UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA LA SAPIENZA FACOLTÀ DI SCIENZE MATEMATICHE FISICHE E NATURALI TESI DI LAUREA IN FISICA Spaziotempo noncommutativo: connessione con le teorie di stringa e propagazione di particelle Relatore: Prof. Giovanni Amelino-Camelia Anno Accademico 1999-2000 Laureanda: Luisa Doplicher Indice 1 Introduzione 1 I Motivazioni per la noncommutatività dello spaziotempo 7 2 Microscopio di Heisenberg e noncommutatività fondamentale 2.1 Microscopio di Heisenberg classico . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.2 Microscopio di Heisenberg con la gravità . . . . . . . . . . . . . . 2.3 Argomenti di Bohr e Rosenfeld . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.4 Lunghezza minima in stringhe . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.5 Microscopio di Heisenberg con particelle massive neutre . . . . . . 2.6 Microscopio di Heisenberg con D-particles . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9 10 13 19 21 23 27 3 Noncommutatività non fondamentale 33 3.1 Oscillatore in un campo magnetico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33 3.2 Stringhe in campo esterno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35 II Teorie di gauge su spaziotempo noncommutativo con struttura canonica 37 4 Aspetti generali delle teorie 39 4.1 Star prodotto e sue proprietà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39 4.2 Invarianza di gauge . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 44 5 Diagrammi di Feynman 5.1 Caratteristiche dei diagrammi . . . . . . . . . . . 5.1.1 Struttura delle interazioni . . . . . . . . . 5.1.2 Un esempio semplice . . . . . . . . . . . . 5.1.3 Caratteristiche topologiche dei diagrammi 5.1.4 Convergenza e connessione fra ultravioletto 5.2 Regole di Feynman . . . . . . . . . . . . . . . . . 5.2.1 Propagatori . . . . . . . . . . . . . . . . . i . . . . e . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . infrarosso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51 51 51 56 60 64 67 67 Indice ii 5.2.2 5.2.3 5.2.4 5.2.5 5.2.6 Vertice a quattro scalari . . . . . . . Vertici fotoni - scalari neutri . . . . . Vertice fotone - due scalari . . . . . . Vertice due fotoni - due scalari . . . . Vertice fotone - fermione di Majorana Vertici a più fotoni . . . . . . . . . . Vertice a tre fotoni . . . . . . . . . . Vertice a quattro fotoni . . . . . . . . Vertice fotone - ghosts . . . . . . . . . . . . . . . . . 6 Diagrammi di self energia 6.1 Self energia del fotone . . . . . . . . . . . . . 6.1.1 Contributo dei fermioni di Majorana . 6.1.2 Contributo degli scalari neutri . . . . . Primo diagramma . . . . . . . . . . . . Secondo diagramma . . . . . . . . . . 6.1.3 Contributo del settore di gauge . . . . Primo diagramma . . . . . . . . . . . . Secondo diagramma . . . . . . . . . . Terzo diagramma . . . . . . . . . . . . 6.1.4 Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . 6.2 Self energia dello scalare neutro . . . . . . . . 6.2.1 Contributo dei fotoni . . . . . . . . . . Primo diagramma . . . . . . . . . . . . Secondo diagramma . . . . . . . . . . 6.2.2 Contributo degli scalari . . . . . . . . . 6.2.3 Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . 6.3 Self energia del fermione di Majorana . . . . . 6.3.1 Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . 6.4 Relazioni di dispersione . . . . . . . . . . . . . 6.4.1 Relazione di dispersione per il fotone . 6.4.2 Relazione di dispersione per il fermione 6.5 Implicazioni fenomenologiche . . . . . . . . . . 7 Conclusioni A Formule utili Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . di Majorana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 68 70 70 71 72 73 73 74 74 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77 77 77 79 79 80 81 81 82 83 84 86 86 86 87 87 88 89 94 95 95 96 98 99 101 105 Capitolo 1 Introduzione Non l’avrei giammai creduto ma farò quel che potrò. Lorenzo Da Ponte Molti elementi portano a credere che la descrizione dello spaziotempo finora adottata vada radicalmente rivista quando si ha a che fare con scale di lunghezza dell’ordine della lunghezza di Planck LP , definita come: r ~G LP = ' 10−33 cm (1.1) c3 L’indizio principale in favore di tale ipotesi viene dall’incompatibilità fra relatività generale e meccanica quantistica, entrambe necessarie trattando di spaziotempo e di piccole distanze. Una delle indicazioni più comuni degli approcci a questo problema è la possibilità di una nuova e più stringente limitazione alla misurabilità di grandezze geometriche. Ad esempio nel caso di intervalli spaziali ci si aspetta [1, 2, 3]: δx & LP (1.2) È interessante notare come (1.2) vada ad inserirsi in una gerarchia di limitazioni sulla misurabilità, stabilite nel corso del tempo con il raffinarsi delle teorie che descrivono il mondo fisico. Nella fisica classica ogni grandezza può in linea di principio essere misurata con precisione arbitraria; i soli ostacoli al raggiungimento di una precisione assoluta nelle misure sperimentali provengono dall’imperfezione dei metodi e degli strumenti usati. Con l’avvento della meccanica quantistica viene persa la possibilità di misurare simultaneamente con precisione assoluta alcune coppie di osservabili; e questo avviene per motivi legati alla struttura della teoria, non per impedimenti pratici. Tuttavia le relazioni di indeterminazione non vietano che una delle due grandezze possa essere misurata con precisione assoluta, naturalmente al 1 2 1. Introduzione prezzo di rinunciare a qualunque informazione sull’altra. Combinando la meccanica quantistica e la relatività ristretta emerge l’impossibilità di localizzare una particella massiva in una regione di dimensioni lineari minori della lunghezza d’onda Compton della particella; le inconsistenze che ne derivano obbligano a passare ad una teoria che tratti in primo luogo di campi, cosı̀ che il numero di particelle possa variare. Infine, come illustrerò in un caso particolare nel capitolo 2, cercando di combinare la meccanica quantistica e la relatività generale emerge naturalmente (1.2), che fissa un limite inferiore assoluto alla misurabilità di una singola grandezza, un intervallo spaziale. Intuitivamente è facile rendersi conto di come una simile limitazione possa derivare da considerazioni di meccanica quantistica e di relatività generale. Da equazioni basilari della meccanica quantistica segue che per ottenere una buona risoluzione su piccole distanze è necessario impiegare particelle di prova di alta frequenza e quindi alta energia per effettuare la misura (in genere si adoperano fotoni a questo scopo). Ma una particella molto energetica genera un intenso campo gravitazionale, che a sua volta modifica la metrica e quindi introduce una nuova fonte di incertezza nella misura. Cosı̀ aumentando l’energia delle particelle di prova si riduce un contributo all’incertezza totale sulla misura, ma inevitabilmente se ne aumenta un altro; in conclusione è facile capire come mai vi sia un minimo assoluto non nullo a questa incertezza. Un altro modo di visualizzare il fenomeno è ricordare che nessuna particella o, in generale, nessun oggetto può essere localizzato in una regione di dimensioni lineari minori del proprio raggio di Schwarzschild, altrimenti si formerebbe un orizzonte degli eventi entro cui la particella di prova sparirebbe, cosı̀ che non sarebbe più possibile effettuare la misura. Anche in questo modo si trova che la precisione delle misurazioni di lunghezza ha un limite inferiore dell’ordine di LP . Seguendo linee di ragionamento analoghe è possibile ricavare un limite inferiore alla precisione di misure di intervalli temporali. Queste argomentazioni molto intuitive possono essere raffinate e rese rigorose, tramite argomenti di varia natura, ma comunque sostanzialmente la conclusione non cambia, ed è sempre simile a (1.2). A volte (1.2) viene portata come evidenza dell’esistenza di una scala fondamentale della natura. Tuttavia sebbene il legame fra i due concetti esista, non necessariamente si tratta di un’implicazione diretta, poiché il contesto da cui emerge (1.2) potrebbe non permettere un’estrapolazione riguardo alle caratteristiche fondamentali dello spaziotempo sottostante. È possibile schematizzare queste limitazioni alla misurabilità di intervalli spaziali e temporali tramite una relazione di indeterminazione spaziotemporale, cioè postulando che le coordinate siano oggetti noncommutanti; l’estensione di concetti geometrici a questo nuovo tipo di coordinate è stato chiamato geometria noncommutativa. La geometria tradizionalmente si occupa delle proprietà dell’insieme di punti che costituiscono lo spazio. Tuttavia è stato osservato che è possibile studiare piuttosto l’algebra di funzioni definite sullo spazio dato e ricavarne tutte le proprietà dello spazio; in particolare è possibile stabilire una corrispondenza biunivoca tra spazi compatti e algebre delle funzioni continue. Nei casi in cui la descrizione dello spa- 1. Introduzione 3 zio è problematica questo procedimento è anche più vantaggioso, poiché l’algebra di funzioni può comunque essere perfettamente definita. È proprio questo il punto di partenza per la geometria noncommutativa: si considera l’algebra delle funzioni differenziabili definite sull’usuale spazio commutativo e poi la si generalizza ad un’algebra noncommutativa; questa generalizzazione non è univoca, ad una stessa algebra commutativa possono corrispondere più algebre noncommutative. Trattando algebre noncommutative si trovano molte strutture e caratteristiche che non hanno analogo nel caso commutativo, e viceversa si perdono alcune nozioni usuali, come quella di punto [4, 5, 6, 7, 8, 9]. In alcuni casi, ad esempio se il commutatore degli operatori x̂ è costante [10] o lineare [11, 12] in x̂, è possibile riformulare ulteriormente la teoria in termini di un’algebra di funzioni commutativa in cui il prodotto puntuale ordinario sia sostituito da un opportuno “star prodotto”, la cui forma esplicita dipende dal tipo di noncommutatività considerato. In questa tesi ho esplorato vari contesti che mostrano indizi in favore di una qualche noncommutatività delle coordinate spaziotemporali, e ho studiato in particolare alcuni aspetti delle teorie di gauge su un tipo di spaziotempo noncommutativo che ha recentemente attratto attenzione, risultando utile in ambito di teorie di stringa. Nella prima parte considero l’analisi della misurabilità di grandezze geometriche fornita dal microscopio di Heisenberg e passo in rassegna alcuni aspetti delle teorie di stringa che suggeriscono una relazione di indeterminazione spaziotemporale. Il microscopio di Heisenberg (che descriverò in dettaglio nel capitolo 2) è uno storico procedimento per lo studio dei limiti sulla misurazione simultanea di grandezze, originariamente ideato appunto da Heisenberg [13, 14]. Consiste nell’osservare un elettrone tramite un microscopio; l’elettrone può essere localizzato con una precisione massima dell’ordine della lunghezza d’onda dei fotoni che lo illuminano. Il fotone diffuso dall’elettrone e poi raccolto nel microscopio trasferisce all’elettrone una parte del proprio impulso per effetto Compton. Ne seguono quindi le relazioni di indeterminazione δxδp ≥ ~ per la posizione e l’impulso dell’elettrone. Tuttavia, come già accennato, questo risultato non pone limiti alla precisione con cui è possibile misurare la posizione dell’elettrone, stabilisce solo che in proporzione l’incertezza sull’impulso aumenta finché la misura dell’impulso perde ogni contenuto fisico. Idealmente, al limite è possibile ottenere una precisione assoluta sulla misura della posizione dell’elettrone, semplicemente facendo crescere all’infinito la frequenza dei fotoni incidenti. Estendendo il ragionamento per includere gli effetti dell’interazione gravitazionale fra particella probe (fotone) e particella target (elettrone) [1, 2, 3] si è trovato un limite alla misura della posizione della particella target del tipo (1.2), che rappresenta un’assunzione comune in gravità quantistica. È interessante allora chiedersi che limitazioni alla localizzazione dell’evento di scattering emergano quando il probe e il target siano tipi diversi di particelle. Questo perché, come esposto da Bohr e Rosenfeld [15, 16], nel dedurre caratteristiche fondamentali di una teoria a partire da esperimenti di scattering (eventualmente gedanken) si deve tener presente che i risultati possono dipendere dal tipo di particella considerata. Generalmente il can- 1. Introduzione 4 didato naturale è il fotone, per le sue caratteristiche che lo rendono maneggevole teoricamente e sperimentalmente; tuttavia non è detto che concettualmente sia questa la scelta migliore. In teorie di stringa questo tipo di analisi è reso ancora più interessante dalla presenza di nuovi tipi di oggetti fondamentali, come le stringhe stesse e le D-particles, di cui darò una definizione nella sezione 2.4. Una serie di noti studi [17, 18, 19, 20] ha permesso di stabilire che tramite scattering di stringhe chiuse è possibile ottenere una localizzazione spaziale dell’ordine della lunghezza di (10) stringa, maggiore di LP (lunghezza di Planck in dieci dimensioni). Recentemente si è osservato [21, 22, 23] che tramite scattering di D-particles è possibile migliorare (10) notevolmente questo limite, ottenendo una localizzazione spaziale minore di LP , e quindi potenzialmente in disaccordo con (1.2). Per verificare quest’ipotesi ho usato D-particles nel microscopio di Heisenberg. Le D-particles sono schematizzabili come particelle massive legate da un potenziale dipendente dalla velocità relativa (in particolare il potenziale si azzera quando questa è nulla). Quindi in preparazione per l’analisi con D-particles nella sezione 2.5 ho considerato il microscopio di Heisenberg in cui il probe e il target sono particelle massive neutre (ordinarie). Ho trovato che la localizzazione dello scattering è meno precisa che nel caso in cui il probe sia un fotone, e ho potuto cosı̀ stabilire che effettivamente il fotone rappresenta il miglior probe, nell’ambito di particelle che interagiscano elettromagneticamente o gravitazionalmente. Nel caso di D-particles si deve però tenere conto della presenza del potenziale che le lega, la cui forma dipende anche dalla supersimmetria. Svolgendo l’analisi del microscopio di Heisenberg per D-particles ho trovato che in effetti (10) la localizzazione spaziale raggiunge scale minori di LP , quindi c’è contrasto con (1.2). Questa maggiore precisione nella definizione di intervalli spaziali è ottenibile solo al prezzo di una localizzazione temporale piuttosto imprecisa. Questi risultati sembrano indicare che l’attenzione vada spostata dalla localizzazione spaziale del target alla localizzazione dell’evento di scattering, generalizzando (1.2) per includere la localizzazione temporale. Esaminati da questo punto di vista i classici risultati di gravità quantistica portano a stabilire un limite del tipo [24]: δxδt & L2P c (1.3) Considerando la localizzazione dell’evento di scattering fra D-particles nell’ambito del microscopio di Heisenberg ho dimostrato che il limite fornito da (1.3) rimane valido, e non viene nemmeno saturato. Queste considerazioni suggeriscono che la geometria noncommutativa abbia un ruolo nella caratterizzazione della struttura fondamentale dello spaziotempo. Ma la noncommutatività può essere rilevante anche per la descrizione di aspetti specifici del sistema studiato. Ad esempio è possibile schematizzare la presenza di un campo esterno tramite una noncommutatività dello spazio sottostante; accennerò a questa descrizione nella sezione 3.1, nel caso semplice di un oscillatore immerso in un campo magnetico [25, 26]. Inoltre, come illustrerò brevemente nella sezione 3.2, la noncommutatività risulta utile anche nella costruzione di teorie di campo effettive 1. Introduzione 5 che descrivono la fisica delle stringhe in un campo esterno ad energie inferiori a L−1 s , dove Ls è la lunghezza di stringa [27, 28, 29, 30, 31]. Nella seconda parte della tesi esamino più in particolare il tipo di geometria noncommutativa rilevante in ambito di teorie di stringa in presenza di campo esterno, quella con struttura canonica, in cui la regola di commutazione tra gli operatori x̂ è data da: [x̂µ , x̂ν ] = iθµν (1.4) dove θµν è una matrice reale, antisimmetrica e costante nelle coordinate. In questo caso è possibile definire uno star prodotto, che deriverò in dettaglio nella sezione 4.1. La noncommutatività delle coordinate fa sı̀ che la moltiplicazione dei campi per le coordinate stesse non sia un’operazione covariante. Nella costruzione di teorie di gauge è utile introdurre delle coordinate covarianti, definite tramite l’aggiunta alle coordinate originarie di un campo di gauge, analogamente al procedimento seguito per ottenere la derivata covariante nelle teorie di campo usuali. Procedendo lungo questa linea per ricavare le trasformazioni dei campi di gauge si trova che, anche nel caso in cui il gruppo di gauge sia U (1), la situazione somiglia molto al caso commutativo nonabeliano: le leggi di trasformazione sono analoghe, di conseguenza l’unitarietà della teoria richiede la presenza dei ghosts, e il campo di gauge, cioè il fotone, interagisce con sé stesso [10, 32]. Dalla nonlocalità della teoria segue l’impossibilità di costruire operatori locali gauge invarianti; si ritrova l’invarianza di gauge integrando su tutto lo spazio (cioè sull’azione e non sulla lagrangiana). È comunque possibile costruire operatori gauge invarianti√quasi locali “spalmando” (smearing) gli operatori locali su una scala dell’ordine di θ, dove θ è il più grande autovalore di θµν [33, 27]. Dalle trasformazioni di gauge segue un’interessante caratteristica di queste teorie: il fotone interagisce anche con i campi neutri, dove questa dicitura indica i campi che nel limite θµν → 0 diventano neutri (fornirò una caratterizzazione più precisa trattando le trasformazioni di gauge). Per poter studiare quantitativamente i diagrammi di Feynman relativi a questa ed altre interazioni ho ricavato le regole di Feynman per scalari neutri, fermioni di Majorana, fotoni e ghost (sezione 5.2). Da alcune proprietà dello star prodotto segue che i propagatori sono gli stessi del caso commutativo; si modificano soltanto i vertici di interazione, che contengono polinomi di funzioni trigonometriche di quantità come pµ θµν qν , dove pµ e q µ sono impulsi entranti nel vertice. Per poter comprendere la struttura dei diagrammi di Feynman su spaziotempo noncommutativo è utile introdurre una distinzione fra diagrammi cosiddetti planari e nonplanari, che definirò precisamente nella sezione 5.1.3. Quantitativamente si trova che i diagrammi planari sono uguali a quelli commutativi, a meno di un fattore di fase globale dipendente dagli impulsi esterni. I diagrammi nonplanari invece hanno fattori di fase dipendenti anche dagli impulsi interni, del tipo exp (ipµ θµν qν ) con pµ impulso del loop e q µ impulso esterno. Questi fattori migliorano la convergenza ultravioletta dei diagrammi nonplanari; tuttavia se q → 0 svaniscono e il diagramma diverge di nuovo, quindi in queste teorie le usuali 6 1. Introduzione divergenze ultraviolette vengono sostituite da divergenze infrarosse [34, 35, 36, 37]. Queste divergenze infrarosse non trovano conferma nei dati sperimentali, quindi il cutoff infrarosso che le regolarizza rappresenta di fatto la scala alla quale queste teorie, se sono rilevanti per la descrizione del mondo fisico, perdono validità. Ho studiato quantitativamente la dipendenza da θµν , ed in particolare la natura della singolarità infrarossa, della self energia di alcune particelle. Dopo aver ripercorso il calcolo a un loop della self energia del fotone [38] ho calcolato la self energia di uno scalare neutro e di un fermione di Majorana; ho trovato che la correzione comprende un cutoff effettivo che dipende dal parametro di noncommutatività θ e dall’impulso esterno. Infine ho utilizzato i risultati per esaminare come vengono modificate le usuali relazioni di dispersione. In particolare ho verificato che la relazione di dispersione del fotone dipende dalla sua polarizzazione [38], e ho trovato che la relazione di dispersione del fermione di Majorana non è tale da modificare la sua massa a riposo, quindi non è possibile dare massa al neutrino tramite questo meccanismo. Notazioni e convenzioni La segnatura dello spaziotempo è (1, −1, −1, −1). Le componenti di un quadrivettore sono contraddistinte da indici greci, µ, ν ∈ [0, 3]; µ = 0 distingue la coordinata temporale. Le componenti di un trivettore sono distinte dagli indici i, j ∈ [1, 3]. D’ora in poi uso le unità naturali, in cui c = ~ = 1. L’incertezza sulla misura della grandezza A è indicata come δA, mentre ∆A indica una variazione di A. Le coordinate operatoriali noncommutanti sono indicate come x̂; in generale le grandezze relative ad una geometria noncommutativa verranno contraddistinte da un cappuccio. Parte I Motivazioni per la noncommutatività dello spaziotempo 7 Capitolo 2 Microscopio di Heisenberg e noncommutatività fondamentale Poliziotto: Heisenberg: Lei sa a che velocità stava andando? No, ma so dove sono. Il microscopio di Heisenberg è un gedanken experiment introdotto da Heisenberg [13] per verificare le relazioni di indeterminazione δxδp ≥ 1 (ricordo che sto usando unità naturali, cioè ~ = c = 1). Un gedanken experiment è un esperimento la cui realizzazione può essere difficoltosa per vari motivi, ad esempio di ordine pratico, ma concettualmente possibile. In tal senso può essere sfruttato per dare una definizione operativa di concetti fisici [14]. Studiando le limitazioni alla misurabilità di grandezze, questo modo di ragionare permette di fare astrazione da problemi pratici e di considerare soltanto le limitazioni imposte dalla fisica del problema e dal procedimento adottato per la misura delle grandezze in questione. Questo significa che le limitazioni ottenute costituiranno in genere un limite inferiore che potrebbe anche non essere raggiungibile in pratica. Naturalmente questo limite è da intendersi valido nell’ambito del procedimento di misura scelto; in generale è possibile che un procedimento diverso permetta di migliorare il risultato ottenuto. In questo capitolo sfrutto lo schema concettuale del microscopio di Heisenberg per verificare le limitazioni alla localizzazione di un evento recentemente ottenute in ambito di teorie di stringa tramite scattering di oggetti presenti nelle teorie, le D-particles [21, 22, 23]. In preparazione a quest’analisi nelle prossime sezioni esamino alcune differenti formulazioni del microscopio di Heisenberg. Nella sezione 2.1 delineo la formulazione originale del microscopio di Heisenberg, in cui la particella probe è un fotone e la particella target un elettrone, e lo scattering fra le due particelle coinvolge solo l’interazione elettromagnetica. In seguito nella sezione 2.2 considero la stessa situazione in cui però non si trascura l’interazione gravitazionale fra probe e target. Siccome le D-particles sono schematizzabili come particelle massive legate 9 I. Motivazioni 10 da un potenziale dipendente dalla velocità relativa, ho voluto controllare i risultati forniti dall’analisi del microscopio di Heisenberg in cui il probe e il target siano particelle massive neutre (sezione 2.5). Infine nella sezione 2.6 applico l’analisi al caso in cui il probe e il target siano D-particles. L’analisi della sezione 2.1 ripercorre l’argomento originale [13, 14]; la sezione 2.2 è basata su quanto esposto in [1, 2, 3], pur con alcuni ampliamenti e precisazioni; invece le analisi delle sezioni 2.5 e 2.6 non sono presenti in letteratura. Il mio obiettivo nello studio dei limiti alla misurabilità di intervalli spaziali e temporali è individuare la dipendenza funzionale di questi limiti da grandezze rilevanti nella particolare situazione fisica considerata. Quindi nelle analisi trascurerò fattori numerici di ordine 1. 