UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA Dipartimento di Scienze della formazione, dei beni culturali e del turismo CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN Theory, Technology and History of Education CICLO XXV TITOLO DELLA TESI Teatro come esperienza pedagogica TUTOR Chiar.mo Prof. Michele Corsi co-TUTOR Chiar.mo Prof. Giuseppe Spadafora DOTTORANDO Dott.ssa Vincenza Costantino COORDINATORE Chiar.mo Prof. Roberto Sani ANNO 2013 1 Cinque piccoli passi fra teatro e educazione. Nell'accostare i termini “pedagogia” e “teatro” non si può mettere da parte il compito epistemologico sotteso nell'affrontare in particolare il primo dei due termini in questione e, in maniera tangenziale e conseguente, pure il secondo; coscienti, innanzitutto di stare avvicinando non due parole e le rispettive letterature, ma due domini differenti e, per certi versi, indifferenti l'uno all'altro, per origini, storia, percorsi, progettualità, crisi, risultati. Semplificando al massimo, e le semplificazioni possono essere chiarificatrici se non assunte dogmaticamente: si sta, nel primo caso, nell'ambito di una scienza, nel secondo nell'ambito di un'arte. Entrambi gli ambiti, per motivi differenti, sono problematici, critici, dai confini indefiniti. In effetti la pedagogia è “scienza” del tutto particolare, ostile alla scientificità, per fondamenti, metodologie e aspettative, eppure refrattaria al morbido assorbimento nell'alveo dei saperi filosofici e umanistici. Teatro è “arte” in una sua maniera unica e pericolosa che da sempre la rende fluttuante e la costringe a migrare ora nella letteratura, ora nelle arti sceniche, ora nelle pratiche attoriali, eppure questo suo essere apolide ne fortifica – per paradosso – la specificità artistica, quella dimensione dal vivo, dell'hic et nunc, che la caratterizza e la rende inafferrabile quanto irripetibile. Il quesito che in questa tesi si vuole proporre e che si tenterà di sciogliere è il seguente: se e in che maniera una scienza problematica come la pedagogia può incontrare – in una prospettiva interessante e proficua per il suo stesso sviluppo e la sua attualizzazione nella contemporaneità – un'arte, anch'essa di natura problematica come quella del teatro? L’accostamento parte da lontano e possiede una storia significativa. Esistono e sono documentate, sebbene non in maniera sistematica, convergenze fra la pedagogia e il teatro nel loro articolarsi che vede l'alternanza inesausta del prevalere ora della teoria ora della prassi, portando ricadute e aprendo prospettive ora nell'ambito della speculazione filosofica ora in quelli più pratici e applicativi ma, soprattutto, nei settori che vedono l'avverarsi di legami, esperienze, attività di raccordo possibili fra le cosiddette “scienze dell'educazione” e le “scienze dello spettacolo”. L'incontro fra i termini in questione non è quindi né insolito né particolarmente originale. Negli studi pedagogici càpita, a differenti livelli, di imbattersi nel teatro, sia inteso in senso lato come arte, sia inteso come un'attività pratica e “materiale” che può avere effetti positivi se applicata in taluni ambienti educativi, se utilizzata in percorsi 2 didattici o se attivata in ambiti specifici dell'educazione, della ri-educazione e della formazione umana. Attingendo ad esempio ad un livello pratico ed ordinario di attività teatrale svolta in ambienti educativi, come può accadere nella scuola primaria, da una prima osservazione emerge che la “rappresentazione” di tipo teatrale – sia al livello superficiale della “recita” sia a quello più profondo dell'“esito” di un percorso o di un laboratorio teatrale – è spesso utilizzata in ambito scolastico o anche extrascolastico, come momento creativo, produttivo, d'apprendimento, di formazione, di crescita o semplicemente di condivisione, aggregazione, festa. È solo un esempio di quella che può essere definita una banale “appropriazione” di una caratteristica propria e costitutiva del teatro che viene utilizzata per fini didattici, educativi e formativi in ambito scolastico o comunque educativo. L'obiettivo dichiarato non è artistico – quasi mai esplicitamente talora può esserlo implicitamente – ma sempre, almeno nelle intenzioni, è annunciato come pedagogico e contestualizzato all’interno di progetti e programmi che ne sottolineano gli aspetti formativi, relazionali, socializzanti. È solo un esempio, nemmeno il più preciso, forse il più controverso, ma serve ad inoltrarsi in un territorio problematico ed affascinante. Infatti sulla utilità, la necessità e la opportunità pedagogica delle rappresentazioni teatrali svolte da alunni o utenti di diverse agenzie formative esistono pareri diversi e opposti, teorie approfondite e studi documentati, spesso conditi da una buona dose di scetticismo dovuta all'uso approssimativo e spesso superficiale che ne è stato fatto nel corso del tempo 1. Sebbene oggi si sia giunti, da un punto di vista degli studi di settore, a conclusioni all’unanimità orientate nel considerare il “processo” più importante del “risultato” in un ambito di convergenza fra arte teatrale e scienza pedagogica sviluppata in ambienti educativi, principalmente scolastici, è ancora il caso di considerare il fatto che sovente, nelle scuole soprattutto elementari e medie inferiori, a ben guardare, è facile trovare un'insegnante che voglia scatenare le proprie velleità artistiche (si tratti di recitazione, danza, canto o musica poco importa) trasferendole su un palcoscenico improvvisato, con attori bambini e costumi di carta crespa. Il pubblico di parenti emozionati non lesinerà certo applausi e qualche lacrima di commozione, questa è prassi comune, qualcosa che ormai quasi ci si attende che accada così come i nonni dall'approccio più lucido si attendono da questa esperienza una buona dose di noia su una seggiola scomoda. 1Cfr. R. Di Rago, Il teatro della scuola. Riflessioni, indagini ed esperienze, Ed. Franco Angeli, Milano 2001; R. Di Rago, Emozionalità e teatro. Di pancia, di cuore, di testa, Ed. Franco Angeli, Milano 2008. 3 C'è poco di pedagogicamente efficace nella maggior parte di queste esperienze, ma è giusto ricordare che non si nasconde neanche grave danno pedagogico nella recita di fine anno o nei canti di natale, c'è piuttosto l'approssimazione e la sciatteria che può derivare da un agire talora nato da buone intenzioni, ma realizzato senza adeguata competenza e formazione degli insegnanti, senza organizzazione e attenzione da parte dell’istituzione scolastica, senza reale e fattiva partecipazione da parte di alunni e genitori e dimenticando, certo a causa dell’ansia prestazionale, quelle stesse finalità pedagogiche ben espresse e scritte nel piano dell’offerta formativa scolastica. Basterebbe anche solo il tenere a mente le intenzionalità formative già dichiarate nei complessi passaggi burocratici della programmazione didattica per dare un valore più complesso e appropriato alla cosiddetta “recita di Natale”, con ricadute significative tanto in ambito pedagogico quanto in quello artistico. In linea generale, le attività teatrali nella scuola e in altri ambienti educativi, svolte prevalentemente, ma non organicamente, con approccio pedagogico si snodano lungo un asse molto articolato di progettualità, modalità e finalità, che include, con diversi livelli di consapevolezza: le applicazioni terapeutiche del teatro rivolte alle disabilità, il teatro inteso come opportunità di semplificazione didattica e di approccio disciplinare motivante, il teatro come modalità di avvicinamento e coinvolgimento in progetti specifici solitamente articolati come “educazione a...” e inseriti nel Piano dell'Offerta Formativa della scuola, come ad esempio i progetti di “educazione alla legalità”, “educazione alla pace”, “educazione all'intercultura” ecc, giusto per citare i più comuni. L’incontro fra pedagogia e teatro avviene quindi, più che in un’ottica teorico-pedagogica, in una di tipo pratico-educativa, poiché sono molte le possibili applicazioni delle attività teatrali nell’educazione e nella didattica, attività già previste e suggerite nei sussidi didattici, nelle programmazioni, nelle progettualità condivise. Il panorama complessivo che scaturisce da quest'incontro appare ricco, ma anche frammentario, disorganico, caotico. Scorrendo velocemente testi, siti, riviste e pubblicazioni più o meno accreditate, si possono riconoscere, sempre grazie ad un lavoro di semplificazione di certo grossolano, cinque macrocategorie in cui si articola, con presupposti, modalità e obiettivi diversi, la relazione fra educazione e teatro, e sono: la “pedagogia teatrale” con cui in linea di massima si intende la disciplina che organizza la trasmissione dei saperi teatrali, in particolare e sopratutto il “mestiere” 4 dell'attore, ma anche del regista e delle principali maestranze che operano nel teatro (scenografi, illuminotecnici, tecnici del suono etc.). Alla pedagogia teatrale appartiene tutta la manualistica dedicata alle figure professionali del teatro considerate nel loro complesso, ma vi si possono riferire anche quegli studi che affrontano questioni specifiche e particolari riguardanti le singole competenze delle professionalità coinvolte: dizione, recitazione e canto, come anche danza, cinesica e prossemica, oppure scherma per l'attore; arte, architettura, arredamento per lo scenografo; storia, storia dell'arte, della moda e del costume per costumista e trovarobe, ecc. In quest'ottica appartengono alla pedagogia teatrale i volumi di Stanislavskij 2 dedicati al lavoro dell'attore su se stesso e sul personaggio, considerati nella prospettiva della conservazione e trasmissione di un'arte che fa dell'attore il proprio strumento di creazione artistica; come anche, nel contesto italiano la documentazione dell'attività di insegnamento di Orazio Costa3, considerato uno dei massimi esponenti della pedagogia teatrale europea del Novecento. A questi due nomi molti se ne possono aggiungere, nomi di registi, di attori, di artisti o studiosi non esplicitamente incasellabili nella pedagogia teatrale ma che, di fatto, nel corso di decenni si sono attestati come punti di riferimento imprescindibili nell'insegnamento del teatro nelle sue diverse forme e nelle sedi più diverse: nelle accademie di recitazione come anche in scuole e università, nei laboratori teatrali e soprattutto all'interno di compagnie tanto di teatro di tradizione quanto di ricerca. Un resoconto complessivo - in tanta diversità di contributi - si può ricostruire attraverso una rilettura del volume di Carlson dedicato alle teorie del teatro 4, qui lo studioso propone una scansione di tipo storico-geografica da cui è possibile trarre i principali riferimenti bibliografici per abbozzare un panorama degli studi di pedagogia teatrale. Infine, un volume preziosissimo e non convenzionale che resta come manifesto universale del rapporto pedagogico fra maestro-allievo in ambito attoriale, è senz’altro il basilare Per un teatro povero di Jerzy Grotowski5. Il “teatro didattico” partecipa della convergenza fra pedagogia e teatro mettendo in relazione, più che la pedagogia, quella parte della scienza dell'educazione chiamata appunto didattica. Il teatro diventa uno strumento, ovvero una metodologia 2K.S. Stanislavskij, Il lavoro dell'attore su se stesso, Laterza, Bari 1968; K.S. Stanislavskij, L’attore creativo, La Casa Usher, Firenze, 1980; K.S. Stanislavskij, Le mie regie I, Ubulibri, Milano 1986; K.S. Stanislavskij, Il lavoro dell'attore sul personaggio, Laterza, Roma-Bari 1988; K.S. Stanislavskij, Le mie regie II, Ubulibri, Milano, 1996; K.S. Stanislavskij, La mia vita nell'arte, La Casa Usher, Lucca 2009. 3Cfr. M. Boggio, Mistero e Teatro. Orazio Costa, regìa e pedagogia, Bulzoni, Roma 2004; M. Boggio, Orazio Costa maestro di teatro, Bulzoni, Roma 2007; G.G. Colli, Una Pedagogia Dell' Attore. L' insegnamento di Orazio Costa, Bulzoni, Roma 1996. 4M. Carlson, Teorie del teatro. Panorama storico e critico, Il Mulino, Bologna 1988. 5J. Grotowski, Per un teatro povero, Bulzoni, Roma 1970. 5 didattica fra le altre, ritenuta più adatta ed efficace rispetto ad altre, per favorire l’insegnamento e l’istruzione di bambini ed adulti. Ci si trova nell'ottica di un teatro “semplificato”, che vede ridotte e pressoché azzerate l'ispirazione e gli slanci estetici a favore dell'istanza educativa, ma di un’istanza educativa non problematizzata e a corta gittata. È un teatro che viene usato, nelle sue pratiche e tecniche più note e comuni, come un'ulteriore possibilità di avvicinamento all’istruzione di massa, come forma più accessibile all’apprendimento dei saperi, sia umanistici sia scientifici, tanto di quelli previsti dai programmi ministeriali quanto di quelli considerati utili per il benessere sociale, politico, della comunità. È infine un teatro che strizza l’occhio alla propaganda politica, volto a far conoscere avvenimenti di cronaca e attualità, oltre a vicende storiche, letterarie o di divulgazione scientifica, con l’obiettivo spesso dichiarato e palese di “sensibilizzare” un target preciso di pubblico. Oggi, con eccessiva semplificazione, con teatro didattico si tende a identificare le attività teatrali svolte a scuola. Tale accezione, oltre ad essere limitante, è anche fuorviante dato che non necessariamente le attività teatrali che si producono all'interno degli edifici scolastici, grazie a progetti curriculari o extra-curricolari, hanno intenzionalità, caratteristiche e finalità che possano dirsi “didattiche”. Questo teatro piuttosto si colloca nella scia di una lunga tradizione che ha sempre riconosciuto al teatro una doppia anima: quella tragica in opposizione alla comica, quella educativa e morale in opposizione a quella dell'evasione e del divertimento. Tale divisione è stata cristallizzata in epoca medioevale in cui, l'unico teatro non condannabile era quello che si proponeva, apertamente, finalità morali ed edificanti, ad esempio attraverso le rappresentazioni sacre6. Il “teatro-ragazzi”, spesso accomunato o inglobato, in maniera non sempre calzante né opportuna, al “teatro didattico” rappresenta anch’esso un settore molto articolato e dai confini fluidi. Una differenza sostanziale rispetto alla categoria precedente è da identificare almeno negli intenti. Il teatro-ragazzi si motiva in questa dicitura perché è sostanzialmente un teatro rivolto ad un pubblico di ragazzi (bambini, ragazzi e adolescenti comunemente divisi in fasce d'età). La rigidità dell’indirizzarsi a spettatori ben definiti per età (talora anche per nazionalità e cultura) si smorza nelle diverse finalità a cui può ambire e ispirarsi. Finalità che possono essere di natura prevalentemente estetica come anche dettate dal desiderio più ludico di coinvolgere gli 6 «La lotta della chiesa contro il teatro pagano e contro il teatro in generale non si svolgeva soltanto sul piano della negazione: sia pure in modo soltanto implicito, la chiesa contrapponeva allo spettacolo mondano quello spirituale e purificatore del rito» (C. Molinari, Storia del teatro, Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 61). 6 spettatori in attività di evasione e di intrattenimento. L’educatore coinvolto nell’esperienza del teatro didattico è invece, nel teatro-ragazzi, un regista a tutti gli effetti che non mira in prima battuta alla coesione del gruppo classe e all’istruzione degli alunni, ma innanzitutto alla realizzazione di una rappresentazione teatrale che piaccia ai ragazzi e che, solo in seconda battuta, possa anche costituire un’esperienza formativa ed istruttiva. Per contro il teatro didattico dal punto di vista del pubblico mira ad una composizione spettatoriale abbastanza ampia – per quanto connotata come “scolastica” - che sappia includere una miscellanea composta da alunni, genitori ma anche colleghi insegnanti, giornalisti ed addetti ai lavori, a cui ci si rivolge con l’intento di “educare” seppure in un'accezione molto ampia del termine (dal fornire una chiave di lettura degli avvenimenti storici o di attualità, all'informare tout court, al formare). Nonostante queste due differenze, appare evidente che i confini fra teatro didattico, teatro-ragazzi e la quarta categoria che si sta per prendere in considerazione, ovvero quella dell'animazione teatrale, spesso sono, più o meno onestamente, impercettibili e confusi7 proprio a causa del fatto che si tratta di attività teatrali che coinvolgono – si è detto in maniera diversa e con ruoli diversi – i bambini e i ragazzi principalmente in ambiente scolastico o percepito come di contiguità scolastica. L’“animazione teatrale” è definizione con cui si identifica un movimento culturale sviluppatosi in Italia fra gli anni Sessanta e Settanta, indirizzato a bambini e ragazzi ed articolato in una serie di pratiche e metodologie specifiche. Obiettivo delle tecniche di animazione teatrale non è tanto l'allestimento di uno spettacolo quanto la coesione e l'affiatamento del gruppo di bambini o adulti al fine di far emergere le risorse personali di ognuno per appropriarsene e poi condividerle con gli altri. L'attività teatrale è quindi usata allo scopo di creare una comunità più consapevole e creativa, in poche parole tesa al benessere del singolo attraverso il lavoro e il divertimento condiviso con gli altri, tale attività è di solito guidata da un animatore o educatore. Recitare, allestire uno spettacolo, affrontare giochi di ruolo e attività teatrali di vario tipo è solo un mezzo per conoscere meglio se stessi e imparare a valorizzarsi nell'amicizia e nella condivisione. Nella prospettiva dell'animazione teatrale gli aspetti pedagogici sono predominanti rispetto a quelli teatrali che, per certi versi, passano in secondo piano. L'animazione teatrale ammette che si lavori anche per mesi ad uno spettacolo teatrale che potrebbe non vedere mai le luci della ribalta ma che potrebbe 7La prova di tale confusione è data anche dalla bibliografia di riferimento, costituita perlopiù da volumi collettanei che includono, documentano e commentano esperienze teatrali molto eterogenee e comunque sconfinanti da una categoria all'altra: P. Beneventi, Introduzione alla storia del teatro-ragazzi, La Casa Usher (Ponte alle Grazie), Firenze 1994; B. Fabbris, Il teatro didattico, Caosfera, 2011. 7 arricchire il bagaglio esperenziale ed emotivo dei partecipanti in maniera significativa; semplificando al massimo, appare evidente che in quest’ambito ciò che più conta non è l'aspetto rappresentativo finale, lo spettacolo ovvero il “risultato”, ma quello fisico, psicologico ed emotivo del gruppo, il lavorare assieme ovvero il “processo”. Sull'animazione teatrale esiste un’importante bibliografia di riferimento, sia prodotta negli anni della nascita e dello sviluppo massimo del movimento 8, sia di più recente pubblicazione9. Infine c'è il settore ampio, ad oggi in notevole espansione, delle “artiterapie” fra cui occupano un posto di rilievo la teatro-terapia10, la dramma-terapia e tutta una serie di attività che sfruttano giochi, modelli e tecniche del teatro per fini terapeutici, per contrastare o comunque alleviare patologie le più diverse in soggetti con disabilità come anche nei normodotati che ne dovessero riconoscere la necessità per vivere meglio con se stessi e con gli altri. Le artiterapie infatti vanno nella direzione della ricerca e diffusione di un benessere che riguarda non solo il gruppo con cui si lavora, ma che interessa in senso lato la comunità intera in cui il gruppo è inserito, che accoglie e fruisce dei benefici diffusi in termini di salute complessiva, vitalità, energia positiva, coesione sociale e partecipazione. Nella definizione che fornisce M. Cavallo «si definisce dramma/teatro terapia una specifica metodologia, comprensiva di impianti teorici, tecnici e valutativi, che assume come intento scientifico, clinico e sperimentale, l'intervento con finalità terapeutiche attraverso l'applicazione di teorie, tecniche, strumenti, paradigmi di tipo teatrale in stretta coniugazione con le conoscenze derivanti da discipline quali la psicologia, la psicopatologia descrittiva e analitica, la psicofisiologia, la psichiatria»11. Trattandosi di percorsi non ancora ben codificati e riconosciuti in ambito medicale, le arti terapie occupano ad oggi un territorio mediano fra la cura del benessere e della salute e la sperimentazione teatrale. Queste cinque categorie or ora elencate rappresentano solo le esperienze più note e documentate delle molte e possibili declinazioni del rapporto fra pedagogia e teatro. Sono state qui riportate, seppur sommariamente, lungo un asse che va dalla prevalenza 8Per una bibliografia completa si veda P. Puppa, “L'animazione, ovvero il teatro per gli altri”, in A.A. V.V., Storia del teatro moderno e contemporaneo, vol. III. Avanguardie e utopie del teatro. Il Novecento, Einaudi, Torino, 2001, pp. 859-873. 9Cfr. G. Amodeo, La vita è gioco, Ibiskos Editrice, Empoli 2008; P. Beneventi, D. Conati, Nuova guida di animazione teatrale, Sonda, Casale Monferrato 2006; V. Garavaglia, Teatro, educazione, società, UTET, Torino 2007; L. Perissinotto, Animazione teatrale, Carocci, Roma 2004. 10Cfr. P.E.R. Bitti, Regolazione delle emozioni e arti-terapie, Carocci, 1988; W. Orioli, Far teatro per capirsi, Macro ed., 1995; W. Orioli, Teatro come terapia, Macro ed., 2001. 11M. Cavallo, “definizione di dramma/teatro terapia” in www.pol-it.org 8 del teatrale (la pedagogia teatrale) alla prevalenza del pedagogico (la teatro-terapia), nell’ottica di una possibile reversibilità dei poli, quindi potendo invertire il percorso per andare dalla prevalenza del pedagogico a quella del teatrale senza nessuna pretesa di indicare direzioni obbligate e senza la presunzione di esprimere giudizi di merito. Tra l’altro, le categorie su elencate, pur rifacendosi alla letteratura scientifica di riferimento, non possono intendersi come categorie chiuse e definite una volta per tutte. Esse sono invece da intendersi come “aperte” e “imperfette”: aperte poiché tra loro collegate, interdipendenti oltre che, al di là di alcuni punti fermi, ancora in via di definizione; imperfette poiché per loro stessa natura attengono all’uomo, alle scienze e alle arti, quindi si rifanno e si rinnovano continuamente nelle esperienze, nelle ricerche e nell’attività dell’essere umano nella società. La presente ricerca non vuole azzerare le cinque categorie individuate, ma vuole piuttosto rivitalizzarle in un quadro generale che le includa senza “ridursi” ad esse. Rappresentano momenti fondamentali nella costruzione del rapporto fra pedagogia e teatro, tappe imprescindibili di un rapporto ancora in evoluzione, e che non può e non deve essere pienamente identificato o esaurirsi in esse. La dimostrazione immediata di questo ragionamento introduttivo è da riscontrare nel panorama delle arti e delle scienze del XXI secolo (e del finire del XX), in cui emergono esperienze fra teatro e pedagogia talmente interessanti e originali da non trovare precisa collocazione in esse. La liminalità, l’intertestualità, la trasdisciplinarità emergono come caratteristiche specifiche di un’arte della postmodernità che fa della mancata appartenenza alle categorie date uno dei suoi maggiori punti di forza. Inoltre, da un punto di vista epistemologico si deve riconoscere che non appena si afferma, nella produzione critica e scientifica di settore, una dicitura precisa, che stabilisca oggetti d'afferenza, definizioni e ambiti d’interesse, subito questa necessita di nuove precisazioni, nuove fondazioni, nuove limitazioni e riconoscimenti, rischiando di trasformarsi in un qualcosa percepito come lontano o addirittura estraneo ora dalla pedagogia (poiché ad esempio ritenuto troppo prossimo al teatro) ora dal teatro (poiché ad esempio ritenuto troppo prossimo alla pedagogia). È solo un atteggiamento, ma è un atteggiamento che ha condizionato e condiziona la ricerca inter- e trans- disciplinare. I pedagogisti non hanno voluto frequentare i teatri, evitando così di impolverarsi con le assi dei palcoscenici, i registi non hanno voluto frequentare le scuole, evitando così di impolverarsi con i gessetti delle lavagne. Nessuno si è sporcato davvero, nonostante le molte attività di ospitalità, condivisione, incontro. Nonostante i molti 9 frutti, ora raccolti ora lasciati a terra a marcire, scaturiti da esperienze eccezionali di interrelazione fra i due ambiti disciplinari, molto lavoro va fatto ora per organizzare le testimonianze documentali in progetti di ricerca più articolati e contestualizzati, provando a ricostruire la teoria, la storia e le pratiche di un rapporto estremamente ricco per quanto confuso. Da un punto di vista degli studi di settore, sembra sia arrivato il momento di compiere un tentativo di organizzazione complessiva e proporre delle linee guida teoriche che possano aggregare esperienze diverse fra di loro piuttosto che disgregarle incasellandole in altrettante micro- e macro-categorie specialistiche. Il tentativo di fare chiarezza, che qui si vuole proporre, è orientato all’inclusione critica, individuando convergenze fra i diversi ambiti disciplinari, senza proporre tassonomie, senza troppo insistere sulle divergenze che pure interessano gli oggetti dell’indagine. In conclusione la domanda che ci si è posti può sembrare anche troppo generica, visto che qui si vuole verificare se e come il teatro, quest'arte che non produce nulla al di fuori dell'atto stesso della produzione – del suo farsi e darsi come azione d'arte – possa contribuire allo sviluppo della pedagogia oggi, in questa età che è stata definita della postmodernità, della fine dell'educazione, del disincanto 12. Ogni volta che – nell'ambito della ricerca scientifica – si crea una nuova connessione, un nuovo rapporto fra diversi saperi, occorre ripensare, per prima cosa, agli oggetti stessi di quei saperi, definirne i confini, i concetti fondativi, i margini di criticità, rimetterne in campo problematicità e caratteri distintivi, non attraverso un processo limitante ed esclusivo, ma il più possibile reticolare, aperto ed inclusivo. Per non rischiare di precipitare nel caos indistinto per cui tutte le scienze umane, avendo matrici comuni, si somigliano e possono diventare sovrapponibili, occorre fissare dei punti cardinali che consentano l'orientamento anche e soprattutto nell'allargamento e nel nuovo dimensionamento delle mappe dei saperi specifici. È per non perdersi nel fitto reticolo delle interconnessioni fra saperi “umanistici” che occorre fare riferimento e infine “scegliere” delle definizioni da fare proprie, da non abbandonare nel corso del ragionamento e dei ragionamenti, da usare come stella polare, sia per la pedagogia, sia per il teatro. Con queste costellazioni fisse si può anche decidere di abbandonare per un tratto la strada maestra e di imboccare sentieri laterali, poco battuti, ma in questo procedere dobbiamo comunque tener presente che la strada principale è quella che detta la destinazione finale e ad essa dobbiamo infine guardare anche nel discostarcene. 12Cfr. F. Cambi, Abitare il disincanto. Una pedagogia per il postmoderno, Utet, Novara 2006. 10 Riprendendo le battute iniziali, non possiamo mettere in relazione pedagogia e teatro senza eleggere fra tutti, le definizioni e i paradigmi di riferimento rispetto all'una scienza e all'altra arte o, per meglio dire, senza riferirci, almeno in una fase iniziale alle questioni ontologiche ed epistemologiche. È, questo, un procedere che può rivelarsi adeguato al tipo di ricerca intrapresa: l'ontologia si fa nume tutelare dell’incedere teorico nel suo complesso così come, in un meccanismo stratificato come di scatole cinesi, l'ontologia abita sempre la scatola centrale, più profonda e nascosta. Che la questione ontologica sia basilare nello studio della pedagogia sarà compito della corrente di studi e ricerche denominata “pedagogia critica” rinnovarlo con gli strumenti e i dibattiti che le sono propri nonché attraverso l’individuazione di alcuni paradigmi che la costituiscono e vengono ripresi nel corso del primo capitolo. Mentre per quel che concerne il teatro, oltre alla ricostruzione teorica delle sue origini e del suo percorso in quanto arte, dalla nascita ad oggi e privilegiando l’asse di studi semiotici, si adotterà la suggestione di Jean-Luc Nancy suggerita nel breve e fulminante testo intitolato Corpo teatro (Cronopio, Napoli 2010): una riflessione che offre infiniti spunti sulla natura fondativa e originaria del teatro, non solo una metafora, che ispira e informa il secondo capitolo. Infine, nel terzo capitolo, si proporrà una sintesi ed un’analisi della convergenza che interessa pedagogia e teatro a partire dall’affermazione di una condizione generale imprescindibile, già annunciata nei due capitoli precedenti, che pone la centralità nell’arte e nella scienza dell’uomo e della sua esperienza. La centralità rimarcata dell’uomo nella riflessione pedagogica, rimette in mano all’uomo la gestione dell’attività pedagogica stessa, la domanda incessante su se stesso, ma anche il riconoscimento della volontà di incontro e confronto con l’esterno, con l’altro. Ne fa l’oggetto di studio privilegiato ma anche il soggetto agente della ricerca, soggetto formante e in-formazione al tempo stesso. Questa stessa centralità riconosciuta all’uomo, estesa nell’arte teatrale, significa rimettere in mano all’uomo l’attività teatrale stessa, riconoscerlo regista-attore-spettatore attraverso l’affermazione di una volontà d’arte che può avverarsi solo “uscendo fuori da sé”. L’uomo, anche in questo caso è l’oggetto della ricerca, oggetto di studio privilegiato in quanto tramite dell’arte che rappresenta e che “lo” rappresenta, soggetto agente come attore/regista, soggetto/oggetto esistente solo grazie allo sguardo dell’altro, dello spettatore. La prospettiva “umana”, oltre a tenere vicine l’arte teatrale e il sapere pedagogico, ci indica quale teatro e quale pedagogia siano in questa sede i punti di partenza ufficiali. 11 Si vuole qui dare rilevanza alla pedagogia come scienza che sappia porre al centro l'uomo, l'uomo “umano”. Con le parole di Mario Gennari: «L'umano e l'umanità, in quanto tratti distintivi dell'uomo, rispondono ad ogni filosofia e pedagogia antiumanistica che pensa “al di là” del soggetto. L'uomo, appunto in quanto soggetto, dichiara la duplice struttura antropologica e ontologica di cui la sua essenza è composta. Il valore della soggettività viene compreso nel fondamento di se stessa: fondamento umano e umanante, il cui nucleo materiale e spirituale insieme dà forma all'uomo e giunge ad “essere” la sua stessa formazione. Così, come ha scritto Rosenzweig (2000:186), l'uomo è la sua formazione. E ciò in senso antropologico e ontologico, materiale e spirituale» 13. Il livello dell’“umanità” esplicitato da una pedagogia dell’uomo e da un teatro dell’uomo favorisce il consolidamento di un percorso teoretico ed evita l’eccessiva astrazione, attenuando la dicotomia teoria/prassi, da sempre problematica tanto in pedagogia quanto nel teatro. Ovviamente non si vuole qui risolvere una questione così complessa, quanto piuttosto indicare un punto di partenza che è comune ad una scienza e ad un’arte problematiche. Si tratta di un approccio essenziale per rendere possibile tutto il dipanarsi della presente ricerca, ricordare come la pedagogia da cui partire e che si vuole relazionare con il teatro debba essere «Una pedagogia dell'uomo che pone il soggetto come agente di formazione e educazione sceglie l'uomo quale interlocutore di se stesso e dell'altro, della sua soggettività umana e dell'oggettività propria dell'umanità che gli sta di fronte»14. Allargando l'orizzonte d'attesa, il presente studio si inscrive nella prospettiva di interrogarsi su se, quanto e come il teatro, inteso come arte e considerato nelle sue incursioni nel e nelle sue connessioni con il “pedagogico”, possa contribuire alla formazione dell'uomo nella contemporaneità. Tutto ciò senza mai perdere di vista le caratteristiche specifiche dell'epoca odierna e quali siano le esigenze formative dell'uomo che ad esse deve rapportarsi nel corso della sua vita. Il livello di complessità , rischio e ambiguità è alto. È utile, nell'ottica di una prospettiva generale di avvio, riprendere due frasi di Martha Nussbaum dall'introduzione al suo Coltivare l'umanità, in cui la studiosa, all'interno di un contesto specifico, ovvero chiedendosi che tipo di formazione offrano i campus americani ai giovani del XXI secolo, scrive: «Il mondo d'oggi è inevitabilmente multiculturale e plurinazionale. Molti dei problemi più pressanti richiedono, per essere 13M. Gennari, Trattato di pedagogia generale, Bompiani, Milano, 2006, p. 71. 14Id., p. 72. 12 risolti in modo intelligente e cooperativo, un dialogo tra persone con differenti esperienze culturali, religiose e nazionali. Persino quegli argomenti che ci sembrano più vicini – come la struttura della famiglia, il controllo della sessualità, il futuro dei bambini – devono essere affrontati con una più ampia comprensione torica e interculturale»15. Il ricordare queste parole aiuta a non perdere di vista un carattere essenziale che deve rivestire non solo la presente ricerca, ma ogni ricerca di stampo teorico concernente la pedagogia ai nostri giorni, ovvero il fatto che non si possa prescindere né dalla propria tradizione culturale né dalla stessa critica a quella tradizione – per cui bisogna serbare sempre memoria degli studi passati senza però accettarli acriticamente -, né soprattutto mettere in secondo piano la situazione storica, sociale, culturale in cui ci si trova immersi, caratterizzata come nessun'altra epoca dal multiculturalismo, dall'intercultura, dal plurilinguismo, dalla multimedialità e dall'ipertecnologia. Una delle questioni cruciali per la studiosa è rammentare il compito, che devono avere le scuole superiori e le università statunitensi, compito niente affatto semplice né scontato, di “formare i cittadini del futuro”. Si tratta di un compito che, per quanto dichiarato dall'istituzione e dal sistema scolastico e d'istruzione americano e condiviso dal mondo occidentale più o meno industrializzato, è dato in linea di massima come pacifico e implicito a fronte di una prassi di insegnamento invece strutturata, organizzata e agita in maniera tale – nella pratica quotidiana anche di insegnanti capaci – da mancare clamorosamente l'obiettivo. Si dovrebbe ambire ad una “educazione liberale” che è di per sé – nonostante il richiamo ai classici della Nussbaum – difficile da definire e ancor più difficile da perseguire. In questa sede si ipotizza che un valido aiuto alla “coltivazione dell’umanità” possa provenire all’uomo dal teatro. Teatro inteso come arte dell’incontro e della relazione fra l’io e l’altro, arte della rappresentazione del/i mondo/i, dal teatro inteso come metafora e al tempo stesso “prova generale” di vita, esperienza del “come se” che coniuga realtà e immaginazione in maniera attiva. Si prevede di organizzare un percorso di ricerca basato su criteri di scientificità, individuando i contesti teorici di riferimento, motivando il perché della scelta di un approccio e di un paradigma pedagogico fra gli altri, di una definizione e di una teoria teatrale fra le altre, prendendo in considerazione i modelli, le pratiche e le tecniche teatrali che nel corso degli anni si sono rivelate più opportune a fini pedagogici, e viceversa riconoscendo le influenze 15M. C. Nussbaum, Coltivare l'umanità. I classici, il multiculturalismo, l'educazione contemporanea, Carocci, Roma 2011, p. 23. 13 pedagogiche che hanno determinato precise modalità di lavoro, produzione e fruizione del teatro nell'epoca contemporanea. Rinunciando, per riconosciuti limiti spaziali e temporali attribuibili ad una tesi di dottorato, ad ogni pretesa esaustività ma cercando di arrivare, in maniera coerente, alla delineazione di un quadro generale di rapporti possibili fra pedagogia e teatro attraverso una ricostruzione di documenti, interviste, esperienze e soprattutto attraverso una bibliografia attinente agli studi di settore. 14 I CAPITOLO La pedagogia e l'esperienza dell'arte La pedagogia che mette in crisi se stessa, pronta a mettersi in discussione ed a pensarsi come “sapere aperto” può rappresentare un punto di partenza ideale. Nel tracciare un quadro di riferimento teorico di questo complesso sapere, definito nei secoli in maniera articolata e considerato talvolta da angolazioni contrastanti e opposte, si ambisce a individuare e verificare l'efficacia di un suo possibile raccordo con le discipline dello spettacolo, in particolare con quelle del teatro. Tale raccordo deve sempre tenere presente che la pedagogia e il teatro sono due domini, del sapere l'uno e dell'arte il secondo, che implicano, necessariamente, il mantenere vivo e irrisolto il confronto interno fra teoria e prassi, un confronto che è dissidio inesausto ma anche coesistenza virtuosa e rinvigorente, che contraddistingue e accomuna il pensare/fare formazione e il pensare/fare teatro. L’irresolubilità di tale confronto non deve essere percepito come un limite, ma come una possibilità di aggiornamento continuo e di adeguamento alle nuove conquiste dei linguaggi del sapere e dell’arte, linguaggi sempre meno fossilizzati nella distinzione fra teorie e pratiche. In uno studio d'impronta specialistica e “parziale”, come questo, diventa di primaria importanza tracciare un quadro teorico, il più possibile preciso, concernente definizioni, argomentazioni e ambiti di interesse, in cui inquadrare ed esplicitare l'ipotesi di ricerca. Di fatto l'operazione intrapresa non è lineare: si sta prendendo una scienza che, in quanto tale, come molte altre ma molto più di altre, presenta forti criticità identitarie, ovvero la pedagogia, e la si sta mettendo in relazione con un'arte, il teatro, di tutte le arti la più effimera e problematica, per comprendere in che misura – trattandone prospettive, obiettivi, punti di forza e limiti – possano contribuire reciprocamente, dal punto di vista sia metodologico sia progettuale, e nel rispetto delle proprie caratteristiche specifiche, alla formazione dell'uomo nell'epoca della contemporaneità. L’obiettivo complessivo, che non deve mai essere perso di vista, è parziale nel senso che interroga la pedagogia e il teatro, attraverso una selezione bibliografica anch’essa parziale, per individuarne e misurarne le convergenze, per cui esclude di fatto 15 molti aspetti pure importanti delle discipline in questione che però non partecipano di tali convergenze. Né è detto che le convergenze individuate siano le sole o le principali, piuttosto in questa sede si rende conto di quelle emerse dalla ricerca condotta. È apparso interessante, ad un certo punto, comprendere in che misura e con quali modalità la pedagogia e il teatro possano relazionarsi l'una all'altro, partecipando entrambi della formazione dell'uomo; ed è sembrato valido individuare nell’“esperienza” il motore principale che avvia e mantiene viva la “formazione” dell’uomo. L’esperienza ha una centralità significativa considerata in diverse accezioni: da strumento di conoscenza di sé a chiave di lettura e interpretazione del mondo e degli altri; da verifica materiale di processi mentali “immaginari” a meccanismo regolativo del dispositivo dicotomico di teoria/prassi. Grazie all’esperienza “umana” che rende l’uomo partecipe e attivo nei saperi (e nella condivisione dei saperi) e creativo nella produzione e fruizione dell’arte (e in particolare in quella teatrale), emerge come questi due territori di natura diversa presentino qua e là coltivazioni comuni, piccoli spazi di sovrapposizione, condivisione e addirittura, attraverso l'attivazione di specifici progetti interdisciplinari dalla tradizione ormai abbastanza consolidata, dimostrino di sapere e potere attivare in contesti diversi spazi di “mutuo soccorso”, di prossimità proficua, di reciprocità produttiva. Pedagogia e teatro, nello stare separati soprattutto nel nome delle finalità, hanno comunque sviluppato, nel nome dell’esperienza, metodologie, pratiche e percorsi comuni. Nel corso di questo primo capitolo si è scelto di privilegiare alcune definizioni tratte dalla letteratura di riferimento, di tracciare un quadro, seppure a grandi linee, relativo al dibattito in corso, poiché si ritiene di non poter procedere all'individuazione e alla descrizione di un rapporto se non si individuano e si descrivono prima i due soggetti del preteso rapporto, se non si parte dai s-oggetti pre-esistenti verso le relazioni che li interessano e che verranno in seguito. Dal rapporto che a mano a mano prende forma, scaturiscono diverse problematiche, ed è per questo che la scelta di alcune definizioni, paradigmi e concetti riferibili al pedagogico è stata messa in evidenza con una certa forza e con rigore, in modo che la centralità dell’esperienza, il paradigma della cura e la relazione pedagogica io-altro, agiscano come fari per diradare le ombre che si prevede sorgano numerose lungo la strada intrapresa. 16 1. 1. Un sapere problematico. Condizione teorica ineludibile è partire dalla definizione di pedagogia nella consapevolezza di essere nell'ambito di un “sapere problematico”. La condizione di problematicità si articola su due ordini di motivi: il primo, più generale ed esterno, attiene lo statuto ontologico dei cosiddetti saperi umanistici, i quali devono costantemente rapportarsi con il fatto che hanno al centro della loro riflessione e come oggetto privilegiato d'osservazione l'uomo con quel che ne consegue; il secondo, specifico ed interno, rende conto dello stato dell'arte concernente la più recente discussione su cosa sia la pedagogia e su come si debba intenderla oggi. Per ragioni di pertinenza si prenderà in considerazione soltanto lo statuto specifico della pedagogia, con gli opportuni riferimenti alle questioni ontologiche ed epistemologiche che la riguardano. Quella della pedagogia si caratterizza come un'ontologia “complessa/dinamica”, per riprendere una esaustiva definizione di Franco Cambi. Lo studioso sintetizza in quattro punti principali un ragionamento abbastanza articolato che tiene conto di un'importante tradizione di studi: «L'ontologia pedagogica si declina quindi: 1) come un'ontologia il cui ente è un processo e un processo plurale e aperto; 2) ha in sé un fascio di enti da correlare; 3) che vanno correlati nella libertà e per l'autenticità e per l'organicità o totalità del sé; 4) necessita di una interpretazione e regolamentazione intenzionale/critico/regolativa di cui la pedagogia è la custode, come sapere riflessivo, ma funzionale alla comprensione di quell'ente e alla sua tutela, come fine-sempre-invita e come struttura-processo complesso, (anzi ipercomplesso), in cui ogni semplificazione e/o diminutio può esser fatale, se non esercitata con un'ottica di rilancio e di comprensione costante della sua complessità. Se così è (e lo è) all'ontologia spetta un ruolo-chiave nella pedagogia: sì epistemico, ma anche critico e perfino regolativo, a cui va assegnato il compito di pensare la complessità dell'educare e di coordinarne l'integrazione, dinamica sempre pensata nell'apertura, poiché soggetta alla sua realizzazione solo e sempre nella libertà, per l'autenticità e per la totalità del soggetto medesimo di cui l'educazione è atto vitale; sì anche gestito con altri, ma sempre e alla fine proprio»16. 16 F. Cambi, “Sull'ontologia pedagogica: riflessioni minime” in L'inquietudine della ricerca. Bilanci e frontiere di un itinerario pedagogico, Edizioni della fondazione nazionale “Vito Fazio-Allmayer”, 2011, p. 124. 17 La definizione proposta da Cambi ricorda come la questione ontologica sia, a tutti gli effetti, una questione aperta in seno alla pedagogia, ma non perché essa non sia stata abbastanza indagata o perché presenti aporie insolubili, ma perché è strutturalmente incentrata sulla libertà del soggetto, realizzata su questa stessa libertà e quindi anche, in nome di essa, può essere messa e rimessa in discussione. È un approccio che caratterizza la questione ontologica in pedagogia in maniera diversa rispetto agli altri saperi umanistici, poiché la introietta e la rende parte della stessa definizione. Ciò che sembra prevalere, nella concezione di Cambi è il definire la pedagogia come “sapere riflessivo”. È questo un tassello fondamentale, l'individuazione di uno stemma, di una cifra costitutiva che si rivelerà particolarmente utile. L'autoriflessività è caratteristica che accomuna e identifica tanto la ricerca scientifica quanto quella artistica nell’epoca della postmodernità. Se l’autoriflessività nell’ambito della speculazione scientifica da una parte ha determinato il chiudersi verso l’autoanalisi e l’isolamento difensivo dei saperi in special modo umanistici – concentrati sulla difesa dei propri oggetti di studio e dei propri territori di appartenenza dall’espropriazione e dalla contaminazione da parte di nuove e più accattivanti settori disciplinari – è anche vero che l’autoriflessività ha permesso alla pedagogia di intraprendere dei percorsi di sana autocritica, diventando così più cosciente dei propri limiti ma anche consapevole e forte nel poter accedere a nuove prospettive di superamento di quegli stessi limiti. Sin dalle sue origini greche, nel suo differenziarsi, articolarsi, problematizzarsi teorico rispetto la più consolidata e lineare pratica dell'agire educativo, la pedagogia mostra la sua polisemia, la sua non pacificata – né pacificabile – pluridimensionalità di significati incarnata dal concetto di formazione, sufficientemente ampio da includere ogni forma di esperienza umana – in special modo di tipo relazionale – e sufficientemente ristretto da escludere ogni forma di limitazione della libertà umana, auspicando una libertà nutrita dalla ragione e dal ragionamento. «Con la cultura greca la pedagogia si sviluppa come la teorizzazione di quel processo rivolto a educare, istruire e formare i soggetti, individualmente e socialmente intesi. In particolare, Socrate e Platone inaugurano una stagione radicalmente rinnovata e assai fertile che concepisce la paideia: la formazione dell'uomo che giunge fino a noi, eredi diretti di quella cultura»17. La paideia, allora come ora, nomina e in-forma una scienza che 17A. Mariani, “Struttura e funzione della pedagogia”, in F. Cambi, M. Giosi, A. Mariani, D. Sarsini (a cura di), Pedagogia generale. Identità, percorsi, funzione, Carocci, Roma 2009, p. 104. 18 include in sé l'educazione ma non coincide con essa, che è teoria ma non può fare a meno della prassi, che possiede un'identità filosofica senza però risolversi nella filosofia, che accoglie il metodo scientifico pur continuando a metterlo in discussione e pur continuando ad aprirsi a ragionamenti, influenze, ispirazioni che di scientifico nulla pretendono. Per tutte queste cause “originarie”, la pedagogia si caratterizza da subito come problematica: la più “umana” fra le scienze, la più “scientifica” fra le filosofie. L'accezione di problematicità che contraddistingue la pedagogia oggi è caratterizzata da una doppia natura: prevede sia una presa d'atto dei suoi limiti interni, sia una sorta di “rivendicazione” esterna delle sue specificità in un quadro complessivo occupato dalla disciplina fra le altre discipline. La riflessione si articola quindi su una dimensione che ne interroga e ne ridefinisce lo statuto epistemologico (in direzione quindi di una nuova “riappropriazione” identitaria) 18, ma anche una dimensione di maturità acquisita e consolidata che ne rivendica il carattere di “criticità”, e quindi la capacità autoriflessiva di pensarsi come sapere che introietta la critica nel suo sistema teorico19. Non a caso è sempre l'ontologia la questione chiave della “pedagogia critica”, essa ne rinnova costantemente le problematiche basilari inducendo gli studiosi da una parte ad abitare un luogo dai confini incerti e inafferrabili, dall'altro li costringe ad individuare principi, strumenti e modalità che contribuiscono a mettere in sicurezza il terreno, a creare nuovi e più saldi punti fermi a cui affidarsi. Infatti: «L'ontologia sta alla base anche della “pedagogia critica”, poiché ne è un po' il centro motore e filtro determinante. È da quel filtro e motore che nasce una pedagogia-scientifico-riflessiva, come già mostrava Dewey nel suo testo (breve ma decisivo) su Le fonti di una scienza dell'educazione, ancora oggi attualissimo e da rileggere e interpretare meglio. L'ontologia empirico-critica si dispone precisamente proprio in questo orizzonte, così centrale (ancora oggi) nel fare-pedagogia e ad ogni livello (dalla riflessività cognitiva all'operatività sociale e posta “in situazione”: specifica e determinata)» 20. La questione epistemologica, quella ontologica e quella più meramente “applicativa” della pedagogia, sono questioni che possono apparire irresolubili, soprattutto mettendole in relazione alla vasta bibliografia di riferimento, e soprattutto 18Cfr. G. Spadafora, Verso l'emancipazione. Una pedagogia critica per la democrazia , Carocci, Roma 2010. 19 Cfr. R. Fadda e E. Colicchi in Per una pedagogia critica. Dimensioni teoriche e prospettive pratiche, Carocci, Roma 2009. 20F. Cambi, L'inquietudine della ricerca. Bilanci e frontiere di un itinerario pedagogico, Edizioni della fondazione nazionale “Vito Fazio-Allmayer”, 2011, p. 126. 19 mantenendole in un'ottica storicistica. Si tratta di questioni ineludibili che caratterizzano questo sapere sin dalla sua nascita e che ne hanno definito, nel corso dei secoli, la sua stessa identità. Bisogna accettare queste problematiche nelle loro linee principali e tenerle sempre presenti, bisogna provare ad orizzontarsi al loro interno per non rischiare di restarne strettamente invischiati. Le questioni succitate non possono essere omesse né ignorate, si devono piuttosto considerare seminali e devono essere usate come riferimento costante, sforzandosi di mantenere nei loro riguardi una certa e lucida distanza. Un simile atteggiamento scientifico si può attuare accettando la responsabilità che proviene dall'avere a che fare con un sapere reticolare e complesso; occorre non lasciarsi scoraggiare dalle mancanza di regole date una volta per tutte, né dalla mancanza di rigidità di metodi, definizioni, applicazioni; occorre piuttosto sfruttare la “flessibilità” che lo contraddistingue per “adattarlo” ai sempre diversi contesti e situazioni in cui l'uomo è calato, in una società in evoluzione, in un mondo in evoluzione. Occorre leggerne tutta la problematicità e complessità in una luce positiva e proficua, una luce in cui la pedagogia appare come «[...] una scienza dotata di un sapere organico, meglio, di un sistema di saperi organizzati intorno alla formazione e all'educazione dell'uomo»21. L'estensione, la frantumazione22, la parzialità dei saperi che la compongono e contraddistinguono non deve essere considerata limite che conduce all'inafferrabilità, all'ampiezza incontrollabile, ma deve stimolare a guardare l'assieme del sistema e a non perdere di vista quel cuore pulsante che irrora tutto il sistema, ovvero la formazione e l'educazione dell'uomo. Riconoscendo la centralità della formazione, e prendendo coscienza della problematicità che permea tale sistema complesso ma “organico”, per riprendere ancora Gennari, si può scoprirne la struttura reticolare ma omogenea, frammentaria ma coerente. Gli approcci delineati, giustamente complementari, anticipano e rendono conto, dal punto di vista ontologico, anche della difficile questione del rapporto fra teoria e prassi all'interno dei tratti fondamentali e caratterizzanti della pedagogia. Lo stato dell'arte ci consegna infatti un corposo dibattito, serio e puntuale, relativo al nesso teoria/prassi nelle scienze umane e in pedagogia, nesso che attiene primariamente al suo statuto ontologico. A emblema di una discussione vasta, complessa e ancora in corso, si 21M. Gennari, Trattato di pedagogia generale, Bompiani, Milano, 2006, p. 97. 