Focus su disturbi
di personalità,
schizofrenia,
paranoia e isteria
—
M. Cibin
I. Hinnenthal
F. Nava
M. Ferdico
centroSoranzo
Inserire richiamo nel testo della Tabella 213-4
CAPITOLO
213
Focus su disturbi di
personalità, schizofrenia,
paranoia e isteria
INTRODUZIONE
M . C I BIN, I. HI NNE NT HAL , F . NAV A, M . FE R DIC O
L
a co-morbilità fra tossicodipendenza, alcolismo e
patologie psichiatriche, meglio nota anche con il
termine di doppia diagnosi, è una condizione clinica molto frequente. Essa oltre a complicare il
quadro clinico, influenza notevolmente l’andamento e
l’evoluzione della dipendenza, peggiorando il funzionamento sociale, psichico e relazionale del paziente, e favorendo anche in termini biologici la ricaduta.
Determinare l’eziologia della comorbidità può portare
al tipico dibattito se sia nato prima l’uovo o la gallina. Le
ricerche esistenti sul rapporto causale tra disturbi psichiatrici e disturbi derivanti da sostanze stupefacenti non portano a conclusioni univoche: i sintomi dei disturbi mentali e
dei problemi legati alla tossicodipendenza interagiscono
l’uno con l’altro e si influenzano vicendevolmente. Da alcune ricerce emerge che i disturbi psichiatrici e della personalità spesso si manifestano prima dei disturbi derivanti
dall’uso di sostanze. D’altra parte le particolari caratteristiche farmacodinamiche delle sostanze d’abuso le rendono
potenti manipolatori chimici dei circuiti neuronali che governano l’espressione della tonalità emotiva della persona.
Nella storia clinica di un tossicomane ricorre con una notevole frequenza il dato della disregolazione affettiva, della
polarità anedonico/disforica del tono dell’umore (in questo
del tutto simile ai pazienti borderline), della tendenza a regolare i propri stati emotivi attraverso la sostanza. Sul piano cognitivo i pazienti tossicomani presentano una forte incapacità di assumere decisioni appropriate sulla propria
persona, assumendo impulsivamente comportamenti a rischio per la salute fisica e mentale, che possono pregiudicare la propria stabilità sociale. In tal senso si potrebbe senz’altro sostenere che le sostanze d’abuso hanno proprietà
“patoplastiche” sui neuroni dei circuiti preposti alla regolazione emotiva, in modo analogo alle proprietà patoplastiche delle precoci esperienze disturbanti con il caregiver e il
gruppo familiare nella fase delicata di vulnerabilità neurobiologica quale la prima infanzia.
La prevalenza delle patologie psichiatriche di asse I fra
i consumatori di sostanze non è nota con certezza a causa
della scarsità degli studi epidemiologici finora condotti, e
anche della difficoltà di disegnare e portare a conclusione
tali studi per le molte variabili, comprese quelle sociali e
genetiche, che possono influenzare il fenomeno. Uno dei
più importanti studi epidemiologici di prevalenza sulla
doppia diagnosi condotto negli Stati Uniti, l’ECA (Epidemiologic Catchment Area Study) ha provato che il 72% dei
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soggetti che usano sostanze ha sofferto nell’arco dell’intera vita (lifetime) di una o più patologie psichiatriche concomitanti. Fra i disturbi psichiatrici quelli particolarmente più
frequenti risultano essere quelli dell’umore, d’ansia e psicotici. Un’altra questione dibattuta è il processo di valutazione dell’eventuale presenza di un concomitante disturbo
psichiatrico nei consumatori di sostanze.
L’uso di sostanze può infatti “mascherare” la presenza
di una eventuale patologia psichiatrica. La letteratura e
l’esperienza clinica indicano comunque che le comuni procedure di assessment siano capaci di permettere di identificare la presenza di eventuali patologie psichiatriche anche
nei consumatori di sostanze. In particolare un recente studio ha dimostrato in un gruppo di 285 consumatori di sostanze che l’utilizzo di uno strumento di valutazione standardizzato come il Psychiatric Research Interview for Substance and Mental Disorders per il DSM-IV sia capace di
individuare con una eccellente precisione i più comuni disturbi psichiatrici. Nelle fasi di assessment sarebbe opportuno nel sospetto della presenza di una patologia psichiatrica chiedersi sempre se: 1. Possa essere stata esacerbata da
condizioni di intossicazioni e/o d’astinenza; 2. L’uso attivo
di sostanze possa aver favorito la presenza della patologia
psichiatrica; 3. La malattia mentale sia indipendente dall’uso di sostanze.
L’esperienza clinica ha ormai provato che i soggetti che
soffrono di patologie psichiatriche presentano, rispetto alla
popolazione generale, un rischio notevolmente maggiore di
uso di sostanze. È altresì evidente che molte situazioni psicopatologiche latenti possono essere favorite dal consumo
di alcol e droghe. In altri termini sono molti i consumatori
che utilizzano le sostanze per alleviare i propri disagi di natura psicologica e psichiatrica secondo una modalità di uso
che oggi possiamo definire come “automedicazione”. In
questo contesto l’uso di sostanze è in grado di aiutare il
soggetto a “trattare” un disturbo psichiatrico primario come è il caso dell’uso di alcol per favorire l’addormentamento e combattere così l’insonnia. Alla luce di quanto detto tre sono i possibili scenari che possono interessare i consumatori di sostanze con un concomitante disturbo psichiatrico di asse I:
• Uso di sostanze può causare la comparsa di uno o più
sintomi di natura psichiatrica. È il caso ad esempio dell’aumentato rischio di psicosi che si osserva nei consumatori di cannabis;
• La malattia mentale può indurre l’uso di sostanze (la
teoria dell’automedicazione). È il caso ad esempio del
fumo eccessivo di tabacco, che può migliorare alcuni
sintomi cognitivi nei pazienti schizofrenici;
• L’uso di sostanze e la malattia psichiatrica possono coesistere per una sovrapposizione di fattori biologici, genetici e ambientali favoriti anche da situazioni di stress.
Da punto di vista neurobiologico importanti evidenze
suggeriscono che nella doppia diagnosi il sistema dopaminergico mesocorticale possa rappresentare il substrato neurochimico comune per l’insorgenza ed il mantenimento
della doppia diagnosi. In particolare, recenti studi attribui-
scono allo stress e quindi all’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisario surrenalico (particolarmente attivato e sensibile nei pazienti con doppia diagnosi) un ruolo cruciale per
lo sviluppo ed il mantenimento di alcuni processi neurobiologici che sono alla base dei meccanismi che portano alla dipendenza.
In questo capitolo analizzeremo come la co-morbilità
psichiatrica interessi in modo diverso i consumatori delle
sostanze più abusate (eroina, cocaina ed alcol) e ci soffermeremo su alcune condizioni di co-morbilità come i disturbi di personalità borderline ed antisociale, la schizofrenia,
la psicosi e l’isteria.