2.1 Microscopio di Heisenberg classico Nel microscopio di Heisenberg classico si effettua la misura della posizione di un elettrone osservandolo con un microscopio, che viene schematizzato come una scatola la cui parete di fondo rappresenta una lastra fotografica [13, 14]. Gli assi sono disposti come in figura 2.1; si suppone che l’elettrone si trovi nel piano xy. Per semplicità si analizza la determinazione della sola coordinata x della posizione dell’elettrone; a questo scopo l’apertura tramite cui la luce entra nel microscopio può essere schematizzata come una fessura F di larghezza 2L, come in figura 2.1. z b a x y Figura 2.1: Microscopio di Heisenberg L’elettrone viene illuminato da un fotone di lunghezza d’onda λ che viaggia approssimativamente nella direzione dell’asse x. Il fotone è diffuso per effetto Compton e viene poi raccolto dalla lastra fotografica del microscopio. Tramite la misura della posizione di arrivo del fotone sulla lastra fotografica è possibile risalire alla coordinata x dell’elettrone. 2.1 Microscopio di Heisenberg classico 11 Se l’elettrone restasse fermo in un punto P del piano xy, illuminandolo successivamente con vari fotoni si osserverebbe sulla lastra fotografica del microscopio una figura di diffrazione dovuta alla fessura F . Sopprimendo la coordinata y, la situazione sarebbe quella schematizzata in figura 2.2. La figura di diffrazione sarebbe P’ l’ Q’ z b C a P Q x l Figura 2.2: Microscopio di Heisenberg in sezione centrata in P 0 e il suo massimo avrebbe una larghezza l0 data da: l0 ' λ0 λ0 λ0 b ' = sin β tan β L (2.1) dove λ0 è la lunghezza d’onda del fotone dopo lo scattering, mentre b e β sono definiti in figura 2.2. Proiettando P 0 attraverso il centro C della fessura F sul piano xy si otterrebbe la coordinata x del punto P in cui si trova l’elettrone. Tuttavia dopo lo scattering l’elettrone si sposta, quindi illuminarlo con altri fotoni dopo il primo non servirebbe ad ottenere informazioni sulla sua posizione al momento del primo scattering. Quindi sarà possibile osservare sulla lastra fotografica un solo punto della figura di diffrazione appena descritta, ad esempio Q0 , mentre P 0 non sarà osservabile. Supponendo che Q0 appartenga al massimo della figura di diffrazione, si può affermare che Q0 dista da P 0 meno di l0 . Quindi la proiezione di Q0 sul piano xy, Q, dista da P meno di l, con l data da: λ0 a a l = l0 ' b L (2.2) I. Motivazioni 12 Siccome P corrisponde alla posizione dell’elettrone al momento dello scattering, l rappresenta l’incertezza δx sulla misura della coordinata x dell’elettrone: λ0 a δx ∼ l ' (2.3) L Per effetto Compton parte dell’impulso iniziale del fotone viene trasferito all’elettrone. Dopo lo scattering la componente x dell’impulso dell’elettrone, px , è data da: 1 (2.4) px ' p0x + − p0x λ dove p0x è l’impulso iniziale dell’elettrone lungo x, eventualmente nullo, e p0x è la componente x dell’impulso del fotone dopo lo scattering. La direzione del moto del fotone dopo lo scattering è ignota, tuttavia deve essere tale che il fotone passi per la fessura F del microscopio. Questa non è un’assunzione arbitraria sulle caratteristiche del fotone; equivale semplicemente all’osservazione che se il fotone non viene raccolto nel microscopio la misurazione non è possibile. Tramite questa osservazione è possibile individuare l’incertezza su p0x : 1 1L 1 sin α ' 0 tan α = 0 (2.5) 0 λ λ λ a dove α è definito nella figura 2.2. Per l’incertezza δpx sulla componente x dell’impulso dell’elettrone dopo lo scattering si ha: δp0x ∼ 1L (2.6) λ0 a Quindi per le componenti lungo x della posizione e dell’impulso dell’elettrone si trova: δxδpx ∼ 1 (2.7) δpx ' δp0x ∼ la ben nota relazione di indeterminazione di Heisenberg. Una relazione analoga vale per le componenti lungo y della posizione e dell’impulso dell’elettrone, fin qui trascurate soltanto per semplicità, e immaginando di ruotare l’apparato si vede che è possibile giungere alla stessa conclusione per quanto riguarda le componenti lungo z. Questo risultato stabilisce un limite alla misurabilità simultanea di due grandezze, x e p. Tuttavia, come già sottolineato nell’introduzione, mirando a misurare x con la migliore precisione possibile non si incontrano ostacoli concettuali che impediscano di far tendere δx a zero, sebbene in pratica questo non sarebbe realizzabile. (2.7) implica soltanto che se δx tende a zero δpx cresce sempre più, finché di fatto px non viene misurato. Si nota come per aumentare la precisione della misura di x sia sufficiente aumentare la frequenza del fotone usato come probe, in accordo con quanto noto a proposito della risoluzione dei microscopi. Nella sezione successiva illustrerò come tenendo conto della gravità si trovi un limite inferiore anche alla misurabilità di intervalli spaziali, considerata singolarmente. 2.2. Microscopio di Heisenberg con la gravità 2.2 13 Microscopio di Heisenberg con la gravità In questa sezione ripercorro l’analisi del microscopio di Heisenberg includendo l’interazione gravitazionale tra particella probe (fotone) e particella target (elettrone) [1, 2, 3]. In quanto segue adotto una descrizione semi-newtoniana della gravitazione. A rigore occorrerebbe piuttosto trattare l’interazione gravitazionale secondo le equazioni della relatività generale, tuttavia è stato dimostrato che, dopo calcoli più complessi, una tale descrizione porta a risultati coincidenti con quelli forniti dalla schematizzazione semi-newtoniana [1]. Rispetto all’esempio svolto nella precedente sezione 2.1 ricavo l’espressione esplicita di alcune incertezze in base ad un ragionamento leggermente diverso. Inoltre generalizzo la formulazione del problema, spostando l’attenzione dalla localizzazione della posizione della particella target alla localizzazione dell’evento di scattering tra probe e target, e considerando anche altre fonti di incertezza rilevanti per la misura. Comunque non tengo conto di tutte le incertezze che influenzano la precisione della misura, ma soltanto di quelle che descrivono gli aspetti cruciali del sistema fisico in questione e del procedimento di misurazione adottato. In questo modo è possibile che il limite inferiore all’incertezza sulla localizzazione dell’evento di scattering venga in realtà sottostimato. Mentre sarebbe senza dubbio preferibile ottenere una stima precisa di tale limite, l’eventualità che venga sottostimato non è molto preoccupante, poiché verrebbe comunque determinata un’inevitabile incertezza di natura fondamentale, anche se poi l’incertezza minima effettivamente ottenibile dovesse essere sempre maggiore di questa. Comunque non si tratta di un’eventualità molto probabile, poiché i contributi all’incertezza che ho considerato sembrano essere i più significativi ai fini della determinazione di questo limite inferiore. D’altro canto si potrebbe immaginare che il limite inferiore venga sovrastimato a causa di caratteristiche intrinseche del procedimento di misura impiegato. Questa possibilità, che metterebbe in dubbio la bontà della scelta del metodo da seguire per studiare la localizzazione di eventi, è fortunatamente remota, come risulta dalle conclusioni della vasta letteratura dedicata al microscopio di Heisenberg [1, 2, 3], e anche dal fatto che trascurando l’interazione gravitazionale tra probe e target il microscopio di Heisenberg fornisce per la relazione di indeterminazione tra x e p il corretto limite inferiore (v. (2.7) nella sezione 2.1). In ogni caso nell’ambito del microscopio di Heisenberg stesso le conclusioni ottenute dipendono in modo essenziale dal tipo di particelle scelte come probe e target; questo aspetto del problema sarà evidente nelle sezioni successive, in cui ripeterò l’analisi con differenti tipi di probe e target. In questa sezione la particella probe è un fotone e la particella target è un elettrone, tuttavia svolgo l’analisi in termini di probe e target genericamente per stabilire un linguaggio che sarà utile negli esempi considerati nelle sezioni successive. Segnalerò comunque i punti in cui le proprietà specifiche del probe e del target impiegati portano a conseguenze particolari. I. Motivazioni 14 Continuando a tralasciare la direzione y cerco di individuare con che precisione è possibile misurare X e T , coordinate dell’evento di collisione fra probe e target. La coordinata X viene ottenuta a partire dalla misura della posizione di arrivo della particella probe sulla lastra fotografica del microscopio; la coordinata T viene ricavata dalla relazione: T ' ti + X (2.8) dove ti è l’istante iniziale dell’esperimento, cioè quello in cui la particella probe viene sparata verso il target, e dove si è sfruttato il fatto che in questo caso il probe è un fotone, con velocità fissa e pari a 1 (in unità naturali). Le incertezze sulla misura di X e T , rispettivamente δX e δT , possono essere espresse cosı̀: δX & δXc + δx0 + dmin + δxp + δxt δT & δti + δX (2.9) (2.10) dove: δXc è l’errore di tipo classico dovuto alla larghezza finita della fenditura del microscopio; δx0 è l’errore dovuto alla larghezza del pacchetto d’onda del probe, di origine quantistica; dmin è la distanza minima a cui probe e target vengono a trovarsi, che può essere anche minore di δx0 (se dmin è definito come la distanza fra i centri dei due pacchetti d’onda); δxp è l’errore dovuto all’incertezza di tipo quantistico nella determinazione della posizione del probe all’istante di collisione, ricavabile dalla condizione che il probe debba passare attraverso la fenditura; δxt è l’errore dovuto all’incertezza nella determinazione della posizione del target all’istante di collisione; δti è l’errore sulla misura dell’istante di partenza del probe. Volendo controllare se è possibile misurare X con una precisione δx∗ dell’ordine della lunghezza di Planck LP si deve scegliere: δx0 . δx∗ ∼ LP dmin . δx∗ ∼ LP (2.11) Il probe ha quindi queste caratteristiche: δx0 . LP δp0p ∼ 1 δx0 (2.12) dove p0p è l’impulso iniziale del probe, la cui incertezza è δp0p . La determinazione di una grandezza A può avere senso solo se A & δA. In questo caso, dalla richiesta 2.2. Microscopio di Heisenberg con la gravità 15 b L a d Xc Figura 2.3: Incertezza di tipo classico p0p &δp0p segue che p0p è piuttosto grande: p0p &δp0p ∼ δx−1 & EP , dove EP indica 0 l’energia di Planck. δXc è indicato nella figura 2.3, e vale: δXc = L a+b b (2.13) Considero ora la determinazione di δxp . Questo contributo a δX è chiaramente legato all’incertezza del momento p0p del probe all’istante in cui il probe stesso raggiunge la fenditura. Una buona stima di p0p è [1, 3]: p0p ∼ pp (2.14) A rigore bisognerebbe considerare anche un altro contributo a p0p , dovuto al trasferimento di impulsi tra probe e target mediato dalla loro interazione gravitazionale. Tuttavia ai fini della valutazione dell’incertezza su p0p questo secondo contributo è trascurabile. Infatti l’impulso trasferito ad un dato istante tra probe e target può essere stimato in questo modo: ∆pp (t) ' Gpp mt d (t) (2.15) dove d (t) è la distanza fra probe e target all’istante t. Chiaramente vale: ∆pp (t) . Gpp mt dmin (2.16) e quindi ∆pp è trascurabile rispetto a pp , poiché: pp & Gpp mt dmin (2.17) I. Motivazioni 16 La validità di (2.17) risulta ovvia osservando che la distanza minima fra probe e target deve essere maggiore del raggio di Schwarzschild del target, cioè: dmin & Gmt = L2P mt (2.18) (a meno di un irrilevante fattore 2). Perché il probe possa essere rivelato dal microscopio deve valere: L (2.19) a dove α è definito in figura 2.2. Questo nel caso in cui la traiettoria seguita dal probe dopo lo scattering sia perfettamente verticale, caso che consente il maggiore (δpp )x . Tramite la relazione di indeterminazione di Heisenberg si trova infine: (δpp )x ≈ pp sin α ' pp tan α = pp δxp & 1 (2.20) pp La Il δxp appena calcolato si riferisce alla coordinata x del probe nell’istante in cui quest’ultimo raggiunge la fenditura del microscopio. È facile convincersi che l’incertezza sulla coordinata x del probe all’istante della collisione sarà ben stimata da δxp . Infatti è lecito assumere che a, e in generale ogni altra dimensione lineare dell’apparato di misura, sia estremamente piccola rispetto alle enormi distanze necessarie per osservare un allargamento significativo di un pacchetto d’onda [39]. Infine occorre identificare δxt , ovvero l’errore dovuto all’incertezza nella determinazione della posizione del target all’istante di collisione. Come già osservato, l’interazione gravitazionale causa un trasferimento d’impulso fra probe e target, significativo soprattutto quando le due particelle sono vicine. Perciò, per la conservazione dell’impulso, alla variazione dell’impulso del probe definita in (2.15), ∆pp (t), corrisponde un’uguale variazione dell’impulso del target, ∆pt : ∆pt (t) ' ∆pp (t) ' Gpp mt d (t) (2.21) Nello scattering al target sarà trasferita anche una frazione dell’impulso iniziale del probe, che quantitativamente dipenderà dalla direzione presa dal probe dopo lo scattering. Tuttavia nel valutare δxt non ne tengo conto, poiché l’errore dovuto al fatto che non si conosce la direzione presa dal probe dopo lo scattering è stato già preso in considerazione nel calcolo di δxp , il contributo che porterebbe nel calcolo di δxt sarebbe dello stesso ordine, e nell’ottica di puntare soltanto a valutare gli ordini di grandezza un fattore 2 non può essere rilevante. Inoltre a questo stadio interessa individuare il contributo dovuto all’interazione gravitazionale fra probe e target. Posso quindi stimare l’incertezza (δpt )x (t) sulla componente x dell’impulso del target ad un dato istante a partire da (2.21), e poi ricavarne l’incertezza (δvt )x (t) sulla componente x della velocità del target: (δvt )x (t) = (δpt )x (t) ∆pp (t) L ' mt mt a (2.22) 2.2. Microscopio di Heisenberg con la gravità 17 δxt è dato dall’integrale di (δvt )x dall’istante iniziale dell’esperimento, ti , all’istante T della collisione. Ma poiché (δvt )x (t) è proporzionale all’inverso di d (t), il maggior contributo a δxt viene da un piccolo intervallo temporale precedente T . Ne segue che si può stimare δxt in questo modo: ¯ ¯ ¯ Z T Z T ¯ ∆pp (t) ¯ L L ∆pp (t) ¯¯ ¯ ¯ |(δvt )x |dt ' dmin δxt ≥ (2.23) ¯ mt ¯ a dt ∼ mt ¯ a T −dmin T −dmin dmin e quindi si trova che δxt può essere approssimato come: ¯ ∆pp (t) ¯¯ L Gpp L L dmin ' dmin = Gpp δxt ∼ ¯ mt dmin a dmin a a (2.24) A questo punto posso dare una valutazione quantitativa per δX: δX & δXc + δx0 + dmin + δxp + δxt & δXc + δx0 + dmin + 1 pp La + Gpp L a (2.25) δXc dipende dalla struttura del microscopio, δx0 e dmin dalle caratteristiche cinematiche del probe e del target, e vengono scelte appositamente nel tentativo di ottenere il δx∗ prefissato. Quindi per verificare che il limite di precisione richiesto può essere effettivamente raggiunto basta controllare il comportamento delle ultime due fonti di incertezza, le sole ad avere un andamento opposto. Il minimo contributo che queste due fonti di incertezza portano è: s 1 L min (δxp + δxt ) = (2.26) Gpp = LP L a pp a Quindi si vede che cercare di prendere δx0 e dmin minori di LP non ha molto significato, poiché comunque δxp e δxt portano un errore almeno dell’ordine della lunghezza di Planck. In conclusione verifico che è possibile raggiungere la precisione richiesta di LP , ma non ottenere di meglio: δX & LP (2.27) Per quanto riguarda l’incertezza su T : δT & δti + δX & LP (2.28) Il risultato sorprendente è che tenendo conto dell’interazione gravitazionale fra probe e target emerge un limite inferiore assoluto alla misurabilità di intervalli spaziali, senza che venga specificato nulla sulla misurabilità simultanea di altre grandezze. In quest’ottica si nota come, a differenza del caso della precedente sezione 2.1, aumentare la frequenza del fotone che fa da probe non migliora affatto la precisione della misura di X. Come già osservato nell’introduzione, fisicamente questo fenomeno si spiega osservando che un fotone di energia maggiore può risolvere distanze più 18 I. Motivazioni piccole, però genera un campo gravitazionale più forte, che disturba maggiormente il target e introduce un’altra fonte di incertezza. Il risultato (2.27) è comunemente accettato nell’ambito delle teorie di gravità quantistica; è supportato da argomentazioni di varia natura, anche al di fuori di fenomeni di scattering [1, 2, 3]. Quindi in questo caso si può ragionevolmente supporre che il risultato ottenuto non dipenda in maniera essenziale dal procedimento di misura impiegato. Benché non sempre all’analisi di δX vengano accompagnate considerazioni su δT , anche (2.28) trova conferma nella letteratura [1, 2, 3]. 2.3. Argomenti di Bohr e Rosenfeld 2.3 19 Argomenti di Bohr e Rosenfeld Nella precedente sezione 2.2 ho studiato l’apparato concettuale del microscopio di Heisenberg, adoperando un fotone come probe e un elettrone come target e tenendo conto della loro interazione gravitazionale, ed ho trovato una limitazione alla localizzazione dell’evento di scattering del tipo [1, 2, 3]: δX & LP (2.29) δT & LP (2.30) Come già osservato all’inizio della sezione 2.2, vi sono vari motivi per credere che un differente procedimento di misura non permetterebbe di migliorare sostanzialmente la stima di δX e δT . Tuttavia, nell’ambito del microscopio di Heisenberg varie scelte di probe e target potrebbero portare a risultati notevolmente diversi. Rispetto a questo problema è interessante ripercorrere gli argomenti esposti in uno storico articolo di Bohr e Rosenfeld [15, 16]. Studiando il problema della misurazione dell’intensità del campo elettromagnetico tramite una particella di prova nell’ambito della meccanica quantistica, Bohr e Rosenfeld hanno concluso che a tale misura è associata un’incertezza proporzionale a q/mi , dove q e mi sono rispettivamente la carica elettrica e la massa (inerziale) della particella di prova. Questa incertezza sull’intensità del campo elettromagnetico non rientra nell’usuale apparato concettuale della meccanica quantistica. Infatti, come già sottolineato, la meccanica quantistica prevede limitazioni alla misurabilità di osservabili solo tramite le relazioni di indeterminazione, che impediscono di misurare con precisione assoluta coppie di osservabili simultaneamente, ma non le stesse osservabili prese singolarmente. Dall’analisi di Bohr e Rosenfeld risulta che il limite alla misurabilità del campo elettromagnetico scompare soltanto se: q →0 (2.31) mi A rigore lo schema concettuale della meccanica quantistica, in cui le limitazioni sulla misurabilità sono stabilite solo dalle relazioni di indeterminazione, ha piena validità soltanto nel limite (2.31), che corrisponde al limite in cui l’apparato di misura (che in questo caso coincide con la particella di prova) diventa classico. Questa osservazione sembra minare alla base la coerenza logica dell’elettrodinamica quantistica, poiché non esistono in natura particelle che soddisfino (2.31), visto che una particella di prova che debba misurare l’intensità del campo elettromagnetico deve avere necessariamente carica elettrica non nulla e quindi, secondo (2.31), dovrebbe avere massa inerziale infinita. Tuttavia, come osservato da Bohr e Rosenfeld, questo problema non sminuisce in nessun modo la validità della meccanica quantistica come teoria che descriva la natura. Infatti, poiché si tratta di una teoria che non predice i propri costituenti fondamentali (si limita a descrivere correttamente il compor- I. Motivazioni 20 tamento di quelli esistenti), l’elettrodinamica quantistica in linea di principio non vieta l’esistenza di particelle che soddisfino il limite (2.31)1 . Questo esempio chiarisce come per verificare la coerenza logica di una teoria che non predica i propri costituenti sia importante considerare probes dalle caratteristiche più svariate e soprattutto non necessariamente esistenti in natura, mentre se una teoria predice i propri costituenti è sufficiente controllarne la coerenza logica su quei costituenti stessi. Attualmente fra le teorie che sembrano plausibili candidati per una teoria della gravità quantistica ve ne sono alcune, come le teorie di stringa, che predicono i propri costituenti fondamentali. Ma in generale non è chiaro se una buona teoria della gravità quantistica debba necessariamente predire i propri costituenti o meno. In quest’ottica è necessario procedere lungo una linea più generale possibile, e studiare ad esempio quali informazioni provengono da costituenti elementari predetti da alcune teorie ma ancora non osservati sperimentalmente. Esempi di tali costituenti elementari, la cui esistenza viene predetta all’interno delle teorie di stringa, sono le stringhe stesse e le D-particles. È interessante quindi studiare che limitazioni alla misurabilità di eventi derivano dalle caratteristiche di questi nuovi oggetti; i risultati potrebbero rivelarsi utili non solo per comprendere la struttura delle teorie di stringa, ma anche per verificare la coerenza di teorie che non predicono i propri costituenti fondamentali. Nelle prossime sezioni, dopo aver passato in rassegna alcuni argomenti che si basano su stringhe e D-particles per derivare limitazioni alla misurabilità di eventi, svolgo l’analisi del microscopio di Heisenberg in cui il probe e il target sono D-particles, trovando una limitazione alla localizzazione dell’evento di scattering in accordo con risultati precedenti ottenuti seguendo un procedimento diverso. 