Cinque piccoli passi fra teatro e educazione…

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA
Dipartimento di Scienze della formazione, dei beni culturali e del turismo
CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN
Theory, Technology and History of Education
CICLO XXV
TITOLO DELLA TESI
Teatro come esperienza pedagogica
TUTOR
Chiar.mo Prof. Michele Corsi
co-TUTOR
Chiar.mo Prof. Giuseppe Spadafora
DOTTORANDO
Dott.ssa Vincenza Costantino
COORDINATORE
Chiar.mo Prof. Roberto Sani
ANNO 2013
1
Cinque piccoli passi fra teatro e educazione.
Nell'accostare i termini “pedagogia” e “teatro” non si può mettere da parte il
compito epistemologico sotteso nell'affrontare in particolare il primo dei due termini in
questione e, in maniera tangenziale e conseguente, pure il secondo; coscienti,
innanzitutto di stare avvicinando non due parole e le rispettive letterature, ma due
domini differenti e, per certi versi, indifferenti l'uno all'altro, per origini, storia,
percorsi, progettualità, crisi, risultati.
Semplificando al massimo, e le semplificazioni possono essere chiarificatrici se
non assunte dogmaticamente: si sta, nel primo caso, nell'ambito di una scienza, nel
secondo nell'ambito di un'arte. Entrambi gli ambiti, per motivi differenti, sono
problematici, critici, dai confini indefiniti. In effetti la pedagogia è “scienza” del tutto
particolare, ostile alla scientificità, per fondamenti, metodologie e aspettative, eppure
refrattaria al morbido assorbimento nell'alveo dei saperi filosofici e umanistici. Teatro è
“arte” in una sua maniera unica e pericolosa che da sempre la rende fluttuante e la
costringe a migrare ora nella letteratura, ora nelle arti sceniche, ora nelle pratiche
attoriali, eppure questo suo essere apolide ne fortifica – per paradosso – la specificità
artistica, quella dimensione dal vivo, dell'hic et nunc, che la caratterizza e la rende
inafferrabile quanto irripetibile.
Il quesito che in questa tesi si vuole proporre e che si tenterà di sciogliere è il
seguente: se e in che maniera una scienza problematica come la pedagogia può
incontrare – in una prospettiva interessante e proficua per il suo stesso sviluppo e la sua
attualizzazione nella contemporaneità – un'arte, anch'essa di natura problematica come
quella del teatro?
L’accostamento parte da lontano e possiede una storia significativa. Esistono e
sono documentate, sebbene non in maniera sistematica, convergenze fra la pedagogia e
il teatro nel loro articolarsi che vede l'alternanza inesausta del prevalere ora della teoria
ora della prassi, portando ricadute e aprendo prospettive ora nell'ambito della
speculazione filosofica ora in quelli più pratici e applicativi ma, soprattutto, nei settori
che vedono l'avverarsi di legami, esperienze, attività di raccordo possibili fra le
cosiddette “scienze dell'educazione” e le “scienze dello spettacolo”.
L'incontro fra i termini in questione non è quindi né insolito né particolarmente
originale. Negli studi pedagogici càpita, a differenti livelli, di imbattersi nel teatro, sia
inteso in senso lato come arte, sia inteso come un'attività pratica e “materiale” che può
avere effetti positivi se applicata in taluni ambienti educativi, se utilizzata in percorsi
2
didattici o se attivata in ambiti specifici dell'educazione, della ri-educazione e della
formazione umana.
Attingendo ad esempio ad un livello pratico ed ordinario di attività teatrale svolta
in ambienti educativi, come può accadere nella scuola primaria, da una prima
osservazione emerge che la “rappresentazione” di tipo teatrale – sia al livello
superficiale della “recita” sia a quello più profondo dell'“esito” di un percorso o di un
laboratorio teatrale – è spesso utilizzata in ambito scolastico o anche extrascolastico,
come momento creativo, produttivo, d'apprendimento, di formazione, di crescita o
semplicemente di condivisione, aggregazione, festa. È solo un esempio di quella che
può essere definita una banale “appropriazione” di una caratteristica propria e
costitutiva del teatro che viene utilizzata per fini didattici, educativi e formativi in
ambito scolastico o comunque educativo. L'obiettivo dichiarato non è artistico – quasi
mai esplicitamente talora può esserlo implicitamente – ma sempre, almeno nelle
intenzioni, è annunciato come pedagogico e contestualizzato all’interno di progetti e
programmi che ne sottolineano gli aspetti formativi, relazionali, socializzanti. È solo un
esempio, nemmeno il più preciso, forse il più controverso, ma serve ad inoltrarsi in un
territorio problematico ed affascinante. Infatti sulla utilità, la necessità e la opportunità
pedagogica delle rappresentazioni teatrali svolte da alunni o utenti di diverse agenzie
formative esistono pareri diversi e opposti, teorie approfondite e studi documentati,
spesso conditi da una buona dose di scetticismo dovuta all'uso approssimativo e spesso
superficiale che ne è stato fatto nel corso del tempo 1.
Sebbene oggi si sia giunti, da un punto di vista degli studi di settore, a conclusioni
all’unanimità orientate nel considerare il “processo” più importante del “risultato” in un
ambito di convergenza fra arte teatrale e scienza pedagogica sviluppata in ambienti
educativi, principalmente scolastici, è ancora il caso di considerare il fatto che sovente,
nelle scuole soprattutto elementari e medie inferiori, a ben guardare, è facile trovare
un'insegnante che voglia scatenare le proprie velleità artistiche (si tratti di recitazione,
danza, canto o musica poco importa) trasferendole su un palcoscenico improvvisato,
con attori bambini e costumi di carta crespa. Il pubblico di parenti emozionati non
lesinerà certo applausi e qualche lacrima di commozione, questa è prassi comune,
qualcosa che ormai quasi ci si attende che accada così come i nonni dall'approccio più
lucido si attendono da questa esperienza una buona dose di noia su una seggiola
scomoda.
1Cfr. R. Di Rago, Il teatro della scuola. Riflessioni, indagini ed esperienze, Ed. Franco Angeli, Milano
2001; R. Di Rago, Emozionalità e teatro. Di pancia, di cuore, di testa, Ed. Franco Angeli, Milano 2008.
3
C'è poco di pedagogicamente efficace nella maggior parte di queste esperienze,
ma è giusto ricordare che non si nasconde neanche grave danno pedagogico nella recita
di fine anno o nei canti di natale, c'è piuttosto l'approssimazione e la sciatteria che può
derivare da un agire talora nato da buone intenzioni, ma realizzato senza adeguata
competenza e formazione degli insegnanti, senza organizzazione e attenzione da parte
dell’istituzione scolastica, senza reale e fattiva partecipazione da parte di alunni e
genitori e dimenticando, certo a causa dell’ansia prestazionale, quelle stesse finalità
pedagogiche ben espresse e scritte nel piano dell’offerta formativa scolastica.
Basterebbe anche solo il tenere a mente le intenzionalità formative già dichiarate nei
complessi passaggi burocratici della programmazione didattica per dare un valore più
complesso e appropriato alla cosiddetta “recita di Natale”, con ricadute significative
tanto in ambito pedagogico quanto in quello artistico.
In linea generale, le attività teatrali nella scuola e in altri ambienti educativi,
svolte prevalentemente, ma non organicamente, con approccio pedagogico si snodano
lungo un asse molto articolato di progettualità, modalità e finalità, che include, con
diversi livelli di consapevolezza: le applicazioni terapeutiche del teatro rivolte alle
disabilità, il teatro inteso come opportunità di semplificazione didattica e di approccio
disciplinare motivante, il teatro come modalità di avvicinamento e coinvolgimento in
progetti specifici solitamente articolati come “educazione a...” e inseriti nel Piano
dell'Offerta Formativa della scuola, come ad esempio i progetti di “educazione alla
legalità”, “educazione alla pace”, “educazione all'intercultura” ecc, giusto per citare i
più comuni. L’incontro fra pedagogia e teatro avviene quindi, più che in un’ottica
teorico-pedagogica, in una di tipo pratico-educativa, poiché sono molte le possibili
applicazioni delle attività teatrali nell’educazione e nella didattica, attività già previste e
suggerite nei sussidi didattici, nelle programmazioni, nelle progettualità condivise.
Il panorama complessivo che scaturisce da quest'incontro appare ricco, ma anche
frammentario, disorganico, caotico. Scorrendo velocemente testi, siti, riviste e
pubblicazioni più o meno accreditate, si possono riconoscere, sempre grazie ad un
lavoro di semplificazione di certo grossolano, cinque macrocategorie in cui si articola,
con presupposti, modalità e obiettivi diversi, la relazione fra educazione e teatro, e
sono:
la “pedagogia teatrale” con cui in linea di massima si intende la disciplina che
organizza la trasmissione dei saperi teatrali, in particolare e sopratutto il “mestiere”
4
dell'attore, ma anche del regista e delle principali maestranze che operano nel teatro
(scenografi, illuminotecnici, tecnici del suono etc.). Alla pedagogia teatrale appartiene
tutta la manualistica dedicata alle figure professionali del teatro considerate nel loro
complesso, ma vi si possono riferire anche quegli studi che affrontano questioni
specifiche e particolari riguardanti le singole competenze delle professionalità
coinvolte: dizione, recitazione e canto, come anche danza, cinesica e prossemica,
oppure scherma per l'attore; arte, architettura, arredamento per lo scenografo; storia,
storia dell'arte, della moda e del costume per costumista e trovarobe, ecc. In quest'ottica
appartengono alla pedagogia teatrale i volumi di Stanislavskij 2 dedicati al lavoro
dell'attore su se stesso e sul personaggio, considerati nella prospettiva della
conservazione e trasmissione di un'arte che fa dell'attore il proprio strumento di
creazione artistica; come anche, nel contesto italiano la documentazione dell'attività di
insegnamento di Orazio Costa3, considerato uno dei massimi esponenti della pedagogia
teatrale europea del Novecento. A questi due nomi molti se ne possono aggiungere,
nomi di registi, di attori, di artisti o studiosi non esplicitamente incasellabili nella
pedagogia teatrale ma che, di fatto, nel corso di decenni si sono attestati come punti di
riferimento imprescindibili nell'insegnamento del teatro nelle sue diverse forme e nelle
sedi più diverse: nelle accademie di recitazione come anche in scuole e università, nei
laboratori teatrali e soprattutto all'interno di compagnie tanto di teatro di tradizione
quanto di ricerca. Un resoconto complessivo - in tanta diversità di contributi - si può
ricostruire attraverso una rilettura del volume di Carlson dedicato alle teorie del teatro 4,
qui lo studioso propone una scansione di tipo storico-geografica da cui è possibile trarre
i principali riferimenti bibliografici per abbozzare un panorama degli studi di pedagogia
teatrale. Infine, un volume preziosissimo e non convenzionale che resta come manifesto
universale del rapporto pedagogico fra maestro-allievo in ambito attoriale, è senz’altro
il basilare Per un teatro povero di Jerzy Grotowski5.
Il “teatro didattico” partecipa della convergenza fra pedagogia e teatro
mettendo in relazione, più che la pedagogia, quella parte della scienza dell'educazione
chiamata appunto didattica. Il teatro diventa uno strumento, ovvero una metodologia
2K.S. Stanislavskij, Il lavoro dell'attore su se stesso, Laterza, Bari 1968; K.S. Stanislavskij, L’attore
creativo, La Casa Usher, Firenze, 1980; K.S. Stanislavskij, Le mie regie I, Ubulibri, Milano 1986; K.S.
Stanislavskij, Il lavoro dell'attore sul personaggio, Laterza, Roma-Bari 1988; K.S. Stanislavskij, Le mie
regie II, Ubulibri, Milano, 1996; K.S. Stanislavskij, La mia vita nell'arte, La Casa Usher, Lucca 2009.
3Cfr. M. Boggio, Mistero e Teatro. Orazio Costa, regìa e pedagogia, Bulzoni, Roma 2004; M. Boggio,
Orazio Costa maestro di teatro, Bulzoni, Roma 2007; G.G. Colli, Una Pedagogia Dell' Attore. L'
insegnamento di Orazio Costa, Bulzoni, Roma 1996.
4M. Carlson, Teorie del teatro. Panorama storico e critico, Il Mulino, Bologna 1988.
5J. Grotowski, Per un teatro povero, Bulzoni, Roma 1970.
5
didattica fra le altre, ritenuta più adatta ed efficace rispetto ad altre, per favorire
l’insegnamento e l’istruzione di bambini ed adulti. Ci si trova nell'ottica di un teatro
“semplificato”, che vede ridotte e pressoché azzerate l'ispirazione e gli slanci estetici a
favore dell'istanza educativa, ma di un’istanza educativa non problematizzata e a corta
gittata. È un teatro che viene usato, nelle sue pratiche e tecniche più note e comuni,
come un'ulteriore possibilità di avvicinamento all’istruzione di massa, come forma più
accessibile all’apprendimento dei saperi, sia umanistici sia scientifici, tanto di quelli
previsti dai programmi ministeriali quanto di quelli considerati utili per il benessere
sociale, politico, della comunità. È infine un teatro che strizza l’occhio alla propaganda
politica, volto a far conoscere avvenimenti di cronaca e attualità, oltre a vicende
storiche, letterarie o di divulgazione scientifica, con l’obiettivo spesso dichiarato e
palese di “sensibilizzare” un target preciso di pubblico. Oggi, con eccessiva
semplificazione, con teatro didattico si tende a identificare le attività teatrali svolte a
scuola. Tale accezione, oltre ad essere limitante, è anche fuorviante dato che non
necessariamente le attività teatrali che si producono all'interno degli edifici scolastici,
grazie a progetti curriculari o extra-curricolari, hanno intenzionalità, caratteristiche e
finalità che possano dirsi “didattiche”. Questo teatro piuttosto si colloca nella scia di
una lunga tradizione che ha sempre riconosciuto al teatro una doppia anima: quella
tragica in opposizione alla comica, quella educativa e morale in opposizione a quella
dell'evasione e del divertimento. Tale divisione è stata cristallizzata in epoca
medioevale in cui, l'unico teatro non condannabile era quello che si proponeva,
apertamente, finalità morali ed edificanti, ad esempio attraverso le rappresentazioni
sacre6.
Il “teatro-ragazzi”, spesso accomunato o inglobato, in maniera non sempre
calzante né opportuna, al “teatro didattico” rappresenta anch’esso un settore molto
articolato e dai confini fluidi. Una differenza sostanziale rispetto alla categoria
precedente è da identificare almeno negli intenti. Il teatro-ragazzi si motiva in questa
dicitura perché è sostanzialmente un teatro rivolto ad un pubblico di ragazzi (bambini,
ragazzi e adolescenti comunemente divisi in fasce d'età). La rigidità dell’indirizzarsi a
spettatori ben definiti per età (talora anche per nazionalità e cultura) si smorza nelle
diverse finalità a cui può ambire e ispirarsi. Finalità che possono essere di natura
prevalentemente estetica come anche dettate dal desiderio più ludico di coinvolgere gli
6 «La lotta della chiesa contro il teatro pagano e contro il teatro in generale non si svolgeva soltanto sul
piano della negazione: sia pure in modo soltanto implicito, la chiesa contrapponeva allo spettacolo
mondano quello spirituale e purificatore del rito» (C. Molinari, Storia del teatro, Laterza, Roma-Bari,
1997, p. 61).
6
spettatori in attività di evasione e di intrattenimento. L’educatore coinvolto
nell’esperienza del teatro didattico è invece, nel teatro-ragazzi, un regista a tutti gli
effetti che non mira in prima battuta alla coesione del gruppo classe e all’istruzione
degli alunni, ma innanzitutto alla realizzazione di una rappresentazione teatrale che
piaccia ai ragazzi e che, solo in seconda battuta, possa anche costituire un’esperienza
formativa ed istruttiva. Per contro il teatro didattico dal punto di vista del pubblico mira
ad una composizione spettatoriale abbastanza ampia – per quanto connotata come
“scolastica” - che sappia includere una miscellanea composta da alunni, genitori ma
anche colleghi insegnanti, giornalisti ed addetti ai lavori, a cui ci si rivolge con l’intento
di “educare” seppure in un'accezione molto ampia del termine (dal fornire una chiave di
lettura degli avvenimenti storici o di attualità, all'informare tout court, al formare).
Nonostante queste due differenze, appare evidente che i confini fra teatro didattico,
teatro-ragazzi e la quarta categoria che si sta per prendere in considerazione, ovvero
quella dell'animazione teatrale, spesso sono, più o meno onestamente, impercettibili e
confusi7 proprio a causa del fatto che si tratta di attività teatrali che coinvolgono – si è
detto in maniera diversa e con ruoli diversi – i bambini e i ragazzi principalmente in
ambiente scolastico o percepito come di contiguità scolastica.
L’“animazione teatrale” è definizione con cui si identifica un movimento
culturale sviluppatosi in Italia fra gli anni Sessanta e Settanta, indirizzato a bambini e
ragazzi ed articolato in una serie di pratiche e metodologie specifiche. Obiettivo delle
tecniche di animazione teatrale non è tanto l'allestimento di uno spettacolo quanto la
coesione e l'affiatamento del gruppo di bambini o adulti al fine di far emergere le
risorse personali di ognuno per appropriarsene e poi condividerle con gli altri. L'attività
teatrale è quindi usata allo scopo di creare una comunità più consapevole e creativa, in
poche parole tesa al benessere del singolo attraverso il lavoro e il divertimento
condiviso con gli altri, tale attività è di solito guidata da un animatore o educatore.
Recitare, allestire uno spettacolo, affrontare giochi di ruolo e attività teatrali di vario
tipo è solo un mezzo per conoscere meglio se stessi e imparare a valorizzarsi
nell'amicizia e nella condivisione. Nella prospettiva dell'animazione teatrale gli aspetti
pedagogici sono predominanti rispetto a quelli teatrali che, per certi versi, passano in
secondo piano. L'animazione teatrale ammette che si lavori anche per mesi ad uno
spettacolo teatrale che potrebbe non vedere mai le luci della ribalta ma che potrebbe
7La prova di tale confusione è data anche dalla bibliografia di riferimento, costituita perlopiù da volumi
collettanei che includono, documentano e commentano esperienze teatrali molto eterogenee e comunque
sconfinanti da una categoria all'altra: P. Beneventi, Introduzione alla storia del teatro-ragazzi, La Casa
Usher (Ponte alle Grazie), Firenze 1994; B. Fabbris, Il teatro didattico, Caosfera, 2011.
7
arricchire il bagaglio esperenziale ed emotivo dei partecipanti in maniera significativa;
semplificando al massimo, appare evidente che in quest’ambito ciò che più conta non è
l'aspetto rappresentativo finale, lo spettacolo ovvero il “risultato”, ma quello fisico,
psicologico ed emotivo del gruppo, il lavorare assieme ovvero il “processo”.
Sull'animazione teatrale esiste un’importante bibliografia di riferimento, sia prodotta
negli anni della nascita e dello sviluppo massimo del movimento 8, sia di più recente
pubblicazione9.
Infine c'è il settore ampio, ad oggi in notevole espansione, delle “artiterapie”
fra cui occupano un posto di rilievo la teatro-terapia10, la dramma-terapia e tutta una
serie di attività che sfruttano giochi, modelli e tecniche del teatro per fini terapeutici,
per contrastare o comunque alleviare patologie le più diverse in soggetti con disabilità
come anche nei normodotati che ne dovessero riconoscere la necessità per vivere
meglio con se stessi e con gli altri. Le artiterapie infatti vanno nella direzione della
ricerca e diffusione di un benessere che riguarda non solo il gruppo con cui si lavora,
ma che interessa in senso lato la comunità intera in cui il gruppo è inserito, che accoglie
e fruisce dei benefici diffusi in termini di salute complessiva, vitalità, energia positiva,
coesione sociale e partecipazione. Nella definizione che fornisce M. Cavallo «si
definisce dramma/teatro terapia una specifica metodologia, comprensiva di impianti
teorici, tecnici e valutativi, che assume come intento scientifico, clinico e sperimentale,
l'intervento con finalità terapeutiche attraverso l'applicazione di teorie, tecniche,
strumenti, paradigmi di tipo teatrale in stretta coniugazione con le conoscenze derivanti
da discipline quali la psicologia, la psicopatologia descrittiva e analitica, la
psicofisiologia, la psichiatria»11. Trattandosi di percorsi non ancora ben codificati e
riconosciuti in ambito medicale, le arti terapie occupano ad oggi un territorio mediano
fra la cura del benessere e della salute e la sperimentazione teatrale.
Queste cinque categorie or ora elencate rappresentano solo le esperienze più note
e documentate delle molte e possibili declinazioni del rapporto fra pedagogia e teatro.
Sono state qui riportate, seppur sommariamente, lungo un asse che va dalla prevalenza
8Per una bibliografia completa si veda P. Puppa, “L'animazione, ovvero il teatro per gli altri”, in A.A.
V.V., Storia del teatro moderno e contemporaneo, vol. III. Avanguardie e utopie del teatro. Il Novecento,
Einaudi, Torino, 2001, pp. 859-873.
9Cfr. G. Amodeo, La vita è gioco, Ibiskos Editrice, Empoli 2008; P. Beneventi, D. Conati, Nuova guida
di animazione teatrale, Sonda, Casale Monferrato 2006; V. Garavaglia, Teatro, educazione, società,
UTET, Torino 2007; L. Perissinotto, Animazione teatrale, Carocci, Roma 2004.
10Cfr. P.E.R. Bitti, Regolazione delle emozioni e arti-terapie, Carocci, 1988; W. Orioli, Far teatro per
capirsi, Macro ed., 1995; W. Orioli, Teatro come terapia, Macro ed., 2001.
11M. Cavallo, “definizione di dramma/teatro terapia” in www.pol-it.org
8
del teatrale (la pedagogia teatrale) alla prevalenza del pedagogico (la teatro-terapia),
nell’ottica di una possibile reversibilità dei poli, quindi potendo invertire il percorso per
andare dalla prevalenza del pedagogico a quella del teatrale senza nessuna pretesa di
indicare direzioni obbligate e senza la presunzione di esprimere giudizi di merito. Tra
l’altro, le categorie su elencate, pur rifacendosi alla letteratura scientifica di riferimento,
non possono intendersi come categorie chiuse e definite una volta per tutte. Esse sono
invece da intendersi come “aperte” e “imperfette”: aperte poiché tra loro collegate,
interdipendenti oltre che, al di là di alcuni punti fermi, ancora in via di definizione;
imperfette poiché per loro stessa natura attengono all’uomo, alle scienze e alle arti,
quindi si rifanno e si rinnovano continuamente nelle esperienze, nelle ricerche e
nell’attività dell’essere umano nella società.
La presente ricerca non vuole azzerare le cinque categorie individuate, ma vuole
piuttosto rivitalizzarle in un quadro generale che le includa senza “ridursi” ad esse.
Rappresentano momenti fondamentali nella costruzione del rapporto fra pedagogia e
teatro, tappe imprescindibili di un rapporto ancora in evoluzione, e che non può e non
deve essere pienamente identificato o esaurirsi in esse. La dimostrazione immediata di
questo ragionamento introduttivo è da riscontrare nel panorama delle arti e delle
scienze del XXI secolo (e del finire del XX), in cui emergono esperienze fra teatro e
pedagogia talmente interessanti e originali da non trovare precisa collocazione in esse.
La liminalità, l’intertestualità, la trasdisciplinarità emergono come caratteristiche
specifiche di un’arte della postmodernità che fa della mancata appartenenza alle
categorie date uno dei suoi maggiori punti di forza.
Inoltre, da un punto di vista epistemologico si deve riconoscere che non appena si
afferma, nella produzione critica e scientifica di settore, una dicitura precisa, che
stabilisca oggetti d'afferenza, definizioni e ambiti d’interesse, subito questa necessita di
nuove precisazioni, nuove fondazioni, nuove limitazioni e riconoscimenti, rischiando di
trasformarsi in un qualcosa percepito come lontano o addirittura estraneo ora dalla
pedagogia (poiché ad esempio ritenuto troppo prossimo al teatro) ora dal teatro (poiché
ad esempio ritenuto troppo prossimo alla pedagogia). È solo un atteggiamento, ma è un
atteggiamento che ha condizionato e condiziona la ricerca inter- e trans- disciplinare.
I pedagogisti non hanno voluto frequentare i teatri, evitando così di impolverarsi
con le assi dei palcoscenici, i registi non hanno voluto frequentare le scuole, evitando
così di impolverarsi con i gessetti delle lavagne. Nessuno si è sporcato davvero,
nonostante le molte attività di ospitalità, condivisione, incontro. Nonostante i molti
9
frutti, ora raccolti ora lasciati a terra a marcire, scaturiti da esperienze eccezionali di
interrelazione fra i due ambiti disciplinari, molto lavoro va fatto ora per organizzare le
testimonianze documentali in progetti di ricerca più articolati e contestualizzati,
provando a ricostruire la teoria, la storia e le pratiche di un rapporto estremamente ricco
per quanto confuso.
Da un punto di vista degli studi di settore, sembra sia arrivato il momento di
compiere un tentativo di organizzazione complessiva e proporre delle linee guida
teoriche che possano aggregare esperienze diverse fra di loro piuttosto che disgregarle
incasellandole in altrettante micro- e macro-categorie specialistiche. Il tentativo di fare
chiarezza, che qui si vuole proporre, è orientato all’inclusione critica, individuando
convergenze fra i diversi ambiti disciplinari, senza proporre tassonomie, senza troppo
insistere sulle divergenze che pure interessano gli oggetti dell’indagine. In conclusione
la domanda che ci si è posti può sembrare anche troppo generica, visto che qui si vuole
verificare se e come il teatro, quest'arte che non produce nulla al di fuori dell'atto stesso
della produzione – del suo farsi e darsi come azione d'arte – possa contribuire allo
sviluppo della pedagogia oggi, in questa età che è stata definita della postmodernità,
della fine dell'educazione, del disincanto 12.
Ogni volta che – nell'ambito della ricerca scientifica – si crea una nuova
connessione, un nuovo rapporto fra diversi saperi, occorre ripensare, per prima cosa,
agli oggetti stessi di quei saperi, definirne i confini, i concetti fondativi, i margini di
criticità, rimetterne in campo problematicità e caratteri distintivi, non attraverso un
processo limitante ed esclusivo, ma il più possibile reticolare, aperto ed inclusivo. Per
non rischiare di precipitare nel caos indistinto per cui tutte le scienze umane, avendo
matrici comuni, si somigliano e possono diventare sovrapponibili, occorre fissare dei
punti cardinali che consentano l'orientamento anche e soprattutto nell'allargamento e
nel nuovo dimensionamento delle mappe dei saperi specifici. È per non perdersi nel
fitto reticolo delle interconnessioni fra saperi “umanistici” che occorre fare riferimento
e infine “scegliere” delle definizioni da fare proprie, da non abbandonare nel corso del
ragionamento e dei ragionamenti, da usare come stella polare, sia per la pedagogia, sia
per il teatro. Con queste costellazioni fisse si può anche decidere di abbandonare per un
tratto la strada maestra e di imboccare sentieri laterali, poco battuti, ma in questo
procedere dobbiamo comunque tener presente che la strada principale è quella che detta
la destinazione finale e ad essa dobbiamo infine guardare anche nel discostarcene.
12Cfr. F. Cambi, Abitare il disincanto. Una pedagogia per il postmoderno, Utet, Novara 2006.
10
Riprendendo le battute iniziali, non possiamo mettere in relazione pedagogia e
teatro senza eleggere fra tutti, le definizioni e i paradigmi di riferimento rispetto all'una
scienza e all'altra arte o, per meglio dire, senza riferirci, almeno in una fase iniziale alle
questioni ontologiche ed epistemologiche. È, questo, un procedere che può rivelarsi
adeguato al tipo di ricerca intrapresa: l'ontologia si fa nume tutelare dell’incedere
teorico nel suo complesso così come, in un meccanismo stratificato come di scatole
cinesi, l'ontologia abita sempre la scatola centrale, più profonda e nascosta.
Che la questione ontologica sia basilare nello studio della pedagogia sarà compito
della corrente di studi e ricerche denominata “pedagogia critica” rinnovarlo con gli
strumenti e i dibattiti che le sono propri nonché attraverso l’individuazione di alcuni
paradigmi che la costituiscono e vengono ripresi nel corso del primo capitolo. Mentre
per quel che concerne il teatro, oltre alla ricostruzione teorica delle sue origini e del suo
percorso in quanto arte, dalla nascita ad oggi e privilegiando l’asse di studi semiotici, si
adotterà la suggestione di Jean-Luc Nancy suggerita nel breve e fulminante testo
intitolato Corpo teatro (Cronopio, Napoli 2010): una riflessione che offre infiniti spunti
sulla natura fondativa e originaria del teatro, non solo una metafora, che ispira e
informa il secondo capitolo. Infine, nel terzo capitolo, si proporrà una sintesi ed
un’analisi
della
convergenza
che
interessa
pedagogia
e
teatro
a
partire
dall’affermazione di una condizione generale imprescindibile, già annunciata nei due
capitoli precedenti, che pone la centralità nell’arte e nella scienza dell’uomo e della sua
esperienza.
La centralità rimarcata dell’uomo nella riflessione pedagogica, rimette in mano
all’uomo la gestione dell’attività pedagogica stessa, la domanda incessante su se stesso,
ma anche il riconoscimento della volontà di incontro e confronto con l’esterno, con
l’altro. Ne fa l’oggetto di studio privilegiato ma anche il soggetto agente della ricerca,
soggetto formante e in-formazione al tempo stesso. Questa stessa centralità riconosciuta
all’uomo, estesa nell’arte teatrale, significa rimettere in mano all’uomo l’attività
teatrale stessa, riconoscerlo regista-attore-spettatore attraverso l’affermazione di una
volontà d’arte che può avverarsi solo “uscendo fuori da sé”. L’uomo, anche in questo
caso è l’oggetto della ricerca, oggetto di studio privilegiato in quanto tramite dell’arte
che rappresenta e che “lo” rappresenta, soggetto agente come attore/regista,
soggetto/oggetto esistente solo grazie allo sguardo dell’altro, dello spettatore.
La prospettiva “umana”, oltre a tenere vicine l’arte teatrale e il sapere pedagogico,
ci indica quale teatro e quale pedagogia siano in questa sede i punti di partenza ufficiali.
11
Si vuole qui dare rilevanza alla pedagogia come scienza che sappia porre al centro
l'uomo, l'uomo “umano”. Con le parole di Mario Gennari: «L'umano e l'umanità, in
quanto tratti distintivi dell'uomo, rispondono ad ogni filosofia e pedagogia
antiumanistica che pensa “al di là” del soggetto. L'uomo, appunto in quanto soggetto,
dichiara la duplice struttura antropologica e ontologica di cui la sua essenza è
composta. Il valore della soggettività viene compreso nel fondamento di se stessa:
fondamento umano e umanante, il cui nucleo materiale e spirituale insieme dà forma
all'uomo e giunge ad “essere” la sua stessa formazione. Così, come ha scritto
Rosenzweig (2000:186), l'uomo è la sua formazione. E ciò in senso antropologico e
ontologico, materiale e spirituale» 13.
Il livello dell’“umanità” esplicitato da una pedagogia dell’uomo e da un teatro
dell’uomo favorisce il consolidamento di un percorso teoretico ed evita l’eccessiva
astrazione, attenuando la dicotomia teoria/prassi, da sempre problematica tanto in
pedagogia quanto nel teatro. Ovviamente non si vuole qui risolvere una questione così
complessa, quanto piuttosto indicare un punto di partenza che è comune ad una scienza
e ad un’arte problematiche. Si tratta di un approccio essenziale per rendere possibile
tutto il dipanarsi della presente ricerca, ricordare come la pedagogia da cui partire e che
si vuole relazionare con il teatro debba essere «Una pedagogia dell'uomo che pone il
soggetto come agente di formazione e educazione sceglie l'uomo quale interlocutore di
se stesso e dell'altro, della sua soggettività umana e dell'oggettività propria dell'umanità
che gli sta di fronte»14.
Allargando l'orizzonte d'attesa, il presente studio si inscrive nella prospettiva di
interrogarsi su se, quanto e come il teatro, inteso come arte e considerato nelle sue
incursioni nel e nelle sue connessioni con il “pedagogico”, possa contribuire alla
formazione dell'uomo nella contemporaneità. Tutto ciò senza mai perdere di vista le
caratteristiche specifiche dell'epoca odierna e quali siano le esigenze formative
dell'uomo che ad esse deve rapportarsi nel corso della sua vita. Il livello di
complessità , rischio e ambiguità è alto.
È utile, nell'ottica di una prospettiva generale di avvio, riprendere due frasi di
Martha Nussbaum dall'introduzione al suo Coltivare l'umanità, in cui la studiosa,
all'interno di un contesto specifico, ovvero chiedendosi che tipo di formazione offrano i
campus americani ai giovani del XXI secolo, scrive: «Il mondo d'oggi è inevitabilmente
multiculturale e plurinazionale. Molti dei problemi più pressanti richiedono, per essere
13M. Gennari, Trattato di pedagogia generale, Bompiani, Milano, 2006, p. 71.
14Id., p. 72.
12
risolti in modo intelligente e cooperativo, un dialogo tra persone con differenti
esperienze culturali, religiose e nazionali. Persino quegli argomenti che ci sembrano più
vicini – come la struttura della famiglia, il controllo della sessualità, il futuro dei
bambini – devono essere affrontati con una più ampia comprensione torica e
interculturale»15.
Il ricordare queste parole aiuta a non perdere di vista un carattere essenziale che
deve rivestire non solo la presente ricerca, ma ogni ricerca di stampo teorico
concernente la pedagogia ai nostri giorni, ovvero il fatto che non si possa prescindere
né dalla propria tradizione culturale né dalla stessa critica a quella tradizione – per cui
bisogna serbare sempre memoria degli studi passati senza però accettarli acriticamente
-, né soprattutto mettere in secondo piano la situazione storica, sociale, culturale in cui
ci si trova immersi, caratterizzata come nessun'altra epoca dal multiculturalismo,
dall'intercultura, dal plurilinguismo, dalla multimedialità e dall'ipertecnologia.
Una delle questioni cruciali per la studiosa è rammentare il compito, che devono
avere le scuole superiori e le università statunitensi, compito niente affatto semplice né
scontato, di “formare i cittadini del futuro”. Si tratta di un compito che, per quanto
dichiarato dall'istituzione e dal sistema scolastico e d'istruzione americano e condiviso
dal mondo occidentale più o meno industrializzato, è dato in linea di massima come
pacifico e implicito a fronte di una prassi di insegnamento invece strutturata,
organizzata e agita in maniera tale – nella pratica quotidiana anche di insegnanti capaci
– da mancare clamorosamente l'obiettivo. Si dovrebbe ambire ad una “educazione
liberale” che è di per sé – nonostante il richiamo ai classici della Nussbaum – difficile
da definire e ancor più difficile da perseguire.
In questa sede si ipotizza che un valido aiuto alla “coltivazione dell’umanità”
possa provenire all’uomo dal teatro. Teatro inteso come arte dell’incontro e della
relazione fra l’io e l’altro, arte della rappresentazione del/i mondo/i, dal teatro inteso
come metafora e al tempo stesso “prova generale” di vita, esperienza del “come se” che
coniuga realtà e immaginazione in maniera attiva. Si prevede di organizzare un
percorso di ricerca basato su criteri di scientificità, individuando i contesti teorici di
riferimento, motivando il perché della scelta di un approccio e di un paradigma
pedagogico fra gli altri, di una definizione e di una teoria teatrale fra le altre, prendendo
in considerazione i modelli, le pratiche e le tecniche teatrali che nel corso degli anni si
sono rivelate più opportune a fini pedagogici, e viceversa riconoscendo le influenze
15M. C. Nussbaum, Coltivare l'umanità. I classici, il multiculturalismo, l'educazione contemporanea,
Carocci, Roma 2011, p. 23.
13
pedagogiche che hanno determinato precise modalità di lavoro, produzione e fruizione
del teatro nell'epoca contemporanea. Rinunciando, per riconosciuti limiti spaziali e
temporali attribuibili ad una tesi di dottorato, ad ogni pretesa esaustività ma cercando di
arrivare, in maniera coerente, alla delineazione di un quadro generale di rapporti
possibili fra pedagogia e teatro attraverso una ricostruzione di documenti, interviste,
esperienze e soprattutto attraverso una bibliografia attinente agli studi di settore.
14
I CAPITOLO
La pedagogia e l'esperienza dell'arte
La pedagogia che mette in crisi se stessa, pronta a mettersi in discussione ed a
pensarsi come “sapere aperto” può rappresentare un punto di partenza ideale. Nel
tracciare un quadro di riferimento teorico di questo complesso sapere, definito nei
secoli in maniera articolata e considerato talvolta da angolazioni contrastanti e opposte,
si ambisce a individuare e verificare l'efficacia di un suo possibile raccordo con le
discipline dello spettacolo, in particolare con quelle del teatro. Tale raccordo deve
sempre tenere presente che la pedagogia e il teatro sono due domini, del sapere l'uno e
dell'arte il secondo, che implicano, necessariamente, il mantenere vivo e irrisolto il
confronto interno fra teoria e prassi, un confronto che è dissidio inesausto ma anche
coesistenza virtuosa e rinvigorente, che contraddistingue e accomuna il pensare/fare
formazione e il pensare/fare teatro. L’irresolubilità di tale confronto non deve essere
percepito come un limite, ma come una possibilità di aggiornamento continuo e di
adeguamento alle nuove conquiste dei linguaggi del sapere e dell’arte, linguaggi
sempre meno fossilizzati nella distinzione fra teorie e pratiche.
In uno studio d'impronta specialistica e “parziale”, come questo, diventa di
primaria importanza tracciare un quadro teorico, il più possibile preciso, concernente
definizioni, argomentazioni e ambiti di interesse, in cui inquadrare ed esplicitare
l'ipotesi di ricerca. Di fatto l'operazione intrapresa non è lineare: si sta prendendo una
scienza che, in quanto tale, come molte altre ma molto più di altre, presenta forti
criticità identitarie, ovvero la pedagogia, e la si sta mettendo in relazione con un'arte, il
teatro, di tutte le arti la più effimera e problematica, per comprendere in che misura –
trattandone prospettive, obiettivi, punti di forza e limiti – possano contribuire
reciprocamente, dal punto di vista sia metodologico sia progettuale, e nel rispetto delle
proprie caratteristiche specifiche, alla formazione dell'uomo nell'epoca della
contemporaneità.
L’obiettivo complessivo, che non deve mai essere perso di vista, è parziale nel
senso che interroga la pedagogia e il teatro, attraverso una selezione bibliografica
anch’essa parziale, per individuarne e misurarne le convergenze, per cui esclude di fatto
15
molti aspetti pure importanti delle discipline in questione che però non partecipano di
tali convergenze. Né è detto che le convergenze individuate siano le sole o le principali,
piuttosto in questa sede si rende conto di quelle emerse dalla ricerca condotta. È
apparso interessante, ad un certo punto, comprendere in che misura e con quali
modalità la pedagogia e il teatro possano relazionarsi l'una all'altro, partecipando
entrambi
della
formazione
dell'uomo;
ed
è
sembrato
valido
individuare
nell’“esperienza” il motore principale che avvia e mantiene viva la “formazione”
dell’uomo. L’esperienza ha una centralità significativa considerata in diverse accezioni:
da strumento di conoscenza di sé a chiave di lettura e interpretazione del mondo e degli
altri; da verifica materiale di processi mentali “immaginari” a meccanismo regolativo
del dispositivo dicotomico di teoria/prassi.
Grazie all’esperienza “umana” che rende l’uomo partecipe e attivo nei saperi (e
nella condivisione dei saperi) e creativo nella produzione e fruizione dell’arte (e in
particolare in quella teatrale), emerge come questi due territori di natura diversa
presentino qua e là coltivazioni comuni, piccoli spazi di sovrapposizione, condivisione
e addirittura, attraverso l'attivazione di specifici progetti interdisciplinari dalla
tradizione ormai abbastanza consolidata, dimostrino di sapere e potere attivare in
contesti diversi spazi di “mutuo soccorso”, di prossimità proficua, di reciprocità
produttiva. Pedagogia e teatro, nello stare separati soprattutto nel nome delle finalità,
hanno comunque sviluppato, nel nome dell’esperienza, metodologie, pratiche e percorsi
comuni.
Nel corso di questo primo capitolo si è scelto di privilegiare alcune definizioni
tratte dalla letteratura di riferimento, di tracciare un quadro, seppure a grandi linee,
relativo al dibattito in corso, poiché si ritiene di non poter procedere all'individuazione
e alla descrizione di un rapporto se non si individuano e si descrivono prima i due
soggetti del preteso rapporto, se non si parte dai s-oggetti pre-esistenti verso le relazioni
che li interessano e che verranno in seguito. Dal rapporto che a mano a mano prende
forma, scaturiscono diverse problematiche, ed è per questo che la scelta di alcune
definizioni, paradigmi e concetti riferibili al pedagogico è stata messa in evidenza con
una certa forza e con rigore, in modo che la centralità dell’esperienza, il paradigma
della cura e la relazione pedagogica io-altro, agiscano come fari per diradare le ombre
che si prevede sorgano numerose lungo la strada intrapresa.
16
1. 1. Un sapere problematico.