22«Il rischio della frantumazione dei saperi pedagogici e della correlativa dissoluzione della pedagogia nelle varie e differenti scienze dell'educazione richiede una sempre più puntuale riflessione epistemologica, affinché l'identità della pedagogia generale non ne esca turbata o intaccata con grave danno per la sua specifica identità di scienza e di scienza umana» (Id., op. cit., p. 123). 20 rilegga la sintesi, elaborata da Cambi: «Nelle scienze umane – allora – il nesso teoria/prassi si fa originario e fondante, ma da pensare e da ripensare e nei diversi saperi e nelle specifiche congiunture storiche in cui essi si danno. Oggi, come già detto, in una società libera, abitata da e fatta di nomadismi attivi e consapevoli e di istituzioni aperte, tendenzialmente democratiche, se pure radicata in questo identikit regolativo. Oggi in una cultura ad alto, altissimo tasso tecnologico, che trasforma e il theorein – secondo un modello ingegneristico, di efficacia e di sistema – e la praxis – che tende a farsi sempre più applicativa e assai lontana dalla poiesis così come è stata al centro dell'agire umano in Occidente (come ci ha ricordato Heidegger). Qui, su questa frontiera, va riletta anche la pedagogia, come sapere/agire centralissimo e decisivo nella storia delle civiltà: di tutte. Riletto sì tradizionalmente intorno al modello di poiesis, ma oggi sottoposto a ri-pensamenti, ri-orientamenti. Ri-qualificazioni, ad un tempo, innovative e inquietanti ora rivolte verso la techne ora verso un puro (astratto) theorein»23. Il nesso teoria/prassi è antinomico, di un'antinomia da non intendere come paralizzante o scettica24, poiché da questo movimento dialettico continuo, a cui pure viene sottoposta, la pedagogia non deve uscirne fiaccata o indebolita anzi deve considerare tale movimento costitutivo di sé e da esso trarne forza e specificità. La pedagogia non è la speculazione filosofica sull'uomo, non può essere ridotta a filosofia dell'educazione, il suo fare della formazione l'oggetto principale di osservazione e studio la obbliga sì ad abitare un territorio franoso, in perenne movimento, soggetto ad aggiornamenti, revisioni, aggiustamenti continui, ma proprio per questo essa non conosce la definizione mortifera né della speculazione pura, né delle scienze esatte, non sa cosa sia il punto d'arrivo, l'assoluto teorico, l'esperimento riuscito, resta in sé, e questa è la sua “cifra ontologica” una scienza “im-perfetta”, sempre aperta, sempre perfettibile, mai “fatta e finita”. Per contro la pedagogia non può neanche essere identificata nella sola prassi, ovvero nell'agire pedagogico, nel fare educazione. Sarebbe così ridotta a un repertorio infinito di esercizi e pratiche, diventerebbe un inventario inesauribile di esperienze particolari, un corpus eterogeneo impossibile da coordinare, tassonomizzare, valutare in maniera organica e produttiva. Insomma, il nesso antinomico teoria/prassi, nel rendere la pedagogia una scienza aperta e soggetta alle criticità e alla problematicità di tale 23F. Cambi, “Qualche osservazione fondamentale su “teoria e prassi in pedagogia”, in L'inquietudine della ricerca, Edizioni della fondazione nazionale “Vito Fazio-Allmayer”, 2011, p. 76. 24Id., op. cit., p. 84. 21 antinomia, di fatto la preserva da facili riduzionismi sia in un senso sia nell'altro. Essa «Certamente è un sapere per la prassi, ma che non si risolve nella prassi, in quanto è anche (e prima di tutto) sapere» 25. Il suo darsi quindi come sapere, e come sapere aperto, favorisce una produttività di pensiero, riflessivo e autoriflessivo, estremamente dinamica ed articolata, e produce, come effetto collaterale, una difficoltà definitoria. Il nesso antinomico teoria/prassi, considerato come caratteristica specifica della pedagogia, per essere accolto in un'accezione positiva, così come qui si vuole accoglierlo, deve essere inteso come uno stimolo utile a rilanciare un sapere che per restare tale (prevalentemente teorico) deve sempre nutrirsi di esperienze pratiche e in esse trovare nuova energia e spunti originali da rielaborare e sviluppare. Questa spinta al tempo stesso vitalistica e critica, propositiva e problematica, impedisce il fossilizzarsi in una teoria data e immobile per quanto rassicurante essa sia. Questa oscillazione continua definisce la pedagogia come sapere aperto e problematico, stimola all'incontro con altri saperi, istiga alla creazione di nuove connessioni e, per certi versi, legittima proposte e ricerche in cui si propone l'incontro fra due ambiti del sapere significativamente distanti per impostazione generale, finalità, metodologie di ricerca e applicazioni. Il lavoro della ricerca pedagogica si configura come un percorso ad ostacoli, proprio perché la problematicità è interna alla e costitutiva della disciplina. Rita Fadda sottolinea lo statuto particolare della «[…] condizione della ricerca in ambito pedagogico, dove, non solo si è alle prese con un oggetto – la formazione umana, il processo, misterico, quasi, del divenire uomo dell’uomo, della sua umanizzazione e del suo divenire il proprio poter essere –, ma ci si trova di fronte al dramma della scelta tra ciò che è lecito e giusto considerare educativo e tale da condurre l’uomo nella direzione della sua originaria destinazione e ciò che educativo non è. Questo è il luogo privilegiato della critica, perché è il luogo dell’interrogazione, della scelta, della crisi. Dell’intrascendibilità della scelta, che, nella pratica educativa, diviene tragica, perché ogni scelta fatta non è revocabile e taglia fuori un’infinità di altre possibili scelte. […] Ma se la critica è lacerazione e rischio – è questo è in pedagogia-educazione –, ciò non vuol dire che sia rischio cieco, atteggiamento rinunciatario rispetto ad ogni possibile tentativo di procedere in modo che non sia totalmente deregolato, abbandono alla casualità della scelta» 26. 25F. Cambi, “Discorso, metateoria e differenza. Il mio itinerario nella ricerca pedagogica”, in op. cit., p. 25. 26 R. Fadda, “Un modello italiano di pedagogia critica. Presupposti, sviluppi, problemi aperti”, in E. 22 L'interrogazione, la problematizzazione, la critica non devono condurre allo stallo, ma devono agire da motore propulsore, devono servire per dinamizzare una ricerca che non può, e non deve, esaurire il proprio oggetto, ma deve piuttosto crescere con lui, modificarsi ed evolversi mantenendo le questioni aperte e continuando, senza sosta, a cercare le risposte27. In quest'ottica, la pratica del cercare è più proficua della conquista del trovare, poiché nell'atto stesso della ricerca si esplica la tensione verso la verità e la libertà. Nella domanda l’uomo costruisce il rapporto di sé con se stesso, intraprende il percorso di costituzione di sé come soggetto, dispiega il desiderio di raggiungere l'incontro con se stesso e con l'altro e acquisisce la consapevolezza che sia l'io e sia l'altro sono entità che non possono essere possedute interamente né conosciute fino in fondo. Ciò che è stato definito “fragilità” fa riferimento anche alla capacità della pedagogia, attraverso la critica, di mettersi in discussione e di abitare un crinale di rischio, di scegliere, mettendo al centro della propria ricerca l'uomo, uno spazio d'indagine e studio mai pacificato e sempre caratterizzato dalla provvisorietà. Sia nel pensare, sia nell'agire. La pedagogia, secondo tutto il gruppo di studio che si identifica come “pedagogia critica”, deve introiettare la critica e farne un suo elemento costitutivo, in modo da sfuggire ai facili schematismi e riuscire a sottrarsi alle etichettature. In quest’ottica la critica è intesa come tratto distintivo della ricerca pedagogica. Essa agisce come elemento innovatore e rinnovatore dell'esercizio primo e più importante della pedagogia: l'esercizio della libertà. Infatti, «In quanto luogo della scelta e del giudizio oculato, la critica è anche il luogo primo di esercizio della libertà, libertà non come illusione di totale indipendenza, quasi fosse una decisione assoluta del soggetto a creare il luogo della critica, il che rappresenta la più grande forma di ingenuità e, quindi, di morte della critica, ma come consapevolezza dei condizionamenti, come sospetto, come luogo privilegiato per mettere a nudo, spiare, intuire, riconoscere la natura e il carattere Colicchi (a cura), Per una pedagogia critica. Dimensioni teoriche e prospettive pratiche, Carocci, Roma, 2009, p. 23. 27«[...], la pedagogia è nella critica nel momento in cui è nella domanda, in un inesauribile domandare cui corrisponde l'inesauribilità della risposta, di una risposta che non è mai quella definitiva, su cui occorre sempre ritornare, perché la verità che per la critica è problema lo è in modo del tutto peculiare per la pedagogia, per i suoi aspetti fondazionali e radicali, per i quali la verità non può essere possesso, acquisizione definitiva, acquiescenza, compiutezza, ma aspirazione, tensione, desiderio, continua ricerca. La critica è pratica, non compimento e risoluzione» (R. Fadda, “Un modello italiano di pedagogia critica. Presupposti, sviluppi, problemi aperti”, in E. Colicchi (a cura), op. cit., p. 22). 23 di ciò che ci condiziona» 28. Considerando la pedagogia come scienza – anzi come un complesso sistema di saperi – si deve evidenziare come la “pedagogia critica” pur mettendola sempre in discussione, attiva anche un dispositivo di miglioramento complessivo. Franco Cambi infatti ne sottolinea una “funzione regolativa”: «Una “pedagogia critica” (come comprensione critica del pedagogico) elabora uno stemma della pedagogia che, nel momento in cui chiarisce, anche potenzia e orienta, corregge e sviluppa. Non si tratta quindi di un'attività puramente astratta e speculativa, vuota di ricaduta nell'esperienza. Tutt'altro. Si tratta, invece, di una teorizzazione che rigorizza anche per agire, per migliorare (in quanto, appunto, rigorizza in relazione al “senso” del sapere) le applicazioni del sapere stesso. Poiché le riorienta, le integra, le sottopone a controllo, non solo tecnico, ma teorico» 29. Da questi processi summenzionati attivati dalle ricerche di “pedagogia critica”, lungi dal risultarne indebolita, la disciplina sembra uscirne invece più fluida ed adattabile ai grandi cambiamenti culturali e sociali intercorsi soprattutto a partire dal XX secolo. Non c’è stata un’abdicazione al proprio compito, ma una ridefinizione dei termini coinvolti, e conseguentemente anche dei propri limiti e delle proprie aspettative. Interessando un’area così sensibile come quella del rapporto educativo fra esseri umani, la pedagogia ha dovuto necessariamente individuare e difendere i capisaldi del suo pensare, ma soprattutto del suo agire nel mondo. Non si è trattata tanto di un’autodifesa d’ufficio, quanto dell’avvio di un percorso di problematizzazione e adeguamento a cui una scienza che ha il compito di formare ed educare le “nuove” generazioni, non può sottrarsi in nessun modo, pena la sua stessa credibilità ed esistenza. È per questo che essa, come altre e più di altre discipline, ha dovuto mettersi in gioco per fare i conti con trasformazioni culturali e sociali senza precedenti che, partite con un ritmo incalzante nell'arco del XX secolo, hanno determinato cambiamenti e riassestamenti nell'ambito sia delle scienze umane sia di quelle fisico-naturali che interessano fortemente la nostra quotidianità nella contemporaneità. La giusta riflessione e rimessa in discussione dello statuto epistemologico, scaturite dal particolare scenario culturale appena accennato, hanno funzionato da 28 R. Fadda, “Un modello italiano di pedagogia critica. Presupposti, sviluppi, problemi aperti”, in E. Colicchi (a cura), Per una pedagogia critica. Dimensioni teoriche e prospettive pratiche, Carocci, Roma, 2009, p. 21. 29F. Cambi, op. cit., p. 40. 24 critica e da indagine identitaria, marcando il fatto che la pedagogia – come riflessione che analizza i processi e i risultati del complesso fenomeno dell'educazione – abbia, anche storicamente, sempre evidenziato notevoli difficoltà nel definirsi come scienza autonoma o come sapere con caratteristiche specifiche 30. Per quel che concerne il suo statuto epistemologico Spadafora, ad esempio, individua tre specificità che le sono proprie e che ne caratterizzano la problematicità e sono: l'espropriazione del sapere pedagogico da parte di altri contesti disciplinari, il concetto di applicazione nella teoria pedagogica, la struttura antinomico-ambivalente della pedagogia. In un passaggio efficace così lo studioso chiarisce: «L'espropriazione, l'applicazione, l'antinomia ambivalente rappresentano le caratteristiche più ricorrenti del sapere pedagogico, inteso come teoria che analizza e orienta i processi pratici educativi e formativi. Queste tre figure evidenziano come la pedagogia esprima una tensione critica verso i saperi (l'espropriazione), verso la pratica (l'applicazione), verso i valori negativi e positivi (l'antinomia ambivalente) senza mai definirsi. La pedagogia, alla luce di queste sue caratteristiche fondanti, esprime un sapere critico connesso al processo formativo che, pur non essendo il luogo esclusivo della ricerca pedagogica, si pone nella sua complessità come il terreno su cui la stessa pedagogia necessariamente deve esprimere una sua possibile esplicazione» 31. A partire da questo quadro problematico, ciò che deve far riflettere e deve essere ancora oggetto di analisi non è tanto, o non solo, l'acquisizione delle tre figure sopra indicate, ma il fatto che esse incarnino, intimamente e fondamentalmente, la specificità del “sapere” pedagogico. Esse possono essere interpretate come pregi o difetti, come aperture o limiti, ma è senz'altro proficuo, in un'ottica epistemologica, leggerle eliminando ogni giudizio di valore, accettandole, seppur criticamente, come presenze costanti di quel dispositivo complesso di saperi che è la pedagogia. Esse rappresentano ciò che c'è, sin dall'origine, e ciò che potrebbe rimanere come riferimento costante anche negli sviluppi futuri. Rappresentano ciò che consente alla pedagogia di esistere come sapere critico che accetta la sfida del tempo, della storia, della società. Per quanto esse ne certifichino le fragilità, è pur vero che ne mostrano anche la struttura portante, complessa e modulare, pertanto aperta, estensibile, implementabile all’infinito. Ad esempio, riflettendo in particolare sul concetto di “espropriazione” attuato da parte di altri contesti disciplinari, si può avviare un ragionamento duplice, poiché se è 30Cfr. G. Spadafora (a cura), Verso l'emancipazione. Una pedagogia critica per la democrazia, Carocci, Roma 2010. 31 Id, op. cit, p. 27. 25 vero che da una parte la pedagogia viene saccheggiata di alcuni suoi concetti chiave che vanno ad arricchire altre discipline, è anche vero che la stessa pedagogia proprio accogliendo ormai da tempo la sfida dell'autocritica, dell'autoriflessività e dell'interdisciplinarità, ha scelto di attingere da altre scienze, di aprirsi verso altri ambiti disciplinari, attivando con essi accordi e confronti produttivi. Per Gennari: «Contrariamente a ciò che comunemente si crede, la pedagogia non studia specificamente il bambino o l'infanzia, ma si occupa dell'uomo, prescindendo dall'età, dal sesso, dal ceto, dalla cultura di appartenenza, dal credo religioso, dagli orientamenti politici. Per farlo, essa può decidere di attivare specifici accordi con altre scienze: ad esempio con la filosofia, la storia, l'etica, la politica, la psicologia, la sociologia, l'estetica; quindi, con la biologia, l'antropologia, il diritto, l'ecologia, la teologia, la metafisica; inoltre, con l'economia, l'urbanistica, le neuroscienze, la semiotica, l'ermeneutica, l'ontologia, la sistemica, la psicanalisi, la bioetica, la narratologia, la medicina, la psichiatria, ecc.»32. E così come attinge ed utilizza per i suoi raccordi interdisciplinari e/o per arricchire con dati specifici il proprio campo d'indagine, è anche vero che essa offre, alle altre discipline, un apporto fondamentale e decisivo, in particolare quando «[...] a saperi dogmatici, assiomatici e grammaticisti essa oppone un sistema di saperi ipotetici, dialettici, interpretativi. Con questi, la pedagogia può difendere l'“espropriazione” dei suoi oggetti di ricerca – la formazione e l'educazione – da altri saperi onnivori, fra cui prevalgono anzitutto quelli a matrice psicologica e sociologica»33. Il difendersi, pure legittimo, dall'espropriazione non può tradursi in un'azione di chiusura o di “auto-conservazione”, altrimenti anche la pedagogia potrebbe diventare un sapere dogmatico e/o ideologico al pari di altri, perdendo così quelle specificità che, se da una parte la rendono fragile, dall'altro la caratterizzano e la rendono unica. Unica nel darsi, ad esempio, come scienza atta al raccordo dei saperi e insieme di strumenti utili per garantire la trasmissione delle conoscenze e dei valori che caratterizzano la società. Inoltre, lo stesso processo di espropriazione, sia subito che attivato, può essere considerato uno strumento utile all’interno della stessa ricerca pedagogica, uno strumento non da accogliere acriticamente, ma da contestualizzare e su cui ragionare in un’ottica di analisi dei fenomeni di mutamento che interessano la disciplina. Ad esempio Rita Fadda spiega proprio come il passaggio dal modello pedagogico-classico al modello delle scienze dell’educazione, nato sotto i migliori auspici e foriero di grandi 32M. Gennari, op. cit., p. 24. 33Id., op. cit., p. 25. 26 aspettative, abbia aperto la strada, per certi versi, all’espropriazione del sapere pedagogico: «[…] l’apertura ad altre discipline avrebbe potuto determinare un arricchimento e un approccio più comprensivo ai problemi formativi ma, per le modalità con cui è stato attuato e praticato, ha prodotto, di fatto, frantumazione, confusione e una vera e propria espropriazione del pedagogico, in conseguenza proprio della perdita di quella tensione critica rivolta alla salvaguardia della specificità e identità, di un centro orientatore di senso, capace di tener saldamente ferma l’unità e l’integralità, pur nella molteplicità di dimensioni e di approcci, non solo o non tanto della pedagogia come disciplina, quanto del problema e della prospettiva pedagogica»34. A partire da queste parole bisogna mettere l’accento sul fatto che anche l’espropriazione, come altre caratteristiche distintive della pedagogia, è senz’altro un dispositivo ambivalente, costruttivo e distruttivo al tempo stesso; d'altra parte la salvaguardia dell'identità pedagogica, sempre presente nella riflessione teorica interna alla disciplina, non è da considerare come una conquista da raggiungere una volta per tutte, quanto piuttosto come un percorso fatto di continui bivi fra cui scegliere, mettendo in campo la propria responsabilità e accettando la possibilità di finire anche in una strada senza uscita. Le questioni ontologiche, al pari di quelle epistemologiche non possono trovare una risposta univoca, una meta sicura che ne certifichi validità “scientifica” per ogni epoca, per ogni coordinata geografica, e questo grande limite della scienza rappresenta la ricchezza di questo sapere che è così essenziale per la sopravvivenza stessa dell’umanità. Avere consapevolezza di questo percorso accidentato da percorrere nella ricerca scientifica, di questa problematicità insita e connaturata al pedagogico, porta a porre dei capisaldi, questi sì, immutabili e resistenti nel definire la pedagogia, in primo luogo a comprendere e ad acquisire come essa esista e si sviluppi non da un sapere statico, ma da una dinamica relazionale. Questa dinamica relazionale è interna ed attiene all’ontologia della pedagogia, ma è anche, per così dire, esterna e concerne il suo statuto epistemologico “fra” le altre scienze. È scienza che si occupa della formazione e dell’educazione dell’uomo, e il formare e l’educare sono impossibili senza una relazione di “trasmissione” di sapere, conoscenza, emozioni, trasmissione che si attua “nella” relazione ed “è” la stessa relazione. Inoltre è scienza che raccorda le altre scienze, da essa si lascia espropriare ma anche espropria, per 34 R. Fadda, “Un modello italiano di pedagogia critica. Presupposti, sviluppi, problemi aperti”, in E. Colicchi (a cura), Per una pedagogia critica. Dimensioni teoriche e prospettive pratiche, Carocci, Roma, 2009, p. 25. 27 costituirsi non come ammasso eterogeneo, ma come dispositivo relazionale aperto ed accogliente, pur alla ricerca dei propri riferimenti. Dewey in The Sources of a Science of Education (1929) spiega che: «una scienza dell'educazione per potersi costituire deve essere formata da più “fonti”, e cioè da processi scientifici che si occupano dell'educazione dalla loro specifica prospettiva e che si trasformano in scienza dell'educazione nel momento in cui si applicano alla “situazione educativa” dell'apprendimento scolastico attraverso l'opera dell'insegnante, come avviene per il medico o per l'ingegnere nei rispettivi ambiti. La scientificità dell'educazione è, dunque, determinata dalla possibilità di applicazione di un approccio pluralista di vari saperi al contesto educativo, [...]» 35. L'approccio pluralista lascia aperte tutte le prospettive di incontro fra i diversi saperi nei diversi contesti educativi, e la decisione del plurale, in questo caso, è per sottolineare la mobilità e la reticolarità dei rapporti fra discipline, teorie, applicazioni e contesti. Il terreno comune deve essere dinamico e aperto, ma non caotico, e per non cadere nel caos è essenziale che la pedagogia pur sviluppandosi su differenti piani e aprendosi a molteplici direzioni, mantenga il suo centro fortemente ancorato al suo oggetto di studio d'elezione, ovvero la formazione e l'educazione. Il fatto è che la pedagogia, al pari di altre discipline, e con il carico di responsabilità che le proviene dall'essere la disciplina che funziona da “organizzatore”, “raccordo” e trasmissione dei saperi, deve oggi farsi carico della sfida dettata dalla propria epoca, deve collocare sempre l'uomo nel mondo e il mondo che oggi ci riguarda è quello, complesso e in perenne evoluzione della postmodernità. Si fa quindi riferimento alla pedagogia intesa come una scienza che organizza il complesso dei saperi concernenti l'uomo, «[…] una scienza dotata di un sapere organico, meglio, di un sistema di saperi organizzati intorno alla formazione e all'educazione dell'uomo. Essa, dunque, non è semplicemente un'arte. Ed è una disciplina soltanto quando viene insegnata. Tantomeno, essa è la scienza che insegna l'arte di educare i bambini. Il suo nucleo fondativo – ciò che in essa dà luogo al “significare” - consiste nello studio dell'uomo prescindendo dalle età della vita, dell'essere maschio o femmina, povero o ricco, iperdotato o ipodotato, abile, disabile o differentemente abile. L'uomo e soltanto l'uomo costituisce il senso profondo, autentico e radicale della pedagogia come scienza»36. 35 Cit. in G. Spadafora, op. cit., p. 25. 36M. Gennari, op. cit., p. 97. 28 L'insieme delle problematiche a cui si è accennato, focalizzano l’attenzione su come la pedagogia funzioni in quanto sapere specifico proprio a partire da una sorta di sua “fragilità”. Si tratta di una fragilità benefica e rinvigorente, per quanto spiazzante, dettata e dovuta dal caratterizzarsi della pedagogia in quanto sapere legato all'uomo, alla sua soggettività, complessità e soprattutto alla sua “esperienza” che non è mai (come può accadere in ambito più specificatamente teologico, filosofico o letterariopoetico) un'esperienza “solitaria”, ma è sempre frutto di una relazione pedagogica (fra l'io e l'altro), frutto dello stare al/nel mondo dell'uomo 37, frutto dell'equilibrio – delicato e affascinante – che l'uomo instaura fra mondo dell'interiorità e mondi dell'ulteriorità. L'uomo non può e non deve, è questa è una delle caratteristica fondante del pensiero pedagogico, essere considerato da solo, corpo e/o spirito al centro di un ragionamento filosofico o di un'analisi di tipo biologico. L'uomo in pedagogia è sempre frutto di un “incontro”, fra l'io e l'altro, tanto che da un incontro nasce anche come semplice “io”, e in questo caso l'io incontra il sé stesso, il mondo dell'interiorità. La relazione chiamata pedagogica (o di formazione) è prima di tutto una relazione “identitaria”, frutto di una tensione e di un pensiero che deve incontrare la prassi, di una scoperta di sé che si attua attraverso la scoperta dell'altro, di una messa in comunicazione di due mondi, quello dell'interiorità con quello dell'ulteriorità. «Vi è un mondo dell'interiorità, proprio del soggetto, a lui intimo e che soltanto lui conosce, anche se non del tutto tanto è vasta, profonda e latebrosa la sua essenza. Si danno poi dei mondi dell'ulteriorità, che racchiudono ciò che sta oltre il soggetto, appartiene ad altri soggetti ed è avvicinabile e conoscibile soltanto nel rispetto dell'identità e della differenza che quei mondi rappresentano. Ogni mondo dell'interiorità circoscrive la sfera soggettiva, autonoma, libera, autoformantesi dell'uomo. Ogni mondo dell'ulteriorità descrive l'altro uomo, nella sua intimità e diversità, nella sua formazione, nella sua essenza-esistenza»38. Accolta questa centralità dell’uomo, e della sua relazione con gli altri nel mondo, prese in considerazione le caratteristiche specifiche che rendono la pedagogia scienza dell’uomo e della sua formazione, occorre provare a collocare tale riflessione, per quanto appena accennata, nell’epoca che ci riguarda. È un dato di fatto che nella società individualistica del XXI secolo, caratterizzata, come spiega Brezinka, dal pluralismo 37«L'uomo abita il mondo, lo prende sotto la sua cura, entra in una relazione esistenziale con gli oggettimondo che l'attorniano, ma sono anche parte di lui: della sua vita, della sua storia, del suo mondo, della sua formazione» (M. Gennari, Trattato di pedagogia generale, Bompiani, Milano, 2006, p. 73). 38M. Gennari, Trattato di pedagogia generale, Bompiani, Milano, 2006, p. 215-216. 29 degli individui39, è diventato più difficile “formarsi” e “formare”; in questa società il concetto di formazione è “sotto assedio” ma ciò può rivelarsi estremamente positivo. Le sfide della modernità, quali l'ipertecnologia, il multiculturalismo, il pluralismo, mettono in crisi il primato di una educazione su un'altra, ma proprio per questo aprono prospettive interessanti su un concetto di formazione più complesso ed articolato e, soprattutto più “universale”, ovvero anche capace di “immaginare” e accogliere innovazioni e mutamenti delle società future: «La formazione dell'uomo non può essere pedagogicamente intesa come la formazione dell'uomo occidentale, integrato nel suo modello di civiltà, ma come la formazione di ogni uomo. È a partire da ciascun uomo della terra che vanno ripensate le idee di vita e di morte, il cui unico paradigma umano credibile è soltanto quello della libertà»40. Ecco anche perché, con Martha Nussbaum si deve puntare verso un'educazione liberale, più centrata sull'uomo nel suo formarsi complessivo come cittadino del mondo, un uomo aperto e disponibile all’incontro con l’altro, conoscitore della propria cultura ma anche aperto e disponibile alla conoscenza, alla tolleranza e al rispetto delle altre culture. 39 «Nella società moderna, il pluralismo dei grandi gruppi ideologici è integrato e sempre più sostituito dal pluralismo degli individui. La società pluralistica dei gruppi si è trasformata in una società individualistica. Si tratta di una società formata da persone fortemente individualizzate, che hanno valori incerti e mutevoli, deboli vincoli sociali, grandi pretese di autonomia e poca comprensione per le richieste provenienti da istituzioni, norme, valori religiosi e autorità tradizionali» (W. Brezinka: Educazione e pedagogia in tempi di cambiamento culturale, Vita e Pensiero, Milano, 2011, p. 75). 40M. Gennari, op. cit., p. 182. 30 1.2. L'esperienza dell'arte. Pur nella consapevolezza di stare compiendo una scelta che, affermandosi esclude di fatto altre opzioni ugualmente valide, per quel che riguarda il concetto di esperienza si è scelto di eleggere a modello principale di riferimento quello elaborato da John Dewey, sebbene in maniera parziale e non esclusiva. Dalla sua ampia e complessa opera relativa agli studi pedagogici si è attinto, in particolare, ai concetti di esperienza e arte affrontati dal filosofo soprattutto in Esperienza e natura e Arte come esperienza; guardando con attenzione all'intero sistema teorico per quel che concerne l'intimo legame fra scienza e filosofia. Nell'ottica deweyana le scienze rivestono il ruolo di “fonti” del pensiero pedagogico, ed è quest'ultimo che elabora, teorizza e coordina tali fonti per l'azione, sempre all'interno di un quadro complessivo in cui viene preservata e difesa l'intenzionalità dell'educare. La centralità riservata al concetto di esperienza è dovuta al fatto che, nella riflessione pedagogica di Dewey, l'uomo con la sua complessità, con il suo portato di specificità che lo caratterizza, non è pensabile come avulso dal mondo, dal suo rapporto continuo con ciò che lo circonda, poiché è “nel” mondo che viene formato ed è “con” il mondo che si forma. Lo strumento che l'uomo usa per “formarsi” nel mondo esteriore e “formare” il suo mondo interiore è, appunto, l'esperienza. L'esperienza diretta del mondo, l'approccio sensoriale alla natura servono più di ogni lezione teorica, sono uno strumento prezioso dell'educazione, anzi, sono “lo strumento”. Ad esempio anche Maria Montessori, nel ragionare sul rapporto fra bambini e natura spiega lo scopo dell'educazione dei sensi: «L'ovvio valore dell'educazione e del raffinamento dei sensi, allargando il campo della percezione, offre una sempre più solida e ricca base allo sviluppo dell'intelligenza. Per mezzo del contatto e dell'esplorazione dell'ambiente, l'intelligenza innalza quel patrimonio di idee operanti, senza le quali il suo funzionamento astratto mancherebbe di fondamento e di precisione, di esattezza e di ispirazione. Questo contatto è stabilito per mezzo dei sensi e del movimento»41. Questo approccio sensoriale trova nel “laboratorio attivo” proposto da Dewey un luogo anche fisico ideale in cui fare esperienza, in cui superare l’annoso conflitto fra teoria e prassi attraverso una concezione più complessa, ma anche più “naturale” dell’uomo. Nel momento in cui l’uomo non viene scisso in pensiero e azione, è il valore stesso dell’esperienza che muta, si fortifica e si valorizza. 41M. Montessori, Educare alla libertà, Mondadori, Milano 2008, pp. 92-93. 31 In una accezione ampia, riprendendo una delle problematiche fondative della pedagogia, l'esperienza sembra offrire una chiave di volta significativa sulla questione della dicotomia, apparentemente irrisolvibile, fra teoria e prassi. L’esperienza, nell'essere strumento di relazione, legame e conoscenza dell'uomo con il mondo, essa attiene al teorico quanto al pratico, al mentale quanto al corporeo, all'immaginario quanto al materiale. Essa attiene alla volontà come anche alla necessità dello stare nel/al mondo. L'esperienza può essere considerata come un luogo di convergenza, un luogo in cui i confini fluidi della speculazione teorica incontrano quelli netti e sensibili della realizzazione pratica. Ma non ci sono due tempi, non c'è un prima e un dopo, un pensare e un agire. Riprendendo in Esperienza e natura la felice definizione di William James per cui “esperienza è una parola a due facciate”, Dewey spiega, con un ragionamento che è esso stesso pedagogico sia nel contenuto sia nello stile, che: «[...] Come le sue realtà congeneri, cioè la vita e la storia, l'esperienza comprende ciò che gli uomini fanno e soffrono, ciò che ricercano, amano, credono e sopportano, e anche il modo in cui gli uomini agiscono e subiscono l'azione esterna, i modi in cui essi operano e soffrono, desiderano e godono, vedono, credono, immaginano, cioè i processi dell'esperire. La parola “esperienza” denota il lavoro del campo, la semina, il raccolto e la mietitura, i cambiamenti del giorno e della notte, la primavera e l'autunno, l'umidità e l'arsura, il caldo e il freddo, in quanto vengono osservati, temuti, desiderati; denota anche colui che pianta e raccoglie, che lavora e gioisce, spera, teme, fa progetti, ricorre alla magia o alla chimica per aiuto, che subisce disastri o passa giorni fortunati. È una parola “a due facciate” in quanto nella sua primaria integrità non riconosce alcuna divisione tra atto e materiale, soggetto e oggetto, ma li contiene entrambi in una totalità non analizzata» 42. La letterarietà della lunga spiegazione deweyana dà corpo e poesia al concetto già enunciato, in maniera sintetica all'inizio del primo capitolo (Il metodo della filosofia) in cui il filosofo americano spiega che «[...] l'esperienza è tanto della natura quanto nella natura. Non è l'esperienza che viene esperita, ma la natura; pietre, piante, alberi, animali, malattie, salute, temperatura, elettricità, ecc. Cose che interagiscono in certi modi sono l'esperienza; sono ciò che viene esperito. Connesse in certi altri modi con altri oggetti naturali, per esempio l'organismo umano, esse sono anche il modo in cui le cose vengono esperite»43. Questa continuità, questa partecipazione e interazione della e 42J. Dewey, Esperienza e natura, Mursia, Milano, 1973, p. 27. 43Id, op. cit., p. 21. 32 nella natura è qualcosa che riguarda intimamente l'uomo, la sua stessa essenza. Apre le porte al comprendere come l'identità dell'uomo non possa formarsi senza un'esteriorità con cui interagire, in cui specchiarsi e riconoscersi da una parte uguale ad altri uomini, da un'altra diverso da tutti gli altri uomini e dal mondo. La scoperta dell'appartenenza al mondo, attraverso l'esperienza, porta anche alla scoperta del mondo come “altro da sé”. Nelle definizioni deweyane, sia in quella di stampo più letterario e poetico sia in quella più tecnica e sintetica, colpisce l'insistere sulla non divisione tra “atto e materiale”e tra “soggetto e oggetto”, e in questa insistenza emerge proprio come nessuna parte possa essere isolata dal ragionamento sull'esperienza, poiché è l'esperienza che occupa il “tra”, unendo e anche dividendo, scoprendo e nascondendo, avvicinando e allontanando. L'esperienza è il “tra”, è il “mezzo” per esperire il mondo e se stessi, ma è anche il “modo” in cui questo accade, e il modo non è discontinuo ma continuo, e quindi difficile da isolare e analizzare. In questa tensione inesauribile che descrive l'attività vitalistica del nostro stare nel mondo, non tutto è natura, non tutto è materia, non tutto è reale. Nell'esperienza umana c'è, e riveste un ruolo importante, anche l'immaginazione. L'immaginazione aiuta a fare esperienza del/nel mondo, oltre il materiale, oltre il presente, oltre il contingente. Spinge l'uomo ad aprire ed aprirsi all'ulteriore (da un punto di vista spirituale) e all'umanità (da un punto di vista generale). Nel desiderio già di poter fare esperienza di situazioni, mondi e contesti diversi da ciò di cui si è fatto e si sta facendo esperienza, risiede quella che è già una direzione, una pratica, un'esperienza “ideale” di civiltà, solidarietà, libertà, e infine di umanità per usare una parola cara a Martha Nussbaum. L'immaginazione spinge alla conoscenza, alla creazione e ri-creazione di mondi forse appaganti, forse deludenti. Mondi che non esistono ma che possono comunque essere oggetto di esperienza umana, ed è in questa apertura che si instaura un possibile passaggio verso l'arte: «L'esperienza umana ha anche un continuo e commovente desiderio di verità, di bellezza e di ordine. Ma c'è qualcosa di più che il desiderio: ci sono anche momenti in cui quelle cose vengono raggiunte. L'esperienza dimostra di avere la capacità di conseguire il possesso di oggetti armoniosi. Essa dimostra di essere capace, entro certi limiti, di custodire gli oggetti ricchi di significato e di smorzare e ridurre il significato di quelli dannosi»44. C'è la tensione, o il desiderio, e c'è la capacità di raggiungere l'arte, di farne esperienza. Conseguire il possesso di oggetti armoniosi 44Id. op. cit., p. 60. 33 significa “comprenderli” nella propria esperienza umana. L'importanza dell'estetica deweyana, rivoluzionaria da questo punto di vista, risiede nel non mettere l'arte al centro, in posizione predominante nel processo conoscitivo, e per certi versi neanche all'inizio o alla fine del processo conoscitivo, ma di metterla “nel modo di” fare esperienza dell'uomo. Il fulcro che tutto muove è l'uomo, e il rapporto che questi intrattiene e organizza, costantemente, con tutto ciò che lo circonda, ovvero con il mondo, mondo a cui l'arte appartiene a pieno titolo. L'esperienza è il prodotto di questo rapporto fra l'uomo e il mondo, è ciò che lo regola, è ciò che al tempo stesso lo fonda e ne rende possibile il rapporto. L'esperienza è quindi relazione e comunicazione con il mondo, è frutto del rapporto ma è anche il rapporto stesso. In Arte come esperienza, Dewey marca una importante continuità con Esperienza e natura e così facendo mostra la vera natura dell'esperienza di tipo estetico, proprio ribadendo lo stretto legame fra uomo e mondo. La relazione uomo-mondo si articola innanzitutto con l'ambiente ed è tesa alla scoperta della realtà ma anche al desiderio di spingersi oltre alla realtà. Queste dimensioni complesse sono “conoscibili” attraverso la percezione, che avviene grazie ai sensi e si può amplificare nel sentimento estetico. Il contributo dell’arte, in questo ragionamento, è importantissimo, perché «Un’opera d’arte fa emergere e accentua questa qualità di essere un intero e di appartenere a quell’intero più grande, onnicomprensivo, che è l’universo in cui viviamo. Credo che questo fatto spieghi quel sentimento di acuta intelligibilità e chiarezza che proviamo in presenza di un oggetto di cui si fa esperienza con intensità estetica. Esso spiega anche il sentimento religioso che accompagna una percezione estetica intensa. Noi siamo, per così dire, introdotti in un mondo al di là di questo mondo che è tuttavia la realtà più profonda del mondo in cui viviamo nelle nostre esperienze comuni. Siamo trasportati al di là di noi stessi per trovare noi stessi»45. L’esperienza permette di svelare il gioco sottile dell’esistenza, consente di trovare se stessi al di là di se stessi, grazie all’arte e alla creatività. Allargando questa prospettiva, il teatro si offre come arte ideale per attivare questo gioco della percezione, della conoscenza e dell’esperienza. Perché arte effimera, priva di oggetto-opera d’arte, consente di superare il mondo delle esperienze comuni per accedere ad una realtà profonda muniti solo di noi stessi nella relazione con l’altro. Dove si colloca quindi l'arte? Che posto occupa nel mondo? L'arte si colloca proprio “nel” rapporto, nella tensione fra conquista e perdita, fra vicinanza e distanza, 45 J. Dewey, Arte come esperienza, Aesthetica, Palermo, 2010, pp. 197-198. 34 nell'equilibrio fra la spinta vitalistica dell'uomo e il compimento dell'esperienza stessa. L'uomo deve darsi, offrirsi all'esperienza e cercare di comprenderne, approfondirne le qualità che essa possiede e custodisce: dall'analisi delle qualità accederà anche all'arte. È compiendo degli atti pratici che si attiva l'esperienza, ed è negli atti pratici che risiedono anche le caratterizzazioni estetiche, quegli atti non separati dal materiale, di quei soggetti non separati dagli oggetti. In Arte come esperienza, Dewey considera la complessità dell'esperienza artistica senza porre limiti né alle possibilità creative dell'artista, né alle possibilità interpretative dell'osservatore. La nascita di un'opera d'arte catalizza le stratificazioni di senso dell'artista come quelle di chi fruisce l'opera. «Aspetti e stati della sua esperienza precedente di vari contenuti sono entrati nel suo essere; sono gli organi con cui percepisce. La visione creativa modifica questi materiali. Essi si ripresentano nell'inedito oggetto di una nuova esperienza. Memorie che non sono necessariamente coscienti, ma che sono ricordi incorporati organicamente nella struttura stessa del sé, alimentano l'osservazione presente. Sono il nutrimento che dà corpo a ciò che si vede»46. Così come l'uomo, per Dewey, deve essere considerato nella sua complessità, laddove per complessità si intende le possibilità e capacità cerebrali, sensoriali ed emotive di correlare le parti, di intrattenere sempre nuove relazioni con gli stimoli esterni e scoprire nuovi legami fra gli elementi che compongono il mondo, anche l'arte deve essere considerata – facendo parte di un ambiente complesso ed essendo prodotto dell'uomo – come un manufatto prezioso, frutto dell'azione creativa dell'uomo e capace di comunicare più di quanto lo stesso creatore avesse in mente di comunicare. Il suo porsi come oggetto con caratteristiche definite e, al tempo stesso, indefinite (in quanto definibili dal fruitore), il suo darsi come oggetto completo (fatto e finito) ma al tempo stesso offrendosi al completamento dalla sensibilità altrui (ovvero da chi decide di farne esperienza); rendono l'opera d'arte il prodotto dell'esperienza umana fra i più complessi e al tempo stesso fra i più “immediati” nella comunicazione fra uomini e fra l'uomo e il mondo. Spiega Dewey che «La portata di un'opera d'arte si misura secondo il numero e la varietà di elementi che vengono da esperienze passate e sono organicamente assorbiti nella percezione avuta qui e ora. Essi le danno corpo e capacità evocativa. Spesso vengono da fonti troppo oscure per essere in qualche modo identificate dalla memoria 46Id, op. cit., p. 107. 35 cosciente, e quindi creano l'aura e la penombra in cui fluttua un'opera d'arte» 47. E più avanti: «La connessione tra qualità e oggetti è intrinseca in ogni esperienza dotata di significatività. Se si elimina questa connessione non rimane che una successione di fremiti transitori priva di senso e non identificabile»48. «Le qualità dei sensi, del tatto o del gusto così come della vista o dell'udito, hanno qualità estetiche. Non le hanno però se vengono isolate, ma nelle loro connessioni; in quanto interagiscono e non come entità semplici e separate. E le connessioni non sono limitate alla loro propria specie (colori con colori, suoni con suoni)»49. La fluidità del passaggio dalla “natura” all'“arte” è frutto in Dewey di un ragionamento complesso e articolato, non di una semplificazione. Anche se il concetto di esperienza è connaturato all'uomo, è l'uomo che poi lo usa, lo mette a frutto con le sue capacità, i suoi desideri, le sue crisi, rimettendolo così sempre in discussione e, per certi versi, rivitalizzandolo. Nella vita dell'uomo, in ogni momento accade di sperimentare qualcosa, di rafforzare o rallentare il rapporto con l'ambiente. Ma non tutto, sempre, indistintamente, è esperienza. Il materiale “sperimentato” deve fluire e comporsi in un tutto compiuto (l'esperienza), ed è in questa “compiutezza” che è possibile fare le distinzioni, individuare le qualità estetiche e le loro possibili gradazioni. C. Maltese, nella sua sempre attuale introduzione all'edizione italiana del 1967 di Arte come esperienza, chiarisce che «L'esperienza estetica è, come ogni altra esperienza cosciente, immaginativa, ma è immaginativa in modo eminente, in quanto è adattamento completo del vecchio e del nuovo attraverso una valutazione di cose e valori assenti di fatto, ma presenti nell'immaginazione. Se, da una parte, anche una macchina è frutto di immaginazione, ma serve per altri scopi e valori che vanno oltre se stessa, dall'altra un'opera d'arte propone direttamente significati e valori all'esperienza, nasce dall'esperienza e si rivolge all'esperienza. È, in un certo senso, esperienza pura, esperienza in senso integrale. Da questo punto di vista costituisce una sfida alla filosofia»50. Infatti per Dewey attraverso l'arte è possibile penetrare negli atteggiamenti fondamentali di intere epoche e civiltà. Le opere d'arte sono l'asse di continuità della vita di una comunità, ne costituiscono l'espressione più alta proprio per la loro qualità 47Id., op. cit., p. 135. 48Id., op. cit., p. 137. 49Id., op. cit., p. 133. 50 C. Maltese, “L'estetica di John Dewey”, introduzione a J. Dewey, L'arte come esperienza, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1967, p. XIII. 36 immaginativa che rende viventi e concrete costumanze, leggi, riti. L'esperienza artistica permette il passaggio da “privato” a “pubblico” e si caratterizza come la possibilità data all'uomo per parlare all'umanità. L'arte diventa per l'uomo l'opportunità straordinaria di connettersi con/al mondo, di partecipare di una dimensione non puramente materiale né esclusivamente spirituale, ma organica con il resto dell'umanità. L'arte riveste la capacità di comunicare con i nostri simili ad un livello diverso, più profondo e diretto, spazzando via le barriere linguistiche e anche le diversità culturali dei singoli. Essa diventa il terreno comune su cui si gioca la partita per l'uomo più importante nell’ambito della formazione e della conoscenza: la condivisione dell'esperienza. Ma c'è un altro aspetto che l'accezione di esperienza mette in campo, un aspetto strettamente correlato alla questione della “fruizione” nel campo dell’arte e in particolare in quella contemporanea. Non “fruire”, ma “fare esperienza” dell'arte, è un concetto che rimanda al principio “attivo” dell'esperienza, ad un'attività vitalistica non passiva, ad un qualcosa che ha a che fare con un'azione e un lavoro, che non è mai solo fisico, che non è mai solo mentale. Il concetto di fruizione dell'arte rimanda ad un “assistere”, ad uno “stare” passivo dell'uomo posto di fronte all'arte, invece il concetto di esperienza, rifacendoci anche all'etimologia del termine, chiede per sé un ruolo più attivo, di partecipazione, di interazione sensoriale. Significa anche far crollare la pretesa, dannosa ed elitaria, dell’inavvicinabilità dell'arte. L'arte appartiene essa stessa al mondo, e come tutto ciò che appartiene al mondo ognuno può farne esperienza, nel rispetto della libertà reciproca, senza distanze reverenziali o di sicurezza. Senza aver timore di non essere degni di entrare in comunicazione con l'arte. Non esiste l’arte elitaria, un’arte che possa esser detta tale non può rivolgersi ad un numero ristretto di persone perché necessita di particolari capacità per essere compresa. L'arte esiste in quanto relazione fra uomini, al di là delle loro specificità, perché l'arte deve parlare all'uomo disponibile all’incontro, e questa disponibilità può essere di tutti. L'arte può essere considerata un mezzo di comunicazione straordinaria fra gli uomini, poiché si rivela uno strumento unico di condivisione dell'esperienza: «Alla fine le opere d'arte sono i soli media capaci di una comunicazione completa e non ostacolata tra uomo e uomo che può aver luogo in un mondo pieno di abissi e pareti che limitano la condivisione dell'esperienza»51. Il potere comunicativo dell'arte, la sua capacità di parlare all'uomo senza ostacoli – si tratti di barriere di tipo linguistico, ideologico o culturale – la costituisce 51J. Dewey, Arte come esperienza, op. cit., p. 120. 37 intimamente come un'esperienza fra le più preziose nella nostra epoca. Poiché sono proprio l'immaginazione e la fantasia ad essere state messe da parte dall'esperienza quotidiana, sempre più incanalata da istituzioni di vario tipo – scolastiche, familiari, lavorative – ad avvicinarsi a conoscenze ed esperienze che risultino “produttive” e che possano essere definite serie e degne di rispetto poiché considerate economicamente fruttuose. Tutto nella società contemporanea converge verso l'esclusione della sfera “estetica” dall'esperienza quotidiana, o meglio converge verso il relegamento dell'estetico nella categoria dell'evasione e del divertimento. Laddove per evasione si intende il liberarsi dalle responsabilità dei ruoli imposti dalla società postindustriale, e come divertimento il mettere in pausa la vita “vera” per uscire fuori di sé, non per incontrare l’alterità o l’ulteriorità, ma solo per sbarazzarsi di se stessi per un intervallo di tempo controllato e controllabile. La necessità della prospettiva deweyana risulta tanto più evidente oggi di quanto non lo fosse in passato. Nella nostra epoca, in un mondopost-industriale governato dalla finanza internazionale, teso alla monetizzazione del tempo libero e che vuole imbrigliare l'immaginazione nei parchi-gioco a tema e nelle realtà virtuali dei videogiochi interattivi, l'uomo deve riconoscere, attraverso l'esperienza, la possibilità di accedere ad un mondo complesso, un mondo fatto di natura, ambienti sensibili, uomini e comunità di uomini, tradizioni, linguaggi e arte. La prospettiva deweyana lega a doppio filo l'esperienza con la conoscenza, attribuendo uguale importanza ad entrambe e rompendo la consequenzialità dell'una dall'altra. Non c'è un'esperienza che conduca alla conoscenza di un dato sapere, esiste l'esperienza come conoscenza del mondo, l'esperienza come sapere attivo e diretto. È per questo che proprio oggi il modello deweyano appare davvero attuale e mostra il suo portato rivoluzionario. Analizzando l’epoca contemporanea, quando Brezinka, ad esempio, lamenta il fatto che lo sviluppo e la diffusione del sapere scientifico abbiano indebolito la mentalità mitico-religiosa52, di certo lo studioso sta facendo soprattutto riferimento alla messa da parte, dell'uomo contemporaneo dei valori della fede e della religione ma, allargando il campo, è il principio stesso dell'impoverimento culturale ad essere davvero importante e degno di attenzione. Quando un sapere prevale sugli altri non è solo il sapere minoritario a risultarne indebolito, è tutto il patrimonio culturale nel suo assieme a risultarne degradato, è lo sbilanciamento a rappresentare il vero pericolo, poiché viene messo in dubbio il valore stesso dell'esperienza. Se non esiste 52W. Brezinka: Educazione e pedagogia in tempi di cambiamento culturale, Vita e Pensiero, Milano, 2011, p. 21. 