1 È interessante notare come nel caso del campo gravitazionale il principio di equivalenza fissi ad uno l’analogo della quantità q/mi , cioè mg /mi (dove mg e mi indicano rispettivamente la massa gravitazionale e inerziale della particella di prova), che quindi non può mai tendere a zero [24, 12, 2]. Questo significa che il limite in cui lo strumento di misura diventa classico non è mai raggiungibile, ed è una forte indicazione del fatto che costruendo una teoria della gravità quantistica non si possa semplicemente cercare di fondere la meccanica quantistica e la relatività generale, procedendo sulla falsariga di una delle due teorie, ma ci si debba aspettare l’apparire di strutture completamente nuove [24, 12]. 2.4. Lunghezza minima in stringhe 2.4 21 Lunghezza minima in stringhe In questa sezione passo brevemente in rassegna alcuni argomenti presenti in letteratura a proposito del ruolo di una lunghezza minima nelle teorie di stringa. In entrambi gli esempi che considero, la lunghezza minima di cui si tratta viene individuata nell’ambito delle dimensioni della regione di collisione di un processo di scattering. Come già osservato nell’introduzione, non necessariamente una lunghezza minima determinata in questo modo si presta ad essere identificata con una lunghezza fondamentale della natura. Il primo esempio è lo scattering di stringhe chiuse, studiato in una serie di famosi articoli [17, 18, 19, 20]. Nel limite di alta energia le dimensioni della regione di collisione e l’impulso delle stringhe sono legati da questa relazione: δx & 1 + L2s δp δp (2.32) dove Ls è la lunghezza di stringa. Ne segue: min δx ∼ Ls (2.33) La conclusione è quindi che la minima dimensione lineare della regione di collisione in uno scattering tra stringhe chiuse è dell’ordine della lunghezza di stringa Ls . Uno degli elementi fondamentali che portano a questo risultato è una caratteristica specifica delle stringhe: il fatto che per energie vicine a L−1 s le loro dimensioni lineari crescono al crescere dell’impulso. Poiché le stringhe sono oggetti estesi, la scala delle regioni di spazio che riescono a risolvere dipende non solo dalla loro energia, come accadrebbe per una particella puntiforme, ma anche dalla loro estensione. È ora immediato capire come mai ne risulti un minimo alla localizzazione di regioni di spazio: per energie vicine a L−1 s , al crescere dell’impulso la migliore risoluzione sarà compensata da un aumento delle dimensioni lineari della stringa. Nella formulazione tradizionale delle teorie di stringa ci sono due tipi di componenti fondamentali: le stringhe chiuse e le stringhe aperte. Si è però recentemente scoperto che gli estremi delle stringhe aperte sono fissati su dei difetti topologici chiamati D-brane, dove la D sta per Dirichlet, per indicare che corrispondono a condizioni al bordo di Dirichlet per le stringhe aperte. Le D-brane hanno dimensioni variabili da zero al numero di dimensioni dello spazio meno uno. Malgrado il loro ruolo originario fosse soltanto quello di rappresentare le condizioni al bordo per le stringhe aperte, si è trovato che le D-brane sono esse stesse oggetti dinamici. In particolare, le D-brane di dimensione zero (D0 brane o D-particles) sono di tipo solitonico, quindi racchiudono informazioni sugli aspetti nonperturbativi della teoria, e a grande distanza l’una dall’altra possono essere trattate come usuali particelle [40, 41, 42]. In [21, 22] viene considerato uno scattering di D-particles nella teoria IIA in dieci dimensioni, e studiata la dimensione minima della regione di collisione. Considerando gs ¿ 1, cioè il caso perturbativo, è possibile stabilire una gerarchia di I. Motivazioni 22 scale: (10) LP 1 ∼ gs4 Ls ¿ Ls (2.34) (10) dove LP è la lunghezza di Planck in dieci dimensioni. Al fine di studiare lo scattering di D-particles nel limite di piccola costante di accoppiamento e bassa velocità relativa, è sufficiente adottare una descrizione semplificata delle D-particles che ne includa soltanto alcune proprietà essenziali. La massa delle D-particles è: m= 1 gs Ls (2.35) La gravitazione si compensa con una corrispondente interazione dovuta alla supersimmetria, lasciando un’interazione residua del tipo: µ 6 10 ¶ v4 v Ls 6 U ∼ −Ls (2.36) 7 +O (r (t)) (r (t))11 dove v è la velocità relativa delle due D-particles; ne segue che due D-particles con velocità relativa nulla non interagiscono affatto. Questa approssimazione di U omette contributi di ordine: v 6 L10 s (2.37) (r (t))11 quindi è valida se: v 2 L4s .1 (r (t))4 cioè per distanze tali che: r (t) & √ vLs (2.38) (2.39) Studiando lo scattering di due D-particles nell’ambito di queste approssimazioni si trova [21, 22] che la dimensione minima della regione di collisione è data da: 1 δx∗ ∼ gs3 Ls (2.40) Nelle prossime sezioni studio il ruolo di questo risultato nella determinazione dei limiti alla localizzazione di un evento spaziotemporale. A questo scopo nella sezione 2.6 analizzo una versione del microscopio di Heisenberg in cui il probe e il target sono D-particles. In preparazione a questa analisi, nella prossima sezione studio il microscopio di Heisenberg adoperando particelle massive neutre come probe e target. 2.5. Microscopio di Heisenberg con particelle massive neutre 2.5 23 Microscopio di Heisenberg con particelle massive neutre In questa sezione applico lo schema concettuale del microscopio di Heisenberg al caso in cui sia il probe che il target sono particelle massive neutre, con masse mp e mt rispettivamente; per generalità scelgo mp 6= mt . Svolgo quest’analisi in preparazione a quella della prossima sezione 2.6, poiché le D-particles possono essere schematizzate come particelle massive legate da un particolare potenziale. In questo caso l’unico potenziale in gioco è quello gravitazionale, quindi confrontando le conclusioni ottenute in questa sezione con quelle della sezione 2.6 sarà possibile individuare qual è il ruolo del potenziale in questione nel determinare le limitazioni alla misurabilità dell’evento di scattering. Il ragionamento procede come nella sezione 2.2, con la differenza che in questo caso la velocità del probe non è più fissa e pari a 1, e questo porterà a conseguenze notevoli. La coordinata X dell’evento di scattering viene ricavata a partire dalla posizione di arrivo del probe sulla lastra fotografica del microscopio, e la coordinata T viene ottenuta tramite questa relazione: T ' ti + X vp (2.41) dove vp è la velocità di partenza del probe. Le incertezze su X e T sono date da: δX & δXc + δx0 + dmin + δxp + δxt δT & δti + δX X + 2 δvp vp vp (2.42) (2.43) dove δXc , δx0 , dmin , δxp , δxt , δti sono stati definiti nella precedente sezione 2.2, a pagina 14, e δvp è l’incertezza sulla velocità di partenza del probe. Di nuovo punto ad ottenere δx∗ ∼ LP , quindi deve essere: δx0 . δx∗ ∼ LP dmin . δx∗ ∼ LP (2.44) Ne segue che le caratteristiche del probe sono: δx0 . LP vp < 1 δvp ∼ (2.45) 1 mp δx0 Si nota che l’incertezza sulla velocità del probe è molto grande: δvp ∼ (mp δx0 )−1 ∼ (mp LP )−1 = EP /mp , dove EP è l’energia di Planck. Poiché vp < 1 la richiesta di consistenza vp & δvp può essere soddisfatta solo se mp & EP . I. Motivazioni 24 L’incertezza classica δXc , dipendendo soltanto da caratteristiche strutturali del microscopio, è ancora (v. (2.13)): δXc = L a+b b (2.46) Per prima cosa determino δxp , cioè l’incertezza nella determinazione della posizione del probe all’istante di collisione. Ricordando il ragionamento svolto a questo proposito nella sezione 2.2, se l’interazione gravitazionale con il target non disturba troppo il moto del probe, cioè se: pp & ∆pp (t) (2.47) dove ∆pp (t) è la variazione dell’impulso del probe dovuta all’interazione gravitazionale, si può stabilire che: p0p ∼ pp (2.48) dove p0p è l’impulso del probe dopo lo scattering, e concludere (v. la sezione 2.2): δxp & 1 pp La (2.49) Occorre quindi controllare se (2.47) rimane valida anche in questo caso. Prima di tutto occorre stimare ∆pp (t). Indicando con Ep l’energia totale del probe e con U (t) l’energia potenziale gravitazionale dovuta all’interazione con il target, si ha: p2p E p = mp + + U (t) 2mp ne segue: (2.50) q pp = quindi: 2mp (Ep − U (t) − mp ) ∂pp mp =− ∂U pp (2.51) (2.52) da cui si ricava ∆pp : ∆pp ' − mp mp Gmt mp Gmt mp ∆U ∼ = pp pp dmin vp dmin (2.53) in cui l’approssimazione ∆U ∼ Gmt mp /dmin descrive correttamente l’ordine di grandezza della variazione dell’energia potenziale gravitazionale in un piccolo intervallo temporale precedente T . Osservando che la distanza minima fra probe e target deve essere maggiore del raggio di Schwarzschild del target, cioè: dmin & Gmt = L2P mt (2.54) 2.5. Microscopio di Heisenberg con particelle massive neutre ottengo: ∆pp ≈ Gmt mp mp . vp dmin vp 25 (2.55) Poiché vp < 1, non si trova (2.47) ma: pp ∼ ∆pp (t) (2.56) Nell’ottica di valutare soltanto gli ordini di grandezza questo implica comunque: p0p ∼ pp (2.57) In tal caso è possibile ripetere i passaggi svolti nella sezione 2.2, ottenendo: δxp & 1 (2.58) pp La Rimane comunque da notare che nel caso in cui il probe non sia un fotone ma una particella massiva neutra generica l’interazione gravitazionale con il target disturba molto di più il suo moto. Le relazioni precedenti indicano che questo disturbo diventa sempre più trascurabile al crescere di vp , com’è ragionevole aspettarsi. Infine stimo δxt , che rappresenta l’incertezza nella determinazione della posizione del target all’istante di collisione. Ragionando come nella sezione 2.2 si trova: ¯ ∆pp (t) ¯¯ Gmp dmin L Gpp L dmin L δxt ∼ ' = 3 (2.59) ¯ mt dmin vp a vp dmin vp a vp a In totale, l’incertezza sulla coordinata X dell’evento di collisione è: δX & δXc + δx0 + dmin + δxp + δxt & δXc + δx0 + dmin + 1 pp La + Gpp L vp3 a (2.60) Poiché δXc , δx0 e dmin dipendono dalle condizioni sperimentali fissate, il minimo δX va cercato minimizzando il contributo di δxp e δxt : s LP 1 Gpp L = 3 > LP min (δxp + δxt ) = (2.61) L 3 pp a vp a v2 p Siccome vp < 1 non è possibile ottenere che δX sia dell’ordine del δx∗ ∼ LP prefissato. −3 Mirando allora ad ottenere δx∗ ∼ LP vp 2 : − 32 δx0 ∼ LP vp − 32 dmin ∼ LP vp (2.62) I. Motivazioni 26 L’incertezza sulla velocità iniziale del probe diventa: δvp ∼ 1 EP 32 ∼ vp mp δx0 mp (2.63) in questo caso è possibile ottenere vp > δvp anche se mp < EP . δXc , δxp e δxt rimangono inalterate, quindi si ha: − 32 δX & LP vp (2.64) Per quanto riguarda δT : δT & δti + δX X δX −1 −1 + 2 δvp ∼ δti + + Xvp 2 & Xvp 2 vp vp vp (2.65) Si vede che δT può essere enorme, poiché X è dell’ordine almeno del centimetro e vp < 1. La precisione delle misure in X e in T aumenta al crescere di vp , ma comunque δT resta piuttosto grande. Nel caso in cui il probe è un fotone, invece, il limite inferiore su δX è meno forte poiché vp = 1, e δT è dell’ordine di δX soprattutto grazie a δvp = 0. Si nota quindi che non c’è alcun miglioramento rispetto al caso in cui il probe è un fotone. Ne segue che in generale, nell’ambito di particelle puntiformi che interagiscono elettromagneticamente o gravitazionalmente, il fotone è senza dubbio il miglior candidato per il ruolo di probe. Tuttavia questo non garantisce che il fotone sia la scelta migliore anche quando l’interazione fra probe e target sia di tipo diverso. I risultati (2.64) e (2.65) trovano poco riscontro nella letteratura, poiché raramente vengono impiegate particelle massive neutre per esaminare le limitazioni alla localizzazione di eventi, a causa dell’assunzione (tacita, ma confermata da (2.64)) che il fotone sia una scelta migliore. Un’importante eccezione è costituita dagli studi sull’esperimento (gedanken) di Salecker-Wigner [24, 43]. La limitazione alla localizzazione di eventi ottenuta in [24] utilizzando particelle massive neutre nello schema di Salecker-Wigner concorda qualitativamente con (2.64) e (2.65). Infatti, sebbene l’espressione esplicita di δX e δT sia leggermente diversa, viene confermata la conclusione che particelle neutre che interagiscano solo gravitazionalmente non sono probes migliori del fotone. 2.6. Microscopio di Heisenberg con D-particles 2.6 27 Microscopio di Heisenberg con D-particles In questa sezione applico l’analisi del microscopio di Heisenberg al caso in cui il probe e il target sono D-particles, per stabilire se nell’ambito di quest’apparato concettuale è possibile confermare le conclusioni ottenute in [21, 22, 23], illustrate nella sezione 2.4. Considero il regime perturbativo: gs ¿ 1 in cui vale: (10) LP (2.66) 1 ∼ gs4 Ls ¿ Ls (2.67) Come già osservato nella sezione 2.4, è possibile adottare una schematizzazione semplificata delle D-particles, in cui la loro massa è data da: m= 1 gs Ls (2.68) quindi in questo caso mp = mt = m. Inoltre, finché la distanza r (t) fra le due D-particles è maggiore di un dmin cosı̀ definito: √ r (t) > dmin ' vp Ls (2.69) è possibile schematizzare il potenziale fra due D-particles che si muovono con velocità relativa vp nel modo seguente: U ∼ −L6s vp4 (r (t))7 (2.70) Come nelle sezioni precedenti, la coordinata X dell’evento di scattering viene ricostruita a partire dalla posizione di arrivo del probe sulla lastra fotografica del microscopio, e la coordinata T viene ricavata da: T ' ti + X vp (2.71) Per quanto riguarda le incertezze sulla misura di X e T si ha: δX & δXc + δx0 + dmin + δxp + δxt δT & δti + δX X + 2 δvp vp vp (2.72) (2.73) dove i vari simboli sono stati definiti a pagina 14 e 23. La conclusione di [21, 22, 23] è che le D-particles permettono di ottenere una 1 (10) localizzazione spaziale dell’ordine di gs3 Ls ¿ LP . Per verificare questo risultato miro ad ottenere: 1 (2.74) δx∗ ∼ gs3 Ls I. Motivazioni 28 Deve comunque essere: δx∗ & dmin ' √ vp Ls (2.75) perché la descrizione del potenziale fra D-particles qui adottata richiede [21, 22] la condizione (2.69). Il probe ha le caratteristiche: 1 δx0 ' δx∗ ∼ gs3 Ls δvp ' 2 1 ∼ gs3 mδx0 (2.76) Dalla richiesta vp & δvp e dalla condizione (2.75) segue una condizione per vp : 2 vp ∼ gs3 (2.77) Avendo cosı̀ determinato δx0 , dmin e ricordando che vale sempre: δXc = L a+b b (2.78) si può passare ad stimare δxp e δxt , che rappresentano rispettivamente le incertezze sulla posizione del probe e del target all’istante di collisione. Per poter determinare δxp la prima cosa da verificare è se in questo caso vale la condizione: pp & ∆pp (t) (2.79) Per determinare ∆pp procedo come nella precedente sezione 2.5. Indicando con U l’energia potenziale gravitazionale e con Ep l’energia totale del probe, si ha: Ep = m + p2p +U 2m (2.80) e ∆pp può essere valutato cosı̀: ∆pp = − vp3 m ∆U ≈ L6s 7 pp dmin (2.81) Utilizzando le condizioni (2.69) e (2.77) su dmin e vp si può notare che: vp3 6 Ls 7 dmin 1 ∼ 1 3 (2.82) gs Ls d’altronde: 1 (2.83) gs Ls Quindi, come già succedeva nel caso delle particelle massive neutre, non si trova (2.79) ma pp ∼ ∆pp , poiché l’interazione gravitazionale con il target modifica la pp = mvp ∼ 1 3 2.6. Microscopio di Heisenberg con D-particles 29 traiettoria del probe in modo rilevante. In ogni caso, con un ragionamento analogo a quello esposto nella sezione 2.5, si può concludere anche stavolta: δxp & 1 (2.84) pp La Per determinare δxt procedo come nei casi precedenti, poiché il ragionamento non si basa in modo essenziale sul tipo specifico di probe e target considerati. Ottengo cosı̀: ¯ L6s vp2 L dmin L ∆pp (t) ¯¯ L6s vp4 dmin L 1 L δxt ∼ ' = ' (2.85) 7 6 ¯ m dmin vp a pp dmin vp a mdmin a mvp a In conclusione, la precisione sulla misura della coordinata X è: δX & δXc + δx0 + dmin + δxp + δxt & δXc + δx0 + dmin + 1 1 L + (2.86) L mvp a mvp a Per valutare il limite inferiore di δX stimo il minimo contributo delle due ultime fonti di incertezza, le sole che non dipendano dalla struttura del microscopio né da caratteristiche cinematiche delle particelle considerate: s 1 1 1 L 1 min (δxp + δxt ) = = ∼ gs3 Ls (2.87) L mvp mvp a mvp a quindi: 1 δX & gs3 Ls (2.88) 1 3 È possibile soddisfare la richiesta iniziale δx∗ ∼ gs Ls . Tuttavia osservando che forma hanno δxp e δxt è facile capire che non sarebbe possibile raggiungere un δx∗ più basso. Per quanto riguarda l’incertezza sulla misura della coordinata T, ricordando: δT & δti + δX Xδvp + 2 vp vp (2.89) e osservando: δti ∼ 1 1 −1 ∼ ∼ gs 3 Ls δEp mvp δvp δX −1 ∼ gs 3 Ls vp si può stabilire sicuramente: −1 δT & gs 3 Ls (2.90) (2.91) I. Motivazioni 30 Il risultato (2.88) coincide esattamente con quello stabilito in [21, 22, 23] e anche con quello ottenuto nell’ambito dell’esperimento di Salecker-Wigner [24]. Sembra quindi un risultato su cui si possa fare affidamento. Viene cosı̀ confermata l’ipotesi che tramite D-particles sia possibile ottenere una localizzazione spaziale su scale minori della lunghezza di Planck in dieci dimensioni, poiché: 1 1 (10) min δX ∼ gs3 Ls ¿ gs4 Ls ∼ LP (2.92) dato che gs ¿ 1. Tuttavia (2.92) è in forte contrasto con l’opinione diffusa nella letteratura di gravità quantistica, in cui si assume: min δX ∼ LP (2.93) e generalmente non si controlla la forma di δT . Ma negli esempi delle sezioni 2.2, 2.5 e 2.6 l’analisi è stata svolta considerando la localizzazione di un evento nello spaziotempo. Per semplicità ho tenuto conto di una sola coordinata spaziale, ma questo non toglie nulla alla sostanza dell’argomento, che suggerisce di non trattare separatamente la misurabilità di intervalli spaziali e temporali. A questo punto appare arbitrario definire la localizzazione soltanto sulla base della misurabilità della coordinata spaziale, come in (2.93). Introducendo invece una condizione del tipo: δXδT & L̄2 (2.94) l’apparente contraddizione fra (2.93) e (2.88) scompare. Infatti una condizione di questo genere viene soddisfatta in tutti i casi da me considerati; nel caso del fotone L̄ = LP , per particelle massive neutre si trova invece L̄ À LP , L̄ potrebbe addirittura essere macroscopico. Da scattering di stringhe chiuse, come brevemente menzionato (10) nella sezione 2.4, risulta L̄ = Ls À LP . Nel caso delle D-particles vale sicuramente min L̄ = Ls À LP , come risulta da (2.88) e (2.91). Tuttavia prima di stabilire qualcosa di più preciso è necessario prendere in considerazione il terzo contributo a δT in (2.89): Xδvp −2 ∼ gs 3 X 2 vp (2.95) X & δX (2.96) Xδvp δX − 32 − 13 ∼ g X & g Ls ∼ δti ∼ s s 2 vp vp (2.97) Dalla richiesta di consistenza: deriva: Quindi questo contributo è sempre dominante rispetto agli altri, e fa sı̀ che δT diventi enorme. Si nota quindi come la notevole precisione nella localizzazione della coordinata spaziale di un evento di scattering consentita dalle D-particles sia controbilanciata da una precisione scarsissima nella localizzazione della coordinata 2.6. Microscopio di Heisenberg con D-particles 31 temporale. Quindi le D-particles rappresentano un utile strumento qualora interessasse determinare X isolatamente, e con la maggior precisione possibile. Ma non si può dire altrettanto dal punto di vista qui adottato della localizzazione di un evento (un punto nello spaziotempo). Infatti tenendo conto di tutti i contributi a δT si nota come il limite (2.94) con L̄ = Ls non venga affatto saturato, al contrario di quanto accade con le stringhe chiuse (v. la sezione 2.4). È interessante osservare che i risultati ottenuti nella sezione 2.5 per le particelle massive neutre sono in parte simili a questi. Infatti anche in quel caso la localizzazione della coordinata temporale dell’evento portava un’incertezza dell’ordine della coordinata spaziale (v. la sezione 2.5). Questa è una conseguenza del fatto che la massa del probe è non nulla, infatti veniva evitata solo nel caso del fotone (v. la sezione 2.2). I risultati ottenuti in questa sezione presentano però anche una notevole differenza rispetto al caso della sezione 2.5: mentre in quel caso nemmeno la localizzazione spaziale era troppo buona, il limite inferiore a δX ricavato in questa sezione è eccezionalmente basso. Confrontando gli elementi che entrano in gioco nel determinare δX in questa sezione e nella sezione 2.5 non si può che concludere che la maggiore localizzazione in X ottenuta in questo caso sia dovuta al particolare potenziale che lega le D-particles. 