Condizione teorica ineludibile è partire dalla definizione di pedagogia nella
consapevolezza di essere nell'ambito di un “sapere problematico”. La condizione di
problematicità si articola su due ordini di motivi: il primo, più generale ed esterno,
attiene lo statuto ontologico dei cosiddetti saperi umanistici, i quali devono
costantemente rapportarsi con il fatto che hanno al centro della loro riflessione e come
oggetto privilegiato d'osservazione l'uomo con quel che ne consegue; il secondo,
specifico ed interno, rende conto dello stato dell'arte concernente la più recente
discussione su cosa sia la pedagogia e su come si debba intenderla oggi. Per ragioni di
pertinenza si prenderà in considerazione soltanto lo statuto specifico della pedagogia,
con gli opportuni riferimenti alle questioni ontologiche ed epistemologiche che la
riguardano.
Quella della pedagogia si caratterizza come un'ontologia “complessa/dinamica”,
per riprendere una esaustiva definizione di Franco Cambi. Lo studioso sintetizza in
quattro punti principali un ragionamento abbastanza articolato che tiene conto di
un'importante tradizione di studi: «L'ontologia pedagogica si declina quindi: 1) come
un'ontologia il cui ente è un processo e un processo plurale e aperto; 2) ha in sé un
fascio di enti da correlare; 3) che vanno correlati nella libertà e per l'autenticità e per
l'organicità o totalità del sé; 4) necessita di una interpretazione e regolamentazione
intenzionale/critico/regolativa di cui la pedagogia è la custode, come sapere riflessivo,
ma funzionale alla comprensione di quell'ente e alla sua tutela, come fine-sempre-invita e come struttura-processo complesso, (anzi ipercomplesso), in cui ogni
semplificazione e/o diminutio può esser fatale, se non esercitata con un'ottica di
rilancio e di comprensione costante della sua complessità. Se così è (e lo è)
all'ontologia spetta un ruolo-chiave nella pedagogia: sì epistemico, ma anche critico e
perfino regolativo, a cui va assegnato il compito di pensare la complessità dell'educare
e di coordinarne l'integrazione, dinamica sempre pensata nell'apertura, poiché soggetta
alla sua realizzazione solo e sempre nella libertà, per l'autenticità e per la totalità del
soggetto medesimo di cui l'educazione è atto vitale; sì anche gestito con altri, ma
sempre e alla fine proprio»16.
16
F. Cambi, “Sull'ontologia pedagogica: riflessioni minime” in L'inquietudine della ricerca. Bilanci e
frontiere di un itinerario pedagogico, Edizioni della fondazione nazionale “Vito Fazio-Allmayer”, 2011,
p. 124.
17
La definizione proposta da Cambi ricorda come la questione ontologica sia, a tutti
gli effetti, una questione aperta in seno alla pedagogia, ma non perché essa non sia stata
abbastanza indagata o perché presenti aporie insolubili, ma perché è strutturalmente
incentrata sulla libertà del soggetto, realizzata su questa stessa libertà e quindi anche, in
nome di essa, può essere messa e rimessa in discussione. È un approccio che
caratterizza la questione ontologica in pedagogia in maniera diversa rispetto agli altri
saperi umanistici, poiché la introietta e la rende parte della stessa definizione. Ciò che
sembra prevalere, nella concezione di Cambi è il definire la pedagogia come “sapere
riflessivo”. È questo un tassello fondamentale, l'individuazione di uno stemma, di una
cifra costitutiva che si rivelerà particolarmente utile. L'autoriflessività è caratteristica
che accomuna e identifica tanto la ricerca scientifica quanto quella artistica nell’epoca
della postmodernità.
Se l’autoriflessività nell’ambito della speculazione scientifica da una parte ha
determinato il chiudersi verso l’autoanalisi e l’isolamento difensivo dei saperi in special
modo umanistici – concentrati sulla difesa dei propri oggetti di studio e dei propri
territori di appartenenza dall’espropriazione e dalla contaminazione da parte di nuove e
più accattivanti settori disciplinari – è anche vero che l’autoriflessività ha permesso alla
pedagogia di intraprendere dei percorsi di sana autocritica, diventando così più
cosciente dei propri limiti ma anche consapevole e forte nel poter accedere a nuove
prospettive di superamento di quegli stessi limiti.
Sin dalle sue origini greche, nel suo differenziarsi, articolarsi, problematizzarsi
teorico rispetto la più consolidata e lineare pratica dell'agire educativo, la pedagogia
mostra la sua polisemia, la sua non pacificata – né pacificabile – pluridimensionalità di
significati incarnata dal concetto di formazione, sufficientemente ampio da includere
ogni forma di esperienza umana – in special modo di tipo relazionale – e
sufficientemente ristretto da escludere ogni forma di limitazione della libertà umana,
auspicando una libertà nutrita dalla ragione e dal ragionamento. «Con la cultura greca
la pedagogia si sviluppa come la teorizzazione di quel processo rivolto a educare,
istruire e formare i soggetti, individualmente e socialmente intesi. In particolare,
Socrate e Platone inaugurano una stagione radicalmente rinnovata e assai fertile che
concepisce la paideia: la formazione dell'uomo che giunge fino a noi, eredi diretti di
quella cultura»17. La paideia, allora come ora, nomina e in-forma una scienza che
17A. Mariani, “Struttura e funzione della pedagogia”, in F. Cambi, M. Giosi, A. Mariani, D. Sarsini (a
cura di), Pedagogia generale. Identità, percorsi, funzione, Carocci, Roma 2009, p. 104.
18
include in sé l'educazione ma non coincide con essa, che è teoria ma non può fare a
meno della prassi, che possiede un'identità filosofica senza però risolversi nella
filosofia, che accoglie il metodo scientifico pur continuando a metterlo in discussione e
pur continuando ad aprirsi a ragionamenti, influenze, ispirazioni che di scientifico nulla
pretendono. Per tutte queste cause “originarie”, la pedagogia si caratterizza da subito
come problematica: la più “umana” fra le scienze, la più “scientifica” fra le filosofie.
L'accezione di problematicità che contraddistingue la pedagogia oggi è
caratterizzata da una doppia natura: prevede sia una presa d'atto dei suoi limiti interni,
sia una sorta di “rivendicazione” esterna delle sue specificità in un quadro complessivo
occupato dalla disciplina fra le altre discipline. La riflessione si articola quindi su una
dimensione che ne interroga e ne ridefinisce lo statuto epistemologico (in direzione
quindi di una nuova “riappropriazione” identitaria) 18, ma anche una dimensione di
maturità acquisita e consolidata che ne rivendica il carattere di “criticità”, e quindi la
capacità autoriflessiva di pensarsi come sapere che introietta la critica nel suo sistema
teorico19.
Non a caso è sempre l'ontologia la questione chiave della “pedagogia critica”,
essa ne rinnova costantemente le problematiche basilari inducendo gli studiosi da una
parte ad abitare un luogo dai confini incerti e inafferrabili, dall'altro li costringe ad
individuare principi, strumenti e modalità che contribuiscono a mettere in sicurezza il
terreno, a creare nuovi e più saldi punti fermi a cui affidarsi. Infatti: «L'ontologia sta
alla base anche della “pedagogia critica”, poiché ne è un po' il centro motore e filtro
determinante. È da quel filtro e motore che nasce una pedagogia-scientifico-riflessiva,
come già mostrava Dewey nel suo testo (breve ma decisivo) su Le fonti di una scienza
dell'educazione, ancora oggi attualissimo e da rileggere e interpretare meglio.
L'ontologia empirico-critica si dispone precisamente proprio in questo orizzonte, così
centrale (ancora oggi) nel fare-pedagogia e ad ogni livello (dalla riflessività cognitiva
all'operatività sociale e posta “in situazione”: specifica e determinata)» 20.
La questione epistemologica, quella ontologica e quella più meramente
“applicativa” della pedagogia, sono questioni che possono apparire irresolubili,
soprattutto mettendole in relazione alla vasta bibliografia di riferimento, e soprattutto
18Cfr. G. Spadafora, Verso l'emancipazione. Una pedagogia critica per la democrazia , Carocci, Roma
2010.
19
Cfr. R. Fadda e E. Colicchi in Per una pedagogia critica. Dimensioni teoriche e prospettive
pratiche, Carocci, Roma 2009.
20F. Cambi, L'inquietudine della ricerca. Bilanci e frontiere di un itinerario pedagogico, Edizioni della
fondazione nazionale “Vito Fazio-Allmayer”, 2011, p. 126.
19
mantenendole in un'ottica storicistica. Si tratta di questioni ineludibili che
caratterizzano questo sapere sin dalla sua nascita e che ne hanno definito, nel corso dei
secoli, la sua stessa identità. Bisogna accettare queste problematiche nelle loro linee
principali e tenerle sempre presenti, bisogna provare ad orizzontarsi al loro interno per
non rischiare di restarne strettamente invischiati. Le questioni succitate non possono
essere omesse né ignorate, si devono piuttosto considerare seminali e devono essere
usate come riferimento costante, sforzandosi di mantenere nei loro riguardi una certa e
lucida distanza. Un simile atteggiamento scientifico si può attuare accettando la
responsabilità che proviene dall'avere a che fare con un sapere reticolare e complesso;
occorre non lasciarsi scoraggiare dalle mancanza di regole date una volta per tutte, né
dalla mancanza di rigidità di metodi, definizioni, applicazioni; occorre piuttosto
sfruttare la “flessibilità” che lo contraddistingue per “adattarlo” ai sempre diversi
contesti e situazioni in cui l'uomo è calato, in una società in evoluzione, in un mondo in
evoluzione. Occorre leggerne tutta la problematicità e complessità in una luce positiva e
proficua, una luce in cui la pedagogia appare come «[...] una scienza dotata di un sapere
organico, meglio, di un sistema di saperi organizzati intorno alla formazione e
all'educazione dell'uomo»21.
L'estensione, la frantumazione22, la parzialità dei saperi che la compongono e
contraddistinguono non deve essere considerata limite che conduce all'inafferrabilità,
all'ampiezza incontrollabile, ma deve stimolare a guardare l'assieme del sistema e a non
perdere di vista quel cuore pulsante che irrora tutto il sistema, ovvero la formazione e
l'educazione dell'uomo. Riconoscendo la centralità della formazione, e prendendo
coscienza della problematicità che permea tale sistema complesso ma “organico”, per
riprendere ancora Gennari, si può scoprirne la struttura reticolare ma omogenea,
frammentaria ma coerente.
Gli approcci delineati, giustamente complementari, anticipano e rendono conto,
dal punto di vista ontologico, anche della difficile questione del rapporto fra teoria e
prassi all'interno dei tratti fondamentali e caratterizzanti della pedagogia. Lo stato
dell'arte ci consegna infatti un corposo dibattito, serio e puntuale, relativo al nesso
teoria/prassi nelle scienze umane e in pedagogia, nesso che attiene primariamente al suo
statuto ontologico. A emblema di una discussione vasta, complessa e ancora in corso, si
21M. Gennari, Trattato di pedagogia generale, Bompiani, Milano, 2006, p. 97.
22«Il rischio della frantumazione dei saperi pedagogici e della correlativa dissoluzione della pedagogia
nelle varie e differenti scienze dell'educazione richiede una sempre più puntuale riflessione
epistemologica, affinché l'identità della pedagogia generale non ne esca turbata o intaccata con grave
danno per la sua specifica identità di scienza e di scienza umana» (Id., op. cit., p. 123).
20
rilegga la sintesi, elaborata da Cambi: «Nelle scienze umane – allora – il nesso
teoria/prassi si fa originario e fondante, ma da pensare e da ripensare e nei diversi
saperi e nelle specifiche congiunture storiche in cui essi si danno. Oggi, come già detto,
in una società libera, abitata da e fatta di nomadismi attivi e consapevoli e di istituzioni
aperte, tendenzialmente democratiche, se pure radicata in questo identikit regolativo.
Oggi in una cultura ad alto, altissimo tasso tecnologico, che trasforma e il theorein –
secondo un modello ingegneristico, di efficacia e di sistema – e la praxis – che tende a
farsi sempre più applicativa e assai lontana dalla poiesis così come è stata al centro
dell'agire umano in Occidente (come ci ha ricordato Heidegger). Qui, su questa
frontiera, va riletta anche la pedagogia, come sapere/agire centralissimo e decisivo nella
storia delle civiltà: di tutte. Riletto sì tradizionalmente intorno al modello di poiesis, ma
oggi sottoposto a ri-pensamenti, ri-orientamenti. Ri-qualificazioni, ad un tempo,
innovative e inquietanti ora rivolte verso la techne ora verso un puro (astratto)
theorein»23.
Il nesso teoria/prassi è antinomico, di un'antinomia da non intendere come
paralizzante o scettica24, poiché da questo movimento dialettico continuo, a cui pure
viene sottoposta, la pedagogia non deve uscirne fiaccata o indebolita anzi deve
considerare tale movimento costitutivo di sé e da esso trarne forza e specificità. La
pedagogia non è la speculazione filosofica sull'uomo, non può essere ridotta a filosofia
dell'educazione, il suo fare della formazione l'oggetto principale di osservazione e
studio la obbliga sì ad abitare un territorio franoso, in perenne movimento, soggetto ad
aggiornamenti, revisioni, aggiustamenti continui, ma proprio per questo essa non
conosce la definizione mortifera né della speculazione pura, né delle scienze esatte, non
sa cosa sia il punto d'arrivo, l'assoluto teorico, l'esperimento riuscito, resta in sé, e
questa è la sua “cifra ontologica” una scienza “im-perfetta”, sempre aperta, sempre
perfettibile, mai “fatta e finita”.
Per contro la pedagogia non può neanche essere identificata nella sola prassi,
ovvero nell'agire pedagogico, nel fare educazione. Sarebbe così ridotta a un repertorio
infinito di esercizi e pratiche, diventerebbe un inventario inesauribile di esperienze
particolari, un corpus eterogeneo impossibile da coordinare, tassonomizzare, valutare in
maniera organica e produttiva. Insomma, il nesso antinomico teoria/prassi, nel rendere
la pedagogia una scienza aperta e soggetta alle criticità e alla problematicità di tale
23F. Cambi, “Qualche osservazione fondamentale su “teoria e prassi in pedagogia”, in L'inquietudine
della ricerca, Edizioni della fondazione nazionale “Vito Fazio-Allmayer”, 2011, p. 76.
24Id., op. cit., p. 84.
21
antinomia, di fatto la preserva da facili riduzionismi sia in un senso sia nell'altro. Essa
«Certamente è un sapere per la prassi, ma che non si risolve nella prassi, in quanto è
anche (e prima di tutto) sapere» 25. Il suo darsi quindi come sapere, e come sapere
aperto, favorisce una produttività di pensiero, riflessivo e autoriflessivo, estremamente
dinamica ed articolata, e produce, come effetto collaterale, una difficoltà definitoria.
Il nesso antinomico teoria/prassi, considerato come caratteristica specifica della
pedagogia, per essere accolto in un'accezione positiva, così come qui si vuole
accoglierlo, deve essere inteso come uno stimolo utile a rilanciare un sapere che per
restare tale (prevalentemente teorico) deve sempre nutrirsi di esperienze pratiche e in
esse trovare nuova energia e spunti originali da rielaborare e sviluppare. Questa spinta
al tempo stesso vitalistica e critica, propositiva e problematica, impedisce il fossilizzarsi
in una teoria data e immobile per quanto rassicurante essa sia. Questa oscillazione
continua definisce la pedagogia come sapere aperto e problematico, stimola all'incontro
con altri saperi, istiga alla creazione di nuove connessioni e, per certi versi, legittima
proposte e ricerche in cui si propone l'incontro fra due ambiti del sapere
significativamente distanti per impostazione generale, finalità, metodologie di ricerca e
applicazioni.
Il lavoro della ricerca pedagogica si configura come un percorso ad ostacoli,
proprio perché la problematicità è interna alla e costitutiva della disciplina. Rita Fadda
sottolinea lo statuto particolare della «[…] condizione della ricerca in ambito
pedagogico, dove, non solo si è alle prese con un oggetto – la formazione umana, il
processo, misterico, quasi, del divenire uomo dell’uomo, della sua umanizzazione e del
suo divenire il proprio poter essere –, ma ci si trova di fronte al dramma della scelta tra
ciò che è lecito e giusto considerare educativo e tale da condurre l’uomo nella direzione
della sua originaria destinazione e ciò che educativo non è. Questo è il luogo
privilegiato della critica, perché è il luogo dell’interrogazione, della scelta, della crisi.
Dell’intrascendibilità della scelta, che, nella pratica educativa, diviene tragica, perché
ogni scelta fatta non è revocabile e taglia fuori un’infinità di altre possibili scelte. […]
Ma se la critica è lacerazione e rischio – è questo è in pedagogia-educazione –, ciò non
vuol dire che sia rischio cieco, atteggiamento rinunciatario rispetto ad ogni possibile
tentativo di procedere in modo che non sia totalmente deregolato, abbandono alla
casualità della scelta» 26.
25F. Cambi, “Discorso, metateoria e differenza. Il mio itinerario nella ricerca pedagogica”, in op. cit., p.
25.
26 R. Fadda, “Un modello italiano di pedagogia critica. Presupposti, sviluppi, problemi aperti”, in E.
22
L'interrogazione, la problematizzazione, la critica non devono condurre allo stallo,
ma devono agire da motore propulsore, devono servire per dinamizzare una ricerca che
non può, e non deve, esaurire il proprio oggetto, ma deve piuttosto crescere con lui,
modificarsi ed evolversi mantenendo le questioni aperte e continuando, senza sosta, a
cercare le risposte27. In quest'ottica, la pratica del cercare è più proficua della conquista
del trovare, poiché nell'atto stesso della ricerca si esplica la tensione verso la verità e la
libertà. Nella domanda l’uomo costruisce il rapporto di sé con se stesso, intraprende il
percorso di costituzione di sé come soggetto, dispiega il desiderio di raggiungere
l'incontro con se stesso e con l'altro e acquisisce la consapevolezza che sia l'io e sia
l'altro sono entità che non possono essere possedute interamente né conosciute fino in
fondo.
Ciò che è stato definito “fragilità” fa riferimento anche alla capacità della
pedagogia, attraverso la critica, di mettersi in discussione e di abitare un crinale di
rischio, di scegliere, mettendo al centro della propria ricerca l'uomo, uno spazio
d'indagine e studio mai pacificato e sempre caratterizzato dalla provvisorietà. Sia nel
pensare, sia nell'agire.
La pedagogia, secondo tutto il gruppo di studio che si identifica come “pedagogia
critica”, deve introiettare la critica e farne un suo elemento costitutivo, in modo da
sfuggire ai facili schematismi e riuscire a sottrarsi alle etichettature. In quest’ottica la
critica è intesa come tratto distintivo della ricerca pedagogica. Essa agisce come
elemento innovatore e rinnovatore dell'esercizio primo e più importante della
pedagogia: l'esercizio della libertà. Infatti, «In quanto luogo della scelta e del giudizio
oculato, la critica è anche il luogo primo di esercizio della libertà, libertà non come
illusione di totale indipendenza, quasi fosse una decisione assoluta del soggetto a creare
il luogo della critica, il che rappresenta la più grande forma di ingenuità e, quindi, di
morte della critica, ma come consapevolezza dei condizionamenti, come sospetto, come
luogo privilegiato per mettere a nudo, spiare, intuire, riconoscere la natura e il carattere
Colicchi (a cura), Per una pedagogia critica. Dimensioni teoriche e prospettive pratiche, Carocci, Roma,
2009, p. 23.
27«[...], la pedagogia è nella critica nel momento in cui è nella domanda, in un inesauribile domandare
cui corrisponde l'inesauribilità della risposta, di una risposta che non è mai quella definitiva, su cui
occorre sempre ritornare, perché la verità che per la critica è problema lo è in modo del tutto peculiare
per la pedagogia, per i suoi aspetti fondazionali e radicali, per i quali la verità non può essere possesso,
acquisizione definitiva, acquiescenza, compiutezza, ma aspirazione, tensione, desiderio, continua ricerca.
La critica è pratica, non compimento e risoluzione» (R. Fadda, “Un modello italiano di pedagogia critica.
Presupposti, sviluppi, problemi aperti”, in E. Colicchi (a cura), op. cit., p. 22).
23
di ciò che ci condiziona» 28.
Considerando la pedagogia come scienza – anzi come un complesso sistema di
saperi – si deve evidenziare come la “pedagogia critica” pur mettendola sempre in
discussione, attiva anche un dispositivo di miglioramento complessivo. Franco Cambi
infatti ne sottolinea una “funzione regolativa”: «Una “pedagogia critica” (come
comprensione critica del pedagogico) elabora uno stemma della pedagogia che, nel
momento in cui chiarisce, anche potenzia e orienta, corregge e sviluppa. Non si tratta
quindi di un'attività puramente astratta e speculativa, vuota di ricaduta nell'esperienza.
Tutt'altro. Si tratta, invece, di una teorizzazione che rigorizza anche per agire, per
migliorare (in quanto, appunto, rigorizza in relazione al “senso” del sapere) le
applicazioni del sapere stesso. Poiché le riorienta, le integra, le sottopone a controllo,
non solo tecnico, ma teorico» 29.
Da questi processi summenzionati attivati dalle ricerche di “pedagogia critica”,
lungi dal risultarne indebolita, la disciplina sembra uscirne invece più fluida ed
adattabile ai grandi cambiamenti culturali e sociali intercorsi soprattutto a partire dal
XX secolo. Non c’è stata un’abdicazione al proprio compito, ma una ridefinizione dei
termini coinvolti, e conseguentemente anche dei propri limiti e delle proprie aspettative.
Interessando un’area così sensibile come quella del rapporto educativo fra esseri umani,
la pedagogia ha dovuto necessariamente individuare e difendere i capisaldi del suo
pensare, ma soprattutto del suo agire nel mondo. Non si è trattata tanto di un’autodifesa
d’ufficio, quanto dell’avvio di un percorso di problematizzazione e adeguamento a cui
una scienza che ha il compito di formare ed educare le “nuove” generazioni, non può
sottrarsi in nessun modo, pena la sua stessa credibilità ed esistenza. È per questo che
essa, come altre e più di altre discipline, ha dovuto mettersi in gioco per fare i conti con
trasformazioni culturali e sociali senza precedenti che, partite con un ritmo incalzante
nell'arco del XX secolo, hanno determinato cambiamenti e riassestamenti nell'ambito
sia delle scienze umane sia di quelle fisico-naturali che interessano fortemente la nostra
quotidianità nella contemporaneità.
La giusta riflessione e rimessa in discussione dello statuto epistemologico,
scaturite dal particolare scenario culturale appena accennato, hanno funzionato da
28 R. Fadda, “Un modello italiano di pedagogia critica. Presupposti, sviluppi, problemi aperti”, in E.
Colicchi (a cura), Per una pedagogia critica. Dimensioni teoriche e prospettive pratiche, Carocci, Roma,
2009, p. 21.
29F. Cambi, op. cit., p. 40.
24
critica e da indagine identitaria, marcando il fatto che la pedagogia – come riflessione
che analizza i processi e i risultati del complesso fenomeno dell'educazione – abbia,
anche storicamente, sempre evidenziato notevoli difficoltà nel definirsi come scienza
autonoma o come sapere con caratteristiche specifiche 30.
Per quel che concerne il suo statuto epistemologico Spadafora, ad esempio,
individua tre specificità che le sono proprie e che ne caratterizzano la problematicità e
sono: l'espropriazione del sapere pedagogico da parte di altri contesti disciplinari, il
concetto di applicazione nella teoria pedagogica, la struttura antinomico-ambivalente
della pedagogia. In un passaggio efficace così lo studioso chiarisce: «L'espropriazione,
l'applicazione, l'antinomia ambivalente rappresentano le caratteristiche più ricorrenti
del sapere pedagogico, inteso come teoria che analizza e orienta i processi pratici
educativi e formativi. Queste tre figure evidenziano come la pedagogia esprima una
tensione critica verso i saperi (l'espropriazione), verso la pratica (l'applicazione), verso i
valori negativi e positivi (l'antinomia ambivalente) senza mai definirsi. La pedagogia,
alla luce di queste sue caratteristiche fondanti, esprime un sapere critico connesso al
processo formativo che, pur non essendo il luogo esclusivo della ricerca pedagogica, si
pone nella sua complessità come il terreno su cui la stessa pedagogia necessariamente
deve esprimere una sua possibile esplicazione» 31.
A partire da questo quadro problematico, ciò che deve far riflettere e deve essere
ancora oggetto di analisi non è tanto, o non solo, l'acquisizione delle tre figure sopra
indicate, ma il fatto che esse incarnino, intimamente e fondamentalmente, la specificità
del “sapere” pedagogico. Esse possono essere interpretate come pregi o difetti, come
aperture o limiti, ma è senz'altro proficuo, in un'ottica epistemologica, leggerle
eliminando ogni giudizio di valore, accettandole, seppur criticamente, come presenze
costanti di quel dispositivo complesso di saperi che è la pedagogia. Esse rappresentano
ciò che c'è, sin dall'origine, e ciò che potrebbe rimanere come riferimento costante
anche negli sviluppi futuri. Rappresentano ciò che consente alla pedagogia di esistere
come sapere critico che accetta la sfida del tempo, della storia, della società. Per quanto
esse ne certifichino le fragilità, è pur vero che ne mostrano anche la struttura portante,
complessa e modulare, pertanto aperta, estensibile, implementabile all’infinito.
Ad esempio, riflettendo in particolare sul concetto di “espropriazione” attuato da
parte di altri contesti disciplinari, si può avviare un ragionamento duplice, poiché se è
30Cfr. G. Spadafora (a cura), Verso l'emancipazione. Una pedagogia critica per la democrazia, Carocci,
Roma 2010.
31 Id, op. cit, p. 27.
25
vero che da una parte la pedagogia viene saccheggiata di alcuni suoi concetti chiave che
vanno ad arricchire altre discipline, è anche vero che la stessa pedagogia proprio
accogliendo ormai da tempo la sfida dell'autocritica, dell'autoriflessività e
dell'interdisciplinarità, ha scelto di attingere da altre scienze, di aprirsi verso altri ambiti
disciplinari, attivando con essi accordi e confronti produttivi. Per Gennari:
«Contrariamente a ciò che comunemente si crede, la pedagogia non studia
specificamente il bambino o l'infanzia, ma si occupa dell'uomo, prescindendo dall'età,
dal sesso, dal ceto, dalla cultura di appartenenza, dal credo religioso, dagli orientamenti
politici. Per farlo, essa può decidere di attivare specifici accordi con altre scienze: ad
esempio con la filosofia, la storia, l'etica, la politica, la psicologia, la sociologia,
l'estetica; quindi, con la biologia, l'antropologia, il diritto, l'ecologia, la teologia, la
metafisica; inoltre, con l'economia, l'urbanistica, le neuroscienze, la semiotica,
l'ermeneutica, l'ontologia, la sistemica, la psicanalisi, la bioetica, la narratologia, la
medicina, la psichiatria, ecc.»32. E così come attinge ed utilizza per i suoi raccordi
interdisciplinari e/o per arricchire con dati specifici il proprio campo d'indagine, è
anche vero che essa offre, alle altre discipline, un apporto fondamentale e decisivo, in
particolare quando «[...] a saperi dogmatici, assiomatici e grammaticisti essa oppone
un sistema di saperi ipotetici, dialettici, interpretativi. Con questi, la pedagogia può
difendere l'“espropriazione” dei suoi oggetti di ricerca – la formazione e l'educazione –
da altri saperi onnivori, fra cui prevalgono anzitutto quelli a matrice psicologica e
sociologica»33.
Il difendersi, pure legittimo, dall'espropriazione non può tradursi in un'azione di
chiusura o di “auto-conservazione”, altrimenti anche la pedagogia potrebbe diventare
un sapere dogmatico e/o ideologico al pari di altri, perdendo così quelle specificità che,
se da una parte la rendono fragile, dall'altro la caratterizzano e la rendono unica. Unica
nel darsi, ad esempio, come scienza atta al raccordo dei saperi e insieme di strumenti
utili per garantire la trasmissione delle conoscenze e dei valori che caratterizzano la
società. Inoltre, lo stesso processo di espropriazione, sia subito che attivato, può essere
considerato uno strumento utile all’interno della stessa ricerca pedagogica, uno
strumento non da accogliere acriticamente, ma da contestualizzare e su cui ragionare in
un’ottica di analisi dei fenomeni di mutamento che interessano la disciplina. Ad
esempio Rita Fadda spiega proprio come il passaggio dal modello pedagogico-classico
al modello delle scienze dell’educazione, nato sotto i migliori auspici e foriero di grandi
32M. Gennari, op. cit., p. 24.
33Id., op. cit., p. 25.
26
aspettative, abbia aperto la strada, per certi versi, all’espropriazione del sapere
pedagogico: «[…] l’apertura ad altre discipline avrebbe potuto determinare un
arricchimento e un approccio più comprensivo ai problemi formativi ma, per le
modalità con cui è stato attuato e praticato, ha prodotto, di fatto, frantumazione,
confusione e una vera e propria espropriazione del pedagogico, in conseguenza proprio
della perdita di quella tensione critica rivolta alla salvaguardia della specificità e
identità, di un centro orientatore di senso, capace di tener saldamente ferma l’unità e
l’integralità, pur nella molteplicità di dimensioni e di approcci, non solo o non tanto
della pedagogia come disciplina, quanto del problema e della prospettiva
pedagogica»34.
A partire da queste parole bisogna mettere l’accento sul fatto che anche
l’espropriazione, come altre caratteristiche distintive della pedagogia, è senz’altro un
dispositivo ambivalente, costruttivo e distruttivo al tempo stesso; d'altra parte la
salvaguardia dell'identità pedagogica, sempre presente nella riflessione teorica interna
alla disciplina, non è da considerare come una conquista da raggiungere una volta per
tutte, quanto piuttosto come un percorso fatto di continui bivi fra cui scegliere,
mettendo in campo la propria responsabilità e accettando la possibilità di finire anche in
una strada senza uscita. Le questioni ontologiche, al pari di quelle epistemologiche non
possono trovare una risposta univoca, una meta sicura che ne certifichi validità
“scientifica” per ogni epoca, per ogni coordinata geografica, e questo grande limite
della scienza rappresenta la ricchezza di questo sapere che è così essenziale per la
sopravvivenza stessa dell’umanità. Avere consapevolezza di questo percorso
accidentato da percorrere nella ricerca scientifica, di questa problematicità insita e
connaturata al pedagogico, porta a porre dei capisaldi, questi sì, immutabili e resistenti
nel definire la pedagogia, in primo luogo a comprendere e ad acquisire come essa esista
e si sviluppi non da un sapere statico, ma da una dinamica relazionale. Questa dinamica
relazionale è interna ed attiene all’ontologia della pedagogia, ma è anche, per così dire,
esterna e concerne il suo statuto epistemologico “fra” le altre scienze. È scienza che si
occupa della formazione e dell’educazione dell’uomo, e il formare e l’educare sono
impossibili senza una relazione di “trasmissione” di sapere, conoscenza, emozioni,
trasmissione che si attua “nella” relazione ed “è” la stessa relazione. Inoltre è scienza
che raccorda le altre scienze, da essa si lascia espropriare ma anche espropria, per
34 R. Fadda, “Un modello italiano di pedagogia critica. Presupposti, sviluppi, problemi aperti”, in E.
Colicchi (a cura), Per una pedagogia critica. Dimensioni teoriche e prospettive pratiche, Carocci, Roma,
2009, p. 25.
27
costituirsi non come ammasso eterogeneo, ma come dispositivo relazionale aperto ed
accogliente, pur alla ricerca dei propri riferimenti.
Dewey in The Sources of a Science of Education (1929) spiega che: «una scienza
dell'educazione per potersi costituire deve essere formata da più “fonti”, e cioè da
processi scientifici che si occupano dell'educazione dalla loro specifica prospettiva e
che si trasformano in scienza dell'educazione nel momento in cui si applicano alla
“situazione educativa” dell'apprendimento scolastico attraverso l'opera dell'insegnante,
come avviene per il medico o per l'ingegnere nei rispettivi ambiti. La scientificità
dell'educazione è, dunque, determinata dalla possibilità di applicazione di un approccio
pluralista di vari saperi al contesto educativo, [...]» 35. L'approccio pluralista lascia
aperte tutte le prospettive di incontro fra i diversi saperi nei diversi contesti educativi, e
la decisione del plurale, in questo caso, è per sottolineare la mobilità e la reticolarità dei
rapporti fra discipline, teorie, applicazioni e contesti. Il terreno comune deve essere
dinamico e aperto, ma non caotico, e per non cadere nel caos è essenziale che la
pedagogia pur sviluppandosi su differenti piani e aprendosi a molteplici direzioni,
mantenga il suo centro fortemente ancorato al suo oggetto di studio d'elezione, ovvero
la formazione e l'educazione.
Il fatto è che la pedagogia, al pari di altre discipline, e con il carico di
responsabilità che le proviene dall'essere la disciplina che funziona da “organizzatore”,
“raccordo” e trasmissione dei saperi, deve oggi farsi carico della sfida dettata dalla
propria epoca, deve collocare sempre l'uomo nel mondo e il mondo che oggi ci riguarda
è quello, complesso e in perenne evoluzione della postmodernità. Si fa quindi
riferimento alla pedagogia intesa come una scienza che organizza il complesso dei
saperi concernenti l'uomo, «[…] una scienza dotata di un sapere organico, meglio, di un
sistema di saperi organizzati intorno alla formazione e all'educazione dell'uomo. Essa,
dunque, non è semplicemente un'arte. Ed è una disciplina soltanto quando viene
insegnata. Tantomeno, essa è la scienza che insegna l'arte di educare i bambini. Il suo
nucleo fondativo – ciò che in essa dà luogo al “significare” - consiste nello studio
dell'uomo prescindendo dalle età della vita, dell'essere maschio o femmina, povero o
ricco, iperdotato o ipodotato, abile, disabile o differentemente abile. L'uomo e soltanto
l'uomo costituisce il senso profondo, autentico e radicale della pedagogia come
scienza»36.
35 Cit. in G. Spadafora, op. cit., p. 25.
36M. Gennari, op. cit., p. 97.
28
L'insieme delle problematiche a cui si è accennato, focalizzano l’attenzione su
come la pedagogia funzioni in quanto sapere specifico proprio a partire da una sorta di
sua “fragilità”. Si tratta di una fragilità benefica e rinvigorente, per quanto spiazzante,
dettata e dovuta dal caratterizzarsi della pedagogia in quanto sapere legato all'uomo,
alla sua soggettività, complessità e soprattutto alla sua “esperienza” che non è mai
(come può accadere in ambito più specificatamente teologico, filosofico o letterariopoetico) un'esperienza “solitaria”, ma è sempre frutto di una relazione pedagogica (fra
l'io e l'altro), frutto dello stare al/nel mondo dell'uomo 37, frutto dell'equilibrio – delicato
e affascinante – che l'uomo instaura fra mondo dell'interiorità e mondi dell'ulteriorità.
L'uomo non può e non deve, è questa è una delle caratteristica fondante del
pensiero pedagogico, essere considerato da solo, corpo e/o spirito al centro di un
ragionamento filosofico o di un'analisi di tipo biologico. L'uomo in pedagogia è sempre
frutto di un “incontro”, fra l'io e l'altro, tanto che da un incontro nasce anche come
semplice “io”, e in questo caso l'io incontra il sé stesso, il mondo dell'interiorità. La
relazione chiamata pedagogica (o di formazione) è prima di tutto una relazione
“identitaria”, frutto di una tensione e di un pensiero che deve incontrare la prassi, di una
scoperta di sé che si attua attraverso la scoperta dell'altro, di una messa in
comunicazione di due mondi, quello dell'interiorità con quello dell'ulteriorità. «Vi è un
mondo dell'interiorità, proprio del soggetto, a lui intimo e che soltanto lui conosce,
anche se non del tutto tanto è vasta, profonda e latebrosa la sua essenza. Si danno poi
dei mondi dell'ulteriorità, che racchiudono ciò che sta oltre il soggetto, appartiene ad
altri soggetti ed è avvicinabile e conoscibile soltanto nel rispetto dell'identità e della
differenza che quei mondi rappresentano. Ogni mondo dell'interiorità circoscrive la
sfera
soggettiva,
autonoma,
libera,
autoformantesi
dell'uomo.
Ogni
mondo
dell'ulteriorità descrive l'altro uomo, nella sua intimità e diversità, nella sua formazione,
nella sua essenza-esistenza»38.
Accolta questa centralità dell’uomo, e della sua relazione con gli altri nel mondo,
prese in considerazione le caratteristiche specifiche che rendono la pedagogia scienza
dell’uomo e della sua formazione, occorre provare a collocare tale riflessione, per
quanto appena accennata, nell’epoca che ci riguarda. È un dato di fatto che nella società
individualistica del XXI secolo, caratterizzata, come spiega Brezinka, dal pluralismo
37«L'uomo abita il mondo, lo prende sotto la sua cura, entra in una relazione esistenziale con gli oggettimondo che l'attorniano, ma sono anche parte di lui: della sua vita, della sua storia, del suo mondo, della
sua formazione» (M. Gennari, Trattato di pedagogia generale, Bompiani, Milano, 2006, p. 73).
38M. Gennari, Trattato di pedagogia generale, Bompiani, Milano, 2006, p. 215-216.
29
degli individui39, è diventato più difficile “formarsi” e “formare”; in questa società il
concetto di formazione è “sotto assedio” ma ciò può rivelarsi estremamente positivo. Le
sfide della modernità, quali l'ipertecnologia, il multiculturalismo, il pluralismo, mettono
in crisi il primato di una educazione su un'altra, ma proprio per questo aprono
prospettive interessanti su un concetto di formazione più complesso ed articolato e,
soprattutto più “universale”, ovvero anche capace di “immaginare” e accogliere
innovazioni e mutamenti delle società future: «La formazione dell'uomo non può essere
pedagogicamente intesa come la formazione dell'uomo occidentale, integrato nel suo
modello di civiltà, ma come la formazione di ogni uomo. È a partire da ciascun uomo
della terra che vanno ripensate le idee di vita e di morte, il cui unico paradigma umano
credibile è soltanto quello della libertà»40. Ecco anche perché, con Martha Nussbaum si
deve puntare verso un'educazione liberale, più centrata sull'uomo nel suo formarsi
complessivo come cittadino del mondo, un uomo aperto e disponibile all’incontro con
l’altro, conoscitore della propria cultura ma anche aperto e disponibile alla conoscenza,
alla tolleranza e al rispetto delle altre culture.
39 «Nella società moderna, il pluralismo dei grandi gruppi ideologici è integrato e sempre più sostituito
dal pluralismo degli individui. La società pluralistica dei gruppi si è trasformata in una società
individualistica. Si tratta di una società formata da persone fortemente individualizzate, che hanno valori
incerti e mutevoli, deboli vincoli sociali, grandi pretese di autonomia e poca comprensione per le
richieste provenienti da istituzioni, norme, valori religiosi e autorità tradizionali» (W. Brezinka:
Educazione e pedagogia in tempi di cambiamento culturale, Vita e Pensiero, Milano, 2011, p. 75).
40M. Gennari, op. cit., p. 182.
30
1.2. L'esperienza dell'arte.
Pur nella consapevolezza di stare compiendo una scelta che, affermandosi esclude
di fatto altre opzioni ugualmente valide, per quel che riguarda il concetto di esperienza
si è scelto di eleggere a modello principale di riferimento quello elaborato da John
Dewey, sebbene in maniera parziale e non esclusiva. Dalla sua ampia e complessa
opera relativa agli studi pedagogici si è attinto, in particolare, ai concetti di esperienza e
arte affrontati dal filosofo soprattutto in Esperienza e natura e Arte come esperienza;
guardando con attenzione all'intero sistema teorico per quel che concerne l'intimo
legame fra scienza e filosofia.
Nell'ottica deweyana le scienze rivestono il ruolo di “fonti” del pensiero
pedagogico, ed è quest'ultimo che elabora, teorizza e coordina tali fonti per l'azione,
sempre all'interno di un quadro complessivo in cui viene preservata e difesa
l'intenzionalità dell'educare. La centralità riservata al concetto di esperienza è dovuta al
fatto che, nella riflessione pedagogica di Dewey, l'uomo con la sua complessità, con il
suo portato di specificità che lo caratterizza, non è pensabile come avulso dal mondo,
dal suo rapporto continuo con ciò che lo circonda, poiché è “nel” mondo che viene
formato ed è “con” il mondo che si forma. Lo strumento che l'uomo usa per “formarsi”
nel mondo esteriore e “formare” il suo mondo interiore è, appunto, l'esperienza.
L'esperienza diretta del mondo, l'approccio sensoriale alla natura servono più di
ogni lezione teorica, sono uno strumento prezioso dell'educazione, anzi, sono “lo
strumento”. Ad esempio anche Maria Montessori, nel ragionare sul rapporto fra
bambini e natura spiega lo scopo dell'educazione dei sensi: «L'ovvio valore
dell'educazione e del raffinamento dei sensi, allargando il campo della percezione, offre
una sempre più solida e ricca base allo sviluppo dell'intelligenza. Per mezzo del
contatto e dell'esplorazione dell'ambiente, l'intelligenza innalza quel patrimonio di idee
operanti, senza le quali il suo funzionamento astratto mancherebbe di fondamento e di
precisione, di esattezza e di ispirazione. Questo contatto è stabilito per mezzo dei sensi
e del movimento»41. Questo approccio sensoriale trova nel “laboratorio attivo” proposto
da Dewey un luogo anche fisico ideale in cui fare esperienza, in cui superare l’annoso
conflitto fra teoria e prassi attraverso una concezione più complessa, ma anche più
“naturale” dell’uomo. Nel momento in cui l’uomo non viene scisso in pensiero e
azione, è il valore stesso dell’esperienza che muta, si fortifica e si valorizza.