Doppia diagnosi: una rassegna della letteratura
dei più importanti studi
La doppia diagnosi nei consumatori di eroina
Lo studio della doppia diagnosi nei consumatori di eroina
comincia negli anni ’80. In uno dei primi studi condotti,
Rounsaville et al. hanno trovato che l’86% di 533 eroinomani in trattamento presentava un disturbo psichiatrico e
fra questi il 23,8% soffriva di depressione. Successivamente Khantzian e Teece hanno confermato questo dato dimostrando che in un campione di 133 eroinomani i disturbi
maggiormente prevalenti erano rappresentati da quelli dell’umore (il 60%). Successivamente Calsyn et al. hanno rilevato in un campione di 196 eroinomani in trattamento
con metadone di sesso maschile e 113 di sesso femminile
che ben il 32% ed il 17% erano affetti rispettivamente da un
disturbo dell’umore e psicotico. Nel campione in esame le
donne erano risultate più suscettibili a sviluppare una comorbilità psichiatrica rispetto ai maschi. In un altro studio,
Mason et al. hanno dimostrato che nei soggetti in trattamento con metadone i più frequenti disturbi psichiatrici
erano quelli dell’umore, fobici, antisociali e d’ansia generalizzata. Una eguale tendenza di associazione fra consumo
di eroina e disturbi dell’umore è stata dimostrata anche da
studi italiani. In particolare, Pozzi et al. hanno riportato in
un campione di 390 consumatori di oppiacei un’alta percentuale di co-morbilità soprattutto nell’area depressiva e
psicotica. In particolare, lo studio ha rilevato che il 30% dei
soggetti studiati era affetto da un disturbo dell’asse I e nello specifico l’8,7% da distimia, il 5,6% da ansia, il 4,6% da
altri disturbi dell’umore, il 3,3% da psicosi ed il 6,9% da un
altro non specificato disturbo mentale. Un altro studio italiano condotto da Clerici ha dimostrato che su 275 eroinomani circa il 90% era stato affetto almeno una volta nella
vita da un disturbo psichiatrico ed in particolare di tipo depressivo e psicotico. Lo steso studio ha dimostrato che il
30% era stato affetto lifetime da un disturbo di asse I
(l’8,7% da un disturbo psicotico, il 7,3% da un disturbo
dell’umore, l’0,3% da un disturbo d’ansia, ed il 14,9% da
un altro non specificato disturbo). Un più recente studio
italiano ha dimostrato che negli eroinomani in trattamento
con buprenorfina la co-morbilità era del 50% e che i distur-
C A P I T O L O 2 1 3 - FOCUS SU DISTURBI DI PERSONALITÀ, SCHIZOFRENIA, PARANOIA E ISTERIA
bi più frequenti erano quelli dell’umore, di personalità del
cluster B, d’ansia e psicotici. Da quanto premesso è quindi
evidente come vi sia un’alta frequenza di co-morbilità dei
disturbi psicotici, d’ansia e soprattutto dell’umore nei consumatori di eroina.
La doppia diagnosi nei consumatori di cocaina
È noto che il consumo di cocaina, soprattutto se cronico, sia
in grado di indurre quadri clinici psicotici prevalentemente
di tipo paronoideo e delle profonde alterazioni del tono dell’umore (prevalentemente disturbi depressivi) con spiccata
anedonia. Gli studi epidemiologici suggeriscono come il
33% dei consumatori di cocaina sia affetto da depressione
(il 13% da depressione maggiore ed il 20% da distimia) ed
il 17% da un disturbo di tipo bipolare. Weiss et al. hanno
messo in evidenza come il 53% dei cocainomani ospedalizzati sia affetto da un disturbo dell’umore (il 20% da depressione maggiore, il 17% da ciclotimia, il 7% da disturbo bipolare, ed il 10% da un altro disturbo dell’umore). In uno
studio successivo, gli stessi autori hanno trovato nella medesima tipologia di consumatori una più bassa percentuale
di pazienti affetti da disturbi dell’umore (il 21% invece del
53%). In uno studio che ha coinvolto 207 pazienti ambulatoriali consumatori di cocaina è stato dimostrato che il 17%
era affetto da disturbi dell’umore ed il 30% da un disturbo
d’ansia. In particolare, i disturbi più frequentemente presenti erano stati nell’ordine: fobici (il 27%), post traumatici da
stress (il 18%) e dell’umore (il 16%). Newton et al. hanno
inoltre notato come nei consumatori di cocaina sia l’entità
del grado di irritabilità che della depressione possa essere
direttamente correlabile al consumo della droga.
Alla luce dei dati presenti in letteratura e dall’evidenza
clinica è dunque chiaro come nei consumatori di cocaina i
più frequenti disturbi psichiatrici di asse I siano quelli dell’umore (in particolare la depressione ed i disturbi bipolari)
e psicotici (in particolare stati paronoidei).
La doppia diagnosi nei consumatori di alcol
Oggi la letteratura mette in evidenza una stretta correlazione fra disturbi dell’umore e consumo di alcol. Più difficile
è invece spiegare, così come accade per l’uso di sostanze,
la natura della correlazione fra il consumo di alcol e la presenza dei concomitanti disturbi dell’umore. Circa l’80%
degli alcolisti accusa sintomi depressivi nel corso della vita e circa il 30% presenta un periodo di intensa depressione
che può durare anche per molte settimane. Oltre al già citato studio ECA che correla una alta prevalenza del consumo
di alcol fra chi soffre di un disturbo dell’umore, un altro importante studio epidemiologico, il National Comorbidity
Survey (NCS) indica che fra i soggetti alcolisti (il 58% delle donne ed il 28% degli uomini) presenta i criteri di un disturbo dell’umore. In particolare, il 48% delle donne ed il
28% degli uomini presentano i criteri della depressione
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maggiore ed il 6% sia delle donne che degli uomini quelli
del disturbo maniacale.
La letteratura mette in evidenza anche uno stretto legame fra consumo di alcol e disturbi d’ansia. A questo proposito lo studio ECA ha dimostrato che i soggetti che presentano un problema correlato all’abuso di alcol hanno un incremento del 50% nella possibilità di avere lifetime un disturbo d’ansia. Per quanto riguarda il tipo di disturbo d’ansia, il più frequente è quello di panico seguito da quello ossessivo compulsivo. Allo stesso modo lo studio NCS ha dimostrato che il rischio di sviluppo di alcolismo è più elevato nelle donne con disturbo di panico e in coloro (indipendentemente dal sesso) che presentano un disturbo d’ansia
generalizzata. Frequente nei consumatori di alcol è anche
la co-morbilità con i disturbi psicotici. Gli studi epidemiologici suggeriscono che i pazienti schizofrenici hanno circa
tre volte maggiore la probabilità di sviluppare un disturbo
correlato all’uso di alcol rispetto alla popolazione generale.
Le evidenze fin qui condotte dimostrano pertanto che fra i
consumatori di alcol la co-morbilità maggiormente frequente è quella dei disturbi dell’umore, d’ansia e psicotici.
Principi di trattamento dei soggetti
con doppia diagnosi
Recentemente vari modelli d’intervento sono stati proposti
per il trattamento dei pazienti con doppia diagnosi. Fra questi i più noti sono quelli sequenziali, paralleli ed integrati.
Nel modello cosiddetto sequenziale, l’idea è che il trattamento di una condizione possa ripercuotersi necessariamente e positivamente anche sull’altra. In questo caso, una
delle maggiori questioni cliniche da risolvere è quella di
capire quale condizione deve essere trattata per prima. Nel
modello cosiddetto parallelo, entrambe le situazioni cliniche sono trattate simultaneamente ma da differenti équipe e
in diversi setting. Il maggior limite di questo tipo di modello è la che i due gruppi terapeutici sono separati. Nel modello integrato infine entrambe le condizioni cliniche sono
trattate simultaneamente con équipe integrate in modo che
i programmi non siano né frammentati né inadeguati.
Il trattamento dei pazienti con doppia diagnosi deve essere personalizzato e flessibile, deve poter utilizzare, quando necessario, l’intervento sia farmacologico che comportamentale. In tutti i casi il progetto di cura deve essere modulare e ripetibile (in quanto la condizione patologica è di
natura cronica). Come già accennato tutti i progetti di cura
devono essere integrati e prevedere l’utilizzo del farmaco
insieme ad un intervento di tipo comportamentale. Fra questi ultimi, i più efficaci sono quelli motivazionali, di monitoraggio tossicologico urinario, di contingency managment
e di training di acquisizione di abilità (skill training).