32 I. Motivazioni Capitolo 3 Noncommutatività non fondamentale 3.1 Oscillatore in un campo magnetico Le analisi svolte nelle sezioni precedenti, nell’ambito dello schema concettuale del microscopio di Heisenberg, portano a limitazioni sulla misurabilità di un evento spaziotemporale che, combinate come in (2.94), sembrano suggerire una relazione di indeterminazione per le coordinate spaziali e temporali e portare ad una qualche forma di noncommutatività fondamentale nella struttura dello spaziotempo. Tuttavia in alcuni casi la noncommutatività ha anche un ruolo in descrizioni effettive di alcune proprietà del sistema fisico. Questo si verifica ad esempio nel caso di una particella a massa nulla confinata su un piano immerso in un campo magnetico costante. Come ora illustrerò, è possibile adottare una descrizione equivalente in cui le coordinare del piano non commutano e in assenza di campo magnetico [25]. Adoperando la forma del potenziale vettore: Ai = xj ²ji B 2 (3.1) e trascurando il termine cinetico, nel caso di un potenziale scalare armonico la lagrangiana del sistema può essere scritta come: L= k B i ij dxj x² − x2 2 dt 2 (3.2) B pi = − ²ij xj 2 (3.3) Ricavando i momenti canonici: si nota che sono vincolati alle coordinate trasverse, non sono quindi dinamici. (3.3) equivale a due vincoli di seconda classe, perciò non è possibile adoperare le parentesi 33 I. Motivazioni 34 di Poisson: {xi , pj } =δ ij {xi , xj } =0 (3.4) {pi , pj } =0 ma per consistenza occorre fare ricorso alle parentesi di Dirac: ¯ ¯ B ²mk m B mn n j ²ij {¯xi , xj ¯} ={xi , xj } − {xi , pk + ²kl xl } {p + ² x , x } = − 2 B 2 B ¯ ¯ δ ij {¯xi , pj ¯} = 2 ¯ ¯ B {¯pi , pj ¯} = − ²ij 4 (3.5) dove si è sfruttato il fatto che B è costante. lagrangiana (3.2) è: k H = x2 2 e le corrispondenti equazioni del moto sono: L’hamiltoniana che deriva dalla ¯ ¯ dxi k = {¯xi , H¯} = − ²ij xj dt B (3.6) (3.7) Si nota quindi come le due direzioni x e y non commutano, poiché: {|x, y|} = − 1 B (3.8) anzi si trova che le direzioni perpendicolari formano una coppia di operatori coniugati. In questo caso la noncommutatività fra le coordinate non ha un ruolo fondamentale: rappresenta soltanto una possibile descrizione del campo magnetico esterno. Nella prossima sezione 3.2 illustro questo stesso meccanismo in un contesto in cui permette di ottenere molte informazioni sulla natura del sistema fisico descritto. 3.2. Stringhe in campo esterno 3.2 35 Stringhe in campo esterno Le teorie di stringhe immerse in un campo esterno sono strettamente collegate alle teorie di campo su uno spaziotempo noncommutativo con struttura canonica, in cui il commutatore delle coordinate operatoriali x̂ è: [x̂µ , x̂ν ] = iθµν (3.9) dove θµν è una matrice reale, antisimmetrica e costante nelle coordinate. Questo legame può essere visto come un esempio del fenomeno descritto in un caso semplice nella precedente sezione 3.1: la presenza di un campo esterno apparentemente riduce la simmetria del problema e può essere schematizzata tramite una noncommutatività delle coordinate (di origine non fondamentale). In questo caso però l’utilità di una simile schematizzazione va al di là di una semplice riformulazione del problema, permettendo di ricavare informazioni non banali sulla struttura delle due classi di teorie messe in corrispondenza. Si trova che teorie di stringa immerse in un campo magnetico esterno per energie inferiori a L−1 s possono essere descritte come teorie di campo noncommutative delle stringhe aperte prive di massa, poiché sia le stringhe aperte massive che le stringhe chiuse si disaccoppiano. Queste teorie di campo sono noncommutative soltanto rispetto alle coordinate spaziali, cioè hanno θ0i = 0. Come spiegherò nella seconda parte della tesi, questa condizione ha l’immediata conseguenza che la teoria sia nonlocale nello spazio ma locale nel tempo. Questa osservazione fa supporre che si possa costruire una hamiltoniana che dà origine ad un’evoluzione temporale unitaria; in effetti si trova che è proprio cosı̀, ed è possibile convincersene pensando anche che la teoria noncommutativa è stata ottenuta troncando in modo consistente la teoria di stringhe completa, unitaria. Per analogia si potrebbe pensare che le teorie di stringa immerse in un campo elettrico esterno per energie inferiori a L−1 possano essere descritte da teorie di s campo noncommutative con noncommutatività anche temporale, cioè con θ0i 6= 0. Tuttavia si trova che questa semplice estensione del meccanismo descritto poco sopra non è valida. Infatti le teorie con noncommutatività spaziotemporale hanno un infinito numero di derivate temporali dei campi nella lagrangiana e sono nonlocali nel tempo, perciò non sono unitarie e nemmeno causali. Al contrario le teorie di stringa immerse in un campo elettrico esterno sono ben definite, quindi evidentemente non è possibile troncare in modo consistente la teoria di stringa (unitaria) per ottenere una teoria che può essere descritta come una teoria di campo noncommutativa (nonunitaria). Questa difficoltà si riflette nel fatto che a differenza del caso del campo magnetico esterno non è possibile trovare un limite in cui oltre alle stringhe chiuse si disaccoppino anche le stringhe aperte massive, ed inoltre c’è un valore critico del campo elettrico oltre il quale la teoria non ha più senso. È proprio la presenza di questo valore critico ad impedire di trovare un limite in cui la teoria di stringhe diventa una teoria di campo su spaziotempo noncommutativo [27, 29, 28, 31, 30]. 36 I. Motivazioni Esiste tuttavia un caso particolare in cui è possibile considerare una noncommutatività che coinvolga anche la coordinata temporale senza perdere unitarietà. Si tratta delle teorie con noncommutatività “di tipo luce”, in cui θ0i = −θ1i . Si ritrova allora il fatto che la teoria di campo noncommutativa descrive la teoria di stringa in campo esterno per energie inferiori a L−1 s [44, 45]. Nella seconda parte della tesi prenderò in considerazione il tipo di spaziotempo noncommutativo considerato in questa sezione, cioè quello a struttura canonica, in cui il commutatore delle coordinate è dato da (3.9). Esaminerò le caratteristiche delle teorie di gauge su un tale spaziotempo noncommutativo, osservando le differenze rispetto al caso commutativo, ed esplorando le conseguenze sulla propagazione di particelle. Parte II Teorie di gauge su spaziotempo noncommutativo con struttura canonica 37 Capitolo 4 Aspetti generali delle teorie È come un bufalo d’acqua che passi attraverso una finestra. La sua testa, le corna, le quattro zampe passano tutte. Perché non riesce a passare anche la coda? Koan Zen In questa seconda parte della tesi esploro alcune caratteristiche delle teorie di gauge su spaziotempo noncommutativo con struttura canonica. In questo tipo di spaziotempo noncommutativo la regola di commutazione degli operatori x̂ è: [x̂µ , x̂ν ] = iθµν (4.1) dove θµν è una matrice reale, antisimmetrica e con dimensioni [L]2 . Come anticipato nell’introduzione, poiché θµν è costante nelle coordinate è possibile introdurre uno star prodotto e riformulare la teoria in termini di un’algebra di funzioni commutativa con il prodotto dato dallo star prodotto, che adesso passo a costruire. 4.1 Star prodotto e sue proprietà Anche in meccanica quantistica l’algebra delle funzioni degli operatori q̂ e p̂, coordinate noncommutanti dello spazio delle fasi, può essere sostituita da un’algebra commutativa dotata di uno specifico star prodotto. Lo spaziotempo noncommutativo ha una stretta analogia con lo spazio delle fasi noncommutativo della meccanica quantistica; quindi per ottenere la forma esplicita dello star prodotto relativo allo spaziotempo noncommutativo definito da (4.1) è sufficiente ricalcare il procedimento seguito in meccanica quantistica [10, 7]. In meccanica quantistica una mappa W tra funzioni classiche nelle variabili q, p dello spazio delle fasi e funzioni degli operatori q̂, p̂ è specificata dalla quantizzazione 39 II. Teorie di gauge 40 di Weyl: 1 W : A (q, p) 7→ W (A (q, p)) = (2π)4 Z d4 αd4 β exp i (αq̂ + β p̂) à (α, β) (4.2) dove à (α, β) è la trasformata di Fourier di A (q, p). Questa prescrizione rappresenta il modo più simmetrico di sostituire gli operatori q̂, p̂ alle variabili q, p. Considerando il prodotto W (A) W (B): 1 W (A) W (B) = (2π)8 Z d4 α1 d4 α2 d4 β1 d4 β2 à (α1 , β1 ) B̃ (α2 , β2 ) · (4.3) · exp i (α1 q̂ + β1 p̂) exp i (α2 q̂ + β2 p̂) Il prodotto dei due esponenziali di q̂ e p̂ può essere scritto in forma più semplice grazie all’identità: 1 eA eB = eA+B e 2 [A,B] (4.4) (4.4) non è che la formula di Baker-Campbell-Hausdorff in cui si sia posto [A, [A, B]] = 0 = [B, [A, B]], condizione ovviamente valida in questo caso in cui [q̂, p̂] = i. Il prodotto dei due esponenziali di q̂, p̂ è proporzionale ad un esponenziale di una combinazione lineare di q̂, p̂: exp i (α1 q̂ + β1 p̂) exp i (α2 q̂ + β2 p̂) = µ ¶ i = exp i ((α1 + α2 ) q̂ + (β1 + β2 ) p̂) exp − (α1 β2 − α2 β1 ) 2 (4.5) Si può riscrivere W (A) W (B) in questo modo: 1 W (A) W (B) = (2π)8 Z d4 α1 d4 α2 d4 β1 d4 β2 à (α1 , β1 ) B̃ (α2 , β2 ) · ¶ i · exp i ((α1 + α2 ) q̂ + (β1 + β2 ) p̂) exp − (α1 β2 − α2 β1 ) = 2 (4.6) Z 1 = d4 αd4 α2 d4 βd4 β2 à (α − α2 , β − β2 ) B̃ (α2 , β2 ) · (2π)8 µ ¶ i · exp i (αq̂ + β p̂) exp − (αβ2 − α2 β) 2 µ In totale si trova che l’immagine W −1 del prodotto di due operatori W (A) W (B) è una funzione classica: W −1 (W (A) W (B)) = A ∗ B (4.7) 4.1. Star prodotto e sue proprietà tale che: 41 Z 1 ^ d4 α2 d4 β2 à (α − α2 , β − β2 ) B̃ (α2 , β2 ) · (A ∗ B) (α, β) = 4 (2π) µ ¶ i · exp − (αβ2 − α2 β) 2 (4.8) A ∗ B è detto prodotto di Moyal, e nel caso della meccanica quantistica è dato da: µ ¶ i A ∗ B = A (q, p) exp 4 B (q, p) (4.9) 2 dove 4 è l’operatore bidifferenziale che definisce le parentesi di Poisson: Ã← −→ − ← −− →! ∂ ∂ ∂ ∂ A4B = {A, B}P = A (q, p) − B (q, p) ∂q ∂p ∂p ∂q (4.10) Il prodotto di Moyal è associativo e noncommutativo (a meno che W (A) e W (B) commutino). In questo modo è possibile studiare la meccanica quantistica considerando uno spazio delle fasi classico le cui variabili commutano ma in cui il prodotto ordinario delle funzioni è sostituito dal prodotto di Moyal. Questo schema è chiamato formalismo di Moyal o anche deformation quantization, poiché permette di ottenere le informazioni essenziali sul sistema quantistico tramite una formale deformazione dell’algebra commutativa delle variabili classiche. È possibile procedere esattamente allo stesso modo in geometria noncommutativa: Z 1 µ W : f (x) 7→ W (f ) (x̂) = d4 keikµ x̂ f˜ (k) (4.11) 4 (2π) dove f˜ (k) è la trasformata di Fourier di f (x). In tutto quello che segue non si considerano più operatori nello spazio delle fasi, dunque kµ è un semplice parametro di Fourier, non un operatore. Le x̂ nell’esponenziale sono le coordinate noncommutative. Ora: Z 1 µ ν d4 kd4 leikµ x̂ eilν x̂ f˜ (k) g̃ (l) (4.12) W (f ) W (g) = 8 (2π) Anche in questo caso è lecito applicare (4.4), poiché [xµ , xν ] = iθµν è costante nelle coordinate. Si ottiene cosı̀: µ ν eikµ x̂ eilν x̂ = ei(kµ +lµ )x̂ µ − i k l θ µν 2 µ ν Ne segue la forma della funzione f ∗ g tale che W (f ) W (g) = W (f ∗ g): ¯ ¶ µ ¯ i µν y z θ ∂µ ∂ν f (y) g (z)¯¯ f (x) ∗ g (x) = exp 2 y=z=x (4.13) (4.14) II. Teorie di gauge 42 (4.14) è lo star prodotto di Moyal - Weyl; è associativo e noncommutativo, e per θµν = 0 si riduce all’usuale prodotto puntuale di funzioni. In questo modo l’algebra di funzioni su Rd noncommutativo può essere vista come un’algebra di funzioni ordinarie su Rd usuale con il prodotto puntuale deformato da questo star prodotto. I commutatori vengono sostituiti da commutatori di Moyal: [f, g]∗ = f ∗ g − g ∗ f (4.15) Si può verificare che (4.14) fornisce la giusta regola di commutazione per le coordinate; calcolando il commutatore di Moyal di xµ e xν si trova: [xµ , xν ]∗ = xµ ∗ xν − xν ∗ xµ = [xµ , xν ] + iθµν = iθµν (4.16) dove xµ e xν ora sono le usuali coordinate, non operatori, perciò il loro commutatore [xµ , xν ] = xµ xν − xν xµ è nullo. A partire dalla definizione (4.14) è facile dimostrare alcune proprietà dello star prodotto, che riporto qui perché saranno utili in seguito. 1. Coniugazione complessa di uno star prodotto: (f (x) ∗ g (x)) = g (x) ∗ f (x) (4.17) 2. Il commutatore di Moyal fra le coordinate ed una funzione equivale ad una derivata della funzione: [xµ , f (x)]∗ = iθµν ∂ν f (x) (4.18) questo è un esempio di come con l’introduzione dello star prodotto vengano descritte correttamente le caratteristiche della teoria originaria su spaziotempo noncommutativo; infatti in termini di coordinate noncommutanti vale: [x̂µ , f (x̂)] = iθµν ∂ν f (x̂) (4.19) dove ∂ν si comporta come un’usuale derivata rispetto alle x̂. (4.19) si verifica facilmente nei casi in cui f (x̂) può essere espressa come somma, magari infinita, di monomi del tipo x̂m . 3. Star prodotto di esponenziali: i eikx ∗ eilx = ei(k+l)x e− 2 k×l (4.20) dove si è introdotta la notazione: k×l = θµν kµ lν (4.21) (in particolare k×k = 0 per l’antisimmetria di θµν ). In generale: e ik1 x ikn x ∗ ··· ∗ e ix =e n P i=1 i ki − 2 e P 1≤i<j≤n ki ×kj (4.22) 4.1. Star prodotto e sue proprietà 43 4. Operatore di traslazione. Esprimendo una funzione tramite la sua trasformata di Fourier e adoperando (4.22) si può verificare che in geometria noncommutativa eikx è un operatore di traslazione: eikx ∗ f (xµ ) ∗ e−ikx = f (xµ + θµν kν ) (4.23) questo si ritrova anche nella forma infinitesima con (4.18): (1 + ikµ xµ ) ∗ f (x) ∗ (1 − ikµ xµ ) ' f (x) + kν θρν ∂ρ f (x) (4.24) Relazioni analoghe valgono in termini di coordinate noncommutanti. È da notare la differenza con la meccanica quantistica ordinaria, dove eipx è un operatore di traslazione a causa dell’azione dell’operatore p̂ dello spazio delle fasi; in questo caso k è un semplice parametro, la traslazione viene dall’azione dell’operatore x̂, o dalla noncommutatività dello star prodotto, a seconda del punto di vista adottato. Rappresentando le funzioni tramite le loro trasformate di Fourier e utilizzando ripetutamente (4.22) è possibile verificare alcune proprietà dello star prodotto di funzioni sotto integrale: 5. Integrale dello star prodotto di due funzioni: Z Z 4 f (x) ∗ g (x) d x = f (x) g (x) d4 x (4.25) 6. Ciclicità sotto integrale: Z Z 4 f1 (x) ∗ · · · ∗ fn (x) d x = fn (x) ∗ f1 (x) ∗ · · · ∗ fn−1 (x) d4 x (4.26) 7. Integrale dello star prodotto di più funzioni: Z f1 (x) ∗ · · · ∗ fn (x) d4 x = Z n P i P ki ×kj −ix ki − 2 d4 k1 · · · d4 kn d4 x ˜ 1≤i<j≤n ˜ i=1 f (k ) · · · f (k ) e = = e 1 n (2π)4n à n ! (4.27) P Z 4 X ki ×kj − 2i d k1 · · · d4 kn ˜ (4) 1≤i<j≤n ˜ = = f (k1 ) · · · f (kn ) δ ki e (2π)4(n−1) i=1 à n−1 ! P Z 4 X − 2i ki ×kj d k1 · · · d4 kn−1 ˜ 1≤i<j≤n−1 ˜ ˜ = f (k ) · · · f (k ) f − k e 1 n−1 i (2π)4(n−1) i=1 II. Teorie di gauge 44 4.2 Invarianza di gauge In questa sezione discuto la costruzione di teorie invarianti di gauge su uno spaziotempo noncommutativo con struttura canonica, nel caso più semplice in cui il gruppo di gauge è U (1) [10, 46]. Il mio obiettivo non è tanto quello di raggiungere un livello di perfetto rigore matematico, quanto di dare un’idea dello strano comportamento delle teorie di gauge su spaziotempo noncommutativo e delle notevoli differenze che si hanno rispetto al caso commutativo. La formulazione di una teoria di gauge su uno spaziotempo noncommutativo incontra immediatamente un ostacolo che non si presenta nel caso commutativo: in geometria noncommutativa la moltiplicazione di un campo covariante per una coordinata non è un’operazione covariante, poiché le coordinate (operatoriali) x̂ non commutano con la trasformazione di gauge. In termini di star prodotto, il problema deriva dalla noncommutatività di quest’ultimo. Una possibile soluzione è rendere le coordinate x̂ covarianti aggiungendovi un potenziale di gauge, esattamente come l’aggiunta del potenziale di gauge rende covariante la derivata parziale nel caso commutativo. In effetti si ritrova qui un’altra traccia dell’analogia fra spaziotempo noncommutativo e spazio delle fasi noncommutativo della meccanica quantistica: l’idea di coordinata covariante è l’analogo del momento covariante che si definisce usualmente. Si considera un campo generico ψ̂ (x̂) e le sue trasformazioni di gauge, parametrizzate dai campi α̂ (x̂). Sia ψ̂ (x̂) che α̂ (x̂) appartengono all’algebra noncommutativa Ax delle funzioni definite sullo spaziotempo noncommutativo considerato; ovviamente vi appartiene anche δα̂ ψ̂, forma infinitesima della trasformazione di gauge di ψ̂. Si richiede che sia valida la condizione (molto naturale) che l’algebra del gruppo di gauge si chiuda sui campi, cioè che i campi si trasformino secondo una rappresentazione lineare del gruppo di gauge: ³ ´ δα̂ δβ̂ − δβ̂ δα̂ ψ̂ = iδ[α̂,β̂ ] ψ̂ (4.28) da (4.28) segue che δα̂ ψ̂ può assumere solo una di queste tre forme: δα̂ ψ̂ = iα̂ψ̂ (4.29) δα̂ ψ̂ = −iψ̂ α̂ h i δα̂ ψ̂ = i α̂, ψ̂ (4.30) (4.31) in forma finita le tre trasformazioni sono: ψ̂ 0 = U ψ̂, U = exp iα̂ (4.32) ψ̂ 0 = ψ̂ Ū , Ū = exp (−iα̂) (4.33) ψ̂ 0 = U ψ̂ Ū (4.34) 4.2. Invarianza di gauge 45 Come sarà più chiaro passando al formalismo dello star prodotto, (4.30) è la complessa coniugata di (4.29) e (4.33) la complessa coniugata di (4.32). Quindi identificando (4.32) con la rappresentazione fondamentale si vede che (4.33) corrisponde alla rappresentazione coniugata, e (4.34) alla rappresentazione aggiunta poiché deriva dal prodotto diretto delle prime due. Sono tutte rappresentazioni non banali malgrado il gruppo di gauge sia U (1); in particolare (4.34) descrive come si trasformano i campi neutri (cioè quelli che sono neutri nel limite θµν → 0), poiché se θµν = 0 il secondo membro di (4.31) si annulla e la corrispondente rappresentazione ridiventa banale. Una richiesta essenziale è che le coordinate siano invarianti per trasformazioni di gauge. Allora la moltiplicazione di una coordinata per un campo non è un’operazione covariante: infatti per coordinate operatoriali che soddisfano (4.1) vale [x̂, α̂ (x̂)] 6= 0, e quindi ´ ³ (4.35) δα̂ x̂µ ψ̂ (x̂) = ix̂µ α̂ψ̂ (x̂) 6= iα̂x̂µ ψ̂ (x̂) ³ ´ δα̂ ψ̂ (x̂) x̂µ = −iψ̂ (x̂) α̂x̂µ 6= −iψ̂ (x̂) x̂µ α̂ (4.36) considerando la moltiplicazione a destra o a sinistra, che corrisponde rispettivamente a (4.32) e (4.33), cioè a (4.29) e (4.30); poi (4.31) si ottiene come combinazione lineare delle prime due. Come già anticipato, è possibile risolvere questo problema introducendo delle coordinate covarianti, utili per capire il meccanismo dell’invarianza di gauge ma cui spesso nei calcoli pratici vengono preferite le coordinate ordinarie. Con l’introduzione delle coordinate covarianti X̂ µ (4.35) e (4.36) diventano: ´ ³ µ (4.37) δα̂ X̂ ψ̂ (x̂) = iα̂X̂ µ ψ̂ (x̂) ³ δα̂ ψ̂ (x̂) X̂ in entrambi i casi si ottiene: µ ´ = −iψ̂ (x̂) X̂ µ α̂ ³ ´ h i δα̂ X̂ µ = i α̂, X̂ µ (4.38) (4.39) Quindi le coordinate covarianti si trasformano secondo la rappresentazione aggiunta. Introducendo un campo µ (x̂) ∈ Ax si possono scrivere le derivate covarianti delle tre rappresentazioni: Dµ ψ̂ = ∂ µ ψ̂ − iµ ψ̂ (4.40) Dµ ψ̂ = ∂ µ ψ̂ + iψ̂ µ h i Dµ ψ̂ = ∂ µ ψ̂ − i µ , ψ̂ (4.41) (4.42) µ non è altro che il potenziale di gauge. Richiedendo che volta per volta Dµ ψ̂ si trasformi come ψ̂ e usando (4.29), (4.30), (4.31), e (4.19) si trova: h i (4.43) δα̂ µ = ∂ µ α̂ − i µ , α̂ II. Teorie di gauge 46 Usando (4.39), (4.43), (4.19) e ricordando che è stato imposto δα̂ x̂ = 0 è facile verificare che X̂ µ e µ sono legati dalla relazione: X̂ µ = x̂µ + θµν Âν (x̂) A questo punto si può introdurre un tensore F̂ µν : h i F̂ µν = ∂ µ Âν − ∂ ν µ − i µ , Âν (4.44) (4.45) da (4.43), usando l’identità di Jacobi e osservando che [α̂, [x̂µ , x̂ν ]] = 0 segue: h i µν µν δα̂ F̂ = i α̂, F̂ (4.46) Quindi F̂ µν è un tensore controvariante, ed è un candidato valido per la curvatura. Per verificare che ruolo ha F̂ µν si può procedere nel modo seguente. Si considerano campi ψ̂ che si trasformano con la rappresentazione aggiunta, e il caso semplice in cui θ23 = b = −θ32 e θµν = 0 per ogni altra coppia di indici; vale: h i 2 3 X̂ , X̂ = ib + ib2 F̂ 23 (4.47) a causa di (4.19), (4.44) e (4.45). Usando (4.19), (4.42) e (4.44) si ha inoltre: h i i 1h D2 ψ̂ = ∂ 2 ψ̂ + i ψ̂, Â2 = ψ̂, X̂ 3 (4.48) ib i 1 h D3 ψ̂ = ψ̂, X̂ 2 (4.49) −ib ne segue: ³ ´ £ 2 3¤ 23 32 D , D ψ̂ = −i F̂ ψ̂ − ψ̂ F̂ (4.50) Nel caso commutativo non abeliano si costruisce la curvatura esattamente in questo modo, calcolando il commutatore di derivate covarianti; quindi anche in questo caso si può identificare F̂ µν con la curvatura. È notevole come oltre a questa formula molti aspetti ricordino il caso commutativo non abeliano. Infatti, sebbene il gruppo di gauge sia U (1), la rappresentazione aggiunta non è banale, e la quantizzazione delle teorie di gauge richiede l’introduzione di campi ghost, come descriverò nella sezione 5.2. Come visto nella sezione 4.1, con l’introduzione dello star prodotto un campo ψ̂ (x̂) è rappresentato da una funzione classica ψ (x), e i commutatori sono commutatori di Moyal; tutte le formule si traducono di conseguenza. Ad esempio, riscalando i potenziali e i parametri di gauge in modo da introdurre una costante di accoppiamento (4.29), (4.30) e (4.31) diventano: δα ψ = igα ∗ ψ (4.51) δα ψ = −igψ ∗ α (4.52) δα ψ = ig [α, ψ]∗ (4.53) 4.2. Invarianza di gauge 47 e (4.40), (4.41) e (4.42) si riscrivono come: Dµ ψ = ∂ µ ψ − igAµ ∗ ψ (4.54) Dµ ψ = ∂ µ ψ + igψ ∗ Aµ (4.55) Dµ ψ = ∂ µ ψ − ig [Aµ , ψ]∗ (4.56) adoperando (4.17) si può verificare che (4.30) è proprio la complessa coniugata di (4.29) e (4.55) la complessa coniugata di (4.54). Con queste derivate covarianti è possibile definire l’azione per varie particelle: • Fotone: 1 S =− 4 Z d4 xFµν ∗ F µν F µν =∂ µ Aν − ∂ ν Aµ − i [Aµ , Aν ]∗ (4.57) δα F µν =i [α, F µν ]∗ • Fermioni di Dirac: Z d4 xiψ̄ ∗ (γ µ Dµ − m) ψ S= Dµ ψ =∂µ ψ − igAµ ∗ ψ δα Aµ =∂µ α − ig [Aµ , α]∗ (4.58) δα ψ =igα ∗ ψ δα ψ̄ = − ig ψ̄ ∗ α • Fermioni di Majorana: Z S= d4 xiψ̄ ∗ (γ µ Dµ − m) ψ Dµ ψ =∂µ ψ − ig [Aµ , ψ]∗ δα Aµ =∂µ α − ig [Aµ , α]∗ δα ψ = − ig [ψ, α]∗ £ ¤ δα ψ̄ = − ig ψ̄, α ∗ (4.59) II. Teorie di gauge 48 • Scalari carichi: Z S= d4 x(Dµ φ) ∗ Dµ φ Dµ φ =∂µ φ − igAµ ∗ φ (Dµ φ) =∂µ φ̄ + ig φ̄ ∗ Aµ (4.60) δα Aµ =∂µ α − ig [Aµ , α]∗ δα φ =igα ∗ φ δα φ̄ = − ig φ̄ ∗ α • Scalari neutri: Z S= 1 d4 x Dµ φ ∗ Dµ φ 2 Dµ φ =∂µ φ − ig [Aµ , φ]∗ (4.61) δα Aµ =∂µ α − ig [Aµ , α]∗ δα φ =ig [α, φ]∗ Avendo stabilito in (4.43), (4.46) le proprietà di trasformazione dei campi Aµ ed F è possibile verificare che le azioni introdotte in (4.57)-(4.61) sono invarianti di gauge. Si trova tuttavia che le lagrangiane non lo sono. Ad esempio, nel caso del settore di gauge: 1 Lgauge = − Fµν ∗ F µν (4.62) 4 Sfruttando δα F µν = i [α, F µν ] si ottiene: µν 1 δα Lgauge = − (δFµν ∗ F µν + Fµν ∗ δF µν ) = 4 i = − (α ∗ Fµν ∗ F µν − Fµν ∗ α ∗ F µν + Fµν ∗ α ∗ F µν − Fµν ∗ F µν ∗ α) = 4 i = − (α ∗ Fµν ∗ F µν − Fµν ∗ F µν ∗ α) 6= 0 4 (4.63) Tuttavia si nota subito che δα Sgauge = 0, a causa di (4.26) (ciclicità dello star