38 un'esperienza infallibile (quella empirica) rispetto un'esperienza fallibile (quella metafisica) ma esiste l'esperienza che è al tempo stesso “il lavoro del campo, la semina, il raccolto e la mietitura”, come anche “colui che pianta e raccoglie, che lavora e gioisce, spera, teme, fa progetti, ricorre alla magia o alla chimica per aiuto”, il mondo descritto da Dewey è quello dell'equilibrio dei saperi, della libertà nell'esercitarli, della gioia nel goderne. L'uomo non può essere considerato un contenitore di conoscenze selezionate sulla base della loro verificabilità, in questo caso la sua vita apparirebbe nient'altro che una mera successione di eventi naturali e materiali, comprensibili sì, ma anche parziali, perché l'uomo non è solo corpo, biologia, fisiologia, è fantasia, immaginazione, ricerca dell'assoluto e di ulteriorità. Accanto ai bisogni materiali, necessari per la sopravvivenza del corpo, l'uomo ha bisogni emotivi da soddisfare, fra questi c'è anche quello di abbandonarsi all'immaginazione, di scoprire – sempre attraverso l'esperienza – l'irrazionale e la magia del mondo. Persa la dimensione rituale e religiosa, l'arte è una delle esperienze, forse fra tutte, più complete e appaganti: «[...] Ma qualunque sia il sentiero che segue l'opera d'arte, proprio perché è un'esperienza piena e intensa essa tiene in vita la capacità di fare esperienza del mondo comune nella sua pienezza. E lo fa riducendo i materiali grezzi di quell'esperienza a una materia ordinata attraverso una forma»53. L'esperienza dell'arte è quella che tiene conto della complessità dell'uomo e delle molte vie che esso può percorrere, senza doverne necessariamente escludere qualcuna, per formare se stesso, per formarsi come uomo. A quest'esperienza appartengono i prodotti della fantasia, il ragionamento intellettuale, l'immaginazione e i progetti sul futuro come anche i legami affettivi, reali o auspicati. Così sintetizza Gennari l’eccezionale struttura dell’estetica deweyana: «C'è dunque in Dewey un profondo riguardo per l'educazione estetica colta come componente inseparabile dell'uomo integrale: di un uomo ragionevole che non ha smarrito la prospettiva dell'immaginario»54. Ragionevole ma ancora capace di immaginazione è l'uomo di Dewey, l'uomo che fa dell'esperienza il suo “modo” di stare al mondo, di abitare il mondo. Questo uomo descritto dal filosofo americano ha molti punti di contatto con il buon cittadino auspicato da Martha Nussbaum, laddove «Diventare un buon cittadino significa conoscere una gran quantità di dati e saper padroneggiare le tecniche del ragionamento. Ma significa anche qualcosa di più. Significa imparare ad essere capaci di amare e di usare l'immaginazione. Certo è 53J. Dewey, Arte come esperienza, p. 144. 54M. Gennari, L'educazione estetica, Bompiani, Milano 2007 (1994), p. 158. 39 sempre possibile scegliere di continuare a formare cittadini che abbiano difficoltà a comprendere persone diverse da loro e la cui immaginazione raramente si spinga al di là del loro ambiente particolare. È fin troppo facile che l'immaginazione morale stringa i suoi limiti in questo modo» 55. È anche questo prezioso suggerimento di “usare l'immaginazione” che è possibile innestare un collegamento proficuo fra pedagogia e arte e soprattutto fra pedagogia e teatro, includendo l'eventualità e, dove è possibile, incoraggiando l'uomo – il soggetto umano di qualsiasi età – ad osare immaginare/rsi oltre l'ambiente, le situazioni, i contesti in cui è abituato a vivere per aprire/rsi a nuovi orizzonti di senso, nuove ragioni e ragionamenti culturali ed emozionali, nuovi comportamenti ed atteggiamenti mentali e sentimentali. A cosa può servire questo bellissimo esercizio della conoscenza che sollecita il sogno ad occhi aperti? E nel nostro caso sollecita, forse, più che altro l'apertura verso un mondo fittizio fatto di cartapesta e di tavole di legno? Dove risiede la maggiore capacità “formativa” del teatro rispetto alle altre arti, rispetto alle altre esperienze artistiche e culturali, rispetto alla vita “vera”? Perché il teatro come strumento prediletto per aiutare ad “usare l'immaginazione” dell'uomo e del buon cittadino contemporaneo? Perché il teatro è l’arte dell’effimero, di ciò che non rimane se non come esperienza umana, è arte che aiuta a vivere “nuovamente” esperienze comuni e straordinarie dello stare al mondo, arte che attua il gioco del “come se”, portando l’uomo a sperimentare direttamente e con gli altri ciò che fino a quel momento ha potuto solo “immaginare”. In nuce, nella ricerca filosofica e pedagogica deweyana, ci sono le condizioni per includere e ragionare sul teatro come arte ideale per l’esperienza pedagogica. Perché quella di Dewey è una prospettiva aperta e includente, rivolta al futuro, ma con profonde radici nel passato, attenta ad una storia che è insieme la “nostra” storia e quella dell'umanità e che appartiene al presente in tante forme. Di queste forme la più “bella” e piena è proprio l'arte, a cui Dewey guarda con atteggiamento naturale, senza troppo ossequio, abbattendo ogni separazione e distanza. Perché non si sta davanti all'arte, allievi ignoranti al suo cospetto, ma si fa esperienza dell'arte, in un rapporto fatto di partecipazione e comunicazione. Per Dewey «[...] la vita è un processo continuo; ha continuità perché è un processo sempre rinnovato in cui si agisce sull'ambiente e si subisce l'azione dell'ambiente, e insieme vengono a istituirsi relazioni fra ciò che si fa e ciò che si 55M. C. Nussbaum, op. cit., p. 29. 40 subisce. Pertanto l'esperienza è necessariamente emulativa e il suo contenuto acquisisce espressività grazie a questa continuità cumulativa. Il mondo di cui abbiamo fatto esperienza diventa una parte integrante del sé che agisce e patisce in un'esperienza ulteriore»56. In quest'ottica si delinea quel concetto complessivo, affrontato a più riprese da Spadafora, per cui nella visione pedagogica di Dewey tutto, attraverso l'esperienza, possa partecipare della formazione dell'uomo, ovvero tutto possa educare 57. È nell'/sull'esperienza che si gioca la partita più importante, l'esperienza di matrice pedagogica e quella di matrice estetica possono trovare nell'esperienza teatrale – intesa in senso ampio – nuove opportunità di progettazione e declinazione all'interno del paradigma formativo; possono arricchire tale paradigma di una maggiore attenzione ed apertura nei confronti delle arti (arti visive, musicali ecc.) che sono comprese nel teatro e possono rendere più accessibile, diversificato, completo il rapporto dell'uomo con il patrimonio culturale (proprio e altrui), rafforzando l'amore e la conoscenza nei confronti della propria cultura è anche più facile aprirsi al confronto con le culture altre e a rispettarle nella condivisione di alcuni valori basilari. 56J. Dewey, op. cit., p. 119. 57«È probabile che l’idea di Dewey, poco compresa e forse poco sviluppata dallo stesso filosofo, secondo cui l’educazione è un fenomeno naturale al pari del nutrirsi e del riprodursi dell’essere umano, possa essere considerata uno dei motivi che spiegherebbero questa presenza implicita ed esplicita della dimensione pedagogica nel pensiero filosofico e religioso, poiché le problematiche educative sono consustanziali alla vita umana e, quindi, il più delle volte implicite in tutte le dimensioni dell’agire umano» (G. Spadafora, “Verso l’emancipazione. Una pedagogia critica per la democrazia”, in G. Spadafora, a cura, Verso l’emancipazione, Carocci, Roma 2010, p. 22). 41 1.3. La relazione di cura e l’esperienza spettatoriale Fra i vari paradigmi che fondano e strutturano la pedagogia, si è scelto di privilegiare quello della cura. Per Rita Fadda «[…] ciò che fa la differenza tra la cura e altri approcci pedagogici, […], è che essa si rivolge all’uomo, a ogni singolo uomo, mai a un ideale astratto; lo chiama per nome e consente, in prima istanza, solo l’accoglienza o il rifiuto. Cura, dunque, il cui primo atto, quello fondamentale, è l’accoglienza incondizionata e il riconoscimento dell’alterità, della differenza irriducibile, che ciascun essere umano rappresenta, nel suo diritto originario a non essere fatto oggetto né di assimilazione, né di appropriazione da parte di nessuna istanza e quindi tutela e salvaguardia di questa alterità»58. Questo approccio è quello che consente di focalizzare l’attenzione non tanto e non solo fra gli elementi della relazione pedagogica, il maestro e l’allievo, l’io e l’altro, ma sulla dinamica che rende possibile questa relazione, che la anima e che, infine, rende questa relazione “formativa”. La centralità della relazione pedagogica – conseguenza diretta dell'individuare la “formazione” come tratto distintivo e caratterizzante della pedagogia – conduce ad un confronto con la cosiddetta “relazione teatrale”. Quest'ultima, definita dalla teoria del teatro, in particolare dalla semiotica del teatro della seconda metà del '900, ed identificata come tratto distintivo e caratterizzante del teatro inteso come principale arte performativa (in opposizione alle arti della riproducibilità tecnica dell'era moderna e postmoderna), mostra molti punti di contatto con uno dei principali strumenti della pedagogia di sempre. È attraverso la relazione con l'altro che l'uomo forma se stesso, si confronta, riconosce l'altro da sé e quindi riconosce se stesso, perché «La conoscenza comincia da “se-stessi”, che sono per l'appunto due termini, perché comunque la conoscenza di sé nasce sempre dall'incontro con l'altro» 59. All'esperienza dell'uomo nella vita quotidiana, dell'uomo nel “mondo”, appartiene, a tutti gli effetti, l'esperienza spettatoriale. Sin dall'antichità l'uomo ha frequentato l'arte, come esperienza dello spirito, anelito alla bellezza, anche tensione all'etica e alla fede. Il teatro, fra le arti, pur mettendo da parte l'esperienza eccezionale dell'antica Grecia con la tragedia classica, è sempre stata un catalizzatore straordinario 58R. Fadda (a cura), L’io nell’altro. Sguardi sulla formazione del soggetto, Carocci, Roma 2007, p. 15. 59I. Gamelli, Sensibili al corpo. I gesti della formazione e della cura, Meltemi, Roma 2005, p. 17. 42 per l'uomo all'interno della comunità a cui appartiene, soprattutto fra l'Ottocento e il Novecento e fino alla nascita del cinematografo; sebbene in questo caso si voglia mantenere un'accezione ampia del termine, intendendo ancora fino all'inizio del '900 lo spettacolo dal vivo nelle sue più diverse e varie forme, un'accezione il più possibile inclusiva ed estensiva del termine. L'uomo al cospetto dell'arte performativa va considerato soprattutto calato nello specifico luogo ad essa deputato: il teatro. In particolare dobbiamo concentrarci sull'oggi, che cosa possa significare nella contemporaneità ipertecnologica, per i bambini, così come per gli adulti cresciuti con il televisore in casa e ormai avvezzi all'uso delle tecnologie digitali, entrare in un teatro per assistere ad uno spettacolo di qualsiasi natura esso sia. Il teatro come ambiente – prima ancora che come ambiente educativo – offre un'occasione unica all'uomo contemporaneo, l'occasione dell'isolamento e l'occasione di fare comunità al tempo stesso. A teatro l'uomo è solo, senza i suoi riferimenti casalinghi o lavorativi, per un tempo che non può controllare personalmente, ma che altri hanno imposto ai suoi ritmi quotidiani. Certo lo spettatore può decidere di abbandonare il teatro a spettacolo iniziato, in qualsiasi momento, ma significa appunto “sottrarsi” ad un tempo dato, “abbandonare” uno spazio definito. Ma prima ancora che lo spettacolo inizi, prima ancora di essere spettatore, l'uomo entrando a teatro fa esperienza di gestione del tempo e dello spazio particolare, oggi più preziosa che mai. L'esperienza della “sospensione” dalle attività quotidiane, siano esse inerenti alla sfera degli affetti, dell'attività lavorativa, scolastica o di altro tipo. Si attua quindi una sorta di sospensione spazio-temporale, una sospensione che nell'antichità era distinzione del “tempo del divertimento” dal “tempo del lavoro” e che oggi prende sfumature diverse poiché i giovani in particolare sono sempre più abituati al multitasking, ne sono anche assuefatti, per cui anche il divertimento – come può essere una pizza con gli amici, un concerto di musica pop o rock, la visione della partita di calcio piuttosto che di un film o di un qualsiasi altro prodotto audiovisivo (anche didattico) – oltre che le attività imposte come ad esempio molti lavori propri della postmodernità (in particolare quelli di tipo professionistico o svolti nel settore privato o anche a domicilio) o anche lo svolgimento dei compiti a casa sono sempre più attività che si possono compiere stando immersi in un ambiente tecnologico, caratterizzati infine dalla connessione perpetua o comunque da elementi che possono distrarre e che non consentono la concentrazione piena, che non permettono di ritrovarsi “soli” con se stessi nell'assistere ad un evento. 43 I bambini, entrando a teatro, scoprono ad esempio che si tratta di un luogo in cui l'uso del cellulare è vietato (come in chiesa, a scuola, in aereo, in alcuni reparti dell'ospedale e in pochi, pochissimi, altri luoghi), in cui si deve fare silenzio, come al cinema, ma che a differenza del cinema chi recita è in carne ed ossa e, se viene disturbato dal chiacchiericcio può anche intervenire direttamente. Chi sta sul palco compie un “lavoro”, una fatica fisica e mentale e la compie per chi è in platea, non in generale per un “pubblico” ma nello specifico per ognuno dei singoli “spettatori” seduti in sala. Perché «per il teatro e l'educazione è comune la necessità di poter disporre di uno spazio e di un tempo “ritualizzati”, segnati dal corpo, di una sospensione della vita altrimenti appiattita sull'azione sterile e ripetitiva» 60. L'educazione al teatro è già educazione “del” teatro, l'invito a mettere in discussione i propri comportamenti quotidiani, la proposta a predisporsi in un atteggiamento ricettivo, aperto all'ascolto, disponibile all'incontro. Dove si può incontrare la pedagogia con la cultura teatrale? Nel teatro considerato quindi come luogo anche “fisico” di formazione ed educazione. «Niente perciò più eloquente e commovente altresì, per chi rifletta e guardi con occhio pensoso, dello spettacolo che offre un vasto teatro o una grande sala musicale, dove una moltitudine d'uomini d'ogni età, sesso e condizione, tralasciata la fatica quotidiana, i pensieri e i passatempi abituali, obliate le cure personali, si raccoglie tutta in un sentimento solo: in quello che l'artista ha espresso nella tragedia, nel canto, nella sinfonia; e quella folla di anime tutte diverse sbocca, si fonde e vibra nell'alta nota appassionata del cantante o nel brivido di una corda di violino. Costoro, che hanno ciascuno la sua vita e il suo mondo, le sue idee e le sue passioni, avvertono tutti nel fondo dell'anima un comune bisogno, e non lo possono soddisfare se non svestendosi di tutte le loro particolari passioni e idee, e quasi traendo dalla guaina del mondo, in cui si svolge per ciascun d'essi la vita quotidiana, un'anima, che è in tutti identica, l'anima umana, che è quella che crea e vede le cose belle»61. Lo spettatore entrando a teatro, prima ancora che lo spettacolo abbia inizio, riconosce, attraverso una serie di “rituali” il proprio ruolo, e di conseguenza attiva una serie di comportamenti oltre a porsi in una disposizione d'animo specifica, insomma, l'uomo andando a teatro scegli di rivestire il ruolo di/indossare i panni dello spettatore. Il teatro è un ambiente educativo molto particolare, che prevede una serie di “rituali” che ne caratterizzano e regolano l'accesso, l'organizzazione spaziale, temporale e 60I. Gamelli, Sensibili al corpo, op. cit., p. 99. 61 G.Gentile, La filosofia dell'arte, Firenze, Sansoni, 1975, p. 8-9. 44 comportamentale, che strutturano cinesica e prossemica sia di chi è sulla scena sia di chi è invece in platea. Tali rituali influiscono sul comportamento e gli atteggiamenti degli spettatori, ne condizionano, predisponendo all'osservazione e all'ascolto, sensibilità, attenzione, emotività. I rituali del teatro comprendono tutte quelle “convenzioni” che consentono all'uomo di cultura occidentale di individuare e riconoscere l'oggetto teatro – nelle sue caratteristiche materiali, generali e di comunicazione – e di conseguenza di attuare i comportamenti che nel dato contesto vengono considerati adeguati, appropriati ed opportuni. Spiega Peter Brook che «Il sipario è stato il simbolo di tutta una scuola di teatro: il sipario rosso che si apriva, le luci della ribalta, l'idea che eravamo tornati a essere bambini, la nostalgia, la magia erano tutt'uno. Gordon Craig per tutta la vita ha inveito contro il teatro d'illusione, ma i suoi ricordi più cari erano gli alberi e le foreste dipinti e i suoi occhi si illuminavano quando descriveva gli effetti trompe l'oeil. Ma venne il giorno in cui quel sipario rosso non nascose più alcuna sorpresa, non volemmo o non avvertimmo più il bisogno di tornare a essere bambini e la ruvida magia cedette a un più freddo buonsenso. Allora il sipario fu smantellato e le luci della ribalta furono eliminate»62. Questo esempio che prende in considerazione il sipario, elemento che attiva una simbologia ricca e complessa, e il palcoscenico, buio in sala e luci della ribalta, riprende alcuni elementi materiali del teatro che partecipano, anch'essi e fortemente, dei rituali del teatro. Elementi come il sipario, ma anche i costumi di scena, ecc. ecc., la particolare struttura dell'edificio teatrale pensata per creare una divisione fra chi guarda e chi è visto, fra chi “recita” e chi assiste alla “recita”, per arrivare all'apparato di fruizione dello spettacolo in sé (orario, luogo, botteghino, biglietto, intervallo) hanno contribuito ha creare un meccanismo di riconoscimento del teatro legato alla fruizione, lo hanno dapprima legittimato come arte rafforzando il concetto di una “installazione” perfetta, ma hanno anche attirato gli strali di chi ha lottato per un'arte teatrale libera/liberata da quelle convenzioni che hanno finito per identificarla sempre più con l'etichetta (con sfumatura dispregiativa) di “teatro borghese”. Il teatro di ricerca, il teatro politico, il teatro sociale e/o popolare hanno con forza di pensiero e d'azione contestato, messo in crisi, ripensato questi rituali. Ad esempio Augusto Boal ne mostra con disincanto gli inganni e il ruolo “costrittivo”, da dispositivo del potere, che essi hanno giocato, soprattutto sul meccanismo attore62 P. Brook, Lo spazio vuoto, Bulzoni Editore, Roma 1998, p. 55. 45 spettatore: «Il fenomeno teatrale, quando avviene liberamente, sprigiona una straordinaria quantità di energia; ma i “rituali” cui è sottomesso il fenomeno vanno contro questa energia e la riducono. Quali sono i rituali del teatro? Il primo e fondamentale rituale è costituito dal fatto che ognuno già conosce il suo ruolo, gli spettatori sanno che sono spettatori e gli attori sanno che sono attori. È già prestabilito chi deve recitare, e chi deve guardare la rappresentazione. Esiste perciò un muro, un impedimento. Si stanno facendo e si sono fatti numerosi tentativi per abbattere questo muro. Troviamo ad esempio spettacoli in cui si invita il pubblico a salire sul palcoscenico e ballare con gli attori e a volte il pubblico accetta e balla con gli attori, ma il muro dei rituali resta tuttavia sempre in piedi: gli spettatori sanno bene che chi comanda sono gli attori, e che saranno sempre loro che diranno fino a quando dovranno ballare e quando dovranno andarsene»63. Ma se per Boal i vecchi rituali del teatro sono qualcosa da mettere in discussione, da contestare e infine da eliminare, qualcosa che ha contribuito ad una standardizzazione del teatro fino al punto da farlo divenire un dispositivo di quel potere che pure voleva mettere in discussione, si pensi a questo proposito all'eccezionale esperienza della tragedia classica, oggi il quadro socio-politico è talmente mutato che anche le esperienze del teatro popolare e del teatro sociale, come anche la portata rivoluzionaria e innovativa dell'animazione teatrale 64, sono state introiettate in quello stesso sistema, ne sono diventate parte integrante, ed hanno esaurito la loro forza dirompente e dissacratoria. Non esiste più una tipologia di “teatro rivoluzionario” con delle caratteristiche precise, né un “teatro di ricerca” davvero in opposizione ad un “teatro di tradizione”. L'epoca postmoderna ci restituisce un panorama complesso, frammentario e liquido, in cui le etichette sono inutili quando non fuorvianti. Il teatro ha conosciuto una crisi tale, così come la società contemporanea, in cui anche recarsi a teatro per vedere “Arlecchino servitore di due padroni” diventa un atto di resistenza intellettuale significativo. Per quel che riguarda la formazione dell'uomo contemporaneo non è solo la presenza attiva del/nel teatro a divenire esperienza pedagogica, ma anche quella “passiva” da semplice spettatore consapevole, per quanto “intrappolato” del suo ruolo, e vincolato da quei rituali che abbiamo summenzionato, perché il teatro tutto e lo spettacolo in particolare (come e forse più della letteratura, come e forse più dei vecchi 63A. Boal, Il teatro degli oppressi. Teoria e tecnica del teatro, Edizioni la meridiana, Molfetta (BA), 2011, p. 93. 64Cfr. P. Giacché, Le bugie della scuola e quelle del teatro, in Artò. Rivista di cultura e politica delle arti sceniche, numero 4 – gennaio 2000, pp. 42-45. 46 media audio visuali) è un formidabile produttore di immaginario. Esercita tutt'oggi un certo fascino il teatro, molti giovani, soprattutto adolescenti, vi si avvicinano pur non avendo, per tradizione culturale e familiare, l'abitudine a frequentarlo. Lo immaginano fondato su quei rituali da cui il teatro della modernità ha giustamente preso le distanze, lo immaginano fatto di palcoscenico polveroso, declamazione, trucco e parrucco, popolato da Giulietta affacciate al balcone e da Amleto impazziti con il teschio in mano: “Essere o non essere” è la battuta che i ragazzi delle scuole superiori, in prima istanza, collegano al teatro. La maggior parte di loro arriva alla maturità senza aver mai fatto esperienza del teatro né come luogo di fruizione dell'arte, né quindi come ambiente educativo. Restano in minoranza quelli che da bambini abbiano conosciuto il teatro e abbiano condiviso la magia dell'essere spettatori con i propri genitori o con altre figure adulte dell'ambito familiare, partecipando con loro della condivisione dell'esperienza estetica e, di conseguenza, partecipando ad un processo educativo indiretto. È invece molto più facile che quegli stessi bambini abbiano partecipato a progetti scolastici di “educazione teatrale” piuttosto che si siano recati, accompagnati dagli insegnanti, ad assistere a delle rappresentazioni teatrali in luoghi più o meno deputati (teatri, auditorium, sale parrocchiali, ecc), quando le scuole non abbiano direttamente ospitato in androni o aule delle rappresentazioni presentate come curriculari o extracurricolari. Nell'ambito di questa ricerca, ma in generale negli studi di pedagogia, occorre tenere presente il ruolo che può giocare l'immaginario culturale del soggetto all'interno del suo processo formativo. I cosiddetti “consumi culturali”, cari alla sociologia e da essa indagati e analizzati con più o meno attenzione e approfondimento, pur rimanendo efficaci riferimenti quantitativi e statistici, non rendono conto dell'esperienza estetica in cui può imbattersi il bambino, o anche l'adulto, in maniera unica e irripetibile e soprattutto, in riferimento al teatro, in un contesto non deputato e in un'occasione saltuaria65. Il teatro può agire da educatore collettivo dell'immaginario. Non possiede chiaramente, non può possedere, né la forza pervasiva che possiedono i mass media né l'immediatezza delle arti che viaggiano attraverso il digitale (la musica su tutti e i nuovi prodotti audiovisivi seriali) né l'attrattiva solida, radicata e radicale, rassicurante e inattaccabile della letteratura; ma il teatro permette, attraverso l'esperienza relazionale, 65Esiste tutto un settore del teatro, molto eterogeneo, caratterizzato da progettualità, percorsi, modalità, poetiche e finalità diverse, ora più orientato sul discorso politico (Living Theatre), ora su quello della memoria e sulla narrazione (Marco Paolini, Ascanio Celestini), ora sulla dimensione della condivisione, della convivialità, della festa (Teatro delle Ariette). 47 unica, che consente di agganciare l'uomo attraverso lo spettacolo “dal vivo”, una fruizione meno continuativa, più episodica, non invasiva (poiché come spettatori possiamo sempre scegliere di sottrarci alla relazione) e soprattutto preziosa in quanto irripetibile che può segnare emotivamente in maniera più profonda rispetto ad altre esperienze di carattere pure estetico, proprio per il suo carattere sporadico ed “epifanico”. Non tutti – bambini, adolescenti e adulti – possiedono le capacità espressive per poter rielaborare in forma verbale, attraverso ad esempio la scrittura, la descrizione dell'esperienza estetica, ma occorre dire forse emotiva e sensibile, scaturita da una rappresentazione teatrale o da un evento, anche estemporaneo, di spettacolo dal vivo (danza, musica, circo, burattini, teatro di strada, parata, giocolerie ecc). Certo è che l'evento in cui l'uomo si ritrova, anche in maniera frettolosa e distratta, davanti ad un “altro uomo” che compie un'azione di cui ha difficoltà a comprendere immediatamente il significato, che non gli consente di riconoscere immediatamente che cosa stia facendo, ad esempio: quell'uomo sta camminando, sta guardando una vetrina, sta mangiando un gelato, sta chiedendo l'elemosina. Ma che ci mette davanti ad una situazione di non immediata riconoscibilità: quell'uomo è vestito da pinguino, indossa una maschera, lancia in aria delle palline o, come ad esempio nel progetto Mercuzio non vuole morire di Armando Punzo, delle persone portano tutte una valigia con sé anche se non sono né in stazione, né in aeroporto e compiono delle azioni “da viaggiatori” pur non dovendo partire. Non è detto che l'esperienza teatrale debba avvenire a teatro, né tantomeno che debba avvenire con spettacoli riconosciuti come capolavori annoverati nella Storia del teatro. L'esperienza spettatoriale, per come stiamo cercando di definirla in questo contesto, è quella che attua un cambiamento nell'uomo che nella relazione teatrale definiamo spettatore, mentre nella relazione pedagogica definiamo l'altro. Un cambiamento che può essere positivo o negativo, che può rivelarsi proficuo oppure arido, che può essere spiazzante o normalizzante, un cambiamento, insomma, che in quanto tale, al di là dell'intensità emozionale che può scatenare, non scivola via lasciando indifferenti. L'imbattersi dell'uomo nel teatro, ovvero nel rivelarsi del teatro come situazione inconsueta, anomala, strana, di sovvertimento oppure semplicemente “inutile” in quanto costituita da un'azione gratuita e superflua, che non ha finalità produttive, e che può essere rappresentata anche da un unico gesto – bello, brutto, strano non importa – 48 valido solo per se stesso, un gesto non finalizzato a contribuire ad un processo teso allo sviluppo economico della società e/o all'arricchimento di beni materiali del singolo, un gesto in cui i meccanismi di normalizzazione, standardizzazione, livellamento e di omologazione imposti più o meno occultamente dai poteri forti (mass-media, economia, politica, industria, cultura dominante, ecc.) appaiono sovvertiti, evidenziati, smascherati, messi in discussione o, semplicemente “esplosi”, deflagrati nel loro stesso essere presentati nella loro evidenza vacua; ebbene, l'imbattersi dell'uomo in un teatro siffatto avvicina questa sua esperienza alla dimensione della “festa”, che è esperienza formativa prima che estetica, esperienza di crescita e di consolidamento del proprio essere nel rapporto con e nel riconoscimento degli altri. Spiega Cambi che la festa, considerata nel suo ruolo formativo «Ha un ruolo nella costruzione dell'io, come pure nell'organizzazione della vita sociale. Pertanto svolge una funzione di orientamento nell'immaginario, nutre la sensibilità di soggetti e comunità, elabora forme sociali di esistenza, di vita sociale e sollecita, nei soggetti stessi, un'esperienza straordinaria che si incrocia con il gioco e la felicità: e di essi porta i segni e produce proiezione e attesa» 66. Infatti, i poeti e gli artisti, che possiedono gli strumenti più adeguati per “descrivere” la propria esperienza spettatoriale e così renderne partecipi un numero ampio di persone che in questa esperienza possano eventualmente riconoscere la propria, ricordano e pongono come fondative della loro poetica esperienze vissute da bambini o comunque in periodi “giovanili” che spesso poco hanno a che fare dal punto di vista estetico e stilistico, con le caratteristiche della propria arte. Pensiamo ad esempio al teatro di cui si era nutrito Stanislawskij, o al ruolo “formativo” giocato da D'Origlia Palmi per Carmelo Bene, e si potrebbe andare avanti con esempi all'infinito... Ciò che in questa sede si vuole sottolineare è lo “shock” estetico, la partecipazione attiva che l'esperienza spettatoriale è in grado di scatenare nello spettatore, più di altre arti proprio per il fatto di innescare un meccanismo di riconoscimento/disconoscimento per cui chi guarda sa che sta guardando un uomo esattamente come lui, ma diverso per quello che fa, per come lo fa e perché quello che fa non ha una “utilità” finalizzata alla produzione di qualcosa che non sia creare un collegamento, una comunicazione con l'altro. Lo spettatore comprende l'arte dell'attore nel momento in cui comprende che anch'esso è artefice di quell'arte, la sta rendendo necessaria attraverso il suo esserci come presenza relazionale, gli sta consentendo di 66F. Cambi, “Festa e formazione. Sincronia, diacronia, laicizzazione”, in F. Cambi, op. cit., p. 219. 49 esistere. Un'esperienza d'arte che possa creare un coinvolgimento di questo tipo, può diventare un eccezionale nutrimento d'immaginario, dare un contributo unico, un contributo in cui l'uomo non è semplice fruitore come accade nelle esperienze d'arte che concernono la letteratura e la poesia, o le arti plastiche e visive, un'esperienza che potrebbe essere contigua con la particolare fruizione interattiva dei media digitali, se essi non si fossero sviluppati principalmente nella direzione dell'intrattenimento e del passatempo, relegando le arti audiovisuali, digitali ed interattive, ad una nicchia esperenziale riservata a musei e luoghi produttivi e fruitivi alternativi, appannaggio quasi esclusivo delle metropoli occidentali. Accade che lo spettatore, a teatro, sia posto in una condizione particolare: «Il teatro è un'arena in cui può prodursi un confronto vivo. La concentrazione di un grande numero di persone crea un'intensità unica che consente di isolare e di percepire con maggiore chiarezza forze che hanno sempre in azione e che regolano la vita quotidiana di ogni individuo»67. Con queste parole Brook sottolinea quindi non solo la funzione dello spettatore come “fondativa” dell'esistenza stessa del teatro, ma infonde di valore proprio la stessa condizione degli spettatori di “fruire insieme”, di partecipare ad un'esperienza condivisa. Il teatro, per sua stessa struttura e per le modalità fruitive che impone allo spettatore – anche e soprattutto l'abusato e vituperato teatro all'italiana – mette lo spettatore in una dimensione di “ascolto”, lo ricaccia nel buio del ventre materno, lo predispone ad affinare tutti i sensi e lo immerge in una situazione paradossale e unica, quella in cui si è soli nell'instaurare le relazione comunicativa con l'attore in scena (o comunque con ciò che sul palcoscenico accade) nel mentre la si condivide con l'essere soli di altre persone. Inoltre – e questo è uno degli aspetti più interessanti della fruizione teatrale e dei suoi risvolti pedagogici – questa doppia relazione umana che si crea con l'altro sulla scena e con l'altro che ci sta accanto nella sua poltroncina, è una relazione che impedisce l'utilizzo del linguaggio verbale. È comportamento corretto a teatro non rispondere verbalmente alle sollecitazioni che provengono dal palcoscenico come anche a quelle del nostro vicino di posto (sia esso un conoscente o sia un estraneo). Questo azzeramento del linguaggio verbale in cui viene posto lo spettatore favorisce l'ascolto, ma anche acutizza la relazione corporea 67 P. Brook, Lo spazio vuoto, Bulzoni Editore, Roma 1998, p. 108. 50 e sensoriale dell'io con l'altro, e pone eccezionale cura nella riscoperta di una dimensione “spaziale” e del “pensarsi come corpo che ascolta”. In particolare, un ritardo dell'inizio dello spettacolo, un inconveniente di qualsiasi tipo sul palcoscenico, o una distrazione dovuta a noia o ad altro in platea, costringono lo spettatore a pensare – per impegnare una piccola porzione di tempo che può apparire lunghissima – i pensieri più disparati e a “pensarsi” come corpo in attesa che qualcosa accada sotto un occhio impietoso che guarda e che è il proprio, ovvero pensarsi come vedente visto, come guardante guardato. Questa particolare condizione apre molti interrogativi e connota di infinite sfumature l'esperienza spettatoriale, mostra in tutta la sua forza cosa possa significare, oggi più che mai, “andare a teatro”, usare il proprio tempo per incontrare l'arte in un luogo dato e in un tempo dato: scegliere di essere spettatori. Peter Brook così rievoca una sua esperienza da spettatore in una soffitta ad Amburgo: «Fummo rapiti da un teatro vivente. Rapiti. Che cosa significa? Non saprei. So soltanto che quelle parole e quel tono di voce dolce e insieme serio rievocarono in tutti noi un qualcosa che arrivava chissà da dove. Eravamo ascoltatori bambini attenti al racconto di una favola della buona notte ma anche adulti perfettamente consapevoli di tutto quello che stava accadendo»68. Qui Brook descrive una sorta di stato dissociato in cui si è “dentro” all'esclusiva relazione “teatrale” instaurata con la scena, ma anche dentro ad una relazione che potremmo definire di “comunità” in cui si riconosce, con gli altri spettatori, come membro “adulto” e “consapevole” che sta semplicemente assistendo ad uno spettacolo in una soffitta di Amburgo. È lo svelamento di un gioco delicato fatto di distanze e di posizionamenti, un gioco che il teatro è da sempre in grado di attivare proprio perché privilegia, nella sua fruizione, aspetti gestuali, relazionali ed emozionali che altri tipi d'arte non attivano. Fra questi sicuramente la pratica dell'ascolto intersoggettivo e il “posizionamento” meritano un adeguato approfondimento da parte della pedagogia, poiché molto possono dire del comportamento umano in ambienti educativi e molto sulle relazioni fra l'uomo e l'alterità. Ivano Gamelli, interrogandosi sul gesto materno e sulla “rotondità” delle traiettorie possibili nelle relazioni umane, sul privilegiare comunicazioni non verbali né unidirezionali, spiega: «L'indagine sul mistero della relazione umana, in particolar modo di quella complessa e non meramente verbale della nostra vita individuale, attraverso un approccio scientifico di stampo sperimentale ha aperto la strada alla 68 P. Brook, Lo spazio vuoto, Bulzoni Editore, Roma 1998, p. 89. 51 possibilità di interrogarsi sulla validità di metodi più ravvicinati, coinvolgenti l'osservatore, aperti e aderenti al contesto vivo nel quale i fenomeni si manifestano. Come una fotografia appare completamente sfocata se troppo ravvicinata, non vi può essere conoscenza dell'altro nel caso in cui si finisca per perdersi e con-fondersi con chi ci sta di fronte; all'opposto, ma allo stesso modo, nulla si può comprendere se ci si mantiene troppo distanti, fino a perdere ogni contatto» 69. Né troppo vicino, né troppo distante, lo spettatore a teatro è collocato, solo fra altri spettatori, nella posizione privilegiata della relazione teatrale, che è relazione con l'alterità, con sé stesso e con l'ulteriorità (dell'esperienza estetica). Fin qui si è abitato la scena all'italiana, una platea ordinata e immersa in un rassicurante buio, di fronte ad un palcoscenico illuminato. Storicamente è senz'altro il cosiddetto teatro “politico”, “civile” o “sociale”, ed oggi con dicitura più ampia il teatro “antropologico”, quello che, si è posto con maggiore attenzione la questione dello spettatore, o per lo meno è quello che lo ha fatto in maniera più esplicita. 69I. Gamelli, Sensibili al corpo. I gesti della formazione e della cura, Meltemi, Roma 2005, p. 66. 52 II CAPITOLO Il teatro come ambiente educativo Un livello basico di interrelazione fra teatro e pedagogia può scaturire dall'intendere il teatro innanzitutto come ambiente fisico e materiale in cui – prima ancora di indagarlo come luogo in cui vi si possa condividere un'esperienza formativa sia essa di natura prevalentemente estetica o pedagogica – vi si produce “comunicazione” attraverso l’azione, ed è proprio da quest’aspetto che si può avviare un suo accostamento con l’educazione. L’educazione è fondata innanzitutto sulla comunicazione, come chiarisce Laeng «Anche se abbraccia in sé molte attività, l’educazione esalta tuttavia un aspetto: quello comunicativo. Tutte le azioni educative tendono a comunicare: percezioni e pensieri, sentimenti e atteggiamenti. La comunicazione non si esaurisce nel trasferimento di contenuti informativi, ma tende pure a influenzare il comportamento e quindi a tradursi in azioni del soggetto destinatario»70. La comunicazione che il teatro ospita (in quanto arte più di altre fondata sul rapporto “dal vivo” fra l’io che guarda e l’altro che agisce) può essere implicitamente educativa, ovvero esserlo in quanto atto comunicativo fra soggetti-persona che vogliono mettersi in relazione e partecipare ad un’azione teatrale (chi come attore chi come spettatore), o esplicitamente educativa quando il contenuto dell’azione teatrale in questione è di tipo “educativo”, cioè si pone l’obiettivo aperto di educare, quindi in questo caso l’educazione interessa anche il messaggio veicolato e non è solo implicita nell’atto comunicativo di tipo teatrale. L’azione teatrale però non è automaticamente educativa solo perché sia il teatro che l’educazione condividono la comunicazione come caratteristica basica. Nella comunicazione teatrale abbiamo la presenza di molte sfumature, così come di limiti, specialmente linguistici, e ostacoli che, anche se non devono essere considerati negativamente, anzi, devono essere considerati come un’occasione preziosa di incontro e apertura, esistono e agiscono da potente filtro proprio a livello comunicativo, poiché il linguaggio teatrale, come ogni linguaggio dell’arte, necessita di interpretazione. È nell’essenza stessa dell’arte il porsi come qualcosa da decifrare, da decodificare, ed è proprio in questo importante processo “relazionale” che si articola il desiderio di 70 M. Laeng, “Educazione”, in Id. (a cura di), Enciclopedia pedagogica, La scuola, Brescia 1989, vol. III, pp. 4221-4222. 53 conoscenza dell’uomo, la sua capacità immaginativa, la sua possibilità di libertà. Il teatro si configura come un luogo anche fisico, ovvero un edificio deputato, in cui “avvengono” delle azioni e soprattutto delle persone “vengono” ad assistere a queste stesse azioni. Le azioni sono agite da qualcuno (l'attore) per qualcun'altro (lo spettatore), creando così quella che gli studi d'impronta semiotica hanno definito “relazione teatrale”71 ma soprattutto creando una comunicazione fra due soggetti-persona non fondata sulla semplice trasmissione di informazioni quanto piuttosto sulla possibilità di uno scambio interpersonale anche di tipo emotivo oltre che mentale, corporeo e aperto all’esterno. In poche parole si tratta di una relazione che interessa sia la sfera dell’interiorità come dell’alterità, contemporaneamente. Come contenitore materiale, ma anche ideale e metaforico della relazione teatrale e, in seconda istanza e in un'accezione ampia, della relazione formativa, il teatro può essere considerato un “ambiente educativo” a tutti gli effetti. Caratterizzandolo come ambiente educativo genericamente “extrascolastico” 72 il teatro concorre, in sinergia con la famiglia primariamente nei bambini e in sinergia con la comunità in adolescenti, adulti e anziani, all'educazione del soggetto in ogni fase della sua vita, partecipando a pieno titolo, ma ancora non con l'adeguata considerazione da parte degli studi di settore, alla cosiddetta lifelong learning73. In generale gli ambienti educativi extrascolastici sono caratterizzati da un diffuso policentrismo e da una serie anche di limiti ed ostacoli che ne rendono le qualità educative piuttosto sfumate o comunque frutto di un “lavoro” progressivo di scoperta e di partecipazione, un lavoro mai neutro, mai banale, mai scontato che deve compiere il soggetto-persona che vi voglia accedere, anche e soprattutto attraverso l’espressione di un desiderio di 71Cfr. M. De Marinis, Capire il teatro. Lineamenti di una nuova teatrologia, Bulzoni, Roma 2008. 72«- Educazione ed extrascuola: la continuità e la reciprocità fra mondi scolastici ed extrascolastici sono la premessa per non recare confusione nel percorso educativo del soggetto. L'extrascolastico favorisce l'interiorizzazione di saperi, conoscenze, culture ed esperienze umane che vanno al di là dei compiti sociali e educativi della scuola. Per questo, la frequentazione di ambienti quali musei, teatri, ludoteche, biblioteche, archivi, luoghi dell'associazionismo laico e religioso, centri sportivi, circoli culturali arricchiti da una opportuna “atmosfera” educativa, e non banalizzati nella routine di mode e riti effimeri o nelle prassi di educatori incompetenti, restituisce al soggetto uno spazio e un tempo della vita che saranno preziosi per la sua crescita libera, il suo sviluppo globale, la sua capacità di assumere il punto di vista dell'altro. La risorsa presente in tali policentrismo delle occasioni educative non può essere abbandonata al caso, ma va attentamente controllata dalla famiglia, dalla scuola, dalla società, dalle istituzioni statali e/o locali» (M. Gennari, Trattato di pedagogia generale, Bompiani, Milano, 2006, pp. 58-59). 73«Il paradigma dell'apprendimento permanente (lifelong learning) costituisce il concetto-cardine che l'Educazione degli adulti (EDA) ha elaborato a partire dagli anni novanta e riguarda le possibilità di apprendimento nel corso della vita, in tutte le età, nei diversi contesti e per una pluralità di soggetti nella convinzione che l'apprendere è l'attività precipua dell'essere umano e la risorsa primaria dell'agire collettivo per promuovere l'inclusione sociale e la partecipazione attiva e democratica» (D. Sarsini, “La pedagogia generale e le sue frontiere”, in F. Cambi, M. Giosi, A. Mariani, D. Sarsini (a cura), Pedagogia generale. Identità, percorsi, funzione, Carocci, Roma 2009, pp. 154-155. 54 partecipazione, un atto di volontà. La dimensione extrascolastica, percepibile non solo da bambini e ragazzi ma anche da adulti e anziani in un’accezione più ampia e generica, mette in campo il concetto di volontà, ovvero dà forma al desiderio delle persone di stare compiendo una scelta di libertà nel frequentare l’ambiente teatro. Anche le attività scolastiche di tipo teatrale vengono “offerte” e mai imposte come obbligatorie, per i fruitori di spettacoli teatrali e, soprattutto, di attività teatrali (laboratori, corsi, allestimenti di spettacoli amatoriali), è essenziale che il soggetto-persona scelga di parteciparvi liberamente. Nella fruizione distratta in cui siamo immersi, pubblico passivo di un flusso interminabile di immagini e suoni televisivi, o interattivi giocatori di infiniti livelli di play station, o utenti multitasking di social network e interfacce digitali, scegliere di andare a teatro, di fruire di uno spettacolo o di frequentare un laboratorio teatrale diventa di per sé una scelta di incontro con l’altro, l’impulso a rendersi disponibile ad una comunicazione umana. Al di là delle esigenze e delle aspettative personali, che possono essere le più diverse in quanto possono essere dettate tanto da interessi culturali come anche dal semplice fatto di accompagnare un conoscente a vedere uno spettacolo a cui non si è interessati in alcun modo, è sempre e comunque importante, ai fini pedagogici, questo passaggio della “scelta” che si verifica nel frequentare l’ambienteteatro e poi, ancora di più, nel partecipare ad un’esperienza teatrale senza alcuna forma di obbligo derivante da istituzioni scolastiche, agenzie formative, esigenze familiari, sociali o economiche. Questo passaggio relativo allo “scegliere” di andare a teatro, anche quando non è un atto di volontà consapevole, è un passaggio importante poiché ha ricadute nella specificità artistica del teatro, mette in gioco la relazione teatrale nella sua natura più intima e vera. La scelta implica un atto di responsabilità, a differenza del cinema e di altre forme di spettacolo tecnicamente riprodotte, ciò che accade sul palcoscenico a teatro accade perché lo spettatore c’è; ogni singolo spettatore ha la responsabilità della stessa presenza fisica dell’attore in scena. L’attore va in scena perché lo spettatore è in platea, senza spettatore l’attore non va in scena. In un’epoca in cui anche le famiglie comunicano sulle grandi distanze come anche da una stanza all’altra del medesimo appartamento utilizzando le tecnologie digitali, il teatro resiste come uno dei pochi luoghi in cui c’è bisogno della compresenza dal vivo per comunicare, il teatro per esistere necessita dell’esserci in un dato luogo ad una data ora, e chiede la puntualità e le porte chiuse per i ritardatari. A teatro l’attore recita per te, può sbagliare per causa tua, 55 può essere eccezionale grazie alla tua attenzione ed energia, non esiste se tu decidi di non andare a vederlo. È dall’importanza “vitale” della comunicazione teatrale che prende forma la relazione, e si sostanzia attraverso diversi livelli – poetici, estetici, morali, linguistici –, livelli che possono darsi come occasioni di comprensione o di incomunicabilità, come aperture del senso o come chiusure dell’intelletto, come superamento delle proprie conoscenze o come limiti del sapere. Tutti i diversi livelli di comunicazione in gioco rendono la relazione formativa estremamente ricca e complessa, scandiscono la fondamentale reciprocità che deve regolare ogni relazione (io/altro, attore/spettatore) e implicano una presa di coscienza e un atto di responsabilità delle parti in gioco. Dinamizzano la relazione e la avverano, sempre, al di là delle possibili ricadute (positive o negative) in ambito formativo. Questo accade con l'ambiente-teatro poiché si tratta di un ambiente in cui gli aspetti educativi e formativi pur non incarnando in partenza la finalità principale del suo esistere, essi ne possono però scaturire come conseguenza del suo darsi come comunicazione relazionale umana a vocazione artistica, o come attività artistica a vocazione relazionale umana. L’attività teatrale è generata in un alveo tradizionalmente ritenuto culturale che ne mantiene l’intenzionalità artistica, per cui è riconosciuta generalmente come attività artistica indipendentemente dalla qualità estetica che può o non può esprimere. È il presupposto riconosciuto dell’appartenenza del teatro all’arte, anche quando l’arte sparisce dalla performance e dallo spettacolo per lasciare il posto a un vuoto ripetersi di testi, formule e metodi che possono travisare la natura stessa del teatro. Non tutto il teatro è arte, esiste tutto un proliferare di forme di spettacolo dal vivo che pur venendo agite nei teatri pongono la relazione teatrale in secondo piano, ne allentano il legame di necessità ed interdipendenza che lega attore e spettatore, e si concentrano o sugli aspetti più spettacolari della messa in scena (per stupire con effetti speciali lo spettatore – che a questo punto può anche non essere in platea ma davanti ad uno schermo in HD) o sugli aspetti più divertenti (per intrattenere lo spettatore – che anche in questo caso può ridere a crepapelle sul divano di casa propria). Le forme di spettacolo concepite come “dal vivo” ma che non puntano su una dimensione umana ed umanizzante della relazione teatrale, ovvero sono più interessate ai grandi numeri del pubblico da stadio o televisivo piuttosto che a quelli a due o tre zeri degli spettatori teatrali, sono forme di spettacolo che vengono poi rilanciate, spesso a intervalli di tempo sempre più piccoli quando non in diretta, su tutti gli altri mezzi di 56 comunicazione: televisione, internet e supporti digitali destinati alla vendita. In genere per queste forme di spettacolo l’aspetto educativo può essere secondario e anche irrilevante, ma ciò non significa che sia assente, poiché il valore dell’esperienza educativa ed estetica può esulare dagli intenti perseguiti dall’opera, può scaturire dall’esperienza stessa e dalla condivisione con la micro comunità a cui si aspira ad appartenere, o semplicemente dall’emozione che può sorgere dalla fruizione di uno spettacolo che pure mira a stupire o solo ad intrattenere. Tutto può accadere, anche di emozionarsi e di comprendere qualcosa di se stessi e degli altri davanti ad uno scadente spettacolo di cabaret, uno spettacolo scadente in cui il cabarettista riesce a catturare l’attenzione dello spettatore al punto che questi, seduto in platea (o sul divano di casa) possa sentire per un attimo la sensazione precisa di essere parte del discorso, l’altro di una relazione, imperfetta, debole, ambigua, ma pur sempre una relazione. L’aspetto interessante che il teatro aggiunge alla relazione io-altro, connotandola e specificandola in quella attore-spettatore, è quello della dimensione artistica e culturale che agisce come un filtro e aggiunge stratificazioni di senso alla comunicazione. Persa la funzionalità e la finalità della comunicazione quotidiana dettata sempre dalle mille esigenze di carattere personale, politiche, familiari e economiche, la comunicazione a teatro si inspessisce nella poesia, in essa perde il portato contingente per tendere a quello universale. Gli spettatori che frequentano il teatro cercano questo anelito all’universale – più o meno consciamente – e questa ricerca li differenzia dal pubblico televisivo che non ricerca niente ma vuole solo “sopportare” o impegnare il proprio tempo (soprattutto il tempo già impegnato in mille altre attività). Intendere il teatro come ambiente educativo oggi significa anche riconoscergli il senso di un luogo che più di altri, in maniera “elettiva” si potrebbe dire, offre (e si offre come) la possibilità della comunicazione relazionale fra soggetti-persona. In un'epoca in cui i media sono sempre più “ridotti” a contenitori, strumenti e tramite, di un flusso ininterrotto e onnicomprensivo di informazioni, il teatro ripristina, con tutte le sue contraddizioni e limiti, la comunicazione fra uomo e uomo in una dimensione di tangibile “umanità” e “relatività”. Il teatro, per sua specificità costitutiva, si configura come il luogo più restio alla medialità assolutizzante, pervasiva e superficiale dell'informazione contemporanea, sottraendovisi nel nome di una materialità che ospita l'incidente, l'errore, il limite così come il corpo, la memoria, la poesia. 