocarla all’interno della problematica della cittadinanza, sia che si tratti di trasgressione della norma, sia di colpevole indifferenza o di comportamenti di delinquenza vera e propria. Infatti, la società “narcisista” e “liquida” dove predomina la paura e l’insicurezza, dove aree di benessere si alternano a disuguaglianze e dove tende a diminuire la responsabilità civica, fa prevedere un aumento della violenza gratuita e di quella legata alle nuove tecnologie (Bauman, 2005). Risultano difficili da comprendere alcuni comportamenti particolarmente irresponsabili che portano a conseguenze tragiche, come il lancio di sassi dai cavalcavia delle autostrade sulle automobili sottostanti, che sembrano rivelare l'incapacità di distinguere il bene dal male. Altrettanto difficili da comprendere risultano i giochi di morte, le azioni a rischio, le gare o le imprese che mettono a repentaglio la propria vita o quella di altri. Gli episodi di esibizione della violenza o delle bravate sui cellulari e su Internet testimoniano il nuovo volto della noia e della ricerca di attenzione al di là del senso della sofferenza altrui. Si considera “gioco” allo stesso modo il calcolo estremo, il rischio, la diffusione di immagini imbarazzanti per gli altri, la persecuzione di un debole. La violenza chiede un nemico, sempre più spesso il diverso, lo straniero, l’immigrato, il rom. La trasformazione dell’avversario in nemico richiede un processo, che può essere rapido o lungo, ma necessita comunque della spogliazione dell’altro delle sue caratteristiche di umanità. Infatti, ciò implica una disumanizzazione, necessita di una dissociazione dall’idea di solidarietà e corresponsabilità con la sorte degli altri, una degradazione o disprezzo della vittima, l’annullamento della dignità individuale. L'uomo e la donna, se trasformati in "altro da me" perdono ogni caratteristica personale ed ogni attrattiva. Per poter dimettere il senso di comune umanità, i violenti devono ripararsi dietro sentimenti di estraneità, facilitati ad esempio, nei rapporti tra persone di culture diverse, dalla difficoltà a comunicare o dalle differenze di status. L’egoismo del noi di cui parla Primo Levi, ossia la solidarietà solo con i membri del proprio gruppo, costituisce un altro fattore potente nella giustificazione della violenza verso gli altri. Nella misura in cui il rapporto di aiuto si crea soltanto con quelli verso i quali si nutre un interesse personale, esso non è altro che una versione ampliata dell'esclusione dell'altro. Ancora, la violenza si collega strettamente all’insicurezza, percepita e diffusa in modo inquietante dai mass media e dalla solitudine delle città. Sicurezza e sentimento di sicurezza sono due cose diverse, come dimostra la differenza tra la situazione percepita e la realtà dei dati. Le società di oggi, infatti, sono oggettivamente più sicure di quelle del passato, anche recente, basti pensare ai due conflitti mondiali. Ciò non 8 viene però considerato quando esistono sintomi e di angoscia e di inquietudine, spesso inconscia, a causa dello spaesamento o della crisi economica aggravata dalla paura del futuro. Società che invecchiano, come quella italiana, rimpiangono allora il mitico “mondo di una volta” in cui si poteva avere fiducia dell’altro, ora divenuto estraneo e nemico. Larghe fasce della popolazione, segnate dalla disoccupazione e dalle disuguaglianze sociali, si sentono lasciate ai margini “incapaci di controllare il loro futuro in un mondo sempre più segnato dal cambiamento” (Castel, 2004, p.52). Si diffonde un rancore che si riversa, spesso, verso il vicino, magari l’immigrato o il più debole socialmente. L’angoscia e il risentimento chiedono misure restrittive, ordine pubblico, tolleranza zero, pene più severe, dimenticando che lo Stato non potrà mai proteggere del tutto i cittadini dai loro simili se la sicurezza non si fonda su una scelta anticipatrice di solidarietà e di accoglienza, dalla rottura del cerchio vizioso della violenza: il patto sociale si fonda su una “ fiducia reciproca, senza la quale non ci sarebbe cittadinanza” (Galichet, 2005, p. 96). 