Quando l’uso dei farmaci è necessario questi devono essere scelti secondo dei principi che possono essere così riassunti: non devono indurre euforia; non devono causare dipendenza; devono essere efficaci e sicuri anche nei soggetti che continuano ad usare droghe e/o alcol.
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SEZIONE XVII - D I S T U R B I P S I C H I A T R I C I E D U S O D I S O S T A N Z E P S I C O T R O P E
Tab. 213-1. Disturbi di personalità
Cluster A
Disturbo Paranoide di P.: sfiducia e sospettosità Disturbo Schizoide di P.: distacco relazioni sociali, ristretta emotività Disturbo Schizotipico di P.: disagio relazionale, eccentricità, distorsioni cognitive e percettive.
Cluster B
Disturbo Antisociale di P.: vedi testo. Disturbo Borderline di P.:
vedi testo Disturbo Istrionico di P.: emotività eccessiva, ricerca
di attenzione Disturbo Narcisistico di P.: grandiosità, mancanza
di empatia.
Cluster C
Disturbo Evitante di P.: inibizione, inadeguatezza , ipersensibilità Disturbo Dipendente di P.: sottomissione, bisogno di essere
accuditi Disturbo Ossessivo-compulsivo di P.: perfezionismo,
controllo.
Disturbi di Personalità
Per disturbo di personalità si intende un modello abituale di
esperienza interiore e di comportamento che devia marcatamente rispetto alle aspettative della cultura dell’individuo
e del contesto in cui vive e che si manifesta nelle aree cognitiva, affettiva, relazionale e nel controllo della impulsività. Tale modello deve essere pervasivo nelle varie situazioni della vita, determinare un disagio clinicamente significativo e compromissione del funzionamento in aree vitali
importanti; si manifesta nell’adolescenza o nella prima età
adulta ed è stabile e di lunga durata; non deve essere giustificato da un altro disturbo mentale, dall’uso di una droga o
farmaco, o da una condizione medica generale.
I disturbi di personalità attualmente riconosciuti sono
10; essi vengono raggruppati in tre “clusters” (Tab. 213-1).
La frequente comorbidità tra disturbi di personalità, in particolare del “Cluster B” (antisociale, borderliane, istrionico, narcisistico) e dei disturbi da uso di sostanze ha fatto
spesso pensare che ci siano delle dimensioni psicopatologiche e cliniche in comune tra i due tipi di disturbi. In questo
paragrafo parleremo in particolare del disturbo borderline e
del disturbo antisociale, in quanto entità più chiaramente
delineabili e reperibili nella realtà clinica, e su cui si è centrata maggiormente l’attenzione di clinici e ricercatori,
mentre i disturbi paranoide e istrionico vengono inclusi nei
paragrafi “Paranoia” ed “Isteria”.
Disturbo borderline di personalità
Il disturbo borderline è descritto dai principali sistemi nosografici delle malattie mentali (come il DSM o l’ICD) sulla base di criteri che si possono facilmente riscontrare in un
soggetto che presenta una dipendenza da sostanze. La forte
impulsività, le frequenti fluttuazioni del tono dell’umore, le
sensazioni di vuoto e di svilimento esistenziale, l’immagi-
ne distorta e fallimentare di sé, la difficoltà di comprendere
il senso delle proprie azioni e delle proprie relazioni interpersonali rappresentano un territorio psicopatologico comune ai due tipi di disturbi.
Esiste un’ampia quantità di dati epidemiologici e clinici che suggeriscono una forte correlazione tra il disturbo
borderline di personalità e i disturbi da uso di sostanze.
L’analisi epidemiologica condotta con studi sistemici sulla
popolazione generale attesta che la prevalenza del disturbo
borderline nella popolazione generale è del 2-5%, mentre
tra i soggetti che fanno uso di sostanze aumenta considerevolmente, dal 46%. Si tratta di una correlazione di importanza non indifferente giacché l’esito dei trattamenti effettuati per pazienti che presentano un disturbo di personalità
Borderline associato all’uso di sostanze è spesso valutato in
termini pessimistici. Un recente follow-up a 12 mesi di pazienti che all’inizio del trattamento per la propria dipendenza presentavano un disturbo Borderline di personalità
registrava una instabilità nella permanenza in trattamento,
con frequenti uscite ed entrate (sebbene non diminuissero i
giorni cumulativi di terapia rispetto ad altri pazienti) e
un’alta incidenza di rischio di suicidio, di malattie infettive
correlate allo scambio di siringhe e di attività illegali. A 36
mesi gli esiti del trattamento restavano pressoché invariati,
con una forte riduzione del consumo di eroina e una maggiore stabilizzazione clinica ma, di contro, un’alta incidenza di attività criminali, di episodi di depressione maggiore,
di overdose, di problemi legati allo scambio di siringhe e di
malessere psicologico generale.
La concorrenza di un disturbo borderline associato alla
dipendenza da sostanze rappresenta quindi un serio problema clinico e fare diagnosi di entrambi i disturbi diventa importante in termini di gestione clinica e di valutazione prognostica. Va comunque fatto notare che se può apparire relativamente agevole porre una diagnosi di dipendenza da
sostanze, risulta alquanto complessa l’indagine clinica che
porta ad una diagnosi del disturbo borderline di personalità. Come è stato giustamente prospettato da certi autori, la
diagnosi del disturbo borderline è essenzialmente basata
sulla conoscenza delle caratteristiche della personalità del
paziente, quindi su un modello di comprensione psicodinamico, e non può essere desunta dalla semplice osservazione dei comportamenti evidenti del paziente o dall’esecuzione di scale di screening sintomatologiche. Altresì, l’outcome del trattamento non può essere desunto dalla regressione dei sintomi osservati nei pazienti borderline all’inizio
del trattamento. È necessario quindi, vista l’alta incidenza
della correlazione tra i due disturbi, stimolare una buona
conoscenza del disturbo borderline per porre un’esatta diagnosi e, visti i dati di outcome e di prognosi, una valutazione delle possibile relazioni che esistono tra i due disturbi.
Nella Tabella 213-2 appaiono parole come: instabilità
affettiva, impulsività dannosa, “sforzi disperati”, “sentimenti di vuoto”, “stress”... che lasciano intuire che si tratta
di persone con un’alta sensibilità, che reagiscono eccessivamente agli stimoli ambientali. È come se la soglia di risposta emozionale fosse ridotta e la risposta emotiva trop-
C A P I T O L O 2 1 3 - FOCUS SU DISTURBI DI PERSONALITÀ, SCHIZOFRENIA, PARANOIA E ISTERIA
po intensa; l’emotività eccessiva porta a reazioni comportamentali estreme, mentre l’attenzione e l’elaborazione appaiono ristrette. Pazienti borderline facilmente non programmano e non focalizzano le possibili conseguenze delle proprie azioni nell’attimo della reazione impulsiva. In
questi momenti appaiono come animali feriti, che lottano
come se da questo dipendesse la loro vita verso presunti pericoli, anche verso i potenziali salvatori. Vivono come in
uno stato duraturo di allerta e di minaccia. Dopo un evento
emotivo fanno fatica a tranquillizzarsi e a tornare a un livello emotivo accettabile. Anche dopo il ristabilimento di
una calma apparente permane la stessa alta sensibilità per
successivi stimoli emozionali. Vi è una paura patologica di
essere abbandonato e un desiderio di essere curato. Questo
dovrebbe essere assicurato da una specifica persona, un
salvatore che è affettuoso e protettivo.
La posizione di base è quella di porsi in una dipendenza
“affettuosa” da questo salvatore, salvo trasformare rapidamente il salvatore in un nemico quando non è immediatamente raggiungibile (è non è mai abbastanza raggiungibile!).
Marsha M. Linehan descrive questa apparente contraddittorietà dei pazienti come:
• Passività attiva: affrontare problemi in modo passivo,
chiedendo attivamente aiuto alle persone di riferimento.
