Pandemia dell`influenza aviaria ed epidemia umana

Pandemia dell’influenza aviaria ed epidemia umana
(A. Micozzi)
Introduzione. I virus dell’influenza aviaria (AI: avian influenza) e i corrispettivi paramyxovirus (APMV: avian
paramyxovirus), si considerano gli agenti etiologici di due tra le più devastanti malattie del regno animale:
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La forma altamente patogena di influenza degli uccelli, dovuta ai ceppi H5 e H7;
La malattia di Newcastle, provocata dai ceppi virulenti APMV di tipo 1.
La mortalità legata a questi due agenti patogeni ha una incidenza che supera il 50% della popolazione aviaria alla
nascita, fino ad arrivare al 100% in alcuni ceppi di AI. Il virus responsabile della malattia di Newcastle può indurre
congiuntivite nell’uomo, la quale è considerata autolimitante, tanto da non lasciare conseguenze permanenti. Questo
fenomeno è ben conosciuto fin dagli anni ’40 del XX secolo e in tal modo è stato considerato fino al 1997, a partire dal
quale si è cominciata a studiare la possibilità che i virus aviari siano associati a malattie umane più importanti che una
semplice congiuntivite1.
Contagio dell’influenza aviaria nell’uomo. L’opinione pubblica, nel 2003, si è drammaticamente resa consapevole
delle malattie infettive a diffusione pandemica, quali la SARS, la forma dovuta al virus del West Nilo e anche la
minaccia del bioterrorismo. Nello stesso tempo, è stato dimostrato che i ceppi altamente patogeni dell’influenza aviaria,
ossia i sopra menzionati sottotipi H5 e H7 possono indurre malattie fatali nell’uomo, per trasmissione diretta dai polli di
allevamento2. In particolare, H5 è stata trasmessa all’uomo nel 1997, a Hong Kong, mentre H7 nel 2003, in Olanda3.
Recenti lavori sperimentali hanno messo in evidenza l’importanza della diffusione extrapolmonare e della replicazione
intracerebrale di H5, almeno nei topi BALB/c4 e inbred, nei quali l’inoculazione intracranica risulta addirittura fatale5.
Galline, quaglie e altri uccelli “di terra” sono attualmente considerati i serbatoi di disseminazione dei virus influenzali
A, sia aviari, sia umani, dai quali dipendono i potenziali pandemici6. Alla fine degli anni ’90 del XX secolo, dunque,
sono state segnalate infezioni umane da AI a Hong Kong, con una sintomatologia prevalentemente respiratoria.
L’esposizione al pollame domestico, nei mercati, era correlato, con molte evidenze, alla forma patologica umana da H5.
In tale circostanza si notò che la trasmissione interumana, pur se rara, era tuttavia possibile7. 18 casi umani di influenza
A H5 aviaria furono identificati a Hong Kong, da maggio a dicembre del 1997. Due dei sei casi fatali mostravano,
all’esame anatomo-patologico, un danno alveolare diffuso, con fibrosi interstiziale, necrosi epatica massiva, necrosi
renale tubulare e deplezione linfoide. In entrambi i pazienti si evidenziava un aumento del recettore di IL-2 solubile, IL6 e IFNγ8.
Procedure diagnostiche. L’emergenza del contagio aviario nella popolazione umana suggerì una indagine
epidemiologica, al fine di determinare il rischio di trasmissione interumana. La prova di inibizione della
emoagglutinazione, ossia la metodica sierologica più usata, per verificare la presenza di una risposta immunitaria antivirus influenzale dell’uomo, si mostrò poco sensibile, per la ricerca di anticorpi anti-influenza aviaria. Con la prova di
microneutralizzazione si osservò, successivamente, la presenza di anticorpi anti-H5 aviaria anche nell’uomo, con una
sensibilità e una specificità maggiore che il test ELISA9. È stato proposto un ulteriore metodo immunoenzimatico, che
mette in risalto la reattività crociata tra diversi ceppi influenzali, umani e aviari. L’amplificazione genica della
emagglutinina (la proteina che lega il virus al recettore) ha permesso, molto recentemente, un ulteriore sviluppo
diagnostico, soprattutto per i sottotipi H5 e H7, ossia quelli implicati nel contagio umano10. Queste prove al di là della
loro efficacia e sensibilità, consentono di ribadire l’appartenza inequivocabile dei diversi ceppi influenzali alla stessa
famiglia, ma soprattutto che la possibilità di un contagio interumano, dopo la trasmissione aviaria, non sia evenienza
così remota11. Questa osservazione è fondamentale, in quanto smentisce le rassicuranti campagne di informazione
sull’argomento. Altra considerazione inquietante, inoltre, è la verifica che l’influenza aviaria, nell’uomo, non sia un
evento così recente, bensì è l’espressione di una modalità infettiva che coinvolge le diverse politiche sanitarie,
economiche e sociali di molti paesi, anche distanti tra loro per cultura e alimentazione.
Costituzionalismo immunogenetico. La risposta linfocitaria agli antigeni influenzali è associata a molecole HLA di
classe I e II. Il modello di studio, utilizzato per la verifica di questo meccanismo, comprende l’esame fenotipico dei
linfociti attivati dopo immunizzazione vaccinica12. In particolare, l’allele HLA-A2 assume una importanza strategica
per lo sviluppo e l’attivazione della immunità citotossica T in generale, sia per gli antigeni virali, sia per quelli tumorali.