41M. Montessori, Educare alla libertà, Mondadori, Milano 2008, pp. 92-93.
31
In una accezione ampia, riprendendo una delle problematiche fondative della
pedagogia, l'esperienza sembra offrire una chiave di volta significativa sulla questione
della dicotomia, apparentemente irrisolvibile, fra teoria e prassi. L’esperienza,
nell'essere strumento di relazione, legame e conoscenza dell'uomo con il mondo, essa
attiene al teorico quanto al pratico, al mentale quanto al corporeo, all'immaginario
quanto al materiale. Essa attiene alla volontà come anche alla necessità dello stare
nel/al mondo. L'esperienza può essere considerata come un luogo di convergenza, un
luogo in cui i confini fluidi della speculazione teorica incontrano quelli netti e sensibili
della realizzazione pratica. Ma non ci sono due tempi, non c'è un prima e un dopo, un
pensare e un agire.
Riprendendo in Esperienza e natura la felice definizione di William James per cui
“esperienza è una parola a due facciate”, Dewey spiega, con un ragionamento che è
esso stesso pedagogico sia nel contenuto sia nello stile, che: «[...] Come le sue realtà
congeneri, cioè la vita e la storia, l'esperienza comprende ciò che gli uomini fanno e
soffrono, ciò che ricercano, amano, credono e sopportano, e anche il modo in cui gli
uomini agiscono e subiscono l'azione esterna, i modi in cui essi operano e soffrono,
desiderano e godono, vedono, credono, immaginano, cioè i processi dell'esperire. La
parola “esperienza” denota il lavoro del campo, la semina, il raccolto e la mietitura, i
cambiamenti del giorno e della notte, la primavera e l'autunno, l'umidità e l'arsura, il
caldo e il freddo, in quanto vengono osservati, temuti, desiderati; denota anche colui
che pianta e raccoglie, che lavora e gioisce, spera, teme, fa progetti, ricorre alla magia o
alla chimica per aiuto, che subisce disastri o passa giorni fortunati. È una parola “a due
facciate” in quanto nella sua primaria integrità non riconosce alcuna divisione tra atto e
materiale, soggetto e oggetto, ma li contiene entrambi in una totalità non analizzata» 42.
La letterarietà della lunga spiegazione deweyana dà corpo e poesia al concetto già
enunciato, in maniera sintetica all'inizio del primo capitolo (Il metodo della filosofia) in
cui il filosofo americano spiega che «[...] l'esperienza è tanto della natura quanto nella
natura. Non è l'esperienza che viene esperita, ma la natura; pietre, piante, alberi,
animali, malattie, salute, temperatura, elettricità, ecc. Cose che interagiscono in certi
modi sono l'esperienza; sono ciò che viene esperito. Connesse in certi altri modi con
altri oggetti naturali, per esempio l'organismo umano, esse sono anche il modo in cui le
cose vengono esperite»43. Questa continuità, questa partecipazione e interazione della e
42J. Dewey, Esperienza e natura, Mursia, Milano, 1973, p. 27.
43Id, op. cit., p. 21.
32
nella natura è qualcosa che riguarda intimamente l'uomo, la sua stessa essenza. Apre le
porte al comprendere come l'identità dell'uomo non possa formarsi senza un'esteriorità
con cui interagire, in cui specchiarsi e riconoscersi da una parte uguale ad altri uomini,
da un'altra diverso da tutti gli altri uomini e dal mondo. La scoperta dell'appartenenza al
mondo, attraverso l'esperienza, porta anche alla scoperta del mondo come “altro da sé”.
Nelle definizioni deweyane, sia in quella di stampo più letterario e poetico sia in
quella più tecnica e sintetica, colpisce l'insistere sulla non divisione tra “atto e
materiale”e tra “soggetto e oggetto”, e in questa insistenza emerge proprio come
nessuna parte possa essere isolata dal ragionamento sull'esperienza, poiché è
l'esperienza che occupa il “tra”, unendo e anche dividendo, scoprendo e nascondendo,
avvicinando e allontanando. L'esperienza è il “tra”, è il “mezzo” per esperire il mondo e
se stessi, ma è anche il “modo” in cui questo accade, e il modo non è discontinuo ma
continuo, e quindi difficile da isolare e analizzare. In questa tensione inesauribile che
descrive l'attività vitalistica del nostro stare nel mondo, non tutto è natura, non tutto è
materia, non tutto è reale. Nell'esperienza umana c'è, e riveste un ruolo importante,
anche l'immaginazione.
L'immaginazione aiuta a fare esperienza del/nel mondo, oltre il materiale, oltre il
presente, oltre il contingente. Spinge l'uomo ad aprire ed aprirsi all'ulteriore (da un
punto di vista spirituale) e all'umanità (da un punto di vista generale). Nel desiderio già
di poter fare esperienza di situazioni, mondi e contesti diversi da ciò di cui si è fatto e si
sta facendo esperienza, risiede quella che è già una direzione, una pratica, un'esperienza
“ideale” di civiltà, solidarietà, libertà, e infine di umanità per usare una parola cara a
Martha Nussbaum.
L'immaginazione spinge alla conoscenza, alla creazione e ri-creazione di mondi
forse appaganti, forse deludenti. Mondi che non esistono ma che possono comunque
essere oggetto di esperienza umana, ed è in questa apertura che si instaura un possibile
passaggio verso l'arte: «L'esperienza umana ha anche un continuo e commovente
desiderio di verità, di bellezza e di ordine. Ma c'è qualcosa di più che il desiderio: ci
sono anche momenti in cui quelle cose vengono raggiunte. L'esperienza dimostra di
avere la capacità di conseguire il possesso di oggetti armoniosi. Essa dimostra di essere
capace, entro certi limiti, di custodire gli oggetti ricchi di significato e di smorzare e
ridurre il significato di quelli dannosi»44. C'è la tensione, o il desiderio, e c'è la capacità
di raggiungere l'arte, di farne esperienza. Conseguire il possesso di oggetti armoniosi
44Id. op. cit., p. 60.
33
significa “comprenderli” nella propria esperienza umana.
L'importanza dell'estetica deweyana, rivoluzionaria da questo punto di vista,
risiede nel non mettere l'arte al centro, in posizione predominante nel processo
conoscitivo, e per certi versi neanche all'inizio o alla fine del processo conoscitivo, ma
di metterla “nel modo di” fare esperienza dell'uomo. Il fulcro che tutto muove è l'uomo,
e il rapporto che questi intrattiene e organizza, costantemente, con tutto ciò che lo
circonda, ovvero con il mondo, mondo a cui l'arte appartiene a pieno titolo.
L'esperienza è il prodotto di questo rapporto fra l'uomo e il mondo, è ciò che lo
regola, è ciò che al tempo stesso lo fonda e ne rende possibile il rapporto. L'esperienza
è quindi relazione e comunicazione con il mondo, è frutto del rapporto ma è anche il
rapporto stesso. In Arte come esperienza, Dewey marca una importante continuità con
Esperienza e natura e così facendo mostra la vera natura dell'esperienza di tipo estetico,
proprio ribadendo lo stretto legame fra uomo e mondo.
La relazione uomo-mondo si articola innanzitutto con l'ambiente ed è tesa alla
scoperta della realtà ma anche al desiderio di spingersi oltre alla realtà. Queste
dimensioni complesse sono “conoscibili” attraverso la percezione, che avviene grazie ai
sensi e si può amplificare nel sentimento estetico. Il contributo dell’arte, in questo
ragionamento, è importantissimo, perché «Un’opera d’arte fa emergere e accentua
questa qualità di essere un intero e di appartenere a quell’intero più grande,
onnicomprensivo, che è l’universo in cui viviamo. Credo che questo fatto spieghi quel
sentimento di acuta intelligibilità e chiarezza che proviamo in presenza di un oggetto di
cui si fa esperienza con intensità estetica. Esso spiega anche il sentimento religioso che
accompagna una percezione estetica intensa. Noi siamo, per così dire, introdotti in un
mondo al di là di questo mondo che è tuttavia la realtà più profonda del mondo in cui
viviamo nelle nostre esperienze comuni. Siamo trasportati al di là di noi stessi per
trovare noi stessi»45. L’esperienza permette di svelare il gioco sottile dell’esistenza,
consente di trovare se stessi al di là di se stessi, grazie all’arte e alla creatività.
Allargando questa prospettiva, il teatro si offre come arte ideale per attivare questo
gioco della percezione, della conoscenza e dell’esperienza. Perché arte effimera, priva
di oggetto-opera d’arte, consente di superare il mondo delle esperienze comuni per
accedere ad una realtà profonda muniti solo di noi stessi nella relazione con l’altro.
Dove si colloca quindi l'arte? Che posto occupa nel mondo? L'arte si colloca
proprio “nel” rapporto, nella tensione fra conquista e perdita, fra vicinanza e distanza,
45 J. Dewey, Arte come esperienza, Aesthetica, Palermo, 2010, pp. 197-198.
34
nell'equilibrio fra la spinta vitalistica dell'uomo e il compimento dell'esperienza stessa.
L'uomo deve darsi, offrirsi all'esperienza e cercare di comprenderne, approfondirne le
qualità che essa possiede e custodisce: dall'analisi delle qualità accederà anche all'arte.
È compiendo degli atti pratici che si attiva l'esperienza, ed è negli atti pratici che
risiedono anche le caratterizzazioni estetiche, quegli atti non separati dal materiale, di
quei soggetti non separati dagli oggetti.
In Arte come esperienza, Dewey considera la complessità dell'esperienza artistica
senza porre limiti né alle possibilità creative dell'artista, né alle possibilità interpretative
dell'osservatore. La nascita di un'opera d'arte catalizza le stratificazioni di senso
dell'artista come quelle di chi fruisce l'opera. «Aspetti e stati della sua esperienza
precedente di vari contenuti sono entrati nel suo essere; sono gli organi con cui
percepisce. La visione creativa modifica questi materiali. Essi si ripresentano
nell'inedito oggetto di una nuova esperienza. Memorie che non sono necessariamente
coscienti, ma che sono ricordi incorporati organicamente nella struttura stessa del sé,
alimentano l'osservazione presente. Sono il nutrimento che dà corpo a ciò che si
vede»46.
Così come l'uomo, per Dewey, deve essere considerato nella sua complessità,
laddove per complessità si intende le possibilità e capacità cerebrali, sensoriali ed
emotive di correlare le parti, di intrattenere sempre nuove relazioni con gli stimoli
esterni e scoprire nuovi legami fra gli elementi che compongono il mondo, anche l'arte
deve essere considerata – facendo parte di un ambiente complesso ed essendo prodotto
dell'uomo – come un manufatto prezioso, frutto dell'azione creativa dell'uomo e capace
di comunicare più di quanto lo stesso creatore avesse in mente di comunicare. Il suo
porsi come oggetto con caratteristiche definite e, al tempo stesso, indefinite (in quanto
definibili dal fruitore), il suo darsi come oggetto completo (fatto e finito) ma al tempo
stesso offrendosi al completamento dalla sensibilità altrui (ovvero da chi decide di farne
esperienza); rendono l'opera d'arte il prodotto dell'esperienza umana fra i più complessi
e al tempo stesso fra i più “immediati” nella comunicazione fra uomini e fra l'uomo e il
mondo. Spiega Dewey che «La portata di un'opera d'arte si misura secondo il numero e
la varietà di elementi che vengono da esperienze passate e sono organicamente assorbiti
nella percezione avuta qui e ora. Essi le danno corpo e capacità evocativa. Spesso
vengono da fonti troppo oscure per essere in qualche modo identificate dalla memoria
46Id, op. cit., p. 107.
35
cosciente, e quindi creano l'aura e la penombra in cui fluttua un'opera d'arte» 47. E più
avanti: «La connessione tra qualità e oggetti è intrinseca in ogni esperienza dotata di
significatività. Se si elimina questa connessione non rimane che una successione di
fremiti transitori priva di senso e non identificabile»48. «Le qualità dei sensi, del tatto o
del gusto così come della vista o dell'udito, hanno qualità estetiche. Non le hanno però
se vengono isolate, ma nelle loro connessioni; in quanto interagiscono e non come
entità semplici e separate. E le connessioni non sono limitate alla loro propria specie
(colori con colori, suoni con suoni)»49.
La fluidità del passaggio dalla “natura” all'“arte” è frutto in Dewey di un
ragionamento complesso e articolato, non di una semplificazione. Anche se il concetto
di esperienza è connaturato all'uomo, è l'uomo che poi lo usa, lo mette a frutto con le
sue capacità, i suoi desideri, le sue crisi, rimettendolo così sempre in discussione e, per
certi versi, rivitalizzandolo. Nella vita dell'uomo, in ogni momento accade di
sperimentare qualcosa, di rafforzare o rallentare il rapporto con l'ambiente. Ma non
tutto, sempre, indistintamente, è esperienza. Il materiale “sperimentato” deve fluire e
comporsi in un tutto compiuto (l'esperienza), ed è in questa “compiutezza” che è
possibile fare le distinzioni, individuare le qualità estetiche e le loro possibili
gradazioni.
C. Maltese, nella sua sempre attuale introduzione all'edizione italiana del 1967 di
Arte come esperienza, chiarisce che «L'esperienza estetica è, come ogni altra esperienza
cosciente, immaginativa, ma è immaginativa in modo eminente, in quanto è
adattamento completo del vecchio e del nuovo attraverso una valutazione di cose e
valori assenti di fatto, ma presenti nell'immaginazione. Se, da una parte, anche una
macchina è frutto di immaginazione, ma serve per altri scopi e valori che vanno oltre se
stessa, dall'altra un'opera d'arte propone direttamente significati e valori all'esperienza,
nasce dall'esperienza e si rivolge all'esperienza. È, in un certo senso, esperienza pura,
esperienza in senso integrale. Da questo punto di vista costituisce una sfida alla
filosofia»50.
Infatti per Dewey attraverso l'arte è possibile penetrare negli atteggiamenti
fondamentali di intere epoche e civiltà. Le opere d'arte sono l'asse di continuità della
vita di una comunità, ne costituiscono l'espressione più alta proprio per la loro qualità
47Id., op. cit., p. 135.
48Id., op. cit., p. 137.
49Id., op. cit., p. 133.
50 C. Maltese, “L'estetica di John Dewey”, introduzione a J. Dewey, L'arte come esperienza, La Nuova
Italia Editrice, Firenze 1967, p. XIII.
36
immaginativa che rende viventi e concrete costumanze, leggi, riti. L'esperienza artistica
permette il passaggio da “privato” a “pubblico” e si caratterizza come la possibilità data
all'uomo per parlare all'umanità. L'arte diventa per l'uomo l'opportunità straordinaria di
connettersi con/al mondo, di partecipare di una dimensione non puramente materiale né
esclusivamente spirituale, ma organica con il resto dell'umanità. L'arte riveste la
capacità di comunicare con i nostri simili ad un livello diverso, più profondo e diretto,
spazzando via le barriere linguistiche e anche le diversità culturali dei singoli. Essa
diventa il terreno comune su cui si gioca la partita per l'uomo più importante
nell’ambito della formazione e della conoscenza: la condivisione dell'esperienza.
Ma c'è un altro aspetto che l'accezione di esperienza mette in campo, un aspetto
strettamente correlato alla questione della “fruizione” nel campo dell’arte e in
particolare in quella contemporanea. Non “fruire”, ma “fare esperienza” dell'arte, è un
concetto che rimanda al principio “attivo” dell'esperienza, ad un'attività vitalistica non
passiva, ad un qualcosa che ha a che fare con un'azione e un lavoro, che non è mai solo
fisico, che non è mai solo mentale. Il concetto di fruizione dell'arte rimanda ad un
“assistere”, ad uno “stare” passivo dell'uomo posto di fronte all'arte, invece il concetto
di esperienza, rifacendoci anche all'etimologia del termine, chiede per sé un ruolo più
attivo, di partecipazione, di interazione sensoriale. Significa anche far crollare la
pretesa, dannosa ed elitaria, dell’inavvicinabilità dell'arte. L'arte appartiene essa stessa
al mondo, e come tutto ciò che appartiene al mondo ognuno può farne esperienza, nel
rispetto della libertà reciproca, senza distanze reverenziali o di sicurezza. Senza aver
timore di non essere degni di entrare in comunicazione con l'arte. Non esiste l’arte
elitaria, un’arte che possa esser detta tale non può rivolgersi ad un numero ristretto di
persone perché necessita di particolari capacità per essere compresa. L'arte esiste in
quanto relazione fra uomini, al di là delle loro specificità, perché l'arte deve parlare
all'uomo disponibile all’incontro, e questa disponibilità può essere di tutti. L'arte può
essere considerata un mezzo di comunicazione straordinaria fra gli uomini, poiché si
rivela uno strumento unico di condivisione dell'esperienza: «Alla fine le opere d'arte
sono i soli media capaci di una comunicazione completa e non ostacolata tra uomo e
uomo che può aver luogo in un mondo pieno di abissi e pareti che limitano la
condivisione dell'esperienza»51.
Il potere comunicativo dell'arte, la sua capacità di parlare all'uomo senza ostacoli
– si tratti di barriere di tipo linguistico, ideologico o culturale – la costituisce
51J. Dewey, Arte come esperienza, op. cit., p. 120.
37
intimamente come un'esperienza fra le più preziose nella nostra epoca. Poiché sono
proprio l'immaginazione e la fantasia ad essere state messe da parte dall'esperienza
quotidiana, sempre più incanalata da istituzioni di vario tipo – scolastiche, familiari,
lavorative – ad avvicinarsi a conoscenze ed esperienze che risultino “produttive” e che
possano essere definite serie e degne di rispetto poiché considerate economicamente
fruttuose. Tutto nella società contemporanea converge verso l'esclusione della sfera
“estetica” dall'esperienza quotidiana, o meglio converge verso il relegamento
dell'estetico nella categoria dell'evasione e del divertimento. Laddove per evasione si
intende il liberarsi dalle responsabilità dei ruoli imposti dalla società postindustriale, e
come divertimento il mettere in pausa la vita “vera” per uscire fuori di sé, non per
incontrare l’alterità o l’ulteriorità, ma solo per sbarazzarsi di se stessi per un intervallo
di tempo controllato e controllabile.
La necessità della prospettiva deweyana risulta tanto più evidente oggi di quanto
non lo fosse in passato. Nella nostra epoca, in un mondopost-industriale governato dalla
finanza internazionale, teso alla monetizzazione del tempo libero e che vuole
imbrigliare l'immaginazione nei parchi-gioco a tema e nelle realtà virtuali dei
videogiochi interattivi, l'uomo deve riconoscere, attraverso l'esperienza, la possibilità di
accedere ad un mondo complesso, un mondo fatto di natura, ambienti sensibili, uomini
e comunità di uomini, tradizioni, linguaggi e arte. La prospettiva deweyana lega a
doppio filo l'esperienza con la conoscenza, attribuendo uguale importanza ad entrambe
e rompendo la consequenzialità dell'una dall'altra. Non c'è un'esperienza che conduca
alla conoscenza di un dato sapere, esiste l'esperienza come conoscenza del mondo,
l'esperienza come sapere attivo e diretto. È per questo che proprio oggi il modello
deweyano appare davvero attuale e mostra il suo portato rivoluzionario.
Analizzando l’epoca contemporanea, quando Brezinka, ad esempio, lamenta il
fatto che lo sviluppo e la diffusione del sapere scientifico abbiano indebolito la
mentalità mitico-religiosa52, di certo lo studioso sta facendo soprattutto riferimento alla
messa da parte, dell'uomo contemporaneo dei valori della fede e della religione ma,
allargando il campo, è il principio stesso dell'impoverimento culturale ad essere
davvero importante e degno di attenzione. Quando un sapere prevale sugli altri non è
solo il sapere minoritario a risultarne indebolito, è tutto il patrimonio culturale nel suo
assieme a risultarne degradato, è lo sbilanciamento a rappresentare il vero pericolo,
poiché viene messo in dubbio il valore stesso dell'esperienza. Se non esiste
52W. Brezinka: Educazione e pedagogia in tempi di cambiamento culturale, Vita e Pensiero, Milano,
2011, p. 21.
38
un'esperienza infallibile (quella empirica) rispetto un'esperienza fallibile (quella
metafisica) ma esiste l'esperienza che è al tempo stesso “il lavoro del campo, la semina,
il raccolto e la mietitura”, come anche “colui che pianta e raccoglie, che lavora e
gioisce, spera, teme, fa progetti, ricorre alla magia o alla chimica per aiuto”, il mondo
descritto da Dewey è quello dell'equilibrio dei saperi, della libertà nell'esercitarli, della
gioia nel goderne.
L'uomo non può essere considerato un contenitore di conoscenze selezionate sulla
base della loro verificabilità, in questo caso la sua vita apparirebbe nient'altro che una
mera successione di eventi naturali e materiali, comprensibili sì, ma anche parziali,
perché l'uomo non è solo corpo, biologia, fisiologia, è fantasia, immaginazione, ricerca
dell'assoluto e di ulteriorità. Accanto ai bisogni materiali, necessari per la
sopravvivenza del corpo, l'uomo ha bisogni emotivi da soddisfare, fra questi c'è anche
quello di abbandonarsi all'immaginazione, di scoprire – sempre attraverso l'esperienza –
l'irrazionale e la magia del mondo. Persa la dimensione rituale e religiosa, l'arte è una
delle esperienze, forse fra tutte, più complete e appaganti: «[...] Ma qualunque sia il
sentiero che segue l'opera d'arte, proprio perché è un'esperienza piena e intensa essa
tiene in vita la capacità di fare esperienza del mondo comune nella sua pienezza. E lo fa
riducendo i materiali grezzi di quell'esperienza a una materia ordinata attraverso una
forma»53. L'esperienza dell'arte è quella che tiene conto della complessità dell'uomo e
delle molte vie che esso può percorrere, senza doverne necessariamente escludere
qualcuna, per formare se stesso, per formarsi come uomo. A quest'esperienza
appartengono i prodotti della fantasia, il ragionamento intellettuale, l'immaginazione e i
progetti sul futuro come anche i legami affettivi, reali o auspicati.
Così sintetizza Gennari l’eccezionale struttura dell’estetica deweyana: «C'è
dunque in Dewey un profondo riguardo per l'educazione estetica colta come
componente inseparabile dell'uomo integrale: di un uomo ragionevole che non ha
smarrito la prospettiva dell'immaginario»54. Ragionevole ma ancora capace di
immaginazione è l'uomo di Dewey, l'uomo che fa dell'esperienza il suo “modo” di stare
al mondo, di abitare il mondo. Questo uomo descritto dal filosofo americano ha molti
punti di contatto con il buon cittadino auspicato da Martha Nussbaum, laddove
«Diventare un buon cittadino significa conoscere una gran quantità di dati e saper
padroneggiare le tecniche del ragionamento. Ma significa anche qualcosa di più.
Significa imparare ad essere capaci di amare e di usare l'immaginazione. Certo è
53J. Dewey, Arte come esperienza, p. 144.
54M. Gennari, L'educazione estetica, Bompiani, Milano 2007 (1994), p. 158.
39
sempre possibile scegliere di continuare a formare cittadini che abbiano difficoltà a
comprendere persone diverse da loro e la cui immaginazione raramente si spinga al di
là del loro ambiente particolare. È fin troppo facile che l'immaginazione morale stringa
i suoi limiti in questo modo» 55.
È anche questo prezioso suggerimento di “usare l'immaginazione” che è possibile
innestare un collegamento proficuo fra pedagogia e arte e soprattutto fra pedagogia e
teatro, includendo l'eventualità e, dove è possibile, incoraggiando l'uomo – il soggetto
umano di qualsiasi età – ad osare immaginare/rsi oltre l'ambiente, le situazioni, i
contesti in cui è abituato a vivere per aprire/rsi a nuovi orizzonti di senso, nuove ragioni
e ragionamenti culturali ed emozionali, nuovi comportamenti ed atteggiamenti mentali
e sentimentali. A cosa può servire questo bellissimo esercizio della conoscenza che
sollecita il sogno ad occhi aperti? E nel nostro caso sollecita, forse, più che altro
l'apertura verso un mondo fittizio fatto di cartapesta e di tavole di legno? Dove risiede
la maggiore capacità “formativa” del teatro rispetto alle altre arti, rispetto alle altre
esperienze artistiche e culturali, rispetto alla vita “vera”? Perché il teatro come
strumento prediletto per aiutare ad “usare l'immaginazione” dell'uomo e del buon
cittadino contemporaneo?
Perché il teatro è l’arte dell’effimero, di ciò che non rimane se non come
esperienza umana, è arte che aiuta a vivere “nuovamente” esperienze comuni e
straordinarie dello stare al mondo, arte che attua il gioco del “come se”, portando
l’uomo a sperimentare direttamente e con gli altri ciò che fino a quel momento ha
potuto solo “immaginare”. In nuce, nella ricerca filosofica e pedagogica deweyana, ci
sono le condizioni per includere e ragionare sul teatro come arte ideale per l’esperienza
pedagogica. Perché quella di Dewey è una prospettiva aperta e includente, rivolta al
futuro, ma con profonde radici nel passato, attenta ad una storia che è insieme la
“nostra” storia e quella dell'umanità e che appartiene al presente in tante forme. Di
queste forme la più “bella” e piena è proprio l'arte, a cui Dewey guarda con
atteggiamento naturale, senza troppo ossequio, abbattendo ogni separazione e distanza.
Perché non si sta davanti all'arte, allievi ignoranti al suo cospetto, ma si fa esperienza
dell'arte, in un rapporto fatto di partecipazione e comunicazione.
Per Dewey «[...] la vita è un processo continuo; ha continuità perché è un
processo sempre rinnovato in cui si agisce sull'ambiente e si subisce l'azione
dell'ambiente, e insieme vengono a istituirsi relazioni fra ciò che si fa e ciò che si
55M. C. Nussbaum, op. cit., p. 29.
40
subisce. Pertanto l'esperienza è necessariamente emulativa e il suo contenuto acquisisce
espressività grazie a questa continuità cumulativa. Il mondo di cui abbiamo fatto
esperienza diventa una parte integrante del sé che agisce e patisce in un'esperienza
ulteriore»56. In quest'ottica si delinea quel concetto complessivo, affrontato a più riprese
da Spadafora, per cui nella visione pedagogica di Dewey tutto, attraverso l'esperienza,
possa partecipare della formazione dell'uomo, ovvero tutto possa educare 57.
È nell'/sull'esperienza che si gioca la partita più importante, l'esperienza di matrice
pedagogica e quella di matrice estetica possono trovare nell'esperienza teatrale – intesa
in senso ampio – nuove opportunità di progettazione e declinazione all'interno del
paradigma formativo; possono arricchire tale paradigma di una maggiore attenzione ed
apertura nei confronti delle arti (arti visive, musicali ecc.) che sono comprese nel teatro
e possono rendere più accessibile, diversificato, completo il rapporto dell'uomo con il
patrimonio culturale (proprio e altrui), rafforzando l'amore e la conoscenza nei
confronti della propria cultura è anche più facile aprirsi al confronto con le culture altre
e a rispettarle nella condivisione di alcuni valori basilari.
56J. Dewey, op. cit., p. 119.
57«È probabile che l’idea di Dewey, poco compresa e forse poco sviluppata dallo stesso filosofo,
secondo cui l’educazione è un fenomeno naturale al pari del nutrirsi e del riprodursi dell’essere umano,
possa essere considerata uno dei motivi che spiegherebbero questa presenza implicita ed esplicita della
dimensione pedagogica nel pensiero filosofico e religioso, poiché le problematiche educative sono
consustanziali alla vita umana e, quindi, il più delle volte implicite in tutte le dimensioni dell’agire
umano» (G. Spadafora, “Verso l’emancipazione. Una pedagogia critica per la democrazia”, in G.
Spadafora, a cura, Verso l’emancipazione, Carocci, Roma 2010, p. 22).
41
1.3. La relazione di cura e l’esperienza spettatoriale
Fra i vari paradigmi che fondano e strutturano la pedagogia, si è scelto di
privilegiare quello della cura. Per Rita Fadda «[…] ciò che fa la differenza tra la cura e
altri approcci pedagogici, […], è che essa si rivolge all’uomo, a ogni singolo uomo, mai
a un ideale astratto; lo chiama per nome e consente, in prima istanza, solo l’accoglienza
o il rifiuto. Cura, dunque, il cui primo atto, quello fondamentale, è l’accoglienza
incondizionata e il riconoscimento dell’alterità, della differenza irriducibile, che ciascun
essere umano rappresenta, nel suo diritto originario a non essere fatto oggetto né di
assimilazione, né di appropriazione da parte di nessuna istanza e quindi tutela e
salvaguardia di questa alterità»58. Questo approccio è quello che consente di focalizzare
l’attenzione non tanto e non solo fra gli elementi della relazione pedagogica, il maestro
e l’allievo, l’io e l’altro, ma sulla dinamica che rende possibile questa relazione, che la
anima e che, infine, rende questa relazione “formativa”.
La centralità della relazione pedagogica – conseguenza diretta dell'individuare la
“formazione” come tratto distintivo e caratterizzante della pedagogia – conduce ad un
confronto con la cosiddetta “relazione teatrale”. Quest'ultima, definita dalla teoria del
teatro, in particolare dalla semiotica del teatro della seconda metà del '900, ed
identificata come tratto distintivo e caratterizzante del teatro inteso come principale arte
performativa (in opposizione alle arti della riproducibilità tecnica dell'era moderna e
postmoderna), mostra molti punti di contatto con uno dei principali strumenti della
pedagogia di sempre.
È attraverso la relazione con l'altro che l'uomo forma se stesso, si confronta,
riconosce l'altro da sé e quindi riconosce se stesso, perché «La conoscenza comincia da
“se-stessi”, che sono per l'appunto due termini, perché comunque la conoscenza di sé
nasce sempre dall'incontro con l'altro» 59.
All'esperienza dell'uomo nella vita quotidiana, dell'uomo nel “mondo”,
appartiene, a tutti gli effetti, l'esperienza spettatoriale. Sin dall'antichità l'uomo ha
frequentato l'arte, come esperienza dello spirito, anelito alla bellezza, anche tensione
all'etica e alla fede. Il teatro, fra le arti, pur mettendo da parte l'esperienza eccezionale
dell'antica Grecia con la tragedia classica, è sempre stata un catalizzatore straordinario
58R. Fadda (a cura), L’io nell’altro. Sguardi sulla formazione del soggetto, Carocci, Roma 2007, p. 15.
59I. Gamelli, Sensibili al corpo. I gesti della formazione e della cura, Meltemi, Roma 2005, p. 17.
42
per l'uomo all'interno della comunità a cui appartiene, soprattutto fra l'Ottocento e il
Novecento e fino alla nascita del cinematografo; sebbene in questo caso si voglia
mantenere un'accezione ampia del termine, intendendo ancora fino all'inizio del '900 lo
spettacolo dal vivo nelle sue più diverse e varie forme, un'accezione il più possibile
inclusiva ed estensiva del termine.
L'uomo al cospetto dell'arte performativa va considerato soprattutto calato nello
specifico luogo ad essa deputato: il teatro. In particolare dobbiamo concentrarci
sull'oggi, che cosa possa significare nella contemporaneità ipertecnologica, per i
bambini, così come per gli adulti cresciuti con il televisore in casa e ormai avvezzi
all'uso delle tecnologie digitali, entrare in un teatro per assistere ad uno spettacolo di
qualsiasi natura esso sia. Il teatro come ambiente – prima ancora che come ambiente
educativo
–
offre
un'occasione
unica
all'uomo
contemporaneo,
l'occasione
dell'isolamento e l'occasione di fare comunità al tempo stesso. A teatro l'uomo è solo,
senza i suoi riferimenti casalinghi o lavorativi, per un tempo che non può controllare
personalmente, ma che altri hanno imposto ai suoi ritmi quotidiani. Certo lo spettatore
può decidere di abbandonare il teatro a spettacolo iniziato, in qualsiasi momento, ma
significa appunto “sottrarsi” ad un tempo dato, “abbandonare” uno spazio definito. Ma
prima ancora che lo spettacolo inizi, prima ancora di essere spettatore, l'uomo entrando
a teatro fa esperienza di gestione del tempo e dello spazio particolare, oggi più preziosa
che mai. L'esperienza della “sospensione” dalle attività quotidiane, siano esse inerenti
alla sfera degli affetti, dell'attività lavorativa, scolastica o di altro tipo.
Si attua quindi una sorta di sospensione spazio-temporale, una sospensione che
nell'antichità era distinzione del “tempo del divertimento” dal “tempo del lavoro” e che
oggi prende sfumature diverse poiché i giovani in particolare sono sempre più abituati
al multitasking, ne sono anche assuefatti, per cui anche il divertimento – come può
essere una pizza con gli amici, un concerto di musica pop o rock, la visione della partita
di calcio piuttosto che di un film o di un qualsiasi altro prodotto audiovisivo (anche
didattico) – oltre che le attività imposte come ad esempio molti lavori propri della
postmodernità (in particolare quelli di tipo professionistico o svolti nel settore privato o
anche a domicilio) o anche lo svolgimento dei compiti a casa sono sempre più attività
che si possono compiere stando immersi in un ambiente tecnologico, caratterizzati
infine dalla connessione perpetua o comunque da elementi che possono distrarre e che
non consentono la concentrazione piena, che non permettono di ritrovarsi “soli” con se
stessi nell'assistere ad un evento.
43
I bambini, entrando a teatro, scoprono ad esempio che si tratta di un luogo in cui
l'uso del cellulare è vietato (come in chiesa, a scuola, in aereo, in alcuni reparti
dell'ospedale e in pochi, pochissimi, altri luoghi), in cui si deve fare silenzio, come al
cinema, ma che a differenza del cinema chi recita è in carne ed ossa e, se viene
disturbato dal chiacchiericcio può anche intervenire direttamente. Chi sta sul palco
compie un “lavoro”, una fatica fisica e mentale e la compie per chi è in platea, non in
generale per un “pubblico” ma nello specifico per ognuno dei singoli “spettatori” seduti
in sala. Perché «per il teatro e l'educazione è comune la necessità di poter disporre di
uno spazio e di un tempo “ritualizzati”, segnati dal corpo, di una sospensione della vita
altrimenti appiattita sull'azione sterile e ripetitiva» 60.
L'educazione al teatro è già educazione “del” teatro, l'invito a mettere in
discussione i propri comportamenti quotidiani, la proposta a predisporsi in un
atteggiamento ricettivo, aperto all'ascolto, disponibile all'incontro.
Dove si può incontrare la pedagogia con la cultura teatrale? Nel teatro considerato
quindi come luogo anche “fisico” di formazione ed educazione. «Niente perciò più
eloquente e commovente altresì, per chi rifletta e guardi con occhio pensoso, dello
spettacolo che offre un vasto teatro o una grande sala musicale, dove una moltitudine
d'uomini d'ogni età, sesso e condizione, tralasciata la fatica quotidiana, i pensieri e i
passatempi abituali, obliate le cure personali, si raccoglie tutta in un sentimento solo: in
quello che l'artista ha espresso nella tragedia, nel canto, nella sinfonia; e quella folla di
anime tutte diverse sbocca, si fonde e vibra nell'alta nota appassionata del cantante o nel
brivido di una corda di violino. Costoro, che hanno ciascuno la sua vita e il suo mondo,
le sue idee e le sue passioni, avvertono tutti nel fondo dell'anima un comune bisogno, e
non lo possono soddisfare se non svestendosi di tutte le loro particolari passioni e idee,
e quasi traendo dalla guaina del mondo, in cui si svolge per ciascun d'essi la vita
quotidiana, un'anima, che è in tutti identica, l'anima umana, che è quella che crea e vede
le cose belle»61.
Lo spettatore entrando a teatro, prima ancora che lo spettacolo abbia inizio,
riconosce, attraverso una serie di “rituali” il proprio ruolo, e di conseguenza attiva una
serie di comportamenti oltre a porsi in una disposizione d'animo specifica, insomma,
l'uomo andando a teatro scegli di rivestire il ruolo di/indossare i panni dello spettatore.
Il teatro è un ambiente educativo molto particolare, che prevede una serie di “rituali”
che ne caratterizzano e regolano l'accesso, l'organizzazione spaziale, temporale e
60I. Gamelli, Sensibili al corpo, op. cit., p. 99.
61 G.Gentile, La filosofia dell'arte, Firenze, Sansoni, 1975, p. 8-9.
44
comportamentale, che strutturano cinesica e prossemica sia di chi è sulla scena sia di
chi è invece in platea. Tali rituali influiscono sul comportamento e gli atteggiamenti
degli spettatori, ne condizionano, predisponendo all'osservazione e all'ascolto,
sensibilità, attenzione, emotività. I rituali del teatro comprendono tutte quelle
“convenzioni” che consentono all'uomo di cultura occidentale di individuare e
riconoscere l'oggetto teatro – nelle sue caratteristiche materiali, generali e di
comunicazione – e di conseguenza di attuare i comportamenti che nel dato contesto
vengono considerati adeguati, appropriati ed opportuni.
Spiega Peter Brook che «Il sipario è stato il simbolo di tutta una scuola di teatro:
il sipario rosso che si apriva, le luci della ribalta, l'idea che eravamo tornati a essere
bambini, la nostalgia, la magia erano tutt'uno. Gordon Craig per tutta la vita ha inveito
contro il teatro d'illusione, ma i suoi ricordi più cari erano gli alberi e le foreste dipinti e
i suoi occhi si illuminavano quando descriveva gli effetti trompe l'oeil. Ma venne il
giorno in cui quel sipario rosso non nascose più alcuna sorpresa, non volemmo o non
avvertimmo più il bisogno di tornare a essere bambini e la ruvida magia cedette a un
più freddo buonsenso. Allora il sipario fu smantellato e le luci della ribalta furono
eliminate»62. Questo esempio che prende in considerazione il sipario, elemento che
attiva una simbologia ricca e complessa, e il palcoscenico, buio in sala e luci della
ribalta, riprende alcuni elementi materiali del teatro che partecipano, anch'essi e
fortemente, dei rituali del teatro.
Elementi come il sipario, ma anche i costumi di scena, ecc. ecc., la particolare
struttura dell'edificio teatrale pensata per creare una divisione fra chi guarda e chi è
visto, fra chi “recita” e chi assiste alla “recita”, per arrivare all'apparato di fruizione
dello spettacolo in sé (orario, luogo, botteghino, biglietto, intervallo) hanno contribuito
ha creare un meccanismo di riconoscimento del teatro legato alla fruizione, lo hanno
dapprima legittimato come arte rafforzando il concetto di una “installazione” perfetta,
ma hanno anche attirato gli strali di chi ha lottato per un'arte teatrale libera/liberata da
quelle convenzioni che hanno finito per identificarla sempre più con l'etichetta (con
sfumatura dispregiativa) di “teatro borghese”.
Il teatro di ricerca, il teatro politico, il teatro sociale e/o popolare hanno con forza
di pensiero e d'azione contestato, messo in crisi, ripensato questi rituali. Ad esempio
Augusto Boal ne mostra con disincanto gli inganni e il ruolo “costrittivo”, da
dispositivo del potere, che essi hanno giocato, soprattutto sul meccanismo attore62 P. Brook, Lo spazio vuoto, Bulzoni Editore, Roma 1998, p. 55.
45
spettatore: «Il fenomeno teatrale, quando avviene liberamente, sprigiona una
straordinaria quantità di energia; ma i “rituali” cui è sottomesso il fenomeno vanno
contro questa energia e la riducono. Quali sono i rituali del teatro? Il primo e
fondamentale rituale è costituito dal fatto che ognuno già conosce il suo ruolo, gli
spettatori sanno che sono spettatori e gli attori sanno che sono attori. È già prestabilito
chi deve recitare, e chi deve guardare la rappresentazione. Esiste perciò un muro, un
impedimento. Si stanno facendo e si sono fatti numerosi tentativi per abbattere questo
muro. Troviamo ad esempio spettacoli in cui si invita il pubblico a salire sul
palcoscenico e ballare con gli attori e a volte il pubblico accetta e balla con gli attori,
ma il muro dei rituali resta tuttavia sempre in piedi: gli spettatori sanno bene che chi
comanda sono gli attori, e che saranno sempre loro che diranno fino a quando dovranno
ballare e quando dovranno andarsene»63.
Ma se per Boal i vecchi rituali del teatro sono qualcosa da mettere in discussione,
da contestare e infine da eliminare, qualcosa che ha contribuito ad una
standardizzazione del teatro fino al punto da farlo divenire un dispositivo di quel potere
che pure voleva mettere in discussione, si pensi a questo proposito all'eccezionale
esperienza della tragedia classica, oggi il quadro socio-politico è talmente mutato che
anche le esperienze del teatro popolare e del teatro sociale, come anche la portata
rivoluzionaria e innovativa dell'animazione teatrale 64, sono state introiettate in quello
stesso sistema, ne sono diventate parte integrante, ed hanno esaurito la loro forza
dirompente e dissacratoria. Non esiste più una tipologia di “teatro rivoluzionario” con
delle caratteristiche precise, né un “teatro di ricerca” davvero in opposizione ad un
“teatro di tradizione”. L'epoca postmoderna ci restituisce un panorama complesso,
frammentario e liquido, in cui le etichette sono inutili quando non fuorvianti. Il teatro
ha conosciuto una crisi tale, così come la società contemporanea, in cui anche recarsi a
teatro per vedere “Arlecchino servitore di due padroni” diventa un atto di resistenza
intellettuale significativo.
