Gli effetti della tortura

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Gli effetti della tortura
Pur nella difficoltà di tracciare una linea di demarcazione tra traumi e traumi “estremi”, non si può
non riconoscere che alcune esperienze traumatiche abbiano un impatto particolarmente dirompente,
frammentante ed annichilente su chi le subisce. Il trauma, in generale, si realizza nell’incontro tra
l’individuo e l’evento traumatico: è l’esperienza soggettiva dell’evento a determinare l’effetto
traumatico e le successive conseguenze psicopatologiche: maggiore è il sentimento di vulnerabilità
di fonte ad un pericolo estremo, l’emozione inelaborabile, il sentimento di disperata impotenza,
maggiore sarà la portata traumatica del vissuto.
(L’articolo qui pubblicato della dott.ssa Ieva, fornisce una prova indiretta e drammatica sull’origine
dei disturbi psicologici. Il fatto che individui torturati e quindi riconosciuti da tutti come soggetti
deboli trattati in modo disumano da sadici senza scrupoli sviluppino gli stessi sintomi di molti adulti
cresciuti in famiglie “normali”, dovrebbe far riflettere sulla difficoltà che abbiamo a riconoscere
nella microtraumatizzazione anaffettiva le stesse potenzialità distruttive della tortura)
Pur nella difficoltà di tracciare una linea di demarcazione tra traumi e traumi “estremi”, non si può
non riconoscere che alcune esperienze traumatiche abbiano un impatto particolarmente dirompente,
frammentante ed annichilente su chi le subisce.
Il trauma, in generale, si realizza nell’incontro tra l’individuo e l’evento traumatico: è l’esperienza
soggettiva dell’evento a determinare l’effetto traumatico e le successive conseguenze
psicopatologiche: maggiore è il sentimento di vulnerabilità di fonte ad un pericolo estremo,
l’emozione inelaborabile, il sentimento di disperata impotenza, maggiore sarà la portata traumatica
del vissuto.
Lindemann descrive il trauma psichico come “l’improvviso e incontrollabile sconvolgimento dei
propri legami affiliativi”, riconoscendo, in questo modo, l’importanza del sistema di attaccamento nel
determinare chi sentiamo di essere e come ci comportiamo nei confronti degli altri.
L’esperienza della tortura configura una condizione di trauma relazionale estremo: è un evento che
spesso si verifica all’interno di un contesto di persecuzioni e violazioni dei diritti umani.
Cos’è la tortura
Sul piano del Diritto Internazionale la definizione più esaustiva e condivisa di tortura è fornita dalla
“Convenzione delle Nazioni Unite contro la Tortura” del 1984. Secondo l’art.1 il termine indica:
“…qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore e sofferenze
forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni
o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver
commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza
persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale
dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che
agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito.”
La tortura è, quindi, il risultato della fredda determinazione a causare dolore estremo e umiliazione
a chi è privato di ogni possibilità di difesa, nell’intento di annullare la sua identità e mortificare la
sua dignità; le torture sono generalmente perpetrate nel corso di una detenzione più o meno lunga,
durante la quale il soggetto è lasciato in uno stato di completo soggiogamento nei confronti del suo
torturatore.
Quando il contesto sociale giustifica il crimine e il sopruso, quando l’aggressione proviene dallo
Stato – atteso garante del funzionamento della legge e dell’interdizione al delitto – quando il
contratto narcisistico viene brutalmente spezzato, alla sofferenza si aggiunge un’angoscia legata al
crollo e all’assenza di oggettivi protettori esterni.
Perché il torturatore agisce a questo modo?
Il torturatore infligge sofferenza e umiliazione alle sue vittime attraverso una relazione fondata sulla
deumanizzazione dell’altro, che deve essere punito e umiliato: egli agisce nella consapevolezza di
essere appoggiato dal potere.
Questo triangolo dell’abuso viene interiorizzato dalle vittime, che lo rappresentano nelle loro vite e
nella relazione psicoterapeutica, in maniera molto simile ai bambini abusati, che per la loro
impotenza sono totalmente dipendenti da coloro che sono, al tempo stesso, responsabili della loro
vita.