5. Diritti e dignità della persona Il corpus dei diritti umani è stato codificato nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948. Nata come risposta alle tragedie della guerra mondiale, alle gravissime violazioni della dignità umana, ai genocidi ed ai lager, essa ha aperto la strada ad una sessantina di altri documenti e convenzioni sulla difesa dei diritti umani, tra cui quelli relativi ai rifugiati, all'infanzia, alla condanna dell'apartheid, alla tortura; ha inoltre influenzato molte convenzioni e trattati, nonché le costituzioni successive, orientando le scelte dell'ONU. La storia della difesa dei diritti umani, codificata nelle varie Dichiarazioni, è stata accompagnata da un costante dibattito filosofico-politico sulla loro legittimità. Jurgen Habermas osserva che essi hanno il volto di Giano bifronte, "simultaneamente rivolto alla morale e al diritto" (1998, p.221). Non pochi autori ritengono che i diritti non siano norme morali, ma già il primo articolo della Dichiarazione - "Gli uomini sono nati liberi ed uguali per dignità e diritti" - indica che il fondamento dei diritti umani, connaturato alla persona, è l'essere umano. La legge naturale, da Antigone in poi, è stata sempre considerata superiore al diritto positivo, in quanto in essa si esprime un'esigenza di giustizia infinita. Il fatto che il diritto naturale, su cui si fondano i singoli diritti riconosciuti dalla Dichiarazione del 1948 e da quelle successive, non disponga di strumenti per obbligare a seguirlo, sia cioè - come scrive Bobbio - un "diritto disarmato", non inficia la sua validità. Il diritto naturale, pur essendo "formale e indeterminato" produce contenuti concreti, giudica gli altri ed è, nell'efficace definizione di Selim Abou, il Diritto dei diritti (1995, pp.59ss). Scrive Abou: "E' dunque attraverso l'intermediazione dei Diritti umani, quali sono riconosciuti dalla maggioranza degli Stati, che il Diritto naturale esercita la sua funzione regolatrice sui diritti positivi che reggono le nazioni" (p.80). La formulazione dei diritti umani, riconosciuta nella Dichiarazione, è tuttavia modificabile, perché frutto di condizioni storiche e di trattativa tra gli Stati. Allo stesso tempo, essa costituisce un punto di accordo universale, in quanto sancisce per la prima volta i valori comuni a tutti gli stati firmatari. Storicamente, si sono sviluppate diverse generazioni di diritti. I diritti civili (libertà personale, di pensiero, religione), in quanto libertà da imposizioni esterne, hanno preceduto quelli politici (intesi come libertà di partecipare attivamente alla gestione dello Stato). Successivamente, sono poi stati sviluppati i diritti sociali come quelli che sanciscono l'esigenza di lavoro, assistenza, salute, cultura. Ultimi, si sono aggiunti i 9 diritti culturali che possono garantire il mantenimento delle proprie forme di vita (Marshall, 1976). La cultura liberale si trova a fondamento della prima generazione di diritti, quelli alla vita e alla libertà di pensiero. I diritti politici acquistano gradualmente importanza negli Stati fondati sulla partecipazione democratica. Man mano, nella storia dei vari paesi, lo stato sociale ha garantito anche nuovi diritti, come quello allo studio. Quella attuale viene definita la "società dei diritti" a causa della moltiplicazione ed estensione di aspirazioni al benessere, alla sicurezza, alla libertà, all'uguaglianza. Troppi diritti e pochi doveri? La discussione è antica: già l’Assemblea francese del 1789 si chiedeva se l’uomo può essere detentore di diritti prima di avere i doveri del cittadino. E' stato osservato, però, che tale proliferazione non deve essere intesa, come a volte avviene, quale sintomo di disordine o di conflitto; al contrario, essa mostra come i diritti, per affermarsi, non possano escludersi a vicenda. L'universalità dei diritti, insieme alla loro indivisibilità, costituisce il nucleo essenziale di una visione basata sulla dignità della persona umana. Tuttavia, l'introduzione dei diritti culturali ha messo in luce il problema del pluralismo e delle particolarità dei modi di vita. Il dilemma consiste nella scelta tra il rispetto dell'universalità (l'uomo prima del cittadino), che permette di superare le differenze sociali, culturali o etniche, e la scelta per il pluralismo, che giustificherebbe le diverse interpretazioni dei diritti umani. Rispettare, cioè, la diversità di culture e tradizioni che si è sedimentata nel tempo dando luogo a scelte diverse dal punto di vista morale, o scegliere la persona umana come unico criterio di misura? Com’è noto, in nome della diversità culturale si rischia di giustificare le più gravi violazioni dei diritti umani e dello stesso diritto alla vita; non c'è, infatti, tradizione o specificità che possa giustificare il ricorso a misure come le mutilazioni femminili, o la pena di morte, anche se iscritte da tempo nei codici di una società. Va ribadito che si può difendere realmente l’uomo solo riconoscendolo in quanto tale, spogliato cioè del suo abito culturale. Ciò presuppone non solo di dare senso e significato alle norme “relativamente” alle culture che le hanno espresse, ma anche di rendere legittimo un giudizio morale sulle culture, sola condizione per realizzare il dialogo e la convivenza. Infatti, il confronto critico e aperto tra le culture permette il superamento dei loro limiti, sotto il profilo del riconoscimento dei diritti umani, contribuendo alla