Per quel che riguarda la formazione dell'uomo contemporaneo non è solo la
presenza attiva del/nel teatro a divenire esperienza pedagogica, ma anche quella
“passiva” da semplice spettatore consapevole, per quanto “intrappolato” del suo ruolo,
e vincolato da quei rituali che abbiamo summenzionato, perché il teatro tutto e lo
spettacolo in particolare (come e forse più della letteratura, come e forse più dei vecchi
63A. Boal, Il teatro degli oppressi. Teoria e tecnica del teatro, Edizioni la meridiana, Molfetta (BA),
2011, p. 93.
64Cfr. P. Giacché, Le bugie della scuola e quelle del teatro, in Artò. Rivista di cultura e politica delle arti
sceniche, numero 4 – gennaio 2000, pp. 42-45.
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media audio visuali) è un formidabile produttore di immaginario.
Esercita tutt'oggi un certo fascino il teatro, molti giovani, soprattutto adolescenti,
vi si avvicinano pur non avendo, per tradizione culturale e familiare, l'abitudine a
frequentarlo. Lo immaginano fondato su quei rituali da cui il teatro della modernità ha
giustamente preso le distanze, lo immaginano fatto di palcoscenico polveroso,
declamazione, trucco e parrucco, popolato da Giulietta affacciate al balcone e da
Amleto impazziti con il teschio in mano: “Essere o non essere” è la battuta che i ragazzi
delle scuole superiori, in prima istanza, collegano al teatro. La maggior parte di loro
arriva alla maturità senza aver mai fatto esperienza del teatro né come luogo di
fruizione dell'arte, né quindi come ambiente educativo. Restano in minoranza quelli che
da bambini abbiano conosciuto il teatro e abbiano condiviso la magia dell'essere
spettatori con i propri genitori o con altre figure adulte dell'ambito familiare,
partecipando con loro della condivisione dell'esperienza estetica e, di conseguenza,
partecipando ad un processo educativo indiretto. È invece molto più facile che quegli
stessi bambini abbiano partecipato a progetti scolastici di “educazione teatrale”
piuttosto che si siano recati, accompagnati dagli insegnanti, ad assistere a delle
rappresentazioni teatrali in luoghi più o meno deputati (teatri, auditorium, sale
parrocchiali, ecc), quando le scuole non abbiano direttamente ospitato in androni o aule
delle rappresentazioni presentate come curriculari o extracurricolari.
Nell'ambito di questa ricerca, ma in generale negli studi di pedagogia, occorre
tenere presente il ruolo che può giocare l'immaginario culturale del soggetto all'interno
del suo processo formativo. I cosiddetti “consumi culturali”, cari alla sociologia e da
essa indagati e analizzati con più o meno attenzione e approfondimento, pur rimanendo
efficaci riferimenti quantitativi e statistici, non rendono conto dell'esperienza estetica in
cui può imbattersi il bambino, o anche l'adulto, in maniera unica e irripetibile e
soprattutto, in riferimento al teatro, in un contesto non deputato e in un'occasione
saltuaria65.
Il teatro può agire da educatore collettivo dell'immaginario. Non possiede
chiaramente, non può possedere, né la forza pervasiva che possiedono i mass media né
l'immediatezza delle arti che viaggiano attraverso il digitale (la musica su tutti e i nuovi
prodotti audiovisivi seriali) né l'attrattiva solida, radicata e radicale, rassicurante e
inattaccabile della letteratura; ma il teatro permette, attraverso l'esperienza relazionale,
65Esiste tutto un settore del teatro, molto eterogeneo, caratterizzato da progettualità, percorsi, modalità,
poetiche e finalità diverse, ora più orientato sul discorso politico (Living Theatre), ora su quello della
memoria e sulla narrazione (Marco Paolini, Ascanio Celestini), ora sulla dimensione della condivisione,
della convivialità, della festa (Teatro delle Ariette).
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unica, che consente di agganciare l'uomo attraverso lo spettacolo “dal vivo”, una
fruizione meno continuativa, più episodica, non invasiva (poiché come spettatori
possiamo sempre scegliere di sottrarci alla relazione) e soprattutto preziosa in quanto
irripetibile che può segnare emotivamente in maniera più profonda rispetto ad altre
esperienze di carattere pure estetico, proprio per il suo carattere sporadico ed
“epifanico”.
Non tutti – bambini, adolescenti e adulti – possiedono le capacità espressive per
poter rielaborare in forma verbale, attraverso ad esempio la scrittura, la descrizione
dell'esperienza estetica, ma occorre dire forse emotiva e sensibile, scaturita da una
rappresentazione teatrale o da un evento, anche estemporaneo, di spettacolo dal vivo
(danza, musica, circo, burattini, teatro di strada, parata, giocolerie ecc). Certo è che
l'evento in cui l'uomo si ritrova, anche in maniera frettolosa e distratta, davanti ad un
“altro uomo” che compie un'azione di cui ha difficoltà a comprendere immediatamente
il significato, che non gli consente di riconoscere immediatamente che cosa stia
facendo, ad esempio: quell'uomo sta camminando, sta guardando una vetrina, sta
mangiando un gelato, sta chiedendo l'elemosina. Ma che ci mette davanti ad una
situazione di non immediata riconoscibilità: quell'uomo è vestito da pinguino, indossa
una maschera, lancia in aria delle palline o, come ad esempio nel progetto Mercuzio
non vuole morire di Armando Punzo, delle persone portano tutte una valigia con sé
anche se non sono né in stazione, né in aeroporto e compiono delle azioni “da
viaggiatori” pur non dovendo partire.
Non è detto che l'esperienza teatrale debba avvenire a teatro, né tantomeno che
debba avvenire con spettacoli riconosciuti come capolavori annoverati nella Storia del
teatro. L'esperienza spettatoriale, per come stiamo cercando di definirla in questo
contesto, è quella che attua un cambiamento nell'uomo che nella relazione teatrale
definiamo spettatore, mentre nella relazione pedagogica definiamo l'altro. Un
cambiamento che può essere positivo o negativo, che può rivelarsi proficuo oppure
arido, che può essere spiazzante o normalizzante, un cambiamento, insomma, che in
quanto tale, al di là dell'intensità emozionale che può scatenare, non scivola via
lasciando indifferenti.
L'imbattersi dell'uomo nel teatro, ovvero nel rivelarsi del teatro come situazione
inconsueta, anomala, strana, di sovvertimento oppure semplicemente “inutile” in
quanto costituita da un'azione gratuita e superflua, che non ha finalità produttive, e che
può essere rappresentata anche da un unico gesto – bello, brutto, strano non importa –
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valido solo per se stesso, un gesto non finalizzato a contribuire ad un processo teso allo
sviluppo economico della società e/o all'arricchimento di beni materiali del singolo, un
gesto in cui i meccanismi di normalizzazione, standardizzazione, livellamento e di
omologazione imposti più o meno occultamente dai poteri forti (mass-media,
economia, politica, industria, cultura dominante, ecc.) appaiono sovvertiti, evidenziati,
smascherati, messi in discussione o, semplicemente “esplosi”, deflagrati nel loro stesso
essere presentati nella loro evidenza vacua; ebbene, l'imbattersi dell'uomo in un teatro
siffatto avvicina questa sua esperienza alla dimensione della “festa”, che è esperienza
formativa prima che estetica, esperienza di crescita e di consolidamento del proprio
essere nel rapporto con e nel riconoscimento degli altri.
Spiega Cambi che la festa, considerata nel suo ruolo formativo «Ha un ruolo nella
costruzione dell'io, come pure nell'organizzazione della vita sociale. Pertanto svolge
una funzione di orientamento nell'immaginario, nutre la sensibilità di soggetti e
comunità, elabora forme sociali di esistenza, di vita sociale e sollecita, nei soggetti
stessi, un'esperienza straordinaria che si incrocia con il gioco e la felicità: e di essi porta
i segni e produce proiezione e attesa» 66.
Infatti, i poeti e gli artisti, che possiedono gli strumenti più adeguati per
“descrivere” la propria esperienza spettatoriale e così renderne partecipi un numero
ampio di persone che in questa esperienza possano eventualmente riconoscere la
propria, ricordano e pongono come fondative della loro poetica esperienze vissute da
bambini o comunque in periodi “giovanili” che spesso poco hanno a che fare dal punto
di vista estetico e stilistico, con le caratteristiche della propria arte.
Pensiamo ad esempio al teatro di cui si era nutrito Stanislawskij, o al ruolo
“formativo” giocato da D'Origlia Palmi per Carmelo Bene, e si potrebbe andare avanti
con esempi all'infinito... Ciò che in questa sede si vuole sottolineare è lo “shock”
estetico, la partecipazione attiva che l'esperienza spettatoriale è in grado di scatenare
nello spettatore, più di altre arti proprio per il fatto di innescare un meccanismo di
riconoscimento/disconoscimento per cui chi guarda sa che sta guardando un uomo
esattamente come lui, ma diverso per quello che fa, per come lo fa e perché quello che
fa non ha una “utilità” finalizzata alla produzione di qualcosa che non sia creare un
collegamento, una comunicazione con l'altro. Lo spettatore comprende l'arte dell'attore
nel momento in cui comprende che anch'esso è artefice di quell'arte, la sta rendendo
necessaria attraverso il suo esserci come presenza relazionale, gli sta consentendo di
66F. Cambi, “Festa e formazione. Sincronia, diacronia, laicizzazione”, in F. Cambi, op. cit., p. 219.
49
esistere.
Un'esperienza d'arte che possa creare un coinvolgimento di questo tipo, può
diventare un eccezionale nutrimento d'immaginario, dare un contributo unico, un
contributo in cui l'uomo non è semplice fruitore come accade nelle esperienze d'arte che
concernono la letteratura e la poesia, o le arti plastiche e visive, un'esperienza che
potrebbe essere contigua con la particolare fruizione interattiva dei media digitali, se
essi non si fossero sviluppati principalmente nella direzione dell'intrattenimento e del
passatempo, relegando le arti audiovisuali, digitali ed interattive, ad una nicchia
esperenziale riservata a musei e luoghi produttivi e fruitivi alternativi, appannaggio
quasi esclusivo delle metropoli occidentali.
Accade che lo spettatore, a teatro, sia posto in una condizione particolare: «Il
teatro è un'arena in cui può prodursi un confronto vivo. La concentrazione di un grande
numero di persone crea un'intensità unica che consente di isolare e di percepire con
maggiore chiarezza forze che hanno sempre in azione e che regolano la vita quotidiana
di ogni individuo»67. Con queste parole Brook sottolinea quindi non solo la funzione
dello spettatore come “fondativa” dell'esistenza stessa del teatro, ma infonde di valore
proprio la stessa condizione degli spettatori di “fruire insieme”, di partecipare ad
un'esperienza condivisa.
Il teatro, per sua stessa struttura e per le modalità fruitive che impone allo
spettatore – anche e soprattutto l'abusato e vituperato teatro all'italiana – mette lo
spettatore in una dimensione di “ascolto”, lo ricaccia nel buio del ventre materno, lo
predispone ad affinare tutti i sensi e lo immerge in una situazione paradossale e unica,
quella in cui si è soli nell'instaurare le relazione comunicativa con l'attore in scena (o
comunque con ciò che sul palcoscenico accade) nel mentre la si condivide con l'essere
soli di altre persone. Inoltre – e questo è uno degli aspetti più interessanti della
fruizione teatrale e dei suoi risvolti pedagogici – questa doppia relazione umana che si
crea con l'altro sulla scena e con l'altro che ci sta accanto nella sua poltroncina, è una
relazione che impedisce l'utilizzo del linguaggio verbale.
È comportamento corretto a teatro non rispondere verbalmente alle sollecitazioni
che provengono dal palcoscenico come anche a quelle del nostro vicino di posto (sia
esso un conoscente o sia un estraneo). Questo azzeramento del linguaggio verbale in
cui viene posto lo spettatore favorisce l'ascolto, ma anche acutizza la relazione corporea
67 P. Brook, Lo spazio vuoto, Bulzoni Editore, Roma 1998, p. 108.
50
e sensoriale dell'io con l'altro, e pone eccezionale cura nella riscoperta di una
dimensione “spaziale” e del “pensarsi come corpo che ascolta”. In particolare, un
ritardo dell'inizio dello spettacolo, un inconveniente di qualsiasi tipo sul palcoscenico, o
una distrazione dovuta a noia o ad altro in platea, costringono lo spettatore a pensare –
per impegnare una piccola porzione di tempo che può apparire lunghissima – i pensieri
più disparati e a “pensarsi” come corpo in attesa che qualcosa accada sotto un occhio
impietoso che guarda e che è il proprio, ovvero pensarsi come vedente visto, come
guardante guardato. Questa particolare condizione apre molti interrogativi e connota di
infinite sfumature l'esperienza spettatoriale, mostra in tutta la sua forza cosa possa
significare, oggi più che mai, “andare a teatro”, usare il proprio tempo per incontrare
l'arte in un luogo dato e in un tempo dato: scegliere di essere spettatori.
Peter Brook così rievoca una sua esperienza da spettatore in una soffitta ad
Amburgo: «Fummo rapiti da un teatro vivente. Rapiti. Che cosa significa? Non saprei.
So soltanto che quelle parole e quel tono di voce dolce e insieme serio rievocarono in
tutti noi un qualcosa che arrivava chissà da dove. Eravamo ascoltatori bambini attenti al
racconto di una favola della buona notte ma anche adulti perfettamente consapevoli di
tutto quello che stava accadendo»68. Qui Brook descrive una sorta di stato dissociato in
cui si è “dentro” all'esclusiva relazione “teatrale” instaurata con la scena, ma anche
dentro ad una relazione che potremmo definire di “comunità” in cui si riconosce, con
gli altri spettatori, come membro “adulto” e “consapevole” che sta semplicemente
assistendo ad uno spettacolo in una soffitta di Amburgo.
È lo svelamento di un gioco delicato fatto di distanze e di posizionamenti, un
gioco che il teatro è da sempre in grado di attivare proprio perché privilegia, nella sua
fruizione, aspetti gestuali, relazionali ed emozionali che altri tipi d'arte non attivano.
Fra questi sicuramente la pratica dell'ascolto intersoggettivo e il “posizionamento”
meritano un adeguato approfondimento da parte della pedagogia, poiché molto possono
dire del comportamento umano in ambienti educativi e molto sulle relazioni fra l'uomo
e l'alterità.
Ivano Gamelli, interrogandosi sul gesto materno e sulla “rotondità” delle
traiettorie possibili nelle relazioni umane, sul privilegiare comunicazioni non verbali né
unidirezionali, spiega: «L'indagine sul mistero della relazione umana, in particolar
modo di quella complessa e non meramente verbale della nostra vita individuale,
attraverso un approccio scientifico di stampo sperimentale ha aperto la strada alla
68 P. Brook, Lo spazio vuoto, Bulzoni Editore, Roma 1998, p. 89.
51
possibilità di interrogarsi sulla validità di metodi più ravvicinati, coinvolgenti
l'osservatore, aperti e aderenti al contesto vivo nel quale i fenomeni si manifestano.
Come una fotografia appare completamente sfocata se troppo ravvicinata, non vi può
essere conoscenza dell'altro nel caso in cui si finisca per perdersi e con-fondersi con
chi ci sta di fronte; all'opposto, ma allo stesso modo, nulla si può comprendere se ci si
mantiene troppo distanti, fino a perdere ogni contatto» 69. Né troppo vicino, né troppo
distante, lo spettatore a teatro è collocato, solo fra altri spettatori, nella posizione
privilegiata della relazione teatrale, che è relazione con l'alterità, con sé stesso e con
l'ulteriorità (dell'esperienza estetica).
Fin qui si è abitato la scena all'italiana, una platea ordinata e immersa in un
rassicurante buio, di fronte ad un palcoscenico illuminato. Storicamente è senz'altro il
cosiddetto teatro “politico”, “civile” o “sociale”, ed oggi con dicitura più ampia il teatro
“antropologico”, quello che, si è posto con maggiore attenzione la questione dello
spettatore, o per lo meno è quello che lo ha fatto in maniera più esplicita.
69I. Gamelli, Sensibili al corpo. I gesti della formazione e della cura, Meltemi, Roma 2005, p. 66.
52
II CAPITOLO
Il teatro come ambiente educativo
Un livello basico di interrelazione fra teatro e pedagogia può scaturire
dall'intendere il teatro innanzitutto come ambiente fisico e materiale in cui – prima
ancora di indagarlo come luogo in cui vi si possa condividere un'esperienza formativa
sia essa di natura prevalentemente estetica o pedagogica – vi si produce
“comunicazione” attraverso l’azione, ed è proprio da quest’aspetto che si può avviare un
suo accostamento con l’educazione.
L’educazione è fondata innanzitutto sulla comunicazione, come chiarisce Laeng
«Anche se abbraccia in sé molte attività, l’educazione esalta tuttavia un aspetto: quello
comunicativo. Tutte le azioni educative tendono a comunicare: percezioni e pensieri,
sentimenti e atteggiamenti. La comunicazione non si esaurisce nel trasferimento di
contenuti informativi, ma tende pure a influenzare il comportamento e quindi a tradursi
in azioni del soggetto destinatario»70. La comunicazione che il teatro ospita (in quanto
arte più di altre fondata sul rapporto “dal vivo” fra l’io che guarda e l’altro che agisce)
può essere implicitamente educativa, ovvero esserlo in quanto atto comunicativo fra
soggetti-persona che vogliono mettersi in relazione e partecipare ad un’azione teatrale
(chi come attore chi come spettatore), o esplicitamente educativa quando il contenuto
dell’azione teatrale in questione è di tipo “educativo”, cioè si pone l’obiettivo aperto di
educare, quindi in questo caso l’educazione interessa anche il messaggio veicolato e non
è solo implicita nell’atto comunicativo di tipo teatrale.
L’azione teatrale però non è automaticamente educativa solo perché sia il teatro
che l’educazione condividono la comunicazione come caratteristica basica. Nella
comunicazione teatrale abbiamo la presenza di molte sfumature, così come di limiti,
specialmente linguistici, e ostacoli che, anche se non devono essere considerati
negativamente, anzi, devono essere considerati come un’occasione preziosa di incontro
e apertura, esistono e agiscono da potente filtro proprio a livello comunicativo, poiché il
linguaggio teatrale, come ogni linguaggio dell’arte, necessita di interpretazione. È
nell’essenza stessa dell’arte il porsi come qualcosa da decifrare, da decodificare, ed è
proprio in questo importante processo “relazionale” che si articola il desiderio di
70
M. Laeng, “Educazione”, in Id. (a cura di), Enciclopedia pedagogica, La scuola, Brescia 1989, vol. III,
pp. 4221-4222.
53
conoscenza dell’uomo, la sua capacità immaginativa, la sua possibilità di libertà.
Il teatro si configura come un luogo anche fisico, ovvero un edificio deputato, in
cui “avvengono” delle azioni e soprattutto delle persone “vengono” ad assistere a queste
stesse azioni. Le azioni sono agite da qualcuno (l'attore) per qualcun'altro (lo spettatore),
creando così quella che gli studi d'impronta semiotica hanno definito “relazione
teatrale”71 ma soprattutto creando una comunicazione fra due soggetti-persona non
fondata sulla semplice trasmissione di informazioni quanto piuttosto sulla possibilità di
uno scambio interpersonale anche di tipo emotivo oltre che mentale, corporeo e aperto
all’esterno. In poche parole si tratta di una relazione che interessa sia la sfera
dell’interiorità come dell’alterità, contemporaneamente. Come contenitore materiale, ma
anche ideale e metaforico della relazione teatrale e, in seconda istanza e in un'accezione
ampia, della relazione formativa, il teatro può essere considerato un “ambiente
educativo” a tutti gli effetti.
Caratterizzandolo come ambiente educativo genericamente “extrascolastico” 72 il
teatro concorre, in sinergia con la famiglia primariamente nei bambini e in sinergia con
la comunità in adolescenti, adulti e anziani, all'educazione del soggetto in ogni fase della
sua vita, partecipando a pieno titolo, ma ancora non con l'adeguata considerazione da
parte degli studi di settore, alla cosiddetta lifelong learning73. In generale gli ambienti
educativi extrascolastici sono caratterizzati da un diffuso policentrismo e da una serie
anche di limiti ed ostacoli che ne rendono le qualità educative piuttosto sfumate o
comunque frutto di un “lavoro” progressivo di scoperta e di partecipazione, un lavoro
mai neutro, mai banale, mai scontato che deve compiere il soggetto-persona che vi
voglia accedere, anche e soprattutto attraverso l’espressione di un desiderio di
71Cfr. M. De Marinis, Capire il teatro. Lineamenti di una nuova teatrologia, Bulzoni, Roma 2008.
72«- Educazione ed extrascuola: la continuità e la reciprocità fra mondi scolastici ed extrascolastici sono
la premessa per non recare confusione nel percorso educativo del soggetto. L'extrascolastico favorisce
l'interiorizzazione di saperi, conoscenze, culture ed esperienze umane che vanno al di là dei compiti
sociali e educativi della scuola. Per questo, la frequentazione di ambienti quali musei, teatri, ludoteche,
biblioteche, archivi, luoghi dell'associazionismo laico e religioso, centri sportivi, circoli culturali arricchiti
da una opportuna “atmosfera” educativa, e non banalizzati nella routine di mode e riti effimeri o nelle
prassi di educatori incompetenti, restituisce al soggetto uno spazio e un tempo della vita che saranno
preziosi per la sua crescita libera, il suo sviluppo globale, la sua capacità di assumere il punto di vista
dell'altro. La risorsa presente in tali policentrismo delle occasioni educative non può essere abbandonata
al caso, ma va attentamente controllata dalla famiglia, dalla scuola, dalla società, dalle istituzioni statali
e/o locali» (M. Gennari, Trattato di pedagogia generale, Bompiani, Milano, 2006, pp. 58-59).
73«Il paradigma dell'apprendimento permanente (lifelong learning) costituisce il concetto-cardine che
l'Educazione degli adulti (EDA) ha elaborato a partire dagli anni novanta e riguarda le possibilità di
apprendimento nel corso della vita, in tutte le età, nei diversi contesti e per una pluralità di soggetti nella
convinzione che l'apprendere è l'attività precipua dell'essere umano e la risorsa primaria dell'agire
collettivo per promuovere l'inclusione sociale e la partecipazione attiva e democratica» (D. Sarsini, “La
pedagogia generale e le sue frontiere”, in F. Cambi, M. Giosi, A. Mariani, D. Sarsini (a cura), Pedagogia
generale. Identità, percorsi, funzione, Carocci, Roma 2009, pp. 154-155.
54
partecipazione, un atto di volontà. La dimensione extrascolastica, percepibile non solo
da bambini e ragazzi ma anche da adulti e anziani in un’accezione più ampia e generica,
mette in campo il concetto di volontà, ovvero dà forma al desiderio delle persone di
stare compiendo una scelta di libertà nel frequentare l’ambiente teatro. Anche le attività
scolastiche di tipo teatrale vengono “offerte” e mai imposte come obbligatorie, per i
fruitori di spettacoli teatrali e, soprattutto, di attività teatrali (laboratori, corsi,
allestimenti di spettacoli amatoriali), è essenziale che il soggetto-persona scelga di
parteciparvi liberamente.
Nella fruizione distratta in cui siamo immersi, pubblico passivo di un flusso
interminabile di immagini e suoni televisivi, o interattivi giocatori di infiniti livelli di
play station, o utenti multitasking di social network e interfacce digitali, scegliere di
andare a teatro, di fruire di uno spettacolo o di frequentare un laboratorio teatrale
diventa di per sé una scelta di incontro con l’altro, l’impulso a rendersi disponibile ad
una comunicazione umana. Al di là delle esigenze e delle aspettative personali, che
possono essere le più diverse in quanto possono essere dettate tanto da interessi culturali
come anche dal semplice fatto di accompagnare un conoscente a vedere uno spettacolo a
cui non si è interessati in alcun modo, è sempre e comunque importante, ai fini
pedagogici, questo passaggio della “scelta” che si verifica nel frequentare l’ambienteteatro e poi, ancora di più, nel partecipare ad un’esperienza teatrale senza alcuna forma
di obbligo derivante da istituzioni scolastiche, agenzie formative, esigenze familiari,
sociali o economiche.
Questo passaggio relativo allo “scegliere” di andare a teatro, anche quando non è
un atto di volontà consapevole, è un passaggio importante poiché ha ricadute nella
specificità artistica del teatro, mette in gioco la relazione teatrale nella sua natura più
intima e vera. La scelta implica un atto di responsabilità, a differenza del cinema e di
altre forme di spettacolo tecnicamente riprodotte, ciò che accade sul palcoscenico a
teatro accade perché lo spettatore c’è; ogni singolo spettatore ha la responsabilità della
stessa presenza fisica dell’attore in scena. L’attore va in scena perché lo spettatore è in
platea, senza spettatore l’attore non va in scena. In un’epoca in cui anche le famiglie
comunicano sulle grandi distanze come anche da una stanza all’altra del medesimo
appartamento utilizzando le tecnologie digitali, il teatro resiste come uno dei pochi
luoghi in cui c’è bisogno della compresenza dal vivo per comunicare, il teatro per
esistere necessita dell’esserci in un dato luogo ad una data ora, e chiede la puntualità e le
porte chiuse per i ritardatari. A teatro l’attore recita per te, può sbagliare per causa tua,
55
può essere eccezionale grazie alla tua attenzione ed energia, non esiste se tu decidi di
non andare a vederlo.
È dall’importanza “vitale” della comunicazione teatrale che prende forma la
relazione, e si sostanzia attraverso diversi livelli – poetici, estetici, morali, linguistici –,
livelli che possono darsi come occasioni di comprensione o di incomunicabilità, come
aperture del senso o come chiusure dell’intelletto, come superamento delle proprie
conoscenze o come limiti del sapere. Tutti i diversi livelli di comunicazione in gioco
rendono la relazione formativa estremamente ricca e complessa, scandiscono la
fondamentale reciprocità che deve regolare ogni relazione (io/altro, attore/spettatore) e
implicano una presa di coscienza e un atto di responsabilità delle parti in gioco.
Dinamizzano la relazione e la avverano, sempre, al di là delle possibili ricadute (positive
o negative) in ambito formativo. Questo accade con l'ambiente-teatro poiché si tratta di
un ambiente in cui gli aspetti educativi e formativi pur non incarnando in partenza la
finalità principale del suo esistere, essi ne possono però scaturire come conseguenza del
suo darsi come comunicazione relazionale umana a vocazione artistica, o come attività
artistica a vocazione relazionale umana.
L’attività teatrale è generata in un alveo tradizionalmente ritenuto culturale che ne
mantiene l’intenzionalità artistica, per cui è riconosciuta generalmente come attività
artistica indipendentemente dalla qualità estetica che può o non può esprimere. È il
presupposto riconosciuto dell’appartenenza del teatro all’arte, anche quando l’arte
sparisce dalla performance e dallo spettacolo per lasciare il posto a un vuoto ripetersi di
testi, formule e metodi che possono travisare la natura stessa del teatro. Non tutto il
teatro è arte, esiste tutto un proliferare di forme di spettacolo dal vivo che pur venendo
agite nei teatri pongono la relazione teatrale in secondo piano, ne allentano il legame di
necessità ed interdipendenza che lega attore e spettatore, e si concentrano o sugli aspetti
più spettacolari della messa in scena (per stupire con effetti speciali lo spettatore – che a
questo punto può anche non essere in platea ma davanti ad uno schermo in HD) o sugli
aspetti più divertenti (per intrattenere lo spettatore – che anche in questo caso può ridere
a crepapelle sul divano di casa propria).
Le forme di spettacolo concepite come “dal vivo” ma che non puntano su una
dimensione umana ed umanizzante della relazione teatrale, ovvero sono più interessate
ai grandi numeri del pubblico da stadio o televisivo piuttosto che a quelli a due o tre zeri
degli spettatori teatrali, sono forme di spettacolo che vengono poi rilanciate, spesso a
intervalli di tempo sempre più piccoli quando non in diretta, su tutti gli altri mezzi di
56
comunicazione: televisione, internet e supporti digitali destinati alla vendita. In genere
per queste forme di spettacolo l’aspetto educativo può essere secondario e anche
irrilevante, ma ciò non significa che sia assente, poiché il valore dell’esperienza
educativa ed estetica può esulare dagli intenti perseguiti dall’opera, può scaturire
dall’esperienza stessa e dalla condivisione con la micro comunità a cui si aspira ad
appartenere, o semplicemente dall’emozione che può sorgere dalla fruizione di uno
spettacolo che pure mira a stupire o solo ad intrattenere.
Tutto può accadere, anche di emozionarsi e di comprendere qualcosa di se stessi e
degli altri davanti ad uno scadente spettacolo di cabaret, uno spettacolo scadente in cui il
cabarettista riesce a catturare l’attenzione dello spettatore al punto che questi, seduto in
platea (o sul divano di casa) possa sentire per un attimo la sensazione precisa di essere
parte del discorso, l’altro di una relazione, imperfetta, debole, ambigua, ma pur sempre
una relazione.
L’aspetto interessante che il teatro aggiunge alla relazione io-altro, connotandola e
specificandola in quella attore-spettatore, è quello della dimensione artistica e culturale
che agisce come un filtro e aggiunge stratificazioni di senso alla comunicazione. Persa
la funzionalità e la finalità della comunicazione quotidiana dettata sempre dalle mille
esigenze di carattere personale, politiche, familiari e economiche, la comunicazione a
teatro si inspessisce nella poesia, in essa perde il portato contingente per tendere a
quello universale. Gli spettatori che frequentano il teatro cercano questo anelito
all’universale – più o meno consciamente – e questa ricerca li differenzia dal pubblico
televisivo che non ricerca niente ma vuole solo “sopportare” o impegnare il proprio
tempo (soprattutto il tempo già impegnato in mille altre attività).
Intendere il teatro come ambiente educativo oggi significa anche riconoscergli il
senso di un luogo che più di altri, in maniera “elettiva” si potrebbe dire, offre (e si offre
come) la possibilità della comunicazione relazionale fra soggetti-persona. In un'epoca in
cui i media sono sempre più “ridotti” a contenitori, strumenti e tramite, di un flusso
ininterrotto e onnicomprensivo di informazioni, il teatro ripristina, con tutte le sue
contraddizioni e limiti, la comunicazione fra uomo e uomo in una dimensione di
tangibile “umanità” e “relatività”. Il teatro, per sua specificità costitutiva, si configura
come il luogo più restio alla medialità assolutizzante, pervasiva e superficiale
dell'informazione contemporanea, sottraendovisi nel nome di una materialità che ospita
l'incidente, l'errore, il limite così come il corpo, la memoria, la poesia.
57
Il teatro è avulso dalla quotidianità 74, diverso dalle forme di comunicazione
“mediate” dalla tecnologia; per esistere al suo grado zero ha bisogno di due esseri umani
in comunicazione fra loro, con o senza suono, con o senza gesto, con o senza sguardo. A
questo proposito la differenza fra comunicazione e informazione è sostanziale poiché
l'azione teatrale ha un valore intrinseco, che “in-forma”, sostanzia e precede ciò che
comunica.
Con De Marinis consideriamo superato il dibattito relativo alla possibilità o meno
del teatro di comunicare, e diamo per certa la comunicazione a teatro 75, tenendo sempre
aperta però la questione delle “modalità” con cui la comunicazione può attuarsi. E la
prima modalità, quella fondamentale e fondativa, è quella della “presenza dal vivo” dei
due elementi della relazione. A teatro l'attore comunica già con il suo esserci, così come
lo spettatore. Il contenuto della comunicazione è, a teatro, secondario rispetto l'azione
comunicativa in sé (che può interessare il linguaggio verbale, gestuale o visivo, ecc.). Il
teatro, inteso come ambiente educativo, riporta la comunicazione alla sua essenza
primaria: l'atto comunicativo, l'azione relazionale. Deve esserci l'attore e deve esserci lo
spettatore, deve esserci l'io e deve esserci l'altro. Anche nella quotidianità questo accade,
può accadere, certo. Perché allora il teatro? Cosa aggiunge il teatro? L'occasione,
l'opportunità, la non casualità: l'hic et nunc che serve ad “incontrarsi”, anzi a “trovarsi”
e a “volersi trovare” come atto di desiderio, volontà, partecipazione e responsabilità.
Eliminare la casualità dalla relazione “teatrale” nella sua vicinanza con quella
74 «I bambini, e non di meno gli adulti, in sostanza, sono distratti. Sono abituati a fruire le sollecitazioni
multimediali in modo incostante e spezzettato, in alternanza ad altre numerose attività che si intrecciano,
nella quotidianità, con quella della fruizione di uno spettacolo. Giunti in teatro, in un luogo deputato alla
manifestazione di una messinscena teatrale, si sentono smarriti, privati di quegli appigli “distrattori” che
di norma li circondano ed ai quali si aggrappano. Il teatro rimette, o dovrebbe rimettere, tutto nuovamente
in gioco. Entrando in teatro è un po’ come se ci si sentisse “nudi”, e per questo disorientati.
Sensorialmente ed esperienzialmente nudi. Non c’è il telefono di casa che squilla, non c’è il cellulare (o
almeno non dovrebbe esserci) che manda messaggi, che emette suoni, che ci ricorda appuntamenti e
ricorrenze o che ci fa giocare, non vi sono le incombenze della vita quotidiana che invece si presentano
regolarmente quando siamo a casa, non vi sono i genitori (o i figli, i fratelli, i coniugi, ecc.) che stressano
e che ci richiamano a diverse occupazioni, non c’è il campanello di casa che suona. Il teatro, insomma, è
avulso. Avulso e dunque isolato, in un certo modo, dalla datità della quotidianità. Ed è proprio questo suo
isolamento che ne costituisce, in buona parte, una delle sue specificità fondamentali, probabilmente una
delle più caratterizzanti» (B. Zucchermaglio, Per un teatro educativo dell’oggi, in
www.educateatro.oneminutesite.it).
75«[...]: perché si dia comunicazione è sufficiente (oltre che necessario) che il ricevente conosca il(i)
codice(i) dell'emittente (senza che egli stesso debba trasformarsi in emittente a sua volta). Si verifica
questo a teatro? Diremmo di sì, almeno in parte e almeno per una parte del destinatario collettivo.
Decisiva appare al riguardo la molteplicità dei codici messi in gioco dallo spettacolo teatrale. Si può
infatti supporre che – grazie agli effetti di ridondanza che inevitabilmente produce (cfr. Corvin, 1978 – la
pluricodicità garantisca, almeno in linea di principio, che un certo grado (sia pur minimo di comprensione
(e quindi di comunicazione) si realizzi sempre, anche per quegli spettatori ai quali una scarsa competenza
teatrale (o altre circostanze) non provveda una conoscenza adeguata dei codici e delle convenzioni del TS
(di quel dato TS) [...]» (M. De Marinis, Semiotica del teatro. L'analisi testuale dello spettacolo,
Bompiani, Milano 1982, pp. 160-161).
58
“formativa” (con cui pure non coincide) è passaggio essenziale per non cadere nel
tranello delle teorie di sociologia del teatro che considerano la vita quotidiana come
rappresentazione, con tutto quello che ne consegue in termini di riflessione sull’identità
delle categorie di società e di teatro 76.
Non c’è niente di casuale nel teatro, può esserci l’errore, l’inciampo, l’improvviso
accadere, ma il teatro è per eccellenza il luogo dell’accadimento e della
rappresentazione dell’accadimento. Per Jean-Luc Nancy77 il teatro è l’arte che
rappresenta proprio la questione del “posizionamento” dell’uomo nel mondo, un
dimensionamento dato dall’esserci come presenza e come presentarsi al mondo qui e
ora. Lo stare sul palcoscenico come lo “stare al mondo” dell’uomo” è metafora ma non
è solo metafora, perché condiziona e caratterizza il teatro come arte del corpo umano
vivente pensante comunicante con l’altro.
Intendere il teatro come ambiente educativo significa, soprattutto ad un livello
introduttivo, isolare le caratteristiche generali dell'ambiente teatrale cercando di
prescindere il più possibile dai “contenuti” particolari che vi possono trovare luogo,
ovvero dalle rappresentazioni teatrali e dai relativi argomenti in esse trattate. Significa
partire da un processo di astrazione, da un ragionamento teorico, che possa aiutare a
discernere gli elementi costitutivi del teatro per poi individuarne le possibili influenze e
applicazioni di ordine pedagogico, nella società attuale.
Nell’indicare la pertinenza del teatro come oggetto di studio, si propone di
ripercorrere le principali teorie che lo interessano dalle origini ad oggi, seppur
sommariamente, per verificare attraverso l'implacabile lente della testimonianza storica
e storiografica, se esso possa essere considerato primariamente un efficace e attuale
ambiente educativo e, in seconda istanza, un luogo, non solo e non tanto fisico e
materiale, quanto e soprattutto potenziale ed ideale di formazione del soggetto nella
contemporaneità, ovvero un luogo privilegiato di esperienza pedagogica. Obiettivo
complessivo è quello di comprendere se e come, in quanto arte problematica, il teatro
possa partecipare in maniera originale e specifica alla formazione dell'uomo
contemporaneo. Se si vuole ribaltare la prospettiva, si tratta di inscrivere l'esperienza
teatrale in senso ampio, ovvero dalla dimensione che vede lo spettatore come un
semplice fruitore “inconsapevole” fino a quella in cui il soggetto-persona si fa attore e si
mette in gioco in maniera “consapevole”, in un progetto complessivo e articolato che è
quello della formazione – estetica, culturale, democratica, umana – del cittadino del
76 Cfr. M. De Marinis, Capire il teatro, op. cit., pp. 80-98.
77 J.-L. Nancy, Corpo teatro, Cronopio, Napoli 2010.
59
XXI secolo.
2.1 Un'arte problematica
La problematicità del teatro in quanto arte è diversa per impostazione generale da
quella che abbiamo delineato – seppur sommariamente – in riferimento alla pedagogia
nel precedente capitolo, innanzitutto perché non esiste una teoria del teatro, ma piuttosto
un corpus eterogeneo composto da molteplici teorie del e sul teatro, né esiste una
scienza pacificamente definita e unanimamente riconosciuta come “teatrologia” che
abbia raggiunto completezza e maturità tali da poter funzionare da riferimento
esaustivo. Esistono la storia del teatro e diverse teorie del teatro frutto di discipline
diverse (sociologia, semiologia e antropologia, per citare i filoni di studio più indagati)
che con modalità e caratteristiche proprie offrono contributi importanti, seppur parziali,
all'interno di un quadro teorico complesso e complessivo ancora in divenire e soprattutto
caratterizzato da una forte interdisciplinarità.
Esiste il teatro in quanto arte e, da sempre, la filosofia – quel settore della filosofia
chiamata estetica – se ne è interessata oscillando fra i poli opposti del riconoscergli un
ruolo di primo piano fra le arti o quello di una subalternità tale da metterne in dubbio la
stessa appartenenza al dominio dell'arte. Ma non è certo questa la sede in cui ricostruire
il variegato dibattito sullo statuto ontologico del teatro o in cui ripercorrere tutta la
riflessione teorica ad esso riferibile. Si parta dal punto fermo per cui il teatro è un'arte
(caratterizzata da sue proprie specificità) e la riflessione ad esso dedicata non è
patrimonio esclusivo della filosofia estetica, sebbene l'estetica sia il settore della
filosofia che se ne è occupato con maggiore continuità.
Il teatro è un'arte immateriale e fuggevole, in questo senso è vicina alla musica.
Spesso nasce a partire da un testo scritto, ma non può essere identificata con esso. È
sostanzialmente votata alla costruzione di immagini e, come tale, è figlia della pittura e
della scultura. Rappresenta corpi, suoni, colori senza però fissarli su alcun supporto
materiale: né una fotografia o una statua può dirsi teatro, né un disco o un cd, né una
tela o un video; eppure testi drammatici, fotografie, cd e video possono, tutti insieme e
per quanto in modo frammentario, documentare il teatro, darci un'idea di cosa esso sia e,
soprattutto contribuire al suo stabilizzarsi come “oggetto di studio”.
In questo senso il lavoro dello studioso del teatro è un lavoro contraddittorio e
paradossale, che implica l'uso di strumenti sempre parziali e, al pari del lavoro dello
scienziato, da una parte obbliga all'osservazione diretta del fenomeno mentre dall'altra,
60
al pari dell'archeologo, conduce alla ricostruzione storica di ciò che è passato, non c'è
più. Spiega De Marinis: «In effetti, il lavoro dello studioso di teatro è segnato alla base
da una contraddizione grave, che rischia spesso di assumere i caratteri di una vera e
propria aporia. Da un lato egli, in quanto studioso di avvenimenti, si occupa di oggetti
che letteralmente non esistono (non esistono più) nel momento in cui se ne occupa, cioè
di oggetti effimeri e transitori, come tutti gli eventi (egli quindi a ben guardare - […] non fa storia del teatro ma soltanto storia dei documenti sul teatro); dall'altro lato, i
documenti di cui si serve, cioè i documenti che parlano di questi avvenimenti, che gli
eventi teatrali lasciano dietro di sé quali loro uniche tracce, sono – come tutti i
documenti, e in quanto tali – soggettivi, parziali, elusivi, incompleti: insomma dei
“monumenti”, al limite sempre menzogneri, [...]» 78.