57 Il teatro è avulso dalla quotidianità 74, diverso dalle forme di comunicazione “mediate” dalla tecnologia; per esistere al suo grado zero ha bisogno di due esseri umani in comunicazione fra loro, con o senza suono, con o senza gesto, con o senza sguardo. A questo proposito la differenza fra comunicazione e informazione è sostanziale poiché l'azione teatrale ha un valore intrinseco, che “in-forma”, sostanzia e precede ciò che comunica. Con De Marinis consideriamo superato il dibattito relativo alla possibilità o meno del teatro di comunicare, e diamo per certa la comunicazione a teatro 75, tenendo sempre aperta però la questione delle “modalità” con cui la comunicazione può attuarsi. E la prima modalità, quella fondamentale e fondativa, è quella della “presenza dal vivo” dei due elementi della relazione. A teatro l'attore comunica già con il suo esserci, così come lo spettatore. Il contenuto della comunicazione è, a teatro, secondario rispetto l'azione comunicativa in sé (che può interessare il linguaggio verbale, gestuale o visivo, ecc.). Il teatro, inteso come ambiente educativo, riporta la comunicazione alla sua essenza primaria: l'atto comunicativo, l'azione relazionale. Deve esserci l'attore e deve esserci lo spettatore, deve esserci l'io e deve esserci l'altro. Anche nella quotidianità questo accade, può accadere, certo. Perché allora il teatro? Cosa aggiunge il teatro? L'occasione, l'opportunità, la non casualità: l'hic et nunc che serve ad “incontrarsi”, anzi a “trovarsi” e a “volersi trovare” come atto di desiderio, volontà, partecipazione e responsabilità. Eliminare la casualità dalla relazione “teatrale” nella sua vicinanza con quella 74 «I bambini, e non di meno gli adulti, in sostanza, sono distratti. Sono abituati a fruire le sollecitazioni multimediali in modo incostante e spezzettato, in alternanza ad altre numerose attività che si intrecciano, nella quotidianità, con quella della fruizione di uno spettacolo. Giunti in teatro, in un luogo deputato alla manifestazione di una messinscena teatrale, si sentono smarriti, privati di quegli appigli “distrattori” che di norma li circondano ed ai quali si aggrappano. Il teatro rimette, o dovrebbe rimettere, tutto nuovamente in gioco. Entrando in teatro è un po’ come se ci si sentisse “nudi”, e per questo disorientati. Sensorialmente ed esperienzialmente nudi. Non c’è il telefono di casa che squilla, non c’è il cellulare (o almeno non dovrebbe esserci) che manda messaggi, che emette suoni, che ci ricorda appuntamenti e ricorrenze o che ci fa giocare, non vi sono le incombenze della vita quotidiana che invece si presentano regolarmente quando siamo a casa, non vi sono i genitori (o i figli, i fratelli, i coniugi, ecc.) che stressano e che ci richiamano a diverse occupazioni, non c’è il campanello di casa che suona. Il teatro, insomma, è avulso. Avulso e dunque isolato, in un certo modo, dalla datità della quotidianità. Ed è proprio questo suo isolamento che ne costituisce, in buona parte, una delle sue specificità fondamentali, probabilmente una delle più caratterizzanti» (B. Zucchermaglio, Per un teatro educativo dell’oggi, in www.educateatro.oneminutesite.it). 75«[...]: perché si dia comunicazione è sufficiente (oltre che necessario) che il ricevente conosca il(i) codice(i) dell'emittente (senza che egli stesso debba trasformarsi in emittente a sua volta). Si verifica questo a teatro? Diremmo di sì, almeno in parte e almeno per una parte del destinatario collettivo. Decisiva appare al riguardo la molteplicità dei codici messi in gioco dallo spettacolo teatrale. Si può infatti supporre che – grazie agli effetti di ridondanza che inevitabilmente produce (cfr. Corvin, 1978 – la pluricodicità garantisca, almeno in linea di principio, che un certo grado (sia pur minimo di comprensione (e quindi di comunicazione) si realizzi sempre, anche per quegli spettatori ai quali una scarsa competenza teatrale (o altre circostanze) non provveda una conoscenza adeguata dei codici e delle convenzioni del TS (di quel dato TS) [...]» (M. De Marinis, Semiotica del teatro. L'analisi testuale dello spettacolo, Bompiani, Milano 1982, pp. 160-161). 58 “formativa” (con cui pure non coincide) è passaggio essenziale per non cadere nel tranello delle teorie di sociologia del teatro che considerano la vita quotidiana come rappresentazione, con tutto quello che ne consegue in termini di riflessione sull’identità delle categorie di società e di teatro 76. Non c’è niente di casuale nel teatro, può esserci l’errore, l’inciampo, l’improvviso accadere, ma il teatro è per eccellenza il luogo dell’accadimento e della rappresentazione dell’accadimento. Per Jean-Luc Nancy77 il teatro è l’arte che rappresenta proprio la questione del “posizionamento” dell’uomo nel mondo, un dimensionamento dato dall’esserci come presenza e come presentarsi al mondo qui e ora. Lo stare sul palcoscenico come lo “stare al mondo” dell’uomo” è metafora ma non è solo metafora, perché condiziona e caratterizza il teatro come arte del corpo umano vivente pensante comunicante con l’altro. Intendere il teatro come ambiente educativo significa, soprattutto ad un livello introduttivo, isolare le caratteristiche generali dell'ambiente teatrale cercando di prescindere il più possibile dai “contenuti” particolari che vi possono trovare luogo, ovvero dalle rappresentazioni teatrali e dai relativi argomenti in esse trattate. Significa partire da un processo di astrazione, da un ragionamento teorico, che possa aiutare a discernere gli elementi costitutivi del teatro per poi individuarne le possibili influenze e applicazioni di ordine pedagogico, nella società attuale. Nell’indicare la pertinenza del teatro come oggetto di studio, si propone di ripercorrere le principali teorie che lo interessano dalle origini ad oggi, seppur sommariamente, per verificare attraverso l'implacabile lente della testimonianza storica e storiografica, se esso possa essere considerato primariamente un efficace e attuale ambiente educativo e, in seconda istanza, un luogo, non solo e non tanto fisico e materiale, quanto e soprattutto potenziale ed ideale di formazione del soggetto nella contemporaneità, ovvero un luogo privilegiato di esperienza pedagogica. Obiettivo complessivo è quello di comprendere se e come, in quanto arte problematica, il teatro possa partecipare in maniera originale e specifica alla formazione dell'uomo contemporaneo. Se si vuole ribaltare la prospettiva, si tratta di inscrivere l'esperienza teatrale in senso ampio, ovvero dalla dimensione che vede lo spettatore come un semplice fruitore “inconsapevole” fino a quella in cui il soggetto-persona si fa attore e si mette in gioco in maniera “consapevole”, in un progetto complessivo e articolato che è quello della formazione – estetica, culturale, democratica, umana – del cittadino del 76 Cfr. M. De Marinis, Capire il teatro, op. cit., pp. 80-98. 77 J.-L. Nancy, Corpo teatro, Cronopio, Napoli 2010. 59 XXI secolo. 2.1 Un'arte problematica La problematicità del teatro in quanto arte è diversa per impostazione generale da quella che abbiamo delineato – seppur sommariamente – in riferimento alla pedagogia nel precedente capitolo, innanzitutto perché non esiste una teoria del teatro, ma piuttosto un corpus eterogeneo composto da molteplici teorie del e sul teatro, né esiste una scienza pacificamente definita e unanimamente riconosciuta come “teatrologia” che abbia raggiunto completezza e maturità tali da poter funzionare da riferimento esaustivo. Esistono la storia del teatro e diverse teorie del teatro frutto di discipline diverse (sociologia, semiologia e antropologia, per citare i filoni di studio più indagati) che con modalità e caratteristiche proprie offrono contributi importanti, seppur parziali, all'interno di un quadro teorico complesso e complessivo ancora in divenire e soprattutto caratterizzato da una forte interdisciplinarità. Esiste il teatro in quanto arte e, da sempre, la filosofia – quel settore della filosofia chiamata estetica – se ne è interessata oscillando fra i poli opposti del riconoscergli un ruolo di primo piano fra le arti o quello di una subalternità tale da metterne in dubbio la stessa appartenenza al dominio dell'arte. Ma non è certo questa la sede in cui ricostruire il variegato dibattito sullo statuto ontologico del teatro o in cui ripercorrere tutta la riflessione teorica ad esso riferibile. Si parta dal punto fermo per cui il teatro è un'arte (caratterizzata da sue proprie specificità) e la riflessione ad esso dedicata non è patrimonio esclusivo della filosofia estetica, sebbene l'estetica sia il settore della filosofia che se ne è occupato con maggiore continuità. Il teatro è un'arte immateriale e fuggevole, in questo senso è vicina alla musica. Spesso nasce a partire da un testo scritto, ma non può essere identificata con esso. È sostanzialmente votata alla costruzione di immagini e, come tale, è figlia della pittura e della scultura. Rappresenta corpi, suoni, colori senza però fissarli su alcun supporto materiale: né una fotografia o una statua può dirsi teatro, né un disco o un cd, né una tela o un video; eppure testi drammatici, fotografie, cd e video possono, tutti insieme e per quanto in modo frammentario, documentare il teatro, darci un'idea di cosa esso sia e, soprattutto contribuire al suo stabilizzarsi come “oggetto di studio”. In questo senso il lavoro dello studioso del teatro è un lavoro contraddittorio e paradossale, che implica l'uso di strumenti sempre parziali e, al pari del lavoro dello scienziato, da una parte obbliga all'osservazione diretta del fenomeno mentre dall'altra, 60 al pari dell'archeologo, conduce alla ricostruzione storica di ciò che è passato, non c'è più. Spiega De Marinis: «In effetti, il lavoro dello studioso di teatro è segnato alla base da una contraddizione grave, che rischia spesso di assumere i caratteri di una vera e propria aporia. Da un lato egli, in quanto studioso di avvenimenti, si occupa di oggetti che letteralmente non esistono (non esistono più) nel momento in cui se ne occupa, cioè di oggetti effimeri e transitori, come tutti gli eventi (egli quindi a ben guardare - […] non fa storia del teatro ma soltanto storia dei documenti sul teatro); dall'altro lato, i documenti di cui si serve, cioè i documenti che parlano di questi avvenimenti, che gli eventi teatrali lasciano dietro di sé quali loro uniche tracce, sono – come tutti i documenti, e in quanto tali – soggettivi, parziali, elusivi, incompleti: insomma dei “monumenti”, al limite sempre menzogneri, [...]» 78. Nel fare riferimento alla pluricodicità del teatro, occorre però anche considerare che l'intera storia del teatro (e di conseguenza la riflessione sul fenomeno teatrale), per diverse ragioni, che vanno da motivi di necessità contingente a motivi ideologici, è stata segnata e condizionata dal prevalere di un particolare codice su tutti gli altri, ovvero quello della scrittura – codice che in alcune epoche è risultato tanto egemone da portare all'identificazione del teatro con la produzione di letteratura teatrale. Si genera quindi un altro paradosso – oltre a quello indicato da De Marinis – per cui il documento (in questo caso la scrittura drammatica) che deve essere considerato come “parziale” diventa l'oggetto stesso di studio “intero”, trattato come unico e identificato come il fenomeno nella sua totalità (il teatro), mettendo da parte, oltre alla parzialità, il vero ruolo della drammaturgia e la sua “funzionalità” primaria, che è quella di darsi come testo da “mettere in scena”, quindi pre-testo in funzione del testo vero e proprio che è il testo spettacolare (lo spettacolo). L'ulteriore paradosso a cui si faceva riferimento sta quindi nell'affidare ad un documento destinato a partecipare allo spettacolo e persino ad essere trasformato/tradito/annullato nello spettacolo, il compito esclusivo di testimoniarlo. Questo aspetto verbocentrico condiziona di fatto tutta la teoria del teatro fino al Novecento, e in particolare fino all'avvento degli studi di semiotica del teatro; il teatro non è (solo) parola scritta, sebbene ciò che il teatro è stato ed è tutt'oggi appaia strettamente legato alla produzione drammatica che, per secoli, ci ha consegnato una traccia tangibile di questo straordinario fenomeno artistico. I filosofi, gli studiosi e soprattutto i critici hanno dovuto fare i conti con l'inafferrabilità dell'oggetto “teatro” e 78M. De Marinis, Capire il teatro. Lineamenti di una nuova teatrologia, Bulzoni, Roma, 1999, p. 209210. 61 questo ha provocato una virata significativa dallo spettacolo al testo drammatico, poiché quanto il primo si dava come astratto, tanto il secondo risultava concreto e, come tale, analizzabile con la dovuta attenzione e accuratezza. Ci ricorda P. Pavis, in quello strumento di eccezionale sintesi dei saperi del teatro che è il suo Dizionario del teatro, che la posizione logocentrica ha dominato gli studi teatrali praticamente dalle origini fino al secolo scorso: «Per molto tempo – da Aristotele fino alla fine del secolo scorso, agli albori della regia come pratica applicata sistematicamente con la sola eccezione degli spettacoli popolari o delle pièces à grand spectacle – il teatro è rimasto prigioniero di una concezione logocentrica. Tale attitudine, sia essa caratteristica della drammaturgia classica, dell'aristotelismo o della tradizione occidentale, ha per risultato quello di considerare il testo elemento primario, struttura profonda e contenuto essenziale dell'arte drammatica. La scena (lo “spettacolo”, l'opsis aristotelica) verrebbe dopo, come espressione superficiale e superflua che si rivolge ai sensi e all'immaginazione e distoglie il pubblico dalle bellezze della vicenda e dalla riflessione sul conflitto tragico» 79. La centralità riconosciuta al testo, ovvero alla parola scritta, si consolida in rapporto alla secondarietà della scena, ovvero all'inafferrabilità dello spettacolo. I motivi sono di ascendenza filosofica e teologica in quanto nella tradizione del pensiero occidentale è la parola che “fonda” il mondo attraverso l'atto linguistico del nominarlo (attraverso l'imposizione del nome), così come è la parola, soprattutto nell'ottica cristiana, l'unica e possibile depositaria della verità. Ma i motivi sono anche – banalmente – di natura materiale e contingente poiché il testo scritto è ciò che rimane, ciò che sopravvive all'esperienza spettacolare, ciò che del teatro può facilmente essere conservato per i posteri, soprattutto nell'antichità. Esperienze fra le più importanti dell'arte teatrale, quali la tragedia classica greca o il teatro elisabettiano, sono state per secoli oggetto di riflessione teorica e filosofica da parte dei maggiori pensatori del mondo occidentale, proprio grazie al fatto che se ne è potuta tramandare la parte scritta, ma questa certezza data dallo scripta manent ha finito per oscurare le altre componenti di un fenomeno ben più vasto e articolato, di cui la storia ci ha restituito pochi elementi frammentari. I vuoti conoscitivi che si sono formati a fenomeni teatrali conclusi si sono cristallizzati in alcune lacune ormai insormontabili, con cui gli studiosi di teatro devono tutt'oggi fare i conti. Anche i ricercatori più sensibili si sono dovuti scontrare sempre con l'aspetto effimero e inafferrabile del teatro, 79P. Pavis, Dizionario del teatro, Zanichelli, Bologna 1998, p. 487 (testo e scena). 62 quell'aspetto di fronte al quale si è dovuto sperimentare la propria limitatezza: lo spettacolo, irriproducibile per statuto, inafferrabile per natura. Dello spettacolo, dalle origini fino all'invenzione della fotografia e in particolare all'uso della fotografia “di scena” – lasciando quindi fuori l'epoca moderna con la diffusione delle vecchie (analogiche) e nuove (digitali) tecnologie -, poco o nulla rimane di tangibile da conservare e tramandare, giusto qualche disegno, stampa e/o bozzetto, e in massima parte documentazioni scritte (descrizioni, recensioni, ecc.). Lo spettacolo storicamente si caratterizza come oggetto di studio sempre controverso e frutto della “soggettività” degli spettatori coevi che, in base alle loro specifiche e diverse capacità, ce ne hanno restituito testimonianza parziale e diretta, spesso principalmente a parole attraverso diverse forme di scrittura, sia che si trattasse di una scrittura di tipo giornalistico (saggi, recensioni, note, pezzi di costume e colore), sia che si trattasse di una scrittura più intimistica (diari, note, autobiografie) o narrativa (racconti, romanzi, altri testi teatrali), mentre un'altra possibile fonte di ricostruzione interessante è rappresentata dalle testimonianze “contro” il teatro, poiché di quest'arte effimera la censura sia religiosa sia politica se ne è sempre interessata (con critiche censorie, divieti, pamphlet, sentenze, atti giudiziari). L'esistenza dello spettacolo diventa più tangibile a mano a mano che si sviluppa la tecnologia riproduttiva, per cui con l'ausilio della fotografia e delle registrazioni sonore prima, dei video analogici e digitali dopo, è stato possibile documentarlo audiovisivamente fino alla sua riproduzione integrale (considerando sempre la parzialità del punto di vista del regista video). Il rispetto e l'attenzione riservata dagli storici e dai critici letterari al testo scritto teatrale ha avuto il doppio pregio di tramandarlo all'umanità come traccia dell'esistenza di spettacoli passati (al di là della loro qualità intrinseca) e di consegnarlo a successive generazioni di studiosi che, non più vincolati dalle contingenze del tempo, hanno potuto valutarlo o rivalutarlo alla luce dei mutati contesti. Scrive Lessing a questo proposito nella Presentazione al suo Drammaturgia d'Amburgo: «Il giudizio su di un autore può sempre mutare; la sua opera resta e può esserci messa sotto gli occhi ad ogni momento. Ma l'arte dell'attore è effimera nelle sue manifestazioni; ciò che in essa vi è di buono e di cattivo si dimentica presto, e non di rado è piuttosto l'umore dello spettatore che non le qualità dell'interprete a generare in lui un'impressione particolarmente viva. Una bella figura, un'espressione avvincente, uno sguardo eloquente, un'andatura graziosa, un amabile tono, una voce melodiosa, sono cose che male si possono esprimere con le parole; ma non sono neppure le uniche e più alte doti [Vollkommenheiten] di un attore. 63 Preziosi doni della natura, estremamente necessari al suo mestiere, sono assai lungi dall'essere sufficienti. Egli deve pensare con l'autore, e soprattutto pensare per lui quando questi abbia commesso qualche pur scusabile errore» 80. Nel 1767 Lessing, in questo suo articolo programmatico – il primo dei cento di cui si sarebbe infine composto il volume ultimato due anni dopo – pone l'attenzione su una questione cruciale e anticipa un'importante riflessione sul ruolo dell'attore. La questione cruciale è la natura effimera dello spettacolo, da Lessing in maniera profetica indicato nelle “manifestazioni” dell'attore. Pur non utilizzando il termine “spettacolo” è l'attore che si accolla la responsabilità della rappresentazione scenica, dell'offrirsi allo spettatore. In questo suo darsi ne condivide la responsabilità con l'autore ma, sottolinea Lessing, l'autore è in questo privilegiato perché produce un testo scritto che può essere letto e riletto e quindi eventualmente rivalutato nel corso degli anni. La drammaturgia si sottrae così all'evanescenza di una fruizione che è sempre parziale e soggetta a molti fattori di natura diversa, fra cui anche l'insondabile e volubile umore dello spettatore. Al di là delle caratteristiche oggettive riconosciute alla drammaturgia nel suo darsi primariamente come opera letteraria, in Lessing il passaggio che si prospetta più interessante è invece quello successivo, in cui viene anticipata una preziosa riflessione, senz'altro da approfondire, relativa al ruolo dell'attore. Quest'ultimo, oltre a produrre con la propria presenza e il proprio lavoro un'arte effimera che non concede la possibilità di un'eventuale rivalutazione, può avere riconosciuti, fra i suoi compiti, anche quello di “intervenire” sul testo drammatico, migliorarlo, completarlo con le sue doti, “pensare con l'autore, e soprattutto pensare per lui” nel caso in cui l'autore avesse commesso qualche errore. Si tratta, seppure in abbozzo, di un concetto di “interpretazione” del testo teatrale – con l'anticipo di tutto il dibattito a esso connesso sulla fedeltà e l'infedeltà nella traduzione scenica – che viene posto da Lessing con grande naturalezza, come se intendere l'attore anche come co-autore del dramma fosse un ragionamento scontato. In realtà non è affatto un ragionamento scontato, e non lo è in particolare facendo riferimento ai tempi, poiché ripercorrendo, ad esempio con Marvin Carlson 81 le teorie del teatro dalle origini al Novecento, emerge come l'attore diventi oggetto di studio e di riflessione critica – a parte qualche piccola incursione in studi che non si occupano specificatamente dell'attore ma più in generale della drammaturgia o del teatro – solo nel XVIII secolo inoltrato. 80G. E. Lessing, Drammaturgia d'Amburgo, Bulzoni, Roma 1975, p. 7-8. 81M. Carlson, Teorie del teatro. Panorama storico e critico, Il Mulino, Bologna 1988. 64 A grandi linee il Paradosso sull'attore di Denis Diderot82, pubblicato nel 1770, può essere definito il primo contributo sistematico sull'arte dell'attore in cui vengono focalizzate alcune problematiche fondamentali che concernono la recitazione ma che hanno ricadute anche sui concetti di drammaturgia, di spettacolo e di spettatore. La teoria del teatro, di qualunque matrice essa sia, deve innanzitutto riferirsi al teatro come evento complesso di cui la scrittura rappresenta solo un aspetto fra altri, non necessariamente il più importante, ma neanche necessariamente l'ultimo, il meno importante. Oggi più che mai occorre evitare sia l'atteggiamento “filologico” che quello “scenologico”: «Nella tradizione occidentale, il testo drammatico resta una delle componenti essenziali della rappresentazione. Per lungo tempo addirittura lo si è assimilato al teatro per eccellenza, non accordando alla sua rappresentazione che un ruolo accessorio o facoltativo. Le cose sono tuttavia radicalmente cambiate con il riconoscimento, verso la fine del XIX secolo, della funzione del regista riconosciuto capace (o colpevole?) di imprimere al testo messo in scena il marchio della sua visione personale. Per il teatro di messa in scena è allora logico portare l'analisi sull'insieme della rappresentazione, invece di considerare quest'ultima come derivata dal testo. Per contro, il testo drammatico è stato ridotto a una sorta di accessorio ingombrante, lasciato, non senza disprezzo, a disposizione dei filologi. Si è così passati, nell'arco di 50 anni, da un estremo all'altro, dalla filologia alla scenologia. Forse è tempo di ristabilire un po' più di equità, e se possibile di finezza: non di ritornare alla visione puramente letteraria del teatro, ma di riconsiderare il posto del testo all'interno della rappresentazione; non più di discutere all'infinito se il teatro sia letteratura o spettacolo, ma di distinguere il testo quale noi lo leggiamo nel programma di sala e il testo quale lo percepiamo nella messa in scena»83. L'invito all'equità lanciato da Pavis non è solo un invito a mettere da parte i punti di vista estremi e forse, inutilmente ideologici sul teatro, è piuttosto un voler ricordare agli studiosi, sempre, la complessità dell'evento teatrale che è frutto di un'arte che si consuma sul palcoscenico ma ad esso arriva da un percorso di lavoro “in-visibile” di regista e attore, e ad esso sopravvive nella “condi-visione” con lo spettatore. È necessario, ad esempio, che la teoria del teatro, pur volendo mettere in posizione predominante la scrittura drammaturgica per considerarla come elemento principale di analisi e riflessione, non dimentichi che essa altro non è che una fase transitoria della 82D. Diderot, Paradosso sull'attore, Editori Riuniti, Roma 1993. 83P. Pavis, L'analisi degli spettacoli. Teatro, mimo, danza, teatro-danza, cinema, Lindau, Torino, 2004, p. 245. 65 parola, una fase che c'è prima dello spettacolo e che nello spettacolo diventa altro, che da parola scritta diventa voce e suono, parola detta, pronunciata, urlata, cantata, balbettata, bisbigliata, taciuta dall'attore, e poi ancora parola ricordata, conservata, trasformata, travisata, dimenticata dallo spettatore. Dalla scrittura del testo drammatico alla sua pronuncia per l'ascolto nello spettacolo, quindi dalla letteratura/lettura verso il suono e la musicalità, si inizia a delineare quella che dell'arte teatrale è la caratteristica specifica: la multicodicità. Non solo la parola a caratterizzare l'arte teatrale, ma anche la parola a caratterizzarla insieme e accanto all'immagine, all'architettura dello spazio scenico, alla musica e alla danza eseguite in scena, all'apparato di luci, colori e odori che si attivano sul palcoscenico e all'interno dell'edificio teatrale tutto. Una multicodicità che si manifesta come ricchezza sensoriale offerta allo spettatore, organizzata dal regista, rappresentata/vissuta dall'attore in un evento che si svolge in un luogo (che può essere il palcoscenico) e in un tempo (che interessa la durata dello spettacolo/evento/performance) definito e irripetibile. Lo spettacolo è fatto di corpi, di musiche e suoni, di immagini dipinte e tridimensionali, di giochi di luci e di movimenti scenici. Quindi sempre il teatro non è né scultura, né pittura, né musica, né danza, né letteratura, però sempre il teatro è anche scultura, pittura, musica, danza e letteratura (o poesia), dentro un evento che nell'hic et nunc si dà allo spettatore e ne coinvolge i sensi in modo sinestetico. Proprio a causa di questo suo caratterizzarsi come contenitore di tutte le arti, e a causa di questo suo offrirsi come evento totalizzante, la teoria filosofica si è spesso avvicinata in maniera “parziale” al teatro, sviluppandone in maniera profonda alcune caratteristiche specifiche e mettendone da parte altre. Eppure già Aristotele ricordando l'origine del termine “dramma”, dal verbo greco dran che significa “agire”, aveva individuato dell'arte drammatica la caratteristica principale proprio nell'azione scenica, orientando quindi tutto l'interesse verso l'azione stessa, ma anche verso “chi” la compie e “come” la compie. Infatti nella Poetica si ha la sintetica ed eccezionale definizione di “favola” in quanto “mimèsi dell'azione” che va proprio in questa direzione84, così come l'elenco degli elementi costitutivi del teatro a cui appartiene “lo spettacolo”, ovvero il “modo” della tragedia85. Nel corso dei secoli, la lucida lettura del fenomeno tragico 84« Ma siccome la tragedia è mimèsi di un'azione, e un'azione implica un certo numero di persone che agiscono, le quali non possono non avere o questa o quella qualità sia riguardo al loro carattere sia riguardo al loro pensiero - […] - così dunque mimèsi dell'azione è la favola: e qui io attendo per favola la composizione di una serie di atti o fatti» (Aristotele, Poetica, in Opere 10, Laterza, Roma-Bari, 1992, p. 204). 85«Sono sei dunque gli elementi costitutivi di ogni tragedia, onde resulta quel carattere speciale che 66 proposta da Aristotele è stata oggetto di fraintendimenti, travisamenti e parzialità che ne hanno fatto perdere la lezione primaria della complessità e multicodicità dell'evento teatro, lezione che verrà recuperata tardi nell'ambito della stessa pratica teatrale attraverso la “nascita” del regista e del concetto di regia, e che verrà letta ancora più tardi dagli studiosi del teatro in un'ottica prevalentemente d'impronta semiotica. distingue la tragedia [da altre composizioni letterarie]: e sono, la favola, i caratteri, il linguaggio, il pensiero, lo spettacolo e la composizione musicale. Di questi sei elementi due concernono i mezzi della mimèsi, uno il modo, tre gli obbietti; oltre a questi non c'è altro. E non è certo piccolo, per dir così, il numero dei poeti che hanno adoprato tutt'e sei questi elementi; né c'è infatti tragedia la quale non abbia, alla pari di ogni altra, spettacolo, carattere, favola, linguaggio, canto, pensiero» (Ibidem). 67 2.2. Il teatro e il panorama teorico-critico. Nell'affrontare in maniera organica il frastagliato panorama di studi e ricerche critiche e teoriche sul teatro, Marvin Carlson, nel suo Teorie del teatro (New York, 1984) ribadisce come sia operazione incontestata partire sempre da Aristotele, poiché «Non soltanto la Poetica è la prima opera significativa della tradizione, ma i suoi concetti principali e le linee portanti delle sue argomentazioni hanno costantemente influenzato lo sviluppo della teoria attraverso i secoli. La teoria del teatro in Occidente comincia essenzialmente con Aristotele» 86. Il primato della Poetica, nel darsi come riferimento imprescindibile di ogni successiva speculazione teorica sull'argomento, con le inevitabili fasi alterne di fortuna e fraintendimenti, e la sua continuità fino ai nostri giorni, si articolano soprattutto intorno a un paio di questioni, fra queste è da sottolineare come il dibattito intorno al concetto di katharsis sembra costituire il nodo centrale da cui scaturiscono tutte le problematiche attinenti al teatro. Sul concetto di catarsi sono intervenuti molti commentatori, anche perché il passaggio trattato nella Poetica è fra i più ambigui87. Si tratta di un concetto che pone al centro della macchina teatrale, lo spettatore, ovvero colui che assiste alla tragedia e ne subisce l'effetto di aver l'animo sollevato e purificato da quelle passioni che suscitano “pietà e terrore”. Al di là delle molteplici e controverse interpretazioni della catarsi, in questa sede è interessante sottolineare il fatto che Aristotele dia una connotazione positiva alla tragedia in quanto forma teatrale, in contrasto col pensiero platonico, collocandola nella sfera morale dell'arte e aprendo anche ad un’interpretazione pedagogica. Per Gennari «La poesia, quindi, può purificare certe passioni per l’appunto esprimendole. La tragedia, allora, libera lo spettatore “alleggerendolo” dei suoi timori nascosti, delle sue ansie, dei suoi turbamenti, delle sue volizioni. Nulla di psicologico si nasconde nelle pieghe della catarsi aristotelica. La poesia tragica ha piuttosto lo scopo di portare l’uomo verso la quiete, verso quell’eutymía – che in Aristotele compie, ancora il connubio morale tra virtù e felicità. A differenza che in Platone, nel concetto aristotelico della “catarsi” si nasconde un significato del tutto nuovo per l’arte: le emozioni che essa dispiega dentro l’animo umano divengono parte della “vita attiva” (cit. Cassirer rif.) dell’uomo. Del tragico non resta la sua gravosità, bensì la vibrazione offerta dal suo 86M. Carlson, Teorie del teatro. Panorama storico e critico, Il Mulino, Bologna 1988, p. 35. 87Cfr. Aristotele, op. cit., pp. 203 e sgg. 68 stesso sentimento. L’idea di catarsi coincide, così, con il vero motore pedagogico dell’arte poetica, teatrale e musicale. Il mondo che essa platonicamente imita smette di essere semplice apparenza, per divenire realtà; cessa di proporsi come illusione per ripresentarsi vestito d’un linguaggio estetico pervaso di spiritualità» 88. La prospettiva delineata da Aristotele apre la strada all’intendere la catarsi – aldilà delle diverse interpretazioni e implicazioni – un’esperienza “utile” per l’uomo e soprattutto un’esperienza che pur essendo “personale” poiché attiene al sentimento del singolo uomo, è al tempo stesso “universale” poiché fruita e partecipata in un contesto di comunità (quella degli spettatori teatrali). La catarsi rappresenterebbe l’apice, l’aspetto più forte di una emozionalità condivisa, di un sentimento messo a disposizione dell’altro; instaurerebbe così un rapporto “comunicativo”, emozionale ed empatico fra palcoscenico e platea, fra spettacolo e pubblico, fra attore e spettatore. Potrebbe rappresentare il segno più evidente di una comunicazione efficace. Se si accetta questo punto di partenza, ovvero che a teatro l’uomo entra in un modo per uscirne in un altro, toccato nel sentimento e nell’anima, diverso nello spirito e nel pensiero, allora è giusto ritenere che gli effetti di questo cambiamento sull’uomo possono essere tanto benefici quanto malefici; la catarsi può indurre elementi tanto positivi quanto negativi nel carattere dell’uomo. L’opera a cui assiste può influenzare lo spettatore nel profondo, può arrivare perfino a condizionarlo moralmente. Aristotele apre la strada al riconoscimento del “potere” dell’arte teatrale, e questo supposto potere sarà avvertito moltissimo dai filosofi e dai critici che torneranno a riflettere sul teatro, sia in direzione degli effetti benefici sia in direzione di quelli malefici al punto da portare quest’arte finanche ad essere bandita dalla società per periodi significativi in molti paesi europei. Aristotele, di fatto, scrivendo la Poetica da “osservatore privilegiato” ma anche “fuori tempo” di quel fenomeno eccezionale e breve che è la tragedia classica 89, innalza il teatro incontestabilmente ad arte autonoma rispetto la poesia epica, eppure proprio questo suo lavorare per differenze finirà per legare a doppio filo l'esperienza teatrale tragica alla poesia, proprio perché nei secoli a seguire si è considerato della tragedia solo l'unico elemento non deperibile, ovvero il testo scritto. Così, per estensione, 88 M. Gennari, L’educazione estetica, Bompiani, Milano, 2007 (1994), p. 116. 89 «La tragedia nasce in Grecia alla fine del VI secolo. Ancor prima che siano trascorsi cento anni, la vena tragica è già inaridita, e quando, durante il IV secolo, Aristotele nella Poetica si mette a fissarne la teoria, egli non comprende più che cos’è l’uomo tragico, a lui divenuto, per così dire, estraneo. Succedendo all’epopea e alla poesia lirica, scomparendo nel momento in cui trionfa la filosofia, la tragedia appare, in quanto genere letterario, come l’espressione di un tipo particolare di esperienza umana, legato a determinate condizioni sociali e psicologiche». (J.-P. Vernant, P. Vidal-Naquet, Mito e tragedia nell’antica Grecia, Einaudi, Torino, 1976, pp. 8-9). 69 riferendola volta per volta ad esperienze teatrali non osservate contestualmente ma sempre precedenti, la teoria del teatro diventa essenzialmente la teoria di un genere letterario, purgata proprio di quell'elemento che per Aristotele connotava e differenziava l'arte teatrale dalle altre arti e – in particolare – dall'epica, ovvero l'azione. Soprattutto nel lungo periodo medievale, gli aspetti relativi alla rappresentazione e alla messa in scena scompaiono e lo spettatore si ritrova a vestire i panni diversi, e più comodi, del lettore di testi drammatici. Per tutto il Medioevo permane come idea sottesa e diffusa quella del valore “edificante” o “moralmente riprovevole” delle opere drammatiche, che vengono investite del compito di influenzare verso il bene o verso il male le azioni degli uomini, tanto che la monaca sassone Rosvita (c. 935-973) nella prefazione alla sua raccolta di commedie cristiane si proponeva di contrastare l'effetto perverso che poteva scaturire dalla lettura di Terenzio opponendo «la lodevole purezza delle sante vergini cristiane» 90. Le loro azioni in scena, ma soprattutto le loro parole lette ad alta voce, dovevano fungere da esempio negli spettatori e stimolarli ad azioni pure ed edificanti. L'intento doveva essere quello di istruire i fedeli, indurre, in generale, le persone alle buone azioni e di ispirare ai più pensieri e propositi volti al bene. Il fine ultimo delle opere drammatiche rimaneva più didattico, che “educativo” poiché pur essendoci un’intenzionalità in questa direzione, il concetto di educazione non comprendeva la complessità e le sfumature che questa disciplina oggi comporta 91. Moralità ed educazione sotto strettamente legate nell’ottica del cristianesimo, che domina il Medioevo e condiziona in diverse maniere l’esperienza teatrale, arrivando infine a determinare anche la spaccatura fra la piazza (dove si svolgeva il teatro dei “ciarlatani”) e una produzione drammatica destinata a restare sui libri. In linea di massima «Nel primo periodo della sua affermazione il cristianesimo aveva assunto una posizione decisamente e violentemente polemica nei confronti della cultura classica: la chiesa aveva tentato, anche per mezzo della moltiplicazione e dell’estensione del rito in forme spettacolari, di esaurire in sé tutta la vita spirituale dei fedeli, compreso quello che oggi definiremmo il versante ricreativo-culturale» 92. Durante il Rinascimento si sviluppa un interessante dibattito che, con diverse caratteristiche e diversi livelli di importanza, coinvolgerà quasi tutta la vecchia Europa. Fra gli italiani è da segnalare, ad esempio, il contributo di Francesco Robortello (151690 91 2003. 92 Rosvita, Tutto il teatro, Milano, Rizzoli, 1952, p. 11. Cfr. M. Corsi, Il coraggio di educare. Il valore della testimonianza, Vita e pensiero, Milano, C. Molinari, Storia del teatro, Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 77. 70 1568) che, nel suo commento ad Aristotele, prova a conciliare le indicazioni di quest'ultimo con l'obiettivo oraziano del diletto, riuscendo a non escludere l'utile: 93. Il teatro è quindi investito di un compito importantissimo e in questo compito la “rappresentazione” risulta importante nel rapporto con il testo. È l'esempio realizzato attraverso la messa in scena, reso fruibile e comprensibile attraverso il corpo e l'azione degli attori, che deve ispirare negli spettatori le virtù cristiane e i modi più opportuni nelle diverse situazioni, come si trattasse di vere e proprie lezioni di morale. Il teatro viene pensato come un luogo in cui le vicende particolari di alcuni uomini vengono offerte come esempio e monito agli spettatori, che quindi sono invitati, nell’avverarsi di una situazione analoga a comportarsi in maniera analoga, con virtù, eroismo e sacrificio. Ci si trova in un’epoca in cui le rappresentazioni teatrali erano occasionali e senz’altro destinate ad un’élite ristretta di spettatori; la riflessione sul teatro era soprattutto costruita sulla drammaturgia. Il testo drammatico, avulso dalla scena, veniva trattato come le altre opere “letterarie”, considerato per contenuto e stile, sottraendo la scena al ragionamento. La discussione era focalizzata sulla trama, sul suo valore contenutistico, e anche su quello pedagogico; sulla coerenza del personaggio, sulla sua credibilità, pertinenza. È questo il legame più forte con la scena, quasi l’unico: l’importanza riconosciuta, anche solo in fase di lettura, al personaggio. La costruzione del carattere del personaggio è centrale poiché lo spettatore a lui guarda, a lui si ispira, in lui si immedesima. Ciò che emerge con una certa ricorrenza nel panorama teorico è l’importanza espressiva e comunicativa attribuita al personaggio e, anche quando non si parla – non ancora – di attore e di recitazione, è comunque evidente quanto questa sia una questione nodale. Il personaggio prima di agire deve incarnare, rappresentare qualcosa di riconoscibile, anche “fisicamente”: delle virtù che facciano scaturire l’ammirazione o dei vizi che facciano scaturire il disprezzo nell’animo dello spettatore (o anche del lettore). La lenta ma progressiva costruzione dell’attore va di pari passo a quella dello spettatore, a cui l’attore si rivolge. Per cui anche in periodi storici in cui il teatro non è certo un’arte fruita dalle masse, è evidente che si inizia ad accennare, per tramite dell’attenzione al personaggio, il legame relazionale – inizialmente basato sulla credibilità e verosimiglianza – fra attore e spettatore. 93«Il mezzo con cui lo si ottiene è quello tradizionale: l'imitazione e la lode degli uomini virtuosi incitano gli uomini alla virtù; la rappresentazione e la condanna del vizio fungono da deterrenti. Le finalità retoriche vengono a sostituire, così, quelle estetiche di Aristotele; il pubblico, in primo luogo, non deve trarre piacere dall'unità e dalle qualità formali dell'opera, ma deve ricavare un insegnamento morale dai diversi elementi didattici» (M. Carlson, op. cit., p. 60). 71 Successivamente, alla nozione rinascimentale di decoro, si aggiungeranno elementi importanti per la teoria neoclassica, ovvero moralità, convenienza e universalità. I testi drammatici devono risultare accessibili per le masse e ad esse devono ispirare valori importanti, nobiltà di carattere, invogliare al bene e al ripudio delle azioni malvagie. In generale, sia per la commedia che per la tragedia, l'obiettivo è quello di far migliorare il pubblico, quindi entrambe sono orientate ad essere “utilizzate” come strumento didattico. Devono però mantenere le loro qualità di fruibilità, ovvero essere attrattive e dilettare il pubblico, in modo che il diletto possa poi rendere efficace l'insegnamento che deve essere impartito con il dramma, attraverso una trama avvincente e convincente in cui deve dominare il principio di verosimiglianza. In un contesto abbastanza uniforme, si può individuare comunque qualche posizione discordante che avanza l'eventualità del solo piacere come fine della poesia. Ma in linea di massima, la questione davvero significativa da sottolineare è come l'attenzione riprenda, in epoca rinascimentale a focalizzarsi sul pubblico, fino a attribuire grande responsabilità al teatro inteso come luogo capace di esercitare un'influenza – sia positiva che negativa – sul comportamento degli uomini. Spiega Carlson: «Da un certo punto di vista i critici, dal tardo periodo classico in poi, avevano tenuto conto, più di Aristotele, dell'impressione del pubblico. Certamente Tertulliano e i padri della chiesa si erano interessati, in modo addirittura ossessivo, a questo aspetto del dramma. La tradizione critica ispirata alla teoria retorica condivise con questa un fondamentale interesse per l'effetto del dramma» 94. L'attenzione al pubblico è sempre, nella trattatistica rinascimentale e neoclassica, tesa sul limite fra la tensione ad istruirlo e quella di compiacerlo – condannata dalla chiesa, da Tertulliano in poi senza soluzione di continuità – uniformandosi così ad un gusto basso e volgare. Questo è un rischio che sottolinea anche Miguel de Cervantes in un paragrafo del Don Chisciotte (capitolo 48, parte I), e che evidentemente è tenuto presente anche da quegli scrittori di commedie che decidono di cavalcarlo, questo rischio, fino a farlo divenire cifra stilistica – quasi una giustificazione poetica – della loro scrittura teatrale. Nel Rinascimento francese, per Vauquelin il fine complessivo a cui tendere nella tragedia e nella commedia è apertamente quello dell'istruzione95, sebbene la prospettiva 94 M. Carlson, op. cit., pp. 70-71. 95 «Scopo originario della tragedia, dichiara Vauquelin, era l'istruzione dei principi, ottenuta mostrando loro le catastrofi che nascono dalla malvagità e dall'orgoglio» (Id., op. cit., p. 96). 72 adottata prevalentemente sia quella dell'istruzione elitaria e delle classi di governo. Tragedia e commedia, attraverso la scrittura in forma dialogica, attuano la rappresentazione del mondo, e soprattutto dei tipi umani e delle situazioni, che consente al principe di vivere, attraverso i personaggi, vicende di vizio e di virtù, imparando a discernere fra le due le prime. In generale, per tutto il Rinascimento la continuità è data dall'intendere il dramma, e in particolare la tragedia, una sorta di esempio di buona condotta per chi vi assiste o per chi la legge, se il dramma finisce bene è perché le buone azioni dell'uomo retto vengono premiate e questo funziona da esortazione per il pubblico che ad esse deve aspirare; se il dramma finisce male è perché le azioni riprovevoli dell'uomo malvagio (anche suo malgrado – come ad esempio accade nell’Edipo di Sofocle) vengono punite e questo funziona da monito e deterrente per il pubblico che da esse deve rifuggire. Il dramma è quindi utile in quanto strumento di istruzione morale. Questa caratteristica ne fa un prodotto ibrido: è più vicino al grande pubblico rispetto alla letteratura, poiché la forma dialogica lo rende più comprensibile, ma d’altro canto questa vicinanza alla letteratura ne mette in ombra l’aspetto spettacolare. Non possiede il valore d’arte riconosciuto alla poesia, ma il dramma, non coincidendo con lo spettacolo, non le è neanche estraneo. Pur non essendo destinato, per definizione alle élites, resta di fatto durante il Rinascimento, destinato ad esse. L'intento educativo è, più che altro, una sorta di garanzia di moralità che l'opera drammatica deve possedere per poter essere rappresentata, letta, fruita, ed essere annoverata fra le composizioni poetiche, ed essere ascritta all'arte. Se questo intento non è garantito dalla trama e dalle conseguenti azioni dei personaggi, il dramma non solo è da condannare, ma è collocato al di fuori della categoria dell'arte, pertanto escluso dalla discussione su stili e poetiche. Insomma per essere arte il dramma, come la poesia, deve essere messo al servizio della virtù. L'acceso dibattito che si sviluppò in seguito nella Francia del Diciassettesimo secolo, pur concentrandosi principalmente sulle cosiddette “tre unità”, affronta la questione delle trame mettendosi il più possibile dalla parte degli autori dell'epoca, cercando di valorizzare la produzione drammatica contemporanea, e dando ai drammaturghi la libertà di scegliere anche argomenti dell'attualità da trattare nelle loro opere, liberandoli così dalla riproposizione dei temi della classicità. Con il patto tacito che fosse rispettata la verosimiglianza, anche più della verità storica. Il cambiamento è significativo, poiché se i drammi possono vertere su ogni 73 argomento che è presente nel mondo, si inizia – seppure non esplicitamente – a considerare non solo l'autore libero di creare secondo la sua poetica, ma libero anche il pubblico di fruire dello spettacolo con discernimento, non come un bambino che debba essere seguito passo passo ed istruito passivamente. Si inizia a mettere in campo la questione dell’attualità, della società e quindi del teatro come luogo di socialità e di comunità, di confronto e soprattutto di “incontro” fra persone. È l’autore in prima persona a mettersi in discussione sul terreno dell’attualità, e di conseguenza anche gli spettatori iniziano ad esistere come persone che formano una speciale micro-società. Questa piccola comunità si incontra in un luogo fisico per partecipare, oltre che assistere ad una messa in scena, alla cultura del proprio tempo, all’attualità sociale e politica nel suo farsi e nella sua rappresentazione più alta. Non si tratta di aperture nette, ma si iniziano ad intravedere dei piccoli spiragli di luce in questa direzione, soprattutto a causa del fatto che i drammaturghi, in diversi casi, ottengono notevole successo di pubblico e una particolare notorietà, a dispetto delle regole imposte dalla trattatistica a loro pregressa e coeva. Con il consenso di questo nuovo soggetto sociale chiamato “pubblico”, gli autori acquistano un nuovo ruolo nella società, pur non avendo il riconoscimento dei poeti, le loro opere, giocate sulle assi dei palcoscenici di mezza Europa, li consacrano ad una notorietà più fugace ma certo più redditizia e di impatto immediato. Il successo conseguito nei grandi teatri, li porta ad smarcarsi dalle ancora forti ingerenze della critica e dal peso di una tradizione letteraria tanto raffinata quanto ingombrante e “inadattabile” al palcoscenico. La verosimiglianza tanto cercata dai drammaturghi e auspicata dai critici diventa una chiave d'accesso anche per il pubblico meno colto, e se un dramma è comprensibile per tutti, allora tutti ne possono cogliere l'intento moralizzatore, come sottolinea La Mesnadière che indica come «“età, passioni, attuale fortuna, condizione di vita, nazionalità e sesso” dovrebbero determinare personalità e azione; il poeta dovrebbe evitare creazioni contraddittorie, […]. Obiettivo finale è la verosimiglianza, in quanto il dramma deve presentare modelli specifici di virtù, e questi, per essere efficaci, devono essere al massimo grado accessibili per il pubblico» 96. Si delinea un pubblico che si immagina numeroso, a cui l’autore sempre più deve pensare di rivolgersi, e deve tenerlo presente anche nella fase di scrittura. Questo ipotetico pubblico deve essere istruito – educato e moralizzato – ma deve anche essere interessato, essere stimolato dalle vicende narrate, altrimenti non si recherà a teatro e sancirà l’insuccesso dell’opera. Si determina 96 M. Carlson, Teorie del teatro. Panorama storico e critico, Il Mulino, Bologna 1988, p. 121. 