ricerca di principi e norme che rispettino integralmente l'uomo qualunque sia la sua appartenenza culturale (Santerini, 2003). All’idea dei diritti è strettamente collegato il concetto di dignità della persona umana, al centro anche del Preambolo della Dichiarazione Universale e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Nizza 2000): “Consapevole del suo patrimonio spirituale e morale, l'Unione si fonda sui valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà”. Tuttavia, la dignità umana è sempre più a rischio, soprattutto nel clima della difesa dei privilegi di pochi o della “fortezza Europa” contro i tanti disperati che cercano una vita migliore (Riccardi 2006). La diversità di visioni e di culture rende particolarmente complesso il riconoscimento unanime di cosa si intenda per dignità, specie nei campi delle scienze e della bioetica, nonché della politica e dell’economia. Essa, quindi, per essere promossa e realizzata, necessita di un quotidiano esercizio della cittadinanza e di un dialogo continuo sul significato della convivenza, sull’interpretazione dei valori, sul rispetto dei diritti altrui. In questo senso, la difesa della dignità inviolabile della persona si associa all’approccio interculturale, che “offre un modello di gestione della diversità culturale aperto sul futuro, proponendo una concezione basata sulla dignità umana di ogni persona (e sull’idea di una umanità comune e di un destino comune)” (Consiglio d’Europa, Libro Bianco sul dialogo interculturale 2008). 10 6. Partecipazione e cittadinanza attiva Negli ultimi anni, è cresciuta la consapevolezza che esistono forme diverse di democrazia. All’interno del contesto occidentale, ad esempio, si è tornati a discutere della differenza tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta, sottolineando la diversità di compiti che impegnano i cittadini nell’uno e nell’altro caso, e soprattutto, nell’ottica che qui maggiormente interessa, le diverse finalità dell'educazione alla cittadinanza che ne conseguono. Va così ricordata, a questo proposito, la posizione di Norberto Bobbio che, analizzando le trasformazioni della democrazia, non ne ritiene possibile la realizzazione in una forma diretta ed assembleare nelle nostre società vaste e complesse; egli crede, invece, all'estensione della partecipazione civica nel sociale. Ciò comporta, per quanto riguarda l'educazione civica, di preparare le giovani generazioni ad esercitare il giudizio in tutti i ruoli rivestiti (come studenti, genitori, pazienti, consumatori, etc.). La capacità di portare il gioco democratico in tutte le sfere, aprendole alla partecipazione, necessita di una seria formazione al politico, diffuso nelle pieghe della vita sociale (Bobbio, 1995). Più in generale, nelle moderne forme di convivenza su base pluriculturale, plurinazionale e plurireligiosa, educazione alla democrazia significa soprattutto educazione al rapporto con l’altro e abitudine alla discussione pubblica sulla base di valori espressivi di tradizioni diverse, come sottolinea il premio Nobel indiano Amartya Sen. L’educazione alla cittadinanza in una società complessa deve misurarsi anche con la presenza, in tale società, di opzioni diverse sul piano morale, culturale, economico. In questo senso, è necessario operare una traduzione in termini simbolici e culturali delle diverse visioni della vita (opzione liberale contro opzione democratica, competizione contro cooperazione, pluralismo contro assimilazione, solidarismo contro individualismo etc.). Ciò permette di interpretare e comporre le diverse opzioni che spesso si riflettono nel quotidiano e nelle istituzioni, nel rapporto tra i sessi o nella politica propriamente detta (Pagé, 1996, p.177). Questa scelta non intende “politicizzare” il rapporto educativo, ma aiutare le giovani generazioni a “comprendere il carattere dialettico della vita di una società democratica” ed i conflitti tra visioni diverse, per apprezzare la dimensione politica non meno di quella privata (Lastrucci, Viana, 1997). In questo modo, si aumentano le competenze e ciò significa entrare nel campo dell’educazione allo spirito critico, alla cooperazione, allo scambio e alla discussione sostenuta dalla capacità argomentativi. Questo tipo di educazione, ovviamente, presupporre una partecipazione concreta ed effettiva ai processi sociali come scuola di cittadinanza. E’ inoltre evidente che la necessità di tali competenze non deve far dimenticare che l’autonomia e il pensiero critico sono il risultato di un'educazione democratica e non diventeranno patrimonio di tutti se la scuola e le istituzioni formative non conseguono decisamente un progetto di inclusione sociale e di educazione alla cittadinanza. La logica del riconoscimento e dell'inclusione di tutti - senza