• Finta competenza: i pazienti sembrano a colpo d’occhio
“competenti”. Questo inganna facilmente nella valutazione della reale competenza a risolvere un problema.
• Crisi permanente: dopo una situazione di crisi i pazienti sono incapaci di tornare sul livello emotivo di “normale” funzionamento.
• Lutto inibito: situazione di continua esagerata richiesta
emotiva dovuta a lutti inibiti/ non permessi.
Tab. 213-2. Criteri diagnostici del disturbo borderline
di personalità
Una modalità pervasiva di instabilità delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé e dell’umore una marcata impulsività,
comparse nella prima età adulta e presente in vari contesti, come
indicato da cinque o più dei seguenti criteri:
• Sforzi disperati di evitare un reale o immaginato abbandono.
• Un quadro di relazioni interpersonali instabili e intense, caratterizzate dall’alternanza tra gli estremi di iperidealizzazione e svalutazione
• Alterazione dell’identità: immagine di sé e percezione di sé
marcatamente e persistentemente instabili.
• Impulsività in almeno due aree che sono potenzialmente
dannose per il soggetto, quali spendere, abuso di sostanze,
guida spericolata, abbuffate.
• Ricorrenti minacce, gesti, comportamenti suicidari, o comportamenti automutilante.
• Instabilità affettiva dovuta a una marcata reattività dell’umore.
• Sentimenti cronici di vuoto.
• Rabbia immotivata
• Ideazione paranoie, o gravi sintomi dissociativi transitori,
legati allo stress.
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SI NASCE BORDERLINE?
Kernberg sostiene che il disturbo borderline è frutto di
esperienze interpersonali precoci. M. Linehan sostiene che
la genesi del borderline si colloca nel modello della “vulnerabilità verso stress” come era già stato introdotto da
Nuechterlein per la schizofrenia. Anche Mauchnik,
Schmahl e Bohus descrivono questo forte intreccio tra fattori genetici, fattori ambientali ed eventi stressanti che possono portare alla espressione clinica della sindrome. La
sintomatologia dell’affettività sregolata, la forte impulsività e il quadro comportamentale dissociativo con comportamento automutilanti è correlata a tracce organiche che sono
visibili sia nelle metodiche del neuroimaging (atrofia dell’amigdala e dell’ippocampo) sia con l’EEG (rallentamento e aumento delle fase REM nelle polisonnografie), i potenziali evocati (aumento delle risposte di trasalimento agli
stimoli acustici) e l’elettromiogramma che dimostra una
prolungata fase dell’attivazione negli amigdala. Come correlati bio-organici si osserva una ridotta trasmissione serotoninergica associata alla impulsività aggressiva e una disfunzione prefrontale e limbica nella genesi dei sintomi
dissociativi. Se un bambino che nasce con questa vulnerabilità emotiva genetica/organica incontra, dopo la sua nascita, la madre o in generale la prima persona di riferimento, serena e solare, con “una luce negli occhi”, per usare
un’immagine di Winnicott, si può considerare fortunato:
questa madre sopporterà e tollererà la sua irritabilità generale, gli attacchi di rabbia esagerata e i pianti nella notte.
Questa madre crea per questo bambino un contenitore affettivo in cui può maturare e imparare a decifrare e contenere questa sua emotività feribile. Può magari evitare questo circuito pericoloso tra stress, trauma, ulteriore stress,
ulteriore trauma come invece succede nel caso in cui il
bambino feribile nasce in una famiglia già stressata, magari proprio per l’evento che ha già danneggiato anche il
bambino (come nel caso di un parto difficile, di una depressione post partum della madre o di un abbandono del
nucleo familiare da parte del padre, etc.). Nell’interazione
tra il bambino che rappresenta una sfida educativa maggiore rispetto ad altri e l’ambiente familiare “invalidante”, come lo descrive la Linehan, è messo in crisi il corretto contatto con la propria emotività. Si comincia presto nella ricerca di stimoli che sono in grado di controllare la parte affettiva insopportabile. Qui facilmente colludono le figure
genitoriali e il bambino peggiorando involontariamente il
fenomeno: troppa TV, troppi giochi elettronici, poco sport
o attività in cui si deve essere in diretto contatto con altri
bambini (e così manca ulteriormente la potenziale esperienza correttiva nella convivenza con altri), troppi cibi a
base di zuccheri. Quest’ultimo fattore è ulteriormente negativo a livello metabolico: l’asse dello stress già per conto
suo interferisce con lo smaltimento del glucosio. Aumentando invece i livelli plasmatici di insulina, del cortisolo e
di altre molecole dell’asse dello stress, si registra un’eccessiva disponibilità di zuccheri al livello dei recettori dell’insulina. Questo meccanismo induce come feedback una sen-
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SEZIONE XVII - D I S T U R B I P S I C H I A T R I C I E D U S O D I S O S T A N Z E P S I C O T R O P E
sazione di fame e ad uno smaltimento alternativo degli zuccheri verso grassi intracellulari, con un conseguente stress
ossidativo che disturba i processi intracellulari, anche a livello della traduzione molecolare delle informazioni genetiche. Di conseguenza si crea facilmente un notevole aumento di peso ed un aumento del rischio di malattie degenerative.
A volte l’occhio clinico riconosce persone, in particolare
donne, con problemi di disregolazione emotiva, già dalla
obesità e dalle sue caratteristiche. Si trasmette così, anche all’occhio non clinico del semplice osservatore, un senso di distacco della persona e del suo corpo verso il mondo. Come se
queste donne volessero “sparire”, smarrire nel proprio corpo.
Questo fatto porta facilmente a un’ulteriore auto-svalutazione, a una riduzione del movimento, aumentando però così di
nuovo la sensazione di essere esclusi dal gruppo, dalla felicità e dalla vita normale degli “altri”. Si crea presto una specie
di confusione tra desiderio, bisogno di affetto, di “cure e coccole” (maternal care), fame, desiderio sessuale e appare invece una sensazione inspiegabile e poco tollerabile di “vuoto” e “ghiaccio” che si alterna con stati emotivi di “troppo” e
“insopportabilmente forte”. L’emozione della vergogna e
della feribilità generale rimane un tratto di base del carattere,
e la fiducia nelle relazioni è fragile, oscillante tra la troppa e
la troppo poca fiducia. Sembra che manchino le antenne di
allarme per la vita. Il sistema emotivo non decifra bene i stati emotivi degli altri visto che è già in difficoltà con i propri
sentimenti. Potenziali partner vengono sottoposti a test cronici e quasi insuperabili.
DIPENDENZA, PERSONALITÀ E NEUROBIOLOGIA
Per quanto il quadro concettuale del disturbo borderline di
personalità resti a tutt’oggi centrato su modelli psicodinamici, alcune linee di ricerca sperimentali e cliniche si sono
orientate nell’esplorazione di come alcune condizioni di
stress infantile, provocate dalle relazioni precoci di attaccamento con la madre (caregiver), possano essere in grado di
influenzare le proprietà fisiologiche del tono, dell’intensità
e della frequenza di scarica di quei circuiti neuronali, di origine sotto-corticale (la cosiddetta area limbica, sede anche
della memoria breve), che regolano l’emotività adulta. Per
dirla con Jaak Panksepp “tutte le patologie mentali condividono delle disregolazioni delle attività fisiologiche dei
neuroni catecolaminergici e oppioidi che costituiscono i
circuiti di base dell’emotività”; pertanto non sorprende che
particolari esperienze disturbanti che possono verificarsi
nella prima infanzia, intesa dal punto di vista neurobiologico come una particolare fase di vulnerabilità in cui i circuiti neuronali che regolano l’emotività, possono essere profondamente modificati dalle prime esperienze relazionali
nella “taratura” dei propri parametri fisiologici. Le disregolazioni emotive della prima infanzia si mantengono stabili
nel tempo e rappresentano una base neurobiologica utile
per comprendere l’organizzazione psicopatologica del paziente Borderline. Inoltre, tenendo conto dell’attuale visio-
ne di una forte embricatura dei processi affettivi con quelli
razionali, si assume attualmente che le disregolazioni emotive della prima infanzia determinino un difetto nella funzione di “mentalizzazione”, intesa come la capacità di dare
un senso alle proprie azioni e a quelle degli altri attraverso
la comprensione degli stati mentali (emozioni, credenze,
desideri, idee) di Sè e degli altri , ed aumentino il rischio di
episodi psicotici, in situazioni di forte pressione emotiva.