74 non solo un cambiamento di atteggiamento, ma l’inizio di un rapporto conflittuale fra spettatori e critica laddove, fino a poco prima, era appannaggio dei critici stabilire cosa fosse degno a teatro e cosa non lo fosse, mentre il pubblico, come se fosse escluso dalle questioni estetiche, era oggetto d’attenzione al pari di un bambino da educare. Scrittori e drammaturghi della statura di Corneille 97 interverranno nel dibattito per portare il discorso sul valore indiscusso della poesia, del piacere dell’arte, a discapito delle istanze moralizzatrici, sottolineando come debba essere solo la poesia il fine unico e ultimo della composizione drammatica. Difatti la posizione di Corneille è quella dell’autore che difende la propria libertà, ma da questa posizione deriva anche una nuova autonomia e dignità dello spettatore, non più trattato come un qualcuno da indottrinare, ma come qualcuno capace di godere dell’opera d’arte. La funzione morale nella sua accezione più retriva di “moralizzazione”, diventa “secondaria” per lo spettatore rispetto al fine “principale” che è quello del piacere estetico. Posizioni interessanti emergeranno durante il diciottesimo secolo in Inghilterra, vi sarà infatti un vivace dibattito, anche qui, come in Francia nel secolo precedente, saranno anche gli stessi drammaturghi a proporre interpretazioni e critiche sull'arte drammatica, in un proficuo dialogo dai toni anche accesi. Ma in linea di massima in Inghilterra prevarrà la morale universale della giustizia poetica. Fondamentale, alla discussione, sarà invece l'apporto di Hume, per cui avendo a che fare, a teatro, con degli stimoli perturbanti è importante che il pubblico abbia la consapevolezza di stare assistendo ad una finzione, soltanto partendo da tale consapevolezza lo spettatore può essere capace di convertire le passioni suscitate da eventi dolorosi in sensazioni di altra natura e soprattutto di gioia. Il Diciottesimo secolo inglese ha il pregio di iniziare a porre l'attenzione sull'attore, di conseguenza sullo spettacolo e sullo spettatore. Questo accade grazie alla situazione specifica dell'Inghilterra dell'epoca, in cui allo sviluppo della drammaturgia e dello spettacolo si unisce una significativa attenzione all'arte dell'attore, che è riconosciuto come il principale veicolo dell’arte teatrale. È questa l’epoca, infatti, in cui iniziano a formarsi i grandi attori di fama internazionale, criticati e osannati nelle pagine dei giornali, e considerati dei veri e propria artisti. Fra i traduttori di Aristotele in lingua inglese c'è Henry James Pye, il quale, 97Corneille in tre saggi (che costituiscono a tutti gli effetti un'apologia della sua opera drammatica), «[…] dichiara apertamente che il piacere è il fine esclusivo della poesia drammatica. Lo scopo morale emerge solo in quanto noi siamo soddisfatti nell'osservare i processi di un universo morale; questo è un risultato secondario dell'arte, non il suo fine. Destituita di importanza la funzione morale, Corneille è naturalmente meno interessato al suo tradizionale corollario, la verosimiglianza» (M. Carlson, op. cit., p. 124). 75 nonostante la sua fedeltà ad Aristotele, pone fortemente l’accento sulla questione della recitazione98. Sicuramente Pye era rimasto impressionato dallo straordinario talento dell'attore Garrick, il quale tra l'altro, in un suo saggio critico, spiega l'importante ruolo dell'attore e interviene anche sull’annosa questione dell’imitazione. L’attore non può limitarsi all’osservazione e alla riproduzione di comportamenti e atteggiamenti dell’uomo, deve assimilarli per poi esprimere le sensazioni e le emozioni in una maniera sua propria, una maniera unica come unico è ogni essere umano, anche nelle manifestazioni più comuni. Questo spostamento, dalla natura letteraria del teatro alla sua dimensione spettacolare, con l’attenzione accordata all’attore e alla recitazione, segna una linea di demarcazione fondamentale nella teoria del teatro in epoca moderna, un punto di non ritorno da cui non si potrà prescindere e da cui si procederà nella direzione delle arti performative. Nella Francia del Diciottesimo secolo neanche Voltaire, in conclusione, sembra discostarsi significativamente dalla tradizione, e la sua teoria drammatica rimane abbastanza conservatrice poiché la sua posizione, pur puntando all’innovazione, finisce sempre per subordinare le questioni emotive a quelle etiche. Diderot sarà il vero innovatore, dopo la forte contestazione mossagli da Rousseau, insisterà sull’argomento a più riprese, prima in Discours sur la poésie dramatique, in cui ripropone il suo convincimento sull'utilità morale del dramma senza deprimerne però la funzione estetica, perché se ogni tipo di condizione umana e ogni genere di insegnamento pubblico possono essere attaccati per i loro abusi, anche gli attori e l'arte drammatica vi possono incorrere, senza rappresentare per questo il male assoluto. Con Diderot inizia ad emergere anche una funzione sociale del teatro, come luogo del politico, in quanto luogo in cui si dà la possibilità di mostrare, e così anche di criticare e distruggere, pregiudizi, vizi, superstizioni. In questa possibilità risiede l’importanza dell’arte drammatica, e dovrebbe essere usata dai governi in quest’ottica di “emancipazione” dei popoli. Nel 1773 Diderot scrive il celebre Paradoxe sur le comédien, con un dialogo avvincente e all'apparenza disinvolto – ma che cela un grande lavoro di scrittura e riscrittura particolarmente fine99 – due interlocutori discutono della bravura o meno di attori che hanno visto personalmente esibirsi a teatro, o di cui hanno sentito molto parlare. I punti di vista opposti dei due uomini, in quello che più che un dialogo di tipo 98«Pur ammettendo che il teatro è inferiore alla pittura nell'effetto visivo generale, Pye sostiene che il potere della recitazione eleva il dramma al di sopra di ogni altra arte» (Id., op. cit., p. 161). 99Cfr. P. Alatri, introduzione in D. Diderot, op. cit., pp. 7-70. 76 filosofico potrebbe essere proprio un dialogo di tipo teatrale, aprono le porte ad un mondo fatto di continui intrecci fra palcoscenico e vita di alcuni fra i più grandi attori europei dell'epoca. Il punto di vista di Diderot stesso, incarnato dal “primo interlocutore”, è quello che spalanca le porte al paradosso: per essere bravo l'attore non deve essere “sensibile”, ma raziocinante e dedito allo studio, solo affinando le qualità personali con conoscenza e tecnica potrà interpretare la sensibilità e emozionare il pubblico, replica dopo replica. Per “il primo”: «È l'estrema sensibilità che fa gli attori mediocri; è la sensibilità mediocre che fa l'infinita schiera dei cattivi attori; ed è l'assoluta mancanza di sensibilità che prepara gli attori sublimi» 100. Perché è così importante e attuale il discorso sulla “sensibilità” e sul “mestiere” introdotto dal Paradosso sull'attore? Innanzitutto perché fa emergere, oltre alla questione sulle competenze, le qualità e le tecniche specifiche che devono possedere gli attori “sublimi” in opposizione ai “mediocri” rendendo così il mestiere dell'attore un mestiere che non si può improvvisare e per cui non basta il talento101, una questione ancora più cruciale che concerne proprio il modo di lavorare dell'attore, il suo vedersi come “altro da sé”, il suo vedersi “fuori da sé”. Nel corso del dialogo emerge, in un passaggio abbastanza lungo, la capacità dell'attore di “vedersi recitare”, anzi di vedersi “mentre” recita, così immagina Diderot lo sdoppiamento di Mademoiselle Clairon che interpreta Agrippina nel Britannicus di Racine: «Come ci accade talvolta nei sogni, ella spazia tra le nuvole e le sue mani toccano i due confini dell'orizzonte; diventa l'anima di un manichino che la racchiude; tutte le sue prove glielo hanno costruito addosso. Mollemente distesa su una poltrona, le braccia conserte, gli occhi socchiusi, immobile, ella può, seguendo con la memoria il proprio sogno, ascoltarsi, vedersi, giudicarsi, e giudicare le impressioni che susciterà. In quel momento è sdoppiata: la piccola Clarion e la grande Agrippina»102. Qui viene abbozzato il concetto di sdoppiamento, esso tornerà nel dialogo sempre attenuato e in un'ottica di lavoro e di studio che l'attore compie su se stesso per non cadere nella recitazione mediocre. Ma questo concetto, in una dimensione più filosofica e autoriflessiva, è uno dei fondamenti, anzi “il” fondamento del teatro stesso, non riguarda solo l'attore e la recitazione come caratteristica specifica del mestiere d'attore, riguarda la natura profonda del teatro, la sua stessa esistenza e la sua specificità. 100D. Diderot, op. cit., p. 82. 101« È la natura che dà le qualità personali, l'aspetto, la voce, l'intelligenza, la finezza; sono lo studio dei grandi modelli, la conoscenza del cuore umano, la pratica della vita, il lavoro assiduo, l'esperienza, l'abitudine al teatro, che riescono a perfezionare le doti naturali» (Id., op. cit., p. 72). 102Id., op. cit., p. 78. 77 Sarà Heiner Müller, dopo Brecht, l'artista che ragionerà più di tutti su questo meccanismo che fonda il teatro, lo espliciterà, lo renderà centrale in tutta la sua opera, lo innalzerà a cifra poetica dominante e contraddittoria, quasi una ossessione, del suo fare teatro prima e dopo la caduta del muro di Berlino. Per Müller l'origine dello sdoppiamento è traumatica, riguarda alcuni episodi particolarmente dolorosi della sua vita103, in particolare due eventi che condizioneranno la sua scelta di scrivere per il teatro piuttosto che in forma narrativa. Chiarisce Valentina Valentini, a questo proposito, come «Entrambi gli eventi sono per lo scrittore emblematici di un'esperienza in cui il soggetto sopporta il trauma innescando inconsapevolmente un meccanismo di scissione dell'io che si sdoppia in colui che si guarda mentre sta guardando l'avvenimento come se fosse la scena di un film. Il soggetto che sta in scena non è più l'attore del dramma, ma si colloca dall'altra parte, in platea, e assume il ruolo di spettatore della propria performance»104. E ancora, facendo compiere un ulteriore balzo in avanti all'esperienza estetica: «La scena primaria di Müller porta in luce un concetto fondamentale per l'esperienza estetica contemporanea, ovvero la centralità che ha assunto la dimensione spettatoriale, l'attività del soggetto “veggente” che implica la duplicità dei ruoli di operator e spectator nel performer, l'esperienza dello sdoppiamento appunto, non la transitività di un atto che ha una traiettoria e un bersaglio, ma un'attività intransitiva» 105. La sua identità riconoscibile sin dalle origini ma inafferrabile, il suo funzionamento paradossale attraverso l'esperienza dell'attore nel suo farsi spettatore di se stesso per l'altro, l'identificazione del prodotto artistico nello spettacolo unico e irripetibile eppure replicabile sono alcune delle caratteristiche che rendono il teatro un'arte problematica, ma sono anche elementi ricorrenti di una riflessione sul teatro – ovvero la teoria ad esso riferita – molto eterogenea e frammentaria, costruitasi nel corso dei secoli in maniera disomogenea, ma anche efficace e costituita da alcuni capisaldi incrollabili, tutt'ora attuali. Con il Paradosso di Diderot, si dà importanza all’attore indipendentemente dall’autore, anzi si inizia a riconoscere all’attore la maestria nel incidere attivamente nel dramma, al punto da decretarne il successo o l’insuccesso: nasce l’attore e, nello specifico, la sua arte. Si iniziano a pensare studi più approfonditi perché l’attore non è 103Gli episodi a cui Muller fa riferimento, in più occasioni, sono: l'arresto del padre comunista da parte dei nazisti che lo porteranno nei campi di concentramento, e il ritrovamento del corpo della moglie Inge morta suicida. In particolare si veda l'intervista di Sylvière Lotringer “Credo nel conflitto, in nient'altro. Il dramma, la prosa, Filottete e il muro fra Est e Ovest” in H. Müller, Tutti gli errori. Interviste e conversazioni 1974-1989, Ubulibri, Milano 1994, pp. 65-86. 104V. Valentini, “Tragedie proletarie nell'era della controrivoluzione. La post-drammaturgia di Heiner Müller” in Biblioteca Teatrale, Il teatro di Heiner Müller, 41, Bulzoni, Roma 1997, p. 24. 105Ibidem, p. 25. 78 solo sensibilità, ma anche “mestiere” e il mestiere può essere studiato, esercitato, tramandato: «L'attore che si basa sulla sensibilità recita in modo irregolare e, al massimo, produce un effetto di vita ma non di arte, dato che le immagini della passione a teatro, non sono immagini vere, ma vengono elevate ed idealizzate secondo le regole e le convenzioni dell'arte. La verità, ai fini teatrali, è il conformare azione, dizione, espressione e movimento non alla vita ma “a un modello ideale immaginato dal poeta e spesso esagerato dall'attore”. Per quanto realistico questi possa apparire sulla scena, ci colpirebbe immediatamente come falso o grottesco, sulla strada. L'arte è il prodotto di un attento studio e preparazione, non di spontaneità; d'altro canto, il grandissimo poeta delineerà in modo così chiaro i propri personaggi, che gli attori dovranno solo rappresentarli, senza lasciarsi tentare ad aggiungere qualcosa di proprio, per favorire la chiarezza o l'efficacia emotiva» 106. Durante l'Ottocento e poi nel Novecento, ragionando sulla trasmissione del sapere teatrale inteso soprattutto come “arte della recitazione”, si è assistito ad un fiorire di studi, trattati e manuali che hanno cercato di storicizzare, teorizzare e soprattutto di “educare” l'attore alla scena e al rapporto con il pubblico, con la finalità spesso esplicitata di determinare la buona riuscita dello spettacolo al di là della questione più squisitamente artistica. Si apre anche la strada a molte pubblicazioni di stampo manualistico, con finalità pratiche di trasmissione e codificazione di un mestiere e, in generale, dei “mestieri” della scena. Difatti, Diderot è il primo teorico del teatro “moderno”, è il filosofo che ci transita in un XVIII secolo in cui il teatro prende progressivamente sempre più forza, smarcandosi dalla pagina scritta, prendendo le distanze dalla drammaturgia per avvicinarsi sempre più verso la recitazione. Da questo punto in poi diventa difficile seguire un percorso cronologico e lineare, nascono nuovi studi che escono dall’alveo della critica letteraria e si accostano all’attore per celebrarne il talento ma anche per discuterne le capacità in maniera più ragionata e anticonformista. Si è davanti ad un mutato contesto culturale Ci ricorda Carlson che: «Chiaramente, nell'ultimo terzo del diciottesimo secolo, non soltanto era ormai disponibile un certo corpus teorico sulla recitazione, ma si erano anche costituite, al riguardo, due posizioni critiche completamente distinte. L'una riteneva che la recitazione fosse essenzialmente un processo razionale, uno studio dei mezzi tecnici per ottenere una rappresentazione armoniosa di una realtà idealizzata. L'altra privilegiava l'interiorità emotiva e 106 M. Carlson, op. cit., p. 186. 79 l'immaginazione simpatetica, richiedendo che l'attore oltrepassasse la ragione, per attingere alle sorgenti interiori del sentimento» 107. Nonostante questa rivoluzione, i cambiamenti sono molto graduali, soprattutto in ambito teorico, segnalando una spaccatura che non verrà mai sanata completamente. Una spaccatura che verrà giusto attutita quando i registi e i grandi maestri del teatro del ‘900 si dedicheranno anche alla scrittura critica e affiancheranno al loro lavoro sul palcoscenico anche un lavoro di riflessione teorica. In linea di massima, il lunghissimo filone della teoria del teatro legata e dipendente da una certa filosofia morale resiste, praticamente fino al Novecento, come interpretazione e approfondimento del concetto di catarsi aristotelica, che è in effetti un concetto molto ambiguo e da Aristotele non sviluppato, per cui molti filosofi vi hanno dovuto fare i conti nell'accostarsi al teatro in generale e alla tragedia in particolare. Se ne occupa anche Goethe108, sempre attraverso Aristotele, per separare nuovamente gli ambiti e sottolineare che l’effetto benefico di natura morale sugli uomini non deve essere compito dell’arte, ma della filosofia e della religione. Il periodo della riflessione espressa nella Germania dal Diciassettesimo secolo fino ad Hegel vede un interesse spiccato per la “forma” tragedia, ma stavolta la riflessione diventa più profonda e supera la vecchia impostazione basata sulla codificazione del genere in rapporto alla tradizione. La riflessione sul tragico è occasione per discutere del sublime, del patetico, dell'ironia e dei rapporti fra particolare ed universale, fino alla discussione sull'eroe tragico e sul suo essere in rapporto all'assoluto. La corte di Weimar diventerà il luogo da cui parte la riflessione estetica più interessante e che riguarda, attraverso la sua inclusione fra le arti, anche il teatro, si tratta di quella corte in cui aleggia il “sentimento” goethiano e schilleriano. È in questo contesto che nasce il concetto di “uomo estetico”: « […], l’uomo estetico invera l’armonia e la totalità di tutte le facoltà umane. La funzione pedagogica della bellezza garantisce che dell’uomo fisico se ne faccia un uomo morale qualora egli divenga un uomo estetico. La bellezza è schillerianamente la condizione necessaria dell’umanità. Non si dà pertanto educazione senza l’educazione estetica. […] L’aggregazione tra cultura, estetica e pedagogia risalta immediatamente come la componente 107 Id, op. cit., p. 186. 108 «Del rapporto fra teatro e morale, in particolare a proposito del concetto di catarsi, Goethe si occupa nel suo Nachlass zu Aristoteles Poetik [Eredità della Poetica di Aristotele] (1827), ultimo suo saggio di rilievo sull'arte drammatica. Ancora una volta, Goethe sottolinea, come obiettivo del drammaturgo, il raggiungimento dell'armonia attraverso la ricomposizione di elementi opposti. Ma tale ricomposizione, che egli paragona alla catarsi di Aristotele, avviene, secondo Goethe, sulla scena, e non negli spettatori. È un errore, insiste, rivendicare per il teatro un effetto benefico sul pubblico, di natura morale o emotiva. Questo è il campo della filosofia e della religione, non del teatro» (M. Carlson, op. cit., p. 209). 80 rappresentativa di uno sforzo palingenetico a cui Schiller chiama l’umanità. L’eco di questa estetica pedagogica e culturale si sparge per i due secoli a seguire e, certo non poco modificato, giunge fino al crepuscolo del Novecento» 109. Con l’uomo estetico la morale non è considerata alternativa all’estetico, non bisogna più collocare l’arte ora da una parte ora dall’altra, il conflitto è superato nella bellezza dell’arte, e il teatro nei secoli a venire vi parteciperà con sempre maggior forza e contribuendo in maniera originale. Il merito è anche e soprattutto degli autori più audaci, che con la loro visionarietà e un rinnovato coraggio, abbandonano progressivamente i temi della tradizione tragica e comica per avvicinarsi alla realtà delle tematiche contemporanee. L’attualità irrompe in scena attirando, e formando, un nuovo pubblico e creando un interessante dibattito su questioni di rilevanza sociale e culturale. Il cambiamento è nell’aria, e procede di pari passo con le trasformazioni della modernità, con la società capitalistica e industriale. Nel suo Das Moderne Drama (Il dramma moderno) del 1852, Hermann Hettner sostiene che il dramma del futuro deve trattare tematiche di ordine sociale: «Come Wagner, Marx ed Engels, Hettner sostiene che il dramma del futuro potrà “essere solo sociale e storico”, riflettendo sia i bisogni sociali che quelli emotivi del proprio pubblico. Re ed eroi famosi non possono più essere la scelta ideale per un soggetto storico, “poiché ora e nel futuro dovremo occuparci molto di più delle questioni sociali che non dei conflitti politici”. Per l'indagine su tali questioni, il dramma sociale borghese è molto più adatto di quello storico, così come quest'ultimo è stato tradizionalmente concepito» 110. L'attenzione ai temi sociali – quindi l'adeguamento delle trame all'attualità più stringente – va nella direzione di costruire un dialogo più partecipato con il pubblico, il dramma potenzialmente può e deve essere usato come strumento di emancipazione. Non si tratta solo di rendere le trame più accattivanti e coinvolgenti, si tratta di attuare una vera, piccola, rivoluzione, dando ai temi sociali la dignità del palcoscenico e, contestualmente, di offrire al pubblico la possibilità di aprire gli occhi nei confronti di questioni calde del dibattito politico e sociale, oltre che di riflettere sui temi storici più scottanti prendendo dalla platea la giusta distanza rispetto gli avvenimenti rappresentati. Il passo è segnato, i ruoli si differenziano ed emergono, i contenuti si adattano ai tempi, si stabiliscono nuovi equilibri. L’importanza accordata all’attore, e nel secolo successivo al regista, ridimensiona e muta il valore del testo scritto. Lo spettacolo non è più un elemento secondario, pleonastico o addirittura degradato rispetto al testo 109 M. Gennari, L’educazione estetica, Bompiani, Milano 1994, p. 128. 110M. Carlson, op. cit., p. 286. 81 drammatico, ma diventa centrale. Esso non deve più passare solo l’esame della critica ma deve confrontarsi con un giudice ben più severo e difficile da accontentare: lo spettatore. Insomma: «Alla fine dell'Ottocento si prospetta un rovesciamento della posizione logocentrica. Il dubbio sulla parola come depositaria della verità e la liberazione delle forze inconsce dell'immagine e del sogno provocano il distacco dell'arte teatrale dall'ambito della parola, prima considerato come l'unico ambito appropriato; la scena e tutto quanto si possa operare in scena vengono promossi al rango di organizzatori supremi del senso della rappresentazione teatrale» 111. L’arte del teatro si emancipa dalla letteratura, acquisisce una dimensione sua propria, ma con la conquista dell’indipendenza si configura come arte “effimera” nel senso più positivo e pieno del termine, e la teoria rimane indietro, perde ogni riferimento solido che fino a quel momento era stato rappresentato dal sicuro porto della critica di stampo letterario. Mentre il teatro moderno emerge in tutta la sua originalità e potenza incarnata anche dall’attenzione di un pubblico “rinnovato” e importante nei numeri, i filosofi e gli studiosi rimangono un po’ indietro rispetto alla lettura teorica del fenomeno teatrale. Questa discrepanza fra il teatro e la sua teoria non verrà mai sanata ed essa è da intendere, oggi, come carattere distintivo di un’arte restia alla teorizzazione e alla storicizzazione. Per il semiologo Marco De Marinis, nonostante il superamento del testocentrismo, gli studi teatrali sono ancora alle prese con diverse problematiche: «Dopo aver battuto, sia pure faticosamente e non senza vistose persistenze, il preconcetto “testocentrico” che, per lungo tempo, aveva preteso di ridurre la storia del teatro a storia della letteratura drammatica, oggi gli studi teatrali sono ancora alle prese con quel vero e proprio vizio d'origine della Theaterwissenshaft che è il settorialismo, la frammentazione. A ben vedere, questo settorialismo ha sempre avuto un doppio aspetto; da un lato, esso è consistito, e consiste ancora, nella tendenza a scomporre il fatto teatrale secondo le sue diverse ed eterogenee componenti (testo scritto, spazio, attore, pubblico e via dicendo) e a mai più ricomporlo, procedendo appunto ad analisi parziali e separate; dall'altro lato, esso ha prodotto, e produce ancora, l'isolamento del fatto teatrale dal suo più ampio contesto storico, sociale, culturale ed esistenziale» 112. In questo scenario caratterizzato dalla frammentazione e dal settorialismo, la proposta di De Marinis è quella di organizzare, grazie ad un approccio di tipo semiotico e non più storico, le diverse e frastagliate teorie del teatro, individuando quattro teorie 111P. Pavis, Dizionario del teatro, Zanichelli, Bologna 1998, p. 488 (testo e scena). 112M. De Marinis, Capire il teatro. Lineamenti di una nuova teatrologia, Bulzoni, Roma, 1999, p. 7. 82 principali: Storia e storiografia, Antropologia, Sociologia e Semiotica del teatro, e dando a quest'ultima l'onere e l'onore di offrirsi come possibile strumento analitico dell'oggetto d'arte del teatro, individuato in maniera definitiva e perentoria nello “spettacolo” come luogo dell'avverarsi della “relazione teatrale”. Altre considerazioni possono essere fatte a corollario della problematicità evidenziata in seno alla teoria del teatro. Innanzitutto è legittimo osservare come raramente, se non in epoca moderna, la teoria del teatro vada di pari passo con la produzione teatrale coeva. Si riconoscono degli interessanti slittamenti e dei significativi ritardi rispetto la teoria e l'oggetto di questa stessa teoria. Si tratta di uno sfasamento dovuto all'inafferrabilità dell'oggetto teatro, ovvero dello spettacolo. Gli studiosi e i filosofi che se ne sono interessati, raramente frequentavano il teatro, facevano piuttosto riferimento alla produzione di letteratura teatrale (la produzione drammatica) e quasi sempre studiavano i grandi del passato, su tutto i tragediografi greci, i comici greci e latini e, ovviamente, Shakespeare, utilizzato come una sorta di straordinaria eccezione, utile per confermare l'apparato di norme e regole di poetica e stilistica imperante fino al diciottesimo secolo. In conclusione, provando a sintetizzare ulteriormente le teorie del teatro elencate e ripercorse da Carlson, si nota come emergano due filoni principali che in qualche maniera tengono assieme gli scritti teorici dedicati al teatro, e si tratta essenzialmente di un filone prevalentemente “morale” e di uno invece “estetico”. In maniera diversa, entrambi mostrano interessanti relazioni con la pedagogia e soprattutto il superamento della loro dicotomia, che inizierà nel XVIII secolo con l’uomo estetico schilleriano, aprirà nel corso del Novecento gli scenari teorici più originali. Il filone morale, sin dalle origini, fa risiedere la pedagogia nell’esempio che il teatro può offrire attraverso il personaggio, nel porre l'azione dell'uomo giusto, soprattutto l'eroe del genere tragico, al centro dell'attenzione del pubblico. Gli spettatori dalla trama e dall’agire dell’eroe devono sentirsi stimolati ad agire in maniera corretta, ed orientarsi a compiere il bene. Il filone estetico fa risiedere la pedagogia nella bellezza dell’arte, colloca al centro dell'esperienza artistica dapprima i sensi dello spettatore e di conseguenza la sua mente (il pensiero). In questo caso è l'eccitamento della mente ad offrire all'uomo la possibilità di vedere meglio, di sentire meglio – o semplicemente in maniera diversa – e sviluppare, o raffinare, una sensibilità e nuovi pensieri attraverso la fruizione teatrale. La filosofia estetica, si pone il problema della percezione prima ancora che 83 dell'educazione dell'uomo di fronte all'opera d'arte, quindi dello spettatore di fronte allo spettacolo, e così facendo avvicina l'esperienza dell'arte all’esperienza educativa. 84 2.3 Definizioni, delimitazioni, sconfinamenti La pluralità di teorie appena descritta nel panorama delineato nel precedente paragrafo è dovuta anche – fra le altre ragioni – alla pluralità dei teatri esistenti. Esistono molti teatri e questo motiva l'esistenza di diversi approcci allo studio del teatro. Le teorie si moltiplicano poiché fanno riferimento ad un oggetto per sua natura fluttuante, polisemico, plurale. Quando si avvia un ragionamento sul “teatro” bisogna chiedersi a quale teatro si faccia riferimento. E la domanda deve essere una domanda fondata su una prospettiva “teorica” e “generale”. Che cosa chiamiamo teatro? Che cosa riconosciamo come teatro distinguendolo, così, da altre forme d'arte? Per rispondere a questa domanda con una risposta che sia anche una definizione di natura epistemologica, oltre che ontologica, più che utilizzare gli studi degli storici del teatro, dei filosofi e dei semiologi, è interessante utilizzare una suggestiva proposta del maestro Jerzy Grotowski che, in riferimento al suo “teatro povero”, definiva le regie del Teatro Laboratorio «ricerche dettagliate sul rapporto pubblico-attore» e per completezza aggiungeva «Noi riteniamo in effetti che la tecnica scenica e personale dell'attore sia il nucleo dell'arte teatrale» 113. Grotowski aveva raggiunto questo “nucleo dell'arte teatrale”, corrispondente a quella che la semiologia ha sintetizzato nella “relazione teatrale: attore-spettatore”, attraverso una via negativa, cioè attraverso l'eliminazione progressiva, lo sfrondamento di tutti quegli elementi del teatro che, a suo parere, stavano ormai intralciando l'arte stessa, riempiendo il teatro di “difetti”. «Eliminando gradualmente tutto ciò che si dimostrava superfluo, scoprimmo che il teatro può esistere senza cerone, senza costumi e scenografie decorative, senza una zona separata di rappresentazione (il palcoscenico), senza effetti sonori e di luci, ecc. Non può invece esistere senza un rapporto diretto e palpabile, una comunione di vita fra l'attore e lo spettatore» 114. Nella seconda metà del Novecento la lezione di Grotowski passava attraverso i suoi spettacoli, attraverso un incessante lavoro con gli attori che, nel momento in cui li privava di ogni elemento “materiale” del teatro li spingeva ad “essere” essi stessi il teatro, a fare del loro corpo, del loro eccezionale talento e del lavoro quotidiano, la caratteristica unica, la specificità di quest’arte che di tutto può fare a meno tranne che dell’attore e dello spettatore. 113J. Grotowski, Per un teatro povero, Bulzoni, Roma, 1970, p. 21. 114Ivi, p. 25. 85 Con un linguaggio meno pedagogico e più visionario e potente, l’interrogazione sulla necessità del teatro, su quale fosse la sua natura e specificità era stata avviata da Antonin Artaud. Il punto di partenza è sempre lo stesso, ovvero scardinare la dipendenza fra testo e scena. La “rivoluzione copernicana” che vede invertiti i rapporti d'importanza fra questi due elementi, nel poeta francese acquisisce anche toni violenti e misticheggianti. In quell'eccezionale miscela di teoria e prassi teatrale, di intenzioni sublimi e tentativi falliti che è Il teatro e il suo doppio, Artaud inizia le sue riflessioni mettendo in evidenza il punto di svolta a cui è giunto il teatro e da cui non può prescindere proprio perché esso è destinato ineluttabilmente alla morte. Il teatro deve essere “necessario” per aver senso ed esistere, altrimenti è meglio che muoia. La sua necessità per essere tale deve essere riconosciuta dal pubblico; il teatro – per esistere – deve avere un pubblico che lo ritenga “necessario” e non lo equipari ad un passatempo come tanti altri. Esistono ormai nella vita quotidiana spettacoli ben più attraenti che non quelli teatrali, spettacoli di bellezza e di violenza inaudita che si consumano talvolta anche per strada, che si spalancano improvvisi e inaspettati sotto gli occhi della gente mentre questa, con occhio morboso e attento, li divora riconoscendovi più “realtà”, più “verità” che non a teatro, sono spettacoli “abietti” e “spaventosi”, ma proprio per questo molto attraenti, capaci di focalizzare l’attenzione delle persone esercitando un fascino irresistibile. È con spettacoli come quello della polizia che esegue una retata di prostitute115 con cui deve competere il teatro, e rischia di uscirne sconfitto. L’immagine che Artaud sceglie per descrivere la sua idea di teatro è efficace e anticipa il suo concetto di crudeltà, si tratta della peste, quando «Nelle case spalancate, entra la feccia della popolazione – immunizzata a quanto pare dalla sua frenetica cupidigia – e fa man bassa di ricchezze di cui sa perfettamente che è inutile approfittare. Ed è a questo punto che nasce il teatro. Il teatro, vale a dire una gratuità immediata che induce ad atti inutili e privi di benefici nel presente» 116. Questa metafora è perfetta per definire lo “stato” del teatro nell'epoca moderna e soprattutto postmoderna, sebbene le situazioni contingenti mutino nelle due epoche, sebbene le malattie abbiano sintomi, decorsi e nomi differenti, esse restano senz'altro malattie mortali. Riccardo Massa 117 la 115«È una casa di aspetto qualsiasi; le sue porte all’improvviso si spalancano e ne esce in corteo un branco di donne, che camminano come se andassero al macello. La questione si complica, la retata era diretta non a una certa società equivoca ma soltanto a un ammasso di donne. Emozione e sbigottimento sono al colmo. Mai messinscena più bella si è conclusa con un simile finale. Noi siamo certamente colpevoli come quelle donne e crudeli come quei poliziotti. È proprio uno spettacolo completo. Ebbene il teatro ideale è questo spettacolo» (A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino, 2000, p. 6). 116 Ivi, p. 142. 117 F. Antonacci, F. Cappa (a cura), Riccardo Massa. Lezioni su la peste, il teatro, l'educazione, Franco Angeli, Milano, 2001. 86 peste artaudiana la riprenderà, approfondendola e declinandola proprio in un contesto pedagogico, con riflessioni e applicazioni preziose che saranno trattate nel seguente capitolo. Il teatro di cui parla Artaud è un teatro necessario, che esiste quando tutto è perduto, esiste come anelito di vita e come vita stessa, unica possibilità di sopravvivenza attraverso l'azione. Un'azione che ha nel suo stesso agire il principio di realtà e verità, un principio che non coincide con l'utilità: l'azione dello sciacallo che deruba le case e si riempie le mani di gioielli che a nessuno potrà rivendere o semplicemente mostrare perché tutti sono morti, lo sciacallo che svuota le case essendo lui stesso un appestato, lui stesso destinato a morte sicura. Negli anni 30 del Novecento Artaud inizia la sua riflessione sul teatro, strettamente connessa alla sua attività ed esperienza artistica teatrale, riconoscendo la grande crisi che ne mina le fondamenta di “credibilità” rispetto al pubblico francese e, per estensione, europeo. Nel proporre la sua idea di teatro – un teatro “puro” che avrebbe poi definito “della crudeltà” e mai realizzato per come lo aveva immaginato – la prima preoccupazione è la possibilità di trovare un pubblico disponibile a dare credito e fiducia a questo teatro nascente. Sin dalla prima pagina della raccolta dei suoi scritti, in cui trovano spazio numerosi manifesti programmatici, Artaud ci ricorda che nel teatro, «a differenza dei letterati o dei pittori, non ci è possibile fare a meno del pubblico, che diviene del resto parte integrante del nostro tentativo»118. Le sorti del teatro e del pubblico teatrale sono quindi strettamente legate ed interdipendenti l'una dall'altra, possono salvarsi solo se entrambe riconoscono il desiderio di volersi reciprocamente salvare, altrimenti possono entrambi (teatro e spettatori) scomparire, affondare. In quest'ottica appare chiaro che se «Il teatro è la cosa più impossibile da salvare al mondo», è anche fra le arti la più fragile e preziosa poiché offre allo spettatore la responsabilità della propria esistenza, a differenza delle altre arti che esistono in quanto producono degli oggetti d'arte (intesi come opera materiale) senza il contributo dello spettatore (escluso dal processo creativo) e gli si offrono come già dati, liberandolo da ogni responsabilità. Invece il teatro, per esistere, – non solo per rinnovarsi ed essere salvato – ha bisogno dello spettatore che ne “certifichi” il potere d'illusione. La responsabilità è nel teatro che deve possedere il potere d'illusione, ma è anche nel pubblico che deve abbandonarsi ad essa. «Vogliamo arrivare a questo: che ad ogni 118 A. Artaud, op. cit., p. 5-6. 87 spettacolo allestito è per noi in gioco una partita grave, e che tutto l'interesse del nostro sforzo sia in questo carattere di gravità. Non ci rivolgiamo allo spirito o ai sensi degli spettatori, ma a tutta la loro esistenza. Alla loro e alla nostra. Giochiamo la nostra vita nello spettacolo che si svolge sulla scena. Se non avessimo ben chiara e profonda coscienza che una parte della nostra vita profonda vi è impegnata, non riterremmo necessario proseguire la nostra esperienza»119. Artaud vuole che il teatro sia il luogo in cui dalla scena sia possibile parlare “direttamente allo spirito” degli spettatori 120. Una grande preoccupazione di Artaud, condivisa da altri “maestri” del teatro del '900, e che ha ripercussioni significative sulla produzione teatrale della modernità e postmodernità è la fossilizzazione del teatro come luogo di “esposizione” della cultura teatrale, le sue parole in merito sono durissime e le troviamo espresse con l'uso dispregiativo del termine “museo”, un uso che riprenderà Heiner Muller con uguale accanimento poetico, proprio per denunciare un uso sterile del teatro e che lo uccide a causa della recisione del legame – fortissimo – che esso deve intrattenere con l'attualità attraverso il pubblico e la rappresentazione. Infatti scrive: «Ci rifiuteremo sempre di considerare il teatro come un museo di capolavori, per quanto belli e umani possano essere. Non avrà mai nessun interesse per noi, né, riteniamo, per il teatro, un'opera che non obbedisca al principio di attualità. Attualità di sensazioni e di preoccupazioni, più che di fatti. La vita che si rinnova attraverso la sensibilità attuale. Sensibilità di tempo come di luogo»121. Occorre comunque tenere presente che il concetto di attualità, per come lo intende Artaud, è abbastanza complesso, per cui questo passaggio va problematizzato e interpretato adeguatamente. Adesso sia sufficiente segnalare l’importanza dell’irrompere dell’attualità in scena, non solo come dovere nei confronti dello spettatore, ma anche come meccanismo di rivitalizzazione dell’arte stessa. Sono molti i punti messi in evidenza ma, più il regista e poeta indica con violenza ciò che il teatro non deve essere, non deve fare, non può rappresentare, o quanto esso sia in punto di morte, più il lettore avverte la forza vitalistica di quest'arte, il suo essere “umana” e il suo essere più che mai “necessaria” in un mondo che viene periodicamente invaso dalla “peste”. Tuona Artaud contro la parola scritta, i testi drammatici da riproporre, gli attori prezzolati, la politica corrotta, il pubblico assente ma poi sceglie i testi da rappresentare, vuole una parola poetica in scena, che sappia anche essere attuale, 119 A. Artaud, op. cit., p. 7. 120 «Non ci proponiamo, com'è sempre stato richiesto al teatro, di dare l'illusione di ciò che non è; ma al contrario, di fare apparire agli sguardi un certo numero di scene, d'immagini indistruttibili, incontestabili, che parlino direttamente allo spirito» (Ivi, p. 13). 121Ivi., p. 21. 88 chiede agli attori di provare, pretende per loro la paga e vuole il teatro a teatro, non in strada, lo vuole su un palcoscenico attrezzato e garantito, vuole replicare a lungo i suoi spettacoli, vuole che spettacoli e attori vengano applauditi da un pubblico pagante. E la forza della scrittura visionaria di Artaud è nel fatto che attraverso essa il poeta possa tenere insieme queste “anime” del teatro senza farle deflagrare nelle loro contraddizioni. La potente riflessione artaudiana non è “contro il teatro”, ma “contro un teatro” che è quello borghese. Un teatro che ha perso il rapporto con la realtà, non comunica verità, non interessa più a nessuno, non è un teatro necessario ma è il teatro capace di trasformare anche i capolavori in museo. Se per Artaud è nel teatro Balinese che vede realizzata la sua idea di teatro, di un teatro puro che al centro non ha le parole ma “la Parola di prima delle parole” 122, è perché in questo teatro c'è l'avverarsi della scena senza le inutili intermediazioni della pagina scritta che ne minerebbero originarietà e necessità, ovvero vi risiede un teatro in cui c'è l'eliminazione dell'autore a favore di un regista – per utilizzare un termine del teatro occidentale – che ha il compito di far nascere il teatro dalla scena e per la scena 123. Il linguaggio poetico non deve trarre in inganno, deve piuttosto ispirare, quella di Artaud per il teatro Balinese non è infatti un'infatuazione né una folgorazione, ma un'epifania su cui bisognerà ragionare e riflettere a lungo, riconoscendo, in anticipo su tutti i grandi del '900, come il testo possa anche funzionare da “limite” rispetto alla scena. Egli parla infatti di una vera e propria “soggezione” del teatro alla parola, e non si tratta affatto di un'esagerazione – magari allo scopo di provocare – ma è piuttosto una profezia del teatro di ricerca degli anni a venire. Il teatro che in questa sede si vuole rendere oggetto di analisi e confronto con la pedagogia è un teatro che possa non tanto definirsi “teatro di ricerca”, anche perché oggi questo termine è equivoco nel senso che è oramai utilizzato come un'etichetta riconducibile ad alcune compagnie specifiche e ad alcuni modalità di lavoro e produzione abbastanza consolidate e riconoscibili, quanto un “teatro come ricerca”. Il teatro che educa non è necessariamente un teatro di tipo “sociale” (anche nel senso di politico) o “didattico”, è piuttosto il “teatro come ricerca”. Ovvero un teatro che nell’offrirsi come esperienza di vita, dell’arte e di incontro con l’altro, possa darsi come un teatro capace di far riflettere, far crescere lo spettatore, metterlo di fronte alla possibilità di crescita umana oltre che culturale, insomma un teatro che offra al pubblico la possibilità di “fare esperienza”. 122Ivi, p. 176. 123Ivi, pp. 177-178 89 90 III CAPITOLO Pedagogia e teatro: l'incontro possibile Nel presente capitolo, abbandonati i distinguo e le definizioni delineati nei precedenti, si affronteranno le convergenze fra pedagogia e teatro nelle loro declinazioni più efficaci e auspicabili a partire da alcuni concetti-chiave appartenenti ad entrambi gli ambiti di ricerca, concetti chiave che ruotano attorno all'uomo e alla sua humanitas. Non si tratta di voler rivendicare e/o legittimare una comune matrice della pedagogia e del teatro facendo leva sulla constatazione che tanto la pedagogia quanto il teatro pongano al centro della loro riflessione – ma anche e soprattutto del loro stesso statuto ontologico – l'uomo, sebbene si debba comunque riconoscere, come già indicato in maniera sommaria nell'introduzione, che l'uomo, inteso come “uomo-umano”, prima che come “soggetto-persona”, è il fulcro che rende possibile il dispiegarsi di ogni ragionamento. Tanto al centro di una scienza problematica come la pedagogia, quanto al centro di un'arte problematica come il teatro. Non esiste una parola, una crasi, o una coppia di parole separate/unite da un trattino che, in sintesi, possa aiutarci a nominare questa convergenza, innanzitutto perché non esiste una convergenza data in una forma definita e univoca, esiste una convergenza fatta di mille convergenze, esperienze, situazioni, metodologie, teorie e pratiche, successi e fallimenti, che è errato definire “pedagogia teatrale” così come è errato definire “teatro pedagogico” o “teatro didattico”, definizioni che peraltro, come è stato indicato nell'introduzione generale, hanno ormai acquisito nel tempo ambiti di significato propri e studi e bibliografie di riferimento che in questa sede si è scelto di non trattare. 91 3. 1. Centralità della formazione Stabilito che non si vuole individuare un'etichetta nuova per giustificare come “pedagogiche” delle pratiche teatrali che hanno, spesso e dichiaratamente, come ispirazione dell'intero percorso produttivo nonché come obiettivo precipuo, delle finalità estetiche; né viceversa giustificare come “teatrali” delle attività educative e formative per prospettive e finalità che pure utilizzano nel percorso complessivo – e spesso in maniera strumentale – processi, tecniche e modalità d'apprendimento e di lavoro mutuate dalle pratiche teatrali; si ribadisce che ciò su cui in questa sede si vuole insistere è come la pedagogia in quanto scienza e il teatro in quanto arte, attraverso percorsi diversi, con modalità diverse e finalità che potrebbero anche sembrare opposte, trovino un terreno di convergenza nella questione della formazione. La formazione, più che l'educazione, si delinea come concetto che pervade il pensare/fare pedagogico e il pensare/fare teatrale, soprattutto considerato come dispositivo capace di determinare, regolare e rafforzare quella “relazione” fra l'io e l'altro, che sia l’educatore con l’allievo, o che sia l’attore con lo spettatore, che è situata all'origine sia della pedagogia sia del teatro. Pur nelle loro, molteplici, differenze e distanze, la relazione di tipo pedagogico e quella di tipo teatrale hanno in comune alcuni tratti fondamentali: in primis l'aspirazione alla comunicazione e alla formazione, poi il bisogno d'alterità e d'ulteriorità, la ricerca del sé, l'anelito alla libertà, l'esigenza di emozionalità, di empatia, di libertà e di verità. Si è già accennato, nei due precedenti capitoli, al teatro come arte prescelta e maggiormente indicata per esaminare questa convergenza; si ritiene, in effetti, che il ragionamento che si sta via via proponendo risulti efficace nel suo essere misurato, tarato, sulle arti performative, poiché la performatività si pone come condizione di base dell'esistenza stessa dell'arte, e questa stessa performatività, nel caso specifico del teatro, rende possibile una “relazione” – quella appunto teatrale – che è al tempo stesso “formativa” e “performativa”. La relazione teatrale esiste laddove esiste il teatro, lo spettacolo senza spettatore non può esistere poiché l'attore nulla può produrre di “materiale” e tangibile (a differenza dello scrittore, del pittore o dello scultore) al di fuori del proprio “esserci” per/davanti a qualcuno. L'azione teatrale esiste nell'atto di farsi, per cui si avvera grazie e attraverso la presenza dell'altro; dello spettatore, del fruitore, di un attivatore “esterno” che consenta all'opera di esistere e, al tempo stesso, ne legittimi l'esistenza e ne partecipi della 92 creazione. Come spiega Marco De Marinis, la “relazione teatrale” è nel teatro, mantenendo un approccio semiotico, “ciò che esiste realmente”, esiste quindi più dello spettacolo, più di ogni altro elemento costitutivo della specificità teatrale: «[...] lo spettacolo non possiede neppure un'esistenza realmente autonoma, da entità finita e conclusa in se stessa: al contrario, esso acquista senso, diventa intellegibile, comincia addirittura ad esistere in quanto tale, cioè come fatto estetico e semiotico, solo in riferimento ai già ricordati momenti della sua produzione e della sua ricezione (anzi, delle sue ricezioni). Si potrebbe anche arrivare a dire che ciò che esiste realmente, almeno dal punto di vista semiotico, non è lo spettacolo ma la relazione teatrale, intendendo con questo termine innanzitutto il rapporto attore-spettatore, e poi vari altri processi comunicativi e interazionali di cui uno spettacolo è stimolo e occasione dalla sua prima ideazione fino alla fruizione del pubblico» 124. Lo spostamento attuato dallo spettacolo come centrale oggetto di studio della teatrologia a favore della relazione teatrale, e soprattutto l'identificazione progressiva, attuata dagli stessi teatranti nonché dai più importanti teorici, del teatro con la relazione teatrale, per cui il teatro esiste laddove si creano le condizioni minime necessarie all'attuarsi della relazione teatrale, inscrive il prodotto di quest'arte in una fenomenologia complessa ed ardita, frutto di un incontro fra più elementi anch'essi provenienti da processi formativi e creativi complessi e stratificati nonché soggetti a cambiamenti continui, a fattori esterni incontrollabili. Ciò che tiene insieme le parti “messe in relazione” è, prima ancora e alla base del processo formativo, il processo comunicativo, ovvero la comunicazione che nella relazione “collega”, “informa” e “forma” le parti coinvolte. Il teatro, nell'assieme delle arti performative quali musica, danza, ecc., si distingue per il suo carattere pluridisciplinare, multimediale e pluricodico, per cui è l'arte per eccellenza che, dal punto di vista comunicativo, può agganciare un numero molto ampio di fruitori. La scelta non esclusiva di un linguaggio sugli altri ma la coesistenza dei linguaggi verbale, gestuale, tattile etc, in scena, permette l'abbattimento dei limiti comunicativi imposti dal prevalere di un codice sugli altri, sia esso solo visuale, verbale o gestuale. Ed è proprio l'istanza comunicativa a darsi come esigenza primaria in ogni relazione fra esseri umani, anzi, per dirla con i filosofi del linguaggio, è la comunicazione che rende possibile, che fa “esistere”, la relazione stessa. La pedagogia è, essa stessa, fondata sulla comunicazione, poiché rende possibile il 124 M. De Marinis, Capire il teatro. Lineamenti di una nuova teatrologia, Bulzoni, Roma 1999, p. 24. 93 passaggio – attraverso il linguaggio – fra l'interiorità e l'esteriorità dell'uomo, fra l'uomo e il mondo, fra l'io e l'altro: «Nell'essenza sostanziale dell'uomo, la forma del linguaggio esprime un bisogno anche funzionale: quello di dar vita, nella vita, a una struttura discorsiva con la quale parlare a sé e parlare di sé, parlare all'altro e parlare dell'altro. Nella parola greca lógos si cela l'identità fra il pensare e il parlare. […] È dunque l'uomo che parla il proprio mondo. Esso viene detto, comunicato, costruito e decostruito, secondo una grammatologia che fa del lógos lo strumento con cui il soggetto trascendentale dall'interiorità raccolta dell'animo umano esce e affronta la differenza […]. Il linguaggio sancisce il differire, espugna l'identico e pone la formazione e l'educazione fra le parole del mondo» 125. Il linguaggio, e nel caso della pedagogia il riferimento è specificatamente a quello verbale, è lo strumento che “nominandola” pone l'esistenza della formazione nel mondo. In generale, di ogni oggetto e/o soggetto nel mondo. Ma il passaggio più importante, in questo ambito preciso, è l'uscita dell'interiorità fatta parola dal soggetto verso l'esterno, la possibilità di comunicare incarnata dalla sola possibilità di “comunicare a/con”. Attraverso la comunicazione l'interiore diventa esteriore, il privato diventa pubblico, l'individuale diventa sociale, la semplice presenza diventa “rappresentativa”. Spiega John Dewey, in quel mirabile capitolo di Esperienza e natura intitolato “Natura e comunicazione” come grazie alla comunicazione «Una cosa direttamente goduta accresce il proprio significato e perciò stesso il godimento di essa viene idealizzato. Anche la muta fitta di dolore consegue un'esistenza significativa quando può essere identificata e può divenire oggetto di discorso; cessa di essere una semplice presenza che esercita la sua forza e diventa una presenza importante; acquista importanza perché diventa rappresentativa; ha la dignità di una funzione» 126. La formazione arriva quasi a coincidere con il linguaggio o, per meglio dire, il primo atto di formazione, compiuto dalle figure genitoriali, è proprio quello di stabilire una relazione con il neonato attraverso il linguaggio. La madre inizia attraverso la rotondità del gesto materno127, attraverso il gesto fisico dell'allattamento, a comunicare con il bambino, a prendersi cura di lui, a parlargli con un linguaggio che ancora è inintelligibile al neonato. Il linguaggio – sia quello verbale, quello dei segni per i bambini sordi o quello che privilegia l'aspetto “tattile” per i ciechi – è l'inizio della relazione di cura, è il grado zero della “formazione” che precede e contiene ogni 125M. Gennari, Trattato di pedagogia generale, Bompiani, Milano 2006, p. 151. 