Come scrive la Sabatini Scalmati, la tortura lacera il patto che unisce gli individui in collettività e fa
svanire la certezza del soccorso: vi è una deliberata volontà umana di fare del male.
Quali sono le conseguenze della tortura?
Le sue conseguenze coinvolgono ogni aspetto della vita del sopravvissuto, in quanto lascia nella
persona che la subisce segni indelebili e alterazioni durature dell’identità, del senso di Sé, della
fiducia di base in sé, negli altri e nel futuro.
Nulla è più come prima: i livelli intrapsichico, interpersonale e trans-personale sono colpiti e
disgregati in maniera profonda.
Sappiamo che uno degli effetti della violenza intenzionale, spesso espressamente cercato da chi la
perpetra, è quello di danneggiare il Sé delle persone e di scompaginare le dinamiche di adattamento.
- Le esperienze traumatiche estreme provocano profonde ripercussioni nella psiche, arrivando a
coinvolgere le funzioni psichiche di base quali la memoria e le funzioni associative.
Le alterazioni della dimensione temporale sono strettamente correlate ai disturbi dissociativi e a
quelli della memoria autobiografica, specifiche conseguenze dei traumi estremi, che testimoniano la
pervasività e la profondità del danno prodotto dalla catastrofe traumatica.
L’evento traumatico estremo, infatti, tende a produrre lo schiacciamento dell’Io, interrompendo la
continuità dell’esperienza: questa non potrà collocarsi in un processo di storicizzazione e
temporalizzazione (si ha un deficit nella memoria esplicita autobiografica).
Il trauma, dunque, non trovando una possibile significazione, resterà inscritto a livello psichico nella
memoria procedurale, come dato sensoriale, essendo inelaborabile a livello simbolico/verbale: sarà il
corpo, spesso unico depositario della memoria traumatica, a ricordare, a rivivere all’infinito, e non la
mente.
- La vita post-traumatica sarà caratterizzata da una particolare vulnerabilità nei confronti di
situazioni che, seppure lontane per forma ed intensità dagli eventi passati, sono assimilabili ad essi
per la capacità di rievocare e riattualizzare le profonde ferite da essi prodotte.
Ogni evento successivo che induca il sopravvissuto a confrontarsi con la precarietà, l’insicurezza
personale e sociale, l’eclissi del senso di identità e di autonomia, la totale dipendenza dagli altri,
tende ad essere vissuto traumaticamente.
Questa particolare suscettibilità, rintracciabile in tutti coloro che sono stati vittime di traumi e
violenze estreme, diviene ancora più soverchiante e pervasiva nei rifugiati sopravvissuti a tortura. I
rifugiati, in particolare, sperimentano traumi sequenziali che possono sovrapporsi l’un l’altro per
lunghi periodi.
Tra i sopravvissuti a traumi catastrofici è comune l’esperienza di essere sommersi da ricordi impliciti
estremamente coinvolgenti, durante i quali si sentono non come se stessero ricordando
intensamente un evento passato, ma come se lo stessero rivivendo in quel preciso momento
(flashback).
La dissociazione è la conseguenza più tipica delle esperienze traumatiche estreme, risultato di una
mancata integrazione reciproca di aspetti della percezione, della memoria, dell’identità e della
coscienza. In seguito ad un evento traumatico le difese dissociative assolvono alla duplice funzione
di aiutare le vittime a distaccarsi dall’evento mentre si verifica, e di posporre il lavoro di
elaborazione necessario per collocare tale evento nel contesto della storia di vita.
Anche quando sono fuori dalla consapevolezza cognitiva, le memorie traumatiche soverchianti
continuano ad essere psicologicamente attive ed influenti. Le persone traumatizzate possono quindi
diventare improvvisamente amnesiche riguardo specifiche situazioni o particolari vissuti (lacune
mnesiche inconsapevoli e “parcellari”), e repentinamente diverse negli atteggiamenti, spesso
confuse e perplesse.