prodotto sotto integrale). Effettuando il controllo dell’invarianza di gauge sulle altre lagrangiane si incontra lo stesso problema, δα L 6= 0 ma δα S = 0; i calcoli espliciti sono semplici benché lunghi e richiedono soltanto l’uso delle definizioni e di (4.26). Il fatto che non esistano lagrangiane invarianti di gauge riflette una caratteristica fondamentale delle teorie di gauge su spaziotempo noncommutativo: l’impossibilità 4.2. Invarianza di gauge 49 di costruire operatori locali invarianti di gauge. Si può intuire come emerga questo problema osservando che una traslazione di un campo corrisponde ad una trasformazione di gauge. Se il campo appartiene alla rappresentazione aggiunta c’è perfetta equivalenza, altrimenti questa identificazione è valida a meno di una traslazione costante del campo di gauge [33, 47]. Quantitativamente, considerando un campo che si trasforma secondo la rappresentazione aggiunta: δα ψ = ig [α, ψ]∗ (4.64) α può essere della forma cµ xµ ; allora, adoperando (4.18): δα ψ = ig [α, ψ]∗ = igcµ [xµ , ψ]∗ = −gcµ θµν ∂ν ψ = gcν θµν ∂µ ψ (4.65) confrontando con (4.24) si nota che questa è proprio una traslazione: eikx ∗ f (x) ∗ e−ikx ' f (x) + kν θµν ∂µ f (x) (4.66) A questo punto diventa chiaro come mai non esistano operatori locali gauge invarianti nello spazio delle coordinate, poiché traslare i campi equivale ad applicare una particolare trasformazione di gauge. È una situazione analoga a quella che si presenta in relatività generale, dove le traslazioni sono equivalenti a trasformazioni di gauge, che non sono altro che trasformazioni generali di coordinate. È comunque possibile costruire operatori quasi locali invarianti di gauge. Esistono vari procedimenti, che in genere richiedono di ridefinire gli operatori come convoluzioni con distribuzioni a supporto finito [46, 35, 27]. È interessante notare come una procedura simile si renda necessaria anche nelle teorie di campo commutative. Infatti la località delle interazioni porta a moltiplicazioni di campi nello stesso punto, ma poiché i campi sono distribuzioni (come si nota osservando ad esempio che i loro commutatori danno delta di Dirac) questa è un’operazione singolare che porta a divergenze ultraviolette. Per rimuovere le divergenze si regolarizza la teoria; questo equivale a delocalizzare gli operatori locali su una regione la cui dimensione è determinata dal regolatore, cioè a riscriverli come convoluzioni con una distribuzione f il cui supporto è dell’ordine della scala fissata dal regolatore. In questo modo gli operatori diventano insensibili all’ultravioletto oltre la scala di regolarizzazione. Rimuovere il regolatore equivale a far tendere f ad una delta di Dirac. Un modo per costruire operatori quasi locali in una teoria noncommutativa consiste nello sfruttare la mappa di Seiberg - Witten, che mette in relazione i potenziali di gauge Anc e i parametri di gauge αnc della teoria noncommutativa con i corrispondenti commutativi, Ac e αc . I gruppi di gauge delle due teorie non sono isomorfi, dato che l’U (1) di gauge della teoria noncommutativa mostra molte caratteristiche di un gruppo nonabeliano, quindi non si può costruire una corrispondenza biunivoca, tale che Anc dipenda solo da Ac e αnc dipenda solo da αc . Tuttavia è sufficiente una richiesta più debole, cioè che a potenziali gauge equivalenti della teoria commutativa corrispondano potenziali gauge equivalenti della teoria noncommutativa: Anc (Ac ) + δαnc Anc (Ac ) = Anc (Ac + δαc Ac ) (4.67) 50 II. Teorie di gauge a partire da questa condizione è possibile costruire relazioni Anc (Ac ) e αnc (αc , Ac ) come serie di potenze in θµν . A questo punto si può adoperare la mappa per trasportare nella teoria noncommutativa operatori locali commutativi invarianti di gauge, come ad esempio Fµν F µν , costruiti a partire da Ac . Gli operatori noncommutativi che ne risultano sono invarianti di gauge ma non locali; essendo costruiti come una√serie di potenze in θµν saranno di fatto delocalizzati su una scala dell’ordine di θ, dove θ è il più grande autovalore di θµν e fissa in qualche modo la scala di noncommutatività. Capitolo 5 Diagrammi di Feynman 5.1 Caratteristiche dei diagrammi In questo capitolo descrivo le proprietà dei diagrammi di Feynman di una teoria noncommutativa, e in particolare stabilisco qual è la dipendenza da θµν di un generico diagramma di Feynman. 5.1.1 Struttura delle interazioni Gli integrali di prodotti di due campi non vengono modificati dallo star prodotto, come risulta da (4.25). Quindi l’azione di una teoria noncommutativa libera è uguale a quella della corrispondente teoria commutativa, e i propagatori della teoria noncommutativa sono gli stessi del caso commutativo. Ne segue che la dipendenza da θµν può trovarsi soltanto nei fattori da associare ai vertici. Considerando un termine d’interazione: Z d4 xφ1 (x) ∗ · · · ∗ φn (x) = Z = dove: d4 k1 · · · d4 kn (2π)4(n−1) (5.1) φ̃1 (k1 ) · · · φ̃n (kn ) V (k1 , . . . , kn ) à i X V (k1 , . . . , kn ) = δ (4) (k1 + · · · + kn ) exp − ki ×kj 2 1≤i<j≤n ! (5.2) Questa non è che una riscrittura di (4.27). Ad ogni vertice va associato un fattore V . In totale la dipendenza da θµν del diagramma si raccoglie in fattori di fase o trigonometrici di quantità come p×q = pµ θµν qν , dove pµ e q µ sono impulsi entranti in un vertice del diagramma in questione. Si nota che il fattore V non è simmetrico sotto qualsiasi scambio degli argomenti ki , ma soltanto per permutazioni cicliche. Se ad ogni vertice va associato un fattore 51 II. Teorie di gauge 52 V dipendente dagli impulsi e dal loro ordinamento potrebbe non essere più possibile scrivere delle regole di Feynman come nel caso commutativo, cioè stabilire in generale dei fattori da associare ad ogni elemento di un diagramma, indipendentemente dallo specifico diagramma considerato. Nel seguito controllo se questa possibilità sussiste ancora, considerando il caso semplice di una teoria λφ4 . La noncommutatività delle coordinate, o equivalentemente dello star prodotto, rende difficoltoso definire l’ordinamento normale. Per evitare questo problema uso il formalismo funzionale. Procedo formalmente nel minkowskiano, senza effettuare il passaggio all’euclideo. Data la forma del fattore V da associare a ogni vertice, che dipende dagli impulsi entranti nel vertice, conviene lavorare nello spazio degli impulsi. L’integrale d’azione nello spazio degli impulsi si ottiene semplicemente esprimendo le grandezze dipendenti dalle coordinate come trasformate di Fourier. Di seguito ripercorro brevemente la formulazione funzionale nello spazio degli impulsi per una teoria scalare libera su spaziotempo commutativo [48]. Il funzionale generatore delle funzioni di Green è: ³ ´ R d4 p R ˜ φ̃(−p) J(p) iS (φ̃)+i ³ ´ Z J˜ (2π)4 D φ̃e ˜ Z̄ J = = R Z (0) Dφ̃eiS (φ̃) Z ³ ´ S φ̃ = d4 p p2 − m2 φ̃ (p) φ̃ (−p) 2 (2π)4 (5.3) (5.4) dove le grandezze con tilde sono le trasformate di Fourier delle grandezze espresse nello spazio delle coordinate, e dove J˜ (−p) è la sorgente associata al campo φ̃ (p). la normalizzazione ³ ´D’ora in poi sottintendo ³ ´ ³ ´del funzionale generatore, e scrivo Z J˜ per indicare Z̄ J˜ . Nel caso libero Z J˜ è gaussiano, e può essere risolto esattamente: ¶ µ Z ³ ´ 4 d p 1 J˜ (p) G̃ (p) J˜ (−p) Z J˜ = exp − 2 (2π)4 G̃ (p) = p2 i − m2 (5.5) (5.6) G̃ (p) è proprio il propagatore nello spazio degli impulsi. ³ ´In presenza di un termine −iλ 4 d’interazione, ad esempio del tipo 4! φ , si sviluppa Z J˜ in una serie perturbativa, e poi si esprimono i campi come derivate dell’integrale funzionale libero rispetto alle 5.1. Caratteristiche dei diagrammi 53 sorgenti: ³ ³ ´´n ∞ Z R ³ ´ X iSint φ̃ iS (φ̃)+i Z J˜ = Dφ̃ e n! n=0 = ∞ Z X n=0 1 Dφ̃ n! µ −iλ 4! Z d4 p ˜ J(−p)φ̃(p) (2π)4 ¶n R iS (φ̃)+i d xφ (x) e 4 4 = d4 p ˜ J(−p)φ̃(p) (2π)4 = µ ¶n Z Y ∞ n n X Y 1 −iλ 4 4 4 = d xi d pi,1 · · · d pi,4 e−ixi (pi,1 +···+pi,4 ) · n! 4! n=0 i=1 i=1 · n 1 Y i4n i=1 4 δ −1 e 2 δ J˜ (−pi,1 ) · · · δ J˜ (−pi,4 ) R d4 p ˜ ˜ J(p)G̃(p)J(−p) (2π)4 (5.7) = µ ¶n Z Y n n ∞ Y X 1 −iλ 4 4 d pi,1 · · · d pi,4 (2π)4 δ (4) (pi,1 + · · · + pi,4 ) · = n! 4! n=0 i=1 i=1 · n 1 Y i4n i=1 R δ4 −1 e 2 δ J˜ (−pi,1 ) · · · δ J˜ (−pi,4 ) d4 p ˜ ˜ J(p)G̃(p)J(−p) (2π)4 dove pi,j è il j-esimo impulso dell’i-esimo vertice. Per ottenere funzioni di Green a n punti all’ordine m è sufficiente poi prendere i termini della serie perturbativa all’ordine m e derivare n volte: ¯ ¯ 1 δ n Z (J) ¯ h0| T (φ (x1 ) · · · φ (xn )) |0i = n = i δJ (x1 ) · · · δJ (xn ) ¯J=0 ³ ´ ¯ (5.8) ¯ n Z ˜ δ Z J ¯ 1 ¯ = d4 p1 · · · d4 pn e−ip1 x1 · · · e−ipn xn n i δ J˜ (−p1 ) · · · δ J˜ (−pn ) ¯¯ ˜ J=0 Calcolando la funzione a due punti all’ordine zero si ritrova il propagatore libero, e al primo ordine: Z −iλ 1 d4 x1 d4 p1 · · · d4 p4 d4 l1 d4 l2 · h0| T (φ (y1 ) φ (y2 )) |0i = 4! i6 ·e−ix1 (p1 +···+p4 ) e−il1 y1 e−il2 y2 · R δ6 − 12 · e δ J˜ (−p1 ) · · · δ J˜ (−p4 ) δ J˜ (−l1 ) δ J˜ (−l2 ) (5.9) ¯ d4 p ˜ ¯ ˜ J(p)G̃(p)J(−p) 4 ¯ (2π) ¯ ˜ J=0 si trova il contributo di una inserzione di self energia nel propagatore libero tramite un diagramma di tipo “tadpole”. II. Teorie di gauge 54 Per trovare i fattori associati ai vertici non fare tanti calcoli. Da (5.7) ³ occorre ´ risulta che per ogni vertice c’è un fattore iSint φ̃ , i cui campi vengono poi espressi come derivate del funzionale generatore libero rispetto³ alle ´ sorgenti per dar luogo ai propagatori. I fattori numerici provenienti da iSint φ̃ sono quelli da associare ai vertici secondo le regole di Feynman. Nel caso appena illustrato il fattore da . associare a ogni vertice è semplicemente −iλ 4! Passando al caso noncommutativo, la proprietà (4.25) dello star prodotto assicura che (5.3)-(5.6) restano invariate; la teoria noncommutativa libera è uguale a quella commutativa. Introducendo un termine d’interazione si ha: iSint −iλ = 4! −iλ = 4! −iλ = 4! Z d4 xφ (x) ∗ φ (x) ∗ φ (x) ∗ φ (x) = Z Z d4 pd4 qd4 kd4 h 4 d xφ̃ (p) φ̃ (q) φ̃ (k) φ̃ (h) e−ipx ∗ e−iqx ∗ e−ikx ∗ e−ihx = 16 (2π) d4 pd4 qd4 kd4 h 4 d xφ̃ (p) φ̃ (q) φ̃ (k) φ̃ (h) · (2π)16 i ·e−ix(p+q+k+h) e− 2 (p×q+p×k+p×h+q×k+q×h+k×h) = Z 4 4 4 4 −iλ d pd qd kd h = (2π)4 δ (4) (p + q + k + h) · 16 4! (2π) i ·φ̃ (p) φ̃ (q) φ̃ (k) φ̃ (h) e− 2 (p×q+p×k+p×h+q×k+q×h+k×h) (5.10) dove ho usato (4.22). Ne segue: ³ ³ ´´n ∞ Z R ³ ´ X iSint φ̃ iS (φ̃)+i e Z J˜ = Dφ̃ n! n=0 d4 p ˜ J(−p)φ̃(p) (2π)4 = µ ¶n Z Y µ ¶4n ∞ n X 1 −iλ 2π 4 4 · = d pi,1 · · · d pi,4 n! 4! i n=0 i=1 · n Y i=1 · n Y i=1 δ (4) à 4 X j=1 ! pi,j n Y i=1 à exp − i X pi,j ×pi,k 2 1≤j<k≤4 R δ4 −1 e 2 δ J˜ (−pi,1 ) · · · δ J˜ (−pi,4 ) (5.11) ! d4 p ˜ ˜ J(p)G̃(p)J(−p) (2π)4 · 5.1. Caratteristiche dei diagrammi 55 al primo ordine: P µ ¶4 ³ ´ −iλ Z − 2i pi ×pj 2π 4 4 (4) 1≤i<j≤4 ˜ Z J = d p1 · · · d p4 δ (p1 + · · · + p4 ) e · 4! i R δ4 −1 · e 2 δ J˜ (−p1 ) · · · δ J˜ (−p4 ) (5.12) d4 p ˜ ˜ J(p)G̃(p)J(−p) (2π)4 La funzione a due punti al primo ordine è: Z −iλ (2π)4 h0| T (φ (y1 ) φ (y2 )) |0i = d4 p1 · · · d4 p4 d4 l1 d4 l2 · 4! i6 ·e − 2i P 1≤i<j≤4 pi ×pj (5.13) e−il1 y1 e−il2 y2 δ (4) (p1 + · · · + p4 ) · R δ6 −1 e 2 · δ J˜ (−p1 ) · · · δ J˜ (−p4 ) δ J˜ (−l1 ) δ J˜ (−l2 ) Osservando che: R δ2 − 12 e δ J˜ (−q1 ) δ J˜ (−q2 ) d4 p ˜ ˜ J(p)G̃(p)J(−p) (2π)4 ¯ ¯ ¯ ¯ ˜ J=0 d4 p ˜ ˜ J(p)G̃(p)J(−p) (2π)4 ¯ ¯ ¯ ¯ ˜ J=0 µ ¶ 1 (4) = − δ (q1 + q2 ) G̃ (q2 ) (2π)4 (5.14) si trova: R (2π)4 δ6 − 12 e i6 δ J˜ (−p1 ) · · · δ J˜ (−p4 ) δ J˜ (−l1 ) δ J˜ (−l2 ) = 1 F ({q1 , . . . , q6 }) (2π)8 d4 p ˜ ˜ J(p)G̃(p)J(−p) (2π)4 ¯ ¯ ¯ ¯ = ˜ J=0 (5.15) dove {q1 , . . . , q6 } rappresenta una permutazione degli impulsi {p1 , . . . , p4 , l1 , l2 }. ¡¢ F ({q1 , . . . , q6 }) è una somma di 62 = 15 termini del tipo: ³ ´³ ´³ ´ (4) (4) (4) δ (q1 + q2 ) G̃ (q2 ) δ (q3 + q4 ) G̃ (q4 ) δ (q5 + q6 ) G̃ (q6 ) (5.16) F ({q1 , . . . , q6 }) è completamente simmetrico nei qi , quindi in (5.13) il fattore F ({q1 , . . . , q6 }) δ (4) (p1 + · · · + p4 ) è completamente simmetrico nei quattro impulsi pi . Il fattore: ! à i X (5.17) exp − pi ×pj 2 1≤i<j≤4 non ha una simmetria definita nei pi , ma quando lo si moltiplica per F ({q1 , . . . , q6 }) · ·δ (4) (p1 + · · · + p4 ) ne sopravvive solo la parte simmetrica. Questa osservazione suggerisce una strategia per evitare di calcolare separatamente tutti e 15 i termini di F ({q1 , . . . , q6 }). Nel caso commutativo si conserva II. Teorie di gauge 56 un solo termine di F ({q1 , . . . , q6 }), poi si considerano tutti i modi di contrarre gli impulsi esterni con quelli del vertice. Molti di questi modi daranno luogo ad uno stesso diagramma. Si definisce il fattore di simmetria del diagramma come il numero di modi equivalenti di contrarre gli impulsi, considerando identiche le configurazioni che differiscono soltanto per permutazioni dei vertici, poiché all’ordine n queste sono n! e si semplificano con il fattore n!−1 proveniente dalla serie perturbativa. Infine si considerano tutti i diagrammi distinti, ma con le stesse linee esterne e allo stesso ordine, con i propri fattori di simmetria, e in questo modo si ricostruiscono tutti i 15 contributi. Nel caso noncommutativo si simmetrizza il fattore (5.17) rispetto a tutti gli scambi degli impulsi pi , dopodiché è possibile definire in generale delle regole di Feynman e seguire lo stesso procedimento. Un fattore del tipo di (5.17) simmetrizzato è proprio il fattore da associare al vertice in questione secondo le regole di Feynman. In questo modo tutta l’informazione rilevante sull’ordine degli impulsi entranti nel vertice è raccolta nel fattore associato al vertice, cosı̀ che è possibile trattare un diagramma di Feynman noncommutativo come se fosse un diagramma commutativo con un fattore di vertice modificato. In particolare le regole di Feynman comprendono tutti i contributi di un singolo diagramma, riunendo i contributi dovuti a differenti configurazioni topologiche delle linee che lo costituiscono, cioè alla parte planare e a quella nonplanare che verranno definite nella sezione 5.1.3. 5.1.2 Un esempio semplice Per illustrare in un esempio semplice l’utilizzo delle regole di Feynman nel caso noncommutativo, ripercorro qui il calcolo ad un loop della funzione a due punti irriducibile a una particella nella teoria λφ4 [35]. Emergono naturalmente la distinzione fra diagrammi planari e nonplanari, che saranno definiti nella sezione 5.1.3, e il fenomeno della connessione tra ultravioletto e infrarosso, che sarà illustrato nella sezione 5.1.4. Considerando soltanto l’interazione del campo φ con sé stesso, e ridefinendo la costante di accoppiamento, l’azione euclidea è: µ ¶ Z 1 1 2 2 λ2 2 4 S= dx (∂µ φ) + m φ + φ ∗ φ ∗ φ ∗ φ (5.18) 2 2 4! Come notato in precedenza, il propagatore della teoria noncommutativa è lo stesso del caso commutativo, quindi la funzione a due punti irriducibile a una particella all’ordine più basso, che non è altro che l’inverso del propagatore, è semplicemente p2 + m2 . Il contributo a un loop, cioè il primo termine della self energia Σ (p), è dato dal diagramma in figura 5.1 (“tadpole”). Le regole di Feynman per i vertici verranno derivate in dettaglio nella sezione 5.2. Nel caso di questo diagramma si semplificano molto, il fattore da associare al vertice è: ¢ λ2 ¡ 2 + Re eik×p (5.19) 3·4! 5.1. Caratteristiche dei diagrammi 57 k p p Figura 5.1: Contributo a un loop alla self energia dove p e k sono rispettivamente l’impulso esterno e quello del loop, come indicato in figura 5.1. Occorre poi moltiplicare per il fattore di simmetria del diagramma, che in questo caso vale 12. In totale la self energia a un loop, Σ(1) (p), è data da: ¡ ¢ Z λ2 d4 k 2 + Re eik×p (1) Σ (p) = (5.20) 6 k 2 + m2 (2π)4 sfruttando la simmetria dell’integrando questo può essere riscritto come: Z Z d4 k d4 k eik×p λ2 1 λ2 (1) (1) (1) Σ (p) = + = Σpl + Σnpl (p) 4 2 4 2 2 2 3 k + m 6 k + m (2π) (2π) (5.21) I due termini possono essere identificati rispettivamente come i contributi del diagramma planare e di quello nonplanare, di cui darò la definizione esatta nella prossima sezione 5.1.3. Per ora è sufficiente notare come il termine planare sia proporzionale al risultato che si trova nel caso commutativo, e quello nonplanare raccolga tutta la dipendenza da θµν . Per poter ricondurre il secondo integrale al primo è utile riscriverli entrambi adoperando la parametrizzazione di Schwinger: Z ∞ 1 2 2 dαe−α(k +m ) (5.22) = 2 2 k +m 0 Con questa sostituzione gli integrali in d4 k diventano gaussiani, e la divergenza quadratica per grandi k si ritrova in una divergenza per piccoli α degli integrali in dα. Risolvendo gli integrali in d4 k si trova: Z ∞ λ2 dα −αm2 (1) Σpl = e (5.23) 2 48π 0 α2 Z ∞ λ2 dα −αm2 − p̃2 (1) 4α Σnpl (p) = e (5.24) 96π 2 0 α2 dove si è posto: p̃µ = θµν pν , [p̃] = [L] 2 ν p̃ p̃2 = θµν p̃ν θµρ p̃ρ = −p̃µ θµν (5.25) (5.26) II. Teorie di gauge 58 −1 Per regolarizzare gli integrali in dα si può ad esempio moltiplicarli per exp (−Λ2 α) , ottenendo: Z ∞ dα −αm2 − 21 λ2 (1) Λ α Σpl = e (5.27) 2 48π 0 α2 (1) Σnpl λ2 (p) = 96π 2 Z ∞ dα −αm2 − e α2 0 p̃2 1 4 + Λ2 α (5.28) È ora evidente che, a meno di fattori, il contributo che ho chiamato nonplanare è identico a quello planare in cui si sia sostituito a Λ2 un cutoff efficace cosı̀ definito: Λ2ef f = 1 1 Λ2 + (5.29) p̃2 4 (1) La dipendenza da p di Σnpl (p) si raccoglie in Λ2ef f . Quindi è sufficiente risolvere l’integrale del termine planare: Z ∞ ¡ √ ¢ λ2 dα −αm2 − 21 λ2 2m2 m2 (1) Λ α = √ Σpl = e K 2 x , x = (5.30) 1 48π 2 0 α2 48π 2 x Λ2 dove K1 (t) è la funzione di Bessel modificata di secondo tipo di ordine uno. Per piccoli valori dell’argomento, K1 (t) può essere approssimata come: K1 (t) −→ t→0 1 t t + ln t 2 2 (5.31) quindi: (1) Σpl (1) Σnpl λ2 ' 48π 2 λ2 (p) ' 96π 2 µ ¶ Λ2 Λ − m ln 2 + O (1) m 2 µ Λ2ef f 2 Λ2ef f − m ln 2 + O (1) m 2 (5.32) ¶ (5.33) dove Λ2ef f è definito in (5.29). È interessante osservare la dipendenza di Λ2ef f da p̃2 . Se il cutoff Λ va all’infinito, 2 Λef f ∼ p̃−2 , e quindi diverge se p̃ → 0 (limite infrarosso). Ne segue che la self energia ha una singolarità nell’infrarosso. Questo significa che le teorie su spaziotempo noncommutativo possono essere valide come teorie effettive solo fino alla scala fissata da un opportuno cutoff infrarosso, analogamente a quanto succede nelle teorie usuali la cui validità è limitata da un cutoff ultravioletto. Questo è un aspetto di un fenomeno più generale, la connessione fra ultravioletto ed infrarosso, da cui segue che la singolarità infrarossa della teoria noncommutativa corrisponde alla divergenza ultravioletta della stessa teoria nel caso commutativo. 5.1. Caratteristiche dei diagrammi 59 Nel caso dell’esempio considerato in questa sezione si può avere un’idea di questi meccanismi osservando la forma dell’azione effettiva, la cui parte quadratica è: Z λ2 ³ ´+ Γ(2) [φ] = d4 p p2 + M 2 + 2 96π 2 Λ12 + p̃4 (5.34) ¡ ¢ λ2 M 2 1 ³ ´ + O λ4 φ̃ (p) φ̃ (−p) − ln 2 2 96π M 2 1 + p̃ Λ2 4 dove si è definita la massa rinormalizzata M 2 : M 2 ' m2 + λ2 Λ2 λ2 m2 Λ2 − ln 2 48π 2 48π 2 m (5.35) A questo punto si considerano due limiti: 1. p̃ → 0: in questo caso Λef f ≈ Λ, e in particolare si ritrova l’azione effettiva del caso commutativo: · Z λ2 Λ2 (2) 4 Γ [φ] = d p p2 + M 2 + + 96π 2 (5.36) ¸ ¡ 4¢ λ2 M 2 Λ2 − ln 2 + O λ φ̃ (p) φ̃ (−p) 96π 2 M Γ(2) [φ] diverge se Λ → ∞ seguendo lo stesso comportamento che ha nel caso commutativo. 2. Λ → ∞: in questo caso Λ2ef f = e l’azione è: " Z Γ(2) [φ] = 4 , p̃2 d4 p p2 + M 2 + 2 − 2 λM ln 96π 2 à 1 2 M 2 p̃4 λ2 2 96π 2 p̃4 ! + # ¡ 4¢ φ̃ (p) φ̃ (−p) +O λ (5.37) Γ(2) [φ] rimane finita tranne che per particolari valori di p̃; in particolare diverge soltanto se p̃ → 0. Questo caso semplice mostra il fenomeno della mescolanza fra ultravioletto e infrarosso caratteristico delle teorie noncommutative. Prendere i limiti Λ → ∞ e p̃ → 0 porta comunque ad una divergenza, però a seconda dell’ordine in cui sono stati effettuati la divergenza che ne risulta ha un significato diverso. Ad esempio si vede come nel limite ultravioletto (Λ → ∞) l’azione effettiva non diverge più a II. Teorie di gauge 60 causa della presenza di p̃−2 che fa da regolatore [49]. La divergenza ricompare se si rimuove questo regolatore, cioè prendendo il limite p̃−2 → ∞, che corrisponde a p̃2 → 0, quindi si tratta di una divergenza infrarossa, legata ad un particolare valore degli impulsi esterni. In totale prendendo prima il limite ultravioletto si ottiene una quantità divergente nell’infrarosso e viceversa; in un certo senso i due limiti non commutano [35]. 