Il comportamento umano è sempre più interpretato come l’espressione di una “dual mind”, di due processi operativi che permettono una rappresentazione della realtà (interna e ambientale) a due velocità. Il primo processo operativo, di natura affettiva, è rapido, non necessita di particolari sforzi elaborativi ed è quindi rappresentabile in modo
automatico e senza spreco di energia; è un processo in larga parte inconscio, inflessibile e altamente dipendente dal
contesto in cui è stato costruito. Il secondo processo operativo, razionale, è lento e dispendioso in termini di energia,
controllabile, flessibile e meno dipendente dal contesto. È
un processo che necessita di una memoria di lavoro (working memory) come requisito di base; pertanto è un processo cosciente ed esplicito. L’aspetto rivoluzionario del
modello “dual mind” è che i due processi non sono strettamente correlati in modo gerarchico, ma sono in larga parte
inter-dipendenti, nel senso che, per usare le parole di Evans
e Frankish, “... si combinano e competono nel determinare
un unico comportamento”. In tal senso, la separazione netta di processi emotivi e razionali assume sempre minor senso. In ogni caso il paziente Borderline a livello della memoria è come un’orchestra senza dirigente: le memorie
(quella più emotiva, dove è anche la principale sede dei ricordi postraumatici e quella più razionale, dove vengono
programmati le azioni e le valutazioni) non suonano “la
stessa musica”, come se il mondo fosse scisso o la persona
stessa si vivesse in più mondi. Il “sentire” e il seguente “fare” vengono così facilmente scollegati tra di loro. Il paziente viene percepito dagli altri come “pazzo” o “esagerato”. E lui o lei stessa non capisce a distanza di poche ore,
pochi giorni le proprie reazioni comportamentali.
LE EMOZIONI E LE LORO DISREGOLAZIONI
Nei suoi studi sulla neurobiologia dell’affettività Panksepp
distingue 8 emozioni di base associate ai compiti primari
della sopravvivenza e dell’intelligenza sociale, il cui compito è quello di modulare in modo flessibile il repertorio dei
comportamenti di un individuo alle esigenze ambientali.
Sul piano biologico le emozioni di base corrispondono a
specifici circuiti neuronali, che si integrano e si assemblano grazie all’incessante lavoro di specifici neurotrasmettitori e di neuromodulatori, in grado di mantenere e/o modificare i ritmi di attività biologica dei circuiti emotivi. Le
emozioni di base sono: la motivazione generale positiva, la
curiosità, la rabbia, l’ansia, la sessualità, la cura materna
associata alla nutrizione, il panico collegato alla separazione, e il gioco.
C A P I T O L O 2 1 3 - FOCUS SU DISTURBI DI PERSONALITÀ, SCHIZOFRENIA, PARANOIA E ISTERIA
Il sistema oppioide è ampiamente rappresentato nella
modulazione di tutte le tonalità positive delle emozioni di
base. E gli oppioidi hanno un ruolo rilevante nella modulazione delle emozioni di base che sono coinvolte nella sindrome Borderline: la gioia del gioco (+/-), il panico della
separazione (-), la cura materna (+/-), la curiosità (+). Si
tratta di emozioni maturate presto nella vita. Il panico da
separazione, che è considerato come una dimensione emotiva fondamentale della sindrome Borderline, è un‘emozione fortemente modulata dagli oppioidi e viene attivata
energicamente nel caso della loro mancanza. Panksepp
(2003), a tal proposito, riporta delle interessanti analogie
tra la sintomatologia del panico come emozione attivata
dalla carenza di oppioidi e la crisi di astinenza da oppioidi
nei soggetti dipendenti dall’eroina. Negli schemi delle
emozioni di base, la dopamina, il neurotrasmettitore chiave
dell’apprendimento e del mantenimento di comportamenti
motivati invece è coinvolta nella modulazione della cura
materna. Nel loro complesso la dopamina e gli oppioidi
sembrano i due sistemi di neurotrasmissione che mostrano
un ruolo di fondamentale importanza nello sviluppo dell’attaccamento. Bisogna immaginarsi che non esiste una
semplice correlazione tra i fattori genetici e la loro espressione fenomenologica emotiva. Tuttavia, è verosimile
aspettarsi da un attaccamento fiducioso e sicuro alla madre
una migliore espressione fenotipica di questi circuiti neuronali, che li rende capaci di fornire, nel loro complesso, una
modulazione più fine dei toni affettivi in risposta agli stimoli ambientali e di offrire una particolare resistenza ad
eventi disturbanti e traumatizzanti. Nei modelli biologici
dell’ansia su modelli animali, si è osservato come una buona “maturazione” dei sistemi di neurotrasmissione del panico, attraverso i buoni legami di attaccamento, sia in grado di compensare la “lettura genetica”, cioè i fattori di rischio genetico per i disturbi d’ansia.
Emerge così, dalle neuroscienze dell’affettività, il fatto
che la fisiopatologia dei sistemi di neurotrasmissione possa
essere intesa come un insieme di piccole proprietà capaci,
nel loro insieme, di modulare “toni” (attività di scarica di
fondo) e “fasi” (attività veloci, rapide, che permettono di
modificare radicalmente gli stati mentali). Sono queste caratteristiche quelle che determinano le soglie della reattività emotiva degli individui in un’ottica di contesto in cui va
sempre bilanciata, per le proprie valutazioni e decisioni, la
necessità di assolvere i propri mandati biologici, ancestrali,
con le opportunità offerte dall’ambiente.
Al contrario, le esperienze di privazione sociale, di rifiuto e di separazione dal caregiver sembrano provocare
un’imperfetta maturazione del sistema oppioidergico, che
risulta così insufficiente a garantire quel tono di necessario
per la costruzione di una competenza sociale soddisfacente
e adeguata. Nel caso in cui si verifichino esperienze traumatiche e stressanti, il sistema oppioidergico sembra svilupparsi in modo bifasico, privo di una qualsiasi regolazione fine (di un “fine tuning”) a sostegno di qualsiasi esperienza.
Si osserverà così una polarità “off”, a basso tono oppioidergico, che corrisponde al tono emotivo di base, e quindi sem-
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pre pronto ad attivare i circuiti emotivi del panico da separazione, e una polarità “on”, ad alto tono oppioidergico, in
quei casi di esperienze fortemente gratificanti e stimolanti o
nel caso di un’assunzione tossicomanica di oppiacei. È solo
in questi casi che i soggetti con un sistema oppioidergico
“bifasico” sono in grado di provare una profonda gratificazione dalle relazioni con gli altri e con l’ambiente. Anche il
tono dopaminergico, che sostiene gli apprendimenti motivati, tende a seguire lo stesso orientamento.
Il materiale genetico però non è “rotto”, è solo inespresso o espresso male. Questo a livello terapeutico fa pensare
che per fattori di plasticità in momenti più fortunati e favorevoli della vita di un paziente Borderline questi sistemi
fragili possono anche migliorare e parzialmente correggersi. In effetti persone diagnosticate come franchi pazienti
Borderline, in altri momenti della loro vita possono apparire quasi normali.