126J. Dewey, Esperienza e natura, Mursia, Milano 1973, p. 132. 127Cfr. I. Gamelli, Sensibili al corpo. I gesti della formazione e della cura, Meltemi, Roma 2005. 94 possibilità di futura educazione. Per sviluppare il linguaggio il bambino non può “fare da solo”, ha bisogno di qualcuno che glielo insegni, attraverso un'azione che non è diretta alla semplice cura per la sopravvivenza biologica del bambino, ma è già, sin dalla nascita, un'azione che compete all'ambito della formazione. In questa prima fase, in cui il linguaggio veicola la sua stessa presenza, prima di veicolare un qualsivoglia contenuto, il linguaggio si caratterizza già come dialogo, come possibilità di dialogo, è un linguaggio basico che vuole dire: “voglio comunicare con te, sto comunicando con te, io esisto e tu esisti perché stiamo comunicando”. Si ricordi che: «Il linguaggio non lo si può acquisire da soli: per quanto attinga da una capacità innata, la competenza linguistica si palesa come un'abilità squisitamente relazionale, esito di un processo definito da Vygotskij di “negoziazione”, tale per cui chi si trova “più avanti” aiuta l'altro a progredire nella stessa direzione. Ciò che fa la differenza – che consente il passaggio dalla sensazione al pensiero – non sta dunque in un preliminare possesso delle precise regole del linguaggio ma in ciò che potremmo chiamare “l'intento comunicativo”. È il dialogo che avvia il linguaggio, e non il contrario»128. L'arte è solitamente fondata sulla comunicazione “mediata”, la mediazione è ciò che sta fra l'artista e il fruitore: il libro, il quadro, il film ecc., insomma, “l'opera”. Nell'opera si concretizza la possibilità della comunicazione, attraverso la “forma”, quella forma che ad esempio sempre John Dewey definisce in termini di “relazioni”, con il portato di ambiguità che tale definizione comporta: «La forma è stata definita in termini di relazioni, e la forma estetica in termini di completezza di relazioni entro un medium prescelto. Ma “relazione” è una parola ambigua. Nel discorso filosofico è usata per designare una connessione stabilita nel pensiero. In tal caso significa qualcosa di indiretto, di puramente intellettuale, addirittura di logico. Nel suo uso idiomatico, però, “relazione” denota qualcosa di diretto e di attivo, qualcosa di dinamico ed energico. Fissa l'attenzione sul modo in cui le cose si rapportano l'una all'altra, sulle loro collisioni e sulle loro congiunzioni, sul modo in cui si soddisfano o si frustrano, si favoriscono o si ostacolano, si eccitano o si inibiscono l'una con l'altra» 129. Nel caso del teatro fra il creatore/artista e il fruitore/spettatore c'è lo spettacolo in quanto “opera” e “medium”. Ma cos'è lo spettacolo? «Spettacolo è tutto ciò che si offra allo sguardo. […] Tale termine generico si applica alla parte visibile della pièce (rappresentazione), a tutte le forme d'arte della rappresentazione (danza, opera, cinema, mimo, circo, ecc.) e ad altre 128I. Gamelli, op. cit., pp. 149-150. 129 J. Dewey, op. cit., p. 145. 95 attività che implichino una partecipazione del pubblico (sport, riti, culti, interazioni sociali), insomma a tutte le cultural performances di cui si occupa l'etnoscenologia»130. La generalistica definizione di Pavis ha il pregio di essere inclusiva ma, proprio per questo finisce per delimitare con forza l'ampiezza delle possibilità imponendo la condizione essenziale della “partecipazione del pubblico”. E ancora, l'estendere a tutte le cultural performances, se da una parte allarga a tutte le pratiche dei comportamenti umani spettacolari organizzati, dall'altro focalizza sull'uomo e soprattutto sul suo corpo, sulla sua azione performativa, sottolineando come l’uomo, di fatto, anche da solo, senza scena, costumi, o altri elementi materiali, tali performances le possa compiere. Alla fine, lo spettacolo, tutto ciò che si offre allo sguardo, può consistere solo dell'attore. Il teatro se non è l'unica forma d'arte in cui l'opera può coincidere con un corpo umano, con il corpo dell'attore, è sicuramente la principale, quella che ha eletto questa possibilità espressiva a sua specificità costitutiva. Infatti dalla nascita del teatro ad oggi: l'attore può coincidere con l'autore, il regista ecc. L'attore entrando in scena esiste – anche senza copione, senza testo, senza gesto – perché il suo esserci – la sua presenza corporea (ma senza scindere il fisico dal mentale) è copione, è testo, è gesto. A teatro il silenzio è testo, dice, comunica131. Lo spettacolo è già nella relazione con il pubblico, nell'azione che fra attore e spettatore intercorre. Così spiega Peter Brook la specificità del teatro: «Se l’abitudine ci porta a credere che il teatro debba iniziare con un palcoscenico, scene, luci, musica, poltrone… partiamo sulla strada sbagliata. Può essere vero che per fare dei film ci sia bisogno di una macchina da presa, di pellicola e degli strumenti per svilupparla, ma per fare teatro occorre solo una cosa: l’elemento umano»132. L’argomento era già stato affrontato dal regista inglese nelle sue precedenti riflessioni sul teatro ne Lo spazio vuoto, ma è ne La porta aperta che sente l’esigenza di chiarire e dare “sentimento” a questo concetto così importante e definitivo, aggiunge infatti: «Una volta affermai che il teatro comincia quando due persone si incontrano. Se una persona si alza in piedi e un’altra la guarda, questo è già un inizio. Perché ci sia uno sviluppo, c’è bisogno che subentri una terza persona che provochi un incontro. Allora subentra la vita, ed è possibile andare molto lontano – ma i tre elementi sono essenziali» 133. È a partire da questi “tre” elementi che formiamo un terreno comune fra pedagogia e teatro: due persone che si incontrano, e il legame “vitale” che possono 130P. Pavis, Dizionario del teatro, Zanichelli, Bologna 1998, p. 424. 131Cfr. P. Szondi, Teoria del dramma moderno, Einaudi, Torino 1962. 132 P. Brook, La porta aperta, Einaudi, Torino 2005, pp. 10-11. 133 Ibidem. 96 scatenare. Siamo nella relazione pedagogica, da cui deriva l’atto formativo, la “vita” di cui parla Peter Brook. Per cui si delinea un primo livello di convergenza che accomuna pedagogia e teatro e che possiamo considerare basilare, anzi “fondativo” come carattere in entrambe presente e riconoscibile, questo comune terreno d'appartenenza è, con successive specificazioni, la “centralità della formazione”. Il discorso relativo alla formazione, senz'altro centrale in pedagogia, lo è anche nel teatro, sin dalle origini, proprio per quegli aspetti comunicativi (e ontologici) a cui si è fatto riferimento nei capitoli precedenti. Il teatro non è dichiaratamente interessato alla formazione, ma è necessariamente interessato allo spettatore, all'altro che guarda, assiste allo spettacolo, consente l'esistenza dello stesso e, soprattutto, inter-agisce con la scena, è quindi coinvolto in una relazione innanzitutto “teatrale”, e in seconda istanza “formativa”. Con lo spettatore esso intreccia un dialogo di tipologia particolare, che è sempre duplice, poiché interessa l'altro in senso astratto/sociale, ma trattandosi di una vera e propria comunicazione, lo interessa anche in senso particolare/individuale. Poiché è la comunicazione stessa che impone la reciprocità, impone la relazione: «Il linguaggio istituisce la reciprocità, il cui valore è stabilito nell'interpretabilità vicendevole tra un io e un tu, un altro, un terzo... che non può essere estromesso o escluso»134. Elemento da sempre presente nel discorso pedagogico, anzi costitutivo dell'identità della pedagogia, la formazione appare come elemento di riflessione teorica, seppure non continuativo né ontologicamente fondativo, quindi non nella sua accezione più propria, nella storia del teatro dalle origini ad oggi. Per essere meno vaghi, dalla tragedia classica greca fino al teatro “di ricerca” che inizia nel secondo Novecento, passando per la tradizione delle rappresentazioni sacre medioevali, l'autoriflessività dell'età shakespeariana, l'esperienza brechtiana e dell'agit-prop, fino ad arrivare ai giorni nostri sulla lunga scia di un teatro “antropologico”, “popolare”, “sociale”, “partecipato”, ecc. Ma l'individuazione di queste “tappe” di convergenza del pedagogico nel teatrale individuabili nella storia del teatro non deve trarre in inganno, il teatro nasce e giunge fino ad oggi con l'attenzione puntata sulla scena e sullo spettatore, così come la pedagogia, attraverso il concetto di formazione, nasce con l'attenzione dell'uomo per se stesso e per l'altro. Ma cos'è la formazione? Si prenda in considerazione l'esaustiva definizione proposta da Cambi: «La formazione è il processo di crescita, sviluppo, orientamento 134M. Gennari, Trattato di pedagogia generale, cit., p. 151. 97 personale, che fa del soggetto quello che è, col suo carattere, le sue vocazioni, i suoi obiettivi. È un processo che verte soprattutto sulle scelte interiori del soggetto, che riguarda soprattutto la sua vita interiore, che lo apre via via al superamento della propria “materialità” (organica e fisica, sociale e storica) in direzione della sua spiritualità che è sì coscienza di sé, anche, ma è, in particolare, sviluppo del sé nell'io, di una personalità arricchita da tutte le forme (o, almeno, da molte o da alcune) della vita spirituale, di cui è depositaria la cultura, di ieri e di oggi, e tutta quanta. La formazione è sviluppo del soggetto nella sua umanità (humanitas come dicevano i latini) che si fa e cresce nella costante mediazione tra coscienza individuale e oggettività culturale»135. Il movimento è dall'interno verso l'esterno, dall'uomo che pensa se stesso e si prende cura di sé, verso un esterno che è fatto dell'altro da sé, di un altro da sé che non è solo materiale, “gli altri” e “il mondo”, ma che è anche, e soprattutto spirituale: l'alterità, l'ulteriorità, la cultura. Cultura di cui l'uomo, il “soggetto-persona”, ha la responsabilità di doversi prendere cura. Tutto ciò, in ambito teorico, è considerato un problema fondativo della pedagogia stessa, elemento di crisi nell'intenderla come scienza, elemento di identità nel distinguerla dai saperi umanistici, elemento di complessità nel considerarla “sistema di saperi”. È l'oggetto stesso della pedagogia ad essere complesso, perché attiene all'uomo ma non all'uomo inteso come “un” aspetto dell'umanità, ma all'uomo inteso come “uomo-umano”, nel suo relazionarsi inesausto con se stesso, l'altro, il mondo, l'ulteriorità e quella cultura che pure, come parte della società umana, egli stesso ha contribuito a produrre. Il discorso pedagogico pone la centralità della formazione come elemento di sintesi e al tempo stesso problema aperto di un sapere, la pedagogia, posto tra costituzione e regolazione di senso, tra teorizzazione e applicazione. Per cui «[...] l'oggetto della pedagogia, il momento della sua esplicazione, risulta essere il processo formativo, in quanto rispetto all'oggetto-educazione è espressione di un processo più complesso costituito da un insieme di categorie che evidenziano la tendenziale espropriazione da parte degli altri saperi, la possibile applicazione dei modelli pedagogici di riferimento verso la pratica, la tensione problematica verso i valori» 136. Questa tensione problematica verso i valori, che sono i molteplici valori del sociale, del politico, del culturale, del contemporaneo, dell'“umano”, può trovare una sua 135F.Cambi, “L'identità postmoderna della pedagogia generale” in F. Cambi, M. Giosi, A. Mariani, D. Sarsini (a cura), Pedagogia generale. Identità, percorsi, funzione, Carocci, Roma 2009, p. 36. 136G. Spadafora, cit., p. 27. 98 “rappresentazione” nel teatro, nell'arte in generale e nel teatro in particolare. È anche per questa problematicità, critica e al tempo stesso virtuosa, che la presente ricerca pone la formazione come categoria fondante dell'incontro fra pedagogia e teatro, mettendo in secondo piano l'educazione, senza escluderla. Perché se educazione e formazione non coincidono, è anche vero che la formazione include l'educazione in un complesso reticolo di rapporti, anche fondativi e soprattutto fondativi, che ne consentono l'esistenza e il dispiegarsi in un agire antinomico all'interno di un quadro originario che vuole darsi come aperto e problematico, poiché considera l'uomo come soggetto al tempo stesso autonomo e sociale. «Senza educazione non c'è formazione. Ma questa va oltre. Si sposta su quella quota personale, interiore, spirituale (coscienza + cultura) che meno riguarda l'educazione o, in genere, non la riguarda affatto. L'educazione trasmette e conforma. Soprattutto e in particolare. La formazione coltiva il soggetto, nella sua autonomia, nella sua singolarità, nella sua irripetibilità e gli offre gli strumenti per coltivarsi in questa sua specificità di esser-soggetto singolo e creativo. L'educazione è sociale e produce socializzazione. La formazione è personale e crea individui originali e autonomi e creativi» 137. La chiave è l'autonomia del soggetto, obiettivo della formazione, una autonomia rivolta all'esterno, sempre in cerca di relazioni in cui potersi avverare. I valori di autonomia come anche quello, fondante il pedagogico, di libertà138 sono valori che non possono essere letti nell'ottica singolare, dell'isolamento solipsistico, sono valori del sé nel momento in cui si riconoscono nell'altro. Nel momento in cui danno vita ad una relazione che si deve dare come paritaria, aperta, inclusiva, solidale. Sono valori che hanno senso nel privato solo se si misurano nel pubblico, nella società. Rita Fadda, riprendendo Marìa Zambrano, poeticamente ci ricorda che «La formazione è nella vita ed è vita, con il suo carico di imponderabilità, di mistero, di casualità e di alea, è vita che si forma, perché la vita è come un fiume che ha bisogno degli argini e così essa ha bisogno di scorrere chiusa in una forma, perché solo al suo interno si rende attiva, perché l'informe è inattivo e sterile e la vita è tanto più perfetta quanto più è impegno per ognuno di noi a cercarne la verità, cioè il senso, la direzione, e, ancora una volta, la forma»139. Forma come immagine di sé che si dà agli altri e che 137F.Cambi, “L'identità postmoderna della pedagogia generale” in F. Cambi, M. Giosi, A. Mariani, D. Sarsini (a cura), Pedagogia generale. Identità, percorsi, funzione, Carocci, Roma 2009, p. 37. 138Cfr. M. Montessori, Educare alla libertà, Mondadori, Milano 2008. 139 R. Fadda, “Un modello italiano di pedagogia critica. Presupposti, sviluppi, problemi aperti”, in E. Colicchi (a cura), Per una pedagogia critica. Dimensioni teoriche e prospettive pratiche, Carocci, Roma, 2009, p. 45. 99 gli altri danno, forma come atto d'amore e di cura che l'uomo dà al mondo, forma come atto d'amore e di cura con cui – attraverso l'immaginario culturale – il mondo accoglie, forma e “libera” l'uomo. La formazione include, nel suo agire educativo, quel concetto (già trattato nel primo capitolo), da richiamare come paradigma e modello pedagogico, di “cura del sé”. In pedagogia, questo concetto significa: «Cura come prendersi-cura, sostenere, affinare, sviluppare, poi anche guidare, orientare, ma sempre nella e per la libertà. Così la cura in pedagogia si tende tra sostegno e dono e colora sempre di legami affettivi-emotivi positivi, siano essi espliciti o impliciti in un agire, prossemico, ma “spirituale”, rivolto all'interiorità (della mente, del cuore, del sé). Un tipo di cura specifica e da tutelare (da interpretare) nella sua specificità» 140. In conclusione, la formazione come parola-chiave di una possibile convergenza in pedagogia e nel teatro, significa insistere sul concetto di “relazione”, perché è nell'attività relazionale io/altro e attore/spettatore che si creano le condizioni di comunicazione, empatia, confronto che consentono i presupposti per un rapporto formativo. La libertà espressiva, creativa e comunicativa rimane come strumento regolatore di una relazione complessa, potente e fragile al tempo stesso, che vede l'uomo attivo nella cura del sé attraverso la cura dell'altro all'interno del mondo. Il teatro, con la “relazione teatrale” si offre come arte privilegiata, poiché essa ne esplicita il meccanismo io-altro, interno-esterno, interiorità-alterità, lo metaforizza e lo sublima nel rapporto attore-spettatore, lo mette in crisi e costantemente lo rinnova nell'esperienza fruitiva, lo circoscrive nel qui e ora dell'azione in scena, lo amplifica e lo espande nelle mille forme dei teatri possibili. 140F. Cambi, “L'agire educativo: la struttura e il senso”, in op. cit., p. 94. 100 3.2 L'antinomia ambivalente nell'educazione e nel teatro. Una delle questioni più interessanti, ma anche controverse che emerge dal convergere di pedagogia e teatro, è la questione del “sociale” e/o del “politico”. Si tratta di una problematica che è tornata a giocare un ruolo di primo piano negli studi di settore, e che sta conoscendo nuovi approfondimenti sebbene su percorsi paralleli riferiti ai due ambiti. In ambito pedagogico prevale con le ricerche portate avanti nel definire, sviluppare e valorizzare concetti quali: l'emancipazione, la cittadinanza, la democrazia, l'intercultura, l'educazione alla pace, ecc. Mentre, per quel che concerne il teatro, emerge nell'individuazione di categorie quali il teatro popolare, sociale, di comunità, partecipato ecc. Da un punto di vista storico, la questione del “sociale”, caratterizza la pedagogia sin dalle sue origini: «Già l'educazione è, da sempre, un fatto sociale: esercitata dalla società in varie forme e rivolta a tenere attiva la “forma di vita” a cui quella società ha dato luogo. Educazione è inculturazione e trasmissione e conformazione. Pertanto è l'educazione a render presente nelle diverse generazioni quella specifica forma-di-vita, a trasmetterla, depositarla, farla essere. Così l'educazione è il collante-basico di ogni società. Sempre. Ed è l'educazione che, di fatto, ha reso possibile la storia, qui e là, ieri, oggi e in generale. Poi nasce la pedagogia: anch'essa (come sapere – rigoroso, critico, innovatore – sull'educazione) cresce in una situazione sociale. Di crisi di un costume. Di bisogno di nuovi modelli»141. L'educazione come fatto sociale significa connotare di un insieme di significati la parola educazione, riconoscerle un ampio spettro di pensiero e di azione che parte dal nucleo più piccolo che costituisce la società, ovvero la famiglia – a cui è attribuito il compito di impartire la prima educazione – per poi estendersi a nuclei più grandi, complessi e articolati come la scuola, la comunità religiosa, l'ambiente lavorativo, la cittadinanza ecc. L'educazione si fonda su una relazione, essa inizialmente ha origine coinvolgendo solo due persone: genitore-figlio, maestro-allievo, artigiano-apprendista; ma queste due persone fondano la loro relazione su una trasmissione di conoscenza, linguaggi, cultura, pratiche e tecniche che sono patrimonio della società tutta, che appartengono prima all'umanità che al singolo uomo. 141F. Cambi, Politica, pedagogia e democrazia ieri e oggi: dal nesso teorico alla cittadinanza attiva, in F. Cambi, L'inquietudine della ricerca, op. cit., p. 157. 101 Il singolo uomo si fa strumento della trasmissione e con la sua azione partecipa al processo formativo che coinvolge la società a lui più prossima, e in maniera collaterale l'intera società. Solo in un'ottica “sociale” ha senso l'esperienza “particolare”, poiché è nella trasmissione, nella condivisione, nella partecipazione e quindi nella “formazione” che l'atto educativo ha valore. Quanto l'elemento sociale sia connaturato al pedagogico è chiarito da Daniela Sarsini in un quadro descrittivo dei settori disciplinari pedagogici. La studiosa, ad esempio, nel trattare la distinzione fra pedagogia “generale” e pedagogia “sociale” spiega come si tratti di due dimensioni “costitutive” delle problematiche educative e formative e che quindi non vadano considerate come due ambiti di ricerca specifici e contrapposti all'interno della pedagogia: «Prima di tutto perché l'attenzione al sociale è sempre stata presente nella pedagogia che, come scienza teorico-pratica, porta nel proprio DNA la dimensione del sociale sia nel momento dell'elaborazione riflessiva sia in quello della progettazione operativa; in secondo luogo perché la pedagogia italiana nel secondo dopoguerra ha assunto sempre più una curvatura sociale in concomitanza con le trasformazioni economiche e con le elaborazioni politico-ideologiche che si sono sviluppate nel mondo laico e cattolico e che hanno dato grande risalto alle problematiche sociali e culturali come elementi determinanti della formazione umana e del successo scolastico»142. Ciò che potrebbe apparire scontato in realtà non lo è affatto. Pur vivendo in un'epoca iperscolarizzata, in cui le agenzie educative si sono moltiplicate, in cui i nuovi media hanno consentito un maggiore accesso alla conoscenza e ai saperi, i cambiamenti sostanziali che hanno interessato sia la famiglia come nucleo primordiale del “sociale” sia la società nel senso più esteso ed inclusivo, hanno condotto ad un maggiore isolamento dell'uomo, sempre più chiuso in una microsocietà (sia familiare, sia lavorativa, sia amicale ecc) percepita come maggiormente gestibile rispetto ad una macrosocietà che appare troppo fuori controllo, ricca esageratamente di opportunità a cui davvero in pochi avranno accesso. La società appare sempre più proteiforme e sterminata, le nuove tecnologie amplificano l'informazione e, in maniera capillare, invadono ogni spazio vitale all'interno del privato oltre che del pubblico. È il concetto stesso di comunità che viene messo in crisi, unito ad una progressiva perdita di fiducia nel sociale inteso come forza aggregante, socializzante, solidarizzante. Nel tempo la pedagogia aggiunge l'aggettivo “sociale” e rende esplicita una 142D. Sarsini, “La pedagogia generale e le sue frontiere”, in F. Cambi, M. Giosi, A. Mariani, D. Sarsini (a cura), Pedagogia generale. Identità, percorsi, funzione, Carocci, Roma 2009, p. 145. 102 missione che già le appartiene, che la costituisce intimamente. L'educazione e la formazione devono darsi come finalità del loro sapere/prassi una specifica attenzione al sociale, devono rinnovare l'impegno nel politico e nell'etico, devono riscoprire la necessità e l'originarietà di un pensare e di un fare che appartiene al pedagogico nella misura in cui appartiene alla società e su di essa può influire. L'esplicitazione dell'impegno sociale della pedagogia avviene attraverso il riconoscimento di una rete articolata e organizzata che supporta e connette l'esperienza educativa e formativa delle singole realtà a delle realtà più ampie e stratificate che interessano il territorio e che ampliano i processi di causalità, di opportunità e di condizionamento 143. Il quadro si allarga e include in una logica complessa tutto ciò che può incidere sulla formazione del soggetto: aumentano le responsabilità condivise, aumentano le esperienze relazionali, aumentano gli stimoli (anche negativi) che possono essere assecondati o rifiutati, mai ignorati. Non si tratta di conquiste dell'oggi, quanto di una riscoperta delle origini della pedagogia, di un rimettere in campo, con una nuova consapevolezza, la questione del sociale con tutte le implicazioni che essa comporta, prima fra tutte la responsabilità del singolo in rapporto agli altri e la presa di coscienza dell'appartenenza, mai neutrale sempre di parte, al contesto culturale, politico e religioso in cui si “abita”. Chiarisce bene Mario Gennari, studioso della Bildung, come «La pedagogia non è una scienza socialmente neutrale in quanto ogni critica alle politiche della formazione e dell'educazione si inscrive all'interno di differenti Weltanschauungen. Il suo è, dunque, un sapere-prassi che pervade il politico e l'etico nelle loro forme sociali, familiari, scolastiche, extrascolastiche e mediatiche contribuendo alla costruzione di una critica delle istituzioni e di una critica del potere, di una critica dei sistemi educativi e di una critica degli stili di vita. Ogni critica richiede un pensiero impegnato culturalmente e scientificamente, socialmente e politicamente. Detto pensare non è incontrovertibile: quindi può essere costantemente posto in discussione» 144. La pervasività della pedagogia nella società, che è politica ed è etica, è qualcosa di 143«La pedagogia sociale è dunque parte e settore della generale e la sua specificità è legata al fatto che privilegia una logica sistemica e complessa piuttosto che settoriale nel modo con cui affronta i problemi, per cui se si occupa dei temi relativi alla scuola, li collega alla realtà più vasta della comunità sociale nella quale la scuola è inserita, e se si rivolge all'educazione familiare lo fa correlandola alle condizioni materiali di vita dei soggetti e alle politiche formative proposte nel territorio. Così le tematiche educative emergenti nel sociale sono affrontate in forma operativa attraverso la valorizzazione di modelli interpretativi locali e delle risorse messe a disposizione dalla collettività, ma sono collocate dentro una visione globale che permette di enuclearne intrecci e rimandi che danno agli interventi un respiro ampio e generale» (D. Sarsini, “La pedagogia generale e le sue frontiere”, in F. Cambi, M. Giosi, A. Mariani, D. Sarsini (a cura), Pedagogia generale. Identità, percorsi, funzione, Carocci, Roma 2009, p. 146). 144M. Gennari, Trattato di pedagogia generale, Bompiani, Milano, 2006, p. 30. 103 connaturato al suo stesso sapere, è un compito talora non esplicitato ma sempre presente ed imprescindibile, che la caratterizza in profondità. Ciò che ha ben spiegato Gennari per la pedagogia è concetto che può essere riferito al teatro, arte socialmente non neutrale, neanche quando si propone come arte d'evasione e/o intrattenimento (poiché anche in questo caso lo è per “negazione”). Per quel che riguarda il teatro, la caratteristica di “socialità” è talmente intrinseca alla sua stessa essenza da essere considerata, ad esempio da Ponte Di Pino, “premessa superflua” nel suo ancora work in progress studio sul “teatro sociale”: «Una premessa superflua: tutto il teatro è da sempre “teatro sociale” e “teatro di comunità”. Il teatro è un’arte sociale, a differenza per esempio della pittura e della scrittura: un quadro o una poesia esistono indipendentemente da chi li guarda o legge, in quanto oggetti e opere. Al contrario, uno spettacolo senza pubblico non può esistere, non ha senso. Nelle parole di Claudio Meldolesi, “l'azione teatrale proviene dalla mente… ma con modalità collettive anziché individualizzatrici, controllabili anziché dominatrici, coinvolgenti anziché introverse, portatrici di arricchimento affettivo e artistico”» 145. Il teatro è un'arte “sociale” in una doppia, anzi tripla accezione, lo è sia dal punto di vista creativo, sia dal punto di vista produttivo e di messa in scena, sia infine per quel che concerne la fruizione. Esso è storicamente il frutto delle esigenze comunicative, politiche e di festa di un'intera comunità che, dapprima attraverso riti propiziatori e liberatori, poi attraverso la codificazione della forma tragedia e della forma commedia – nell'antica Grecia – decide di confrontarsi con tematiche attuali, dolorose, ineludibili, dal forte potere “aggregante” proprio perché di interesse collettivo. Il teatro concretizza nel suo oggetto d'arte, nello spettacolo, la sintesi di un lavoro “collettivo” frutto di competenze diverse che implicano la condivisione di responsabilità e scelte artistiche; anche laddove ci troviamo di fronte alla coincidenza di drammaturgoregista-attore il teatro rimane dal punto di vista produttivo un'arte sociale sia per quello spettatore che mai può coincidere con l'attore, pena l'annullamento della relazione teatrale e quindi della stessa arte, sia per quell'offrirsi in scena che è sempre frutto, a sua volta, di un'interazione io-mondo. Infine il teatro è sociale perché ha anche il compito di creare una nuova comunità, più piccola e numericamente limitata – la comunità degli spettatori ovvero di quella parte della comunità che ha “scelto” di andare a teatro invece di starsene a casa – che si stringe attorno all'esserci del teatro, attorno alla 145O. Ponte di Pino, Teatro della persona, teatri delle persone. Una riflessione sul teatro sociale e di comunità, in ateatro 139.7 del 2/28/2012. 104 rappresentazione teatrale 146. È, questa formata dagli spettatori teatrali, una nuova micro-comunità che dovrebbe, in linea ipotetica, essere abbastanza consapevole del proprio stato, soprattutto in un'epoca in cui il teatro non è certo né l'unica possibilità di intrattenimento, né è ormai ritenuto attrattivo per questa ragione; oggigiorno le ragioni per andare a teatro non sono tanto quelle della ricerca dell'intrattenimento, dato che esso è garantito soprattutto da altre forme di performatività sempre meno presenti nei teatri (ad esempio il cabaret e l'avanspettacolo) e sempre più presenti fra cinema, televisione, videogiochi, internet. La scelta di andare al teatro, prima ancora di prendere in considerazione “cosa” andare a vedere, è una scelta precisa, che implica la messa in gioco dello spettatore in un modo unico, non realizzabile con le arti della riproducibilità tecnica. Rispetto al “cosa”, la scelta di andare a teatro, seguendo le statistiche più recenti, è piuttosto orientata verso proposte abbastanza eterogenee e non proprio “facili”, c'è la presenza del musical di filiazione americana, ma c'è il filone ad esempio del teatro di narrazione in cui alla semplicità dell'impianto scenico si unisce una drammaturgia della parola abbastanza articolata e complessa, tengono sempre i cartelloni dei teatri di tradizione con i classici dell'opera lirica e della prosa, ma c'è anche tutto un circuito preziosissimo di festival e rassegne, premi e concorsi in cui emergono le proposte più interessanti ed innovative della scena nazionale ed europea. Il valore formativo del teatro può risiedere quindi, anche, nella sua capacità di formare una comunità – quella degli spettatori – che andando a teatro non scelgono solo di vedere uno spettacolo, ma scelgono di vederlo ad una data ora, in un determinato luogo e scelgono di farlo non come esperienza solitaria – come può accadere, ad esempio, recandosi ad un museo, in visita ad un monumento o ad una mostra d'arte – ma andando a condividere un'esperienza (estetica, di divertimento, sociale, ecc.) con altre persone, massimamente sconosciute. Sempre Ponte di Pino spiega: «Il teatro mette in azione e in relazione tre comunità: - quella di chi crea e realizza lo spettacolo (che non è mai un'opera di creazione individuale ma coinvolge una pluralità di soggetti “creatori”); - quella di chi assiste allo spettacolo (il pubblico), che si fonde in una comunità più ampia con chi agisce sulla scena; quella della società che ospita lo spettacolo, la polis nel suo complesso»147. 146«[...] nella comunità il teatro può non avere alcuna funzione particolare oppure averne una specifica. Nel secondo caso la specificità della sua funzione sta nell'offrire ciò che non si trova in strada, a casa, al bar, dagli amici, sul lettino dello psicanalista, in chiesa, al cinema» (P. Brook, op, cit., p. 108). 147O. Ponte di Pino, Teatro della persona, teatri delle persone. Una riflessione sul teatro sociale e di 105 Nella qualità intrinseca del teatro del rapportarsi con il pubblico, qualità si è detto fondativa e caratterizzante, risiede la possibilità del teatro di “farsi scuola” di proporsi come luogo di educazione e di insegnamento, luogo di condivisione dei saperi, luogo anche di propaganda politica come di emancipazione e, eventualmente, lotta e rivoluzione. Infatti nel teatro è possibile riscontrare alcune funzioni in comune con la pedagogia, riassumibili in una serie di verbi potentemente connotati come: educare, indottrinare, emancipare, problematizzare... ognuno di questi verbi oscilla fra un polo negativo ed uno positivo, in cui risiede la cosiddetta antinomia ambivalente della pedagogia148. Fra il polo negativo dell'indottrinamento e quello positivo dell'emancipazione possono trovare luogo diverse teorie pedagogiche come anche innumerevoli esperienze teatrali. Il punto davvero problematico, in questa proposta di convergenza pedagogiateatro, appare dato dalla dimensione estetica del teatro in quanto arte e quindi appartenente anche al teatro sociale, rispetto ad una caratterizzazione puramente sociale della pedagogia che, in quanto scienza, può non avvalersi di alcuna dimensione estetica, e concentrare il suo discorso su un piano di comunicazione tecnico-pratica che, alla resa dei conti, deve essere efficace più sul piano della veicolazione del messaggio che non sulle modalità, sul “come” il messaggio venga veicolato. Nel teatro il “come” non può prescindere dal “cosa”, nell'infinita possibilità di poetiche da fondare e a cui attingere, e a patto di non annullare la stessa valenza dell'arte. Si può spaziare da un teatro della “crudeltà” per come lo aveva immaginato Artaud ad un teatro “povero” per come lo aveva fondato Grotowski, da un teatro di “narrazione” alla Paolini o Celestini ad un teatro “organico” nella visione della Societas Raffaello Sanzio, da un teatro “feticista” alla Rodrigo Garcia ad un teatro “postdrammatico” alla Heiner Müller, e l'elenco potrebbe andare avanti a lungo 149. Cosa accomuna questi teatri così diversi, che parlano diversi linguaggi della scena, che mutano poetiche e mettono in crisi le loro stesse conquiste di forma e stile all'interno del loro percorso artistico, che hanno il coraggio anche dell'azzeramento linguistico, come anche dell'autocritica metateatrale? Tutti quelli appena citati si danno come teatri “necessari”, e in questo conservano il loro più stretto legame con il loro presente, con un'attualità sociale e politica su cui vogliono intervenire: per criticare, per smascherare, per stupire, per costruire, per comunità, in ateatro 139.7 del 2/28/2012 [inserire link]. 148Cfr. Spadafora, Verso l'emancipazione, Carocci, Roma 2010. 149Per un panorama teorico-critico del teatro del secondo Novecento Cfr.. V. Valentini, Mondi, corpi, materie. Teatri del secondo Novecento, Bruno Mondadori, Milano, 2007. 106 raccontare, per ricordare. Ognuno con le modalità poetiche che trova più consone al proprio immaginario, ognuno mettendo a frutto il proprio bagaglio personale di cultura e di vissuto emozionale, ognuno con le tecniche e le pratiche che ha saputo costruire, “rischiando” il palcoscenico, mettendosi alla prova nella/sulla scena, quindi cercando il rapporto diretto con lo spettatore: applausi o fischi, il pieno o il vuoto, la tournée o la prima unica. Per molti artisti e protagonisti – certo non per tutti – del teatro contemporaneo, la scelta poetica del fare teatro è già un atto politico in sé. Laddove altre forme d'arte consentono un approccio più esclusivo, intimo e forse anche creativo con il proprio mondo interiore, il teatro, con il suo aprirsi all'esterno, con la sua ricerca di rapporto con l'altro, diventa esso stesso un atto politico. La necessità poetica e politica del fare teatro è ad esempio ben spiegata da Heiner Müller, sia nelle sue scelte artistiche, nella sua drammaturgia e nei suoi spettacoli, sia nella riflessione critica che lo stesso Müller ha avuto modo di approfondire in interviste e altri scritti. Ma forse il messaggio più forte, in questo senso, lo ha dato il regista polacco Tadeusz Kantor, scegliendo, spettacolo dopo spettacolo, di accompagnare con la sua presenza, con il suo corpo, gli attori sulla scena, decidendo di non lasciarli soli nell'incontro con il pubblico: atto estremo di partecipazione ad una visione del mondo offerta all'altro, e anche atto di condivisione di un rito costruito con gli attori per gli spettatori. Questa apertura verso l'esterno, verso l'alterità va ad aggiungere all'esperienza formativa quella dell'“ulteriorità”, poiché il teatro in quanto arte è lo strumento/la strada che ci conduce verso un processo di tipo estetico, costruttore di senso e di bellezza. Il teatro a cui si sta facendo riferimento è un teatro fortemente caratterizzato dai codici estetici e che si propone esplicitamente di privilegiarli, su tutto, un teatro che difende la propria poetica e la propria identità. Un teatro che non vuole e non può dirsi solo “pedagogico”, poiché l’etichetta sarebbe troppo restrittiva e non veritiera. Un teatro che non può riconoscersi in questa definizione, non avendo fra le sue priorità l'intento pedagogico, quanto invece ha la priorità di definirsi come “teatro”, in un'epoca in cui i confini fra le arti sono soggetti ad aggiustamenti continui. Paradossalmente, risulta convergente verso il “pedagogico” un teatro che non vuole apertamente essere identificato come tale, ma che nei fatti agisce come detonatore di coscienze, come collettore di emozioni, e invita alla riflessione sul presente e sulle questioni cruciali del politico. È un teatro che nel suo mettersi in discussione e nell'aprirsi alla critica sottolinea la non intenzionalità a proporsi come “esperienza 107 terapeutica”, ma “teatrale”. Lo si comprende bene se si presta attenzione all’apparato critico degli spettacoli, al lessico utilizzato sia dagli stessi autori/artisti/registi, sia dalla critica che ad essi si riferisce. È un teatro, quello ad esempio di Armando Punzo, di Davide Iodice, di Mimmo Sorrentino e – per quanto possa sembrare paradossale – anche quello di Augusto Boal, in cui termini come “attore” o “recitazione” pretendono per sé l'utilizzo più appropriato e, a scanso di equivoci, letterale. A più riprese, e in riferimento ad esperienze e situazioni diverse – anche di grande coinvolgimento emotivo e non necessariamente con attori cosiddetti professionisti (cioè che hanno scelto di esercitare la professione del teatro) – si sottolinea il fatto che l'ambito in cui si lavora, o in cui si decide di intervenire anche solo per una iniziativa estemporanea, è l'ambito teatrale. È in questo ambito che il regista afferma di voler cogliere i “frutti” del proprio lavoro e della riuscita direzione degli attori, ovvero frutti riconducibili al valore artistico, ed alla sfera estetica. Mimmo Sorrentino è particolarmente chiaro a questo proposito, pur lavorando sia con attori sia con non-attori (utenti di diverse strutture sociali e/o sanitarie) e adottando metodologie di lavoro simili ma non identiche, spiega come le “finalità” debbano risultare agli “utenti” definite e non debbano essere fraintese. In effetti, il suo metodo della “consegna paradossale”150, cioè di dare agli utenti una consegna che funzioni come contro-paradosso per contrastare il paradosso del non voler fare i conti con il proprio inconscio, è una tecnica che il regista usa, con alcune differenze, in entrambi i contesti, ovvero sia con gli allievi attori dell'Accademia Paolo Grassi di Milano, sia con le casalinghe di Abbiategrasso o con i malati di Alzheimer, ciò che deve risultare chiaro è che il “gioco” a cui si sta giocando è tutto collocato in ambito “teatrale” e il benessere che può derivare per l'utente non ha come finalità tanto il “vivere” bene,conseguenza auspicabile, quanto il “recitare” bene, obiettivo prefissato. Spiega direttamente il regista: «Mi comporto in questo modo perché le persone che incontro fuori dal contesto teatrale, non avendo scelto di diventare attori, potrebbero fraintendere la finalità della 150L'esigenza stessa della “consegna paradossale” nasce dal fatto che Sorrentino deve trovare una soluzione per l'ansia da prestazione che colpisce, con intensità diverse, tanto gli attori quanto i non attori «Era un paradosso che gli attori volessero recitare senza fare i conti con il proprio inconscio, con l'altro che era in loro. Le mie consegne: “Queste parole che stai recitando, che scena della tua vita ti fanno venire in mente?” e successivamente “Adesso recitale come se stessi nell'episodio che ti hanno fatto venire in mente”, erano un controparadosso. Un controparadosso perché non si può attualizzare un ricordo. Non possiamo riviverlo. Proprio come non vi è niente di fisiologico nel corpo dell'anoressico che gli impedisce di mangiare. Per cui la mia era una “consegna paradossale”. È questo il nome che ho inventato per descrivere questo metodo di lavoro con gli attori: consegna paradossale» (M. Sorrentino, Teatro partecipato, Titivillus, Pisa 2009, p. 44). 108 consegna paradossale che è teatrale e non terapeutica. La “consegna paradossale” serve a recitare. Un attore sa di dover lavorare su di sé. Lo ha scelto. Invece uno studente, un utente di una comunità, non lo ha scelto e non è compito del regista, ma dei suoi educatori, intervenire sul loro vissuto. Il teatro serve a far vivere a queste persone un'esperienza positiva, ad aiutarle a mettersi in gioco, a insegnare loro a esprimersi. Sarà compito degli educatori trasformare questa esperienza in momento di crescita sperimentando nuove e più proficue modalità di comunicazione» 151. È il teatro nel suo insieme ad essere pedagogico, in un senso ampio, offrendo all'attore, allo spettatore, alla comunità che accoglie l'esperienza, un'opportunità preziosa di formazione, una esperienza positiva in condivisione con altri, un arricchimento linguistico e di pensiero, la conoscenza di nuove possibilità di espressione e comunicazione. Si vuole sottolineare come “attraverso” il teatro (lo ribadiamo, quindi, non inteso come “pratica” di tipo terapeutico) l'esperienza estetica possa rivelarsi efficace per gli uomini coinvolti nella relazione, e così offrire prospettive interessanti di arricchimento, sviluppo, crescita, formazione, pur non prefiggendosi in prima istanza il perseguimento di obiettivi educativi. L'obiettivo, per così dire, “principale” della performance teatrale, dell'esito laboratoriale o dello spettacolo in questione non deve essere esplicitamente pedagogico, né educativo, né ri-educativo. Per comprendere bene questo passaggio nodale proponiamo degli stralci di un'intervista ad Armando Punzo realizzata da Letizia Bernazza nel 1997152. Il regista della Compagnia della Fortezza, dal 1988 operante all'interno del carcere di Volterra, spiega la nascita di alcuni spettacoli e il suo modo di lavorare con i detenuti, e dice, a proposito della prima esperienza da cui poi sarebbe nata un'attività decennale, che «Il finanziamento era finalizzato ad un laboratorio teatrale, della durata di due mesi, che aveva come scopo la socializzazione e la rieducazione dei detenuti. Questo era il loro obiettivo, ma per quanto mi riguarda sono entrato in carcere essenzialmente per fare teatro e non per educare. [...] Tante volte siamo stati accusati di fare arte e non risocializzazione, sono convinto che se si pongono dei traguardi così alti, indirettamente si gettano le basi della rieducazione, perché le persone sono obbligate a confrontarsi con qualcosa che non conoscono» 153. E ancora, rispetto alla relazione pedagogica e alla “reciprocità fra maestro e allievo: «Dai detenuti ho preteso il massimo, non li ho mai commiserati, né ho mai 151M. Sorrentino, Teatro partecipato, Titivillus, Pisa 2009, p. 47. 152“Il rischio come strumento di perfezione. Conversazione con Armando Punzo” di L. Bernazza, in L. Bernazza – V. Valentini (a cura), La compagnia della Fortezza, Rubbettino editore, Soveria Mannelli (CZ), 1998. 153Ivi., p. 24. 109 tenuto conto del contesto – il carcere – per porre un limite alla mia ricerca teatrale. Il mio unico obiettivo è stato ed è quello di riuscire a realizzare spettacoli dando il meglio e, possibilmente, fare anche i più rispetto al teatro degli attori professionisti. Tutto ciò porta i detenuti a confrontarsi realmente con quello che stanno facendo, ed è da qui che può nascere, indirettamente, la risocializzazione, la rieducazione e via dicendo» 154. In questo caso, ma come in molti altri, la questione educativa è conseguenza di un percorso che è essenzialmente artistico, la ricerca dell'azione teatrale “vera” e la sua condivisione con gli spettatori fanno parte di un percorso teso all'emancipazione e alla libertà. Il carattere antinomico della pedagogia, oltre ad essere caratteristica storicamente intrinseca ad essa nonché predominante nell'occidente della postmodernità 155, essendo strettamente connesso alla categoria del “formare” si riflette, e in qualche modo viene amplificato, nel teatro. La lacerazione fra il polo positivo e quello negativo, fra un'educazione tesa al “conformare” e una invece tesa all'“emancipare”, trova corrispondenza perfetta in un teatro “antinomico” di matrice politica che storicamente si è barcamenato fra la propaganda e l'indottrinamento da una parte, l'emancipazione e la rivoluzione dall'altro, spesso fallendo, proprio a causa dell'esplicitazione del proprio intento. Il teatro, al pari della pedagogia, può aprirsi verso tre diverse direzioni (dal punto di vista della formazione) riconosciamo infatti un teatro che indottrina (teatro di propaganda o con fini etici, o morali e religiosi, comunque ideologici, espliciti); un teatro che emancipa (ovvero che si pone fini di elevazione spirituale, di lotta di classe, intenti sociali e mira alla messa in discussione della società vigente e delle leggi che la regolano); un teatro che problematizza e, senza offrire le risposte, pone lo spettatore nella condizione di porsi delle domande e di responsabilizzarsi rispetto alle possibili discussioni in merito. Nel panorama sulle teorie del teatro e rispetto le pratiche teatrali a cui abbiamo fatto riferimento nel precedente capitolo, è evidente che le problematiche della “formazione” e dell' “educazione” dell'uomo emergano in modo più evidente quando ci 154Ivi, p. 40. 155«Qui il senso della pedagogia occidentale si manifesta come costitutivamente antinomico, lacerato, ambiguo anche: ora connesso al Conformare (al dominare, all'uniformare, al controllare, al “sorvegliare e punire”) ora all'Emancipare (al liberare il soggetto, la coscienza; al liberare gruppi e forme-di-vita – l'infanzia, le donne, i minorati, i deboli, etc). Le due forme convivono in contrasto, ma anche si decantano e si dialettizzano proprio nella Modernità, quando l'Emancipazione sfida la conformazione, ne lacera i tessuti, la oltrepassa e indica un nuovo compito: compito antico e nuovo, poiché già agli albori della pedagogia (tra i Sofisti e Socrate) si era esplicitamente manifestato, ma che solo oggi – nel Postmoderno che oltrepassando eredita l'incompiuto movimento del Moderno e lo riattiva oltre i suoi limiti – si fa compito centrale, univoco, per tutti» (F. Cambi, L'inquietudine della ricerca, op. cit., p. 52). 110 si riferisce ad un teatro definito come “sociale”, “popolare”, “di comunità” o esplicitamente “politico”. Ed è indubbio che la questione delle convergenze fra teatro e pedagogia non può prescindere (anche solo per differenziarvisi) dalle esperienze del teatro politico, poiché è la categoria teatrale che si è imposta in maniera esplicita la questione della comunicazione sociale, del teatro come possibilità di indottrinamento, formazione e istruzione delle masse e, infine, come strumento di lotta e liberazione. Dal punto di vista teorico il quadro è molto confuso, Claudio Vicentini individua delle direttrici nel dibattito teorico sui rapporti fra teatro e politica per provare a comprendere un fenomeno dai confini nebulosi e che ha dato spazio a molti fraintendimenti: «Tre problemi riconducono quindi la questione del teatro politico al centro della riflessione generale sul teatro. Innanzi tutto, la verifica del principio della piena autonomia del teatro, che richiede l'elaborazione di una teoria capace di presentare come possibile, ma non necessario, il rapporto di teatro e politica, e di spiegare, nello stesso tempo, in che modo il teatro possa diventare uno strumento di lotta. In secondo luogo, l'indagine della corrispondenza che si è verificata dopo la seconda guerra mondiale tra il periodo della massima espansione dell'importanza del teatro all'interno della vita culturale, e quello della sua estrema politicizzazione. Infine, il tentativo di individuare i motivi della crisi in cui la teoria del teatro è venuta a trovarsi con la caduta del problema del teatro politico» 156. Il teatro, pur essendo un'arte sempre sociale, non sempre si è data finalità sociali, e di conseguenza di tipo educativo e formativo. Le esperienze teatrali più specificatamente politiche, sia quelle usate come strumento di propaganda a servizio del regime vigente, sia quelle che possono essere indicate come di opposizione e/o di “rivolta” rispetto al regime vigente, si sono imposte, nella buona o nella cattiva fede, la finalità dell'emancipazione delle masse (non sempre ci sono riuscite, ma l'obiettivo era quello). In questo senso un'esperienza fra le più significative è stata quella del teatro Agitprop nella repubblica di Weimar, di cui ad oggi si continua a dare poco conto nell'ambito della storia e della teoria del teatro. A questo proposito spiega Eugenia Casini-Ropa: «Sfogliando le storie del teatro, infatti, molto difficilmente capiterà di imbattersi in altro che non sia un breve accenno al teatro Agitprop tedesco nella repubblica di Weimar. Sarà così facile rendersi conto che ci troviamo di fronte a un fenomeno teatrale di notevole imponenza (500 compagnie attive nel 1932) non soltanto numerica, completamente emarginato dalla storiografia ufficiale, che ha così cancellato 156C. Vicentini, La teoria del teatro politico, Sansoni Editore, Firenze, 1981, p. 9-10. 