5.1.3 Caratteristiche topologiche dei diagrammi Considerando di nuovo il fattore V definito in (5.2): à i X V (k1 , . . . , kn ) = δ (4) (k1 + · · · + kn ) exp − ki ×kj 2 1≤i<j≤n ! (5.2) Il fatto che V non sia invariante per scambi qualsiasi dei suoi argomenti, ma soltanto per permutazioni cicliche, implica che l’ordine delle linee uscenti o entranti in un vertice non è irrilevante, e più in generale che un diagramma in cui due linee si sovrappongono senza creare un vertice, come in figura 5.2, non è equivalente allo stesso diagramma in cui le due linee non si sovrappongono. Figura 5.2: Sovrapposizione senza incrocio Questa caratteristica delle teorie noncommutative permette di introdurre la distinzione tra diagrammi planari e nonplanari. Diagrammi nonplanari sono quelli in cui alcune linee si sovrappongono senza incrociarsi, come in figura 5.2. Il diagramma planare e quello nonplanare che contribuiscono al calcolo della self energia ad un loop nella teoria λφ4 , svolto nella sezione 5.1.2, sono quelli schematizzati nelle figure 5.3 e 5.4 rispettivamente. Questi due diagrammi si ottengono unendo il vertice ai propagatori esterni come indicato rispettivamente nelle figure 5.5 e 5.6. Nel caso commutativo i diagrammi ottenuti nei due modi sarebbero identici, se θµν 6= 0 sono distinguibili perché differiscono nell’ordinamento delle linee che si chiudono a formare il loop. È utile osservare che i fattori V associati ai vari vertici di un diagramma possono essere raccolti in un unico fattore Γ, come dimostro in seguito derivando esplicitamente Γ, nel caso semplice di un termine di interazione del tipo (5.1), dato dal 5.1. Caratteristiche dei diagrammi 61 k p p Figura 5.3: Contributo planare alla self energia a un loop k p p Figura 5.4: Contributo nonplanare alla self energia a un loop prodotto di n campi uguali [34]. Γ comprende tutta la dipendenza da θµν del diagramma. In questo caso naturalmente si sta distinguendo fra diagrammi planari e nonplanari, poiché a diversi modi di unire vertici e propagatori per formare il diagramma corrisponde un diverso ordinamento degli impulsi nei vari fattori V che vengono moltiplicati, e quindi, come si vedrà, un diverso Γ. Si comincia adoperando due proprietà di V per osservare quali impulsi, esterni o interni, contribuiscono al fattore Γ del diagramma in questione. Tenendo presente la ciclicità di V e l’antisimmetria di θµν è facile dimostrare che V soddisfa le seguenti relazioni: 1. V (k1 , . . . , kn1 , p) V (−p, kn1 +1 , . . . , kn2 ) = = V (k1 , . . . , kn2 ) δ (k1 + · · · + kn1 + p) (5.38) 2. V (k1 , . . . , kn1 , p, kn1 +1 , . . . , kn2 , −p) = =V (k1 , . . . , kn1 , kn1 +1 , . . . , kn2 ) se n2 X (5.39) ki = 0 i=n1 +1 La prima relazione, (5.38), stabilisce che, ai fini del calcolo dei fattori V , un diagramma con un propagatore interno di impulso p porta allo stesso risultato di un diagramma identico al primo ma in cui i due vertici uniti dal propagatore siano II. Teorie di gauge 62 Figura 5.5: Collegamento fra linee esterne e vertice che porta ad un diagramma planare Figura 5.6: Collegamento fra linee esterne e vertice che porta ad un diagramma nonplanare riuniti in un unico vertice. Infatti p scompare dal fattore di fase e il fatto che rimanga nella δ non modifica la dipendenza da θµν . In altri termini ai due diagrammi in figura 5.7 corrisponde lo stesso fattore di fase Γ. La seconda relazione, (5.39), stabilisce che anche un loop che non si sovrappone con nessuna linea non modifica Γ, e quindi ai due diagrammi in figura 5.8 corrisponde lo stesso fattore Γ. I vincoli aggiuntivi sugli impulsi non costituiscono un problema perché sono in accordo con i vincoli sugli impulsi interni ed esterni per ciascun diagramma. k n2 k n1 k n2 k n1 p k1 k n1+1 k1 k n1+1 Figura 5.7: Diagrammi cui corrisponde lo stesso fattore di fase, secondo la formula (5.38) Per quanto riguarda il calcolo del fattore Γ, tramite le due proprietà (5.38) e (5.39) è possibile associare ad ogni diagramma di Feynman un diagramma semplificato ottenuto dal diagramma originario eliminando gli elementi che non contribuiscono a Γ. Quindi per definizione ai due diagrammi corrisponde lo stesso fattore 5.1. Caratteristiche dei diagrammi 63 p Figura 5.8: Diagrammi cui corrisponde lo stesso fattore di fase, secondo la formula (5.39) Γ. Si vede che grazie a (5.38) il diagramma semplificato conterrà un solo vertice, e che per (5.39) non conterrà nessun loop che non si sovrapponga con qualche linea. Con questa procedura ad ogni diagramma possono essere associati più diagrammi semplificati distinti, ma il fattore Γ risultante sarà invariato, a causa della simmetria di V per permutazioni cicliche. La figura 5.9 illustra un esempio di un diagramma cui viene associato un diagramma semplificato. Figura 5.9: Diagramma generico cui viene associato un diagramma semplificato Se il diagramma originario è planare il diagramma semplificato risultante non conterrà loop. Quindi il fattore Γ associato ad entrambi dipende soltanto dagli impulsi esterni, è proprio il fattore V definito in (5.2) scritto per gli impulsi esterni; è quindi uguale per tutti i diagrammi planari con le stesse linee esterne. Se invece il diagramma originario è nonplanare il diagramma semplificato risultante contiene loop che si sovrappongono con altri loop o con linee esterne. Il fattore Γ associato ad entrambi comprende quello che si avrebbe se il diagramma originario fosse planare, cioè un esponenziale ed una δ di conservazione dipendenti dagli impulsi esterni, e un ulteriore esponenziale dipendente anche dagli impulsi interni. Assegnando alle linee esterne o interne un indice (in modo arbitrario) e un’orientazione (+k e −k corrispondono rispettivamente ad un impulso uscente e entrante in un vertice) si può definire una matrice di intersezione per un diagramma II. Teorie di gauge 64 di Feynman: se la linea j interseca la linea i da destra 1 Iij = −1 se la linea j interseca la linea i da sinistra 0 se le linee j e i non si intersecano (5.40) Con questa definizione si può scrivere la forma del fattore Γ per un diagramma nonplanare: à ! iX Γ = V (impulsi esterni) exp − Iij ki ×kj (5.41) 2 ij dove V (k1 , . . . , kn ) è definito in (5.2). Iij può essere equivalentemente la matrice di intersezione del diagramma di Feynman originario o di quello semplificato. Ridefinizioni di Iij o degli indici associati alle linee non modificano (5.41) a causa della simmetria per permutazioni cicliche degli impulsi. (5.41) è valido anche nel caso di diagrammi planari: Iij è identicamente nulla e si ritrova il risultato precedente. A questo punto si può ritrovare per questa strada la regola di Feynman (5.19) enunciata nella sezione 5.1.2. Al diagramma planare di figura 5.3 compete soltanto un fattore di¢ fase dipendente dagli impulsi esterni, che in questo caso è del tipo ¡ exp − 2i p×p = 1. Il diagramma nonplanare, in figura 5.4, ha anche un fattore di fase dipendente dagli impulsi interni, che in questo caso si riduce a eik×p . I fattori di simmetria dei diagrammi planare e nonplanare sono rispettivamente 8 e 4 perché bisogna aggiungere la richiesta addizionale che ci sia o meno sovrapposizione tra le linee. Sommando i due contributi si ritrova proprio (5.19). 5.1.4 Convergenza e connessione fra ultravioletto e infrarosso Come già notato la teoria noncommutativa libera è uguale a quella commutativa, invece per quanto riguarda la teoria interagente l’introduzione dello star prodotto fa sı̀ che i termini di interazione contengano infinite derivate dei campi, di ordine via via più alto. Questo si vede facilmente sviluppando (4.14) in serie di potenze di θµν : ¯ µ ¶ ¯ i µν y z = θ ∂µ ∂ν φ1 (y) φ2 (z)¯¯ φ1 (x) ∗ φ2 (x) = exp 2 y=z=x µ µν ¶n (5.42) iθ y z ∂ ∂ ∞ ν µ X 2 = φ1 (y) φ2 (z)|y=z=x n! n=0 Ne segue che nelle teorie noncommutative le interazioni sono non locali. Si potrebbe allora pensare che l’effettiva regolarizzazione causata dalla nonlocalità sia sufficiente ad eliminare le divergenze a livello di espansione perturbativa. Al contrario, tutte 5.1. Caratteristiche dei diagrammi 65 le divergenze della teoria commutativa si ritrovano nella teoria noncommutativa. Questo perché in presenza di θµν 6= 0 diagrammi di Feynman con una certa topologia possono acquisire nuove divergenze [34]. Inoltre (5.42) potrebbe portare a supporre che ad energie molto minori della scala di noncommutatività, k 2 ¿ θ−1 , i termini con derivate di ordine più alto siano termini irrilevanti. Ci si aspetterebbe quindi che nell’infrarosso sia lecito trascurarli. Questo significherebbe che il comportamento della teoria noncommutativa nell’infrarosso è identico a quello della teoria commutativa corrispondente. Si trova che a livello classico questo è vero, ma quantisticamente questa ipotesi è invalidata dalla mescolanza fra limite infrarosso e ultravioletto nell’espansione perturbativa della teoria noncommutativa [37]. Tenendo presente il fattore di fase Γ e la distinzione fra diagrammi planari o nonplanari, introdotti nella sezione precedente, è possibile cominciare a delineare il problema della convergenza dei diagrammi di Feynman di una teoria noncommutativa [50, 35]. La situazione è profondamente diversa per diagrammi planari o nonplanari. Nel primo caso il fattore di fase Γ dipende solo dagli impulsi esterni, quindi il diagramma dà lo stesso risultato già noto dalla teoria commutativa, a meno di Γ e di eventuali fattori di molteplicità. In particolare le divergenze sono le stesse del caso commutativo. Nel caso di diagrammi nonplanari invece la presenza di un fattore di fase Γ dipendente anche dagli impulsi interni cambia radicalmente la situazione. Questa fase migliora il comportamento ultravioletto del diagramma e si potrebbe quindi pensare che lo renda finito. Più in generale, si potrebbe pensare che i diagrammi nonplanari non abbiano divergenze oltre a quelle dovute ad eventuali sottodiagrammi planari divergenti, e che quindi basti rinormalizzare questi ultimi. Si è trovato che questo non è sempre vero. È opportuno distinguere ulteriormente la situazione fra nonplanarità dovuta a sovrapposizioni fra linee interne (cioè al carattere nonplanare del diagramma amputato) o a sovrapposizioni fra linee esterne ed interne. Si trova che diagrammi con nonplanarità che coinvolge solo le linee interne, e i cui sottodiagrammi nonplanari sono dello stesso tipo, sono convergenti. Si può definire un cutoff efficace che svolge il ruolo che ha il cutoff Λef f introdotto nella sezione 1 5.1.2. Si trova che la dipendenza da θµν del cutoff efficace è della forma θ− 2 [36], dove θ è uno degli autovalori di θµν (supponendo che siano tutti dello stesso ordine di grandezza). Per diagrammi con nonplanarità che riguarda anche le linee esterne la situazione è più complicata. Se i sottodiagrammi nonplanari non sono dello stesso tipo il diagramma è finito o meno a seconda dei valori degli impulsi esterni, poiché il cutoff efficace è della forma p̃−1 (dove p̃ è definito in (5.25)). L’esempio della sezione 5.1.2 rientra in questo caso, infatti il diagramma nonplanare corrispondente (figura 5.4) ha una sovrapposizione fra una linea interna e una esterna, e il cutoff efficace, derivato esplicitamente, è proprio della forma p̃−1 (v. (5.29)). È in quest’ultimo caso che si ritrova la connessione fra ultravioletto e infrarosso, come già anticipato nella sezione 5.1.2. Infatti Γ rende il diagramma convergente 66 II. Teorie di gauge nell’ultravioletto, ma vale 1 se gli impulsi esterni si annullano e il diagramma diverge di nuovo. Poiché emerge nel limite in cui gli impulsi esterni tendono a zero, la divergenza cosı̀ trovata è una divergenza infrarossa. Dato il particolare meccanismo specifico a questo tipo di teorie, contrariamente al solito questa divergenza infrarossa non segnala la presenza di una particella di massa nulla. Il fenomeno della connessione fra ultravioletto e infrarosso rende problematico il limite commutativo di una teoria noncommutativa. Infatti nel limite θµν → 0 ci si aspetterebbe di ritrovare la teoria commutativa, ma se θµν → 0 anche p̃ → 0 e quindi un’intera classe di diagrammi di Feynman diverge in modo particolare. Quindi se alcune grandezze della teoria noncommutativa nel limite θµν → 0 riacquistano la forma che hanno nel caso commutativo lo stesso non vale per l’intera teoria. Intuitivamente la connessione fra infrarosso e ultravioletto può essere giustificata nel modo seguente. La noncommutatività delle coordinate implica relazioni come δxδy ≥ 1 (in unità opportune); quindi il limite δx → 0 (limite ultravioletto per la coordinata x) equivale al limite δy → ∞ (limite infrarosso per la coordinata y) [51]. 5.2. Regole di Feynman 5.2 67 Regole di Feynman In questa sezione derivo le regole di Feynman su spaziotempo noncommutativo relative all’interazione del campo scalare con sé stesso, e alle interazioni di varie particelle neutre con il campo di gauge, tramite le azioni definite nella sezione 4.2. I propagatori sono gli stessi del caso commutativo, li riporto per completezza. Il vertice a quattro scalari è l’unico che esiste anche nel caso commutativo, quindi ha una dipendenza da θµν leggermente diversa dagli altri, e in particolare non si annulla nel limite θµν → 0. Tutti gli altri vertici che considero presentano una dipendenza da fattori come sin p×q che si annullano se θµν = 0. Le regole di Feynman relative ai vertici sono presentate anche in [38]; tuttavia io ho voluto derivarle indipendentemente, e si può notare che non tutti i fattori da me ottenuti concordano con quelli presenti in [38]. Ciononostante adoperando i vertici da me ricavati per ripercorrere il calcolo della self energia del fotone presentato in [38] ho ottenuto gli stessi risultati di [38]. Attribuisco quindi le discrepanze tra i vertici di Feynman presenti in [38] e quelli derivati da me ad un errore tipografico in [38]. In seguito ho adoperato i vertici calcolati da me anche per calcolare la self energia dello scalare neutro e del fermione di Majorana, che non sono presenti nella letteratura. 5.2.1 Propagatori Come già osservato nella sezione 5.1.1 la teoria noncommutativa libera è uguale a quella commutativa, quindi i propagatori sono uguali a quelli del caso commutativo; li riporto per completezza. Per il propagatore del fotone scelgo la gauge di Feynman. • fotone: igµν p2 (5.43) i − m2 (5.44) − • scalare: p2 • fermione: i γ µ pµ − m = i (γ µ pµ + m) p2 − m2 (5.45) • ghost: i p2 (5.46) II. Teorie di gauge 68 5.2.2 Vertice a quattro scalari Definendo la costante d’accoppiamento come è d’uso nella letteratura [35], il termine dell’azione che genera l’interazione a quattro scalari è: −λ2 Sint (φ) = 4! Z d4 xφ (x) ∗ φ (x) ∗ φ (x) ∗ φ (x) (5.47) poi, passando nello spazio degli impulsi e usando (4.22): iSint −iλ2 = 4! −iλ2 = 4! −iλ2 = 4! Z d4 xφ (x) ∗ φ (x) ∗ φ (x) ∗ φ (x) = Z Z d4 pd4 qd4 kd4 h 4 d xφ̃ (p) φ̃ (q) φ̃ (k) φ̃ (h) e−ipx ∗ e−iqx ∗ e−ikx ∗ e−ihx = 16 (2π) d4 pd4 qd4 kd4 h 4 d xφ̃ (p) φ̃ (q) φ̃ (k) φ̃ (h) · (2π)16 i ·e−ix(p+q+k+h) e− 2 (p×q+p×h+q×k+q×h+k×h) = Z 4 4 4 4 d pd qd kd h (4) −iλ2 δ (p + q + k + h) · = 4! (2π)12 i ·φ̃ (p) φ̃ (q) φ̃ (k) φ̃ (h) e− 2 (p×q+p×k+p×h+q×k+q×h+k×h) (5.48) Come osservato nella sezione 5.1.1, per fare i calcoli è conveniente usare un fattore di vertice simmetrico negli impulsi. Per ottenerlo si riscrive (5.48) nel modo seguente, sfruttando la possibilità di rinominare le variabili mute: ³ ´ −iλ2 Z d4 pd4 qd4 kd4 h δ (4) (p + q + k + h) · iSint φ̃ = 2 12 (4!) (2π) h i ·φ̃ (p) φ̃ (q) φ̃ (k) φ̃ (h) e− 2 (p×q+p×k+p×h+q×k+q×h+k×h) + + tutte le permutazioni di p, q, k, h] (5.49) 5.2. Regole di Feynman 69 Ricordando che p×q = −q×p e adoperando la δ per eliminare un impulso, ad esempio h, si ottiene: ³ ´ −iλ2 Z d4 pd4 qd4 k iSint φ̃ = φ̃ (p) φ̃ (q) φ̃ (k) φ̃ (−p − q − k) · 6·4! (2π)12 i i i ·(e− 2 (p×q+p×k+q×k) + e− 2 (p×q+p×k−q×k) + e− 2 (−p×q+p×k+q×k) + i i i + e− 2 (p×q−p×k−q×k) + e− 2 (−p×q−p×k+q×k) + e− 2 (−p×q−p×k−q×k) ) = Z 4 4 4 −iλ2 d pd qd k = φ̃ (p) φ̃ (q) φ̃ (k) φ̃ (−p − q − k) · 3·4! (2π)12 µ ¶ p×q + p×k q×k p×q − p×k − q×k · 2 cos cos + cos 2 2 2 (5.50) ne segue che il fattore da associare al vertice secondo le regole di Feynman è: −iλ2 3·4! µ ¶ p×q + p×k q×k p×q − p×k − q×k 2 cos cos + cos 2 2 2 (5.51) dove p, q e k sono gli impulsi di tre dei quattro scalari, orientati tutti allo stesso modo (tutti entranti o tutti uscenti). Usando le formule di trigonometria riportate in appendice è possibile riscrivere questo fattore in una forma più simmetrica negli impulsi: µ ¶ −iλ2 p×q + p×k + q×k p×q + p×k − q×k p×q − p×k − q×k cos + cos + cos 3·4! 2 2 2 (5.52) in questo modo è possibile verificare che il fattore è invariante sotto qualsiasi scambio degli impulsi. Se θµν = 0 (5.52) si riduce a: −iλ2 −iλ2 ·3 = 3·4! 4! (5.53) che è proprio il fattore da associare ad un vertice di quattro scalari nel caso commutativo. Nella sezione 5.1.2 ho utilizzato questo vertice in un caso particolare. Per ritrovare esplicitamente (5.19) occorre assegnare agli impulsi i nomi indicati in figura 5.1. Ad esempio si può rinominare p → p, q → −k, k → k, ottenendo: ¢ −iλ2 ¡ 2 + Re eik×p 3·4! (5.54) II. Teorie di gauge 70 che è proprio (5.19) scritta nel minkowskiano. Si vede quindi che dividere il contributo di un diagramma in planare e nonplanare e valutarne separatamente i fattori esponenziali e di simmetria porta allo stesso risultato che si ottiene adoperando le regole di Feynman e valutando il fattore di simmetria del diagramma come se fosse commutativo. Per derivare gli altri vertici si procede esattamente nello stesso modo, quindi mi limito ad illustrare brevemente alcuni passi dei calcoli e il risultato finale. 5.2.3 Vertici fotoni - scalari neutri L’azione per scalari che si trasformano secondo l’aggiunta del gruppo di gauge è (v. (4.61)): Z 1 S (φ) = d4 x Dµ φ ∗ Dµ φ = 2 Z 1 (5.55) = d4 x (∂µ φ ∗ ∂ µ φ − ig (∂µ φ ∗ [Aµ , φ]∗ + [Aµ , φ]∗ ∗ ∂µ φ) + 2 ¢ −g 2 [Aµ , φ]∗ ∗ [Aµ , φ]∗ Vertice fotone - due scalari Considerando il termine della lagrangiana d’interazione che genera il vertice a un fotone e due scalari, e sfruttando la ciclicità dello star prodotto sotto integrale (4.26) si ottiene: Z g iSint = d4 x (∂µ φ ∗ [Aµ , φ]∗ + [Aµ , φ]∗ ∗ ∂µ φ) = 2 (5.56) Z =g d4 x (Aµ ∗ φ ∗ ∂µ φ − Aµ ∗ ∂µ φ ∗ φ) Passando nello spazio degli impulsi e usando (4.22): ³ iSint Z ´ d4 pd4 qd4 k µ φ̃, à =g d4 x à (p) φ̃ (q) φ̃ (k) (−ikµ ) · (2π)12 ³ i ´ −ix(p+q+k) − 2 (p×q+p×k+q×k) − 2i (p×q+p×k−q×k) ·e e −e (5.57) Ripetendo in questo caso il calcolo svolto nella sezione (5.1.1) per l’interazione a quattro scalari, si troverebbe che l’analogo del fattore F definito in (5.15) non è simmetrico per qualunque scambio degli impulsi ma soltanto per scambi fra impulsi dei fotoni o degli scalari. Il vertice, contenendo un solo fotone, può essere reso simmetrico soltanto rispetto a permutazioni degli impulsi degli scalari. Quindi in 5.2. Regole di Feynman questo caso è sufficiente riscrivere (5.57) nel modo seguente: ³ ´ gZ d4 pd4 qd4 k µ iSint φ̃, à = d4 x à (p) φ̃ (q) φ̃ (k) e−ix(p+q+k) · 2 (2π)12 h ³ i ´ i · (−ikµ ) e− 2 (p×q+p×k+q×k) − e− 2 (p×q+p×k−q×k) + 71 (5.58) ³ i ´i i + (−iqµ ) e− 2 (p×q+p×k−q×k) − e− 2 (p×q+p×k+q×k) Di fatto ci si limita ad eliminare l’asimmetria proveniente dal fatto che uno dei campi φ è derivato e l’altro no. Infine estraendo la δ di conservazione ed usandola per eliminare l’impulso del fotone si ottiene: ³ ´ Z d4 qd4 k q×k µ iSint φ̃, à = (5.59) 8 à (−q − k) φ̃ (q) φ̃ (k) g (qµ − kµ ) sin 2 (2π) che consente di identificare il fattore da associare al vertice secondo le regole di Feynman: q×k g (qµ − kµ ) sin (5.60) 2 dove q e k sono gli impulsi degli scalari, entrambi entranti, poiché la presenza di una derivata definisce un verso per gli impulsi. Per come è stato costruito il fattore (5.60) è invariante sotto lo scambio q ↔ k, come è facile verificare. Vertice due fotoni - due scalari Il termine della lagrangiana d’interazione che genera il vertice a due fotoni e due scalari è: Z ¡ ¢ 1 2 µν Sint = − g g d4 x [Aν , φ]∗ ∗ [Aµ , φ]∗ = 2 (5.61) Z = − g 2 g µν d4 x (φ ∗ Aµ ∗ φ ∗ Aν − Aµ ∗ Aν ∗ φ ∗ φ) Passando allo spazio degli impulsi: Z ³ ´ d4 pd4 qd4 kd4 h −ix(p+q+k+h) 2 µν iSint φ̃, à = −ig g d4 x e φ̃ (p) õ (q) φ̃ (k) Ãν (h) · (2π)16 ³ i ´ i · e− 2 (p×q+p×k+p×h+q×k+q×h+k×h) − e− 2 (q×h+q×p+q×k+h×p+h×k+p×k) (5.62) Si procede esattamente come già visto nei due casi precedenti. Stavolta la massima simmetria che il fattore di vertice può avere corrisponde a scambi fra impulsi II. Teorie di gauge 72 dei fotoni o degli scalari. Quindi nel riscrivere (5.62) è sufficiente considerare le 4 permutazioni (p, q, k, h), (k, q, p, h), (p, h, k, q), (k, h, p, q) (l’ultima sarà identica alla prima per la ciclicità dello star prodotto sotto integrale). Nel caso dei fotoni si può considerare che la simmetrizzazione si riferisca agli impulsi o alle polarizzazioni; è la stessa cosa poiché a ciascun impulso viene fatta corrispondere sempre la stessa polarizzazione. Con passaggi analoghi a quelli descritti in precedenza si trova: Z 4 4 4 ³ ´ d pd qd k 2 µν iSint φ̃, à =ig g φ̃ (p) õ (q) φ̃ (k) Ãν (−p − q − k) · (2π)12 (5.63) µ ¶ p×q p×k + q×k q×k p×q + p×k · sin sin + sin sin 2 2 2 2 Quindi il fattore da associare al vertice secondo le regole di Feynman è: µ ¶ p×q p×k + q×k q×k p×q + p×k 2 µν ig g sin sin + sin sin 2 2 2 2 (5.64) dove p e k sono gli impulsi degli scalari, q è l’impulso di un fotone e l’impulso dell’altro fotone è stato eliminato con la conservazione dell’impulso. Gli impulsi sono tutti orientati allo stesso modo, tutti entranti o tutti uscenti. È facile verificare che in effetti il fattore è invariante sotto lo scambio p ↔ k. 5.2.4 Vertice fotone - fermione di Majorana L’azione per un fermione di Majorana che interagisce con il fotone è (v. (4.59)): Z ¡ ¢ ¡ ¢ S ψ, ψ̄, Aµ = d4 x iψ̄ ∗ (γ µ ∂µ − m) ψ + g ψ̄ ∗ [γ µ Aµ , ψ]∗ (5.65) Ad ogni vertice corrisponde un termine: Z d4 pd4 qd4 k ψ̄ (p) γ µ Aµ (q) ψ (k) · iSint =ig d4 x (2π)12 ¡ ¢ · e−ipx ∗ e−iqx ∗ e−ikx − e−ipx ∗ e−ikx ∗ e−iqx = Z 4 4 ´ ³ i d pd k − 2i (p×k) µ − 2 (−p×k) − e = =ig ψ̄ (p) γ A (−p − k) ψ (k) e µ (2π)8 Z 4 4 d pd k p×k µ = − 2gγ 8 ψ̄ (p) Aµ (−p − k) ψ (k) sin 2 (2π) (5.66) In questo caso non ci sono simmetrizzazioni dell’integrando da fare perché ogni fattore corrisponde ad un campo distinguibile dagli altri tramite qualche numero quantico. Il fattore da associare al vertice è: 2gγ µ sin k×p 2 (5.67) 5.2. Regole di Feynman 73 dove p e k sono gli impulsi del fermione e dell’antifermione rispettivamente, se considerati entrambi uscenti, o dell’antifermione e del fermione rispettivamente, se considerati entrambi entranti. Questo consegue dal tipo di operatori di creazione e distruzione contenuto nei campi ψ o ψ̄. In termini del fermione il vertice è: 2gγ µ sin p×k 2 (5.68) dove p è l’impulso del fermione uscente e k l’impulso del fermione entrante. 