Tra i virus maggiormente studiati, per la risposta immunitaria, si considera proprio quello influenzale13. Anche HLA-A3
sarebbe coinvolto nella presentazione dell’antigene influenzale processato, soprattutto la emagglutinina virale14. È stato
anche identificato lo specifico recettore della cellula T (TCR α/β) per l’agglutinina, il quale è ristretto all’HLA-DR1 e
DR4, ossia alle molecole predisponenti per l’artrite reumatoide. Questo fenomeno spiega il motivo per il quale una
immunizzazione influenzale (per contagio spontaneo o per vaccino) possa aggravare una condizione pre-esistente di
autoimmunità, quale appunto l’artrite15. Anche una nucleoproteina del virus sembra coinvolta nella risposta dei linfociti,
in associazione ad HLA-B35, ossia alla molecola associata alle conseguenze patologiche anti-streptococco16. Molto
interessante è anche la nozione di resistenza al contagio influenzale, la quale sarebbe associata alla presenza di HLADR717.
Recettore dei virus influenzali (aviario e umano). L’azione patogena dei virus influenzali, sia umani, sia aviari,
dipende dal legame che essi stabiliscono con un recettore specifico. Tale recettore, espresso maggiormente sui leucociti,
è stato identificato con una molecola di membrana denominata “sialoforina” o “leucosialina” o CD4318, la cui presenza
di acido sialico risulta determinante nel legame con il virus. Analoghe considerazioni sono state fatte con un’altra
molecola sialilata, ossia l’antigene di gruppo sanguigno Lewis x19, che funge da recettore anche per helicobacter
pylori20. Questa doppia possibilità di legame dimostrerebbe un mimetismo molecolare (somiglianza strutturale) tra due
agenti patogeni diversi. IL CD43, in particolare, è una sialoglicoproteina transmembrana, il cui dominio extracellulare
partecipa alla adesività della cellula, mentre l’estremità citoplasmatica regola una serie di trasduzioni del segnale,
implicate nella proliferazione cellulare. Tale molecola è espressa maggiormente dalle cellule ematopoietiche
(soprattutto i linfociti T) e, in maniera aberrante, anche da quelle tumorali di origine non ematopoietica21. Tra le sue
funzioni dobbiamo considerare la formazione dei ligandi nelle interazioni tra cellule, specialmente quelle coinvolte
nella risposta immunitaria22 e la regolazione della sopravvivenza dei linfociti T circolanti23. Oltre alla emagglutinina, il
sito di legame del virus con il recettore CD43 è rappresentato da un enzima, la neuroaminidasi. Anzi, le attuali tecniche
di preparazione dei vaccini anti-influenza aviaria sono basate proprio sulla capacità immunizzante delle due molecole,
che servono da ancoraggio alle cellule ospiti24. In questo modo si otterrebbe una immunizzazione anche su ceppi diversi
che H5 e H725. Più che il risultato vaccinatorio, questo fenomeno dimostra che le proteine immunogene dell’influenza
aviaria sono filogeneticamente ben conservate tra i vari ceppi virali. Durante una normale risposta immunitaria, a
prescindere dalla natura dell’antigene, il CD43 assume un ruolo dinamico interessante: stimola l’attivazione e il traffico
dei linfociti T nel sistema nervoso centrale e, contemporaneamente, modula negativamente le stesse cellule a livello
sistemico26. Inoltre, l’espressione della molecola nel tessuto cerebrale (in particolare nella microglia), abbondante in
condizioni normali, diminuisce in modo significativo nella malattia di Alzheimer. Tale osservazione suggerisce che il
CD43 riveste un ruolo fondamentale nel prevenire le lesioni neuropatologiche27. In maniera diversa, ma altrettanto
importante, la sialoforina partecipa alla regolazione della emopoiesi. È stato dimostrato, infatti, che viene espressa nelle
cellule progenitrici pluripotenti del midollo28. È di recente acquisizione il dato che i mycobatteri (avium, bovis e
tuberculosis) utilizzano la sialoforina nel promuovere la stabilità recettoriale con le cellule bersaglio29. Più datata è
invece la dimostrazione che il CD43 protegge i ratti dalle artriti indotte da staphylococcus aureus30. La presenza di
acido sialico nella glicoproteina risulta determinante per l’ancoraggio di numerosi agenti patogeni alle cellule ospiti.
Questo fenomeno è stato ampiamente osservato con i batteri del cavo orale, specialmente streptococcus gordonii e
actinomyces naeslundii31.
Prospettive omeopatiche. Le ricadute terapeutiche dei dati aggiornati sulla molecola CD43 consentono di allargare lo
spettro di intervento con l’anticorpo monoclonale corrispondente32. Le possibilità preventive di anti-CD43 sono
evidenti, soprattutto per i risultati, ormai acquisiti da anni, nella profilassi anti-influenzale. Tali osservazioni potrebbero
essere esportabili anche nei confronti dell’influenza aviaria (sia nell’uomo, sia negli animali da allevamento). A tale
scopo si possono utilizzare le preparazioni LM, le quali offrono i vantaggi maggiori (rispetto alle centesimali) nel
criterio di similitudine molecolare. Anti-CD43 può essere assunto in fiale (liquide o granulari), con potenze ascendenti,
ossia 6LM, 18LM e 30LM, una volta la settimana. Un’altra interessante prospettiva si apre, con la stessa molecola,
nell’uso del criterio di similitudine patogenetico, in caso di malattia di Alzheimer. Si è visto, infatti, che il CD43 si
riduce in tale condizione degenerativa, permettendo la deposizione di sostanza amiloide. In pratica, viene a mancare il
ruolo protettivo della sialoforina. Anti-CD43 riproduce, con un meccanismo autoimmune analogo, una condizione
simile a ciò che si è osservato nell’Alzheimer. L’uso continuativo della potenza 30LM spray (due nebulizzazioni una
volta al giorno, per cicli bimensili) va considerato nelle terapie adiuvanti di questa drammatica patologia neurologica.
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