TERAPIA PSICOFARMACOLOGICA
Il medico è spesso messo davanti alla richiesta di psicofarmaci da parte dei pazienti Borderline nel tentativo di modulare in modo legale le proprie emozioni. Senza volerlo il
medico viene perciò in fretta facilitatore nelle più svariate
dipendenze, in particolare delle benzodiazepine. Usando
spesso anche l’alcol come altra sostanza psicoattiva e mettendo in atto comportamenti pericolosi come la guida spericolata o tentativi di suicidio il medico, dopo poco tempo,
si comincia a sentire a disagio e tende a dare sempre meno
retta al paziente che, a sua volta, si sente rifiutato e non capito. Così si finisce a litigare o a prescrivere farmaci di tutti i tipi, nonostante il disagio, per fare uscire al più presto il
paziente dal proprio ambulatorio. Purtroppo non esistono
spesso servizi facilmente raggiungibili per questi pazienti,
perché non si considerano “tossici” e dunque non usufruiscono delle offerte dei dipartimenti delle dipendenze o dei
SerT, ma non vengono neanche così volentieri accolti dai
servizi della Salute Mentale che si considerano spesso servizi solo per disturbi dell’asse I del DSM IV (la schizofrenia, i disturbi d’ansia o dell’umore, etc.). Così il medico rimane facilmente da solo con questo tipo di patologia senza
strumenti terapeutici ma con il chiaro vissuto di allarme.
Clinicamente è però giusto concedere una terapia psicofarmacologica (meglio con l’aiuto di uno specialista) scegliendo:
• Benzodiazepine con un’emivita breve;
• Antidepressivi solo dell’ultima generazione (per il pericolo del suicidio), meglio solo con la componente del
SSRI;
• Stabilizzatori d’umore (p.e antiepilettici dell’ultima generazione);
• Neurolettici: meno possibile e solo dell’ultima generazione.
Anche alcuni farmaci sostitutivi, usati specificamente
per i trattamento delle dipendenze, quali metadone e buprenorfina hanno un importante azione di stabilizzazione emo-
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SEZIONE XVII - D I S T U R B I P S I C H I A T R I C I E D U S O D I S O S T A N Z E P S I C O T R O P E
tiva, che risulta spesso utile nel trattamento della comorbidità dipendenza/ disturbo di personalità. Sembra che più è
grave il disturbo emotivo di stile “on-off”, più diventa utile
l’utilizzo del metadone come agonista semplice; se il paziente invece ha ancora un “finetuning” emotivo funzionante vive il metadone facilmente come emotivamente
troppo anestetizzante e si sente meno “legato” con l’uso
dell’antagonista parziale buprenorfina.
LA PSICOTERAPIA DEL DISTURBO BORDERLINE
Fino a pochi anni fa la sindrome Borderline veniva considerata pressoché incurabile: questi pazienti venivano ritenuti
piuttosto manipolatori che veri pazienti sofferenti. Solo dopo i primi lavori di Kernberg e Kohut, e più tardi della Linehan, abbiamo avuto una nuova visione clinica. I pazienti
non possono cambiare il loro modo di “sentire” emozioni,
ma non sono per questo condannati a fare “danni” col loro
comportamento. Possono imparare ad accettarsi come sono
e a diventare il proprio migliore psicoterapeuta con l’aiuto
di un sistema di terapia che non cerca di “cambiarli”, ma di
renderli più consapevoli. Devono imparare a convivere con
il loro modo di essere disfunzionale al mondo, devono imparare di evitare certi contesti potenzialmente stressanti.
Devono tornare a controllare con precise tecniche i loro
comportamenti e cercare attivamente contesti che inducono
consapevolezza e rilassamento. I pazienti borderline devono
tornare a valorizzare anche il lato razionale di se e usarlo per
limitare i danni indotti dalla emotività sregolata.
Secondo Kernberg, il terapeuta deve avere una relazione con il paziente che funziona da protesi dell’ ”Io” debole:
stare vicino al paziente con pazienza infinita, senza farsi
agitare o includere nelle dinamiche patologiche, consigliarlo anche nelle piccole faccende di vita come se fosse un navigatore di macchina o un eterno genitore. Più che quello
che dice conta come lo dice e quanto riesce a non farsi “distruggere”, ma non farsi neanche mai assegnare questo ruolo dell’unico salvatore possibile. Una terapia troppa breve
o troppo emotiva può facilmente creare più danni che potenziali benefit. Una terapia troppo lunga e razionale può
essere altrettanto inutile. Spesso anche il medico internista
diviene, volente o nolente, parte di questa protesi dell’Io
perché ha sempre qualche tratto da figura riconosciuta come autorità genitoriale (inutile sottolineare che pazienti
borderline sono esperti in “doctorshopping”).
Marsha Linehan ha messo a punto un modello di psicoterapia per pazienti borderline da lei stessa definita “dialettico-comportamentale”; questo approccio è stato validicato
sia su borderline “puri” che su soggetti con associati disturbi da uso di sostanze.
La Linehan definisce come obiettivi principali di terapia da lei sviluppata:
• Inibire comportamenti disadattati come conseguenza di
intese emozioni negative o positive.
• Imparare a diminuire l’eccitazione vegetativa indotta da
troppa emozione.
• Imparare a focalizzare l’attenzione anche durante intensi vissuti emotivi.
Disturbo antisociale di personalità (Tab. 213-3)
Il disturbo antisociale di personalità è caratterizzato dal disprezzo patologico del soggetto per le regole e le leggi della società, da comportamento impulsivo, dall’incapacità di
assumersi responsabilità ed dall’indifferenza nei confronti
dei sentimenti altrui. Il dato psicodinamico fondamentale è
la mancanza del senso di colpa o del rimorso. Ciò che distingue il disturbo antisociale dal comportamento antisociale e dalla criminalità è la pervasività del comportamento
nelle diverse situazioni ed aree vitali: il delinquente abituale ha dei codici e dei valori, per quanto deviati, mentre l’antisociale applica la violazione dell’altro in tutti i contesti.
Spesso gli antisociali non tollerano relazioni umane calde
ed empatiche, e reagiscono ai tentativi di instaurare tali relazioni con rabbia ed aggressività. Il contatto con soggetti
con disturbo antisociale avviene spesso in contesti giudiziari ed in contesti terapeutici dove si svolgano programmi
alternativi alla pena. Il rapporto con questi pazienti è dunque difficile, anche perché spesso dominato da intenti manipolatori, finalizzati al raggiungimento di benefici.
Il disturbo si manifesta prevalentemente nei maschi, con
rapporto 3:1 rispetto alle femmine. La prevalenza è pari al
3,6% nella popolazione generale, e aumenta al 3-30% in
ambiente clinico. Alcuni studi segnalano una correlazione
tra la gravità del disturbo, età di insorgenza, situazione socio-economica. La comorbidità tra disturbo antisociale e disturbi da uso di alcol è del 30%, mentre con i disturbi da uso
di sostanze illecite è circa il 10%. Spesso i soggetti con dipendenza presentano comportamenti antisociali legati all’uso di sostanze, che si attenuano o scompaiono con
l’astensione. Tali situazioni non vanno confuse con l’antisocialità legata ad un disturbo di personalità, in cui il comportamento persiste anche ove si riesca a realizzare un stabile
astinenza. Questi livelli di comorbidità spiegano la frequente presenza di soggetti antisociali in contesti di cura delle dipendenze. Non vi sono studi sistematici sul trattamento di
queste situazioni, anche se alcuni autori segnalano una certa efficacia dei gruppi di autoaiuto composti da pari.