5.2.5 Vertici a più fotoni L’azione è (v. (4.57)): 1 S=− 4 Z d4 xFµν ∗ F µν (5.69) dove: Fµν = ∂µ Aν − ∂ν Aµ − ig [Aµ , Aν ]∗ (5.70) perciò: Z Sint = £ ¡ ¢ d4 x ig∂α Aβ (x) ∗ Aγ (x) ∗ Aδ (x) g αγ g βδ − g αδ g βγ + ¡ ¢ g2 + Aα (x) ∗ Aβ (x) ∗ Aγ (x) ∗ Aδ (x) g αγ g βδ − g αδ g βγ 2 ¸ (5.71) Vertice a tre fotoni Il termine dell’azione che genera il vertice a tre fotoni è: Z ¡ ¢ Sint = ig d4 x∂α Aβ (x) ∗ Aγ (x) ∗ Aδ (x) g αγ g βδ − g αδ g βγ (5.72) La massima simmetria del fattore di vertice corrisponde a scambi di tutti gli impulsi; per ottenere il fattore di vertice con questa simmetria occorre simmetrizzare (5.72) rispetto alle 4! permutazioni degli indici muti α, β, γ, δ. Questo equivale a considerare tutte le permutazioni degli impulsi perché, come osservato calcolando il vertice a due fotoni e due scalari, ad ogni polarizzazione viene fatto corrispondere sempre lo stesso impulso. Alla fine dei calcoli, dopo aver eliminato un impulso con la δ di conservazione resta: Z 4 4 d pd q p×q −g · iSint = 8 Ãα (p) Ãβ (q) Ãγ (−p − q) sin 3 2 (2π) (5.73) ¢ ¡ ·(g αβ (pγ − q γ ) + g αγ −2pβ − q β + g βγ (2q α + pα )) II. Teorie di gauge 74 e quindi il fattore da associare al vertice è: ¢ ¡ ¢ −g ¡ αβ γ p×q g (p − q γ ) + g αγ −2pβ − q β + g βγ (2q α + pα ) sin 3 2 (5.74) dove p e q sono gli impulsi di due dei tre fotoni, tutti entranti poiché la derivata fissa il verso degli impulsi in questo modo. All’impulso p corrisponde la polarizzazione α, all’impulso q la polarizzazione β, all’impulso k = −p − q la polarizzazione γ. Il fattore è simmetrico per lo scambio (p, α) ↔ (q, β). Vertice a quattro fotoni Il vertice a quattro fotoni è generato dal termine: Z ¡ ¢ g2 d4 xAα (x) ∗ Aβ (x) ∗ Aγ (x) ∗ Aδ (x) g αγ g βδ − g αδ g βγ Sint = 2 (5.75) Per ottenere un fattore di vertice simmetrico rispetto a tutti gli scambi degli impulsi si riscrive (5.75) simmetrizzando sulle 24 possibili permutazioni degli indici muti. Dopo aver eseguito i calcoli come nei casi precedenti ed aver eliminato un impulso con la δ di conservazione si trova: Z 4 4 4 ig 2 d pd qd k Ãα (p) Ãβ (q) Ãγ (k) Ãδ (−p − q − k) · iSint = − 6 (2π)12 · ¡ ¢ p×k + q×k p×q · g αγ g βδ − g αδ g βγ sin sin + 2 2 (5.76) ¡ αβ δγ ¢ p×q + p×k q×k − g g − g αγ g δβ sin sin + 2 2 ¸ ¡ αδ γβ ¢ p×k p×q − q×k αβ γδ − g g − g g sin sin 2 2 Il fattore da associare al vertice è: ¢ 2 £¡ αγ βδ − ig − g αδ¢g βγ sin p×k+q×k sin p×q + 2 2 ¡6 αβ gδγ g αγ p×q+p×k q×k δβ − ¡g g − g g ¢ sin sin 2 + 2 ¤ p×q−q×k p×k αδ γβ αβ γδ sin − g g − g g sin 2 2 (5.77) simmetrico per scambi delle coppie di indici (p, α), (q, β), (k, γ). Gli impulsi sono orientati tutti allo stesso modo, sono tutti entranti o tutti uscenti. 5.2.6 Vertice fotone - ghosts Calcolando valori di aspettazione di operatori O (A) invarianti di gauge: R DAeiS(A) O (A) R hO (A)i = DAeiS(A) (5.78) 5.2. Regole di Feynman 75 si trovano risultati privi di significato, poiché si integra sia su potenziali che corrispondono a configurazioni fisiche differenti che su tutte le loro repliche di gauge, e siccome l’azione è invariante di gauge l’integrazione sulle (infinite) repliche di gauge non è soppressa. Per risolvere questo problema si riscrive l’integrazione funzionale su tutti i potenziali come integrazione sull’orbita di gauge di ogni potenziale, costituita da tutte le sue repliche di gauge, e poi sui potenziali che corrispondono a situazioni fisiche differenti. L’integrazione sull’orbita di gauge può essere espressa come integrazione sul gruppo; non dipendendo da A si semplifica nella normalizzazione del funzionale generatore. Quindi l’integrazione funzionale è limitata ai potenziali che corrispondono a situazioni fisiche differenti, o più in generale ad un’ipersuperficie che intersechi ogni orbita di gauge un numero finito di volte. Nel procedimento di Faddeev e Popov questa restrizione viene realizzata inserendo nell’integrale funzionale il fattore: ¡ ¡ ¢¢ ∆f (A) δ f AΩ (5.79) µ ¡ ¡ ¢¢ dove AΩ AΩ restringe l’integrazione µ indica la trasformata di gauge di Aµ . δ f ¡ Ω ¢µ ¡ ¢ funzionale all’ipersuperficie scelta, identificata da f Aµ = 0; ad esempio f AΩ µ = µ Ω ∂ Aµ . Il determinante di Faddeev e Popov ∆f (A) viene introdotto per mantenere l’invarianza di gauge. È cosı̀ definito: ∆f (A) = R 1 ¡ ¡ ¢¢ δΩδ f AΩ µ (5.80) R dove δΩ rappresenta l’integrazione sull’orbita di gauge scritta come integrazione sul gruppo. Supponendo che l’ipersuperficie intersechi ogni orbita di gauge una sola volta si può limitare l’integrazione sull’orbita di gauge ad un intorno centrato sui potenziali¡ Aµ¢ appartenenti all’ipersuperficie, cioè tali che f (Aµ ) = 0. Si ¡riscrive ¢ Ω quindi f AΩ = µ per trasformazioni di gauge infinitesime. Se ad esempio f Aµ µ Ω µ Ω µ µ µ ∂ Aµ , si ha ∂ Aµ = ∂ Aµ + ∂ δΩ Aµ = ∂ δΩ Aµ . λ Nel caso commutativo abeliano si ha AΩ µ = Aµ = Aµ + ∂µ λ; δΩ Aµ = ∂µ λ non dipende da Aµ , neanche ∆f (A) dipende da Aµ e quindi si semplifica nella normalizzazione del funzionale generatore. Nel caso commutativo nonabeliano vale Ω ' 1 − ig a (x) λa con λa ∈ SU (N ) a abc b c a Aµ g e ∂ µ δΩ Aaµ = con costanti di struttura f abc . Si ha AaΩ µ = Aµ − ∂µ g − f c ac µ ac ∂ Dµ (A) g , dove Dµ (A) è la derivata covariante della rappresentazione aggiunta scritta in componenti. Si può calcolare ∆f (A) esplicitamente: ¡ ¢ δ ∂ µ Dµac (A) g c = det ¡ 1 ∂ µ Dµac ¢ δ (g c ) (A) (5.81) ¢ ¡ ¢ ¡ µ ac det ∂ µ Dµac (A) 1 R ¢= ¡ ∆f (A) = R (A) (5.82) = det ∂ D µ δΩδ (g c ) δΩδ ∂ µ AΩ µ R perché il fattore δΩδ (g c ) si semplifica nella normalizzazione del funzionale generatore. Si scrive questo determinante come il risultato di un integrale gaussiano II. Teorie di gauge 76 fermionico nell’euclideo: ¡ det ∂ Z = µ Dµac ¢ (A) = µZ Z DcDc̄ exp ¶ 4 a µ d xc̄ ∂ Dµac c (A) c = µ Z ¶ ¡ µ a a ¢ 4 µ a abc b c DcDc̄ exp − d x ∂ c̄ ∂µ c + ∂ c̄ f Aµ c (5.83) c sono i ghosts: campi fittizi, fermionici, scalari (non hanno indici vettoriali o spinoriali), che compaiono ¡ µ ac solo ¢ nei loop. Sono solo una rappresentazione matematica del fattore det ∂ Dµ (A) che serve a mantenere l’invarianza di gauge; tuttavia trattandoli come particelle che compaiono nei loop è più facile vedere che contribuiscono alla cancellazione dei gradi di libertà non fisici della teoria. Nel caso noncommutativo, come osservato nella sezione 4.2, sebbene il gruppo di gauge sia U (1) la situazione è analoga a quella del caso commutativo nonabeliano. Ad esempio la trasformazione di gauge del potenziale Aµ dipende da Aµ stesso: δα Aµ = ∂µ α − ig [Aµ , α]∗ (5.84) quindi l’unitarietà della teoria richiede l’esistenza di un vertice a un fotone e due ghosts. Si può verificare che il fattore da associare a questo vertice è [38, 52]: 2gpµ sin p×k 2 dove p è l’impulso del ghost uscente e k è l’impulso del ghost entrante. (5.85) Capitolo 6 Diagrammi di self energia In questo capitolo calcolo i diagrammi di self energia del fotone, dello scalare neutro e del fermione di Majorana. Nel calcolare la self energia del fotone ho ripercorso quanto esposto in [38], mentre la self energia dello scalare neutro e del fermione di Majorana non sono presenti nella letteratura. Il calcolo dei diagrammi di self energia è interessante perché la self energia descrive la correzione alla propagazione libera delle particelle. Tenendo conto di questa correzione è possibile ottenere le relazioni di dispersione, che caratterizzando le proprietà di propagazione delle particelle offrono un’opportunità di verifica sperimentale dei risultati. 6.1 Self energia del fotone In questa sezione ripercorro il calcolo della self energia del fotone [38], adoperando i vertici ricavati nella sezione 5.2. Considero in particolare i contributi specifici del caso noncommutativo, cioè quelli che coinvolgono particelle neutre: fermioni di Majorana, scalari neutri, fotoni stessi e ghosts. Seguendo il procedimento esposto in [38] non calcolo esattamente i vari contributi ma mi limito ad individuare la parte divergente e ad isolarne la dipendenza da θµν . 6.1.1 Contributo dei fermioni di Majorana Il diagramma che descrive il contributo alla self energia del fotone dato dall’inserzione di un loop di fermioni è riportato in figura 6.1. Il fattore di simmetria è stato definito nella sezione 5.1.1 come il numero di modi possibili in cui unire le linee per formare il diagramma, in cui però non si considerano come differenti i modi che differiscono solo per permutazioni dei vertici, perché portano un n! che si semplifica con il fattore n!−1 proveniente dalla serie perturbativa. In questo caso il fattore di simmetria vale 1. 77 II. Teorie di gauge 78 l p p l-p Figura 6.1: Contributo dei fermioni di Majorana Usando il vertice (5.68) e gli impulsi definiti come in figura: Z d4 l i i µν 2 iΠf (p) = − 4g tr (γ µ γ ρ γ ν γ σ ) · 4 2 2 2 2 (2π) l − m (l − p) − m · (lρ + m) (lσ − pσ + m) sin Z = − 4g l× (l − p) (l − p) ×l sin = 2 2 (6.1) d4 l tr (γ µ γ ρ γ ν γ σ ) (lρ + m) (lσ − pσ + m) 2 p̃l ¡ ¢ sin 2 (2π)4 (l2 − m2 ) (l − p)2 − m2 2 dove p̃µ , definito in (5.25), è θµν pν ; quindi p̃l = l×p. Considerando il caso di grandi impulsi del loop, cioè conservando solo la parte divergente: Z p̃l d4 l tr (γ µ γ ρ γ ν γ σ ) lρ lσ µν µν0 2 sin2 (6.2) iΠf (p) → iΠf (p) = −4g 4 4 l 2 (2π) Con un’identità trigonometrica: sin2 ¢ 1 − cos p̃l 1¡ p̃l = = 1 − Re eip̃l 2 2 2 (6.3) e un’identità sulle tracce di matrici γ µ : ¡ ¢ tr (γ µ γ ρ γ ν γ σ ) lρ lσ = 4 (g µρ g νσ − g µν g ρσ + g µσ g νρ ) lρ lσ = 4 2lµ lν − g µν l2 si ottiene: Z iΠµν0 f (p) = −8g 2 ¢ d4 l 2lµ lν − g µν l2 ¡ 1 − Re eip̃l 4 4 l (2π) (6.4) (6.5) Usando le proprietà di simmetria dell’integrando si può scrivere la parte dipendente da θµν come: Z d4 l 2lµ lν − g µν l2 ip̃l µν0 µν 2 iΠf (p, θ ) = 8g e (6.6) l4 (2π)4 Infine: Z iΠµν0 f µν (p, θ ) = 16g 2 d4 l lµ lν ip̃l e − 8g 2 g µν (2π)4 l4 Z d4 l eip̃l (2π)4 l2 (6.7) 6.1. Self energia del fotone 79 Questi integrali possono essere risolti con gli integrali notevoli riportati in appendice, (A.12) e (A.13), ottenendo: µν iΠµν0 f (p, θ ) = − 6.1.2 4ig 2 p̃µ p̃ν π 2 |p̃|4 (6.8) Contributo degli scalari neutri Gli scalari neutri contribuiscono alla self energia del fotone con due differenti diagrammi. Per calcolarli si procede esattamente come già fatto nel caso del fermione di Majorana. Primo diagramma Fra i due contributi degli scalari neutri alla self energia del fotone considero per primo quello in figura 6.2, che coinvolge il vertice a un fotone e due scalari. Il fattore di simmetria del diagramma è 2. l p p l-p Figura 6.2: Contributo degli scalari: primo diagramma Usando il vertice (5.60) si ha: Z d4 l (2l − p)µ (2l − p)ν µν 2 ¡ ¢· iΠs1 (p) = − 2g (2π)4 (l2 − m2 ) (l − p)2 − m2 µ ¶ µ ¶ l× (l − p) (l − p) ×l · sin sin = 2 2 Z d4 l p̃l (2l − p)µ (2l − p)ν 2 ¢ sin2 ¡ =2g 4 2 2 2 (2π) (l − m2 ) (l − p) − m2 Per grandi impulsi del loop si può approssimare iΠµν s1 (p) cosı̀: Z d4 l lµ lν µν µν0 2 p̃l 2 = iΠs1 (p) → iΠs1 (p) =8g 4 4 sin 2 (2π) l Z ¢ d4 l lµ lν ¡ 2 1 − Re eip̃l =4g 4 4 (2π) l (6.9) (6.10) II. Teorie di gauge 80 L’unico contributo dipendente da θµν è: Z iΠµν0 s1 µν (p, θ ) = −4g 2 d4 l lµ lν ip̃l e (2π)4 l4 ed usando l’integrale (A.12) riportato in appendice si ottiene: µ ¶ ig 2 p̃µ p̃ν g µν µν0 µν iΠs1 (p, θ ) = − 2 −2 4 + 2 2π |p̃| |p̃| (6.11) (6.12) Secondo diagramma Il diagramma che rappresenta il secondo contributo degli scalari neutri alla self energia del fotone coinvolge il vertice a due scalari e due fotoni; è rappresentato in figura (6.3). Il fattore di simmetria del diagramma è pari a 2. l p p Figura 6.3: Contributo degli scalari: secondo diagramma Adoperando il vertice (5.64) si trova che questo contributo ha la forma: Z d4 l i µν 2 µν iΠs2 (p) = 2ig g · 4 2 (2π) l − m2 µ µ ¶ µ ¶ µ ¶ µ ¶¶ −p× (−l) p×l p× (−l) −p×l · sin sin + sin sin = 2 2 2 2 Z i p̃l d4 l 2 µν sin2 (6.13) = 4ig g 4 2 2 2 (2π) l − m Per grandi impulsi del loop il contributo si riduce a: Z d4 l 1 µν µν0 2 p̃l 2 µν iΠs2 (p) → iΠs2 (p) = −4g g 4 2 sin 2 (2π) l Considerando soltanto la parte dipendente da θµν si trova, usando (A.13): Z ig 2 g µν d4 l eip̃l µν0 µν 2 µν = iΠs2 (p, θ ) = 2g g (2π)4 l2 2π 2 |p̃|2 (6.14) (6.15) 6.1. Self energia del fotone 81 In totale, combinando (6.12) e (6.15), si trova che il contributo degli scalari è: µν0 µν0 µν µν µν iΠµν0 s (p, θ ) =iΠs1 (p, θ ) + iΠs2 (p, θ ) = µ ¶ ig 2 p̃µ p̃ν g µν ig 2 g µν = − 2 −2 4 + 2 + = 2π |p̃| |p̃| 2π 2 |p̃|2 = 6.1.3 (6.16) ig 2 p̃µ p̃ν π 2 |p̃|4 Contributo del settore di gauge Il contributo del settore di gauge alla self energia del fotone è costituito dai diagrammi con inserzioni di loop di fotoni e di ghosts. Primo diagramma Il primo diagramma coinvolge il vertice a tre fotoni; è riportato in figura 6.4. Il fattore di simmetria del diagramma vale 18. l p p l-p Figura 6.4: Contributo dei fotoni: primo diagramma II. Teorie di gauge 82 Usando il vertice (5.74) e le polarizzazioni e gli impulsi definiti come in figura: Z iΠµν g1 (p) =2g 2 d4 l sin (2π)4 µ (l − p) ×p 2 ¶ · ·((−p − p + l)α g µρ + (p − l − l)µ g ρα + (l + p)ρ g µα )· ¶ µ −igαβ (l − p) × (−l) · · 2 sin l 2 ´ −ig ³ (6.17) ρσ · (−l − l + p)ν g βσ + (l − p − p)β g σν + (p + l)σ g νβ = (l − p)2 Z d4 l α µρ 2 =2g + (p − 2l)µ g ρα + (l + p)ρ g µα ) · 4 ((l − 2p) g (2π) ´ 1³ 1 2 p̃l · 2 (p − 2l)ν gαρ + (l − 2p)α δρν + (p + l)ρ δαν 2 sin l 2 (l − p) Per grandi impulsi del loop l’espressione da calcolare si semplifica molto: Z iΠµν g1 iΠµν0 g1 (p) → (p) =2g 2 d4 l α µρ − 2lµ g ρα + lρ g µα ) · 4 (l g (2π) ¢ 1¡ p̃l −2lν gαρ + lα δρν + lρ δαν sin2 = 4 l 2 Z d4 l l2 g µν + 5lµ lν 2 p̃l =4g 2 sin 4 l4 2 (2π) · (6.18) La parte dipendente da θµν è: Z iΠµν0 g1 µν (p, θ ) = −2g 2 d4 l ip̃l e (2π)4 µ g µν lµ lν + 5 l2 l4 ¶ (6.19) Usando gli integrali (A.12) e (A.13) riportati in appendice si ottiene infine il risultato: iΠµν0 g1 −g 2 i (p, θ ) = 4π 2 µν µ g µν p̃µ p̃ν 7 2 − 10 4 |p̃| |p̃| ¶ (6.20) Secondo diagramma Il secondo diagramma con cui il settore di gauge contribuisce alla self energia del fotone coinvolge il vertice a quattro fotoni; è riportato in figura (6.5). Il fattore di simmetria del diagramma è pari a 12. 6.1. Self energia del fotone 83 l p p Figura 6.5: Contributo dei fotoni: secondo diagramma Usando il vertice (5.77) si trova: · µ ¶ µ ¶ Z ¢ d4 l p× (−l) l× (−p) ¡ αν µβ µν 2 g g − g αβ g µν + iΠg2 (p) = − 2ig sin 4 sin 2 2 (2π) µ ¶ µ ¶ ¢ l×p l×p ¡ αβ µν + sin sin g g − g αµ g βν + 2 2 µ ¶ µ ¶ ¸ ¢ −igαβ l× (−l) p× (−p) ¡ αµ βν αν µβ + sin sin g g −g g = 2 2 l2 Z d4 l 1 2 µν 2 p̃l = − 12g g 4 2 sin 2 (2π) l (6.21) La parte dipendente da θµν risulta essere, usando (A.13): Z d4 l eip̃l 3ig 2 g µν µν µν 2 µν iΠg2 (p, θ ) = 6g g = (2π)4 l2 2π 2 |p̃|2 (6.22) In questo caso il risultato è esatto, non deriva da un’approssimazione per grandi impulsi del loop. Terzo diagramma Il terzo diagramma con cui il settore di gauge contribuisce alla self energia del fotone coinvolge il vertice a un fotone e due ghosts; è riportato in figura (6.6). Il fattore di simmetria del diagramma è semplicemente 1. Usando il vertice (5.85) si trova che questo contributo vale: µ ¶ µ ¶ Z l× (l − p) (l − p) ×l d4 l 2 lµ (l − p)ν µν 2 i sin iΠg3 (p) = −4g sin = 2 2 (2π)4 l2 (l − p)2 Z d4 l lµ (l − p)ν 2 p̃l 2 (6.23) = −4g 4 2 2 sin 2 (2π) l (l − p) II. Teorie di gauge 84 l p p l-p Figura 6.6: Contributo dei ghost in corrispondenza a grandi impulsi del loop si ha: Z iΠµν g3 (p) → iΠµν0 g3 (p) = −4g 2 d4 l lµ lν 2 p̃l 4 4 sin 2 (2π) l (6.24) Considerando soltanto la parte dipendente da θµν e adoperando (A.12) si trova: Z iΠµν0 g3 µν (p, θ ) = 2g 2 ig 2 d4 l lµ lν ip̃l e = 4π 2 (2π)4 l4 µ p̃µ p̃ν g µν −2 4 + 2 |p̃| |p̃| ¶ (6.25) In totale, combinando (6.20), (6.22) e (6.25), si trova che il contributo del settore di gauge è: µν0 µν µν0 µν µν µν µν iΠµν0 g (p, θ ) =iΠg1 (p, θ ) + iΠg2 (p, θ ) + iΠg3 (p, θ ) = µ µν ¶ −g 2 i g p̃µ p̃ν 3ig 2 g µν = 2 7 2 − 10 4 + + 4π |p̃| |p̃| 2π 2 |p̃|2 µ ¶ ig 2 p̃µ p̃ν g µν + 2 −2 4 + 2 = 4π |p̃| |p̃| =2 6.1.4 (6.26) g 2 i p̃µ p̃ν π 2 |p̃|4 Conclusioni In questa sezione ho calcolato i contributi del fermione di Majorana, degli scalari e del settore di gauge alla self energia del fotone in una geometria noncommutativa, 6.1. Self energia del fotone 85 seguendo il metodo esposto in [38]. I tre contributi sono rispettivamente: µν iΠµν0 f (p, θ ) = − 4ig 2 p̃µ p̃ν π 2 |p̃|4 fermioni di Majorana µν iΠµν0 s (p, θ ) = ig 2 p̃µ p̃ν π 2 |p̃|4 scalari neutri µν iΠµν0 g (p, θ ) = 2ig 2 p̃µ p̃ν π 2 |p̃|4 settore di gauge dove p̃, definito in (5.25), è: p̃µ = θµν pν (6.27) Questi tre contributi sono stati ottenuti isolando la parte divergente nell’ultravioletto (considerando il limite di grandi impulsi del loop) dei diagrammi nonplanari. Tuttavia si nota che non divergono poiché p̃−1 svolge il ruolo di un cutoff efficace. Questo è un esempio di come la noncommutatività possa migliorare il comportamento nell’ultravioletto dei diagrammi. Se si manda all’infinito il cutoff efficace, cioè si considera il limite p̃ → 0, ricompare una divergenza quadratica. È lo stesso tipo di divergenza che si trova per la self energia del fotone nelle teorie commutative tramite argomenti di power counting, sebbene poi il grado di divergenza possa essere ridotto grazie all’invarianza di gauge. In questo caso la divergenza che compare rimuovendo il cutoff efficace, essendo legata al limite degli impulsi esterni che tendono a zero, è una divergenza infrarossa. Questo effetto è già stato descritto in generale nella sezione 5.1.4. II. Teorie di gauge 86 6.2 Self energia dello scalare neutro In questa sezione calcolo la self energia di uno scalare neutro in uno spaziotempo noncommutativo. Considero sia il contributo dovuto all’interazione con i fotoni, descritta dall’azione (4.61), che quello dovuto all’interazione tra scalari del tipo λφ4 . Analogamente a quanto è stato fatto nel caso del fotone mi limito ad individuare la parte divergente di ogni diagramma e ad isolarne la parte dipendente da θµν . 6.2.1 Contributo dei fotoni I fotoni contribuiscono alla self energia dello scalare tramite due differenti diagrammi, dovuti ai vertici (5.60) e (5.64). Primo diagramma Il primo diagramma con cui i fotoni contribuiscono alla self energia di uno scalare neutro è riportato in figura 6.7. Il fattore di simmetria del diagramma è 4. l p p p-l Figura 6.7: Contributo dei fotoni: primo diagramma Utilizzando il vertice (5.60), e con gli impulsi definiti come in figura 6.7, si trova: Z d4 l µ ν 2 Σg1 (p) =4g 4 (p + p − l) (p − l + p) · (2π) · sin (p − l) × (−p) p× (l − p) −i i sin gµν = 2 2 2 l (p − l)2 − m2 Z = − 4g 2 (6.28) p̃l d4 l (2p − l)2 ¢ sin2 ¡ 2 4 2 2 (2π) l (p − l) − m2 Per grandi impulsi del loop vale: Σg1 (p) → Σ0g1 Z (p) = −4g 2 d4 l 1 2 p̃l 4 2 sin 2 (2π) l (6.29) Considerando soltanto la parte dipendente da θµν ed adoperando (A.13) si trova infine il risultato: Z d4 l eip̃l g2i µν 2 0 = Σg1 (p, θ ) = 2g (6.30) (2π)4 l2 2π 2 |p̃|2 6.2. Self energia dello scalare neutro 87 Secondo diagramma Il secondo diagramma con cui i fotoni contribuiscono alla self energia di uno scalare neutro è riportato in figura 6.8; ha un fattore di simmetria pari a 2. l p p Figura 6.8: Contributo dei fotoni: secondo diagramma Adoperando il vertice (5.64) si trova che questo contributo vale: · Z d4 l −igµν p× (−p) + l× (−p) p×l 2 µν Σg2 (p) =2ig g sin + sin 4 2 2 (2π) l2 ¸ l× (−p) p×l + p× (−p) + sin sin = 2 2 Z d4 l 1 2 2 p̃l =16g 4 2 sin 2 (2π) l (6.31) Isolando la parte dipendente da θµν e usando (A.13) si trova direttamente il risultato: Z d4 l eip̃l 2ig 2 µν 2 Σg2 (p, θ ) = −8g = − (6.32) (2π)4 l2 π 2 |p̃|2 In questo caso il risultato è esatto, non deriva da un’approssimazione per grandi impulsi del loop. Combinando (6.30) e (6.32) si trova che in totale, considerando soltanto la parte divergente e dipendente da θµν , il contributo dei fotoni è: Σ0g (p, θµν ) =Σ0g1 (p, θµν ) + Σg2 (p, θµν ) = =− 6.2.2 3ig 2 2π 2 |p̃|2 (6.33) Contributo degli scalari Il diagramma che descrive il contributo di un loop di scalari alla self energia dello scalare è di nuovo il tadpole, ed è riportato in figura (6.9). Ha un fattore di simmetria pari a 12. II. Teorie di gauge 88 l p p Figura 6.9: Contributo degli scalari Ripeto in modo leggermente diverso il calcolo già svolto nell’euclideo nella sezione 5.1.2, usando il vertice (5.52): · Z iλ2 −p×l + p×l − l×l d4 l i Σs (p) = − cos + 4 2 2 6 2 (2π) l − m ¸ −p×l + p×l + l×l −p×l − p×l + l×l + cos + cos = (6.34) 2 2 Z d4 l i iλ2 =− (2 + cos p×l) 4 2 6 (2π) l − m2 Per grandi impulsi del loop si può approssimare Σs (p) cosı̀: Z λ2 d4 l 1 0 Σs (p) → Σs (p) = (2 + cos p×l) 6 (2π)4 l2 (6.35) Considerando solo la parte dipendente da θµν e usando (A.13) si trova infine: Z λ2 d4 l eip̃l iλ2 0 µν Σs (p, θ ) = = (6.36) 6 (2π)4 l2 24π 2 |p̃|2 6.2.3 Conclusioni In questa sezione ho calcolato la self energia di uno scalare neutro in una teoria noncommutativa, considerando l’interazione del campo scalare con il campo di gauge e con sé stesso. I contributi sono (v. (6.33) e (6.36)): Σ0g (p, θµν ) = − Σ0s 3ig 2 2π 2 |p̃|2 iλ2 (p, θ ) = 24π 2 |p̃|2 µν fotoni scalari neutri Come già visto nella sezione 6.1 nel caso della self energia del fotone, questi termini, che rappresentano la parte divergente nell’ultravioletto dei diagrammi nonplanari, sono regolarizzati dal termine p̃−2 dovuto alla noncommutatività. La divergenza ricompare se p̃ → 0, cioè nel limite infrarosso; questo è un altro esempio della connessione tra infrarosso e ultravioletto che si manifesta in queste teorie. 