- Le recenti nozioni di trauma, ed in particolare la focalizzazione sulla categoria del complex PTSD
(Disturbo Post-Traumatico da Stress), permettono di descrivere gli effetti multipli sull’apparato
psichico di chi è sopravvissuto a tortura o traumi estremi.
Se si analizzano le conseguenze di una traumatizzazione in funzione della natura del trauma, si vede
come traumi ripetuti, cronici e a carattere interpersonale, quali ad esempio la violenza domestica e
la tortura, producono effetti ad ampio raggio.
Vari studi hanno mostrato come la tortura e gli abusi ad essa correlati colpiscono in particolare
cinque aree, quali il senso di sicurezza, l’attaccamento, la giustizia, l’identità di ruolo ed il significato
esistenziale.
A partire dalle osservazioni compiute su storie di traumi sequenziali, cumulativi e di natura
interpersonale, è nata l’esigenza di sviluppare nuovi quadri diagnostici conseguenti a tali situazioni.
I lasciti traumatici che segnano coloro che sono sopravvissuti a torture o violenze estreme vanno ben
aldilà dell’inquadramento nosografico del DSM IV-TR, non essendo certamente rappresentati in
modo esauriente dal Disturbo Post-Traumatico da Stress.
Il costrutto del PTSD è efficace per sistematizzare l’effetto di un trauma singolo, temporaneo e
generalmente specifico; tuttavia, quando l’evento traumatico si produce all’interno di una situazione
complessa, che comporta l’esperienza di lutti ripetuti, la perdita dei beni e della cittadinanza, il
soggiogamento ad un torturatore da cui dipende la sopravvivenza stessa, l’emarginazione sociale,
compaiono segni più profondi anche in persone prive di precedenti esperienze di violenza o di
neglect durante lo sviluppo.
- L’altissima frequenza di comorbilità con depressione, dissociazione, disturbi della memoria e
psicosomatici induce, infatti, a configurare una vera e propria Sindrome da Trauma Estremo,
descritta da vari autori come complex PTSD e DESNOS (Disturbi da Stress Estremo – Non Altrimenti
Specificato).
Il costrutto del PTSD si è rivelato riduttivo nel fornire una cornice coerente delle sindromi posttraumatiche: ne coglie, infatti, solo alcuni aspetti correlati con la ripresentazione emotiva o
percettiva dell’esperienza traumatica (iperarousal, flashback) e l’evitamento come tentativo di
circoscriverne l’impatto.
Esistono, però, numerosi disturbi che con notevole frequenza si possono associare ad un PTSD. I dati
disponibili in letteratura su popolazioni di soggetti sopravvissuti a trauma mostrano un’elevata
variabilità di quadri sindromici e un elevato tasso di comorbilità con disturbi dell’asse I del DSM IVTR, quali disturbi d’ansia, alterazioni dell’umore, soprattutto sul versante depressivo, disturbi della
coscienza (stati dissociativi, depersonalizzazione, derealizzazione..), disturbi somatoformi, disturbi
cognitivi (della memoria e delle capacità attentive), disturbi del pensiero e dispercezioni, disturbi del
comportamento alimentare, abuso di sostanze.
Inoltre, è stata sottolineata la rilevanza di esperienze post-traumatiche per lo sviluppo di disturbi di
personalità e sintomi comportamentali che rientrano nei quadri diagnostici tipici dell’asse II, quali
disturbi dissociativi dell’identità, condotte compulsive ed autolesionistiche.
È stata documentata una solida associazione dose-risposta tra traumi e sofferenza psichica:
un’esposizione cumulativa a traumi (subire violenze o torture, essere costretti a lasciare la propria
casa, trovarsi vicino a sparatorie ed esplosioni, pericolo di morte per se stessi e per i familiari)
corrisponde ad un aumento progressivo del rischio di morbilità psichiatrica, coerentemente con
quanto si sa a proposito della maggior vulnerabilità ai traumi di chi è stato già traumatizzato.