L’uso di sostanze è frequente nei pazienti schizofrenici;
d’altra parte le sostanze possono indurre quadri dissociativi (disturbo psicotico indotto da sostanze) in cui i sintomi
allucinatori o deliranti si sviluppano durante l’intossicazione o astinenza dalla sostanza, o entro un mese da queste e
con una correlazione etiologica con la sostanza stessa. Per
porre la diagnosi di psicosi indotta da sostanze è necessario
che vi siano elementi che fanno pensare non trattarsi di un
disturbo psicotico “primitivo”, non indotto da sostanze,
quali la dinamica dell’insorgenza dei sintomi (prima o dopo l’uso), la persistenza per tempi lunghi dopo l’intossicazione o l’astinenza, l’intensità maggiore rispetto all’atteso
in relazione al tipo di sostanza ed alla durata dell’uso, o una
storia di ricorrenti episodi non correlati a sostanze.
C A P I T O L O 2 1 3 - FOCUS SU DISTURBI DI PERSONALITÀ, SCHIZOFRENIA, PARANOIA E ISTERIA
Tab. 213-3. Criteri diagnostici del disturbo antisociale
di personalità
• Il soggetto mostra inosservanza e violazione dei diritti degli
altri fin dall’età di 15 anni, che si manifesta con almeno 3 dei
seguenti elementi:
– Incapacità di conformarsi alle norme sociali per quanto riguarda il comportamento legale, con ripetersi di condotte
suscettibili di arresto
– Disonestà: il soggetto mente, usa falsi nomi, truffa gli altri
– Impulsività o incapacità di pianificare
– Irritabilità e aggressività
– Inosservanza della sicurezza propria e degli altri
– Irresponsabilità: incapacità di far fronte a obblighi finanziari o di sostenere un'attività lavorativa con continuità o
mancanza di rimorso
• L’individuo ha almeno 18 anni 3.
• Presenza di un disturbo della condotta con esordio precedente ai 15 anni 4.
• Il comportamento antisociale non si manifesta esclusivamente durante un episodio maniacale o nel decorso della schizofrenia.
Uno studio condotto su 194 soggetti schizofrenici seguiti ambulatorialmente in Australia ha dimostrato che la prevalenza di uso di sostanze presente e lifetime (ossia, un uso
di sostanze precedente o successivo al disturbo psichiatrico)
è rispettivamente del 26,8% e del 59,8%. L’alcol, la cannabis e gli psicostimolanti (come le amfetamine e la cocaina)
risultano essere le sostanze più utilizzate. Lo studio ha inoltre messo in evidenza che gli schizofrenici assuntori sono in
prevalenza giovani, di sesso maschile e con precedenti penali. Uno studio successivo ha confermato i dati precedenti
mettendo in evidenza un’alta percentuale di uso (anche di
più sostanze insieme) fra gli schizofrenici che nel 47% abusano di cannabis, nel 42% di alcol, nel 25% di psicostimolanti ed nel 18% di allucinogeni. Recentemente è stato anche osservato come soprattutto fra i soggetti schizofrenici
che presentano dei deficit cognitivi vi sia una maggiore probabilità di sviluppare una dipendenza da nicotina. Questa
tendenza del resto è già riconosciuta da tempo nei soggetti
schizofrenici in trattamento con neurolettici classici che
consumano grandi quantità di nicotina e caffeina per contrastare gli effetti sedativi della terapia farmacologica.
Quali sono le basi del legame tra schizofrenia ed uso di
sostanze? Gli studi sono concordi nel ritenere che le ipotesi eziologiche di co-morbilità possono essere riassunte nella presenza di:
• Determinati fattori ambientali favorenti (ad es., disponibilità di sostanze, pressione fra pari, ecc.);
• Una vulnerabilità biologica in grado di favorire l’esordio schizofrenico e la dipendenza da sostanze attraverso
meccanismi neurobiologici legati all’attivazione comune del sistema dopaminergico meso-limbico corticale;
• Comportamenti d’uso come auto-terapia dei sintomi
schizofrenici (sia negativi che positivi).
Particolarmente interessante dal punto di vista neurobiologico è il legame fra consumo di cannabis, psicosi e schi-
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zofrenia: l’uso di tale sostanza è in fatti capace di slatentizzare o “smascherare” in soggetti predisposti lo sviluppo della malattia mentale. La base neurobiologica che lega l’uso
di cannabis alla slatentizzazione della patologia schizofrenica è l’esistenza della stretta connessione fra il sistema endogeno cannabinoide e quello dopaminergico. L’uso cronico
di cannabis in grado di attivare a livello centrale i recettori
CB1 dei cannabinoidi e sarebbe perciò capace di slatentizzare il sistema dopaminergico meso-limbico corticale e quindi favorire l’insorgenza degli episodi psicotici e schizofrenici. Il fumo cronico di cannabis sarebbe inoltre in grado di influenzare negativamente, sempre attraverso l’attivazione
del sistema dopaminergico, la responsività del sistema della
gratificazione. Il legame esistente fra il sistema cannabinoide e quello dopaminergico sarebbe perciò anche in grado di
spiegare perché numerosi soggetti schizofrenici continuano
ad usare la cannabis, anche se il fumo è in grado di peggiorare i deficit cognitivi e la gravità della malattia mentale.
Il legame tra uso di sostanze e schizofrenia nella quotidianità clinica è complesso: secondo alcuni autori infatti i
pazienti schizofrenici che consumano sostanze trovano attraverso queste ultime un “nuovo adattamento”. Secondo
questi autori sarebbero proprio i soggetti schizofrenici con
un livello maggiore di adattamento premorboso, e quindi
più socievoli, ad avere una più elevata propensione ad usare sostanze e quindi utilizzare le droghe anche con l’intento di sviluppare un’identità più accettabile e diversa da
quella del comune “malato di mente”. Secondo altri autori
infatti fra i soggetti schizofrenici che utilizzano sostanze vi
sarebbe una sorta di “paradosso” in quanto questi sarebbero da una parte più disturbati a livello comportamentale ma,
nello stesso tempo, più efficienti dal punto di vista sociale.
Come abbiamo già sottolineato dal punto di vista nosografico possiamo ipotizzare due condizioni: una in cui la
patologia schizofrenica si associa all’uso di sostanze (comorbilità primaria) ed un’altra in cui la schizofrenia è indotta dall’uso di droghe (co-morbidità secondaria). Diversi
autori hanno tentato di differenziare la schizofrenia che
coesiste con l’uso di sostanze da quelle indotta dall’uso.
Mentre alcune ricerche non hanno rilevato differenze cliniche e di decorso sostanziali fra i due quadri, altre hanno
sottolineato delle differenze. In particolare uno studio ha
messo in evidenza che nei soggetti schizofrenici in cui la
malattia è stata indotta dall’uso di LSD sono più frequenti
le allucinazioni visive. Ad ogni modo dal punto di vista clinico risulta superfluo riuscire a distinguere fra una condizione cosiddetta primaria e una secondaria. La distinzione
fra la prima e la seconda è invece importante sul piano del
decorso prognostico che appare essere sensibilmente peggiore nelle forme cosiddette primarie. Dal punto di vista
neurobiologico entrambe le condizioni riconoscono delle
precise basi (Chambers et al., 2001). Nel patologia schizofrenica indotta da sostanze l’uso di droghe può essere determinata da una disregolazione dei sistemi dopaminergici
e glutamatergici a livello del nucleo accumbens tale da determinare un’alterazione funzionale dei sistemi ippocampali e frontali in grado di accrescere le proprietà rinforzan-
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SEZIONE XVII - D I S T U R B I P S I C H I A T R I C I E D U S O D I S O S T A N Z E P S I C O T R O P E
Tab. 213-4. Criteri diagnostici per la schizofrenia
• Sintomi caratteristici: due o più dei sintomi seguenti
– deliri
– allucinazioni
– eloquio disorganizzato
– comportamento grossolanamente disorganizzato o catatonico
– sintomi negativi, cioè appiattimento dell’affettività, alogia
abulia
• Disfunzione sociale/lavorativa
Per un tempo significativo, il livello di importanti funzioni vitali quali lavoro, relazioni interpersonali, o la cura di sé sono notevolmente al di sotto del livello raggiunto prima della malattia)
• Durata segni continuativi del disturbo persistono per almeno
sei mesi
• Esclusione dei disturbi schizoaffettivi e dell’umore
• Il disturbo non è dovuto agli effetti fisiologici diretti di una
sostanza o a una condizione medica generale
• Se vi è una storia di disturbo artistico o di altro disturbo pervasivo dello sviluppo la diagnosi di schizofrenia si fa solo se sono
pure presenti deliri o allucinazioni rilevanti per almeno un mese.