Nel fare riferimento alla pluricodicità del teatro, occorre però anche considerare
che l'intera storia del teatro (e di conseguenza la riflessione sul fenomeno teatrale), per
diverse ragioni, che vanno da motivi di necessità contingente a motivi ideologici, è stata
segnata e condizionata dal prevalere di un particolare codice su tutti gli altri, ovvero
quello della scrittura – codice che in alcune epoche è risultato tanto egemone da portare
all'identificazione del teatro con la produzione di letteratura teatrale. Si genera quindi un
altro paradosso – oltre a quello indicato da De Marinis – per cui il documento (in questo
caso la scrittura drammatica) che deve essere considerato come “parziale” diventa
l'oggetto stesso di studio “intero”, trattato come unico e identificato come il fenomeno
nella sua totalità (il teatro), mettendo da parte, oltre alla parzialità, il vero ruolo della
drammaturgia e la sua “funzionalità” primaria, che è quella di darsi come testo da
“mettere in scena”, quindi pre-testo in funzione del testo vero e proprio che è il testo
spettacolare (lo spettacolo).
L'ulteriore paradosso a cui si faceva riferimento sta quindi nell'affidare ad un
documento
destinato
a
partecipare
allo
spettacolo
e
persino
ad
essere
trasformato/tradito/annullato nello spettacolo, il compito esclusivo di testimoniarlo.
Questo aspetto verbocentrico condiziona di fatto tutta la teoria del teatro fino al
Novecento, e in particolare fino all'avvento degli studi di semiotica del teatro; il teatro
non è (solo) parola scritta, sebbene ciò che il teatro è stato ed è tutt'oggi appaia
strettamente legato alla produzione drammatica che, per secoli, ci ha consegnato una
traccia tangibile di questo straordinario fenomeno artistico. I filosofi, gli studiosi e
soprattutto i critici hanno dovuto fare i conti con l'inafferrabilità dell'oggetto “teatro” e
78M. De Marinis, Capire il teatro. Lineamenti di una nuova teatrologia, Bulzoni, Roma, 1999, p. 209210.
61
questo ha provocato una virata significativa dallo spettacolo al testo drammatico, poiché
quanto il primo si dava come astratto, tanto il secondo risultava concreto e, come tale,
analizzabile con la dovuta attenzione e accuratezza.
Ci ricorda P. Pavis, in quello strumento di eccezionale sintesi dei saperi del teatro
che è il suo Dizionario del teatro, che la posizione logocentrica ha dominato gli studi
teatrali praticamente dalle origini fino al secolo scorso: «Per molto tempo – da
Aristotele fino alla fine del secolo scorso, agli albori della regia come pratica applicata
sistematicamente con la sola eccezione degli spettacoli popolari o delle pièces à grand
spectacle – il teatro è rimasto prigioniero di una concezione logocentrica. Tale
attitudine, sia essa caratteristica della drammaturgia classica, dell'aristotelismo o della
tradizione occidentale, ha per risultato quello di considerare il testo elemento primario,
struttura profonda e contenuto essenziale dell'arte drammatica. La scena (lo
“spettacolo”, l'opsis aristotelica) verrebbe dopo, come espressione superficiale e
superflua che si rivolge ai sensi e all'immaginazione e distoglie il pubblico dalle
bellezze della vicenda e dalla riflessione sul conflitto tragico» 79.
La centralità riconosciuta al testo, ovvero alla parola scritta, si consolida in
rapporto alla secondarietà della scena, ovvero all'inafferrabilità dello spettacolo. I motivi
sono di ascendenza filosofica e teologica in quanto nella tradizione del pensiero
occidentale è la parola che “fonda” il mondo attraverso l'atto linguistico del nominarlo
(attraverso l'imposizione del nome), così come è la parola, soprattutto nell'ottica
cristiana, l'unica e possibile depositaria della verità. Ma i motivi sono anche –
banalmente – di natura materiale e contingente poiché il testo scritto è ciò che rimane,
ciò che sopravvive all'esperienza spettacolare, ciò che del teatro può facilmente essere
conservato per i posteri, soprattutto nell'antichità.
Esperienze fra le più importanti dell'arte teatrale, quali la tragedia classica greca o
il teatro elisabettiano, sono state per secoli oggetto di riflessione teorica e filosofica da
parte dei maggiori pensatori del mondo occidentale, proprio grazie al fatto che se ne è
potuta tramandare la parte scritta, ma questa certezza data dallo scripta manent ha finito
per oscurare le altre componenti di un fenomeno ben più vasto e articolato, di cui la
storia ci ha restituito pochi elementi frammentari. I vuoti conoscitivi che si sono formati
a fenomeni teatrali conclusi si sono cristallizzati in alcune lacune ormai insormontabili,
con cui gli studiosi di teatro devono tutt'oggi fare i conti. Anche i ricercatori più
sensibili si sono dovuti scontrare sempre con l'aspetto effimero e inafferrabile del teatro,
79P. Pavis, Dizionario del teatro, Zanichelli, Bologna 1998, p. 487 (testo e scena).
62
quell'aspetto di fronte al quale si è dovuto sperimentare la propria limitatezza: lo
spettacolo, irriproducibile per statuto, inafferrabile per natura.
Dello spettacolo, dalle origini fino all'invenzione della fotografia e in particolare
all'uso della fotografia “di scena” – lasciando quindi fuori l'epoca moderna con la
diffusione delle vecchie (analogiche) e nuove (digitali) tecnologie -, poco o nulla rimane
di tangibile da conservare e tramandare, giusto qualche disegno, stampa e/o bozzetto, e
in massima parte documentazioni scritte (descrizioni, recensioni, ecc.).
Lo spettacolo storicamente si caratterizza come oggetto di studio sempre
controverso e frutto della “soggettività” degli spettatori coevi che, in base alle loro
specifiche e diverse capacità, ce ne hanno restituito testimonianza parziale e diretta,
spesso principalmente a parole attraverso diverse forme di scrittura, sia che si trattasse
di una scrittura di tipo giornalistico (saggi, recensioni, note, pezzi di costume e colore),
sia che si trattasse di una scrittura più intimistica (diari, note, autobiografie) o narrativa
(racconti, romanzi, altri testi teatrali), mentre un'altra possibile fonte di ricostruzione
interessante è rappresentata dalle testimonianze “contro” il teatro, poiché di quest'arte
effimera la censura sia religiosa sia politica se ne è sempre interessata (con critiche
censorie, divieti, pamphlet, sentenze, atti giudiziari). L'esistenza dello spettacolo diventa
più tangibile a mano a mano che si sviluppa la tecnologia riproduttiva, per cui con
l'ausilio della fotografia e delle registrazioni sonore prima, dei video analogici e digitali
dopo, è stato possibile documentarlo audiovisivamente fino alla sua riproduzione
integrale (considerando sempre la parzialità del punto di vista del regista video).
Il rispetto e l'attenzione riservata dagli storici e dai critici letterari al testo scritto
teatrale ha avuto il doppio pregio di tramandarlo all'umanità come traccia dell'esistenza
di spettacoli passati (al di là della loro qualità intrinseca) e di consegnarlo a successive
generazioni di studiosi che, non più vincolati dalle contingenze del tempo, hanno potuto
valutarlo o rivalutarlo alla luce dei mutati contesti. Scrive Lessing a questo proposito
nella Presentazione al suo Drammaturgia d'Amburgo: «Il giudizio su di un autore può
sempre mutare; la sua opera resta e può esserci messa sotto gli occhi ad ogni momento.
Ma l'arte dell'attore è effimera nelle sue manifestazioni; ciò che in essa vi è di buono e
di cattivo si dimentica presto, e non di rado è piuttosto l'umore dello spettatore che non
le qualità dell'interprete a generare in lui un'impressione particolarmente viva. Una bella
figura, un'espressione avvincente, uno sguardo eloquente, un'andatura graziosa, un
amabile tono, una voce melodiosa, sono cose che male si possono esprimere con le
parole; ma non sono neppure le uniche e più alte doti [Vollkommenheiten] di un attore.
63
Preziosi doni della natura, estremamente necessari al suo mestiere, sono assai lungi
dall'essere sufficienti. Egli deve pensare con l'autore, e soprattutto pensare per lui
quando questi abbia commesso qualche pur scusabile errore» 80.
Nel 1767 Lessing, in questo suo articolo programmatico – il primo dei cento di cui
si sarebbe infine composto il volume ultimato due anni dopo – pone l'attenzione su una
questione cruciale e anticipa un'importante riflessione sul ruolo dell'attore. La questione
cruciale è la natura effimera dello spettacolo, da Lessing in maniera profetica indicato
nelle “manifestazioni” dell'attore. Pur non utilizzando il termine “spettacolo” è l'attore
che si accolla la responsabilità della rappresentazione scenica, dell'offrirsi allo
spettatore. In questo suo darsi ne condivide la responsabilità con l'autore ma, sottolinea
Lessing, l'autore è in questo privilegiato perché produce un testo scritto che può essere
letto e riletto e quindi eventualmente rivalutato nel corso degli anni. La drammaturgia si
sottrae così all'evanescenza di una fruizione che è sempre parziale e soggetta a molti
fattori di natura diversa, fra cui anche l'insondabile e volubile umore dello spettatore.
Al di là delle caratteristiche oggettive riconosciute alla drammaturgia nel suo
darsi primariamente come opera letteraria, in Lessing il passaggio che si prospetta più
interessante è invece quello successivo, in cui viene anticipata una preziosa riflessione,
senz'altro da approfondire, relativa al ruolo dell'attore. Quest'ultimo, oltre a produrre con
la propria presenza e il proprio lavoro un'arte effimera che non concede la possibilità di
un'eventuale rivalutazione, può avere riconosciuti, fra i suoi compiti, anche quello di
“intervenire” sul testo drammatico, migliorarlo, completarlo con le sue doti, “pensare
con l'autore, e soprattutto pensare per lui” nel caso in cui l'autore avesse commesso
qualche errore. Si tratta, seppure in abbozzo, di un concetto di “interpretazione” del
testo teatrale – con l'anticipo di tutto il dibattito a esso connesso sulla fedeltà e
l'infedeltà nella traduzione scenica – che viene posto da Lessing con grande naturalezza,
come se intendere l'attore anche come co-autore del dramma fosse un ragionamento
scontato. In realtà non è affatto un ragionamento scontato, e non lo è in particolare
facendo riferimento ai tempi, poiché ripercorrendo, ad esempio con Marvin Carlson 81 le
teorie del teatro dalle origini al Novecento, emerge come l'attore diventi oggetto di
studio e di riflessione critica – a parte qualche piccola incursione in studi che non si
occupano specificatamente dell'attore ma più in generale della drammaturgia o del teatro
– solo nel XVIII secolo inoltrato.
80G. E. Lessing, Drammaturgia d'Amburgo, Bulzoni, Roma 1975, p. 7-8.
81M. Carlson, Teorie del teatro. Panorama storico e critico, Il Mulino, Bologna 1988.
64
A grandi linee il Paradosso sull'attore di Denis Diderot82, pubblicato nel 1770,
può essere definito il primo contributo sistematico sull'arte dell'attore in cui vengono
focalizzate alcune problematiche fondamentali che concernono la recitazione ma che
hanno ricadute anche sui concetti di drammaturgia, di spettacolo e di spettatore.
La teoria del teatro, di qualunque matrice essa sia, deve innanzitutto riferirsi al
teatro come evento complesso di cui la scrittura rappresenta solo un aspetto fra altri, non
necessariamente il più importante, ma neanche necessariamente l'ultimo, il meno
importante. Oggi più che mai occorre evitare sia l'atteggiamento “filologico” che quello
“scenologico”: «Nella tradizione occidentale, il testo drammatico resta una delle
componenti essenziali della rappresentazione. Per lungo tempo addirittura lo si è
assimilato al teatro per eccellenza, non accordando alla sua rappresentazione che un
ruolo accessorio o facoltativo. Le cose sono tuttavia radicalmente cambiate con il
riconoscimento, verso la fine del XIX secolo, della funzione del regista riconosciuto
capace (o colpevole?) di imprimere al testo messo in scena il marchio della sua visione
personale. Per il teatro di messa in scena è allora logico portare l'analisi sull'insieme
della rappresentazione, invece di considerare quest'ultima come derivata dal testo. Per
contro, il testo drammatico è stato ridotto a una sorta di accessorio ingombrante,
lasciato, non senza disprezzo, a disposizione dei filologi. Si è così passati, nell'arco di
50 anni, da un estremo all'altro, dalla filologia alla scenologia. Forse è tempo di
ristabilire un po' più di equità, e se possibile di finezza: non di ritornare alla visione
puramente letteraria del teatro, ma di riconsiderare il posto del testo all'interno della
rappresentazione; non più di discutere all'infinito se il teatro sia letteratura o spettacolo,
ma di distinguere il testo quale noi lo leggiamo nel programma di sala e il testo quale lo
percepiamo nella messa in scena»83. L'invito all'equità lanciato da Pavis non è solo un
invito a mettere da parte i punti di vista estremi e forse, inutilmente ideologici sul teatro,
è piuttosto un voler ricordare agli studiosi, sempre, la complessità dell'evento teatrale
che è frutto di un'arte che si consuma sul palcoscenico ma ad esso arriva da un percorso
di lavoro “in-visibile” di regista e attore, e ad esso sopravvive nella “condi-visione” con
lo spettatore.
È necessario, ad esempio, che la teoria del teatro, pur volendo mettere in posizione
predominante la scrittura drammaturgica per considerarla come elemento principale di
analisi e riflessione, non dimentichi che essa altro non è che una fase transitoria della
82D. Diderot, Paradosso sull'attore, Editori Riuniti, Roma 1993.
83P. Pavis, L'analisi degli spettacoli. Teatro, mimo, danza, teatro-danza, cinema, Lindau, Torino, 2004, p.
245.
65
parola, una fase che c'è prima dello spettacolo e che nello spettacolo diventa altro, che
da parola scritta diventa voce e suono, parola detta, pronunciata, urlata, cantata,
balbettata, bisbigliata, taciuta dall'attore, e poi ancora parola ricordata, conservata,
trasformata, travisata, dimenticata dallo spettatore. Dalla scrittura del testo drammatico
alla sua pronuncia per l'ascolto nello spettacolo, quindi dalla letteratura/lettura verso il
suono e la musicalità, si inizia a delineare quella che dell'arte teatrale è la caratteristica
specifica: la multicodicità.
Non solo la parola a caratterizzare l'arte teatrale, ma anche la parola a
caratterizzarla insieme e accanto all'immagine, all'architettura dello spazio scenico, alla
musica e alla danza eseguite in scena, all'apparato di luci, colori e odori che si attivano
sul palcoscenico e all'interno dell'edificio teatrale tutto. Una multicodicità che si
manifesta come ricchezza sensoriale offerta allo spettatore, organizzata dal regista,
rappresentata/vissuta dall'attore in un evento che si svolge in un luogo (che può essere il
palcoscenico)
e
in
un
tempo
(che
interessa
la
durata
dello
spettacolo/evento/performance) definito e irripetibile. Lo spettacolo è fatto di corpi, di
musiche e suoni, di immagini dipinte e tridimensionali, di giochi di luci e di movimenti
scenici. Quindi sempre il teatro non è né scultura, né pittura, né musica, né danza, né
letteratura, però sempre il teatro è anche scultura, pittura, musica, danza e letteratura (o
poesia), dentro un evento che nell'hic et nunc si dà allo spettatore e ne coinvolge i sensi
in modo sinestetico.
Proprio a causa di questo suo caratterizzarsi come contenitore di tutte le arti, e a
causa di questo suo offrirsi come evento totalizzante, la teoria filosofica si è spesso
avvicinata in maniera “parziale” al teatro, sviluppandone in maniera profonda alcune
caratteristiche specifiche e mettendone da parte altre. Eppure già Aristotele ricordando
l'origine del termine “dramma”, dal verbo greco dran che significa “agire”, aveva
individuato dell'arte drammatica la caratteristica principale proprio nell'azione scenica,
orientando quindi tutto l'interesse verso l'azione stessa, ma anche verso “chi” la compie
e “come” la compie. Infatti nella Poetica si ha la sintetica ed eccezionale definizione di
“favola” in quanto “mimèsi dell'azione” che va proprio in questa direzione84, così come
l'elenco degli elementi costitutivi del teatro a cui appartiene “lo spettacolo”, ovvero il
“modo” della tragedia85. Nel corso dei secoli, la lucida lettura del fenomeno tragico
84« Ma siccome la tragedia è mimèsi di un'azione, e un'azione implica un certo numero di persone che
agiscono, le quali non possono non avere o questa o quella qualità sia riguardo al loro carattere sia
riguardo al loro pensiero - […] - così dunque mimèsi dell'azione è la favola: e qui io attendo per favola la
composizione di una serie di atti o fatti» (Aristotele, Poetica, in Opere 10, Laterza, Roma-Bari, 1992, p.
204).
85«Sono sei dunque gli elementi costitutivi di ogni tragedia, onde resulta quel carattere speciale che
66
proposta da Aristotele è stata oggetto di fraintendimenti, travisamenti e parzialità che ne
hanno fatto perdere la lezione primaria della complessità e multicodicità dell'evento
teatro, lezione che verrà recuperata tardi nell'ambito della stessa pratica teatrale
attraverso la “nascita” del regista e del concetto di regia, e che verrà letta ancora più
tardi dagli studiosi del teatro in un'ottica prevalentemente d'impronta semiotica.
distingue la tragedia [da altre composizioni letterarie]: e sono, la favola, i caratteri, il linguaggio, il
pensiero, lo spettacolo e la composizione musicale. Di questi sei elementi due concernono i mezzi della
mimèsi, uno il modo, tre gli obbietti; oltre a questi non c'è altro. E non è certo piccolo, per dir così, il
numero dei poeti che hanno adoprato tutt'e sei questi elementi; né c'è infatti tragedia la quale non abbia,
alla pari di ogni altra, spettacolo, carattere, favola, linguaggio, canto, pensiero» (Ibidem).
67
2.2. Il teatro e il panorama teorico-critico.
Nell'affrontare in maniera organica il frastagliato panorama di studi e ricerche
critiche e teoriche sul teatro, Marvin Carlson, nel suo Teorie del teatro (New York,
1984) ribadisce come sia operazione incontestata partire sempre da Aristotele, poiché
«Non soltanto la Poetica è la prima opera significativa della tradizione, ma i suoi
concetti principali e le linee portanti delle sue argomentazioni hanno costantemente
influenzato lo sviluppo della teoria attraverso i secoli. La teoria del teatro in Occidente
comincia essenzialmente con Aristotele» 86.
Il primato della Poetica, nel darsi come riferimento imprescindibile di ogni
successiva speculazione teorica sull'argomento, con le inevitabili fasi alterne di fortuna e
fraintendimenti, e la sua continuità fino ai nostri giorni, si articolano soprattutto intorno
a un paio di questioni, fra queste è da sottolineare come il dibattito intorno al concetto di
katharsis sembra costituire il nodo centrale da cui scaturiscono tutte le problematiche
attinenti al teatro. Sul concetto di catarsi sono intervenuti molti commentatori, anche
perché il passaggio trattato nella Poetica è fra i più ambigui87. Si tratta di un concetto
che pone al centro della macchina teatrale, lo spettatore, ovvero colui che assiste alla
tragedia e ne subisce l'effetto di aver l'animo sollevato e purificato da quelle passioni
che suscitano “pietà e terrore”.
Al di là delle molteplici e controverse interpretazioni della catarsi, in questa sede è
interessante sottolineare il fatto che Aristotele dia una connotazione positiva alla
tragedia in quanto forma teatrale, in contrasto col pensiero platonico, collocandola nella
sfera morale dell'arte e aprendo anche ad un’interpretazione pedagogica. Per Gennari
«La poesia, quindi, può purificare certe passioni per l’appunto esprimendole. La
tragedia, allora, libera lo spettatore “alleggerendolo” dei suoi timori nascosti, delle sue
ansie, dei suoi turbamenti, delle sue volizioni. Nulla di psicologico si nasconde nelle
pieghe della catarsi aristotelica. La poesia tragica ha piuttosto lo scopo di portare
l’uomo verso la quiete, verso quell’eutymía – che in Aristotele compie, ancora il
connubio morale tra virtù e felicità. A differenza che in Platone, nel concetto aristotelico
della “catarsi” si nasconde un significato del tutto nuovo per l’arte: le emozioni che essa
dispiega dentro l’animo umano divengono parte della “vita attiva” (cit. Cassirer rif.)
dell’uomo. Del tragico non resta la sua gravosità, bensì la vibrazione offerta dal suo
86M. Carlson, Teorie del teatro. Panorama storico e critico, Il Mulino, Bologna 1988, p. 35.
87Cfr. Aristotele, op. cit., pp. 203 e sgg.
68
stesso sentimento. L’idea di catarsi coincide, così, con il vero motore pedagogico
dell’arte poetica, teatrale e musicale. Il mondo che essa platonicamente imita smette di
essere semplice apparenza, per divenire realtà; cessa di proporsi come illusione per
ripresentarsi vestito d’un linguaggio estetico pervaso di spiritualità» 88.
La prospettiva delineata da Aristotele apre la strada all’intendere la catarsi – aldilà
delle diverse interpretazioni e implicazioni – un’esperienza “utile” per l’uomo e
soprattutto un’esperienza che pur essendo “personale” poiché attiene al sentimento del
singolo uomo, è al tempo stesso “universale” poiché fruita e partecipata in un contesto
di comunità (quella degli spettatori teatrali). La catarsi rappresenterebbe l’apice,
l’aspetto più forte di una emozionalità condivisa, di un sentimento messo a disposizione
dell’altro; instaurerebbe così un rapporto “comunicativo”, emozionale ed empatico fra
palcoscenico e platea, fra spettacolo e pubblico, fra attore e spettatore. Potrebbe
rappresentare il segno più evidente di una comunicazione efficace.
Se si accetta questo punto di partenza, ovvero che a teatro l’uomo entra in un
modo per uscirne in un altro, toccato nel sentimento e nell’anima, diverso nello spirito e
nel pensiero, allora è giusto ritenere che gli effetti di questo cambiamento sull’uomo
possono essere tanto benefici quanto malefici; la catarsi può indurre elementi tanto
positivi quanto negativi nel carattere dell’uomo. L’opera a cui assiste può influenzare lo
spettatore nel profondo, può arrivare perfino a condizionarlo moralmente. Aristotele
apre la strada al riconoscimento del “potere” dell’arte teatrale, e questo supposto potere
sarà avvertito moltissimo dai filosofi e dai critici che torneranno a riflettere sul teatro,
sia in direzione degli effetti benefici sia in direzione di quelli malefici al punto da
portare quest’arte finanche ad essere bandita dalla società per periodi significativi in
molti paesi europei.
Aristotele, di fatto, scrivendo la Poetica da “osservatore privilegiato” ma anche
“fuori tempo” di quel fenomeno eccezionale e breve che è la tragedia classica 89, innalza
il teatro incontestabilmente ad arte autonoma rispetto la poesia epica, eppure proprio
questo suo lavorare per differenze finirà per legare a doppio filo l'esperienza teatrale
tragica alla poesia, proprio perché nei secoli a seguire si è considerato della tragedia
solo l'unico elemento non deperibile, ovvero il testo scritto. Così, per estensione,
88
M. Gennari, L’educazione estetica, Bompiani, Milano, 2007 (1994), p. 116.
89
«La tragedia nasce in Grecia alla fine del VI secolo. Ancor prima che siano trascorsi cento
anni, la vena tragica è già inaridita, e quando, durante il IV secolo, Aristotele nella Poetica si mette a
fissarne la teoria, egli non comprende più che cos’è l’uomo tragico, a lui divenuto, per così dire, estraneo.
Succedendo all’epopea e alla poesia lirica, scomparendo nel momento in cui trionfa la filosofia, la
tragedia appare, in quanto genere letterario, come l’espressione di un tipo particolare di esperienza
umana, legato a determinate condizioni sociali e psicologiche». (J.-P. Vernant, P. Vidal-Naquet, Mito e
tragedia nell’antica Grecia, Einaudi, Torino, 1976, pp. 8-9).
69
riferendola volta per volta ad esperienze teatrali non osservate contestualmente ma
sempre precedenti, la teoria del teatro diventa essenzialmente la teoria di un genere
letterario, purgata proprio di quell'elemento che per Aristotele connotava e differenziava
l'arte teatrale dalle altre arti e – in particolare – dall'epica, ovvero l'azione. Soprattutto
nel lungo periodo medievale, gli aspetti relativi alla rappresentazione e alla messa in
scena scompaiono e lo spettatore si ritrova a vestire i panni diversi, e più comodi, del
lettore di testi drammatici.
Per tutto il Medioevo permane come idea sottesa e diffusa quella del valore
“edificante” o “moralmente riprovevole” delle opere drammatiche, che vengono
investite del compito di influenzare verso il bene o verso il male le azioni degli uomini,
tanto che la monaca sassone Rosvita (c. 935-973) nella prefazione alla sua raccolta di
commedie cristiane si proponeva di contrastare l'effetto perverso che poteva scaturire
dalla lettura di Terenzio opponendo «la lodevole purezza delle sante vergini cristiane» 90.
Le loro azioni in scena, ma soprattutto le loro parole lette ad alta voce, dovevano
fungere da esempio negli spettatori e stimolarli ad azioni pure ed edificanti. L'intento
doveva essere quello di istruire i fedeli, indurre, in generale, le persone alle buone azioni
e di ispirare ai più pensieri e propositi volti al bene. Il fine ultimo delle opere
drammatiche rimaneva più didattico, che “educativo” poiché pur essendoci
un’intenzionalità in questa direzione, il concetto di educazione non comprendeva la
complessità e le sfumature che questa disciplina oggi comporta 91.
Moralità ed educazione sotto strettamente legate nell’ottica del cristianesimo, che
domina il Medioevo e condiziona in diverse maniere l’esperienza teatrale, arrivando
infine a determinare anche la spaccatura fra la piazza (dove si svolgeva il teatro dei
“ciarlatani”) e una produzione drammatica destinata a restare sui libri. In linea di
massima «Nel primo periodo della sua affermazione il cristianesimo aveva assunto una
posizione decisamente e violentemente polemica nei confronti della cultura classica: la
chiesa aveva tentato, anche per mezzo della moltiplicazione e dell’estensione del rito in
forme spettacolari, di esaurire in sé tutta la vita spirituale dei fedeli, compreso quello
che oggi definiremmo il versante ricreativo-culturale» 92.
Durante il Rinascimento si sviluppa un interessante dibattito che, con diverse
caratteristiche e diversi livelli di importanza, coinvolgerà quasi tutta la vecchia Europa.
Fra gli italiani è da segnalare, ad esempio, il contributo di Francesco Robortello (151690
91
2003.
92
Rosvita, Tutto il teatro, Milano, Rizzoli, 1952, p. 11.
Cfr. M. Corsi, Il coraggio di educare. Il valore della testimonianza, Vita e pensiero, Milano,
C. Molinari, Storia del teatro, Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 77.
70
1568) che, nel suo commento ad Aristotele, prova a conciliare le indicazioni di
quest'ultimo con l'obiettivo oraziano del diletto, riuscendo a non escludere l'utile: 93. Il
teatro è quindi investito di un compito importantissimo e in questo compito la
“rappresentazione” risulta importante nel rapporto con il testo. È l'esempio realizzato
attraverso la messa in scena, reso fruibile e comprensibile attraverso il corpo e l'azione
degli attori, che deve ispirare negli spettatori le virtù cristiane e i modi più opportuni
nelle diverse situazioni, come si trattasse di vere e proprie lezioni di morale. Il teatro
viene pensato come un luogo in cui le vicende particolari di alcuni uomini vengono
offerte come esempio e monito agli spettatori, che quindi sono invitati, nell’avverarsi di
una situazione analoga a comportarsi in maniera analoga, con virtù, eroismo e sacrificio.
Ci si trova in un’epoca in cui le rappresentazioni teatrali erano occasionali e
senz’altro destinate ad un’élite ristretta di spettatori; la riflessione sul teatro era
soprattutto costruita sulla drammaturgia. Il testo drammatico, avulso dalla scena, veniva
trattato come le altre opere “letterarie”, considerato per contenuto e stile, sottraendo la
scena al ragionamento. La discussione era focalizzata sulla trama, sul suo valore
contenutistico, e anche su quello pedagogico; sulla coerenza del personaggio, sulla sua
credibilità, pertinenza.
È questo il legame più forte con la scena, quasi l’unico: l’importanza riconosciuta,
anche solo in fase di lettura, al personaggio. La costruzione del carattere del
personaggio è centrale poiché lo spettatore a lui guarda, a lui si ispira, in lui si
immedesima. Ciò che emerge con una certa ricorrenza nel panorama teorico è
l’importanza espressiva e comunicativa attribuita al personaggio e, anche quando non si
parla – non ancora – di attore e di recitazione, è comunque evidente quanto questa sia
una questione nodale. Il personaggio prima di agire deve incarnare, rappresentare
qualcosa di riconoscibile, anche “fisicamente”: delle virtù che facciano scaturire
l’ammirazione o dei vizi che facciano scaturire il disprezzo nell’animo dello spettatore
(o anche del lettore). La lenta ma progressiva costruzione dell’attore va di pari passo a
quella dello spettatore, a cui l’attore si rivolge. Per cui anche in periodi storici in cui il
teatro non è certo un’arte fruita dalle masse, è evidente che si inizia ad accennare, per
tramite dell’attenzione al personaggio, il legame relazionale – inizialmente basato sulla
credibilità e verosimiglianza – fra attore e spettatore.
93«Il mezzo con cui lo si ottiene è quello tradizionale: l'imitazione e la lode degli uomini virtuosi incitano
gli uomini alla virtù; la rappresentazione e la condanna del vizio fungono da deterrenti. Le finalità
retoriche vengono a sostituire, così, quelle estetiche di Aristotele; il pubblico, in primo luogo, non deve
trarre piacere dall'unità e dalle qualità formali dell'opera, ma deve ricavare un insegnamento morale dai
diversi elementi didattici» (M. Carlson, op. cit., p. 60).
71
Successivamente, alla nozione rinascimentale di decoro, si aggiungeranno
elementi importanti per la teoria neoclassica, ovvero moralità, convenienza e
universalità. I testi drammatici devono risultare accessibili per le masse e ad esse
devono ispirare valori importanti, nobiltà di carattere, invogliare al bene e al ripudio
delle azioni malvagie. In generale, sia per la commedia che per la tragedia, l'obiettivo è
quello di far migliorare il pubblico, quindi entrambe sono orientate ad essere “utilizzate”
come strumento didattico. Devono però mantenere le loro qualità di fruibilità, ovvero
essere attrattive e dilettare il pubblico, in modo che il diletto possa poi rendere efficace
l'insegnamento che deve essere impartito con il dramma, attraverso una trama
avvincente e convincente in cui deve dominare il principio di verosimiglianza.
In un contesto abbastanza uniforme, si può individuare comunque qualche
posizione discordante che avanza l'eventualità del solo piacere come fine della poesia.
Ma in linea di massima, la questione davvero significativa da sottolineare è come
l'attenzione riprenda, in epoca rinascimentale a focalizzarsi sul pubblico, fino a
attribuire grande responsabilità al teatro inteso come luogo capace di esercitare
un'influenza – sia positiva che negativa – sul comportamento degli uomini. Spiega
Carlson: «Da un certo punto di vista i critici, dal tardo periodo classico in poi, avevano
tenuto conto, più di Aristotele, dell'impressione del pubblico. Certamente Tertulliano e i
padri della chiesa si erano interessati, in modo addirittura ossessivo, a questo aspetto del
dramma. La tradizione critica ispirata alla teoria retorica condivise con questa un
fondamentale interesse per l'effetto del dramma» 94.
L'attenzione al pubblico è sempre, nella trattatistica rinascimentale e neoclassica,
tesa sul limite fra la tensione ad istruirlo e quella di compiacerlo – condannata dalla
chiesa, da Tertulliano in poi senza soluzione di continuità – uniformandosi così ad un
gusto basso e volgare. Questo è un rischio che sottolinea anche Miguel de Cervantes in
un paragrafo del Don Chisciotte (capitolo 48, parte I), e che evidentemente è tenuto
presente anche da quegli scrittori di commedie che decidono di cavalcarlo, questo
rischio, fino a farlo divenire cifra stilistica – quasi una giustificazione poetica – della
loro scrittura teatrale.
Nel Rinascimento francese, per Vauquelin il fine complessivo a cui tendere nella
tragedia e nella commedia è apertamente quello dell'istruzione95, sebbene la prospettiva
94 M. Carlson, op. cit., pp. 70-71.
95 «Scopo originario della tragedia, dichiara Vauquelin, era l'istruzione dei principi, ottenuta mostrando
loro le catastrofi che nascono dalla malvagità e dall'orgoglio» (Id., op. cit., p. 96).
72
adottata prevalentemente sia quella dell'istruzione elitaria e delle classi di governo.
Tragedia e commedia, attraverso la scrittura in forma dialogica, attuano la
rappresentazione del mondo, e soprattutto dei tipi umani e delle situazioni, che consente
al principe di vivere, attraverso i personaggi, vicende di vizio e di virtù, imparando a
discernere fra le due le prime.
In generale, per tutto il Rinascimento la continuità è data dall'intendere il dramma,
e in particolare la tragedia, una sorta di esempio di buona condotta per chi vi assiste o
per chi la legge, se il dramma finisce bene è perché le buone azioni dell'uomo retto
vengono premiate e questo funziona da esortazione per il pubblico che ad esse deve
aspirare; se il dramma finisce male è perché le azioni riprovevoli dell'uomo malvagio
(anche suo malgrado – come ad esempio accade nell’Edipo di Sofocle) vengono punite
e questo funziona da monito e deterrente per il pubblico che da esse deve rifuggire.
Il dramma è quindi utile in quanto strumento di istruzione morale. Questa
caratteristica ne fa un prodotto ibrido: è più vicino al grande pubblico rispetto alla
letteratura, poiché la forma dialogica lo rende più comprensibile, ma d’altro canto
questa vicinanza alla letteratura ne mette in ombra l’aspetto spettacolare. Non possiede
il valore d’arte riconosciuto alla poesia, ma il dramma, non coincidendo con lo
spettacolo, non le è neanche estraneo. Pur non essendo destinato, per definizione alle
élites, resta di fatto durante il Rinascimento, destinato ad esse. L'intento educativo è, più
che altro, una sorta di garanzia di moralità che l'opera drammatica deve possedere per
poter essere rappresentata, letta, fruita, ed essere annoverata fra le composizioni
poetiche, ed essere ascritta all'arte. Se questo intento non è garantito dalla trama e dalle
conseguenti azioni dei personaggi, il dramma non solo è da condannare, ma è collocato
al di fuori della categoria dell'arte, pertanto escluso dalla discussione su stili e poetiche.
Insomma per essere arte il dramma, come la poesia, deve essere messo al servizio della
virtù.
L'acceso dibattito che si sviluppò in seguito nella Francia del Diciassettesimo
secolo, pur concentrandosi principalmente sulle cosiddette “tre unità”, affronta la
questione delle trame mettendosi il più possibile dalla parte degli autori dell'epoca,
cercando di valorizzare la produzione drammatica contemporanea, e dando ai
drammaturghi la libertà di scegliere anche argomenti dell'attualità da trattare nelle loro
opere, liberandoli così dalla riproposizione dei temi della classicità. Con il patto tacito
che fosse rispettata la verosimiglianza, anche più della verità storica.
Il cambiamento è significativo, poiché se i drammi possono vertere su ogni
73
argomento che è presente nel mondo, si inizia – seppure non esplicitamente – a
considerare non solo l'autore libero di creare secondo la sua poetica, ma libero anche il
pubblico di fruire dello spettacolo con discernimento, non come un bambino che debba
essere seguito passo passo ed istruito passivamente.
Si inizia a mettere in campo la questione dell’attualità, della società e quindi del
teatro come luogo di socialità e di comunità, di confronto e soprattutto di “incontro” fra
persone. È l’autore in prima persona a mettersi in discussione sul terreno dell’attualità, e
di conseguenza anche gli spettatori iniziano ad esistere come persone che formano una
speciale micro-società. Questa piccola comunità si incontra in un luogo fisico per
partecipare, oltre che assistere ad una messa in scena, alla cultura del proprio tempo,
all’attualità sociale e politica nel suo farsi e nella sua rappresentazione più alta.
Non si tratta di aperture nette, ma si iniziano ad intravedere dei piccoli spiragli di
luce in questa direzione, soprattutto a causa del fatto che i drammaturghi, in diversi casi,
ottengono notevole successo di pubblico e una particolare notorietà, a dispetto delle
regole imposte dalla trattatistica a loro pregressa e coeva. Con il consenso di questo
nuovo soggetto sociale chiamato “pubblico”, gli autori acquistano un nuovo ruolo nella
società, pur non avendo il riconoscimento dei poeti, le loro opere, giocate sulle assi dei
palcoscenici di mezza Europa, li consacrano ad una notorietà più fugace ma certo più
redditizia e di impatto immediato. Il successo conseguito nei grandi teatri, li porta ad
smarcarsi dalle ancora forti ingerenze della critica e dal peso di una tradizione letteraria
tanto raffinata quanto ingombrante e “inadattabile” al palcoscenico.
La verosimiglianza tanto cercata dai drammaturghi e auspicata dai critici diventa
una chiave d'accesso anche per il pubblico meno colto, e se un dramma è comprensibile
per tutti, allora tutti ne possono cogliere l'intento moralizzatore, come sottolinea La
Mesnadière che indica come «“età, passioni, attuale fortuna, condizione di vita,
nazionalità e sesso” dovrebbero determinare personalità e azione; il poeta dovrebbe
evitare creazioni contraddittorie, […]. Obiettivo finale è la verosimiglianza, in quanto il
dramma deve presentare modelli specifici di virtù, e questi, per essere efficaci, devono
essere al massimo grado accessibili per il pubblico» 96. Si delinea un pubblico che si
immagina numeroso, a cui l’autore sempre più deve pensare di rivolgersi, e deve tenerlo
presente anche nella fase di scrittura. Questo ipotetico pubblico deve essere istruito –
educato e moralizzato – ma deve anche essere interessato, essere stimolato dalle vicende
narrate, altrimenti non si recherà a teatro e sancirà l’insuccesso dell’opera. Si determina
96 M. Carlson, Teorie del teatro. Panorama storico e critico, Il Mulino, Bologna 1988, p. 121.
74
non solo un cambiamento di atteggiamento, ma l’inizio di un rapporto conflittuale fra
spettatori e critica laddove, fino a poco prima, era appannaggio dei critici stabilire cosa
fosse degno a teatro e cosa non lo fosse, mentre il pubblico, come se fosse escluso dalle
questioni estetiche, era oggetto d’attenzione al pari di un bambino da educare.
Scrittori e drammaturghi della statura di Corneille 97 interverranno nel dibattito per
portare il discorso sul valore indiscusso della poesia, del piacere dell’arte, a discapito
delle istanze moralizzatrici, sottolineando come debba essere solo la poesia il fine unico
e ultimo della composizione drammatica. Difatti la posizione di Corneille è quella
dell’autore che difende la propria libertà, ma da questa posizione deriva anche una
nuova autonomia e dignità dello spettatore, non più trattato come un qualcuno da
indottrinare, ma come qualcuno capace di godere dell’opera d’arte. La funzione morale
nella sua accezione più retriva di “moralizzazione”, diventa “secondaria” per lo
spettatore rispetto al fine “principale” che è quello del piacere estetico.
Posizioni interessanti emergeranno durante il diciottesimo secolo in Inghilterra, vi
sarà infatti un vivace dibattito, anche qui, come in Francia nel secolo precedente,
saranno anche gli stessi drammaturghi a proporre interpretazioni e critiche sull'arte
drammatica, in un proficuo dialogo dai toni anche accesi. Ma in linea di massima in
Inghilterra prevarrà la morale universale della giustizia poetica. Fondamentale, alla
discussione, sarà invece l'apporto di Hume, per cui avendo a che fare, a teatro, con degli
stimoli perturbanti è importante che il pubblico abbia la consapevolezza di stare
assistendo ad una finzione, soltanto partendo da tale consapevolezza lo spettatore può
essere capace di convertire le passioni suscitate da eventi dolorosi in sensazioni di altra
natura e soprattutto di gioia.
Il Diciottesimo secolo inglese ha il pregio di iniziare a porre l'attenzione
sull'attore, di conseguenza sullo spettacolo e sullo spettatore. Questo accade grazie alla
situazione specifica dell'Inghilterra dell'epoca, in cui allo sviluppo della drammaturgia e
dello spettacolo si unisce una significativa attenzione all'arte dell'attore, che è
riconosciuto come il principale veicolo dell’arte teatrale. È questa l’epoca, infatti, in cui
iniziano a formarsi i grandi attori di fama internazionale, criticati e osannati nelle pagine
dei giornali, e considerati dei veri e propria artisti.
