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Died In The Wool. David Sylvian e l’arte della variazione
Jacopo Conti
La produzione di David Sylvian (1958) non sembra accusare
battute d’arresto. Durante i cinque anni di gestazione per Manafon (2009), non si è comunque mai
dovuto aspettare più di dodici mesi prima dell’uscita di un nuovo lavoro; per non parlare delle
collaborazioni, sempre abbondanti. Puntuale come al solito, quindi, esce ai primi di giugno un
nuovo disco del cantante inglese: Died In The Wool. Manafon Variations (samadhisound, 2011) –
stavolta doppio: il secondo cd contiene il brano strumentale When We Return You Won’t Recognise
Us, commissionato dalla Biennale delle Canarie del 2008-2009. I musicisti coinvolti – cioè quelli
della sua etichetta, la Samadhisound, più altre aggiunte come Fennesz, Evan Parker o Toshimaru
Nakamura – sono tutti nomi “di grido” della scena elettronica e della musica sperimentale
contemporanea (se fosse ancora vivo, Derek Bailey non mancherebbe). Ci troviamo nella “linea
parallela” della sua produzione, quella a cui appartengono i fratelli “geneticamente modificati”: a
Blemish (2003) era seguito The Good Son vs. The Only Daughter (2004), mentre Snow Borne
Sorrow (2005) era stato rivisitato in Money For All (2007). Sono dischi di remix, nei quali però si
trova una forte vena interpretativa che tende principalmente allo stravolgimento delle atmosfere,
alla variazione. Tutt’altro che dischi minori o secondari, essi svolgono anzi la duplice funzione di
mostrare aspetti di una composizione che nella precedente versione erano poco – o per niente –
evidenti e far riflettere sulla perduta unicità dei pezzi nella contemporaneità: i remix, i mash-up, i
campionamenti e quant’altro cambiano pelle alle composizioni, ma non ne modificano in toto
l’identità. Inoltre, questi dischi rendono ancora più manifesta la pulsione primaria e irrefrenabile
che da sempre della musica di Sylvian ha avuto: la ricerca della collaborazione. Nonostante a lui
spetti sempre l’ultima parola – come è giusto che sia – su suoi lavori, non esiste arrangiamento,
produzione o atmosfera che, dal suo esordio solista con Brilliant Trees (1984), non sia stato frutto di
un sodalizio. Sylvian suona canta e compone, certo, ma è soprattutto un regista in senso
cinematografico, gestisce e dà forma al lavoro di altri.
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Conosco personalmente Dai Fujikura, il compositore che ha collaborato alla realizzazione di questo
album, e da anni continuava a parlarmi di un «prossimo disco in cui collaboro con David», eppure
non arrivava mai. Dapprima fu Manafon, appunto, che però non comprendeva la partecipazione del
compositore, se non per una bonus track destinata alle sole edizioni nipponiche (al solito, il mercato
del Sol Levante si distingue dagli altri); poi fu la volta di Sleepwalkers (2010), un’interessantissima
raccolta di partecipazioni di Sylvian a dischi altrui (le collaborazioni…), in cui compariva, come
unico inedito, una traccia esclusa proprio da Manafon intitolata Five Lines, questa volta, sì, con un
quartetto d’archi composto da Fujikura. Pensavo fosse finita qui, ma fortunatamente sbagliavo.