6.3. Self energia del fermione di Majorana 6.3 89 Self energia del fermione di Majorana In questa sezione calcolo la self energia ad un loop di un fermione di Majorana, considerando soltanto l’interazione del fermione con il campo di gauge. Diversamente dalle sezioni precedenti in questo calcolo non mi limito ad individuare la parte divergente e dipendente da θµν ma calcolo esattamente il risultato, senza tralasciare nessun contributo. È interessante notare che lo stesso calcolo nel caso di un fermione di Dirac porta ad un risultato identico a quello del caso commutativo [52], poiché i due fattori associati ai vertici si combinano per dare un fattore di fase uguale ad 1. Per un fermione di Majorana invece la presenza della noncommutatività è rilevante. Il diagramma che descrive la self energia del fermione è quello in figura 6.10. Figura 6.10: Self energia del fermione di Majorana Adoperando il vertice (5.68) si trova: Z d4 k α −igαβ i (γ µ pµ − γ µ kµ + m) β (2) 2 −iΣ =4g γ γ · (2π)4 k 2 + iε (p − k)2 − m2 + iε (p − k) ×p p× (p − k) sin = 2 2 Z ¢ d4 k 1 γ µ pµ − γ µ kµ − 2m ¡ 2 ip×k =4g 1 − Re e (2π)4 k 2 + iε (p − k)2 − m2 + iε · sin (6.37) Per dare senso agli integrali è necessario passare all’euclideo con una rotazione di Wick: ip0M =p0E (6.38) (pµ kµ )M = − (p·k)E Per rotazione di Wick il termine ip×k diventa: ip×k =ip0M θ0i ki + ipi θi0 k0M + ipi θij kj = 0i i0 ij (6.39) = − p0E θ ki − pi θ k0E + ipi θ kj Però questa espressione, oltre ad essere poco maneggevole nei calcoli, rompe esplicitamente l’invarianza di Lorentz. Mi limito quindi al caso particolare in cui: θ0i = 0 (6.40) II. Teorie di gauge 90 D’altronde, come già notato nella sezione 3.2, le teorie in cui θ0i non è nullo hanno vari problemi di unitarietà e causalità, quindi la condizione (6.40) è abbastanza naturale. D’ora in poi continuo a scrivere ipi θij kj = ip×k sottintendendo questa condizione. Effettuando la rotazione di Wick si ottiene: Z ¢ (γ µ pµ )M − (γ µ kµ )M − 2m ¡ (d4 k)M 1 (2) 2 ip×k ¡ ¢ −iΣ = 4g 1 − Re e = (2π)4 (k 2 )M + iε (p − k)2 M − m2 + iε Z ¢ (d4 k)E 1 (γ µ pµ )E − (γ µ kµ )E + 2m ¡ ip×k 2 ¡ ¢ 1 − Re e (6.41) = 4ig 4 2 (2π) (k 2 )E (p − k) E + m2 cioè: Z (2) Σ = 4g 2 ¢ (d4 k)E 1 − (γ µ pµ )E + (γ µ kµ )E − 2m ¡ ip×k ¡ ¢ 1 − Re e (2π)4 (k 2 )E (p − k)2 E + m2 (6.42) D’ora in poi il pedice E che contraddistingue le grandezze euclidee viene omesso. A questo punto l’operazione di parte reale può uscire dall’integrale: Z d4 k 1 −γ µ pµ + γ µ kµ − 2m (2) 2 Σ =4g + (2π)4 k 2 (p − k)2 + m2 (6.43) Z 4 µ µ d k 1 −γ p + γ k − 2m µ µ − 4g 2 Re eip×k (2π)4 k 2 (p − k)2 + m2 Per risolvere (6.43) lo spezzo in quattro integrali: Z d4 k 1 1 A = 4 2 (2π) k (p − k)2 + m2 Z d4 k 1 kµ Bµ = 4 2 (2π) k (p − k)2 + m2 Z d4 k 1 1 eip×k C = 4 2 2 2 k (2π) (p − k) + m Z d4 k 1 kµ Dµ = eip×k 4 2 2 2 (2π) k (p − k) + m (6.44) (6.45) (6.46) (6.47) cosı̀ che: Σ(2) = 4g 2 ((−γ µ pµ − 2m) (A − Re C) + γ µ (Bµ − Re Dµ )) (6.48) Comincio quindi a risolvere il primo integrale, A. Come nell’esempio svolto nella sezione 5.1.2, conviene usare la parametrizzazione di Schwinger: Z ∞ 1 2 2 = dαe−α(k +m ) (6.49) 2 2 k +m 0 6.3. Self energia del fermione di Majorana 91 Risolvendo gli integrali gaussiani che ne derivano ottengo: Z d4 k 1 1 A= = 4 2 (2π) k (p − k)2 + m2 Z ∞ Z ∞ Z d4 k −αk2 −β ((p−k)2 +m2 ) = dα dβ e e = (2π)4 0 0 Z ∞ Z ∞ 2 2 αβp 1 = dα dβe−βm − α+β 2 16π (α + β)2 0 0 (6.50) È possibile procedere analogamente per calcolare gli altri tre integrali: Z d4 k 1 kµ = Bµ = 4 2 (2π) k (p − k)2 + m2 Z ∞ Z ∞ Z d4 k −β (p2 +m2 ) −(k2 (α+β)−2pβk) = dα dβe = 4 kµ e (2π) 0 0 Z ∞ Z ∞ 2 2 αβp pµ β = dα dβe−βm − α+β 16π 2 (α + β)3 0 0 (6.51) Z d4 k 1 1 eip×k = 4 2 2 2 k (2π) (p − k) + m Z ∞ Z ∞ 2 p̃2 2 αβp dβe−βm − α+β e− 4(α+β) dα = C= 0 0 (6.52) 1 16π 2 (α + β)2 Z d4 k 1 kµ eip×k = 4 2 2 2 k (2π) (p − k) + m Z ∞ Z ∞ 2 p̃2 2 αβp = dα dβe−βm − α+β e− 4(α+β) Dµ = 0 Z 0 Z ∞ Re Dµ = ∞ dα 0 dβe−βm 0 2 2 − αβp α+β 1 2 16π (α + β)3 p̃2 e− 4(α+β) 16π 2 µ ip̃µ pµ β + 2 ¶ (6.53) pµ β (α + β)3 Riunendo i quattro integrali: Σ(2) =4g 2 ((−γ µ pµ − 2m) (A − Re C) + γ µ (Bµ − Re Dµ )) = Z ∞ Z ∞ 2 2 αβp g2 = dα dβe−βm − α+β · 4π 2 (α + β)2 0 0 µ ¶µ ¶ p̃2 αγ µ pµ − 4(α+β) · − − 2m 1−e α+β (6.54) II. Teorie di gauge 92 A questo punto riporto gli impulsi esterni nel minkowskiano; p̃ non cambia a causa di (6.40): µ ¶µ ¶ Z ∞ Z ∞ αβp2 p̃2 α (γ µ pµ )E g2 − 4(α+β) −βm2 − α+βE (2) Σ = dα dβe − − 2m 1−e α+β 4π 2 (α + β)2 0 0 Z ∞ Z ∞ 2 2 αβpM g2 = dα · dβe−βm + α+β 4π 2 (α + β)2 0 0 µ ¶µ ¶ p̃2 α (γ µ pµ )M − 4(α+β) · − 2m 1−e α+β (6.55) D’ora in poi tralascio il pedice M intendendo che le grandezze sono minkowskiane. (2) È possibile distinguere in Σ(2) una parte planare, Σpl , e una parte nonplanare, (2) Σnpl : (2) (2) Σ(2) = Σpl − Σnpl Z ∞ Z ∞ 2 2 αβp (2) Σpl = dα dβe−βm + α+β (2) Σnpl (6.56) ¶ αγ µ pµ − 2m (6.57) α+β 0 0 ¶ µ µ Z ∞ Z ∞ 2 2 p̃2 g αγ p µ −βm2 + αβp − α+β 4(α+β) = dα dβe − 2m (6.58) 4π 2 (α + β)2 α + β 0 0 g2 4π 2 (α + β)2 µ La parte planare è proporzionale al risultato che si trova nel caso commutativo per la self energia dell’elettrone. Si nota ancora una volta come le regole di Feynman comprendano correttamente entrambi i contributi, planare e nonplanare, che poi possono essere facilmente separati isolando la dipendenza da θµν . Regolarizzo Σ(2) come già fatto nella sezione 5.1.2, cioè moltiplicandolo per −1 exp − (Λ2 (α + β)) : ¶µ µ µ ¶ Z ∞ Z ∞ 2 2 p̃2 g αγ p − 2 1 µ − −βm2 + αβp (2) α+β e Λ (α+β) Σ (Λ) = − 2m 1 − e 4(α+β) dα dβe 4π 2 (α + β)2 α + β 0 0 (6.59) Si nota che: (2) (2) Σnpl (Λ) = Σpl (Λef f ) (6.60) dove: 1 Λ2ef f = p̃2 1 + Λ2 4 (6.61) Esattamente come nel caso della sezione 5.1.2, si osserva che la parte nonplanare è uguale alla parte planare in cui il cutoff è sostituito dal cutoff efficafe definito in (6.61). Anche la definizione del cutoff efficace è uguale a quella della sezione 5.1.2. 6.3. Self energia del fermione di Majorana 93 (2) Per calcolare l’integrale planare non regolarizzato Σpl faccio riferimento al procedimento seguito da [53] nel caso commutativo. Il punto di partenza è quindi: µ µ ¶ Z ∞ Z ∞ 2 2 g αγ p µ (2) −βm2 + αβp α+β Σpl = − 2m (6.62) dα dβe 4π 2 (α + β)2 α + β 0 0 (2) Per ricondurre Σpl all’integrale calcolato in [53] pongo α → iα, β → iβ ottenendo: µ µ ¶ Z ∞ Z ∞ 2 2 g αγ p µ (2) −iβm2 + iαβp α+β Σpl = dα dβe − 2m (6.63) 4π 2 (α + β)2 α + β 0 0 (2) Introduco nell’integrale Σpl un fattore di scala comune per α e β: Z ∞ 1= dρδ (α + β − ρ) (6.64) 0 ottenendo: Z ∞ Z (2) Σpl = dρ 0 Z ∞ ∞ dα 0 2 dβe 0 −iβm2 + iαβp α+β g2 δ (α + β − ρ) 4π 2 (α + β)2 µ ¶ αγ µ pµ − 2m α+β (6.65) Cambio variabile ponendo α = ρa, β = ρb: Z ∞ Z ∞ Z ∞ g2 dρ iρ(abp2 −bm2 ) (2) µ Σpl = da dbδ (a + b − 1) 2 (aγ pµ − 2m) e (6.66) 4π ρ 0 0 0 dove ho sfruttato il fatto che la δ forza a + b = 1. A questo punto regolarizzo l’integrale: Z ∞ Z ∞ Z ∞ ´ g2 dρ ³ iρ(abp2 −bm2 ) (2) −iρaΛ2 µ Σpl (Λ) = da dbδ (a + b − 1) 2 (aγ pµ − 2m) e −e 4π ρ 0 0 0 (6.67) Poi uso l’identità: Z ∞ dρ z2 (exp iρ (z1 + iε) − exp iρ (z2 + iε)) = ln (6.68) ρ z1 0 ottenendo: Z ∞ Z ∞ g2 −aΛ2 (2) Σpl (Λ) = da dbδ (a + b − 1) 2 (aγ µ pµ − 2m) ln = 4π abp2 − bm2 0 0 Z 1 g2 aΛ2 = da 2 (aγ µ pµ − 2m) ln = 4π (1 − a) (m2 − ap2 ) 0 µ µ ¶¶ Z 1 Λ2 ap2 g2 µ = = da 2 (aγ pµ − 2m) ln a + ln 2 − ln (1 − a) − ln 1 − 2 4π m m 0 µ µ µ ¶µ ¶ ¶ g2 Λ2 γ µ pµ Λ2 p2 m2 = −2m ln 2 + ln 2 + 2m ln 1 − 2 1− 2 −1 + 4π 2 m 2 m m p µ ¶µ ¶ ¶¶ µ γ µ pµ p2 m4 m2 3 − 1− 4 − 2 (6.69) − + ln 1 − 2 2 2 m p p II. Teorie di gauge 94 Infine: (2) (2) Σ(2) (Λ) = Σpl (Λ) − Σpl (Λef f ) = µ ¶ Λ2ef f g2 Λ2 γ µ pµ Λ2 γ µ pµ Λ2ef f = −2m ln 2 + ln 2 − ln 2 + 2m ln 2 = 4π 2 m 2 m 2 m m = 6.3.1 g2 Λ2 µ (−4m + γ p ) ln µ 8π 2 Λ2ef f (6.70) Conclusioni In questa sezione ho calcolato esplicitamente la self energia di un fermione di Majorana, trovando conferma a molte osservazioni generali della sezione 5.1.4. Si trova di nuovo un cutoff efficace che va come p̃−1 (v. (6.61)), in analogia a quanto trovato nella sezione 5.1.2. Di conseguenza la self energia mostra la divergenza infrarossa già trovata nella sezione 5.1.2 calcolando la self energia dello scalare senza approssimazioni. Tuttavia il grado di divergenza è diverso: nel caso dello scalare si trattava di una divergenza quadratica, in questo caso la divergenza infrarossa viene dal termine ln p̃2 e quindi è logaritmica. Anche in questo caso calcolando esplicitamente l’azione effettiva si troverebbe una manifestazione della connessione fra ultravioletto e infrarosso. 6.4. Relazioni di dispersione 6.4 95 Relazioni di dispersione In questa sezione esploro le conseguenze fisiche dei calcoli dei diagrammi di self energia ricavando le corrispondenti relazioni di dispersione. 6.4.1 Relazione di dispersione per il fotone Il risultato della sezione 6.1 è che la parte divergente dei diagrammi nonplanari che contribuiscono alla self energia del fotone è: iΠµν0 (p, θµν ) = ikg 2 p̃µ p̃ν |p̃|4 (6.71) dove k è una costante che dipende dal numero di fermioni di Majorana e scalari neutri presenti nella teoria. Si considera il caso in cui l’unica componente di θµν non nulla è θ12 = −θ21 . L’inverso del propagatore libero è: igµν 2 p 4 quindi al secondo ordine l’inverso del propagatore corretto è: µ ¶ µ ν ¡ 2 ¢ i µν 2 2 2 p̃ p̃ g p0 − p3 − P − 4kg 4 |p̃|4 (6.72) (6.73) dove P µ è la proiezione dell’impulso spaziale sul piano (1, 2). Per identificare il contenuto fisico della relazione (6.73) è sufficiente esaminare un caso semplice, ad esempio si considera che la componente di P µ lungo la direzione 1 sia nulla, cosı̀ che p̃µ = P̃ µ è orientato lungo la direzione 1. Per un fotone con vettore di polarizzazione perpendicolare a P̃ si trova una relazione di dispersione identica al caso commutativo: p20 = p23 + P 2 (6.74) Per un fotone con vettore di polarizzazione parallelo a P̃ , si trova una relazione di dispersione modificata: 1 (6.75) p20 = p23 + P 2 + 4kg 2 P̃ 2 La noncommutatività fa sı̀ che la relazione di dispersione dipenda dalla direzione di polarizzazione. Si usa quindi concludere (v. ad esempio [38]) che l’invarianza di Lorentz è completamente persa. Infatti generalmente non viene data sufficiente rilevanza alla seguente osservazione: a livello fondamentale la teoria è ancora invariante di Lorentz per costruzione. Un esempio di una simile situazione è fornito dal caso descritto nella sezione 3.1, dedicata alla meccanica quantistica di un oscillatore immerso in un campo magnetico. La presenza del campo esterno riduce la simmetria per traslazioni del contesto fisico considerato, permettendo cosı̀ di individuare un II. Teorie di gauge 96 sistema di riferimento privilegiato, ma non implica affatto che la teoria fondamentale abbia perso qualche simmetria. D’altronde l’apparente rottura della simmetria caratterizza solo la teoria effettiva, che non coinvolge esplicitamente il campo esterno. A livello della teoria fondamentale l’invarianza di Lorentz è manifesta se si tiene conto delle leggi di trasformazione del campo esterno. 6.4.2 Relazione di dispersione per il fermione di Majorana Nella sezione 6.3 ho trovato (v. (6.70)): Σ(2) (p) = g2 Λ2 µ (γ p − 4m ) ln µ 0 8π 2 Λ2ef f (6.76) dove m0 è la massa nuda che appare nella lagrangiana, e Λ2ef f è definito come (v. (6.61)): 1 1 p̃2 = 2+ (6.77) Λ2ef f Λ 4 Il propagatore è: i γ µ pµ − m0 − Σ (p) al secondo ordine: i γ µ pµ − m0 − Σ(2) (p) (6.78) (6.79) La relazione di dispersione è quella che fornisce il polo del propagatore. Al secondo ordine: γ µ pµ − m0 − Σ(2) (p) = 0 (6.80) cioè: g2 Λ2 µ γ pµ − m0 − 2 (γ pµ − 4m0 ) ln 2 = 0 8π Λef f µ (6.81) Ricordando la definizione di Λ2ef f : ¶ µ Λ2 p̃2 Λ2 ln 2 = ln 1 + Λef f 4 (6.82) γ µ pµ (1 − A) − m0 (1 − 4A) = 0 (6.83) µ ¶ p̃2 Λ2 g2 A = 2 ln 1 + 8π 4 (6.84) si ha: dove: Una conveniente caratterizzazione del polo del propagatore, cioè dello zero di (6.83), si ottiene tramite la relazione: (γ µ pµ (1 − A) + m0 (1 − 4A)) (γ µ pµ (1 − A) − m0 (1 − 4A)) = 0 (6.85) 6.4. Relazioni di dispersione che equivale a: p2 (1 − A)2 − m20 (1 − 4A)2 = 0 e ricordando la definizione di A: µ µ ¶¶2 ¶¶2 µ µ g2 g2 p̃2 Λ2 p̃2 Λ2 2 2 p 1 − 2 ln 1 + − m0 1 − 2 ln 1 + =0 8π 4 2π 4 97 (6.86) (6.87) Si nota che se la massa m0 è nulla la relazione di dispersione è del tipo p2 = 0. Quindi se inizialmente m0 = 0 le inserzioni di self energia non danno luogo ad una massa fisica non nulla per il fermione di Majorana. II. Teorie di gauge 98 6.5 Implicazioni fenomenologiche Dopo aver valutato quantitativamente alcune grandezze derivanti dalla geometria noncommutativa di tipo canonico, è interessante cercare di identificare predizioni che si prestino a verifica sperimentale. Infatti, eventuali risultati sperimentali riconducibili a parametri di noncommutatività θµν non nulli non solo testimonierebbero della rilevanza di queste teorie, ma fornirebbero anche un’indiretta evidenza sperimentale in favore delle teorie di stringa, e quindi avrebbero ripercussioni profonde nell’identificazione di una teoria che descriva correttamente le leggi fondamentali della Natura. Evidenze di questo tipo avrebbero ugualmente molto peso nello stabilire la rilevanza o meno di queste teorie se, anziché determinare i θµν , individuassero solo dei limiti superiori al valore di questi parametri, poiché ne risulterebbero dei vincoli sperimentali alla costruzione di teorie di stringa. Questo è particolarmente significativo visto che sono estremamente rare [54] le opportunità di ottenere informazioni sperimentali sulle teorie che tentano di unificare la meccanica quantistica e la relatività generale. Di fatto c’è già stato un impegno notevole nell’identificazione di limiti sperimentali sui θµν , che nella maggior parte dei casi (si vedano, ad esempio, gli studi in [55, 56, 57]) è stato incentrato su analisi di dati ottenuti in regimi di bassissime energie, cioè studiando le interazioni di particelle con impulsi quasi nulli. Tuttavia i limiti sui θµν cosı̀ ottenuti potrebbero essere scarsamente significativi, come si può capire osservando che, come ho enfatizzato in parte di questo lavoro di tesi, nell’infrarosso le teorie noncommutative presentano caratteristiche nuove, che riflettono la connessione fra ultravioletto ed infrarosso, e che in ultima analisi segnalano un’inconsistenza di queste teorie nell’infrarosso. Questa inconsistenza fa sı̀ che la descrizione effettiva delle teorie di stringa in un campo esterno come teorie di campo noncommutative non sia più valida nel regime infrarosso [58]. I miei risultati sulla self-energia di alcune particelle neutre, e l’associata deformazione della relazione di dispersione, suggeriscono un metodo alternativo per determinare di limiti sperimentali sui θµν , evitando di basarsi su dati di basse energie. Infatti, è stato recentemente rilevato che l’analisi di alcuni tipi di osservazioni astrofisiche consente di mettere limiti molto significativi sull’ipotesi di una deformazione della relazione di dispersione nel vuoto. Nel caso dei fotoni la deformazione della relazione di dispersione può essere verificata tramite osservazioni di “gammaray bursts” e di fotoni di alte energie prodotti dalle galassie attive Mk421 ed Mk501 [54, 59, 60, 61]. Analogamente, limiti significativi sulle deformazioni della relazione di dispersione dei fermioni di Majorana possono essere ottenuti da osservazioni dei neutrini di alte energie emessi da alcune supernova (del tipo della supernova 1987a) [54]. Da un confronto tra le relazioni di dispersione ottenute in questa tesi ed i relativi dati sperimentali sarà quindi possibile ottenere limiti significativi sui parametri θµν , e questi limiti non saranno invalidati dalle inconsistenze delle teorie noncommutative nel regime infrarosso. Questa analisi fenomenologica è rinviata a studi futuri. Capitolo 7 Conclusioni In questa tesi ho esaminato due questioni rilevanti per individuare l’eventuale ruolo della geometria noncommutativa all’interno delle teorie di stringhe. Nella prima parte ho studiato le limitazioni sulla localizzazione di eventi (capitolo 2), connesse con la possibilità che un qualche tipo di geometria noncommutativa possa essere usato per la riformulazione esatta della teoria di stringa a livello fondamentale. Nella seconda parte (capitoli 5 e 6), ho studiato alcune proprietà delle teorie di campo su uno spaziotempo noncommutativo canonico, rilevanti per la possibilità che le geometrie noncommutative di tipo canonico possano essere utili come teorie effettive delle teorie di stringa, cioè che ne descrivano bene le caratteristiche in un certo limite. Il punto di partenza per il lavoro di ricerca da me riportato nel capitolo 2 sono alcuni recenti studi [21, 22, 23] svolti in ambito di teoria di stringa a proposito delle proprietà di nuovi costituenti della teoria, le D-particles. In [21, 22, 23] è stato suggerito che le collisioni tra D-particles potrebbero identificare una regione di collisione molto piccola, di dimensioni lineari addirittura minori della lunghezza di stringa. I miei studi hanno chiarito quali sono le implicazioni di questi risultati per la determinazione di un limite assoluto alla localizzazione di un evento in teorie di stringa. I limiti di localizzazione sono ritenuti una importante e generale caratteristica delle teorie che unificano la meccanica quantistica e la relatività generale, e vengono spesso usati per motivare una descrizione fondamentale dello spaziotempo in termini di una geometria noncommutativa. Infatti una geometria commutativa non consente l’introduzione di limiti assoluti sulla misurabilità delle coordinate spaziotemporali. Tramite l’analisi di un gedanken experiment con la struttura del microscopio di Heisenberg, in cui il ruolo di probe e target era svolto da D-particles, ho ottenuto un nuovo limite assoluto sulla localizzazione di un evento. La parte spaziale di questo limite riflette il contenuto dei precedenti studi [21, 22, 23], ovvero descrive una localizzazione spaziale che è più accurata del limite che ci si aspetterebbe sulla base di una analisi dimensionale basata sulla lunghezza di stringa. I miei studi hanno però evidenziato che una cosı̀ elevata localizzazione spaziale può essere ottenuta solo al prezzo di rinunciare ad una buona localizzazione tempora99 100 7. Conclusioni le dell’evento. Questi risultati contribuiscono ad una caratterizzazione fisica della natura dello spaziotempo che emerge in teorie di stringa, e potrebbero fornire utili spunti per la ricerca di una geometria noncommutativa che possa essere usata per una riformulazione esatta delle teorie di stringa. Il mio lavoro di ricerca riportato nei capitoli 5 e 6 ha preso l’avvio da alcuni recenti studi [10, 32, 62, 63, 64, 27, 38, 35] sulla costruzione di teorie di gauge in una geometria noncommutativa di tipo canonico, che fornisce una descrizione effettiva delle teorie di stringa in presenza di campi esterni di un certo tipo. Questi studi precedenti avevano evidenziato alcune proprietà del regime infrarosso, enfatizzandone le implicazioni per la struttura della relazione di dispersione dei fotoni. Dalla mia analisi è emerso che caratteristiche analoghe hanno validità più generale: in questo tipo di geometria noncommutativa tutte le particelle neutre hanno una relazione dispersione deformata, ed il termine aggiuntivo introdotto dalla noncommutatività della geometria non è ben definito nell’infrarosso. Per ciascun tipo di particella neutra si trova una diversa relazione di dispersione, in particolare per i neutrini la deformazione della relazione di dispersione ha una dipendenza dal quadrimpulso molto caratteristica, mentre per i fotoni c’è una forte dipendenza dalla polarizzazione, ma gli aspetti qualitativi del regime infrarosso sono comuni. Sfruttando i miei risultati sulle relazioni di dispersione delle particelle neutre si possono individuare nuove strategie sperimentali per cercare evidenze di questo tipo di geometria noncommutativa; tali evidenze rappresenterebbero anche un indizio indiretto in favore della rilevanza delle teorie di stringa nella descrizione della Natura. Come ho sottolineato nella sezione 6.5, finora la fenomenologia di queste teorie è stata studiata basandosi su esperimenti a basse energie, che tuttavia non possono fornire risultati significativi, poiché nel regime infrarosso le teorie noncommutative hanno vari problemi di consistenza, tanto che la connessione con le teorie di stringa viene persa. Nella sezione 6.5 propongo un approccio radicalmente diverso alla fenomenologia di queste teorie, basato su osservazioni astrofisiche che coinvolgono particelle di alte energie, in grado di fornire affidabili limiti sperimentali sui parametri che caratterizzano la geometria noncommutativa. Appendice A Formule utili Formule trigonometriche Riporto qui alcune semplici formule trigonometriche, utili per manipolare i fattori da associare ai vertici della teoria noncommutativa secondo le regole di Feynman. Dalle espressioni del coseno e del seno della somma di angoli segue: 1 sin a cos b = (sin (a + b) + sin (a − b)) 2 1 cos a sin b = (sin (a + b) − sin (a − b)) 2 1 cos a cos b = (cos (a + b) + cos (a − b)) 2 (A.1) 1 sin a sin b = (− cos (a + b) + cos (a − b)) 2 ovvero: p−q p+q cos 2 2 p+q p−q sin p − sin q =2 cos sin 2 2 sin p + sin q =2 sin p+q p−q cos p + cos q =2 cos cos 2 2 cos p − cos q = − 2 sin ed anche: sin2 p−q p+q sin 2 2 ¢ α 1 − cos α 1¡ = = 1 − Re eiα 2 2 2 101 (A.2) (A.3) Appendice 102 Integrali utili Riporto qui alcuni integrali utili nello svolgere i calcoli relativi ai diagrammi di self energia della teoria noncommmutativa. I notissimi integrali gaussiani: √ Z +∞ π −(ax+b)2 dx = e (A.4) a −∞ √ Z +∞ b π −(ax+b)2 (A.5) xe dx = − a a −∞ possono essere estesi al caso di variabili euclidee quadridimensionali, ottenendo: µ√ ¶4 π e dx = a µ√ ¶4 Z π b −(ax+b)2 4 xe dx = − a a Z −(ax+b)2 4 (A.6) (A.7) dove ogni variabile è integrata da −∞ a +∞. Tramite prolungamento analitico dell’integrale gaussiano si trova l’integrale di Fresnel: √ Z +∞ iπ π i(ax+b)2 e dx = e 4 (A.8) a −∞ L’integrale di Fresnel permette di calcolare i seguenti integrali su variabili minkowskiane: µ√ ¶4 Z π i(ax+b)2 4 e d x = −i (A.9) a µ√ ¶4 Z π b i(ax+b)2 4 xe dx = i (A.10) a a Studiando diagrammi a un loop perare i seguenti risultati: Z d4 l eip̃l (2π)4 l4 Z d4 l lµ lν ip̃l e (2π)4 l4 Z d4 l eip̃l (2π)4 l2 della teoria noncommutativa è necessario adoi (ln Λ − ln |p̃|) 8π 2 µ ¶ i p̃µ p̃ν g µν = −2 4 + 2 8π 2 |p̃| |p̃| = = i 4π 2 |p̃|2 (A.11) (A.12) (A.13) Formule utili 103 dove p̃l = p̃µ lµ = lµ θµν pν = l×p. Per verificare questi tre risultati occorre ricordare la parametrizzazione di Schwinger per propagatori nel minkowskiano: Z ∞ i iα(k2 −m2 ) = dαe (A.14) k 2 − m2 0 Ad esempio, per calcolare (A.11) si comincia sfruttando (A.9) e (A.14): Z Z ∞ (p̃)2 d4 l eip̃l i dαdβ −i 4(α+β) e = 16π 2 0 (α + β)2 (2π)4 l4 (A.15) A questo punto si procede analogamente a quanto fatto per risolvere l’integrale della self energia del fermione di Majorana, nella sezione 6.3. Si introduce un fattore di scala comune per α e β: Z ∞ Z ∞ Z ∞ (p̃)2 (p̃)2 i i dαdβ −i 4(α+β) dαdβ −i 4(α+β) = dρδ (ρ − α − β) = e e 16π 2 0 (α + β)2 16π 2 0 (α + β)2 0 Z ∞ Z ∞ Z ∞ 2 dρ −i (p̃) i dy −i(p̃)2 y i 4ρ = dαdβ e δ (α + β − 1) = e (A.16) 2 2 16π 0 ρ 16π 0 y 0 2 Si regolarizza l’integrando moltiplicandolo per e−iΛ y e lo si risolve grazie all’identità (6.68): Z ∞ Z ∞ ´ i dy −i(p̃)2 y i dy ³ −i(p̃)2 y i Λ2 −iΛ2 y e → e − e = ln (A.17) 16π 2 0 y 16π 2 0 y 16π 2 (p̃)2 (A.12) può essere ottenuto facilmente da (A.11): Z Z d4 l lµ lν ip̃l ∂ ∂ d4 l eip̃l e =− ∂ p̃µ ∂ p̃ν (2π)4 l4 (2π)4 l4 Infine (A.13) si ottiene come (A.11), sfruttando (A.9) e (A.14). (A.18) 104 Appendice Bibliografia [1] C. A. Mead, Possible connection between gravitation and fundamental length, Physical Review, 135(3B): (1964), B849–B862 [2] L. J. Garay, Quantum gravity and minimum length, Int. J. Mod. Phys., A10: (1995), 145–166, gr-qc/9403008 [3] T. 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