Fra i traduttori di Aristotele in lingua inglese c'è Henry James Pye, il quale,
97Corneille in tre saggi (che costituiscono a tutti gli effetti un'apologia della sua opera drammatica), «[…]
dichiara apertamente che il piacere è il fine esclusivo della poesia drammatica. Lo scopo morale emerge
solo in quanto noi siamo soddisfatti nell'osservare i processi di un universo morale; questo è un risultato
secondario dell'arte, non il suo fine. Destituita di importanza la funzione morale, Corneille è naturalmente
meno interessato al suo tradizionale corollario, la verosimiglianza» (M. Carlson, op. cit., p. 124).
75
nonostante la sua fedeltà ad Aristotele, pone fortemente l’accento sulla questione della
recitazione98. Sicuramente Pye era rimasto impressionato dallo straordinario talento
dell'attore Garrick, il quale tra l'altro, in un suo saggio critico, spiega l'importante ruolo
dell'attore e interviene anche sull’annosa questione dell’imitazione. L’attore non può
limitarsi all’osservazione e alla riproduzione di comportamenti e atteggiamenti
dell’uomo, deve assimilarli per poi esprimere le sensazioni e le emozioni in una maniera
sua propria, una maniera unica come unico è ogni essere umano, anche nelle
manifestazioni più comuni. Questo spostamento, dalla natura letteraria del teatro alla
sua dimensione spettacolare, con l’attenzione accordata all’attore e alla recitazione,
segna una linea di demarcazione fondamentale nella teoria del teatro in epoca moderna,
un punto di non ritorno da cui non si potrà prescindere e da cui si procederà nella
direzione delle arti performative.
Nella Francia del Diciottesimo secolo neanche Voltaire, in conclusione, sembra
discostarsi significativamente dalla tradizione, e la sua teoria drammatica rimane
abbastanza conservatrice poiché la sua posizione, pur puntando all’innovazione, finisce
sempre per subordinare le questioni emotive a quelle etiche. Diderot sarà il vero
innovatore, dopo la forte contestazione mossagli da Rousseau, insisterà sull’argomento a
più riprese, prima in Discours sur la poésie dramatique, in cui ripropone il suo
convincimento sull'utilità morale del dramma senza deprimerne però la funzione
estetica, perché se ogni tipo di condizione umana e ogni genere di insegnamento
pubblico possono essere attaccati per i loro abusi, anche gli attori e l'arte drammatica vi
possono incorrere, senza rappresentare per questo il male assoluto. Con Diderot inizia
ad emergere anche una funzione sociale del teatro, come luogo del politico, in quanto
luogo in cui si dà la possibilità di mostrare, e così anche di criticare e distruggere,
pregiudizi, vizi, superstizioni. In questa possibilità risiede l’importanza dell’arte
drammatica, e dovrebbe essere usata dai governi in quest’ottica di “emancipazione” dei
popoli.
Nel 1773 Diderot scrive il celebre Paradoxe sur le comédien, con un dialogo
avvincente e all'apparenza disinvolto – ma che cela un grande lavoro di scrittura e
riscrittura particolarmente fine99 – due interlocutori discutono della bravura o meno di
attori che hanno visto personalmente esibirsi a teatro, o di cui hanno sentito molto
parlare. I punti di vista opposti dei due uomini, in quello che più che un dialogo di tipo
98«Pur ammettendo che il teatro è inferiore alla pittura nell'effetto visivo generale, Pye sostiene che il
potere della recitazione eleva il dramma al di sopra di ogni altra arte» (Id., op. cit., p. 161).
99Cfr. P. Alatri, introduzione in D. Diderot, op. cit., pp. 7-70.
76
filosofico potrebbe essere proprio un dialogo di tipo teatrale, aprono le porte ad un
mondo fatto di continui intrecci fra palcoscenico e vita di alcuni fra i più grandi attori
europei dell'epoca. Il punto di vista di Diderot stesso, incarnato dal “primo
interlocutore”, è quello che spalanca le porte al paradosso: per essere bravo l'attore non
deve essere “sensibile”, ma raziocinante e dedito allo studio, solo affinando le qualità
personali con conoscenza e tecnica potrà interpretare la sensibilità e emozionare il
pubblico, replica dopo replica. Per “il primo”: «È l'estrema sensibilità che fa gli attori
mediocri; è la sensibilità mediocre che fa l'infinita schiera dei cattivi attori; ed è
l'assoluta mancanza di sensibilità che prepara gli attori sublimi» 100. Perché è così
importante e attuale il discorso sulla “sensibilità” e sul “mestiere” introdotto dal
Paradosso sull'attore? Innanzitutto perché fa emergere, oltre alla questione sulle
competenze, le qualità e le tecniche specifiche che devono possedere gli attori “sublimi”
in opposizione ai “mediocri” rendendo così il mestiere dell'attore un mestiere che non si
può improvvisare e per cui non basta il talento101, una questione ancora più cruciale che
concerne proprio il modo di lavorare dell'attore, il suo vedersi come “altro da sé”, il suo
vedersi “fuori da sé”.
Nel corso del dialogo emerge, in un passaggio abbastanza lungo, la capacità
dell'attore di “vedersi recitare”, anzi di vedersi “mentre” recita, così immagina Diderot
lo sdoppiamento di Mademoiselle Clairon che interpreta Agrippina nel Britannicus di
Racine: «Come ci accade talvolta nei sogni, ella spazia tra le nuvole e le sue mani
toccano i due confini dell'orizzonte; diventa l'anima di un manichino che la racchiude;
tutte le sue prove glielo hanno costruito addosso. Mollemente distesa su una poltrona, le
braccia conserte, gli occhi socchiusi, immobile, ella può, seguendo con la memoria il
proprio sogno, ascoltarsi, vedersi, giudicarsi, e giudicare le impressioni che susciterà. In
quel momento è sdoppiata: la piccola Clarion e la grande Agrippina»102. Qui viene
abbozzato il concetto di sdoppiamento, esso tornerà nel dialogo sempre attenuato e in
un'ottica di lavoro e di studio che l'attore compie su se stesso per non cadere nella
recitazione mediocre. Ma questo concetto, in una dimensione più filosofica e
autoriflessiva, è uno dei fondamenti, anzi “il” fondamento del teatro stesso, non riguarda
solo l'attore e la recitazione come caratteristica specifica del mestiere d'attore, riguarda
la natura profonda del teatro, la sua stessa esistenza e la sua specificità.
100D. Diderot, op. cit., p. 82.
101« È la natura che dà le qualità personali, l'aspetto, la voce, l'intelligenza, la finezza; sono lo studio dei
grandi modelli, la conoscenza del cuore umano, la pratica della vita, il lavoro assiduo, l'esperienza,
l'abitudine al teatro, che riescono a perfezionare le doti naturali» (Id., op. cit., p. 72).
102Id., op. cit., p. 78.
77
Sarà Heiner Müller, dopo Brecht, l'artista che ragionerà più di tutti su questo
meccanismo che fonda il teatro, lo espliciterà, lo renderà centrale in tutta la sua opera, lo
innalzerà a cifra poetica dominante e contraddittoria, quasi una ossessione, del suo fare
teatro prima e dopo la caduta del muro di Berlino. Per Müller l'origine dello
sdoppiamento è traumatica, riguarda alcuni episodi particolarmente dolorosi della sua
vita103, in particolare due eventi che condizioneranno la sua scelta di scrivere per il
teatro piuttosto che in forma narrativa. Chiarisce Valentina Valentini, a questo proposito,
come «Entrambi gli eventi sono per lo scrittore emblematici di un'esperienza in cui il
soggetto sopporta il trauma innescando inconsapevolmente un meccanismo di scissione
dell'io che si sdoppia in colui che si guarda mentre sta guardando l'avvenimento come se
fosse la scena di un film. Il soggetto che sta in scena non è più l'attore del dramma, ma
si colloca dall'altra parte, in platea, e assume il ruolo di spettatore della propria
performance»104. E ancora, facendo compiere un ulteriore balzo in avanti all'esperienza
estetica: «La scena primaria di Müller porta in luce un concetto fondamentale per
l'esperienza estetica contemporanea, ovvero la centralità che ha assunto la dimensione
spettatoriale, l'attività del soggetto “veggente” che implica la duplicità dei ruoli di
operator e spectator nel performer, l'esperienza dello sdoppiamento appunto, non la
transitività di un atto che ha una traiettoria e un bersaglio, ma un'attività intransitiva» 105.
La sua identità riconoscibile sin dalle origini ma inafferrabile, il suo
funzionamento paradossale attraverso l'esperienza dell'attore nel suo farsi spettatore di
se stesso per l'altro, l'identificazione del prodotto artistico nello spettacolo unico e
irripetibile eppure replicabile sono alcune delle caratteristiche che rendono il teatro
un'arte problematica, ma sono anche elementi ricorrenti di una riflessione sul teatro –
ovvero la teoria ad esso riferita – molto eterogenea e frammentaria, costruitasi nel corso
dei secoli in maniera disomogenea, ma anche efficace e costituita da alcuni capisaldi
incrollabili, tutt'ora attuali.
Con il Paradosso di Diderot, si dà importanza all’attore indipendentemente
dall’autore, anzi si inizia a riconoscere all’attore la maestria nel incidere attivamente nel
dramma, al punto da decretarne il successo o l’insuccesso: nasce l’attore e, nello
specifico, la sua arte. Si iniziano a pensare studi più approfonditi perché l’attore non è
103Gli episodi a cui Muller fa riferimento, in più occasioni, sono: l'arresto del padre comunista da parte
dei nazisti che lo porteranno nei campi di concentramento, e il ritrovamento del corpo della moglie Inge
morta suicida. In particolare si veda l'intervista di Sylvière Lotringer “Credo nel conflitto, in nient'altro. Il
dramma, la prosa, Filottete e il muro fra Est e Ovest” in H. Müller, Tutti gli errori. Interviste e
conversazioni 1974-1989, Ubulibri, Milano 1994, pp. 65-86.
104V. Valentini, “Tragedie proletarie nell'era della controrivoluzione. La post-drammaturgia di Heiner
Müller” in Biblioteca Teatrale, Il teatro di Heiner Müller, 41, Bulzoni, Roma 1997, p. 24.
105Ibidem, p. 25.
78
solo sensibilità, ma anche “mestiere” e il mestiere può essere studiato, esercitato,
tramandato: «L'attore che si basa sulla sensibilità recita in modo irregolare e, al
massimo, produce un effetto di vita ma non di arte, dato che le immagini della passione
a teatro, non sono immagini vere, ma vengono elevate ed idealizzate secondo le regole e
le convenzioni dell'arte. La verità, ai fini teatrali, è il conformare azione, dizione,
espressione e movimento non alla vita ma “a un modello ideale immaginato dal poeta e
spesso esagerato dall'attore”. Per quanto realistico questi possa apparire sulla scena, ci
colpirebbe immediatamente come falso o grottesco, sulla strada. L'arte è il prodotto di
un attento studio e preparazione, non di spontaneità; d'altro canto, il grandissimo poeta
delineerà in modo così chiaro i propri personaggi, che gli attori dovranno solo
rappresentarli, senza lasciarsi tentare ad aggiungere qualcosa di proprio, per favorire la
chiarezza o l'efficacia emotiva» 106.
Durante l'Ottocento e poi nel Novecento, ragionando sulla trasmissione del sapere
teatrale inteso soprattutto come “arte della recitazione”, si è assistito ad un fiorire di
studi, trattati e manuali che hanno cercato di storicizzare, teorizzare e soprattutto di
“educare” l'attore alla scena e al rapporto con il pubblico, con la finalità spesso
esplicitata di determinare la buona riuscita dello spettacolo al di là della questione più
squisitamente artistica. Si apre anche la strada a molte pubblicazioni di stampo
manualistico, con finalità pratiche di trasmissione e codificazione di un mestiere e, in
generale, dei “mestieri” della scena.
Difatti, Diderot è il primo teorico del teatro “moderno”, è il filosofo che ci transita
in un XVIII secolo in cui il teatro prende progressivamente sempre più forza,
smarcandosi dalla pagina scritta, prendendo le distanze dalla drammaturgia per
avvicinarsi sempre più verso la recitazione. Da questo punto in poi diventa difficile
seguire un percorso cronologico e lineare, nascono nuovi studi che escono dall’alveo
della critica letteraria e si accostano all’attore per celebrarne il talento ma anche per
discuterne le capacità in maniera più ragionata e anticonformista. Si è davanti ad un
mutato contesto culturale Ci ricorda Carlson che: «Chiaramente, nell'ultimo terzo del
diciottesimo secolo, non soltanto era ormai disponibile un certo corpus teorico sulla
recitazione, ma si erano anche costituite, al riguardo, due posizioni critiche
completamente distinte. L'una riteneva che la recitazione fosse essenzialmente un
processo razionale, uno studio dei mezzi tecnici per ottenere una rappresentazione
armoniosa di una realtà idealizzata. L'altra privilegiava l'interiorità emotiva e
106 M. Carlson, op. cit., p. 186.
79
l'immaginazione simpatetica, richiedendo che l'attore oltrepassasse la ragione, per
attingere alle sorgenti interiori del sentimento» 107.
Nonostante questa rivoluzione, i cambiamenti sono molto graduali, soprattutto in
ambito teorico, segnalando una spaccatura che non verrà mai sanata completamente.
Una spaccatura che verrà giusto attutita quando i registi e i grandi maestri del teatro del
‘900 si dedicheranno anche alla scrittura critica e affiancheranno al loro lavoro sul
palcoscenico anche un lavoro di riflessione teorica.
In linea di massima, il lunghissimo filone della teoria del teatro legata e
dipendente da una certa filosofia morale resiste, praticamente fino al Novecento, come
interpretazione e approfondimento del concetto di catarsi aristotelica, che è in effetti un
concetto molto ambiguo e da Aristotele non sviluppato, per cui molti filosofi vi hanno
dovuto fare i conti nell'accostarsi al teatro in generale e alla tragedia in particolare. Se
ne occupa anche Goethe108, sempre attraverso Aristotele, per separare nuovamente gli
ambiti e sottolineare che l’effetto benefico di natura morale sugli uomini non deve
essere compito dell’arte, ma della filosofia e della religione.
Il periodo della riflessione espressa nella Germania dal Diciassettesimo secolo
fino ad Hegel vede un interesse spiccato per la “forma” tragedia, ma stavolta la
riflessione diventa più profonda e supera la vecchia impostazione basata sulla
codificazione del genere in rapporto alla tradizione. La riflessione sul tragico è
occasione per discutere del sublime, del patetico, dell'ironia e dei rapporti fra particolare
ed universale, fino alla discussione sull'eroe tragico e sul suo essere in rapporto
all'assoluto. La corte di Weimar diventerà il luogo da cui parte la riflessione estetica più
interessante e che riguarda, attraverso la sua inclusione fra le arti, anche il teatro, si
tratta di quella corte in cui aleggia il “sentimento” goethiano e schilleriano. È in questo
contesto che nasce il concetto di “uomo estetico”: « […], l’uomo estetico invera
l’armonia e la totalità di tutte le facoltà umane. La funzione pedagogica della bellezza
garantisce che dell’uomo fisico se ne faccia un uomo morale qualora egli divenga un
uomo estetico. La bellezza è schillerianamente la condizione necessaria dell’umanità.
Non si dà pertanto educazione senza l’educazione estetica. […] L’aggregazione tra
cultura, estetica e pedagogia
risalta
immediatamente come la
componente
107 Id, op. cit., p. 186.
108 «Del rapporto fra teatro e morale, in particolare a proposito del concetto di catarsi, Goethe si occupa
nel suo Nachlass zu Aristoteles Poetik [Eredità della Poetica di Aristotele] (1827), ultimo suo saggio di
rilievo sull'arte drammatica. Ancora una volta, Goethe sottolinea, come obiettivo del drammaturgo, il
raggiungimento dell'armonia attraverso la ricomposizione di elementi opposti. Ma tale ricomposizione,
che egli paragona alla catarsi di Aristotele, avviene, secondo Goethe, sulla scena, e non negli spettatori. È
un errore, insiste, rivendicare per il teatro un effetto benefico sul pubblico, di natura morale o emotiva.
Questo è il campo della filosofia e della religione, non del teatro» (M. Carlson, op. cit., p. 209).
80
rappresentativa di uno sforzo palingenetico a cui Schiller chiama l’umanità. L’eco di
questa estetica pedagogica e culturale si sparge per i due secoli a seguire e, certo non
poco modificato, giunge fino al crepuscolo del Novecento» 109.
Con l’uomo estetico la morale non è considerata alternativa all’estetico, non
bisogna più collocare l’arte ora da una parte ora dall’altra, il conflitto è superato nella
bellezza dell’arte, e il teatro nei secoli a venire vi parteciperà con sempre maggior forza
e contribuendo in maniera originale. Il merito è anche e soprattutto degli autori più
audaci, che con la loro visionarietà e un rinnovato coraggio, abbandonano
progressivamente i temi della tradizione tragica e comica per avvicinarsi alla realtà delle
tematiche contemporanee. L’attualità irrompe in scena attirando, e formando, un nuovo
pubblico e creando un interessante dibattito su questioni di rilevanza sociale e culturale.
Il cambiamento è nell’aria, e procede di pari passo con le trasformazioni della
modernità, con la società capitalistica e industriale. Nel suo Das Moderne Drama (Il
dramma moderno) del 1852, Hermann Hettner sostiene che il dramma del futuro deve
trattare tematiche di ordine sociale: «Come Wagner, Marx ed Engels, Hettner sostiene
che il dramma del futuro potrà “essere solo sociale e storico”, riflettendo sia i bisogni
sociali che quelli emotivi del proprio pubblico. Re ed eroi famosi non possono più
essere la scelta ideale per un soggetto storico, “poiché ora e nel futuro dovremo
occuparci molto di più delle questioni sociali che non dei conflitti politici”. Per
l'indagine su tali questioni, il dramma sociale borghese è molto più adatto di quello
storico, così come quest'ultimo è stato tradizionalmente concepito» 110.
L'attenzione ai temi sociali – quindi l'adeguamento delle trame all'attualità più
stringente – va nella direzione di costruire un dialogo più partecipato con il pubblico, il
dramma potenzialmente può e deve essere usato come strumento di emancipazione. Non
si tratta solo di rendere le trame più accattivanti e coinvolgenti, si tratta di attuare una
vera, piccola, rivoluzione, dando ai temi sociali la dignità del palcoscenico e,
contestualmente, di offrire al pubblico la possibilità di aprire gli occhi nei confronti di
questioni calde del dibattito politico e sociale, oltre che di riflettere sui temi storici più
scottanti prendendo dalla platea la giusta distanza rispetto gli avvenimenti rappresentati.
Il passo è segnato, i ruoli si differenziano ed emergono, i contenuti si adattano ai
tempi, si stabiliscono nuovi equilibri. L’importanza accordata all’attore, e nel secolo
successivo al regista, ridimensiona e muta il valore del testo scritto. Lo spettacolo non è
più un elemento secondario, pleonastico o addirittura degradato rispetto al testo
109 M. Gennari, L’educazione estetica, Bompiani, Milano 1994, p. 128.
110M. Carlson, op. cit., p. 286.
81
drammatico, ma diventa centrale. Esso non deve più passare solo l’esame della critica
ma deve confrontarsi con un giudice ben più severo e difficile da accontentare: lo
spettatore. Insomma: «Alla fine dell'Ottocento si prospetta un rovesciamento della
posizione logocentrica. Il dubbio sulla parola come depositaria della verità e la
liberazione delle forze inconsce dell'immagine e del sogno provocano il distacco
dell'arte teatrale dall'ambito della parola, prima considerato come l'unico ambito
appropriato; la scena e tutto quanto si possa operare in scena vengono promossi al rango
di organizzatori supremi del senso della rappresentazione teatrale» 111.
L’arte del teatro si emancipa dalla letteratura, acquisisce una dimensione sua
propria, ma con la conquista dell’indipendenza si configura come arte “effimera” nel
senso più positivo e pieno del termine, e la teoria rimane indietro, perde ogni
riferimento solido che fino a quel momento era stato rappresentato dal sicuro porto della
critica di stampo letterario. Mentre il teatro moderno emerge in tutta la sua originalità e
potenza incarnata anche dall’attenzione di un pubblico “rinnovato” e importante nei
numeri, i filosofi e gli studiosi rimangono un po’ indietro rispetto alla lettura teorica del
fenomeno teatrale. Questa discrepanza fra il teatro e la sua teoria non verrà mai sanata
ed essa è da intendere, oggi, come carattere distintivo di un’arte restia alla teorizzazione
e alla storicizzazione.
Per il semiologo Marco De Marinis, nonostante il superamento del testocentrismo,
gli studi teatrali sono ancora alle prese con diverse problematiche: «Dopo aver battuto,
sia pure faticosamente e non senza vistose persistenze, il preconcetto “testocentrico”
che, per lungo tempo, aveva preteso di ridurre la storia del teatro a storia della
letteratura drammatica, oggi gli studi teatrali sono ancora alle prese con quel vero e
proprio vizio d'origine della Theaterwissenshaft che è il settorialismo, la
frammentazione. A ben vedere, questo settorialismo ha sempre avuto un doppio aspetto;
da un lato, esso è consistito, e consiste ancora, nella tendenza a scomporre il fatto
teatrale secondo le sue diverse ed eterogenee componenti (testo scritto, spazio, attore,
pubblico e via dicendo) e a mai più ricomporlo, procedendo appunto ad analisi parziali e
separate; dall'altro lato, esso ha prodotto, e produce ancora, l'isolamento del fatto
teatrale dal suo più ampio contesto storico, sociale, culturale ed esistenziale» 112.
In questo scenario caratterizzato dalla frammentazione e dal settorialismo, la
proposta di De Marinis è quella di organizzare, grazie ad un approccio di tipo semiotico
e non più storico, le diverse e frastagliate teorie del teatro, individuando quattro teorie
111P. Pavis, Dizionario del teatro, Zanichelli, Bologna 1998, p. 488 (testo e scena).
112M. De Marinis, Capire il teatro. Lineamenti di una nuova teatrologia, Bulzoni, Roma, 1999, p. 7.
82
principali: Storia e storiografia, Antropologia, Sociologia e Semiotica del teatro, e dando
a quest'ultima l'onere e l'onore di offrirsi come possibile strumento analitico dell'oggetto
d'arte del teatro, individuato in maniera definitiva e perentoria nello “spettacolo” come
luogo dell'avverarsi della “relazione teatrale”.
Altre considerazioni possono essere fatte a corollario della problematicità
evidenziata in seno alla teoria del teatro. Innanzitutto è legittimo osservare come
raramente, se non in epoca moderna, la teoria del teatro vada di pari passo con la
produzione teatrale coeva. Si riconoscono degli interessanti slittamenti e dei significativi
ritardi rispetto la teoria e l'oggetto di questa stessa teoria. Si tratta di uno sfasamento
dovuto all'inafferrabilità dell'oggetto teatro, ovvero dello spettacolo. Gli studiosi e i
filosofi che se ne sono interessati, raramente frequentavano il teatro, facevano piuttosto
riferimento alla produzione di letteratura teatrale (la produzione drammatica) e quasi
sempre studiavano i grandi del passato, su tutto i tragediografi greci, i comici greci e
latini e, ovviamente, Shakespeare, utilizzato come una sorta di straordinaria eccezione,
utile per confermare l'apparato di norme e regole di poetica e stilistica imperante fino al
diciottesimo secolo.
In conclusione, provando a sintetizzare ulteriormente le teorie del teatro elencate e
ripercorse da Carlson, si nota come emergano due filoni principali che in qualche
maniera tengono assieme gli scritti teorici dedicati al teatro, e si tratta essenzialmente di
un filone prevalentemente “morale” e di uno invece “estetico”. In maniera diversa,
entrambi mostrano interessanti relazioni con la pedagogia e soprattutto il superamento
della loro dicotomia, che inizierà nel XVIII secolo con l’uomo estetico schilleriano,
aprirà nel corso del Novecento gli scenari teorici più originali.
Il filone morale, sin dalle origini, fa risiedere la pedagogia nell’esempio che il
teatro può offrire attraverso il personaggio, nel porre l'azione dell'uomo giusto,
soprattutto l'eroe del genere tragico, al centro dell'attenzione del pubblico. Gli spettatori
dalla trama e dall’agire dell’eroe devono sentirsi stimolati ad agire in maniera corretta,
ed orientarsi a compiere il bene.
Il filone estetico fa risiedere la pedagogia nella bellezza dell’arte, colloca al
centro dell'esperienza artistica dapprima i sensi dello spettatore e di conseguenza la sua
mente (il pensiero). In questo caso è l'eccitamento della mente ad offrire all'uomo la
possibilità di vedere meglio, di sentire meglio – o semplicemente in maniera diversa – e
sviluppare, o raffinare, una sensibilità e nuovi pensieri attraverso la fruizione teatrale.
La filosofia estetica, si pone il problema della percezione prima ancora che
83
dell'educazione dell'uomo di fronte all'opera d'arte, quindi dello spettatore di fronte allo
spettacolo, e così facendo avvicina l'esperienza dell'arte all’esperienza educativa.
84
2.3 Definizioni, delimitazioni, sconfinamenti
La pluralità di teorie appena descritta nel panorama delineato nel precedente
paragrafo è dovuta anche – fra le altre ragioni – alla pluralità dei teatri esistenti.
Esistono molti teatri e questo motiva l'esistenza di diversi approcci allo studio del teatro.
Le teorie si moltiplicano poiché fanno riferimento ad un oggetto per sua natura
fluttuante, polisemico, plurale. Quando si avvia un ragionamento sul “teatro” bisogna
chiedersi a quale teatro si faccia riferimento. E la domanda deve essere una domanda
fondata su una prospettiva “teorica” e “generale”. Che cosa chiamiamo teatro? Che cosa
riconosciamo come teatro distinguendolo, così, da altre forme d'arte?
Per rispondere a questa domanda con una risposta che sia anche una definizione di
natura epistemologica, oltre che ontologica, più che utilizzare gli studi degli storici del
teatro, dei filosofi e dei semiologi, è interessante utilizzare una suggestiva proposta del
maestro Jerzy Grotowski che, in riferimento al suo “teatro povero”, definiva le regie del
Teatro Laboratorio «ricerche dettagliate sul rapporto pubblico-attore» e per completezza
aggiungeva «Noi riteniamo in effetti che la tecnica scenica e personale dell'attore sia il
nucleo dell'arte teatrale» 113.
Grotowski aveva raggiunto questo “nucleo dell'arte teatrale”, corrispondente a
quella che la semiologia ha sintetizzato nella “relazione teatrale: attore-spettatore”,
attraverso una via negativa, cioè attraverso l'eliminazione progressiva, lo sfrondamento
di tutti quegli elementi del teatro che, a suo parere, stavano ormai intralciando l'arte
stessa, riempiendo il teatro di “difetti”. «Eliminando gradualmente tutto ciò che si
dimostrava superfluo, scoprimmo che il teatro può esistere senza cerone, senza costumi
e scenografie decorative, senza una zona separata di rappresentazione (il palcoscenico),
senza effetti sonori e di luci, ecc. Non può invece esistere senza un rapporto diretto e
palpabile, una comunione di vita fra l'attore e lo spettatore» 114.
Nella seconda metà del Novecento la lezione di Grotowski passava attraverso i
suoi spettacoli, attraverso un incessante lavoro con gli attori che, nel momento in cui li
privava di ogni elemento “materiale” del teatro li spingeva ad “essere” essi stessi il
teatro, a fare del loro corpo, del loro eccezionale talento e del lavoro quotidiano, la
caratteristica unica, la specificità di quest’arte che di tutto può fare a meno tranne che
dell’attore e dello spettatore.
113J. Grotowski, Per un teatro povero, Bulzoni, Roma, 1970, p. 21.
114Ivi, p. 25.
85
Con un linguaggio meno pedagogico e più visionario e potente, l’interrogazione
sulla necessità del teatro, su quale fosse la sua natura e specificità era stata avviata da
Antonin Artaud. Il punto di partenza è sempre lo stesso, ovvero scardinare la dipendenza
fra testo e scena. La “rivoluzione copernicana” che vede invertiti i rapporti d'importanza
fra questi due elementi, nel poeta francese acquisisce anche toni violenti e
misticheggianti. In quell'eccezionale miscela di teoria e prassi teatrale, di intenzioni
sublimi e tentativi falliti che è Il teatro e il suo doppio, Artaud inizia le sue riflessioni
mettendo in evidenza il punto di svolta a cui è giunto il teatro e da cui non può
prescindere proprio perché esso è destinato ineluttabilmente alla morte. Il teatro deve
essere “necessario” per aver senso ed esistere, altrimenti è meglio che muoia. La sua
necessità per essere tale deve essere riconosciuta dal pubblico; il teatro – per esistere –
deve avere un pubblico che lo ritenga “necessario” e non lo equipari ad un passatempo
come tanti altri. Esistono ormai nella vita quotidiana spettacoli ben più attraenti che non
quelli teatrali, spettacoli di bellezza e di violenza inaudita che si consumano talvolta
anche per strada, che si spalancano improvvisi e inaspettati sotto gli occhi della gente
mentre questa, con occhio morboso e attento, li divora riconoscendovi più “realtà”, più
“verità” che non a teatro, sono spettacoli “abietti” e “spaventosi”, ma proprio per questo
molto attraenti, capaci di focalizzare l’attenzione delle persone esercitando un fascino
irresistibile. È con spettacoli come quello della polizia che esegue una retata di
prostitute115 con cui deve competere il teatro, e rischia di uscirne sconfitto.
L’immagine che Artaud sceglie per descrivere la sua idea di teatro è efficace e
anticipa il suo concetto di crudeltà, si tratta della peste, quando «Nelle case spalancate,
entra la feccia della popolazione – immunizzata a quanto pare dalla sua frenetica
cupidigia – e fa man bassa di ricchezze di cui sa perfettamente che è inutile approfittare.
Ed è a questo punto che nasce il teatro. Il teatro, vale a dire una gratuità immediata che
induce ad atti inutili e privi di benefici nel presente» 116. Questa metafora è perfetta per
definire lo “stato” del teatro nell'epoca moderna e soprattutto postmoderna, sebbene le
situazioni contingenti mutino nelle due epoche, sebbene le malattie abbiano sintomi,
decorsi e nomi differenti, esse restano senz'altro malattie mortali. Riccardo Massa 117 la
115«È una casa di aspetto qualsiasi; le sue porte all’improvviso si spalancano e ne esce in corteo un
branco di donne, che camminano come se andassero al macello. La questione si complica, la retata era
diretta non a una certa società equivoca ma soltanto a un ammasso di donne. Emozione e sbigottimento
sono al colmo. Mai messinscena più bella si è conclusa con un simile finale. Noi siamo certamente
colpevoli come quelle donne e crudeli come quei poliziotti. È proprio uno spettacolo completo. Ebbene il
teatro ideale è questo spettacolo» (A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino, 2000, p. 6).
116 Ivi, p. 142.
117 F. Antonacci, F. Cappa (a cura), Riccardo Massa. Lezioni su la peste, il teatro, l'educazione, Franco
Angeli, Milano, 2001.
86
peste artaudiana la riprenderà, approfondendola e declinandola proprio in un contesto
pedagogico, con riflessioni e applicazioni preziose che saranno trattate nel seguente
capitolo.
Il teatro di cui parla Artaud è un teatro necessario, che esiste quando tutto è
perduto, esiste come anelito di vita e come vita stessa, unica possibilità di sopravvivenza
attraverso l'azione. Un'azione che ha nel suo stesso agire il principio di realtà e verità,
un principio che non coincide con l'utilità: l'azione dello sciacallo che deruba le case e si
riempie le mani di gioielli che a nessuno potrà rivendere o semplicemente mostrare
perché tutti sono morti, lo sciacallo che svuota le case essendo lui stesso un appestato,
lui stesso destinato a morte sicura.
Negli anni 30 del Novecento Artaud inizia la sua riflessione sul teatro,
strettamente connessa alla sua attività ed esperienza artistica teatrale, riconoscendo la
grande crisi che ne mina le fondamenta di “credibilità” rispetto al pubblico francese e,
per estensione, europeo. Nel proporre la sua idea di teatro – un teatro “puro” che
avrebbe poi definito “della crudeltà” e mai realizzato per come lo aveva immaginato –
la prima preoccupazione è la possibilità di trovare un pubblico disponibile a dare credito
e fiducia a questo teatro nascente.
Sin dalla prima pagina della raccolta dei suoi scritti, in cui trovano spazio
numerosi manifesti programmatici, Artaud ci ricorda che nel teatro, «a differenza dei
letterati o dei pittori, non ci è possibile fare a meno del pubblico, che diviene del resto
parte integrante del nostro tentativo»118. Le sorti del teatro e del pubblico teatrale sono
quindi strettamente legate ed interdipendenti l'una dall'altra, possono salvarsi solo se
entrambe riconoscono il desiderio di volersi reciprocamente salvare, altrimenti possono
entrambi (teatro e spettatori) scomparire, affondare. In quest'ottica appare chiaro che se
«Il teatro è la cosa più impossibile da salvare al mondo», è anche fra le arti la più fragile
e preziosa poiché offre allo spettatore la responsabilità della propria esistenza, a
differenza delle altre arti che esistono in quanto producono degli oggetti d'arte (intesi
come opera materiale) senza il contributo dello spettatore (escluso dal processo
creativo) e gli si offrono come già dati, liberandolo da ogni responsabilità. Invece il
teatro, per esistere, – non solo per rinnovarsi ed essere salvato – ha bisogno dello
spettatore che ne “certifichi” il potere d'illusione.
La responsabilità è nel teatro che deve possedere il potere d'illusione, ma è anche
nel pubblico che deve abbandonarsi ad essa. «Vogliamo arrivare a questo: che ad ogni
118 A. Artaud, op. cit., p. 5-6.
87
spettacolo allestito è per noi in gioco una partita grave, e che tutto l'interesse del nostro
sforzo sia in questo carattere di gravità. Non ci rivolgiamo allo spirito o ai sensi degli
spettatori, ma a tutta la loro esistenza. Alla loro e alla nostra. Giochiamo la nostra vita
nello spettacolo che si svolge sulla scena. Se non avessimo ben chiara e profonda
coscienza che una parte della nostra vita profonda vi è impegnata, non riterremmo
necessario proseguire la nostra esperienza»119. Artaud vuole che il teatro sia il luogo in
cui dalla scena sia possibile parlare “direttamente allo spirito” degli spettatori 120.
Una grande preoccupazione di Artaud, condivisa da altri “maestri” del teatro del
'900, e che ha ripercussioni significative sulla produzione teatrale della modernità e
postmodernità è la fossilizzazione del teatro come luogo di “esposizione” della cultura
teatrale, le sue parole in merito sono durissime e le troviamo espresse con l'uso
dispregiativo del termine “museo”, un uso che riprenderà Heiner Muller con uguale
accanimento poetico, proprio per denunciare un uso sterile del teatro e che lo uccide a
causa della recisione del legame – fortissimo – che esso deve intrattenere con l'attualità
attraverso il pubblico e la rappresentazione. Infatti scrive: «Ci rifiuteremo sempre di
considerare il teatro come un museo di capolavori, per quanto belli e umani possano
essere. Non avrà mai nessun interesse per noi, né, riteniamo, per il teatro, un'opera che
non obbedisca al principio di attualità. Attualità di sensazioni e di preoccupazioni, più
che di fatti. La vita che si rinnova attraverso la sensibilità attuale. Sensibilità di tempo
come di luogo»121. Occorre comunque tenere presente che il concetto di attualità, per
come lo intende Artaud, è abbastanza complesso, per cui questo passaggio va
problematizzato e interpretato adeguatamente. Adesso sia sufficiente segnalare
l’importanza dell’irrompere dell’attualità in scena, non solo come dovere nei confronti
dello spettatore, ma anche come meccanismo di rivitalizzazione dell’arte stessa.
Sono molti i punti messi in evidenza ma, più il regista e poeta indica con violenza
ciò che il teatro non deve essere, non deve fare, non può rappresentare, o quanto esso sia
in punto di morte, più il lettore avverte la forza vitalistica di quest'arte, il suo essere
“umana” e il suo essere più che mai “necessaria” in un mondo che viene periodicamente
invaso dalla “peste”. Tuona Artaud contro la parola scritta, i testi drammatici da
riproporre, gli attori prezzolati, la politica corrotta, il pubblico assente ma poi sceglie i
testi da rappresentare, vuole una parola poetica in scena, che sappia anche essere attuale,
119 A. Artaud, op. cit., p. 7.
120 «Non ci proponiamo, com'è sempre stato richiesto al teatro, di dare l'illusione di ciò che non è; ma al
contrario, di fare apparire agli sguardi un certo numero di scene, d'immagini indistruttibili, incontestabili,
che parlino direttamente allo spirito» (Ivi, p. 13).
121Ivi., p. 21.
88
chiede agli attori di provare, pretende per loro la paga e vuole il teatro a teatro, non in
strada, lo vuole su un palcoscenico attrezzato e garantito, vuole replicare a lungo i suoi
spettacoli, vuole che spettacoli e attori vengano applauditi da un pubblico pagante. E la
forza della scrittura visionaria di Artaud è nel fatto che attraverso essa il poeta possa
tenere insieme queste “anime” del teatro senza farle deflagrare nelle loro contraddizioni.
La potente riflessione artaudiana non è “contro il teatro”, ma “contro un teatro” che è
quello borghese. Un teatro che ha perso il rapporto con la realtà, non comunica verità,
non interessa più a nessuno, non è un teatro necessario ma è il teatro capace di
trasformare anche i capolavori in museo.
Se per Artaud è nel teatro Balinese che vede realizzata la sua idea di teatro, di un
teatro puro che al centro non ha le parole ma “la Parola di prima delle parole” 122, è
perché in questo teatro c'è l'avverarsi della scena senza le inutili intermediazioni della
pagina scritta che ne minerebbero originarietà e necessità, ovvero vi risiede un teatro in
cui c'è l'eliminazione dell'autore a favore di un regista – per utilizzare un termine del
teatro occidentale – che ha il compito di far nascere il teatro dalla scena e per la scena 123.
Il linguaggio poetico non deve trarre in inganno, deve piuttosto ispirare, quella di
Artaud per il teatro Balinese non è infatti un'infatuazione né una folgorazione, ma
un'epifania su cui bisognerà ragionare e riflettere a lungo, riconoscendo, in anticipo su
tutti i grandi del '900, come il testo possa anche funzionare da “limite” rispetto alla
scena. Egli parla infatti di una vera e propria “soggezione” del teatro alla parola, e non
si tratta affatto di un'esagerazione – magari allo scopo di provocare – ma è piuttosto una
profezia del teatro di ricerca degli anni a venire.
Il teatro che in questa sede si vuole rendere oggetto di analisi e confronto con la
pedagogia è un teatro che possa non tanto definirsi “teatro di ricerca”, anche perché oggi
questo termine è equivoco nel senso che è oramai utilizzato come un'etichetta
riconducibile ad alcune compagnie specifiche e ad alcuni modalità di lavoro e
produzione abbastanza consolidate e riconoscibili, quanto un “teatro come ricerca”.
Il teatro che educa non è necessariamente un teatro di tipo “sociale” (anche nel
senso di politico) o “didattico”, è piuttosto il “teatro come ricerca”. Ovvero un teatro
che nell’offrirsi come esperienza di vita, dell’arte e di incontro con l’altro, possa darsi
come un teatro capace di far riflettere, far crescere lo spettatore, metterlo di fronte alla
possibilità di crescita umana oltre che culturale, insomma un teatro che offra al pubblico
la possibilità di “fare esperienza”.
122Ivi, p. 176.
123Ivi, pp. 177-178
89
90
III CAPITOLO
Pedagogia e teatro: l'incontro possibile
Nel presente capitolo, abbandonati i distinguo e le definizioni delineati nei
precedenti, si affronteranno le convergenze fra pedagogia e teatro nelle loro declinazioni
più efficaci e auspicabili a partire da alcuni concetti-chiave appartenenti ad entrambi gli
ambiti di ricerca, concetti chiave che ruotano attorno all'uomo e alla sua humanitas.
Non si tratta di voler rivendicare e/o legittimare una comune matrice della
pedagogia e del teatro facendo leva sulla constatazione che tanto la pedagogia quanto il
teatro pongano al centro della loro riflessione – ma anche e soprattutto del loro stesso
statuto ontologico – l'uomo, sebbene si debba comunque riconoscere, come già indicato
in maniera sommaria nell'introduzione, che l'uomo, inteso come “uomo-umano”, prima
che come “soggetto-persona”, è il fulcro che rende possibile il dispiegarsi di ogni
ragionamento. Tanto al centro di una scienza problematica come la pedagogia, quanto al
centro di un'arte problematica come il teatro.
Non esiste una parola, una crasi, o una coppia di parole separate/unite da un
trattino che, in sintesi, possa aiutarci a nominare questa convergenza, innanzitutto
perché non esiste una convergenza data in una forma definita e univoca, esiste una
convergenza fatta di mille convergenze, esperienze, situazioni, metodologie, teorie e
pratiche, successi e fallimenti, che è errato definire “pedagogia teatrale” così come è
errato definire “teatro pedagogico” o “teatro didattico”, definizioni che peraltro, come è
stato indicato nell'introduzione generale, hanno ormai acquisito nel tempo ambiti di
significato propri e studi e bibliografie di riferimento che in questa sede si è scelto di
non trattare.