Died In The Wool porta la firma del musicista giapponese in nove brani su tredici. Ma non è la
presenza in particolare di una persona piuttosto che di un’altra a rendere speciale questo disco, bensì
il contenuto: come suggerisce il titolo, qualcosa di Manafon è rimasto, e si potrebbe pensare (è
quello che ho pensato io, ma sono certo di non essere stato l’unico) di trovarsi di fronte a una
raccolta di remix al massimo contenente un paio di inediti. Queste però sono variations, non
remixes. Non ci sono sintetizzatori, drum machines né pulsazioni regolari o irregolari. Questo è un
disco che, come i precedenti, si gusta appieno con un buon impianto, possibilmente immersi nel
silenzio, e qui arriviamo a un altro punto nevralgico che coinvolge gli ultimissimi lavori di Sylvian
e della sua etichetta: queste sono opere “da camera”, in assoluta controtendenza rispetto alla quasi
totalità della produzione pop o elettronica. Non vanno bene per un ascolto in macchina o
camminando con gli auricolari piantati nelle orecchie, perché i suoni circostanti, per quanto si possa
alzare il volume, andrebbero a coprire quasi tutto (per carità, tutto si può fare – e io l’ho fatto – ma
ci si perde l’80% degli eventi sonori): non mi riferisco necessariamente alla percezione del lieve
cigolio delle chiavi del sax di Parker (sottile piacere un po’ di nicchia, lo ammetto, ma se il
mixaggio lo ha lasciato così evidente un motivo ci sarà, no? Molti aspetti dell’ambiente musicale
che viene qui presentato portano alla mente le microfonie di stockhauseniana memoria), ma penso
soprattutto alle piccole interferenze generate dalla no input mixing board di Nakamura (mixer
chiuso in un feedback, con l’output che entra direttamente nell’input, i cui rumori vengono
manipolati dal musicista), che in quanto parte di un’improvvisazione collettiva (e di un mixaggio
attentissimo) sono parte di un tutto imprescindibile. Questi brani vanno ascoltati, non sentiti: si
percepiscono elementi tipici della musica ambient, ma la fruizione che viene suggerita dalla cura
dei particolari deve essere di tutt’altro tipo, deve essere attiva.
Quando Fujikura interviene, non solo scrive le parti per il quartetto d’archi, ma cura il mixaggio.
L’ambientazione sonora di Small Metal Gods è radicalmente diversa da quella originale, come
anche The Greatest Living Englishman: qui troviamo una ricca gestualità strumentale, dalla più
sottile rarefazione al suono metallico e violento delle impennate al ponte. Random acts of senseless
violence ha la stessa formazione dell’originale, ma completamente ricollocata in mixaggio nel
panorama stereo (quanti movimenti si possono sentire in cuffia…) e con inserti di quartetto d’archi
dalla scrittura che tende al materico (ferma al centro rimane la voce di Sylvian).
Non si scivola mai nel caos incontrollato, il mestiere di Fujikura riesce ad appoggiare il testo e la
voce senza mai diventare un accompagnamento tradizionale – ci troviamo in una situazione
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strumentale assolutamente atonale, mentre il canto stende una melodia tonalissima – tendendo a un
espressionismo che ritorna sovente.
The Last Days Of December, uno degli inediti, è il capolavoro del disco, in cui sulle multifonie
suonate dal flauto basso si costruiscono gli accordi prodotti dalle lunghe note del quartetto d’archi,
come in una composizione spettralista, in uno spazio in cui gli unici movimenti sono quelli della
voce, mentre gli strumenti si limitano a stendere pennellate lunghe che cambiano solo tra un
silenzio e l’altro, aumentando o diminuendo il carico di intensità.
“Essendo un compositore classico, non sono abituato a collaborare”, dice Fujikura: probabilmente è
anche questo ad aver spinto Sylvian, che non legge una nota, a lavorare con un compositore
“tradizionale” (era già successo con Sakamoto). La scrittura dà a un’atmosfera complementare a
Manafon, dove l’improvvisazione e il silenzio erano gli elementi portanti: in entrambi i casi,
comunque, l’intenso lavoro di post-produzione permette a Sylvian di ottenere un lavoro unitario e
conforme a ciò che ha immaginato, evitando che le singole canzoni (se così le si può ancora
chiamare) siano dispersive. Pur essendo pieni di rimandi alle musiche contemporanee cui si
dedicano i vari musicisti coinvolti, i suoi lavori si attestano ormai su standard personali, privi di
corrispettivi precedenti e contemporanei, e forse anche futuri: la sensazione è che solo la voce di
Sylvian possa fare da collante in maniera così convincente in una coesistenza così delicata. Una
coesistenza utopica, un’intelligenza e una delicatezza che sembrano purtroppo utopiche, non
destinate a sopravvivere senza di lui; speriamo di sbagliarci.
David Sylvian, Died In The Wool. The Manafon Variations, Samadhisound, 2011, sound cd ss 021.
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