111 in un sol colpo dalle sue cronache un teatro operaio rivoluzionario di vastissima diffusione ed efficacia, nato e vissuto in piena lotta di classe, in un regime capitalista, e dalla problematica dei suoi studi le molteplici possibilità di confronto-scontro dialettico che l'esistenza di un simile teatro offre alle ben diversamente celebri elaborazioni del teatro politico “ufficiale”» 157. Ad esempio il teatro come possibilità di formazione, presa di coscienza politica e civile rientra esplicitamente nei programmi del Nuovo Partito socialdemocratico operaio, fondato nel 1869 da August Bebel e Wilhelm Liebknecht e contraddistinto dalla sua parola d'ordine “Sapere è potere, potere è sapere” 158. Successivamente, il ricostituito Partito socialdemocratico, dopo il periodo di clandestinità degli anni 1878-1890, ne metterà ancora più in evidenza gli intenti formativi: «Il ricostituito Partito socialdemocratico venne poi sempre meglio definendo la sua “missione formatrice” del proletariato, che si realizzò in una massiccia campagna di acculturamento popolare, in cui furono per la prima volta impiegati in dose d'urto i moderni mezzi di comunicazione di massa (le pubblicazioni quotidiane e periodiche dell'imponente catena editoriale della SDAP si contavano nei primi anni del secolo a decine e decine). L'educazione estetica, l'approccio educativo all'“Arte” (l'arte classica della borghesia) era un punto fondamentale del programma della Bildung. Il teatro perciò, in quanto “arte totale” con forti componenti celebrative e comunitarie […], si offriva ai dirigenti del partito come lo strumento artistico più adeguato alla formazione del gusto estetico e alla trasmissione dell'idea socialista»159. La panoramica si può ampliare facendo riferimento ad altre esperienze specifiche, che possiamo considerare esemplari nella relazione fra politica, teatro e formazione. In questo contesto emerge la problematica del teatro nel suo rapporto con l'attualità, con le contingenze storiche e, spesso drammatiche, con i “temi caldi” che possono scaturire da fatti di cronaca e/o dalle mutate situazioni socio-economiche e culturali. Ogni volta che argomenti e tematiche ritenute genericamente “di attualità” trovano spazio e modalità rappresentative su un palcoscenico, è facile incasellarli in un definito – quanto nebuloso – teatro politico. Ma in “contenuto” politico di uno spettacolo non ne fa necessariamente un esempio di teatro politico, un'esperienza volta alla partecipazione politica, una tappa 157E. Casini-Ropa, “Il teatro Agitprop nella repubblica di Weimar”, in A. Lacis, op. cit., p. 22. 158«Con il progressivo affermarsi del nuovo Partito socialdemocratico operaio […] e della sua parola d'ordine “Sapere è potere, potere è sapere”, iniziò l'elaborazione della teoria socialdemocratica della “formazione” (Bildung, non a caso parola nata dall'Illuminismo) dei futuri membri della edificanda società socialista. Ogni mezzo culturale doveva in tal senso esser posto al servizio dell'istruzione e della preparazione politica indispensabile al cittadino di domani» (Ivi., p. 24-25). 159Ivi., p. 25. 112 di un percorso emancipativo. Il rischio di questo teatro che nasce con intenti politici è proprio quello di precipitare nel polo negativo della propaganda. L'antinomia caratterizza lo statuto epistemologico della pedagogia e sintetizza la coesistenza fondativa di libertà e illibertà all'interno del rapporto educativo, dato che «Il rapporto educativo, […], ha sempre richiesto la presenza di due momenti fondamentali nell'atteggiamento psicologico dell'oggetto dell'autorità: una determinata misura di libertà (libertà del volere, riconoscimento e accettazione del soggetto dell'autorità che non si fonda sulla semplice costrizione) e, d'altro canto, soggezione e subordinazione della propria volontà a quella dell'altro. Nel rapporto educativo, dunque, la libertà e l'illibertà, l'autonomia e l'eteronomia sono simultaneamente presenti» 160. La doppia natura del dispositivo antinomico si ripercuote anche sulle conseguenze dell'oscillazione fra polo negativo e positivo tanto da farne un dispositivo sia critico e sia rivitalizzante del processo formativo, ne facilita la messa continua in discussione, ne consente l'adattabilità alle esigenze del tempo e della società attuale. L'antinomicità fondativa e strutturale della relazione educativa trova somiglianze e riscontri interessanti in un teatro che, a partire dagli anni '30 del Novecento fino ai nostri giorni, viene sommariamente definito “politico”. Ovvero un teatro che si è posto in maniera preminente la questione della libertà e dell'illibertà di orientamento politico della società a cui si rivolgeva, dandosi fra gli altri l'obiettivo, più o meno esplicito, di educare al libero pensiero. È infatti possibile riconoscere in diverse proposte ed esperienze il dispositivo antinomico di un teatro che ambisce all'emancipazione degli spettatori accogliendo il rischio di cadere nel precipizio dell'indottrinamento e della propaganda politica. Quella del “teatro politico” è un'etichetta troppo ampia per risultare sempre pertinente, ma pure nella sua complessità e ambiguità, consente di azzardare un discorso organico da un punto di vista storico e di tenere il filo di un percorso articolato che accosta esperienze teatrali diverse e contrastanti fra loro. Il teatro che nel Novecento si è posto, pur nella differenza di modalità forme e proposte, la questione dell'educazione e della formazione degli spettatori è un teatro che a vario titolo è riconducibile ad un'intenzionalità politica, dichiarata e manifesta nelle riflessioni programmatiche degli stessi autori ed animatori, oltre che riconoscibile nelle loro opere. Partire dagli anni '30 significa partire da una fase di identità consapevole del teatro politico, ovvero dall'asse sovietico-tedesca formata da quelle due direttrici contemporanee che sono rappresentate da Mejerchol'd da un lato e da Piscator-Brecht 160M. Giosi, “La critica dell'educazione e l'ottica della formazione”, in Cambi, Giosi, Mariani, Sarsini (a cura), Pedagogia generale, Carocci, Roma, 2009, p. 221. 113 dall'altro161. La crucialità delle date ha un peso ulteriore se si accoglie la notazione di Cesare Molinari quando afferma che «Con Mejerchol'd morì in Unione Sovietica il vero teatro politico, sostituito dalla trionfalistica esaltazione delle conquiste rivoluzionarie»162. Con Mejerchol'd muore di fatto un'istanza di urgenza ed immediatezza politica e poetica dell'arte, per lasciare il posto ad una riflessione più razionale e strutturata, meno estrosa e vitalistica, più duratura e rigida. Questa tendenza è incarnata da Berthold Brecht, ed innalzata a sistema con lo straniamento: «Il pubblico deve allontanare (éloigner, dicono ancora i francesi) l'oggetto della fruizione. [...] Occorre che lo spettatore resti freddo, cogliendo nell'accadimento teatrale l'occasione di una sua crescita essenzialmente (se non esclusivamente) intellettuale. Brecht recupera la funzione pedagogica e didascalica del teatro (che era stata del teatro religioso, ad esempio del teatro dei Gesuiti). Solo con la razionalità lo spettatore può comprendere la condizione umana come trasformabile, e da trasformare, ma da trasformare solo e soltanto attraverso la lotta politica»163. Il teatro “politico” di Brecht riesce a superare le contingenze storiche specifiche, più di tipo propagandistico, agendo fortemente sullo spettatore, responsabilizzandolo nei confronti della società. Così sintetizza alcuni aspetti dell'esperienza brechtiana il regista Peter Brook: «Brecht riteneva che il teatro, stimolando una presa d'atto degli elementi di una determinata situazione, assolvesse il compito di portare lo spettatore a una comprensione più corretta della società e, quindi, delle possibilità di cambiamento della stessa» 164. Brecht è un esempio fondamentale poiché attraverso il suo teatro (e in particolare attraverso la tecnica dello “straniamento”) vuole indurre lo spettatore a “pensare” e, in qualche maniera, lo costringe ad andare in crisi, a riflettere e a compiere delle scelte che possono essere dolorose, che lo costringono a mettere a nudo le proprie ipocrisie e a riflettere sulle convenzioni della società. Lo spettatore brechtiano, con accostamento azzardato, può essere considerato l'antesignano dello spettatore “pensoso” dell'epoca postmoderna teorizzato da Raymond 161«La sostanziale contemporaneità delle date – fra Mejerchol'd da un lato e la direttrice Piscator-Brecht dall'altro – dimostra che non c'è stata influenza di Mejerchol'd sulla scena tedesca (anche se Brecht vede e apprezza gli spettacoli di Mejerchol'd in tournéea Berlino nel 1930): è piuttosto il determinarsi di condizioni politiche analoghe – di scontro aspro contro il sistema di potere borghese – che spinge a soluzioni culturali analoghe» (R. Alonge, Il teatro dei registi, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 102). 162 C. Molinari, Storia del teatro, Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 271. 163 R. Alonge, op. cit., p. 102. 164 P. Brook, Lo spazio vuoto, Bulzoni Editore, Roma 1998, p. 82. 114 Bellour165 rispetto al cinema e alla produzione videografica degli anni '80 e '90 del XX secolo. Lo studioso francese riferisce questo “nuovo” ruolo dello spettatore al cinema, ma questo spettatore è di fatto preso in prestito dal teatro, poiché gli “appartiene” per nascita mentre poi, in epoca postmoderna, il suo ruolo va a defluire in quello spazio protetto – uterino per dirla con Roland Barthes – che è la sala cinematografica (o quel che ne resta come perfetta installazione). Lo spartiacque, rispetto la teoria del teatro politico, è data dagli anni Sessanta: «Nei primi anni sessanta, per esigenze in gran parte estranee al pensiero di Brecht e alla problematica del teatro politico del tempo, si è sviluppata una concezione più ampia del fatto teatrale e si tendeva a conferire importanza sempre maggiore, accanto agli elementi dello spettacolo, alle circostanze che presiedevano al suo svolgimento, fino a riconoscere che queste circostanze qualificavano ogni evento teatrale, nel suo complesso, non meno degli elementi dello spettacolo»166. È come dire, certo semplificando molto, che l'istanza politica è data – instillata quasi – dalle circostanze, dal contesto, in cui si verifica l'evento teatrale. In quest'ottica assistiamo ad uno svuotamento delle istanze estetiche dello spettacolo a favore di tutta una serie di elementi contingenti che riguardano il luogo [che può, e addirittura deve, essere un luogo non deputato], il momento in cui si svolge la rappresentazione [che può, e addirittura deve, essere casuale o pertinente a seconda delle circostanze specifiche – di certo non deve essere regolato da esigenze di tempi e luoghi istituzionali]. Elemento importante diventa il costo e/o la presenza/assenza del biglietto d'ingresso. In conclusione, tutti questi fattori, che sono di fatto esterni alla poetica e all'estetica dello spettacolo in sé, vanno ad incidere significativamente sulla “politicità” della percezione dell'evento teatrale, o meglio, tutti questi fattori possono connotarlo come “politico” o “non politico” a prescindere dal contenuto (tematico, poetico ed estetico) dello spettacolo stesso. Ma restando in un’accezione stretta del termine “politico”, è corretto evidenziare che la produzione drammatica di Brecht, pur estendendosi per un quarantennio, trova una sua centralità soprattutto ideologica nel quinquennio 1928-1933 proprio con i “drammi didattici”, testi brevi in cui veniva trattato e approfondito un tema a carattere morale o politico poi rimesso in discussione e tentato di risolvere con una sorta di processo. Qui il regista tedesco «[...] dà gli esempi più limpidi di ciò che egli intendeva per teatro politico: uno strumento di conoscenza dialettica e di analisi marxista e 165Cfr. R. Bellour, Fra le immagini. Fotografia cinema video, Bruno Mondadori, Milano 2007. 166C. Vicentini, La teoria del teatro politico, Sansoni Editore, Firenze, 1981, p. 11. 115 leninista»167. I drammi didattici declinano in modo esaustivo la pratica scenica dello straniamento, mostrandone la doppia valenza pedagogica, ovvero una loro funzionalità educativa rivolta sia all'attore sia allo spettatore. L'attore deve fuggire l'immedesimazione e mantenere un atteggiamento dialettico e critico con il personaggio – questo lo tutela dai manierismi e dai vezzi del mestiere facendolo volgere verso una recitazione essenziale e precisa – ; d'altro canto lo spettatore deve ricordare di trovarsi a teatro, deve restare sempre cosciente del suo essere uno spettatore che osserva e ragiona da una certa distanza. In una temperie culturale che collega Germania ed Unione Sovietica ed in cui il teatro viene sempre con maggiore consapevolezza utilizzato come strumento di lotta politica, si inserisce l'esemplarità della vicenda personale e artistica di Asja Lacis, una vicenda in cui vita, teatro e politica sono collegati al punto da non essere scindibili. La regista lettone in Professione: rivoluzionaria, ricostruisce e descrive la sua attività in quegli anni, attività in cui si riconosce la creazione di un percorso pedagogico nel teatro e per il teatro. La sua preziosa testimonianza diretta del lavoro svolto con i bambini lascia emergere la figura di profetica anticipatrice di quella che verrà poi definita “animazione teatrale”168. La Lacis, con l'attività svolta nel teatro cittadino di Orel nel biennio 1918-19, non si accontenta di tenere i bambini “occupati” attraverso le prove e la messa in scena di un testo, il suo obiettivo è di stimolarne l'evoluzione, svilupparne le facoltà estetiche e morali, abdicando ad ogni certezza data dall'avere sempre il risultato davanti agli occhi. La giovane artista si concentra sullo sviluppo complessivo della creatività del bambino, non vuole costringerlo a incentivare una facoltà singola, ma mira ad accentuarne tutti i sensi, il suo linguaggio, in proposito, è fortemente ispirato: «Io volevo portare i bambini a che il loro occhio vedesse meglio, il loro orecchio udisse più finemente, le loro mani formassero dal materiale informe oggetti utili»169. Amava organizzare il lavoro coinvolgendo altri educatori che avessero competenze diverse e integrassero le sue, puntando comunque a che l'insieme dell'attività si traducesse infine in “una forma estetica rigorosa” oltre che collettiva. A una tale modalità di lavoro Asja Lacis giunge attraverso un'attività pratica progressiva e inesausta con i bambini, fondata sull'osservazione costante durante il 167 C. Molinari, op. cit., p. 277. 168 Cfr. Puppa “L’animazione, ovvero il teatro per gli altri”, in AA VV, Storia del teatro moderno e contemporaneo, Einaudi, Torino 2001, pp. 859-873. 169 A. Lacis, Professione: rivoluzionaria, Feltrinelli, Milano, 1976, p. 80. 116 laboratorio teatrale all'interno dello studio e anche all'aperto, nella natura. Questo suo metodo, fondato sullo sviluppo dei sensi e il rapporto con la natura, trova riscontri significativi nella lezione di Maria Montessori, che scrive: «L'ovvio valore dell'educazione e del raffinamento dei sensi, allargando il campo della percezione, offre una sempre più solida e ricca base allo sviluppo dell'intelligenza. Per mezzo del contatto e dell'esplorazione dell'ambiente, l'intelligenza innalza quel patrimonio di idee operanti, senza le quali il funzionamento astratto mancherebbe di fondamento e di precisione, di esattezza e di ispirazione. Questo contatto è stabilito per mezzo dei sensi e del movimento»170. Oltre alla stimolazione dei sensi e all’importanza accordata all’esperienza, fra le due personalità del teatro l’una e della pedagogia l’altra, emerge anche un'eccezionale vicinanza relativa al concetto di reciprocità e alla riflessione critica e propositiva sul ruolo dell'educatore. Il nuovo rapporto fra regista e attori e fra attori e spettatori, basato sulla reciprocità creativa e sull'incertezza del risultato, abbozzato da Asja Lacis 171, verrà ripreso e rilanciato in un mutato contesto geografico e storico, cioè all'inizio degli anni Settanta dal brasiliano Augusto Boal, il quale elabora la sua proposta di un teatro popolare traendo forte ispirazione dalla “Pedagogia degli Oppressi” di Paulo Freire. Il Teatro dell'Oppresso si propone, attraverso diverse tecniche e modalità, l'obiettivo principale non solo di far riflettere sulla questione politica e sulla condizione sociale gli spettatori, ma di spingerli ad “agire”nel teatro in prima persona recuperando, in maniera inedita, le origini stesse del termine “attore” inteso etimologicamente come colui che agisce. Si tratta di offrire agli spettatori l'opportunità concreta, attuata attraverso modalità precise e coinvolgenti, di alzarsi dal posto occupato a teatro, per strada, in piazza o su un autobus, per cimentarsi direttamente con l'azione teatrale. Il processo stesso sotteso all'atto del diventare attori in prima persona ha una funzione liberatoria, poiché emancipa il soggetto offrendogli l'opportunità di cimentarsi in qualcosa da sempre considerata come un'attività estranea, da osservare da una posizione fissa ed esterna. È il ribaltamento dello staniamento brechtiano: «La Poetica di Brecht è la Poetica delle Avanguardie più insigni: il mondo si rivela trasformabile e la trasformazione incomincia nel teatro stesso, nel momento in cui lo spettatore non delega più poteri ai personaggi perché pensino al suo posto, anche se continua a delegare loro 170 M. Montessori, Educare alla libertà, Mondadori, Milano, 2008, pp. 92-93. 171 Si ricordi che l'esperienza di Orel verrà poi trascritta e formalizzata da Walter Benjamin nel “Programma per un teatro proletario dei bambini”, scritto nel 1928 e pubblicato nel 1969. 117 funzioni perché agiscano, recitino in vece sua: l'esperienza è rivelatrice a livello di coscienza, ma non interamente a livello d'azione. L'azione drammatica chiarisce l'azione reale. Lo spettacolo è una preparazione all'azione» 172. Invece l'attore di Boal è anche lo spettatore, lo spettatore che sceglie di offrirsi agli altri e ne fa esperienza, scoprendo così che il suo darsi si traduce in ricevere. La trasformazione in attore avviene in un'azione non isolata ed egoistica, ma “aperta”, di relazione con gli altri e con il mondo. Il passaggio proposto da Boal nel suo teatro è rivoluzionario, nel senso che rivoluziona il concetto di spettatore, lo mette in discussione e punta a liberarlo come persona. La partita in gioco diventa più esplicita e tocca il sistema teatrale nelle fondamenta. Se Brecht puntava a far ragionare attori e spettatori, a offrirgli con i drammi didattici l'opportunità di avere coscienza del mondo e della difficoltà dell'agire politico lasciandoli però nei propri ruoli; se Asja Lacis sacrificava l'opportunità di lavorare con attori “veri” per trasformare in futuri attori della vita quei besprisorniki che lungi dall'essere artisticamente attrattivi erano considerati una piaga sociale; Augusto Boal offre uno scarto ulteriore, dà l'opportunità agli spettatori di andare in scena, di scardinare l'immaginario e i rituali teatrali per appropriarsi di un palcoscenico in cui rappresentare la propria storia, la propria idea, la propria vita. Gli esempi fin qui scelti e ripercorsi a volo d'angelo non sono certo esaustivi ma ciò che preme sottolineare, come filo rosso che li accomuna pur nell'eterogeneità delle proposte, è l'attenzione che artisti così diversi riservano al rapporto attore-spettatore, rendendolo centrale nella possibilità di incidere politicamente nella società mantenendo ferme le proprie caratteristiche estetiche e poetiche del fare teatro. Infine, tornando idealmente all'iniziale direttrice tedesca del teatro politico, si può riflettere su almeno un'altra modalità di messa in discussione della relazione teatrale, quella della postdrammaturgia ferina e inconciliabile di Heiner Müller. Il drammaturgo del prima e dopo la caduta del muro di Berlino, è l'artista che ragionerà più di tutti sul rapporto fra attore e spettatore come meccanismo che fonda il teatro, oltre che come dialettica irrisolta e ambivalente del teatro politico. Nella sua opera costituita da una poetica senza compromessi pacificatori, inscindibile per questo dalle sue esperienze di vita, Müller indica con lucidità come l'origine dello sdoppiamento attore-spettatore sia traumatica, e la ricollega ad alcuni episodi particolarmente dolorosi della sua vita. L'arresto del padre comunista da parte dei nazisti che lo porteranno nei campi di 172A. Boal, Il teatro degli oppressi. Teoria e tecnica del teatro, Edizioni La Meridiana, Molfetta (BA), 2011, p. 47. 118 concentramento, e il ritrovamento del corpo della moglie Inge morta suicida sono eventi «[...] per lo scrittore emblematici di un'esperienza in cui il soggetto sopporta il trauma innescando inconsapevolmente un meccanismo di scissione dell'io che si sdoppia in colui che si guarda mentre sta guardando l'avvenimento come se fosse la scena di un film. Il soggetto che sta in scena non è più l'attore del dramma, ma si colloca dall'altra parte, in platea, e assume il ruolo di spettatore della propria performance» 173. Müller porta in luce un concetto fondamentale per l'esperienza estetica contemporanea, ovvero la centralità che ha assunto la dimensione spettatoriale, che non è mai priva di responsabilità, che non è mai neutra. Attore e spettatore sono presi nella dialettica più lacerante, coincidono in una coincidenza inconciliabile, diventano sia metafora della realtà e sia incarnazione “reale” di un'esistenza sempre più immaginaria e macchinica, sono vittima e carnefice allo stesso tempo. Scrive in Hamletmaschine: «Io sono la macchina da scrivere. Stringo i nodi scorsoi quando i caporioni vengono impiccati, tolgo lo sgabello, mi rompo l'osso del collo. Sono il mio prigioniero. Riempio il computer con i miei dati. I miei ruoli sono quelli della saliva e della sputacchiera, del coltello e della ferita, del dente e della gola, della corda e del collo. Io sono la banca dati»174. Concludendo, l'antinomia ambivalente, come dispositivo problematico ma anche rivitalizzante della relazione educativa, è riconoscibile anche nella relazione teatrale, in quella complessità del rapporto attore-spettatore costantemente, dai primi del Novecento fino ad oggi, messa in discussione e approfondita in un teatro prevalentemente di matrice politica, ma non solo. Il teatro che mette al centro la relazione teatrale è un teatro che ha scelto la linea poetica più difficile ma anche la più potente, quella destinata a durare nel tempo. È un teatro che non può essere incasellato in un genere, né nel teatro di ricerca, sebbene la ricerca continui e continuerà sempre ad essere un elemento “vitale” del teatro, né in quello antropologico, sebbene questi metta in primo piano l'uomo e la sua esperienza come elementi fondanti del performativo. Mettere al centro la relazione teatrale può equivalere ad un'inclusione di tutti i generi del teatro, oggi in particolare significa includere esperienze diversissime fra di loro, dal teatro cosiddetto sociale o di comunità a un certo teatro di tradizione che non ha mai abdicato la sua aspirazione comunicativa, 173 V. Valentini, “Tragedie proletarie nell'era della controrivoluzione. La post-drammaturgia di Heiner Müller” in Biblioteca Teatrale, Il teatro di Heiner Müller, n. 41, Bulzoni, Roma 1997, p. 24. 174H. Müller, “Hamletmaschine”, in Germania morte a Berlino e altri testi, Ubulibri, Milano, 1991, p. 86. 119 dal teatro partecipato a quello più innovativo, delle forme ibride e dell'interrelazione con le nuove tecnologie. Questa apertura generalizzata è solo apparente, poiché la relazione teatrale funziona anche come dispositivo di esclusione, sempre mantenendo la trasversalità dei generi. Elementi quali la spettacolarizzazione fine a se stessa, l'incompetenza di regista e attori come anche l'eccessivo narcisismo degli stessi, oppure la ricerca puntigliosa della precisione e dell'autocompiacimento in scena possono mettere in crisi la relazione attore-spettatore, allontanando, annoiando, isolando lo spettatore e determinando l'assenza di rapporto. Esiste un teatro che non è disposto a mettersi davvero alla prova nel confronto con il pubblico, esiste un teatro che “manca” la comunicazione con lo spettatore, che magari non la rifiuta apertamente, ma che o la cerca per motivi non sinceri o non la raggiunge per mancanza di impegno e vocazione. In questa maniera, la relazione teatrale, diventa una discriminante essenziale di un teatro che possa dirsi pedagogico, perché, come spiegava Riccardo Massa «C'è infatti un'intenzione educativa implicita, latente in tutte le esperienze teatrali. Il teatro educa non solo in senso esplicito, come il teatro didattico o didascalico della tradizione brechtiana, ma nel senso che in esso c'è in gioco un progetto di cura del sé, di formazione di sé, di educazione di sé, di esperienza di sé» 175. Infine, accogliendo un’accezione del politico che non attiene tanto al contenuto quanto alle modalità di messinscena e soprattutto alla relazione attore-spettatore, e alla cura riservata a questa relazione, ciò che sembra più interessante, e che rimane concettualmente forte alla luce di questo “svuotamento di senso” dello spettacolo, è proprio il mutato modo di intendere gli spettatori, un rafforzamento del concetto di comunità che – pur essendo strettamente legato a quell'esperienza – avrà ricadute importantissime fino al teatro contemporaneo. Di fatto questa decentralizzazione dello spettacolo verso un “fuori da sé” problematizza e interroga il ruolo dello spettatore e il concetto di comunità spettatoriale. Che comunità è quella che si forma in maniera trasversale e “spontanea” intorno ad un evento teatrale, sia esso in un luogo deputato, sia esso in un luogo extrateatrale, senza essere motivata, condizionata e responsabilizzata attraverso l'acquisto di un biglietto? Non si tratta davvero di un pubblico casuale e spontaneo perché il fatto di non aver pagato (di non aver scelto di “spendere” tempo e denaro per un'esperienza di 175F. Antonacci, F. Cappa (a cura), Riccardo Massa. Lezioni su la peste, il teatro, l'educazione, Franco Angeli, Milano, 2001, p. 27. 120 fruizione artistica) implica comunque la scelta (e autorizza comunque la scelta) di abbandonare luogo e tempo dell'evento teatrale, decidendo così di interrompere l'esperienza spettatoriale e di sottrarsi alla comunità in “formazione”. La responsabilità viene sempre e comunque a ricadere – con diverse attenuazioni e sfumature di senso – sullo spettatore, anzi, in un'ottica più pertinente, sulla “comunità” di spettatori che in un dato momento, in un dato luogo, influenza e “significa” la rappresentazione teatrale. Così ciò che non risulta “politico” a Parigi può esserlo invece a Reggio Calabria. È evidente che stiamo dentro alla questione più squisitamente semiotica dell'interpretazione dell'evento spettacolare. Alla fine di questo percorso, dentro un teatro che si dà esplicitamente fini educativi in un'ottica prevalentemente politica, possiamo, per chiarezza, chiudere con la definizione di teatro politico data da Massimo Castri nel 1973: «Per “teatro politico” è bene si intenda ormai quel teatro che vuole partecipare con i propri mezzi specifici al generale sforzo e processo di trasformazione della realtà e quindi, in definitiva, dell'uomo, nella prospettiva di una ricostruzione dell'integrità e della totalità dell'uomo, che nella società divisa in classi e basata sullo sfruttamento è andata distrutta» 176. In quest'ottica il compito “politico” del teatro è soprattutto dato dall'impiego dei suoi “mezzi specifici”, quindi del suo linguaggio, delle sue poetiche, in direzione dell'intervento sulla società. Un intervento che può essere stimolato già dal mostrare, dal rendere evidente, grazie a un immaginario che il teatro dimostra di saper ancora gestire bene, le storture, i paradossi, i punti di crisi e gli inceppamenti della società postmoderna. È nel dialogo straordinario che lo spettacolo, attraverso i suoi mezzi propri ovvero la relazione teatrale, riesce ad attivare con lo spettatore che il teatro può essere considerato un luogo, uno dei più interessanti, di formazione dell'uomo. La chiave resta quindi nella relazione teatrale, e in quello che condivide con la relazione pedagogica io-altro. Rita Fadda, riprendendo nel suo complesso l'esperienza italiana del gruppo interuniversitario di ricerca di pedagogia critica (coordinato da Alberto Granese), ricorda come «[...], proprio la dimensione della formazione del soggetto costituisca, per molti versi, un luogo, non solo possibile ma addirittura privilegiato, del dispiegarsi ed inverarsi delle più importanti categorie dell'ermeneutica e insieme un modo di radicalizzarla e di mostrarne tutta la crucialità, tutta la portata critica, nel momento in cui in gioco non è l'interpretazione di un testo o di un'opera d'arte, ma di un soggetto umano nella sua relazione con un altro soggetto a cui è stato 176M. Castri, Per un teatro politico, Einaudi, Torino, 1973, p. 8. 121 affidato e da cui dipende il suo destino formativo; una relazione che deve passare necessariamente attraverso la comunicazione e l'interpretazione, la capacità di saper cogliere, fin da quando sono ancora in nuce, i tratti distintivi, le propensioni, gli elementi che determinano la singolarità e l'unicità di ogni individuo e il riconoscimento della sua irriducibile alterità»177. Il teatro crea uno spazio magico, un qui e ora in cui è possibile dare forma e consistenza all'esperienza umana, in cui avviare una relazione ioaltro; ovviamente non è detto che la relazione si avveri, ma alcune condizioni precise e i mezzi propri del linguaggio teatrale lavorano in questa direzione. Si stanno comunque trattando due oggetti di studio, la pedagogia e il teatro, in cui la classica distinzione fra teoria e prassi è molto complessa e attiene al loro stesso statuto ontologico. Per la pedagogia, abbiamo detto in I cap. [in particolare si veda F. Cambi], per il teatro sappiamo [si veda cap. II] che l'azione, la performatività, caratterizzano la specificità dell'arte stessa e necessitano di un rapporto “non mediato” da altri mezzi di comunicazione. In tale immediatezza comunicativa, in tale importanza riconosciuta al rapporto intersoggettivo, la questione “estetica” rischia di essere messa tra parentesi, e questo annienterebbe il valore stesso del teatro. Bisogna invece considerare la relazione teatrale sì come una relazione pedagogica, ma porre l'attenzione sulla “modalità” con cui si avvera questa relazione, sul linguaggio dell'arte, o meglio delle arti che il teatro mette in campo con la sua multicodicità. 177 R. Fadda, “Un modello italiano di pedagogia critica. Presupposti, sviluppi, problemi aperti”, in E. Colicchi (a cura), Per una pedagogia critica. Dimensioni teoriche e prospettive pratiche, Carocci, Roma, 2009, p. 31. 122 3. 3. Il regista-educatore e il teatro-laboratorio La grande rivoluzione che si verifica nel teatro e che marca una convergenza significativa con la pedagogia non è solo nel ruolo di cui è investito lo spettatore perché di responsabilità morale e civile, oltreché estetica lo spettatore può e deve essere investito sempre nella relazione teatrale - quanto nel ruolo “nuovo” di cui è investito il regista, un ruolo che lo obbliga, paradossalmente, a ripartire proprio da ciò che il regista ha conquistato duramente nel corso soprattutto del Novecento, il ruolo dell'autore dello spettacolo. L'esperienza dell'animazione teatrale, come anche quella del teatro sociale, hanno rimesso in gioco il ruolo del regista, lo hanno rimesso in discussione, attribuendogli da una parte una responsabilità maggiore di tipo pedagogico e dall'altro costringendolo ad “attenuare” la sua statura di creatore indiscusso dell'opera d'arte-spettacolo. Ad esempio, nel teatro degli Oppressi di Boal «Il conduttore del TdO assume quindi un atteggiamento “maieutico”, non dà risposte ai problemi, ma aiuta a trovarle fornendo le tecniche e garantendo il percorso»178. È soprattutto nell'ambito dell'animazione teatrale che il ruolo dell’educatore si avvicina molto a quello del regista facilitante, il quale aiuta l’attore a fare ciò di cui ha bisogno per trovare il personaggio, per recitare la parte, nell’interazione con i compagni e con gli eventuali spettatori o osservatori. Ma anche entrando nell'ambito del teatro di ricerca, di un teatro dalle linee poetiche forti ed originali, si consideri come Grotowski definisce il suo ruolo, all'interno del Teatro Laboratorio, “una strana posizione di guida”, sottolineando la centralità dell'aspetto relazionale che istituisce non solo con gli attori – con ogni singolo attore – ma con ogni persona che concorre alla nascita dello spettacolo, come ad esempio con l'architetto Gurawski. Spiega Grotowski: «Vi è qualcosa di incomparabilmente intimo e fruttuoso nel lavoro che svolgo con l'attore che mi è affidato. Egli deve essere attento, confidente e libero, poiché il nostro lavoro consiste nell'esplorazione delle sue possibilità estreme. La sua evoluzione è seguita con attenzione, stupore e desiderio di collaborazione: la mia evoluzione è proiettata in lui, o meglio, è scoperta in lui, e la nostra comune evoluzione diventa rivelazione. Questo non vuol dire formare un allievo ma semplicemente aprirsi ad un altro essere rendendo possibile il fenomeno di una “nascita condivisa o doppia”. L'attore nasce di nuovo – non solo come attore ma come 178R. Mazzini in A. Boal, Il poliziotto e la maschera. Giochi, esercizi e tecniche del Teatro dell'Oppresso, edizioni la meridiana, Molfetta (BA) 2005, p. 24. 123 uomo – e con lui io rinasco. È un modo goffo di esprimerlo ma quello che si ottiene è l'accettazione totale di un essere umano da parte di un altro» 179. L'educatore teatrale oggi può andare ad occupare un ruolo cruciale nella formazione soprattutto degli adolescenti, esterno alla famiglia e alla scuola, è anche esterno a quelle occupazioni di divertimento ed evasione che di solito si condividono con i propri coetanei nei gruppi amicali, e questo tipo di condivisione può verificarsi, in linea di massima, in tutte le fasi della vita, dall'età dell'infanzia fino all'anzianità. L'educatore non è una figura genitoriale, non coincide neanche con quella dell'insegnante scolastico, e non è nemmeno equiparabile a quella di un amico. Meno autoritaria del padre o dell'insegnante, ma più autorevole di un amico, la figura dell'educatore riveste un ruolo privilegiato ed unico, di guida influente, di insegnante che non dà voti e non impartisce lezioni, di maestro che suggerisce percorsi ma non obbliga a intraprenderli, di opportunità di confronto vivente attraverso attività mirate alla scoperta di se stessi. La competenza dell'educatore non è data dal suo bagaglio culturale più o meno ampio di teoria e storia del teatro, ma dalla sua capacità di mettere a frutto teoria e storia del teatro nella relazione con l'altro, con l'allievo, con il partecipante all'attività teatrale. A differenza dell'insegnante di teatro dell'Accademia e a differenza del regista di una compagnia, il suo obiettivo non è formare attori o farli recitare in uno spettacolo riuscito, ma l'obiettivo è di aiutarli a conoscersi attraverso l'attività teatrale, contribuire a renderli forti nelle scelte da intraprendere coinvolgendo la cura del loro corpo, della voce, dei loro sensi tutti, del loro mondo interiore. Avviare quindi un percorso – con l'allievo e non per l'allievo – di conoscenza e consapevolezza che può condurre ad un'adesione anche forte alle professioni del teatro, o che può soltanto contribuire positivamente ad arricchire le proprie esperienze personali e ad acquisire nuove tecniche del corpo e dell'anima da usare nella vita in altri ambiti e contesti. Il regista-educatore può e deve lavorare con gli allievi-attori alla costruzione di uno spettacolo che può anche non essere, alla fine del periodo di prove, perfettamente rispondente ai canoni estetici che si intendeva perseguire, ma deve avere la forza e la sensibilità umana di considerarlo come parte integrante di un processo organico di cui lo spettacolo in sé e per sé è da considerarsi come una delle tappe, neanche, necessariamente, la più importante, sebbene sia la più visibile grazie al fatto che viene condivisa con un pubblico. 179J. Grotowski, Per un teatro povero, Bulzoni, Roma, 1970, p. 32. 124 Quella del regista-educatore non è figura semplice, la doppia dicitura non deve significare essere regista a metà o educatore a metà, poiché non si possono tenere laboratori teatrali per bambini o corsi di teatro per casalinghe, per carcerati e ragazzi di quartiere per ripiego, come esperimento o come attività secondaria rispetto una considerata primaria ed prestigiosa. Il regista-educatore è più di un regista e più di un educatore, deve saper conciliare l'aspirazione all'arte con la missione educativa, e questa è impresa che è riuscita solo a taluni grandi registi che hanno fatto propria – spesso in maniera inconsapevole – l'istanza formativa in nome dell'arte e della cultura, più che in nome dell'obiettivo educativo esplicito. Invece, se riprendiamo ad esempio il già citato lavoro di Augusto Boal con il Teatro dell'Oppresso, la sintesi del suo ruolo e del suo lavoro come regista vede, senza ombra di dubbio, il prevalere di un obiettivo educativo, dato che «Boal, con la creazione del TdO, si propone di utilizzare gli strumenti teatrali per analizzare e trasformare la realtà “restituendo al popolo i mezzi di produzione teatrale” […]. In altre parole l'obiettivo è lo sviluppo della “teatralità umana”, cioè della capacità di ogni persona (non solo dell'artista) di usare il linguaggio teatrale, di “essere teatro”, usando questo medium per conoscere il mondo reale e trasformarlo»180. Con il suo teatro Boal “sfrutta” il ruolo del regista, o meglio ciò che il ruolo del regista consente di fare, per essere innanzitutto educatore. L'istanza estetica tende ad essere eclissata da quella educativa, per cui il Teatro dell'Oppresso non è Augusto Boal, ma è una realtà da Boal ideata, costruita e diffusa come anche repertorio di idee, tecniche ed esercizi che al proprio ideatore potranno e dovranno sopravvivere grazie ad altre persone che ne porteranno avanti la progettualità. La questione della “pratica” teatrale o, per meglio dire, delle “pratiche” teatrali oggi è questione che mette in campo non poche difficoltà, in particolare per quel che concerne gli eventuali aspetti pedagogici. Tali difficoltà sono legate al fatto che le cosiddette discipline del teatro occupano, nell'ambito del patrimonio culturale e del bagaglio esperenziale di bambini, giovani ed adulti un posto estremamente marginale. L'esperienza del teatro, non solo da “attori” ma anche e soprattutto da “spettatori” non è esperienza comune e condivisa della maggior parte delle persone della seconda metà del XX e di questo primo decennio del XXI secolo. Diventa quindi ancora più difficile ipotizzare e verificare se c'è e in che misura un contributo delle pratiche teatrali alla formazione dell'individuo. Dato che il teatro né 180R. Mazzini, in A. Boal, op. cit., p. 23. 125 come teoria né come pratica appartiene alle discipline di studio presenti in ambito scolastico negli istituti di diverso ordine e grado, anche se adesso, con i Licei Coreutici si sta proponendo un’apertura importante in questa direzione. In generale si sta mettendo in discussione – in ambito pedagogico – la stessa possibilità che la scuola possa essere considerata il luogo (non l'unico ma il principale) dell'educazione, in realtà, è tutta l'intera società ad apparire inadeguata. Ricordiamo che la nostra è un'epoca, spiega Brezinka, in cui è stato coniato lo slogan “fine dell'educazione” ma spesso questo slogan viene utilizzato senza comprendere minimamente cosa voglia dire e senza supportare questo concetto con un quadro storico, sociale e culturale, il più preciso possibile dell'epoca in questione: «Lo slogan 'fine dell'educazione' ha ben poco a che fare con la realtà. Se viene inteso come descrizione di un dato di fatto, allora è falso. Al contrario, oggi le istituzioni, il personale e le attività preposti all'educazione sono più numerosi che mai. Viviamo in una società iperscolarizzata, che ottimisticamente è anche definita 'società acculturata'. Mai prima d'ora un numero così grande di giovani è stato sottoposto a un periodo educativo tanto prolungato quanto avviene ai nostri tempi» 181. La marcata e preponderante scolarizzazione attuata dalla metà del XX secolo in poi, non risponde in maniera adeguata alle esigenze dei bambini, poi adolescenti e infine adulti. Le scuole pubbliche (Brezinka fa riferimento a quelle tedesche, ma il discorso credo si possa estendere a quelle europee) «Per 9-13 anni impegnano il tempo per lo studio dei nostri giovani con una combinazione intellettualistica di scienza, tecniche culturali e una pallida morale razionale. A questo va aggiunto l'influsso confusivo dei mass media durante il tempo libero. Sia a livello scolastico sia extra-scolastico, mancano attività capaci di formare la mente e di dare significato alla vita» 182. Quello che appare più trascurato, nell'ambito della formazione scolastica, fin troppo presente in termini di quantità temporale ma povera rispetto quella “ideale”, è l'aspetto “emozionale dell'individuo. L'uomo ha bisogno di emotività: «Difendiamoci anche dall'inganno di un'immagine intellettualistica dell'uomo. Essa suggerisce che gli uomini siano programmati per un apprendimento razionale senza limiti; lascia intendere che essi debbano ricevere quante più possibili informazioni critiche sul mondo, le quali rubano la “magia” della vita, dissacrano il sacro, smascherano il bene e scacciano il bello dalla loro vita. In verità gli uomini non hanno solo bisogni razionali e intellettuali, ma anche emotivi: protezione in un orizzonte circoscritto, unità nei valori importanti 181W. Brezinka, Educazione e pedagogia in tempi di cambiamento culturale, Vita e pensiero, 2011, p. 51. 182Ivi., p. 48. 126 comuni, ideali che non vengono annientati da continue indagini» 183. Si tratta di un aspetto molto importante poiché «La forza motivante che guida le azioni è principalmente emozionale e dipende dal sostegno manifesto di chi ha idee simili. L'orientamento valoriale dell'individuo è determinato sostanzialmente dal patrimonio di fede vissuto dalla propria comunità» 184. L'uomo ha necessità, nell'arco della sua vita e per una piena formazione anche emotiva, di soddisfare anche questo tipo di bisogni, che possono trovare – per Brezinka – riscontri ad esempio nella fede, oppure, e questo è ciò a cui vuole tendere la presente ricerca, nella sfera delle arti. Fra tutte le arti sono proprio quelle di tipo performativo, e il teatro in particolare, che possiedono caratteristiche tali da poter aiutare l'uomo a soddisfare anche i propri bisogni emotivi poiché queste arti sono fondate sulla relazione fra l'uomo e l'altro da sé, ovvero gli altri uomini, la comunità, il mondo. C’è oggi, ad esempio, un proliferare di attività teatrali attivate nelle scuole, che sembrano sorgere attraverso un movimento in apparenza “spontaneo” e “caotico”, ma che si stanno concentrando soprattutto sulla fascia d'età che interessa le medie superiori. Occorre però chiedersi come mai questa particolare attenzione per gli adolescenti, perché vengono - seppure in modo non sistematico e, nella stragrande maggioranza dei casi, non supportato da presupposti teorici – fatti oggetto di tanta attenzione da parte degli operatori teatrali, registi, educatori, attori ecc. Mentre la formazione in generale, e l’educazione teatrale in particolare, rappresentano una risorsa che può riguardare l’intera vita dell’uomo. Provando a rispondere a questa domanda, si riscontrano principalmente due ordini di motivi sul perché questo accada: - il primo è di natura “politica” e “contingente”, dovuto, ad esempio, alla proliferazione di progetti con finanziamenti regionali o ministeriali o europei tesi ad affrontare tematiche diverse ma che in maniera tangenziale o trasversale finiscono per inglobare le attività teatrali al loro interno (PON ecc.); progetti invece specificatamente indirizzati alla diffusione della cultura teatrale piuttosto che finalizzati alla produzione di spettacoli; lo sviluppo delle artiterapie e, di conseguenza della teatroterapia, come attività che interessano diverse disabilità (dall'handicap fisico al disagio mentale) o anche gruppi specifici di persone contraddistinte da caratteristiche comuni (gli anziani, i carcerati, gli immigrati, ecc.). 183Ivi, p. 15. 184W. Brezinka, op. cit., p. 78. 127 - il secondo è invece basato su una sempre più diffusa convinzione che le attività teatrali possano rendere “più attrattive” e più interessanti, coinvolgenti ecc, quelle scuole che mostrano maggiori difficoltà ad attrarre alunni, ci si trova quindi, automaticamente, fuori dalla cosiddetta scuola dell'obbligo, e ci si trova a fare riferimento a quell'età, genericamente e superficialmente considerata come “età di crisi”, ovvero l'adolescenza (e seguendo questo ragionamento si finisce per ricadere – per certi versi – nel teatro inteso come “terapia”, ovvero al punto precedente). In realtà esistono motivazioni interessanti sul perché occorra indirizzare principalmente sulla fascia d'età degli adolescenti la “cura” teatrale. Esiste un fondo di verità nella convinzione generalizzata dell'adolescenza come periodo di “crisi” nella crescita e formazione dell'individuo. Ma questa “crisi” non deve assolutamente essere intesa come un periodo negativo, ma come un periodo in cui è più semplice la “ricezione” di alcuni caratteri propri del “fare teatro”. È luogo comune considerare l'adolescenza come un’età problematica e l'adolescente come se vivesse questa età della sua esistenza come un “periodo di crisi”. Ciò ha molto a che fare con la “percezione del tempo dell'adolescente, per la psicanalista francese Françoise Dolto: «L'adolescente vivrebbe infatti ciò che A. Camus chiamava il “vivo decisivo”. Deve incessantemente ricominciare a tentare di vivere, come se quel periodo non dovesse mai finire. È la fatica di Sisifo, la prova della coscienza impegnata in un tunnel. L'adolescente non sa dove finisce il tunnel. Il suo tempo è inframmezzato da gioia immensa e da sofferenze tanto improvvise quanto passeggere. Credo che soffra e gioisca al di sotto del livello continuo di umore: il suo umore oscilla incessantemente tra depressione ed esaltazione, proprio una caratteristica di questa fase»185. Gli adolescenti, inoltre, vivono in questa fase della loro vita l'approccio con la “verità”, poiché in particolare nella nostra epoca, appartengono ad un'età ancora scevra dai condizionamenti degli ambienti di lavoro e della società adulta in generale. Ed è nel gruppo che valorizzano il senso dell'amicizia, della verità, la forza dei rapporti interpersonali: «Nella misura in cui le famiglie non propongono più riti di passaggio ai figli, e che gli adulti sono essi stessi completamente squalificati nella loro ricerca di vita, i giovani raggruppandosi, sostenendosi a vicenda, usando un linguaggio un po' più gestuale, si comportano come se stessero inventando scambi nuovi o come se vivessero 185 F. Dolto, Adolescenza. Esperienze e proposte per un nuovo dialogo con i giovani tra i 10 e i 16 anni, Oscar Mondadori, Milano 2009, p. 37. 128 contro la società, pensando di poter inventare cose nuove. E hanno ragione. Tocca ai giovani farlo, non agli adulti»186. Nei capitoli centrali del suo studio dedicato agli adolescenti, Dolto sottolinea l'importanza dell'amicizia come legame fra i giovani, un legame percepito come più forte dell'amore, ed è sotto la spinta di questo legame , o della delusione per la sua cessazione attraverso il tradimento, che i giovani sono spinti a formare delle comunità in cui riconoscersi e da proporre come sostituto della famiglia. Il legame del “gruppo” amicale è considerato più solido rispetto quello amoroso, in cui interferisce fortemente il desiderio sessuale, e va nella direzione della costituzione di una famiglia senza figure genitoriali, che prevede rapporti relazionali di tipo “orizzontale” come accade fra fratelli e sorelle, sia in senso letterale dei termini, sia metaforico: «Fratellanza e sorellanza alludono, per altro verso, al venir meno della gerarchia generazionale, ovvero alla comunità dei pari, il contesto sociale nel quale più si coltiva il valore dell'appartenenza, l'utopia di essere tutti – in linea con la metafora dell'orizzontalità – allo stesso livello. Si appartiene in quanto si è consimili, si condividono con altri condizioni essenziali quali l'età, i riferimenti culturali, emozioni e sensazioni»187. Questo scenario diventa sempre più concreto e auspicabile in una società, come la nostra, in cui i nuclei familiari sono notevolmente ridotti e a fronte del fenomeno tutto moderno della famiglia allargata, permane e prende forza la società dei “figli unici”, con lo straordinario senso di solitudine e isolamento che ne consegue . Al mutato contesto familiare si unisce il cambiamento radicale della società moderna in rapporto con quella arcaica. La scomparsa dei riti di iniziazione determina lo spaesamento e il senso di inadeguatezza degli adolescenti che può anche condurre alla disperazione e al suicidio. L'attività teatrale, lo spettacolo vissuto come prova conclusiva in cui si instaura la “relazione teatrale” fra attore e spettatore può proporsi come sostituto – seppur parziale ed edulcorato – di un rito di iniziazione. Anche l’interrogarsi sul valore educativo del “saggio” finale di un'attività teatrale di tipo laboratoriale rivolta (condotta con) agli adolescenti può essere uno snodo importante poiché pure un sano e onesto confronto con il pubblico durante una prova spettacolare può acquisire le caratteristiche di una sorta di “rito di iniziazione”. La società odierna ha soppresso i riti di passaggio per l'adolescenza. Alla pubertà non ci sono più iniziazioni né apprendistati. Occorre porre ancora nuove domande e chiedersi se, ad esempio, “l'azione sublimata” del rito di passaggio possa essere 186 Ivi, pp. 46-47. 187I. Gamelli, op. cit., p. 85. 129 identificata con il gesto teatrale. Se, sempre con Françoise Dolto, si acquisisce la consapevolezza che «l'uomo ha bisogno di progetti»188 indipendentemente dalla loro realizzabilità, il teatro può essere il luogo in cui provare a “realizzare” questi progetti, seppur per finta, attraverso un'azione sublimata e quindi “benefica”, nella piena consapevolezza delle parti (ovvero dell’essere attori o spettatori), sapendo che si tratta di un gioco, ma di un gioco terribilmente “serio”. Non si può attuare una semplice sostituzione e certo il passaggio non è immediato: «Il progetto non può sostituire il rito di passaggio. Ma forse può permettere di farne a meno. Il rito di passaggio serviva a una comunità che aveva bisogno di conservare tutti i suoi membri e trovava così il mezzo per legare al clan tutti i giovani facendo loro affrontare rischi all'interno della tribù: i rischi dell'iniziazione. Prove tremende. Se ne esce vivo sarà un individuo fantastico. Ciò implica che la società dia il modello. Oggi, in assenza di un modello familiare o sociale, quando il figlio succede sempre meno al padre, il rito di passaggio non ha più senso, ma forse il progetto, rispondendo alla tentazione del pericolo con una certa prudenza, può aiutare a morire all'infanzia, per raggiungere un altro livello di padronanza nella vita collettiva» 189. Il teatro può partecipare al progetto, in una maniera specialissima, può aiutare a sperimentarlo, ad immaginarlo. Ovviamente non tutto il teatro può avere questa funzione. Il teatro che qui si vuole mettere in stretta relazione con la pedagogia affidandogli un intento pedagogico, e marcandone una sua partecipazione alla progettualità dell’uomo, non è, né deve mai essere inteso come, un mezzo di “intrattenimento”, poiché esso è teso a stimolare l'uomo, a farlo riflettere, a indurlo a pensare. Non semplicemente a tenerlo impegnato o ad aiutarlo a coprire una porzione di tempo libero che altrimenti non si saprebbe come impegnare. Il tempo libero, nella società postmoderna, abbonda, paradossalmente, tende ad abbondare sempre di più. In particolare è il laboratorio teatrale il luogo perfetto, ideale, per far sviluppare “il gioco serio del teatro”190. Infatti il laboratorio teatrale, pur se applicato nelle sue più diverse forme, modalità e finalità, mantiene sempre una caratteristica che in quest'ambito rimane basilare, e cioè il dare centralità al “lavoro sul corpo”. È il “linguaggio del corpo” che prende il sopravvento sugli altri linguaggi – che pure sono contemplati, inclusi e talvolta ne costituiscono l'obiettivo ultimo – e proprio 188 F. Dolto, op. cit., p. 68. 