91
3. 1. Centralità della formazione
Stabilito che non si vuole individuare un'etichetta nuova per giustificare come
“pedagogiche” delle pratiche teatrali che hanno, spesso e dichiaratamente, come
ispirazione dell'intero percorso produttivo nonché come obiettivo precipuo, delle finalità
estetiche; né viceversa giustificare come “teatrali” delle attività educative e formative
per prospettive e finalità che pure utilizzano nel percorso complessivo – e spesso in
maniera strumentale – processi, tecniche e modalità d'apprendimento e di lavoro
mutuate dalle pratiche teatrali; si ribadisce che ciò su cui in questa sede si vuole
insistere è come la pedagogia in quanto scienza e il teatro in quanto arte, attraverso
percorsi diversi, con modalità diverse e finalità che potrebbero anche sembrare opposte,
trovino un terreno di convergenza nella questione della formazione.
La formazione, più che l'educazione, si delinea come concetto che pervade il
pensare/fare pedagogico e il pensare/fare teatrale, soprattutto considerato come
dispositivo capace di determinare, regolare e rafforzare quella “relazione” fra l'io e
l'altro, che sia l’educatore con l’allievo, o che sia l’attore con lo spettatore, che è situata
all'origine sia della pedagogia sia del teatro.
Pur nelle loro, molteplici, differenze e distanze, la relazione di tipo pedagogico e
quella di tipo teatrale hanno in comune alcuni tratti fondamentali: in primis l'aspirazione
alla comunicazione e alla formazione, poi il bisogno d'alterità e d'ulteriorità, la ricerca
del sé, l'anelito alla libertà, l'esigenza di emozionalità, di empatia, di libertà e di verità.
Si è già accennato, nei due precedenti capitoli, al teatro come arte prescelta e
maggiormente indicata per esaminare questa convergenza; si ritiene, in effetti, che il
ragionamento che si sta via via proponendo risulti efficace nel suo essere misurato,
tarato, sulle arti performative, poiché la performatività si pone come condizione di base
dell'esistenza stessa dell'arte, e questa stessa performatività, nel caso specifico del
teatro, rende possibile una “relazione” – quella appunto teatrale – che è al tempo stesso
“formativa” e “performativa”. La relazione teatrale esiste laddove esiste il teatro, lo
spettacolo senza spettatore non può esistere poiché l'attore nulla può produrre di
“materiale” e tangibile (a differenza dello scrittore, del pittore o dello scultore) al di
fuori del proprio “esserci” per/davanti a qualcuno.
L'azione teatrale esiste nell'atto di farsi, per cui si avvera grazie e attraverso la
presenza dell'altro; dello spettatore, del fruitore, di un attivatore “esterno” che consenta
all'opera di esistere e, al tempo stesso, ne legittimi l'esistenza e ne partecipi della
92
creazione. Come spiega Marco De Marinis, la “relazione teatrale” è nel teatro,
mantenendo un approccio semiotico, “ciò che esiste realmente”, esiste quindi più dello
spettacolo, più di ogni altro elemento costitutivo della specificità teatrale: «[...] lo
spettacolo non possiede neppure un'esistenza realmente autonoma, da entità finita e
conclusa in se stessa: al contrario, esso acquista senso, diventa intellegibile, comincia
addirittura ad esistere in quanto tale, cioè come fatto estetico e semiotico, solo in
riferimento ai già ricordati momenti della sua produzione e della sua ricezione (anzi,
delle sue ricezioni). Si potrebbe anche arrivare a dire che ciò che esiste realmente,
almeno dal punto di vista semiotico, non è lo spettacolo ma la relazione teatrale,
intendendo con questo termine innanzitutto il rapporto attore-spettatore, e poi vari altri
processi comunicativi e interazionali di cui uno spettacolo è stimolo e occasione dalla
sua prima ideazione fino alla fruizione del pubblico» 124.
Lo spostamento attuato dallo spettacolo come centrale oggetto di studio della
teatrologia a favore della relazione teatrale, e soprattutto l'identificazione progressiva,
attuata dagli stessi teatranti nonché dai più importanti teorici, del teatro con la relazione
teatrale, per cui il teatro esiste laddove si creano le condizioni minime necessarie
all'attuarsi della relazione teatrale, inscrive il prodotto di quest'arte in una
fenomenologia complessa ed ardita, frutto di un incontro fra più elementi anch'essi
provenienti da processi formativi e creativi complessi e stratificati nonché soggetti a
cambiamenti continui, a fattori esterni incontrollabili. Ciò che tiene insieme le parti
“messe in relazione” è, prima ancora e alla base del processo formativo, il processo
comunicativo, ovvero la comunicazione che nella relazione “collega”, “informa” e
“forma” le parti coinvolte.
Il teatro, nell'assieme delle arti performative quali musica, danza, ecc., si distingue
per il suo carattere pluridisciplinare, multimediale e pluricodico, per cui è l'arte per
eccellenza che, dal punto di vista comunicativo, può agganciare un numero molto ampio
di fruitori. La scelta non esclusiva di un linguaggio sugli altri ma la coesistenza dei
linguaggi verbale, gestuale, tattile etc, in scena, permette l'abbattimento dei limiti
comunicativi imposti dal prevalere di un codice sugli altri, sia esso solo visuale, verbale
o gestuale. Ed è proprio l'istanza comunicativa a darsi come esigenza primaria in ogni
relazione fra esseri umani, anzi, per dirla con i filosofi del linguaggio, è la
comunicazione che rende possibile, che fa “esistere”, la relazione stessa.
La pedagogia è, essa stessa, fondata sulla comunicazione, poiché rende possibile il
124
M. De Marinis, Capire il teatro. Lineamenti di una nuova teatrologia, Bulzoni, Roma 1999, p. 24.
93
passaggio – attraverso il linguaggio – fra l'interiorità e l'esteriorità dell'uomo, fra l'uomo
e il mondo, fra l'io e l'altro: «Nell'essenza sostanziale dell'uomo, la forma del linguaggio
esprime un bisogno anche funzionale: quello di dar vita, nella vita, a una struttura
discorsiva con la quale parlare a sé e parlare di sé, parlare all'altro e parlare dell'altro.
Nella parola greca lógos si cela l'identità fra il pensare e il parlare. […] È dunque l'uomo
che parla il proprio mondo. Esso viene detto, comunicato, costruito e decostruito,
secondo una grammatologia che fa del lógos lo strumento con cui il soggetto
trascendentale dall'interiorità raccolta dell'animo umano esce e affronta la differenza
[…]. Il linguaggio sancisce il differire, espugna l'identico e pone la formazione e
l'educazione fra le parole del mondo» 125.
Il linguaggio, e nel caso della pedagogia il riferimento è specificatamente a quello
verbale, è lo strumento che “nominandola” pone l'esistenza della formazione nel mondo.
In generale, di ogni oggetto e/o soggetto nel mondo. Ma il passaggio più importante, in
questo ambito preciso, è l'uscita dell'interiorità fatta parola dal soggetto verso l'esterno,
la possibilità di comunicare incarnata dalla sola possibilità di “comunicare a/con”.
Attraverso la comunicazione l'interiore diventa esteriore, il privato diventa pubblico,
l'individuale diventa sociale, la semplice presenza diventa “rappresentativa”. Spiega
John Dewey, in quel mirabile capitolo di Esperienza e natura intitolato “Natura e
comunicazione” come grazie alla comunicazione «Una cosa direttamente goduta
accresce il proprio significato e perciò stesso il godimento di essa viene idealizzato.
Anche la muta fitta di dolore consegue un'esistenza significativa quando può essere
identificata e può divenire oggetto di discorso; cessa di essere una semplice presenza
che esercita la sua forza e diventa una presenza importante; acquista importanza perché
diventa rappresentativa; ha la dignità di una funzione» 126.
La formazione arriva quasi a coincidere con il linguaggio o, per meglio dire, il
primo atto di formazione, compiuto dalle figure genitoriali, è proprio quello di stabilire
una relazione con il neonato attraverso il linguaggio. La madre inizia attraverso la
rotondità del gesto materno127, attraverso il gesto fisico dell'allattamento, a comunicare
con il bambino, a prendersi cura di lui, a parlargli con un linguaggio che ancora è
inintelligibile al neonato. Il linguaggio – sia quello verbale, quello dei segni per i
bambini sordi o quello che privilegia l'aspetto “tattile” per i ciechi – è l'inizio della
relazione di cura, è il grado zero della “formazione” che precede e contiene ogni
125M. Gennari, Trattato di pedagogia generale, Bompiani, Milano 2006, p. 151.
126J. Dewey, Esperienza e natura, Mursia, Milano 1973, p. 132.
127Cfr. I. Gamelli, Sensibili al corpo. I gesti della formazione e della cura, Meltemi, Roma 2005.
94
possibilità di futura educazione.
Per sviluppare il linguaggio il bambino non può “fare da solo”, ha bisogno di
qualcuno che glielo insegni, attraverso un'azione che non è diretta alla semplice cura per
la sopravvivenza biologica del bambino, ma è già, sin dalla nascita, un'azione che
compete all'ambito della formazione. In questa prima fase, in cui il linguaggio veicola la
sua stessa presenza, prima di veicolare un qualsivoglia contenuto, il linguaggio si
caratterizza già come dialogo, come possibilità di dialogo, è un linguaggio basico che
vuole dire: “voglio comunicare con te, sto comunicando con te, io esisto e tu esisti
perché stiamo comunicando”. Si ricordi che: «Il linguaggio non lo si può acquisire da
soli: per quanto attinga da una capacità innata, la competenza linguistica si palesa come
un'abilità squisitamente relazionale, esito di un processo definito da Vygotskij di
“negoziazione”, tale per cui chi si trova “più avanti” aiuta l'altro a progredire nella
stessa direzione. Ciò che fa la differenza – che consente il passaggio dalla sensazione al
pensiero – non sta dunque in un preliminare possesso delle precise regole del linguaggio
ma in ciò che potremmo chiamare “l'intento comunicativo”. È il dialogo che avvia il
linguaggio, e non il contrario»128.
L'arte è solitamente fondata sulla comunicazione “mediata”, la mediazione è ciò
che sta fra l'artista e il fruitore: il libro, il quadro, il film ecc., insomma, “l'opera”.
Nell'opera si concretizza la possibilità della comunicazione, attraverso la “forma”,
quella forma che ad esempio sempre John Dewey definisce in termini di “relazioni”,
con il portato di ambiguità che tale definizione comporta: «La forma è stata definita in
termini di relazioni, e la forma estetica in termini di completezza di relazioni entro un
medium prescelto. Ma “relazione” è una parola ambigua. Nel discorso filosofico è usata
per designare una connessione stabilita nel pensiero. In tal caso significa qualcosa di
indiretto, di puramente intellettuale, addirittura di logico. Nel suo uso idiomatico, però,
“relazione” denota qualcosa di diretto e di attivo, qualcosa di dinamico ed energico.
Fissa l'attenzione sul modo in cui le cose si rapportano l'una all'altra, sulle loro collisioni
e sulle loro congiunzioni, sul modo in cui si soddisfano o si frustrano, si favoriscono o
si ostacolano, si eccitano o si inibiscono l'una con l'altra» 129. Nel caso del teatro fra il
creatore/artista e il fruitore/spettatore c'è lo spettacolo in quanto “opera” e “medium”.
Ma cos'è lo spettacolo? «Spettacolo è tutto ciò che si offra allo sguardo. […] Tale
termine generico si applica alla parte visibile della pièce (rappresentazione), a tutte le
forme d'arte della rappresentazione (danza, opera, cinema, mimo, circo, ecc.) e ad altre
128I. Gamelli, op. cit., pp. 149-150.
129 J. Dewey, op. cit., p. 145.
95
attività che implichino una partecipazione del pubblico (sport, riti, culti, interazioni
sociali), insomma a tutte le cultural performances di cui si occupa l'etnoscenologia»130.
La generalistica definizione di Pavis ha il pregio di essere inclusiva ma, proprio per
questo finisce per delimitare con forza l'ampiezza delle possibilità imponendo la
condizione essenziale della “partecipazione del pubblico”. E ancora, l'estendere a tutte
le cultural performances, se da una parte allarga a tutte le pratiche dei comportamenti
umani spettacolari organizzati, dall'altro focalizza sull'uomo e soprattutto sul suo corpo,
sulla sua azione performativa, sottolineando come l’uomo, di fatto, anche da solo, senza
scena, costumi, o altri elementi materiali, tali performances le possa compiere. Alla fine,
lo spettacolo, tutto ciò che si offre allo sguardo, può consistere solo dell'attore.
Il teatro se non è l'unica forma d'arte in cui l'opera può coincidere con un corpo
umano, con il corpo dell'attore, è sicuramente la principale, quella che ha eletto questa
possibilità espressiva a sua specificità costitutiva. Infatti dalla nascita del teatro ad oggi:
l'attore può coincidere con l'autore, il regista ecc. L'attore entrando in scena esiste –
anche senza copione, senza testo, senza gesto – perché il suo esserci – la sua presenza
corporea (ma senza scindere il fisico dal mentale) è copione, è testo, è gesto. A teatro il
silenzio è testo, dice, comunica131. Lo spettacolo è già nella relazione con il pubblico,
nell'azione che fra attore e spettatore intercorre.
Così spiega Peter Brook la specificità del teatro: «Se l’abitudine ci porta a credere
che il teatro debba iniziare con un palcoscenico, scene, luci, musica, poltrone…
partiamo sulla strada sbagliata. Può essere vero che per fare dei film ci sia bisogno di
una macchina da presa, di pellicola e degli strumenti per svilupparla, ma per fare teatro
occorre solo una cosa: l’elemento umano»132. L’argomento era già stato affrontato dal
regista inglese nelle sue precedenti riflessioni sul teatro ne Lo spazio vuoto, ma è ne La
porta aperta che sente l’esigenza di chiarire e dare “sentimento” a questo concetto così
importante e definitivo, aggiunge infatti: «Una volta affermai che il teatro comincia
quando due persone si incontrano. Se una persona si alza in piedi e un’altra la guarda,
questo è già un inizio. Perché ci sia uno sviluppo, c’è bisogno che subentri una terza
persona che provochi un incontro. Allora subentra la vita, ed è possibile andare molto
lontano – ma i tre elementi sono essenziali» 133.
È a partire da questi “tre” elementi che formiamo un terreno comune fra
pedagogia e teatro: due persone che si incontrano, e il legame “vitale” che possono
130P. Pavis, Dizionario del teatro, Zanichelli, Bologna 1998, p. 424.
131Cfr. P. Szondi, Teoria del dramma moderno, Einaudi, Torino 1962.
132
P. Brook, La porta aperta, Einaudi, Torino 2005, pp. 10-11.
133 Ibidem.
96
scatenare. Siamo nella relazione pedagogica, da cui deriva l’atto formativo, la “vita” di
cui parla Peter Brook. Per cui si delinea un primo livello di convergenza che accomuna
pedagogia e teatro e che possiamo considerare basilare, anzi “fondativo” come carattere
in entrambe presente e riconoscibile, questo comune terreno d'appartenenza è, con
successive specificazioni, la “centralità della formazione”.
Il discorso relativo alla formazione, senz'altro centrale in pedagogia, lo è anche
nel teatro, sin dalle origini, proprio per quegli aspetti comunicativi (e ontologici) a cui si
è fatto riferimento nei capitoli precedenti. Il teatro non è dichiaratamente interessato alla
formazione, ma è necessariamente interessato allo spettatore, all'altro che guarda, assiste
allo spettacolo, consente l'esistenza dello stesso e, soprattutto, inter-agisce con la scena,
è quindi coinvolto in una relazione innanzitutto “teatrale”, e in seconda istanza
“formativa”.
Con lo spettatore esso intreccia un dialogo di tipologia particolare, che è sempre
duplice, poiché interessa l'altro in senso astratto/sociale, ma trattandosi di una vera e
propria comunicazione, lo interessa anche in senso particolare/individuale. Poiché è la
comunicazione stessa che impone la reciprocità, impone la relazione: «Il linguaggio
istituisce la reciprocità, il cui valore è stabilito nell'interpretabilità vicendevole tra un io
e un tu, un altro, un terzo... che non può essere estromesso o escluso»134.
Elemento da sempre presente nel discorso pedagogico, anzi costitutivo
dell'identità della pedagogia, la formazione appare come elemento di riflessione teorica,
seppure non continuativo né ontologicamente fondativo, quindi non nella sua accezione
più propria, nella storia del teatro dalle origini ad oggi. Per essere meno vaghi, dalla
tragedia classica greca fino al teatro “di ricerca” che inizia nel secondo Novecento,
passando per la tradizione delle rappresentazioni sacre medioevali, l'autoriflessività
dell'età shakespeariana, l'esperienza brechtiana e dell'agit-prop, fino ad arrivare ai giorni
nostri sulla lunga scia di un teatro “antropologico”, “popolare”, “sociale”, “partecipato”,
ecc. Ma l'individuazione di queste “tappe” di convergenza del pedagogico nel teatrale
individuabili nella storia del teatro non deve trarre in inganno, il teatro nasce e giunge
fino ad oggi con l'attenzione puntata sulla scena e sullo spettatore, così come la
pedagogia, attraverso il concetto di formazione, nasce con l'attenzione dell'uomo per se
stesso e per l'altro.
Ma cos'è la formazione? Si prenda in considerazione l'esaustiva definizione
proposta da Cambi: «La formazione è il processo di crescita, sviluppo, orientamento
134M. Gennari, Trattato di pedagogia generale, cit., p. 151.
97
personale, che fa del soggetto quello che è, col suo carattere, le sue vocazioni, i suoi
obiettivi. È un processo che verte soprattutto sulle scelte interiori del soggetto, che
riguarda soprattutto la sua vita interiore, che lo apre via via al superamento della propria
“materialità” (organica e fisica, sociale e storica) in direzione della sua spiritualità che è
sì coscienza di sé, anche, ma è, in particolare, sviluppo del sé nell'io, di una personalità
arricchita da tutte le forme (o, almeno, da molte o da alcune) della vita spirituale, di cui
è depositaria la cultura, di ieri e di oggi, e tutta quanta. La formazione è sviluppo del
soggetto nella sua umanità (humanitas come dicevano i latini) che si fa e cresce nella
costante mediazione tra coscienza individuale e oggettività culturale»135. Il movimento è
dall'interno verso l'esterno, dall'uomo che pensa se stesso e si prende cura di sé, verso
un esterno che è fatto dell'altro da sé, di un altro da sé che non è solo materiale, “gli
altri” e “il mondo”, ma che è anche, e soprattutto spirituale: l'alterità, l'ulteriorità, la
cultura. Cultura di cui l'uomo, il “soggetto-persona”, ha la responsabilità di doversi
prendere cura.
Tutto ciò, in ambito teorico, è considerato un problema fondativo della pedagogia
stessa, elemento di crisi nell'intenderla come scienza, elemento di identità nel
distinguerla dai saperi umanistici, elemento di complessità nel considerarla “sistema di
saperi”. È l'oggetto stesso della pedagogia ad essere complesso, perché attiene all'uomo
ma non all'uomo inteso come “un” aspetto dell'umanità, ma all'uomo inteso come
“uomo-umano”, nel suo relazionarsi inesausto con se stesso, l'altro, il mondo,
l'ulteriorità e quella cultura che pure, come parte della società umana, egli stesso ha
contribuito a produrre.
Il discorso pedagogico pone la centralità della formazione come elemento di
sintesi e al tempo stesso problema aperto di un sapere, la pedagogia, posto tra
costituzione e regolazione di senso, tra teorizzazione e applicazione. Per cui «[...]
l'oggetto della pedagogia, il momento della sua esplicazione, risulta essere il processo
formativo, in quanto rispetto all'oggetto-educazione è espressione di un processo più
complesso costituito da un insieme di categorie che evidenziano la tendenziale
espropriazione da parte degli altri saperi, la possibile applicazione dei modelli
pedagogici di riferimento verso la pratica, la tensione problematica verso i valori» 136.
Questa tensione problematica verso i valori, che sono i molteplici valori del sociale, del
politico, del culturale, del contemporaneo, dell'“umano”, può trovare una sua
135F.Cambi, “L'identità postmoderna della pedagogia generale” in F. Cambi, M. Giosi, A. Mariani, D.
Sarsini (a cura), Pedagogia generale. Identità, percorsi, funzione, Carocci, Roma 2009, p. 36.
136G. Spadafora, cit., p. 27.
98
“rappresentazione” nel teatro, nell'arte in generale e nel teatro in particolare.
È anche per questa problematicità, critica e al tempo stesso virtuosa, che la
presente ricerca pone la formazione come categoria fondante dell'incontro fra pedagogia
e teatro, mettendo in secondo piano l'educazione, senza escluderla. Perché se
educazione e formazione non coincidono, è anche vero che la formazione include
l'educazione in un complesso reticolo di rapporti, anche fondativi e soprattutto
fondativi, che ne consentono l'esistenza e il dispiegarsi in un agire antinomico all'interno
di un quadro originario che vuole darsi come aperto e problematico, poiché considera
l'uomo come soggetto al tempo stesso autonomo e sociale. «Senza educazione non c'è
formazione. Ma questa va oltre. Si sposta su quella quota personale, interiore, spirituale
(coscienza + cultura) che meno riguarda l'educazione o, in genere, non la riguarda
affatto. L'educazione trasmette e conforma. Soprattutto e in particolare. La formazione
coltiva il soggetto, nella sua autonomia, nella sua singolarità, nella sua irripetibilità e gli
offre gli strumenti per coltivarsi in questa sua specificità di esser-soggetto singolo e
creativo. L'educazione è sociale e produce socializzazione. La formazione è personale e
crea individui originali e autonomi e creativi» 137.
La chiave è l'autonomia del soggetto, obiettivo della formazione, una autonomia
rivolta all'esterno, sempre in cerca di relazioni in cui potersi avverare. I valori di
autonomia come anche quello, fondante il pedagogico, di libertà138 sono valori che non
possono essere letti nell'ottica singolare, dell'isolamento solipsistico, sono valori del sé
nel momento in cui si riconoscono nell'altro. Nel momento in cui danno vita ad una
relazione che si deve dare come paritaria, aperta, inclusiva, solidale. Sono valori che
hanno senso nel privato solo se si misurano nel pubblico, nella società.
Rita Fadda, riprendendo Marìa Zambrano, poeticamente ci ricorda che «La
formazione è nella vita ed è vita, con il suo carico di imponderabilità, di mistero, di
casualità e di alea, è vita che si forma, perché la vita è come un fiume che ha bisogno
degli argini e così essa ha bisogno di scorrere chiusa in una forma, perché solo al suo
interno si rende attiva, perché l'informe è inattivo e sterile e la vita è tanto più perfetta
quanto più è impegno per ognuno di noi a cercarne la verità, cioè il senso, la direzione,
e, ancora una volta, la forma»139. Forma come immagine di sé che si dà agli altri e che
137F.Cambi, “L'identità postmoderna della pedagogia generale” in F. Cambi, M. Giosi, A. Mariani, D.
Sarsini (a cura), Pedagogia generale. Identità, percorsi, funzione, Carocci, Roma 2009, p. 37.
138Cfr. M. Montessori, Educare alla libertà, Mondadori, Milano 2008.
139 R. Fadda, “Un modello italiano di pedagogia critica. Presupposti, sviluppi, problemi aperti”, in E.
Colicchi (a cura), Per una pedagogia critica. Dimensioni teoriche e prospettive pratiche, Carocci, Roma,
2009, p. 45.
99
gli altri danno, forma come atto d'amore e di cura che l'uomo dà al mondo, forma come
atto d'amore e di cura con cui – attraverso l'immaginario culturale – il mondo accoglie,
forma e “libera” l'uomo.
La formazione include, nel suo agire educativo, quel concetto (già trattato nel
primo capitolo), da richiamare come paradigma e modello pedagogico, di “cura del sé”.
In pedagogia, questo concetto significa: «Cura come prendersi-cura, sostenere, affinare,
sviluppare, poi anche guidare, orientare, ma sempre nella e per la libertà. Così la cura in
pedagogia si tende tra sostegno e dono e colora sempre di legami affettivi-emotivi
positivi, siano essi espliciti o impliciti in un agire, prossemico, ma “spirituale”, rivolto
all'interiorità (della mente, del cuore, del sé). Un tipo di cura specifica e da tutelare (da
interpretare) nella sua specificità» 140.
In conclusione, la formazione come parola-chiave di una possibile convergenza in
pedagogia e nel teatro, significa insistere sul concetto di “relazione”, perché è
nell'attività relazionale io/altro e attore/spettatore che si creano le condizioni di
comunicazione, empatia, confronto che consentono i presupposti per un rapporto
formativo. La libertà espressiva, creativa e comunicativa rimane come strumento
regolatore di una relazione complessa, potente e fragile al tempo stesso, che vede
l'uomo attivo nella cura del sé attraverso la cura dell'altro all'interno del mondo. Il
teatro, con la “relazione teatrale” si offre come arte privilegiata, poiché essa ne esplicita
il meccanismo io-altro, interno-esterno, interiorità-alterità, lo metaforizza e lo sublima
nel rapporto attore-spettatore, lo mette in crisi e costantemente lo rinnova
nell'esperienza fruitiva, lo circoscrive nel qui e ora dell'azione in scena, lo amplifica e lo
espande nelle mille forme dei teatri possibili.
140F. Cambi, “L'agire educativo: la struttura e il senso”, in op. cit., p. 94.
100
3.2 L'antinomia ambivalente nell'educazione e nel teatro.
Una delle questioni più interessanti, ma anche controverse che emerge dal
convergere di pedagogia e teatro, è la questione del “sociale” e/o del “politico”. Si tratta
di una problematica che è tornata a giocare un ruolo di primo piano negli studi di
settore, e che sta conoscendo nuovi approfondimenti sebbene su percorsi paralleli riferiti
ai due ambiti. In ambito pedagogico prevale con le ricerche portate avanti nel definire,
sviluppare e valorizzare concetti quali: l'emancipazione, la cittadinanza, la democrazia,
l'intercultura, l'educazione alla pace, ecc. Mentre, per quel che concerne il teatro,
emerge nell'individuazione di categorie quali il teatro popolare, sociale, di comunità,
partecipato ecc.
Da un punto di vista storico, la questione del “sociale”, caratterizza la pedagogia
sin dalle sue origini: «Già l'educazione è, da sempre, un fatto sociale: esercitata dalla
società in varie forme e rivolta a tenere attiva la “forma di vita” a cui quella società ha
dato luogo. Educazione è inculturazione e trasmissione e conformazione. Pertanto è
l'educazione a render presente nelle diverse generazioni quella specifica forma-di-vita, a
trasmetterla, depositarla, farla essere. Così l'educazione è il collante-basico di ogni
società. Sempre. Ed è l'educazione che, di fatto, ha reso possibile la storia, qui e là, ieri,
oggi e in generale. Poi nasce la pedagogia: anch'essa (come sapere – rigoroso, critico,
innovatore – sull'educazione) cresce in una situazione sociale. Di crisi di un costume. Di
bisogno di nuovi modelli»141. L'educazione come fatto sociale significa connotare di un
insieme di significati la parola educazione, riconoscerle un ampio spettro di pensiero e
di azione che parte dal nucleo più piccolo che costituisce la società, ovvero la famiglia –
a cui è attribuito il compito di impartire la prima educazione – per poi estendersi a
nuclei più grandi, complessi e articolati come la scuola, la comunità religiosa,
l'ambiente lavorativo, la cittadinanza ecc.
L'educazione si fonda su una relazione, essa inizialmente ha origine coinvolgendo
solo due persone: genitore-figlio, maestro-allievo, artigiano-apprendista; ma queste due
persone fondano la loro relazione su una trasmissione di conoscenza, linguaggi, cultura,
pratiche e tecniche che sono patrimonio della società tutta, che appartengono prima
all'umanità che al singolo uomo.
141F. Cambi, Politica, pedagogia e democrazia ieri e oggi: dal nesso teorico alla cittadinanza attiva, in
F. Cambi, L'inquietudine della ricerca, op. cit., p. 157.
101
Il singolo uomo si fa strumento della trasmissione e con la sua azione partecipa al
processo formativo che coinvolge la società a lui più prossima, e in maniera collaterale
l'intera società. Solo in un'ottica “sociale” ha senso l'esperienza “particolare”, poiché è
nella trasmissione, nella condivisione, nella partecipazione e quindi nella “formazione”
che l'atto educativo ha valore.
Quanto l'elemento sociale sia connaturato al pedagogico è chiarito da Daniela
Sarsini in un quadro descrittivo dei settori disciplinari pedagogici. La studiosa, ad
esempio, nel trattare la distinzione fra pedagogia “generale” e pedagogia “sociale”
spiega come si tratti di due dimensioni “costitutive” delle problematiche educative e
formative e che quindi non vadano considerate come due ambiti di ricerca specifici e
contrapposti all'interno della pedagogia: «Prima di tutto perché l'attenzione al sociale è
sempre stata presente nella pedagogia che, come scienza teorico-pratica, porta nel
proprio DNA la dimensione del sociale sia nel momento dell'elaborazione riflessiva sia
in quello della progettazione operativa; in secondo luogo perché la pedagogia italiana
nel secondo dopoguerra ha assunto sempre più una curvatura sociale in concomitanza
con le trasformazioni economiche e con le elaborazioni politico-ideologiche che si sono
sviluppate nel mondo laico e cattolico e che hanno dato grande risalto alle
problematiche sociali e culturali come elementi determinanti della formazione umana e
del successo scolastico»142.
Ciò che potrebbe apparire scontato in realtà non lo è affatto. Pur vivendo in
un'epoca iperscolarizzata, in cui le agenzie educative si sono moltiplicate, in cui i nuovi
media hanno consentito un maggiore accesso alla conoscenza e ai saperi, i cambiamenti
sostanziali che hanno interessato sia la famiglia come nucleo primordiale del “sociale”
sia la società nel senso più esteso ed inclusivo, hanno condotto ad un maggiore
isolamento dell'uomo, sempre più chiuso in una microsocietà (sia familiare, sia
lavorativa, sia amicale ecc) percepita come maggiormente gestibile rispetto ad una
macrosocietà che appare troppo fuori controllo, ricca esageratamente di opportunità a
cui davvero in pochi avranno accesso. La società appare sempre più proteiforme e
sterminata, le nuove tecnologie amplificano l'informazione e, in maniera capillare,
invadono ogni spazio vitale all'interno del privato oltre che del pubblico. È il concetto
stesso di comunità che viene messo in crisi, unito ad una progressiva perdita di fiducia
nel sociale inteso come forza aggregante, socializzante, solidarizzante.
Nel tempo la pedagogia aggiunge l'aggettivo “sociale” e rende esplicita una
142D. Sarsini, “La pedagogia generale e le sue frontiere”, in F. Cambi, M. Giosi, A. Mariani, D. Sarsini (a
cura), Pedagogia generale. Identità, percorsi, funzione, Carocci, Roma 2009, p. 145.
102
missione che già le appartiene, che la costituisce intimamente. L'educazione e la
formazione devono darsi come finalità del loro sapere/prassi una specifica attenzione al
sociale, devono rinnovare l'impegno nel politico e nell'etico, devono riscoprire la
necessità e l'originarietà di un pensare e di un fare che appartiene al pedagogico nella
misura in cui appartiene alla società e su di essa può influire. L'esplicitazione
dell'impegno sociale della pedagogia avviene attraverso il riconoscimento di una rete
articolata e organizzata che supporta e connette l'esperienza educativa e formativa delle
singole realtà a delle realtà più ampie e stratificate che interessano il territorio e che
ampliano i processi di causalità, di opportunità e di condizionamento 143. Il quadro si
allarga e include in una logica complessa tutto ciò che può incidere sulla formazione del
soggetto: aumentano le responsabilità condivise, aumentano le esperienze relazionali,
aumentano gli stimoli (anche negativi) che possono essere assecondati o rifiutati, mai
ignorati.
Non si tratta di conquiste dell'oggi, quanto di una riscoperta delle origini della
pedagogia, di un rimettere in campo, con una nuova consapevolezza, la questione del
sociale con tutte le implicazioni che essa comporta, prima fra tutte la responsabilità del
singolo in rapporto agli altri e la presa di coscienza dell'appartenenza, mai neutrale
sempre di parte, al contesto culturale, politico e religioso in cui si “abita”.
Chiarisce bene Mario Gennari, studioso della Bildung, come «La pedagogia non è
una scienza socialmente neutrale in quanto ogni critica alle politiche della formazione e
dell'educazione si inscrive all'interno di differenti Weltanschauungen. Il suo è, dunque,
un sapere-prassi che pervade il politico e l'etico nelle loro forme sociali, familiari,
scolastiche, extrascolastiche e mediatiche contribuendo alla costruzione di una critica
delle istituzioni e di una critica del potere, di una critica dei sistemi educativi e di una
critica degli stili di vita. Ogni critica richiede un pensiero impegnato culturalmente e
scientificamente, socialmente e politicamente. Detto pensare non è incontrovertibile:
quindi può essere costantemente posto in discussione» 144.
La pervasività della pedagogia nella società, che è politica ed è etica, è qualcosa di
143«La pedagogia sociale è dunque parte e settore della generale e la sua specificità è legata al fatto che
privilegia una logica sistemica e complessa piuttosto che settoriale nel modo con cui affronta i problemi,
per cui se si occupa dei temi relativi alla scuola, li collega alla realtà più vasta della comunità sociale nella
quale la scuola è inserita, e se si rivolge all'educazione familiare lo fa correlandola alle condizioni
materiali di vita dei soggetti e alle politiche formative proposte nel territorio. Così le tematiche educative
emergenti nel sociale sono affrontate in forma operativa attraverso la valorizzazione di modelli
interpretativi locali e delle risorse messe a disposizione dalla collettività, ma sono collocate dentro una
visione globale che permette di enuclearne intrecci e rimandi che danno agli interventi un respiro ampio e
generale» (D. Sarsini, “La pedagogia generale e le sue frontiere”, in F. Cambi, M. Giosi, A. Mariani, D.
Sarsini (a cura), Pedagogia generale. Identità, percorsi, funzione, Carocci, Roma 2009, p. 146).
144M. Gennari, Trattato di pedagogia generale, Bompiani, Milano, 2006, p. 30.
103
connaturato al suo stesso sapere, è un compito talora non esplicitato ma sempre presente
ed imprescindibile, che la caratterizza in profondità. Ciò che ha ben spiegato Gennari
per la pedagogia è concetto che può essere riferito al teatro, arte socialmente non
neutrale, neanche quando si propone come arte d'evasione e/o intrattenimento (poiché
anche in questo caso lo è per “negazione”).
Per quel che riguarda il teatro, la caratteristica di “socialità” è talmente intrinseca
alla sua stessa essenza da essere considerata, ad esempio da Ponte Di Pino, “premessa
superflua” nel suo ancora work in progress studio sul “teatro sociale”: «Una premessa
superflua: tutto il teatro è da sempre “teatro sociale” e “teatro di comunità”. Il teatro è
un’arte sociale, a differenza per esempio della pittura e della scrittura: un quadro o una
poesia esistono indipendentemente da chi li guarda o legge, in quanto oggetti e opere. Al
contrario, uno spettacolo senza pubblico non può esistere, non ha senso. Nelle parole di
Claudio Meldolesi, “l'azione teatrale proviene dalla mente… ma con modalità collettive
anziché individualizzatrici, controllabili anziché dominatrici, coinvolgenti anziché
introverse, portatrici di arricchimento affettivo e artistico”» 145.
Il teatro è un'arte “sociale” in una doppia, anzi tripla accezione, lo è sia dal punto
di vista creativo, sia dal punto di vista produttivo e di messa in scena, sia infine per quel
che concerne la fruizione. Esso è storicamente il frutto delle esigenze comunicative,
politiche e di festa di un'intera comunità che, dapprima attraverso riti propiziatori e
liberatori, poi attraverso la codificazione della forma tragedia e della forma commedia –
nell'antica Grecia – decide di confrontarsi con tematiche attuali, dolorose, ineludibili,
dal forte potere “aggregante” proprio perché di interesse collettivo.
Il teatro concretizza nel suo oggetto d'arte, nello spettacolo, la sintesi di un lavoro
“collettivo” frutto di competenze diverse che implicano la condivisione di responsabilità
e scelte artistiche; anche laddove ci troviamo di fronte alla coincidenza di drammaturgoregista-attore il teatro rimane dal punto di vista produttivo un'arte sociale sia per quello
spettatore che mai può coincidere con l'attore, pena l'annullamento della relazione
teatrale e quindi della stessa arte, sia per quell'offrirsi in scena che è sempre frutto, a sua
volta, di un'interazione io-mondo. Infine il teatro è sociale perché ha anche il compito di
creare una nuova comunità, più piccola e numericamente limitata – la comunità degli
spettatori ovvero di quella parte della comunità che ha “scelto” di andare a teatro invece
di starsene a casa – che si stringe attorno all'esserci del teatro, attorno alla
145O. Ponte di Pino, Teatro della persona, teatri delle persone. Una riflessione sul teatro sociale e di
comunità, in ateatro 139.7 del 2/28/2012.
104
rappresentazione teatrale 146.
È, questa formata dagli spettatori teatrali, una nuova micro-comunità che
dovrebbe, in linea ipotetica, essere abbastanza consapevole del proprio stato, soprattutto
in un'epoca in cui il teatro non è certo né l'unica possibilità di intrattenimento, né è
ormai ritenuto attrattivo per questa ragione; oggigiorno le ragioni per andare a teatro
non sono tanto quelle della ricerca dell'intrattenimento, dato che esso è garantito
soprattutto da altre forme di performatività sempre meno presenti nei teatri (ad esempio
il cabaret e l'avanspettacolo) e sempre più presenti fra cinema, televisione, videogiochi,
internet.
La scelta di andare al teatro, prima ancora di prendere in considerazione “cosa”
andare a vedere, è una scelta precisa, che implica la messa in gioco dello spettatore in
un modo unico, non realizzabile con le arti della riproducibilità tecnica. Rispetto al
“cosa”, la scelta di andare a teatro, seguendo le statistiche più recenti, è piuttosto
orientata verso proposte abbastanza eterogenee e non proprio “facili”, c'è la presenza del
musical di filiazione americana, ma c'è il filone ad esempio del teatro di narrazione in
cui alla semplicità dell'impianto scenico si unisce una drammaturgia della parola
abbastanza articolata e complessa, tengono sempre i cartelloni dei teatri di tradizione
con i classici dell'opera lirica e della prosa, ma c'è anche tutto un circuito preziosissimo
di festival e rassegne, premi e concorsi in cui emergono le proposte più interessanti ed
innovative della scena nazionale ed europea.
Il valore formativo del teatro può risiedere quindi, anche, nella sua capacità di
formare una comunità – quella degli spettatori – che andando a teatro non scelgono solo
di vedere uno spettacolo, ma scelgono di vederlo ad una data ora, in un determinato
luogo e scelgono di farlo non come esperienza solitaria – come può accadere, ad
esempio, recandosi ad un museo, in visita ad un monumento o ad una mostra d'arte – ma
andando a condividere un'esperienza (estetica, di divertimento, sociale, ecc.) con altre
persone, massimamente sconosciute. Sempre Ponte di Pino spiega: «Il teatro mette in
azione e in relazione tre comunità: - quella di chi crea e realizza lo spettacolo (che non è
mai un'opera di creazione individuale ma coinvolge una pluralità di soggetti “creatori”);
- quella di chi assiste allo spettacolo (il pubblico), che si fonde in una comunità più
ampia con chi agisce sulla scena; quella della società che ospita lo spettacolo, la polis
nel suo complesso»147.
146«[...] nella comunità il teatro può non avere alcuna funzione particolare oppure averne una specifica.
Nel secondo caso la specificità della sua funzione sta nell'offrire ciò che non si trova in strada, a casa, al
bar, dagli amici, sul lettino dello psicanalista, in chiesa, al cinema» (P. Brook, op, cit., p. 108).
147O. Ponte di Pino, Teatro della persona, teatri delle persone. Una riflessione sul teatro sociale e di
105
Nella qualità intrinseca del teatro del rapportarsi con il pubblico, qualità si è detto
fondativa e caratterizzante, risiede la possibilità del teatro di “farsi scuola” di proporsi
come luogo di educazione e di insegnamento, luogo di condivisione dei saperi, luogo
anche di propaganda politica come di emancipazione e, eventualmente, lotta e
rivoluzione. Infatti nel teatro è possibile riscontrare alcune funzioni in comune con la
pedagogia, riassumibili in una serie di verbi potentemente connotati come: educare,
indottrinare, emancipare, problematizzare... ognuno di questi verbi oscilla fra un polo
negativo ed uno positivo, in cui risiede la cosiddetta antinomia ambivalente della
pedagogia148.
Fra il polo negativo dell'indottrinamento e quello positivo dell'emancipazione
possono trovare luogo diverse teorie pedagogiche come anche innumerevoli esperienze
teatrali. Il punto davvero problematico, in questa proposta di convergenza pedagogiateatro, appare dato dalla dimensione estetica del teatro in quanto arte e quindi
appartenente anche al teatro sociale, rispetto ad una caratterizzazione puramente sociale
della pedagogia che, in quanto scienza, può non avvalersi di alcuna dimensione estetica,
e concentrare il suo discorso su un piano di comunicazione tecnico-pratica che, alla resa
dei conti, deve essere efficace più sul piano della veicolazione del messaggio che non
sulle modalità, sul “come” il messaggio venga veicolato.