Si distinguono i seguenti sottotipi: paranoide, disorganizzato,
catatonico, indifferenziato, residuo
ti delle sostanze e ridurre il potere di controllo corticale sull’uso. Nella condizione cosiddetta primaria possono invece
essere presenti delle alterazioni neurobiologiche dei sistemi neuronali della motivazione e della gratificazione preesistenti all’esposizione alla sostanza tali da determinare
nell’individuo una maggiore vulnerabilità all’uso.
Un capitolo importante della co-morbilità è infine quello che lega il consumo di sostanze con l’influenza del decorso della schizofrenia. Un interessante studio è andato ad
analizzare le cartelle cliniche di pazienti schizofrenici ambulatoriali e ha messo in evidenza che ben il 55% di essi
consumava sostanze e che in quest’ultimi era più marcata la
sintomatologia negativa, maggiore l’ospedalizzazione e più
bassa la compliance alla terapia. Non c’è dubbio quindi che
l’uso di sostanze ed alcol sia un fattore in grado di peggiorare il decorso prognostico della malattia schizofrenica.
Paranoia
Per paranoia si intende una psicosi caratterizzata da un delirio cronico basato su un sistema di convinzioni e pensieri
irrazionali a tema persecutorio. Il termine paranoia, che deriva dal greco παρνοια, “fuori dalla mente”, è quindi una
condizione associata a determinate forme di psicosi ed in
particolare alla schizofrenia, e non va confuso col disturbo
paranoie di personalità, che definisce una personalità caratterizzata da diffidenza e sospettosità pervasive.
Numerose evidenze suggeriscono che l’uso di determinate sostanze, a forte attivazione dopaminergica, come l’alcol,
la cannabis, le amfetamine e la cocaina possono portare all’insorgere di condizioni mentali paranoiche o rendere allucinatorie tendenze paranoidi già presenti in forma latente. Sicuramente gli psicostimolanti come la cocaina e le amfetamine che sono in grado di attivare potentemente il sistema
dopaminergico sono fra le sostanze più frequentemente capaci di indurre delle sindromi paronoidi. Chiare evidenze infatti hanno provato come la somministrazione intravenosa di
cocaina in consumatori della sostanza ad un dosaggio compreso fra i 40 e gli 80 mg sia in grado di indurre paranoia e
sospettosità. È anche noto come negli alcolisti siano particolarmente frequenti e caratteristici i cosiddetti deliri di gelosia
(deliri che presentano delle analogie con quelli di tipo paranoideo) che in casi estremi sono anche in grado di condurre
a comportamenti violenti fino all’omicidio ed il suicidio. Nei
consumatori di cannabis, la comparsa del delirio paranoideo
è invece più complessa in quanto è spesso associata ad un
corteo sintomatologico accompagnato da depersonalizzazione e derealizzazione. Non dobbiamo infine dimenticare che
alcuni farmaci utilizzati nei consumatori di sostanze come il
disulfiram, un inibitore dell’acetaldeide deidrogenasi utilizzato per il trattamento dell’alcolismo ma che è anche in anche in grado di inibire la dopamina-beta-idrossilasi e quindi
aumentare i livelli cerebrali di dopamina, siano in grado di
indurre in soggetti predisposti (o in associazione all’uso di
cocaina o altre sostanze) delle forti reazione paranoidi. Dal
punto di vista neurobiologico il legame che esiste fra paranoia e l’uso di sostanze è quindi prevalentemente sostenuto
dalla dopamina. Questo è provato da diverse evidenze fra cui
anche dal fatto che i neurolettici classici, che agiscono prevalentemente come antagonisti dei recettori della dopamina,
sono in grado di sopprimere efficacemente i sintomi positivi
delle psicosi e della schizofrenia. Recenti evidenze suggeriscono che altri sistemi neurotrasmettitoriali fra cui anche
quello dinorfinergico possono contribuire in soggetti vulnerabili allo sviluppo del delirio paranoideo.
Alcune evidenze suggeriscono l’esistenza di una possibile vulnerabilità individuale allo sviluppo della paranoia
indotta dall’uso di sostanze. Diversi studi hanno provato
che soggetti con più alti livelli di ansia ed attivazione del sistema d’allerta hanno una maggiore probabilità di sviluppare paranoia, soprattutto se assuntori di cocaina. Più recentemente, un interessante studio condotto su coppie di
fratelli ha messo in evidenza la presenza di un maggiore rischio fra i familiari di sviluppare paranoia a seguito dell’uso di cocaina. La ricerca ha in particolare dimostrato che
la severità del grado di dipendenza nei confronti della cocaina e la precoce comparsa dell’uso sono dei fattori strettamente associati allo sviluppo della paranoia.
Isteria
Per isteria si intende uno stato mentale di incontrollabile
agitazione con eccessi di tipo emozionale. L’isteria, che deriva dal termine greco hysrerikos in quanto la malattia si riteneva essere principalmente riferita alle donne, può rico-
C A P I T O L O 2 1 3 - FOCUS SU DISTURBI DI PERSONALITÀ, SCHIZOFRENIA, PARANOIA E ISTERIA
noscere diverse cause (anche non apparenti), essere favorita da situazioni di stress ed essere accompagnata da uno
stato di forte agitazione psicomotoria ed emotiva che può
anche essere somatizzata (cioè centrata sul corpo o su una
parte di essa). Oggi in Psichiatria il termine isteria è obsoleto tanto che nel 1980 l’American Psychiatric Association
ha introdotto la diagnosi di “disordine di conversione” per
una condizione che può essere assimilata in parte a quella
che in passato si definiva come isteria. Ove invece il quadro abbia le caratteristiche di un disturbo di personalità,
può configurare la diagnosi di Disturbi istrionico di personalità, definito come un quadro pervasivo di emotività eccessiva e di ricerca di attenzione.
A parte le terminologie oggi adottate in clinica possiamo
tuttora distinguere due forme di isteria: la somatiforme e la
dissociativa. Nella forma cosiddetta somatiforme il paziente presenta sintomi fisici come dolori muscolari fino anche
alla vera e propria perdita di funzione di zone del corpo come gli arti, senza soffrire di apparenti cause fisiche. Nella
forma dissociativa possono essere invece presenti delle vere e proprie fughe amnestiche. Premettendo che il legame
fra quello che oggi intendiamo isteria e l’uso di sostanze è
indefinito, possiamo pensare come l’uso di droghe ed alcol
possa determinare una vulnerabilità emotiva ed una ridotta
resistenza allo stress tale da favorire in soggetti particolarmente proni lo sviluppo della “crisi isterica”. A questo proposito è facile ipotizzare come l’uso di sostanze depressogene come l’alcol e l’eroina possono favorire, per forte disinibizione e specialmente durante le fasi astinenziali, l’insorgenza delle forme cosiddette somatiformi mentre l’uso di
psicostimolanti ed allucinogeni possa determinare lo sviluppo delle forme cosiddette dissociative.
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