condizioni - potrà creare quelle capacità di partecipazione necessarie alla società complessa. Solo in questo modo potrà a sua volta aprirsi alla solidarietà, senza cui l'autonomia critica diviene un lusso per pochi. Perché le decisioni e le procedure siano veramente democratiche, devono rispondere ad alcune condizioni, tra cui un senso di appartenenza e di condivisione sentito dai cittadini. L’educazione alla cittadinanza in una società democratica non può ridursi all’acquisizione di sapere, ma deve consistere negli strumenti e nelle abilità argomentative e interpretative per discutere i saperi stessi (Lacroix, 2005, p.197). Nella piena autonomia di ciascuno, l’educazione alla cittadinanza può sviluppare la capacità di elaborare e sviluppare un nuovo progetto di coesione sociale e di identità comune. Gli strumenti forniti ai soggetti possono permettere di difendere la libertà 11 morale individuale senza necessariamente attentare al legame sociale e alla cultura democratica. L'educazione alla cittadinanza che integra conoscenze, abilità, discussioni, progetti, è un tirocinio del dialogo, della discussione, della critica, della partecipazione e dell'impegno che rende il cittadino in grado di esercitare le virtù civiche. La competenza interiorizzata e trasferita in azione può restituire interesse nei confronti della gestione della cosa pubblica, vincendo il senso di distanza e di scarsa coscienza nei confronti dell’impegno comune. Indubbiamente, la partecipazione dei cittadini appare alquanto indebolita e sfuocata per quanto riguarda le aggregazioni tradizionali, come i partiti, e mostra seri segni di crisi anche nell’ambito di una delle forme più vitali di associazione e cioè il volontariato. Tuttavia, la partecipazione assume forme nuove e inconsuete, e si sviluppa soprattutto attraverso manifestazioni estemporanee ma autentiche, che raccolgono consenso su temi sentiti come vitali. In occasione di conflitti in Occidente, imponenti manifestazioni hanno espresso la protesta verso la guerra; i movimenti studenteschi appaiono e scompaiono alla superficie della società, in corrispondenza con le proposte di riforma della scuola, avvertite spesso come soggette ad una logica economicistica, a conferma della marginalità dell’istituzione formativa nella politica del paese. Temi come la difesa del lavoro o i fenomeni di razzismo raccolgono l’adesione di vari gruppi, in modo non sempre prevedibile. Ma è soprattutto la Rete che ha creato le più vaste e inusuali forme di partecipazione. Gli ultimi anni hanno visto la crescita imponente dei movimenti di aggregazione, comunicazione e scambio via Internet, diventato sempre più un medium interattivo e un vero promotore di vita democratica. Motori di ricerca come Google hanno segnato l’era dello scambio “orizzontale” di cultura attraverso la convergenza delle scelte e una sorta di nuova “intelligenza collettiva” (Jenkins, 2007). Il passaggio dalla TV che si fruisce passivamente, al web non solo fonte di immense possibilità di informazione, ma anche di continuo collegamento con gli altri, in tempo reale, è stato breve. Oggi, il digital divide separa non solo chi è connesso da chi non lo è, ma anche chi subisce l’informazione e chi contribuisce a crearla. Siti come Wikipedia hanno creato la possibilità di “costruire” l’enciclopedia del sapere attraverso l’informazione dal basso. Tutti possono inviare note e contenuti che compongono la redazione di una voce, anche se appare chiaro come ai vantaggi della crescita del numero di persone che diventano autori della cultura si associa il rischio che tali informazioni, non vagliate e verificate scientificamente, possano creare una banalizzazione del sapere, se non una disinformazione. Uno dei fenomeni più interessanti riguarda, inoltre, i blog, i “diari di bordo” sulla rete (web-log) che permettono a ciascuno di divenire “giornalista”, pubblicare e scrivere senza filtri degli editori o dei direttori dei giornali. Attraverso i blog si riversano enormi quantità di informazione, scambi di idee. Il popolo della rete si indigna, approva, diffonde contro-informazioni, scambia pareri, insomma partecipa in modo nuovo e coinvolgente. Internet ha inaugurato l’era di una inesauribile possibilità di partecipazione ad una “cultura convergente” attraverso partecipazione attiva, consumi consapevoli, possibilità creative: solo una nuova alfabetizzazione mediatica permetterà di sfruttare pienamente questo giacimento di risorse per la cittadinanza. 7. Bibliografia Abou S. Diritti e culture dell'uomo. SEI, Torino 1995. 12 Anolli L. La mente multiculturale. Laterza, Roma-Bari 2006. Bauman Z. Vita liquida. Laterza, Roma-Bari 2005. Bobbio N. Eguaglianza e libertà. Einaudi, Torino 1995. 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