L’impatto con un evento traumatico del tutto fuori dalle possibilità di gestione dell’individuo, induce
in quest’ultimo una sensazione di profonda insicurezza che si traduce in un’ingiunzione “non
fidarti”.La persona sente, in primo luogo, di non potersi fidare delle proprie capacità di gestione
della realtà; si tratta, quindi, di una sfiducia rivolta innanzi tutto verso se stessa, che comporta
elevati livelli di ansia. Inoltre, quando l’evento traumatico, anziché a cause naturali, è dovuto alla
crudeltà di altri esseri umani (come è quasi la regola nel caso dei rifugiati), si traduce anche in una
profonda e generalizzata sfiducia nei confronti degli altri e dell’intera umanità.
L’intenzionalità dell’atto, inoltre, ha conseguenze specifiche sia sulla psicodinamica della sofferenza
che sul complesso del quadro clinico e richiede interventi mirati, che tengano conto, tra l’altro, in
particolare delle dinamiche di introiezione dell’aggressore.
Gli avanzamenti nelle neuroscienze possono consentirci di ipotizzare un modello esplicativo dello
stabilirsi di ingiunzioni in qualsiasi fase della vita, anche in tempi molto successivi alla prima
infanzia, in seguito all’azione di eventi che impressionano significativamente le aree neurologiche
deputate alla memoria implicita (in particolare talamo, amigdala, ippocampo e corteccia prefrontale). Benché queste siano, in effetti, le strutture dominanti nei processi di
memorizzazione/apprendimento relazionale nelle prime fasi della vita, non smettono certo di essere
attive nelle fasi successive e ben possono essere alla base di “apprendimenti” non verbalizzabili
come appaiono essere le ingiunzioni; in questo caso “i ricordi vengono archiviati come stati affettivi
o come modalità senso-motorie, come sensazioni fisiche e immagini visive”.
Sulla formulazione della sindrome post-traumatica complessa sta lavorando l’American Psychiatric
Association con la denominazione di DESNOS.
Dalle prime formulazioni del complex PTSD numerose indagini hanno rafforzato questo costrutto e
cercato di definire quali sono le condizioni che lo determinano. Inizialmente le aree psicopatologiche
considerate come segni di una sindrome post-traumatica complessa sono state la dissociazione, la
disregolazione affettiva (nelle sue varie forme) e le somatizzazioni. Successivamente sono state
incluse alterazioni riguardanti aspetti relativi al senso di sé e alla capacità di stare in relazione: è
stato ipotizzato come, in seguito ad esperienze prolungate di esposizione a stress estremi, si attivino
quadri psicopatologici diversi con conseguenze croniche sul funzionamento psichico. La mente
tenderebbe ad interiorizzare la situazione traumatica estrema come elemento strutturale della
propria realtà. In questo senso assume particolare rilievo il ruolo dei processi di memorizzazione
post-traumatica: l’intrusività dei ricordi traumatici rimuove ogni senso di sicurezza o di ritiro nella
riservatezza della propria mente, e genera, come risultato, una traumatizzazione reiterata; in questo
modo, le sensazioni interne di minaccia e di perdita di controllo si vengono a delineare come
dimensioni aggiuntive della psicopatologia del trauma.
Studi successivi confermano la diffusione dei disturbi inclusi nel DESNOS, rafforzando i seguenti
concetti:
a. Il trauma infantile ha un’alta pervasività e conduce in larga parte all’espressione di disregolazione
degli affetti e delle condotte impulsive.
b. Il trauma dell’adulto può condurre ad alterazioni simili se avviene in un soggetto già
precedentemente traumatizzato o se avviene in una situazione traumatica interpersonale prolungata.
c. Il DESNOS compare generalmente sovrapposto al PTSD e non come sindrome a sè; spesso i
sintomi del PTSD scompaiono precocemente rispetto ai disturbi dissociativi e della regolazione
affettiva.
d. Spesso i pazienti chiedono assistenza psicologica/psichiatrica per i disturbi correlati, più che per il
PTSD, che molti percepiscono come normale conseguenza dell’esperienza vissuta.
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