189Ivi, p. 70. 190 Cfr. W. Orioli, Il gioco serio del teatro, Macro Edizioni, Cesena 2007. 130 per questo prevalere, il luogo del laboratorio è pensato come un luogo in cui vengono sovvertite o almeno eluse le più consolidate convenzioni (spaziali e temporali) del controllo, inteso in ottica foucaltiana 191. Il laboratorio, intanto come luogo fisico e materiale, deve poter ospitare il linguaggio del corpo, deve consentire la libertà di espressione corporea dei partecipanti all'attività, nei limiti – e nell'utilizzo funzionale e poetico di questi stessi limiti – consentiti da spazi sovente adattati all'uso e quindi strutturalmente inadeguati. Per antonomasia, aldilà dell'uso effettivamente attuato, che può essere diversissimo e in sé prevedere un'attività e il suo più diretto opposto, il laboratorio dovrebbe essere un luogo, per l'attore ma per tutte le categorie umane che possono essere coinvolte, in cui sia possibile usare il linguaggio del corpo senza troppe restrizioni. Perché: «Il linguaggio del corpo ci racconta, e non viceversa. La relazione ci precede, ed è solo il “pregiudizio dell'Io” a impedirci di coglierne il valore in tutta la sua portata» 192. Il laboratorio più che il luogo del corpo deve essere inteso come il luogo in cui il corpo, i corpi possano agire, muoversi, liberarsi anche da quei movimenti “funzionali” e “costrittivi” che si è obbligati a compiere per le più diverse ragioni. Se è vero che per Dewey ogni esperienza, anche e soprattutto quella estetica, ha un “carattere attivo”, bisogna spostare questo concetto dal livello del pensiero a quello dell'azione, ovvero considerare l'esperienza estetica non come qualcosa a cui si assiste ma a cui si “partecipa”. In effetti questo ruolo particolarissimo era avvertito nella tragedia greca, che aveva attribuito al coro uno statuto particolarissimo per cui: «Il rapporto che si stabilisce, il dualismo elementare e insostituibile che tenderà alla conciliazione in atto dei due elementi che s'integrano, la tesi e l'antitesi che si realizzerà nella sintesi della realtà in movimento, è dunque fra la libertà creativa dell'immagine e la responsabilità attiva della partecipazione. E diciamo partecipazione per meglio significare che l'essenziale non è il fatto estetico, né la formula conoscitiva, né la norma pratica che pur sempre da un fatto estetico derivano, ma l'impegno profondo dell'essere, l'accordo della coscienza: un fatto ontologico, insomma; e a paragone del suo esser profondo, ogni altra cosa, parola e segno, è superficiale» 193. L'esperienza estetica non deve essere vincolata al luogo teatro, ma può attuarsi in tutti i luoghi della performance. Questo spostamento implica la possibilità di essere spettatori diversi, anzi, non più spettatori ma “partecipanti” attivi; uomini e donne che si 191Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 2005. 192I. Gamelli, op. cit., p. 24. 193M. Apollonio, Storia, dottrina, prassi del coro, Brescia, Morcelliniana, 1956, p. 26 e p. 34; cit. in A.M. Cascetta e L. Peja, Ingresso a teatro, Le Lettere, Firenze 2003, p. 97. 131 rendono disposti a partecipare ad un rito, ad entrare nel gioco, a costruire una relazione esclusiva ed unica nell'ambito dell'evento teatrale. Questo ruolo così complesso e duplice del regista, orientato allo spettacolo come opera d'arte ma anche alla relazione interpersonale come condizione essenziale del lavoro teatrale, ha bisogno di uno spazio adeguato per potersi espletare, uno spazio che insieme possa accogliere le esigenze di una produzione teatrale come quelle di un processo formativo non necessariamente finalizzato allo spettacolo. Questo luogo in cui essere registi-educatori è proprio il teatro-laboratorio. La complessità della formazione si può rintracciare nel teatro inteso come luogo del “laboratorio”, ovvero un ambiente preciso e circoscrivibile in cui l’uomo dà forma a se stesso e si educa nel suo rapporto con ciò che gli è “altro”. Nel laboratorio teatrale l'esperienza della “rappresentazione” e la distanza estetica permettono alle persone coinvolte di fare esperienza di sé (emozioni, rievocazioni, vissuto corporeo) in modo non ansiogeno. Il lavoro si può svolgere in un ambiente protetto ma non “privato”, mai completamente precluso allo sguardo dell'altro, un luogo di lavoro con l'altro, in cui vi sia la possibilità di agire con il corpo ma anche con la voce in una relazione spaziotemporale condivisa. Nel laboratorio teatrale, nelle cosiddette fasi di training in cui ci si esercita, si lavora all'allenamento fisico, sulla concentrazione e l'improvvisazione, è fondamentale sia il lavoro con gli altri, quindi in gruppo, sia quello di ascolto con il regista che guida ma anche quello personale, svolto su se stessi con se stessi, alla ricerca della propria identità e specificità. In questa fase la maggior parte delle tecniche e degli esercizi teatrali, ormai entrati a far parte delle pratiche teatrali riconosciute e utilizzate in diversi ambiti, riguardano l'interazione, il “gioco”, la “scelta” di/con alcuni oggetti. Spesso viene chiesto ai partecipanti ad un laboratorio teatrale, che si tratti di attori oppure no, di portare con sé un oggetto che li rappresenti, da usare durante la pratica laboratoriale. A volte l'oggetto da portare deve essere scelto seguendo l'indicazione di massima data dal regista-educatore, un'indicazione abbastanza generale (ad esempio quella di portare un frutto, un libro, una valigia, ecc.) in maniera tale da consentire all'allievo di scegliere qualcosa che nel rispetto della consegna data gli permetta comunque di esprimere la propria personalità e il proprio gusto proponendo un oggetto molto specifico e particolare, quando non unico. È infatti poco probabile che nell'ambito dell'indicazione di un libro, o di un cappello, due persone portino lo stesso libro o lo stesso cappello ed anche se questo si verificasse, sia il libro che il cappello si 132 porterebbero addosso quei “segni” del tempo e della propria storia che li renderebbero unici. Da un punto di vista pedagogico, questa modalità di lavoro teatrale con gli oggetti riprende gli studi di Maria Montessori sulla “libera scelta” dei bambini. Rileggendo alcune pagine di Educare alla libertà, colpisce la somiglianza fra alcuni esercizi della pratica laboratoriale teatrale con quelli proposti dalla pedagogista. Nel metodo Montessori i bambini scelgono il gioco con cui interagire e lo tirano dentro al loro mondo interiore, non per imitazione perché i giochi sono tutti uno diverso dall'altro: «Non è dunque l'imitazione. Anche il modo in cui il bambino userà il materiale ce lo dimostra: perché il bambino finisce per immergersi nel suo esercizio con tale intensità di attenzione che non si accorge più delle cose circostanti e continua a lavorare, ripetendo l'esercizio uniformemente decine e decine di volte consecutive. […] Siamo perciò dinanzi ad una vera e propria rivelazione del mondo interiore. Gli stimoli esterni come una calamita attirano al di fuori qualche manifestazione collegata con le profondità dell'anima. Ci troviamo dinanzi ad un fenomeno di sviluppo puro e semplice»194. Attraverso l'oggetto il bambino fa esperienza di sé ma anche esperienza del mondo, agisce sull'oggetto e lo usa per conoscere la sua stessa azione, un'azione “inutile” nel senso che non è finalizzata ad un compito preciso, ma è un'azione “di sviluppo puro e semplice”. Anche le azioni-interazioni che si svolgono nel laboratorio teatrale con gli oggetti non sono azioni necessariamente finalizzate allo spettacolo, forse lo diventeranno, forse no, nel laboratorio non sono ancora “prove” dello spettacolo anche perché lo spettacolo potrebbe non esserci. Anche nel laboratorio teatrale l'azione viene ripetuta, innumerevoli volte, alla ricerca del gesto giusto, che non è detto sia poi quello ultimo, quello “buono”. Più avanti Montessori usa un altro termine importantissimo per descrivere questa attività, un termine riferito alla maestra, che nel nostro caso può essere riferito al regista-educatore: «Ostacolo sarà ogni cosa esterna e più ancora ogni attività esteriore [che] devii quel fragile e occulto impulso vitale che guida il piccolo, benché [egli] non ne sia ancora cosciente. La maestra perciò può divenire il principale ostacolo perché [svolge] un'attività più energica e cosciente di quella dei bambini»195. Il regista-educatore deve lavorare con l'allievo, fare esperienza con lui, scoprire il mondo assieme, ed essendo più forte in quanto “più cosciente” deve sapersi mettere da parte, talora svolgere un ruolo di osservatore esterno. 194M. Montessori, Educare alla libertà, Mondadori, Milano, 2008, pp. 90-91. 195Ibidem. 133 Il lavoro del regista diventa più difficile, poiché deve iniziare un percorso che porti l'allievo alla “consapevolezza di sé” prima ancora di farlo agire dentro lo spettacolo, prima ancora di coinvolgerlo nella performance artistica. La questione della consapevolezza ad esempio è trattata da Boal nell'esperienza del teatro-forum in cui c'è il coinvolgimento dello spettatore che diventa attore, in una maniera profondamente diversa da come la facevano accadere, ad esempio, gli attori del Living Theatre o come accade nell'happening. Il passaggio dal teatro-invisibile al teatroforum avviene attraverso la “consapevolezza”: «Nel teatro-invisibile lo spettatore si trasforma in protagonista dell'azione senza averne coscienza. Ecco perché è indispensabile andare più lontano e far partecipare lo spettatore a un'azione drammatica, ma con piena coscienza di causa. E per incoraggiarlo a partecipare bisogna prima riscaldarlo con degli esercizi e dei giochi; è indispensabile incoraggiarlo tramite il gioco delle rappresentazioni del teatro-immagine» 196. Il luogo designato all'esercizio e al gioco è il teatro-laboratorio, mentre colui che guida l'esperienza complessiva (che conduce all'incontro con lo spettatore) è il regista, un regista che deve saper essere un regista-educatore senza abdicare al ruolo di creatore di mondi, di creatore d'arte: «Penso sia così che debbano essere i maghi-pedagoghi: all'inizio devono fare la loro magia per incantarci, poi insegnarci i loro trucchi. È anche così che devono essere gli artisti rivoluzionari: devono essere creatori, e anche insegnare al pubblico come esserlo, come fare dell'arte, affinché la possiamo usare tutti assieme»197. In questo passaggio viene sottolineato la capacità del teatro di “agire”, di “fare” e di essere “rivoluzionario”. Qui ritroviamo il percorso artistico di Asja Lacis, e anche la prosecuzione ideale a cui si aggancia Eugenio Barba quando insiste sul concetto di “rivoluzione” che può essere innescata dal teatro 198. L'azione che si dispiega nel laboratorio mette in moto il corpo non come ginnastica, ma come attività sinestetica, fondata sulla relazione e sulla reciprocità. Molti esercizi teatrali utilizzati in fase laboratoriale prevedono l'annullamento dell'uso di un senso a favore degli altri (essere bendati e/o chiudere gli occhi, fare esperienza del silenzio, ecc.), la consapevolezza del proprio corpo si realizza attraverso l'incontro con il corpo dell'altro: l'aggancio è visivo, vocale, o tattile: «Toccare è essere toccati. Quando tocchiamo qualcuno entriamo in relazione non solo con il suo ma anche con il nostro corpo; nel toccare si riducono le distanze. Ciò che si tocca ci può anche toccare 196A. Boal, Il poliziotto e la maschera. Giochi, esercizi e tecniche del Teatro dell'Oppresso , edizioni la meridiana, Molfetta (BA) 2005, p. 41. 197Ivi, p. 46. 198Cfr. E. Barba, Teatro. Solitudine mestiere rivolta, Ubulibri, Milano 1985. 134 nell'accezione di risultare toccante, perfino commovente, ed è in questo senso che la letteratura e soprattutto la poesia hanno contribuito nel tempo ad assegnare alla parola una valenza quasi più spirituale, psichica, che fisica» 199. Il laboratorio teatrale ad esempio pensato per la scuola superiore deve fare i conti con le aspettative e con l'idea del teatro che l'adolescente ha acquisito attraverso le sue precedenti esperienze di lettore e spettatore, oltre che attraverso altri laboratori teatrali frequentati nelle scuole elementari e medie inferiori. La dimensione ludica viene solitamente indirizzata verso una dimensione creativa (sempre partecipativa) però più orientata sulla possibilità di far confluire (di includere) l'immaginario culturale dei giovani. Questo aspetto è spesso fondamentale per farli sentire parte di un processo di creazione e costruzione artistiche. L'incontro tra teatro e pedagogia, soprattutto a scuola, può avvenire riconoscendo un ruolo centrale all'esperienza laboratoriale. «Ad una scuola verbalistica e centrata sostanzialmente sull'insegnamento e sulla trasmissione del sapere Dewey risponde con la proposta del laboratorio, centro nevralgico in cui l'esperienza attiva e creativa del soggetto diventa la condizione stessa dell'apprendimento, secondo una linea di ricerca che gli studi di psicologia andavano tracciando negli anni in cui Dewey elaborava il suo modello di educazione progressiva»200. Il teatro-laboratorio dà centralità assoluta all'uomo-attore inteso in questo caso come persona che “agisce”, che partecipa ad un percorso artistico. Sia che questo culmini con uno spettacolo oppure no. Ma nel laboratorio non è solo il linguaggio del corpo ad essere centrale, il laboratorio, come il teatro, è luogo della parola, ma in un'accezione “corporea” della parola, una parola “detta”, orale, agita attraverso l'oralità, la performatività della voce. Caratteristica a cui l'educazione, e l'agenzia formativa che più la rappresenta, ovvero la scuola, ha abdicato da tempo, a favore della parola scritta, della lettura silenziosa, dello studio solipsistico. Eppure, ci ricorda Gamelli: «La reciprocità particolare insita nell'oralità si presta perciò ad essere assunta come una strategia formativa», e ancora, riferirsi all'oralità come strategia narrativa «consente di ripensare radicalmente i nostri stili educativi, di “ridare voce” a situazioni formative fortemente condizionate da una visione marcatamente solipsistica, di valorizzare la dimensione della risonanza quale risorsa irrinunciabile del gioco formativo» 201. Già Artaud, con la sua eccezionale capacità visionaria, aveva teorizzato lo 199I. Gamelli, op. cit., pp. 152-153. 200T. Iaquinta, La scuola laboratorio. La teoria deweyana e l'interpretazione di Francesco De Bartolomeis, Edizioni Scientifiche Calabresi, 2005, p. 6. 201I. Gamelli, op. cit., pp. 128-129. 135 spostamento dalla parola scritta – morta – della letteratura drammatica, al corpo – vivente – dell'attore sulla scena, attribuendogli così il peso dell'esistenza stessa del teatro, quella doppiezza fatta di forme luminose e ombre che le travalicano, come attiene alle culture magiche: «Come ogni cultura magica espressa da appropriati geroglifici, anche il vero teatro ha le sue ombre; e, fra tutti i linguaggi e tutte le arti, è il solo le cui ombre abbiano travolto i loro limiti. Si può anzi dire che esse sin dall'origine non abbiano tollerato limiti. […] Ma il vero teatro, in quanto si muove e in quanto si avvale di strumenti vivi, continua ad agitare ombre in cui la vita non ha cessato di sussultare. L'attore, che non ripete mai due volte lo stesso gesto ma compie gesti, si muove e innegabilmente violenta le forme, al di là di queste forme e attraverso la loro distruzione raggiunge ciò che sopravvive alle forme e provoca la loro continuazione» 202. Il laboratorio teatrale, inteso come luogo della pratica, della messa in gioco dell'esperienza e dell'immaginazione, nell'ambito di attività di tipo pedagogico, si può rivelare un luogo utile in cui far emergere dal vissuto dei partecipanti quell'immagine del corpo che essi custodiscono e che può essere in netto contrasto con quello che Françoise Dolto chiama “il reale del corpo”203. Frequentemente e non solo a causa di patologie specifiche la rappresentazione mentale del proprio corpo non coincide con “il reale del corpo”. Nella letteratura relativa alla definizione di laboratorio teatrale è fondamentale il concetto di “fare assieme” e di apprendere reciprocamente, non c'è una trasmissione di sapere ma una condivisione, una compartecipazione, un reciproco apprendimento. Il laboratorio teatrale rappresenta questo “luogo” di costruzione dell'esperienza, spiega Barba: «Allora non si trattava più di insegnare o imparare qualcosa, tracciare un metodo personale, scoprire una nuova tecnica, trovare un linguaggio originale, demistificare se stesso o gli altri. Solamente non aver paura l’uno dell’altro. Avere il coraggio di avvicinarsi l’uno all’altro fino a essere trasparenti e lasciare intravedere il pozzo della propria esperienza. Da qui quel pudore che rifiuta la presenza di estranei durante il lavoro. E quando viene il tempo della presenza degli altri – gli spettatori – essi sono i testimoni di questa situazione umana che continuiamo a chiamare teatro» 204. Da un punto di vista storico, il laboratorio ha messo in crisi il teatro, ma da un punto di vista “pedagogico” lo ha fatto rinascere più forte di prima. Il laboratorio ha sconvolto i ruoli prefissati e ha aperto al “gioco” del teatro. Questa dimensione “ludica” 202 A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino, 2000, pp. 131-132. 203Cfr. F. Dolto, L'immagine inconscia del corpo, Como, Red 1996. 204E. Barba, op. cit., p. 83. 136 è quella a cui l'educazione teatrale ha più attinto nella scuola elementare, ed è una dimensione che si è rivelata proficua. «Il bambino, come l'adulto per altro, non conosce che feste stereotipe ed occasioni di felicità comunitaria tutte strutturate dall'alto: conosce evasioni, quindi, da una realtà intesa come seria, normale e necessaria. La nostra festa è invece occasione di gioco e di autogestione dell'espressione. Non evasione, non fuga, ma anzi rientro, riconquista di quella dimensione ludica della vita che noi riteniamo decisiva per l'uomo» 205. 205 F. Passatore, S. Destefanis, A. Fontana, F. De Lucis, Io ero l'albero (tu il cavallo), Guaraldi, Rimini 1972, p. 38. 137 Conclusioni Giocare, formare, vivere. Proposte per un'educazione teatrale. Alla fine di questo percorso si ritorna, ancora una volta e questa volta per chiudere, sul perché di tanto insistere sull'arte del teatro, sulle arti performative piuttosto che su quelle visuali o plastiche. Arti queste ultime, forse, per certi versi più attraenti, in particolare per gli adolescenti e gli adulti, arti che possono essere esercitate nel chiuso di una stanza, arti che creano in solitudine opere, oggetti che possono essere spostati, venduti, esposti, fruiti (magari digitalmente su youtube o su myspace) senza il dispendio di energie e l'organizzazione complessa di gestire un'agenda di luoghi e tempi in cui “incontrarsi”, attori e spettatori, con quel che ne consegue. Molte risposte sono state date a questo quesito importante, tutte filtrate, sia attraverso percorsi teorici sia più squisitamente storici, da un'ontologia del teatro fondata sulla “relazione teatrale”, sul rapporto relazionale attore-spettatore, relazione che rende quest'arte molto vicina alla pedagogia e al suo oggetto specifico: la formazione. Ma c'è ancora un'altra motivazione da prendere in considerazione, in apparenza semplice, certo parziale, ma che merita di essere comunque trattata, perché portatrice di verità, oltre che di suggestioni che andrebbero approfondite. Il teatro è l'arte che più di tutte, oggi, mette in crisi il concetto di proprietà, di possesso. È un'arte che produce un'opera che non si può possedere, non collezionabile, non museificabile. È un'arte che ha eletto il suo morire a fondamento del suo esistere, del suo restare sempre viva. Spiega Peter Brook: «In un teatro vivo ogni giorno affronteremmo le prove verificando le scoperte del giorno precedente, pronti a credere che la verità del dramma ci sia sfuggita ancora una volta»206. Il teatro, per poter essere attivo nella società ha bisogno continuamente di morire a se stesso in un rituale di morte che ad ogni replica deve compiersi – obbligatoriamente, ne va della sua stessa identità di arte “effimera” - come atto compiuto per mano di chi pure lo tiene in vita, l'attore per lo spettatore. Non è un'arte che esiste in potenza o che si protende al futuro, essa sta tutta nell'atto e nulla di tangibile lascia dopo, è un'arte che, come il fuoco, nel vivere si consuma, con fiamme uniche e irripetibili, condannata a durare solo nel luogo e nel tempo (il qui e ora) dell'esperienza scenica. Pur fondandosi 206 P. Brook, Lo spazio vuoto, Bulzoni, Roma 1997, p. 27. 138 sull'imitazione, deve annientare l'imitazione per essere vivente 207. Nel darsi come opera deperibile e destinata a morire, sempre diversa proprio perché nelle sue ulteriori messe e ri-messinscena cerca di avvicinarsi alla verità, lo spettacolo si offre come qualcosa di unico e, paradossalmente, non “replicabile”. Nel gergo teatrale la replica è la riproposizione nel tempo e in diverse sedi di uno spettacolo considerato come finito, organizzato in ogni sua parte e rigidamente chiuso in un copione a lungo provato dalla compagnia sotto la guida di un regista. Ma la replica, nel teatro in generale e in quello contemporaneo in particolare, non può essere presa alla lettera, essa deve darsi sempre come unica, quindi non è realmente “replicabile”; è la natura stessa del teatro a non rendere possibile la ripresa in maniera esatta dello spettacolo. L'irripetibilità rende l'opera effimera, inafferrabile e “vivente”, frutto di un insieme di relazioni fra esseri umani unite ad un insieme di fattori contingenti – anche di tipo materiale e casuale – che la condizionano e la possono modificare sensibilmente. Lo spettacolo, frutto dell'arte del teatro, è impossibile da possedere, rimane esperienza condivisa che può restare come traccia positiva o negativa nel soggetto-persona, ma nessuno vi può esercitare un diritto di proprietà. Ciò che può minare, alle fondamenta e in profondità, quel concetto di libertà posto dalla pedagogia alla base della formazione dell'uomo è proprio il possesso; ovvero la situazione diffusa e preponderante, nonché caratterizzante la modernità, per cui il soggetto, l'uomo della contemporaneità, si relazioni con il mondo, con gli oggetti che lo costituiscono e con gli altri uomini, attraverso il desiderio di possederli, o già considerandoli, in maniera diffusa, acritica e “spensierata” - spensierata nel senso di non averne neanche fatto oggetto di ragionamento – in loro pieno possesso, per disporne a piacimento come per disinteressarsene pienamente. Sulla rischiosa dinamica soggetto-oggetto dell'uomo nel mondo spiega Gennari: «Un rischio aleggia tuttavia nel soggetto: che egli si senta padrone degli oggetti che 207 «In un mondo in cui l'andare avanti spesso è un avanzare obliquamente o un tornare indietro, il teatro può procedere soltanto con l'andatura del granchio. Ecco perché per molto, molto tempo ancora non potrà assolutamente esservi uno stile mondiale per un teatro del mondo, com'era nei teatri di prosa e nei teatri d'opera del XIX secolo. Ma non tutto è movimento, non tutto è distruzione, non tutto è irrequietezza, non tutto è moda. Vi sono pilastri su cui poggia un'affermazione: quei momenti in cui, all'improvviso, da qualche parte, si ottengono risultati. Quelle rappresentazioni, quelle occasioni quando, sul piano collettivo, un'esperienza totale, un teatro totale fatto di spettacolo e spettatore rendono insignificante ogni distinzione tra Teatro Mortale, Teatro Ruvido e Teatro Sacro. In questi rari momenti il teatro della gioia, della catarsi, della celebrazione, il teatro della ricerca, il teatro dei contenuti comuni, il teatro vivente sono un tutt'uno. Ma conclusa l'esperienza, quel momento non torna più e non può essere ricatturato con un'imitazione: il mortale è in agguato, la ricerca ricomincia daccapo» (Ivi, pp. 142-143). 139 possiede, senza pensare che siano gli oggetti ad impadronirsi di lui. Questi, allora, curva la propria vita su ciò che possiede, fino a trattare gli altri uomini come oggetti che debbono appartenergli. Il bisogno di un esercizio della proprietà sugli oggetti e i soggetti presenti nel suo mondo pone l'uomo in una condizione psicologica di possesso. Ma l'altro è un soggetto, per giunta libero! E l'oggetto stesso non può venir identificato con il soggetto, anche se lui lo ha prodotto o acquistato. Una educazione alla ragione e una educazione al sentimento dell'oggetto avviano il soggetto alla cultura, alla conoscenza e alla coscienza dell'oggetto. La formazione dell'uomo si decide anche in questa concezione dell'oggetto, di cui si rinuncia alla proprietà, al possesso, per renderlo ancor più parte dell'uomo»208. Il teatro quindi come arte che non produce oggetti ma crea relazioni fra soggetti, è metafora perfetta per spiegare la relazione auspicabile dell'uomo con il mondo, una relazione fondata sull'armonia, sul confronto, sul dialogo, non produttivo in quanto non lascia “prodotto” che possa essere vendibile, acquistabile, conservato, ma può essere “scambiato”209, condiviso, goduto nella relazione stessa, che esiste e nell'esistere si consuma. Il rapporto dell'uomo con il teatro è un rapporto che nella società contemporanea viene in linea di massima percepito come extraquotidiano, nel senso di un qualcosa che non appartiene alla normalità della vita quotidiana, ma si colloca in uno spazio di eccezionalità e straordinarietà. A questo proposito basti pensare a come solitamente i bambini accolgono la prospettiva di “andare a teatro” o di “fare teatro” nell'ambiente scolastico. Nonostante storicamente il teatro sia l'arte più antica e “naturale” nell'esperienza umana, addirittura si potrebbe definirla connaturata all'esperienza culturale di intere società, forse a causa del prevalere dell'educazione cristiana-cattolica, o forse a causa del cristallizzarsi di forme del teatro “borghesi” o comunque definite come tradizionali che hanno allontanato il più vasto pubblico dalla coltivazione dell'esperienza teatrale, oggi il teatro viene considerato qualcosa che ha a che fare con l'eccezionalità dell'avvenimento, qualcosa che càpita poche volte nella vita e una volta che si è pagato il pedaggio dell'ingresso a teatro si può considerare pagato il proprio debito nei confronti di quest'arte. Un'arte che è spesso collegata ad un immaginario affascinante ma vetusto, attraente ma polveroso; talora il teatro viene inteso come un esercizio 208M. Gennari, Trattato di pedagogia generale, Bompiani, Milano, 2006, p. 74. 209Il teatro antropologico, ad esempio, ha fatto propria l'istanza del “baratto”, rendendo così la performance come qualcosa che oltre a dare valore all'esperienza umana, riconosce valore all'esperienza di altre comunità. In quest'ottica nel baratto si realizza pienamente lo scambio culturale. 140 intellettualistico, un hobby esotico riservato a persone che amano la cultura e si dedicano ad attività noiose, un passatempo costoso per appassionati di una cultura fortemente codificata e scarsamente connessa con la realtà e l'attualità. Eppure il teatro potrebbe ricoprire un ruolo più generoso e capillare nell'ambito dell'educazione e della formazione dell'uomo, e forse bisognerebbe partire proprio dall'aggiornamento del suo immaginario. Non è che il teatro “vecchia maniera” o “di tradizione” non esista più. Esiste, ed i mausolei che lo celebrano continuano ad essere abbastanza frequentati, come d'abitudine si va alle cerimonie commemorative, al museo dei bei tempi andati, l'abbonamento alla stagione di prosa viene pagato per trovare conferme tranquillizzanti alla propria idea di cultura. Ed è un bene che questo teatro continui ad esistere, accanto a proposte il più possibili inclusive e rinvigorenti dei linguaggi della scena. I linguaggi ipercodificati della tradizione occidentale accanto/assieme/mescolati ai linguaggi, anch'essi ormai ipercodificati, del cosiddetto teatro “di ricerca” – per usare un'etichetta anch'essa mortifera – messi al servizio di tanti altri teatri possibili, dal teatro-ragazzi, alle esperienze di teatro di strada e al teatro di figura, dal filone di successo del teatro di narrazione, alle esperienze più avanguardistiche del teatro-danza, accanto a progetti di teatro partecipato e sociale (eredi dell'animazione teatrale) fino alla rivoluzione tecnologica delle video performances dal vivo. Il paesaggio complessivo dell'offerta teatrale contemporanea è smisurato e il teatro, in particolare quello che cerca di osare di più e di individuare canali meno usuali e meno “mediati” (da un sistema economico e organizzativo dei teatri ormai atrofizzato) per incontrare il pubblico, questo teatro sta conoscendo un interessante incremento di fruizione coinvolgendo nuove categorie spettatoriali. Ci sarebbe bisogno di una maggiore presenza di teatro, nella pedagogia e nella cultura in genere, se non altro per fare fronte al bisogno crescente dell'uomo contemporaneo di comunicazione “reale” e di interrelazione: con gli altri, con gli oggetti, con il mondo. Il rapporto stesso fra soggetto e oggetto è stato messo in crisi, nella contemporaneità. Non è più basato neanche sul possesso dell'oggetto, mette in gioco l'oscenità data dall'istantaneità totale delle cose, dalla sovraesposizione alla trasparenza del mondo, situazione generata – e de-generata – dall'invasione capillare della tecnologia informatica nelle nostra quotidianità, dal proliferare senza controllo dell'immagine digitale su tutti i nostri schermi e i nostri monitor. La descrizione che ne ha dato Jean Baudrillard rimane ad oggi la più efficace: 141 «Tutto è partito dagli oggetti, ma non c'è più un sistema degli oggetti. La loro critica era ancora quella di un segno gravido di senso, con la sua logica fantasmatica e incosciente, e la sua logica differenziale e di prestigio. […] Tutto questo esiste ancora, e simultaneamente tutto questo scompare. La descrizione di questo universo proiettivo, immaginario e simbolico, è ancora quella dell'oggetto come specchio del soggetto. L'opposizione del soggetto e dell'oggetto era ancora significativa, così come l'immaginario profondo dello specchio e della scena. […] Oggi non più scena né specchio, ma uno schermo e una rete. Non più trascendenza o profondità, ma la superficie immanente dello svolgimento delle operazioni, la superficie liscia e operativa della comunicazione. A immagine della televisione, il più bell'oggetto prototipico di questa era nuova, tutto l'universo circostante e il nostro proprio corpo si fanno schermo di controllo. Noi non ci proiettiamo più nei nostri oggetti con gli stessi affetti, gli stessi fantasmi di possesso, di perdita, di lutto, di gelosia: la dimensione psicologica si è attenuata, anche se la si può sempre reperire nei particolari» 210. Il teatro è l'arte che può mettere in crisi questo stato di cose, primariamente perché mette in discussione il concetto di possesso mantenuto invece con l'accumulo e il controllo delle opere d'arte attuato da parte del sistema delle gallerie e dei musei (conservativo e elitario), secondariamente perché nel suo darsi come relazione attorespettatore consente l'incontro fra l'io e l'altro e attiva una dimensione “umana” della cultura, sociale e basata sulla condivisione. La relazione teatrale infine osteggia l'attenuazione della dimensione psicologica di cui parla Baudrillard ed incrementa un approccio “affettivo” al mondo, passionale ed empatico. L'attività teatrale, esperita nelle sue molteplici forme che vanno dall'essere semplici spettatori al cimentarsi in prima persona sul palcoscenico, considerata nella prospettiva di lifelong learning, recupera un rapporto di vicinanza/prossimità con due esperienze cardine della vita dell'uomo, quella della festa e quella del gioco, esperienze che da un punto di vista storico e da un punto di vista teorico hanno caratterizzato la nascita stessa del fenomeno teatrale. Sono in effetti molti i tratti in comune fra la festa e il teatro, non solo poiché storicamente il teatro da essa nasce e si sviluppa, quanto piuttosto per l'incarnare con/in essa dei bisogni di socialità, ritualità, condivisione e “trasgressione” che gli sono insiti e che oggi, più che mai, partecipano della sua costituzione e del suo rinnovamento: in tanti modi, in tante forme. 210J. Baudrillard, L'altro visto da sé, Costa & Nolan, Genova, 1987, pp. 7-8. 142 Con Cambi si ricordi come la dimensione della festa, analizzata nella sua costituzione basica, metta in campo elementi pressoché identici all'esperienza del teatro, elementi quali il tempo, la ritualità, la comunità: «La festa è allora tempo sospeso, nucleo di riti e di simboli, occasione di vacatio e di partecipazione attiva, momento ludico e estetico e cerimonia costitutiva della comunità, come identità e come valore. Da qui la funzione centrale della festa in ogni cultura: spezza la continuità della vita sociale, ma così facendo ne riconferma i principi/valori; valorizza il soggetto (i suoi bisogni, il suo istinto di gioco, il suo comunicare, etc.) irretendolo in un rito collettivo; gratifica attraverso il ludico e la condizione comunitaria ma, con ciò, governa e conforma il soggetto, ogni soggetto. La festa libera e condiziona ad un tempo. E proprio per questo è uno strumento chiave della vita sociale, in ogni tempo e in ogni luogo» 211. Nelle perdite denunciate dai più fini analisti del tempo, del mondo e della cultura contemporanea, la perdita del rito (come iniziazione, partecipazione e rappresentazione) figura come una sorta di punto di non ritorno. Abitiamo un'epoca che sta abbandonando, progressivamente e inesorabilmente, la possibilità di darsi un tempo altro, di regalarsi un'occasione di festa, di travestimento, di capovolgimento della quotidianità. Tutto è stato irreggimentato e prestabilito, anche la vacanza e il tempo libero. La testimonianza più allarmante arriva dalla gestione del tempo imposta ai bambini, impegnati tutto il giorno e costretti a subire anche la programmazione del cosiddetto tempo libero (occupato fra ludoteche, attività sportive e artistiche). In queste giornate scandite da ritmi “adulti” la noia è stata definitivamente bandita, così come la possibilità di scoprire un ozio creativo, improduttivo, e soprattutto libero dall'ingerenza degli adulti. Infatti anche il gioco, simmetrico ma non coincidente con la festa 212, non trova più spazi autonomi e liberi di espressione, ovvero spazi dettati dalla contingenza e dalla necessità, quindi frutto della scoperta e dominati dall'immaginazione sfrenata. Anche qui la modernità – intesa come epoca regolata dal capitalismo dell'industria del divertimento – ha imposto modi e tempi e oggetti che esaltano la solitudine dell'attività ludica, spersonalizzano gli ambienti, mortificano l'immaginazione con la vuota perfezione del giocattolo. Walter Benjamin aveva stigmatizzato il controllo sull'attività ludica del bambino: «Scervellarsi pedantescamente per realizzare prodotti – siano essi immagini, giocattoli o 211F. Cambi, “Festa e formazione. Sincronia, diacronia, laicizzazione”, in op. cit., p. 213. 212«Se il giuoco trama tutta la civiltà umana e vi si colloca come un fattore costitutivo e irrinunciabile, esso nella festa trova la sua espansione sociale e la sua simbolizzazione più esplicita. Feste o esperienze cariche di festosità sono le gare, i tornei, le stesse guerre cavalleresche, ma anche la conversazione, i giochi delle Accademie, la creazione estetica (dalla poesia al teatro, al teatro d'opera). Festa e gioco sono simmetrici, anche se non coincidono» (Ibidem). 143 libri – adatti ai bambini è folle. Fin dall'Illuminismo questa è una delle fissazioni più ammuffite dei pedagoghi. Totalmente infatuati per la psicologia, non si accorgono che il mondo è pieno di cose che sono oggetto di interesse e di cimento per i bambini; e si tratta delle più azzeccate»213. I bambini devono poter esercitare il diritto al gioco in spazi e tempi non deputati, con giochi “inventati”, adattati, costruiti per l'occasione con l'aiuto dell'immaginazione. Devono poter interagire con, manipolare ed usare i luoghi e gli oggetti del mondo degli adulti e così facendo appropriarsene alla loro maniera. «I bambini sono fondamentalmente portati a frequentare i luoghi dove si lavora, dove in modo evidente si opera sulle cose. Sono attratti irresistibilmente dai materiali di scarto che si producono in officina, nelle attività domestiche o lavorando in giardino, nelle sartorie e nelle falegnamerie. Negli scarti di lavorazione riconoscono il volto che il mondo delle cose rivolge a loro, a loro soli. Con gli scarti di lavorazione i bambini non riproducono le opere degli adulti, tendono piuttosto a porre i vari materiali in un rapporto reciproco nuovo e discontinuo, che viene loro giocando. I bambini, in questo modo, si costruiscono il proprio mondo oggettuale da sé, un piccolo mondo dentro a quello grande»214. É un atto di costruzione del mondo oltre che di definizione di un tempo e di uno spazio propri. Oggi l'atto ludico che coinvolge soggetti e oggetti è sempre più una conquista, da parte dei bambini, ma anche da estendere agli adulti, perché il recupero di rapporti più “umani” e diretti, ovvero non mediati dalle nuove tecnologie – capillari, veloci e spersonalizzanti nonché anaffettive – è diventata un'esigenza salutare. «Il gioco dispiega uno spazio e un tempo sottratti alla prevedibilità quotidiana, l'assunzione dell'impegno a partecipare seriamente, la compromissione reciproca; sancisce un ingresso e un'uscita, la conoscenza e il rispetto delle regole come conditio sine qua non del suo funzionamento, il superamento di prove, la gerarchia dei ruoli, il confronto con chi lo pratica da più tempo, l'apprendimento delle mosse, il coinvolgimento fisico, la scoperta della bellezza come luogo di destinazione dei propri gesti... Inoltre nel gioco si sperimenta anche, fra la circolarità del gesto materno e la verticalità di quello paterno, l'“orizzontalità” dei gesti fraterni» 215. Non tanto il teatro quanto il laboratorio teatrale è infatti un luogo in cui attraverso il gioco della messinscena, sottoposto alla collaborazione attiva costante di tutti i membri del gruppo – in ogni fase, anche e soprattutto in quella creativa attraverso le 213 W. Benjamin - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/1BYSG 214Ibidem. 215I. Gamelli, Sensibili al corpo, op. cit., p. 83. 144 improvvisazioni – si sviluppa l'orizzontalità relazionale. Pur essendoci, come c'è ed è giusto che ci sia, la presenza del regista-educatore, il gruppo sperimenta l'appartenenza al gruppo attraverso l'attivazione spontanea di relazioni interne e reticolari. Anche qui, come nell'essere spettatori, essere attori significa sviluppare una relazionarità duplice, con la guida (il regista-educatore) e contestualmente con gli altri partecipanti. Partecipanti con cui si “condivide” il gioco, si gioca insieme, mentre il regista-educatore può entrare ed uscire dal gioco per osservarlo dall'esterno. Come nel gioco, in cui pure si esiste, si è presenti a se stessi e pure si impara ad essere se stessi, ci si forma attraverso l'interazione con altri oggetti e altri soggetti, il teatro è azione, per esistere ha bisogno di essere “agito” e nell'azione consumato. Ha scritto Baudelaire con fulminante collegamento fra il gioco e il teatro: «Tutti i fanciulli parlano ai loro giocattoli; i giocattoli diventano attori nel grande dramma della vita, ridotto dalla camera oscura del loro piccolo cervello. I fanciulli coi loro giochi testimoniano la loro grande facoltà d'astrazione e l'alta loro potenza immaginativa. Giocano senza giocattoli. […] la diligenza, l'eterno dramma della diligenza rappresentato con delle seggiole: la diligenza-seggiola, i cavalli-seggiola, i viaggiatoriseggiole; solo il postiglione è vivo! I cavalli restano immobili, e tuttavia egli divora con una rapidità ardente spazi fittizi. Quale semplicità di messinscena! E non c'è da far arrossire della sua impotente immaginazione questo pubblico viziato che esige dai teatri una perfezione fisica e meccanica, e non concepisce che i drammi di Shakespeare possano rimaner belli con un apparato di semplicità barbara?» 216. Ma che azione è quella teatrale? Che tipo di contributo un'azione “per finta” può portare alla formazione dell'uomo? Quella del teatro è un'azione vera e al tempo stessa fittizia, reale e pure astratta, teorica e pratica insieme. È nell'azione teatrale che possiamo costruire la metafora dell'indistinguibilità di theorein e praxis. L'azione teatrale è un'azione “a vuoto” che pure va “a segno”, purificata da finalità e finalismi contingenti, essa è proiettata in avanti, verso finalità ideali, avulse dalla quotidianità e dall'immediato, è l'azione pura proiettata verso/nel mondo: capace di avverare l'emozionalità, la poeticità, di allenare la sfera sentimentale. Il suo è un agire “puro” che può apportare benefici importanti nella formazione dell'uomo. Da qui le molte esperienze di azione teatrale presenti nella teatro-terapia, da qui i processi di analisi e autoanalisi esplicati attraverso le rappresentazioni e i giochi di natura teatrale, da qui i percorsi di “allenamento” e soprattutto di formazione attoriale attivati grazie al 216C. Baudelaire, “Morale del giocattolo” in R.M. Rilke, C. Baudelaire, H. von Kleist, Morale del giocattolo. Tre incursioni nell'immaginario dell'infanzia, Stampa Alternativa, Viterbo s.d., p. 17. 145 ricorso al gioco, all'improvvisazione scenica. Da qui il lavoro condotto con bambini in ambiti delicatissimi per aiutarli a portare a galla il loro vissuto traumatico, le loro testimonianze più vicine alla realtà dei fatti. Ma a questo proposito, ad esempio, Winnicott si affretta a chiarire: «Io vorrei togliere l'attenzione dalla sequenza: psicoanalisi, psicoterapia, materiale di gioco, gioco, e rimettere su questa sequenza rovesciata. In altre parole, è il gioco che è l'universale e che appartiene alla sanità; il gioco porta alle relazioni di gruppo; il gioco può essere una forma di comunicazione in psicoterapia; il gioco facilita la crescita e pertanto la sanità e infine, la psicoanalisi si è sviluppata come una forma altamente specializzata di gioco, al servizio della comunicazione con se stessi e con gli altri» 217. E in un altro passaggio, sul rapporto gioco e terapia: «È bene ricordare sempre che il gioco è esso stesso una terapia. Fare in modo che i bambini siano messi in condizione di giocare è di per sé una psicoterapia che ha applicazione immediata e universale, e include lo stabilirsi di un atteggiamento sociale positivo verso il gioco. Questo atteggiamento deve comprendere il riconoscimento che il gioco può sempre diventare un fatto pauroso. I giochi e la loro organizzazione debbono essere considerati come parte di un tentativo inteso a tenere a bada l'aspetto pauroso del gioco. […] La caratteristica essenziale della mia comunicazione è che il gioco è una esperienza, che è sempre una esperienza creativa, e che è un'esperienza che si svolge nel continuum spazio-temporale, una forma fondamentale di vita»218. Il lavorare, attraverso un'azione fisica – non solo intellettuale – alla costruzione di un processo esterno alla formazione, come può essere la drammatizzazione di un gioco e/o l'allestimento di un'azione teatrale, può condurre all'attivarsi di un processo interno di coscienza, questo sì formativo. Il teatro considerato innanzitutto come fare, come processo esterno, progetto condiviso, passaggio attivo dal corporeo al mentale, che procede a partire dal corporeo e dal materiale, in direzione di un processo interno di coscienza. Quest'atto può rivelarsi un'azione formativa importante per l'uomo della contemporaneità, un gesto di cura. Nella sua ottica metateatrale e autoriflessiva su questi aspetti e le loro sfumature ci aveva “giocato” anche Shakespeare in Amleto, attraverso un'azione teatrale vista da “spettatore” e non agita in prima persona da attore; sarebbe potuta bastare una rappresentazione teatrale per far confessare al re Claudio i suoi crimini, così spiega il principe di Danimarca: «Uhm – ho sentito che assistendo a un dramma / Dei malfattori 217D.W. Winnicott, Gioco e realtà, Armando, Roma 2006, p. 76. 218Ivi, p. 88. 146 sono stati colpiti così a fondo / Dall'arte della scena che hanno confessato / I loro delitti. L'assassinio infatti, / Pur non avendo lingua, parla con un organo / Miracoloso. Chiederò a questi attori / Di recitare davanti a mio zio qualcosa / Che somigli all'assassinio di mio padre. / Osserverò il suo contegno. Lo penetrerò / Fino in fondo. Se lui ha un soprassalto / Conosco la mia strada. Lo spettro che ho visto / Può essere un diavolo, e il diavolo ha il potere / Di assumere una forma gradevole, sì, / E forse, per la mia fragilità e malinconia, / Essendo così potente con anime siffatte, / Mi inganna per dannarmi. Il teatro è la cosa / Con cui metterò in trappola la coscienza del Re.» 219 Per Shakespeare il teatro era tutto, coincideva con il mondo ma, al tempo stesso, il teatro introiettava la sua teoria critica, la sua riflessione speculativa, faceva diventare scena i moti più segreti dell'anima e i tranelli della vita quotidiana, diventando all'occorrenza strumento di verità attraverso la finzione dichiarata. Il Re non recita nella compagnia dei teatranti, ma recita nella verità della rappresentazione drammatica: si finge innocente pur essendo colpevole. Amleto è il regista che di tutti i livelli metateatrali presenti nel testo si fa carico, fino alla morte. È colui che svela i meccanismi più segreti del dispositivo teatrale anche a prezzo di mostrare la nudità della propria macchina corporea-attoriale. Vuole arrivare alla verità del teatro usando come strumento la finzione del teatro, in questo gioco sacrificherà Ofelia e consacrerà sé stesso ad eroe tragico moderno. Il teatro immaginato dai più grandi drammaturghi consegna alla storia dispositivi di gioco perfetti, ogni possibilità di travestimento e impersonificazione, la costruzione di personaggi inventati e veritieri al tempo stesso, metafore universali dell'uomo. Trame e personaggi sempre vivi grazie alla rimessa in gioco del palcoscenico, all'azione che ne rinnova pensiero, linguaggio, carattere. Di tutti i giochi inventati dall'uomo per l'uomo, il teatro si presenta come il più semplice, diretto, perfetto: non necessita di nulla al di fuori di un attore e di uno spettatore, di un io che vuole incontrare (comunicare, giocare, interagire) con un altro. Ciò che in questa ricerca si è provato a fare è stato lanciare una proposta ermeneutica di lettura di un fenomeno e al tempo stesso azzardare un'organizzazione delle molteplici forme che esso può assumere. Con lo studio dell'incontro – degli incontri possibili – fra pedagogia e teatro si è cercato di proporre dei percorsi, percorsi talora individuati prettamente in ambito pedagogico, talora invece in quello teatrale, che facessero chiarezza sulla storia, sui limiti, sulle prospettive pedagogiche che questa 219W. Shakespeare, Amleto, traduzione e cura di A. Lombardo, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 117-119. 147 complessa relazione può creare. Mentre la pedagogia ha rappresentato un punto fermo teorico, nel suo caratterizzarsi come “pedagogia critica” e nella scelta di privilegiare il paradigma della “relazione di cura”, il teatro è stato trattato alla luce di differenti accezioni, spesso sfumate l'una nell'altra. Il teatro come metafora privilegiata dello stare al mondo dell'uomo, in armonia con il mondo. Il teatro come possibilità ludica e attrattiva di agire formativo. Il teatro come anticorpo culturale alle troppe patologie “isolanti” della contemporaneità. Il teatro come ulteriore amorevole tassello per la cura del sé. Il teatro come repertorio culturale da proteggere, utilizzare, condividere con gli altri. E quest'ultimo punto ha rappresentato, in qualche modo, l'avvio stesso alla ricerca. Dalla cultura è iniziato il viaggio e alla cultura si è infine arrivati. Perché essa è nell’uomo, lo costituisce, lo forma e ne è formata: «[...] non c'è mente senza cultura, senza linguaggio, senza forme simboliche, senza saperi. Allora la mente e il soggetto (che “porta” la mente) dipendono nel loro costituirsi, preservarsi, incrementarsi dalla cultura che assimilano e dalla formazione culturale a cui vengono sottoposti. Quale cultura per un soggetto-mente aperto, responsabile, critico e metacritico? Una cultura polimorfa e dialettica, in cui logos e pathos si leghino insieme distinguendosi»220. Il teatro appartiene a questa cultura auspicata da Cambi, è questa cultura. 220F. Cambi, “La “questione della tecnica” e la pedagogia”, op. cit., p. 151-152. 148 Riferimenti bibliografici AA.VV., Storia del teatro moderno e contemporaneo, Giulio Einaudi Editore, Torino 2001. ALONGE Roberto, Il teatro dei registi. Scopritori di enigmi e poeti della scena, Laterza, Roma-Bari 2006. ANTONACCI Francesca, CAPPA Francesco, Riccardo Massa. Lezioni su «La peste, il teatro, l'educazione», Editore Franco Angeli, Milano 2001. ARISTOTELE, Poetica, in Opere 10, Laterza, Roma-Bari 1992. 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Definizioni, delimitazioni, sconfinamenti. p. 61 p. 69 p. 86 III capitolo - Pedagogia e teatro: l'incontro possibile. p. 92 3.1. Centralità della formazione. 3.2. L'antinomia ambivalente nell'educazione e nel teatro. 3.3. Il regista-educatore e il laboratorio teatrale. p. 93 p. 102 p. 125 Conclusioni p. 139 Giocare, formare, vivere. Proposte per un'educazione teatrale. Riferimenti bibliografici p. 151 157