Nel teatro il “come” non può prescindere dal “cosa”, nell'infinita possibilità di
poetiche da fondare e a cui attingere, e a patto di non annullare la stessa valenza
dell'arte. Si può spaziare da un teatro della “crudeltà” per come lo aveva immaginato
Artaud ad un teatro “povero” per come lo aveva fondato Grotowski, da un teatro di
“narrazione” alla Paolini o Celestini ad un teatro “organico” nella visione della Societas
Raffaello Sanzio, da un teatro “feticista” alla Rodrigo Garcia ad un teatro
“postdrammatico” alla Heiner Müller, e l'elenco potrebbe andare avanti a lungo 149. Cosa
accomuna questi teatri così diversi, che parlano diversi linguaggi della scena, che
mutano poetiche e mettono in crisi le loro stesse conquiste di forma e stile all'interno del
loro percorso artistico, che hanno il coraggio anche dell'azzeramento linguistico, come
anche dell'autocritica metateatrale?
Tutti quelli appena citati si danno come teatri “necessari”, e in questo conservano
il loro più stretto legame con il loro presente, con un'attualità sociale e politica su cui
vogliono intervenire: per criticare, per smascherare, per stupire, per costruire, per
comunità, in ateatro 139.7 del 2/28/2012 [inserire link].
148Cfr. Spadafora, Verso l'emancipazione, Carocci, Roma 2010.
149Per un panorama teorico-critico del teatro del secondo Novecento Cfr.. V. Valentini, Mondi, corpi,
materie. Teatri del secondo Novecento, Bruno Mondadori, Milano, 2007.
106
raccontare, per ricordare. Ognuno con le modalità poetiche che trova più consone al
proprio immaginario, ognuno mettendo a frutto il proprio bagaglio personale di cultura
e di vissuto emozionale, ognuno con le tecniche e le pratiche che ha saputo costruire,
“rischiando” il palcoscenico, mettendosi alla prova nella/sulla scena, quindi cercando il
rapporto diretto con lo spettatore: applausi o fischi, il pieno o il vuoto, la tournée o la
prima unica. Per molti artisti e protagonisti – certo non per tutti – del teatro
contemporaneo, la scelta poetica del fare teatro è già un atto politico in sé. Laddove
altre forme d'arte consentono un approccio più esclusivo, intimo e forse anche creativo
con il proprio mondo interiore, il teatro, con il suo aprirsi all'esterno, con la sua ricerca
di rapporto con l'altro, diventa esso stesso un atto politico.
La necessità poetica e politica del fare teatro è ad esempio ben spiegata da Heiner
Müller, sia nelle sue scelte artistiche, nella sua drammaturgia e nei suoi spettacoli, sia
nella riflessione critica che lo stesso Müller ha avuto modo di approfondire in interviste
e altri scritti. Ma forse il messaggio più forte, in questo senso, lo ha dato il regista
polacco Tadeusz Kantor, scegliendo, spettacolo dopo spettacolo, di accompagnare con
la sua presenza, con il suo corpo, gli attori sulla scena, decidendo di non lasciarli soli
nell'incontro con il pubblico: atto estremo di partecipazione ad una visione del mondo
offerta all'altro, e anche atto di condivisione di un rito costruito con gli attori per gli
spettatori.
Questa apertura verso l'esterno, verso l'alterità va ad aggiungere all'esperienza
formativa quella dell'“ulteriorità”, poiché il teatro in quanto arte è lo strumento/la strada
che ci conduce verso un processo di tipo estetico, costruttore di senso e di bellezza. Il
teatro a cui si sta facendo riferimento è un teatro fortemente caratterizzato dai codici
estetici e che si propone esplicitamente di privilegiarli, su tutto, un teatro che difende la
propria poetica e la propria identità. Un teatro che non vuole e non può dirsi solo
“pedagogico”, poiché l’etichetta sarebbe troppo restrittiva e non veritiera. Un teatro che
non può riconoscersi in questa definizione, non avendo fra le sue priorità l'intento
pedagogico, quanto invece ha la priorità di definirsi come “teatro”, in un'epoca in cui i
confini fra le arti sono soggetti ad aggiustamenti continui.
Paradossalmente, risulta convergente verso il “pedagogico” un teatro che non
vuole apertamente essere identificato come tale, ma che nei fatti agisce come detonatore
di coscienze, come collettore di emozioni, e invita alla riflessione sul presente e sulle
questioni cruciali del politico. È un teatro che nel suo mettersi in discussione e
nell'aprirsi alla critica sottolinea la non intenzionalità a proporsi come “esperienza
107
terapeutica”, ma “teatrale”. Lo si comprende bene se si presta attenzione all’apparato
critico degli spettacoli, al lessico utilizzato sia dagli stessi autori/artisti/registi, sia dalla
critica che ad essi si riferisce.
È un teatro, quello ad esempio di Armando Punzo, di Davide Iodice, di Mimmo
Sorrentino e – per quanto possa sembrare paradossale – anche quello di Augusto Boal,
in cui termini come “attore” o “recitazione” pretendono per sé l'utilizzo più appropriato
e, a scanso di equivoci, letterale. A più riprese, e in riferimento ad esperienze e
situazioni diverse – anche di grande coinvolgimento emotivo e non necessariamente con
attori cosiddetti professionisti (cioè che hanno scelto di esercitare la professione del
teatro) – si sottolinea il fatto che l'ambito in cui si lavora, o in cui si decide di
intervenire anche solo per una iniziativa estemporanea, è l'ambito teatrale. È in questo
ambito che il regista afferma di voler cogliere i “frutti” del proprio lavoro e della
riuscita direzione degli attori, ovvero frutti riconducibili al valore artistico, ed alla sfera
estetica.
Mimmo Sorrentino è particolarmente chiaro a questo proposito, pur lavorando sia
con attori sia con non-attori (utenti di diverse strutture sociali e/o sanitarie) e adottando
metodologie di lavoro simili ma non identiche, spiega come le “finalità” debbano
risultare agli “utenti” definite e non debbano essere fraintese. In effetti, il suo metodo
della “consegna paradossale”150, cioè di dare agli utenti una consegna che funzioni come
contro-paradosso per contrastare il paradosso del non voler fare i conti con il proprio
inconscio, è una tecnica che il regista usa, con alcune differenze, in entrambi i contesti,
ovvero sia con gli allievi attori dell'Accademia Paolo Grassi di Milano, sia con le
casalinghe di Abbiategrasso o con i malati di Alzheimer, ciò che deve risultare chiaro è
che il “gioco” a cui si sta giocando è tutto collocato in ambito “teatrale” e il benessere
che può derivare per l'utente non ha come finalità tanto il “vivere” bene,conseguenza
auspicabile, quanto il “recitare” bene, obiettivo prefissato. Spiega direttamente il
regista: «Mi comporto in questo modo perché le persone che incontro fuori dal contesto
teatrale, non avendo scelto di diventare attori, potrebbero fraintendere la finalità della
150L'esigenza stessa della “consegna paradossale” nasce dal fatto che Sorrentino deve trovare una
soluzione per l'ansia da prestazione che colpisce, con intensità diverse, tanto gli attori quanto i non attori
«Era un paradosso che gli attori volessero recitare senza fare i conti con il proprio inconscio, con l'altro
che era in loro. Le mie consegne: “Queste parole che stai recitando, che scena della tua vita ti fanno
venire in mente?” e successivamente “Adesso recitale come se stessi nell'episodio che ti hanno fatto
venire in mente”, erano un controparadosso. Un controparadosso perché non si può attualizzare un
ricordo. Non possiamo riviverlo. Proprio come non vi è niente di fisiologico nel corpo dell'anoressico che
gli impedisce di mangiare. Per cui la mia era una “consegna paradossale”. È questo il nome che ho
inventato per descrivere questo metodo di lavoro con gli attori: consegna paradossale» (M. Sorrentino,
Teatro partecipato, Titivillus, Pisa 2009, p. 44).
108
consegna paradossale che è teatrale e non terapeutica. La “consegna paradossale” serve
a recitare. Un attore sa di dover lavorare su di sé. Lo ha scelto. Invece uno studente, un
utente di una comunità, non lo ha scelto e non è compito del regista, ma dei suoi
educatori, intervenire sul loro vissuto. Il teatro serve a far vivere a queste persone
un'esperienza positiva, ad aiutarle a mettersi in gioco, a insegnare loro a esprimersi.
Sarà compito degli educatori trasformare questa esperienza in momento di crescita
sperimentando nuove e più proficue modalità di comunicazione» 151.
È il teatro nel suo insieme ad essere pedagogico, in un senso ampio, offrendo
all'attore, allo spettatore, alla comunità che accoglie l'esperienza, un'opportunità
preziosa di formazione, una esperienza positiva in condivisione con altri, un
arricchimento linguistico e di pensiero, la conoscenza di nuove possibilità di espressione
e comunicazione. Si vuole sottolineare come “attraverso” il teatro (lo ribadiamo, quindi,
non inteso come “pratica” di tipo terapeutico) l'esperienza estetica possa rivelarsi
efficace per gli uomini coinvolti nella relazione, e così offrire prospettive interessanti di
arricchimento, sviluppo, crescita, formazione, pur non prefiggendosi in prima istanza il
perseguimento di obiettivi educativi. L'obiettivo, per così dire, “principale” della
performance teatrale, dell'esito laboratoriale o dello spettacolo in questione non deve
essere esplicitamente pedagogico, né educativo, né ri-educativo. Per comprendere bene
questo passaggio nodale proponiamo degli stralci di un'intervista ad Armando Punzo
realizzata da Letizia Bernazza nel 1997152. Il regista della Compagnia della Fortezza, dal
1988 operante all'interno del carcere di Volterra, spiega la nascita di alcuni spettacoli e il
suo modo di lavorare con i detenuti, e dice, a proposito della prima esperienza da cui poi
sarebbe nata un'attività decennale, che «Il finanziamento era finalizzato ad un
laboratorio teatrale, della durata di due mesi, che aveva come scopo la socializzazione e
la rieducazione dei detenuti. Questo era il loro obiettivo, ma per quanto mi riguarda
sono entrato in carcere essenzialmente per fare teatro e non per educare. [...] Tante volte
siamo stati accusati di fare arte e non risocializzazione, sono convinto che se si pongono
dei traguardi così alti, indirettamente si gettano le basi della rieducazione, perché le
persone sono obbligate a confrontarsi con qualcosa che non conoscono» 153.
E ancora, rispetto alla relazione pedagogica e alla “reciprocità fra maestro e
allievo: «Dai detenuti ho preteso il massimo, non li ho mai commiserati, né ho mai
151M. Sorrentino, Teatro partecipato, Titivillus, Pisa 2009, p. 47.
152“Il rischio come strumento di perfezione. Conversazione con Armando Punzo” di L. Bernazza, in L.
Bernazza – V. Valentini (a cura), La compagnia della Fortezza, Rubbettino editore, Soveria Mannelli
(CZ), 1998.
153Ivi., p. 24.
109
tenuto conto del contesto – il carcere – per porre un limite alla mia ricerca teatrale. Il
mio unico obiettivo è stato ed è quello di riuscire a realizzare spettacoli dando il meglio
e, possibilmente, fare anche i più rispetto al teatro degli attori professionisti. Tutto ciò
porta i detenuti a confrontarsi realmente con quello che stanno facendo, ed è da qui che
può nascere, indirettamente, la risocializzazione, la rieducazione e via dicendo» 154. In
questo caso, ma come in molti altri, la questione educativa è conseguenza di un percorso
che è essenzialmente artistico, la ricerca dell'azione teatrale “vera” e la sua condivisione
con gli spettatori fanno parte di un percorso teso all'emancipazione e alla libertà.
Il carattere antinomico della pedagogia, oltre ad essere caratteristica storicamente
intrinseca ad essa nonché predominante nell'occidente della postmodernità 155, essendo
strettamente connesso alla categoria del “formare” si riflette, e in qualche modo viene
amplificato, nel teatro. La lacerazione fra il polo positivo e quello negativo, fra
un'educazione tesa al “conformare” e una invece tesa all'“emancipare”, trova
corrispondenza perfetta in un teatro “antinomico” di matrice politica che storicamente si
è barcamenato fra la propaganda e l'indottrinamento da una parte, l'emancipazione e la
rivoluzione dall'altro, spesso fallendo, proprio a causa dell'esplicitazione del proprio
intento.
Il teatro, al pari della pedagogia, può aprirsi verso tre diverse direzioni (dal punto
di vista della formazione) riconosciamo infatti un teatro che indottrina (teatro di
propaganda o con fini etici, o morali e religiosi, comunque ideologici, espliciti); un
teatro che emancipa (ovvero che si pone fini di elevazione spirituale, di lotta di classe,
intenti sociali e mira alla messa in discussione della società vigente e delle leggi che la
regolano); un teatro che problematizza e, senza offrire le risposte, pone lo spettatore
nella condizione di porsi delle domande e di responsabilizzarsi rispetto alle possibili
discussioni in merito.
Nel panorama sulle teorie del teatro e rispetto le pratiche teatrali a cui abbiamo
fatto riferimento nel precedente capitolo, è evidente che le problematiche della
“formazione” e dell' “educazione” dell'uomo emergano in modo più evidente quando ci
154Ivi, p. 40.
155«Qui il senso della pedagogia occidentale si manifesta come costitutivamente antinomico, lacerato,
ambiguo anche: ora connesso al Conformare (al dominare, all'uniformare, al controllare, al “sorvegliare e
punire”) ora all'Emancipare (al liberare il soggetto, la coscienza; al liberare gruppi e forme-di-vita –
l'infanzia, le donne, i minorati, i deboli, etc). Le due forme convivono in contrasto, ma anche si decantano
e si dialettizzano proprio nella Modernità, quando l'Emancipazione sfida la conformazione, ne lacera i
tessuti, la oltrepassa e indica un nuovo compito: compito antico e nuovo, poiché già agli albori della
pedagogia (tra i Sofisti e Socrate) si era esplicitamente manifestato, ma che solo oggi – nel Postmoderno
che oltrepassando eredita l'incompiuto movimento del Moderno e lo riattiva oltre i suoi limiti – si fa
compito centrale, univoco, per tutti» (F. Cambi, L'inquietudine della ricerca, op. cit., p. 52).
110
si riferisce ad un teatro definito come “sociale”, “popolare”, “di comunità” o
esplicitamente “politico”. Ed è indubbio che la questione delle convergenze fra teatro e
pedagogia non può prescindere (anche solo per differenziarvisi) dalle esperienze del
teatro politico, poiché è la categoria teatrale che si è imposta in maniera esplicita la
questione della comunicazione sociale, del teatro come possibilità di indottrinamento,
formazione e istruzione delle masse e, infine, come strumento di lotta e liberazione.
Dal punto di vista teorico il quadro è molto confuso, Claudio Vicentini individua
delle direttrici nel dibattito teorico sui rapporti fra teatro e politica per provare a
comprendere un fenomeno dai confini nebulosi e che ha dato spazio a molti
fraintendimenti: «Tre problemi riconducono quindi la questione del teatro politico al
centro della riflessione generale sul teatro. Innanzi tutto, la verifica del principio della
piena autonomia del teatro, che richiede l'elaborazione di una teoria capace di presentare
come possibile, ma non necessario, il rapporto di teatro e politica, e di spiegare, nello
stesso tempo, in che modo il teatro possa diventare uno strumento di lotta. In secondo
luogo, l'indagine della corrispondenza che si è verificata dopo la seconda guerra
mondiale tra il periodo della massima espansione dell'importanza del teatro all'interno
della vita culturale, e quello della sua estrema politicizzazione. Infine, il tentativo di
individuare i motivi della crisi in cui la teoria del teatro è venuta a trovarsi con la caduta
del problema del teatro politico» 156.
Il teatro, pur essendo un'arte sempre sociale, non sempre si è data finalità sociali, e
di conseguenza di tipo educativo e formativo. Le esperienze teatrali più
specificatamente politiche, sia quelle usate come strumento di propaganda a servizio del
regime vigente, sia quelle che possono essere indicate come di opposizione e/o di
“rivolta” rispetto al regime vigente, si sono imposte, nella buona o nella cattiva fede, la
finalità dell'emancipazione delle masse (non sempre ci sono riuscite, ma l'obiettivo era
quello). In questo senso un'esperienza fra le più significative è stata quella del teatro
Agitprop nella repubblica di Weimar, di cui ad oggi si continua a dare poco conto
nell'ambito della storia e della teoria del teatro. A questo proposito spiega Eugenia
Casini-Ropa: «Sfogliando le storie del teatro, infatti, molto difficilmente capiterà di
imbattersi in altro che non sia un breve accenno al teatro Agitprop tedesco nella
repubblica di Weimar. Sarà così facile rendersi conto che ci troviamo di fronte a un
fenomeno teatrale di notevole imponenza (500 compagnie attive nel 1932) non soltanto
numerica, completamente emarginato dalla storiografia ufficiale, che ha così cancellato
156C. Vicentini, La teoria del teatro politico, Sansoni Editore, Firenze, 1981, p. 9-10.
111
in un sol colpo dalle sue cronache un teatro operaio rivoluzionario di vastissima
diffusione ed efficacia, nato e vissuto in piena lotta di classe, in un regime capitalista, e
dalla problematica dei suoi studi le molteplici possibilità di confronto-scontro dialettico
che l'esistenza di un simile teatro offre alle ben diversamente celebri elaborazioni del
teatro politico “ufficiale”» 157.
Ad esempio il teatro come possibilità di formazione, presa di coscienza politica e
civile rientra esplicitamente nei programmi del Nuovo Partito socialdemocratico
operaio, fondato nel 1869 da August Bebel e Wilhelm Liebknecht e contraddistinto dalla
sua parola d'ordine “Sapere è potere, potere è sapere” 158. Successivamente, il ricostituito
Partito socialdemocratico, dopo il periodo di clandestinità degli anni 1878-1890, ne
metterà ancora più in evidenza gli intenti formativi: «Il ricostituito Partito
socialdemocratico venne poi sempre meglio definendo la sua “missione formatrice” del
proletariato, che si realizzò in una massiccia campagna di acculturamento popolare, in
cui furono per la prima volta impiegati in dose d'urto i moderni mezzi di comunicazione
di massa (le pubblicazioni quotidiane e periodiche dell'imponente catena editoriale della
SDAP si contavano nei primi anni del secolo a decine e decine). L'educazione estetica,
l'approccio educativo all'“Arte” (l'arte classica della borghesia) era un punto
fondamentale del programma della Bildung. Il teatro perciò, in quanto “arte totale” con
forti componenti celebrative e comunitarie […], si offriva ai dirigenti del partito come
lo strumento artistico più adeguato alla formazione del gusto estetico e alla trasmissione
dell'idea socialista»159.
La panoramica si può ampliare facendo riferimento ad altre esperienze specifiche,
che possiamo considerare esemplari nella relazione fra politica, teatro e formazione. In
questo contesto emerge la problematica del teatro nel suo rapporto con l'attualità, con le
contingenze storiche e, spesso drammatiche, con i “temi caldi” che possono scaturire da
fatti di cronaca e/o dalle mutate situazioni socio-economiche e culturali. Ogni volta che
argomenti e tematiche ritenute genericamente “di attualità” trovano spazio e modalità
rappresentative su un palcoscenico, è facile incasellarli in un definito – quanto nebuloso
– teatro politico. Ma in “contenuto” politico di uno spettacolo non ne fa necessariamente
un esempio di teatro politico, un'esperienza volta alla partecipazione politica, una tappa
157E. Casini-Ropa, “Il teatro Agitprop nella repubblica di Weimar”, in A. Lacis, op. cit., p. 22.
158«Con il progressivo affermarsi del nuovo Partito socialdemocratico operaio […] e della sua parola
d'ordine “Sapere è potere, potere è sapere”, iniziò l'elaborazione della teoria socialdemocratica della
“formazione” (Bildung, non a caso parola nata dall'Illuminismo) dei futuri membri della edificanda
società socialista. Ogni mezzo culturale doveva in tal senso esser posto al servizio dell'istruzione e della
preparazione politica indispensabile al cittadino di domani» (Ivi., p. 24-25).
159Ivi., p. 25.
112
di un percorso emancipativo. Il rischio di questo teatro che nasce con intenti politici è
proprio quello di precipitare nel polo negativo della propaganda.
L'antinomia caratterizza lo statuto epistemologico della pedagogia e sintetizza la
coesistenza fondativa di libertà e illibertà all'interno del rapporto educativo, dato che «Il
rapporto educativo, […], ha sempre richiesto la presenza di due momenti fondamentali
nell'atteggiamento psicologico dell'oggetto dell'autorità: una determinata misura di
libertà (libertà del volere, riconoscimento e accettazione del soggetto dell'autorità che
non si fonda sulla semplice costrizione) e, d'altro canto, soggezione e subordinazione
della propria volontà a quella dell'altro. Nel rapporto educativo, dunque, la libertà e
l'illibertà, l'autonomia e l'eteronomia sono simultaneamente presenti» 160.
La doppia natura del dispositivo antinomico si ripercuote anche sulle conseguenze
dell'oscillazione fra polo negativo e positivo tanto da farne un dispositivo sia critico e
sia rivitalizzante del processo formativo, ne facilita la messa continua in discussione, ne
consente l'adattabilità alle esigenze del tempo e della società attuale.
L'antinomicità fondativa e strutturale della relazione educativa trova somiglianze
e riscontri interessanti in un teatro che, a partire dagli anni '30 del Novecento fino ai
nostri giorni, viene sommariamente definito “politico”. Ovvero un teatro che si è posto
in maniera preminente la questione della libertà e dell'illibertà di orientamento politico
della società a cui si rivolgeva, dandosi fra gli altri l'obiettivo, più o meno esplicito, di
educare al libero pensiero. È infatti possibile riconoscere in diverse proposte ed
esperienze il dispositivo antinomico di un teatro che ambisce all'emancipazione degli
spettatori accogliendo il rischio di cadere nel precipizio dell'indottrinamento e della
propaganda politica. Quella del “teatro politico” è un'etichetta troppo ampia per risultare
sempre pertinente, ma pure nella sua complessità e ambiguità, consente di azzardare un
discorso organico da un punto di vista storico e di tenere il filo di un percorso articolato
che accosta esperienze teatrali diverse e contrastanti fra loro.
Il teatro che nel Novecento si è posto, pur nella differenza di modalità forme e
proposte, la questione dell'educazione e della formazione degli spettatori è un teatro che
a vario titolo è riconducibile ad un'intenzionalità politica, dichiarata e manifesta nelle
riflessioni programmatiche degli stessi autori ed animatori, oltre che riconoscibile nelle
loro opere. Partire dagli anni '30 significa partire da una fase di identità consapevole del
teatro politico, ovvero dall'asse sovietico-tedesca formata da quelle due direttrici
contemporanee che sono rappresentate da Mejerchol'd da un lato e da Piscator-Brecht
160M. Giosi, “La critica dell'educazione e l'ottica della formazione”, in Cambi, Giosi, Mariani, Sarsini (a
cura), Pedagogia generale, Carocci, Roma, 2009, p. 221.
113
dall'altro161. La crucialità delle date ha un peso ulteriore se si accoglie la notazione di
Cesare Molinari quando afferma che «Con Mejerchol'd morì in Unione Sovietica il vero
teatro
politico,
sostituito
dalla
trionfalistica
esaltazione
delle
conquiste
rivoluzionarie»162.
Con Mejerchol'd muore di fatto un'istanza di urgenza ed immediatezza politica e
poetica dell'arte, per lasciare il posto ad una riflessione più razionale e strutturata, meno
estrosa e vitalistica, più duratura e rigida. Questa tendenza è incarnata da Berthold
Brecht, ed innalzata a sistema con lo straniamento: «Il pubblico deve allontanare
(éloigner, dicono ancora i francesi) l'oggetto della fruizione. [...] Occorre che lo
spettatore resti freddo, cogliendo nell'accadimento teatrale l'occasione di una sua
crescita essenzialmente (se non esclusivamente) intellettuale. Brecht recupera la
funzione pedagogica e didascalica del teatro (che era stata del teatro religioso, ad
esempio del teatro dei Gesuiti). Solo con la razionalità lo spettatore può comprendere la
condizione umana come trasformabile, e da trasformare, ma da trasformare solo e
soltanto attraverso la lotta politica»163. Il teatro “politico” di Brecht riesce a superare le
contingenze storiche specifiche, più di tipo propagandistico, agendo fortemente sullo
spettatore, responsabilizzandolo nei confronti della società. Così sintetizza alcuni aspetti
dell'esperienza brechtiana il regista Peter Brook: «Brecht riteneva che il teatro,
stimolando una presa d'atto degli elementi di una determinata situazione, assolvesse il
compito di portare lo spettatore a una comprensione più corretta della società e, quindi,
delle possibilità di cambiamento della stessa» 164. Brecht è un esempio fondamentale
poiché attraverso il suo teatro (e in particolare attraverso la tecnica dello
“straniamento”) vuole indurre lo spettatore a “pensare” e, in qualche maniera, lo
costringe ad andare in crisi, a riflettere e a compiere delle scelte che possono essere
dolorose, che lo costringono a mettere a nudo le proprie ipocrisie e a riflettere sulle
convenzioni della società.
Lo spettatore brechtiano, con accostamento azzardato, può essere considerato
l'antesignano dello spettatore “pensoso” dell'epoca postmoderna teorizzato da Raymond
161«La sostanziale contemporaneità delle date – fra Mejerchol'd da un lato e la direttrice Piscator-Brecht
dall'altro – dimostra che non c'è stata influenza di Mejerchol'd sulla scena tedesca (anche se Brecht vede
e apprezza gli spettacoli di Mejerchol'd in tournéea Berlino nel 1930): è piuttosto il determinarsi di
condizioni politiche analoghe – di scontro aspro contro il sistema di potere borghese – che spinge a
soluzioni culturali analoghe» (R. Alonge, Il teatro dei registi, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 102).
162 C. Molinari, Storia del teatro, Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 271.
163 R. Alonge, op. cit., p. 102.
164 P. Brook, Lo spazio vuoto, Bulzoni Editore, Roma 1998, p. 82.
114
Bellour165 rispetto al cinema e alla produzione videografica degli anni '80 e '90 del XX
secolo. Lo studioso francese riferisce questo “nuovo” ruolo dello spettatore al cinema,
ma questo spettatore è di fatto preso in prestito dal teatro, poiché gli “appartiene” per
nascita mentre poi, in epoca postmoderna, il suo ruolo va a defluire in quello spazio
protetto – uterino per dirla con Roland Barthes – che è la sala cinematografica (o quel
che ne resta come perfetta installazione).
Lo spartiacque, rispetto la teoria del teatro politico, è data dagli anni Sessanta:
«Nei primi anni sessanta, per esigenze in gran parte estranee al pensiero di Brecht e alla
problematica del teatro politico del tempo, si è sviluppata una concezione più ampia del
fatto teatrale e si tendeva a conferire importanza sempre maggiore, accanto agli
elementi dello spettacolo, alle circostanze che presiedevano al suo svolgimento, fino a
riconoscere che queste circostanze qualificavano ogni evento teatrale, nel suo
complesso, non meno degli elementi dello spettacolo»166. È come dire, certo
semplificando molto, che l'istanza politica è data – instillata quasi – dalle circostanze,
dal contesto, in cui si verifica l'evento teatrale. In quest'ottica assistiamo ad uno
svuotamento delle istanze estetiche dello spettacolo a favore di tutta una serie di
elementi contingenti che riguardano il luogo [che può, e addirittura deve, essere un
luogo non deputato], il momento in cui si svolge la rappresentazione [che può, e
addirittura deve, essere casuale o pertinente a seconda delle circostanze specifiche – di
certo non deve essere regolato da esigenze di tempi e luoghi istituzionali]. Elemento
importante diventa il costo e/o la presenza/assenza del biglietto d'ingresso. In
conclusione, tutti questi fattori, che sono di fatto esterni alla poetica e all'estetica dello
spettacolo in sé, vanno ad incidere significativamente sulla “politicità” della percezione
dell'evento teatrale, o meglio, tutti questi fattori possono connotarlo come “politico” o
“non politico” a prescindere dal contenuto (tematico, poetico ed estetico) dello
spettacolo stesso.
Ma restando in un’accezione stretta del termine “politico”, è corretto evidenziare
che la produzione drammatica di Brecht, pur estendendosi per un quarantennio, trova
una sua centralità soprattutto ideologica nel quinquennio 1928-1933 proprio con i
“drammi didattici”, testi brevi in cui veniva trattato e approfondito un tema a carattere
morale o politico poi rimesso in discussione e tentato di risolvere con una sorta di
processo. Qui il regista tedesco «[...] dà gli esempi più limpidi di ciò che egli intendeva
per teatro politico: uno strumento di conoscenza dialettica e di analisi marxista e
165Cfr. R. Bellour, Fra le immagini. Fotografia cinema video, Bruno Mondadori, Milano 2007.
166C. Vicentini, La teoria del teatro politico, Sansoni Editore, Firenze, 1981, p. 11.
115
leninista»167. I drammi didattici declinano in modo esaustivo la pratica scenica dello
straniamento, mostrandone la doppia valenza pedagogica, ovvero una loro funzionalità
educativa
rivolta
sia
all'attore
sia
allo
spettatore.
L'attore
deve
fuggire
l'immedesimazione e mantenere un atteggiamento dialettico e critico con il personaggio
– questo lo tutela dai manierismi e dai vezzi del mestiere facendolo volgere verso una
recitazione essenziale e precisa – ; d'altro canto lo spettatore deve ricordare di trovarsi a
teatro, deve restare sempre cosciente del suo essere uno spettatore che osserva e ragiona
da una certa distanza.
In una temperie culturale che collega Germania ed Unione Sovietica ed in cui il
teatro viene sempre con maggiore consapevolezza utilizzato come strumento di lotta
politica, si inserisce l'esemplarità della vicenda personale e artistica di Asja Lacis, una
vicenda in cui vita, teatro e politica sono collegati al punto da non essere scindibili. La
regista lettone in Professione: rivoluzionaria, ricostruisce e descrive la sua attività in
quegli anni, attività in cui si riconosce la creazione di un percorso pedagogico nel teatro
e per il teatro. La sua preziosa testimonianza diretta del lavoro svolto con i bambini
lascia emergere la figura di profetica anticipatrice di quella che verrà poi definita
“animazione teatrale”168. La Lacis, con l'attività svolta nel teatro cittadino di Orel nel
biennio 1918-19, non si accontenta di tenere i bambini “occupati” attraverso le prove e
la messa in scena di un testo, il suo obiettivo è di stimolarne l'evoluzione, svilupparne le
facoltà estetiche e morali, abdicando ad ogni certezza data dall'avere sempre il risultato
davanti agli occhi.
La giovane artista si concentra sullo sviluppo complessivo della creatività del
bambino, non vuole costringerlo a incentivare una facoltà singola, ma mira ad
accentuarne tutti i sensi, il suo linguaggio, in proposito, è fortemente ispirato: «Io
volevo portare i bambini a che il loro occhio vedesse meglio, il loro orecchio udisse più
finemente, le loro mani formassero dal materiale informe oggetti utili»169. Amava
organizzare il lavoro coinvolgendo altri educatori che avessero competenze diverse e
integrassero le sue, puntando comunque a che l'insieme dell'attività si traducesse infine
in “una forma estetica rigorosa” oltre che collettiva.
A una tale modalità di lavoro Asja Lacis giunge attraverso un'attività pratica
progressiva e inesausta con i bambini, fondata sull'osservazione costante durante il
167
C. Molinari, op. cit., p. 277.
168
Cfr. Puppa “L’animazione, ovvero il teatro per gli altri”, in AA VV, Storia del teatro moderno e
contemporaneo, Einaudi, Torino 2001, pp. 859-873.
169
A. Lacis, Professione: rivoluzionaria, Feltrinelli, Milano, 1976, p. 80.
116
laboratorio teatrale all'interno dello studio e anche all'aperto, nella natura. Questo suo
metodo, fondato sullo sviluppo dei sensi e il rapporto con la natura, trova riscontri
significativi nella lezione di Maria Montessori, che scrive: «L'ovvio valore
dell'educazione e del raffinamento dei sensi, allargando il campo della percezione, offre
una sempre più solida e ricca base allo sviluppo dell'intelligenza. Per mezzo del contatto
e dell'esplorazione dell'ambiente, l'intelligenza innalza quel patrimonio di idee operanti,
senza le quali il funzionamento astratto mancherebbe di fondamento e di precisione, di
esattezza e di ispirazione. Questo contatto è stabilito per mezzo dei sensi e del
movimento»170. Oltre alla stimolazione dei sensi e all’importanza accordata
all’esperienza, fra le due personalità del teatro l’una e della pedagogia l’altra, emerge
anche un'eccezionale vicinanza relativa al concetto di reciprocità e alla riflessione
critica e propositiva sul ruolo dell'educatore.
Il nuovo rapporto fra regista e attori e fra attori e spettatori, basato sulla
reciprocità creativa e sull'incertezza del risultato, abbozzato da Asja Lacis 171, verrà
ripreso e rilanciato in un mutato contesto geografico e storico, cioè all'inizio degli anni
Settanta dal brasiliano Augusto Boal, il quale elabora la sua proposta di un teatro
popolare traendo forte ispirazione dalla “Pedagogia degli Oppressi” di Paulo Freire.
Il Teatro dell'Oppresso si propone, attraverso diverse tecniche e modalità,
l'obiettivo principale non solo di far riflettere sulla questione politica e sulla condizione
sociale gli spettatori, ma di spingerli ad “agire”nel teatro in prima persona recuperando,
in maniera inedita, le origini stesse del termine “attore” inteso etimologicamente come
colui che agisce. Si tratta di offrire agli spettatori l'opportunità
concreta, attuata
attraverso modalità precise e coinvolgenti, di alzarsi dal posto occupato a teatro, per
strada, in piazza o su un autobus, per cimentarsi direttamente con l'azione teatrale.
Il processo stesso sotteso all'atto del diventare attori in prima persona ha una
funzione liberatoria, poiché emancipa il soggetto offrendogli l'opportunità di cimentarsi
in qualcosa da sempre considerata come un'attività estranea, da osservare da una
posizione fissa ed esterna. È il ribaltamento dello staniamento brechtiano: «La Poetica
di Brecht è la Poetica delle Avanguardie più insigni: il mondo si rivela trasformabile e la
trasformazione incomincia nel teatro stesso, nel momento in cui lo spettatore non delega
più poteri ai personaggi perché pensino al suo posto, anche se continua a delegare loro
170
M. Montessori, Educare alla libertà, Mondadori, Milano, 2008, pp. 92-93.
171
Si ricordi che l'esperienza di Orel verrà poi trascritta e formalizzata da Walter Benjamin nel
“Programma per un teatro proletario dei bambini”, scritto nel 1928 e pubblicato nel 1969.
117
funzioni perché agiscano, recitino in vece sua: l'esperienza è rivelatrice a livello di
coscienza, ma non interamente a livello d'azione. L'azione drammatica chiarisce l'azione
reale. Lo spettacolo è una preparazione all'azione» 172. Invece l'attore di Boal è anche lo
spettatore, lo spettatore che sceglie di offrirsi agli altri e ne fa esperienza, scoprendo
così che il suo darsi si traduce in ricevere. La trasformazione in attore avviene in
un'azione non isolata ed egoistica, ma “aperta”, di relazione con gli altri e con il mondo.
Il passaggio proposto da Boal nel suo teatro è rivoluzionario, nel senso che rivoluziona
il concetto di spettatore, lo mette in discussione e punta a liberarlo come persona.
La partita in gioco diventa più esplicita e tocca il sistema teatrale nelle
fondamenta. Se Brecht puntava a far ragionare attori e spettatori, a offrirgli con i
drammi didattici l'opportunità di avere coscienza del mondo e della difficoltà dell'agire
politico lasciandoli però nei propri ruoli; se Asja Lacis sacrificava l'opportunità di
lavorare con attori “veri” per trasformare in futuri attori della vita quei besprisorniki che
lungi dall'essere artisticamente attrattivi erano considerati una piaga sociale; Augusto
Boal offre uno scarto ulteriore, dà l'opportunità agli spettatori di andare in scena, di
scardinare l'immaginario e i rituali teatrali per appropriarsi di un palcoscenico in cui
rappresentare la propria storia, la propria idea, la propria vita.
Gli esempi fin qui scelti e ripercorsi a volo d'angelo non sono certo esaustivi ma
ciò che preme sottolineare, come filo rosso che li accomuna pur nell'eterogeneità delle
proposte, è l'attenzione che artisti così diversi riservano al rapporto attore-spettatore,
rendendolo centrale nella possibilità di incidere politicamente nella società mantenendo
ferme le proprie caratteristiche estetiche e poetiche del fare teatro.
Infine, tornando idealmente all'iniziale direttrice tedesca del teatro politico, si può
riflettere su almeno un'altra modalità di messa in discussione della relazione teatrale,
quella della postdrammaturgia ferina e inconciliabile di Heiner Müller. Il drammaturgo
del prima e dopo la caduta del muro di Berlino, è l'artista che ragionerà più di tutti sul
rapporto fra attore e spettatore come meccanismo che fonda il teatro, oltre che come
dialettica irrisolta e ambivalente del teatro politico. Nella sua opera costituita da una
poetica senza compromessi pacificatori, inscindibile per questo dalle sue esperienze di
vita, Müller indica con lucidità come l'origine dello sdoppiamento attore-spettatore sia
traumatica, e la ricollega ad alcuni episodi particolarmente dolorosi della sua vita.
L'arresto del padre comunista da parte dei nazisti che lo porteranno nei campi di
172A. Boal, Il teatro degli oppressi. Teoria e tecnica del teatro, Edizioni La Meridiana, Molfetta (BA),
2011, p. 47.
118
concentramento, e il ritrovamento del corpo della moglie Inge morta suicida sono eventi
«[...] per lo scrittore emblematici di un'esperienza in cui il soggetto sopporta il trauma
innescando inconsapevolmente un meccanismo di scissione dell'io che si sdoppia in
colui che si guarda mentre sta guardando l'avvenimento come se fosse la scena di un
film. Il soggetto che sta in scena non è più l'attore del dramma, ma si colloca dall'altra
parte, in platea, e assume il ruolo di spettatore della propria performance» 173. Müller
porta in luce un concetto fondamentale per l'esperienza estetica contemporanea, ovvero
la centralità che ha assunto la dimensione spettatoriale, che non è mai priva di
responsabilità, che non è mai neutra. Attore e spettatore sono presi nella dialettica più
lacerante, coincidono in una coincidenza inconciliabile, diventano sia metafora della
realtà e sia incarnazione “reale” di un'esistenza sempre più immaginaria e macchinica,
sono vittima e carnefice allo stesso tempo. Scrive in Hamletmaschine: «Io sono la
macchina da scrivere. Stringo i nodi scorsoi quando i caporioni vengono impiccati,
tolgo lo sgabello, mi rompo l'osso del collo. Sono il mio prigioniero. Riempio il
computer con i miei dati. I miei ruoli sono quelli della saliva e della sputacchiera, del
coltello e della ferita, del dente e della gola, della corda e del collo. Io sono la banca
dati»174.
Concludendo, l'antinomia ambivalente, come dispositivo problematico ma anche
rivitalizzante della relazione educativa, è riconoscibile anche nella relazione teatrale, in
quella complessità del rapporto attore-spettatore costantemente, dai primi del Novecento
fino ad oggi, messa in discussione e approfondita in un teatro prevalentemente di
matrice politica, ma non solo.
Il teatro che mette al centro la relazione teatrale è un teatro che ha scelto la linea
poetica più difficile ma anche la più potente, quella destinata a durare nel tempo. È un
teatro che non può essere incasellato in un genere, né nel teatro di ricerca, sebbene la
ricerca continui e continuerà sempre ad essere un elemento “vitale” del teatro, né in
quello antropologico, sebbene questi metta in primo piano l'uomo e la sua esperienza
come elementi fondanti del performativo. Mettere al centro la relazione teatrale può
equivalere ad un'inclusione di tutti i generi del teatro, oggi in particolare significa
includere esperienze diversissime fra di loro, dal teatro cosiddetto sociale o di comunità
a un certo teatro di tradizione che non ha mai abdicato la sua aspirazione comunicativa,
173
V. Valentini, “Tragedie proletarie nell'era della controrivoluzione. La post-drammaturgia di
Heiner Müller” in Biblioteca Teatrale, Il teatro di Heiner Müller, n. 41, Bulzoni, Roma 1997, p. 24.
174H. Müller, “Hamletmaschine”, in Germania morte a Berlino e altri testi, Ubulibri, Milano, 1991, p.
86.
119
dal teatro partecipato a quello più innovativo, delle forme ibride e dell'interrelazione con
le nuove tecnologie. Questa apertura generalizzata è solo apparente, poiché la relazione
teatrale funziona anche come dispositivo di esclusione, sempre mantenendo la
trasversalità dei generi. Elementi quali la spettacolarizzazione fine a se stessa,
l'incompetenza di regista e attori come anche l'eccessivo narcisismo degli stessi, oppure
la ricerca puntigliosa della precisione e dell'autocompiacimento in scena possono
mettere in crisi la relazione attore-spettatore, allontanando, annoiando, isolando lo
spettatore e determinando l'assenza di rapporto. Esiste un teatro che non è disposto a
mettersi davvero alla prova nel confronto con il pubblico, esiste un teatro che “manca”
la comunicazione con lo spettatore, che magari non la rifiuta apertamente, ma che o la
cerca per motivi non sinceri o non la raggiunge per mancanza di impegno e vocazione.
In questa maniera, la relazione teatrale, diventa una discriminante essenziale di un teatro
che possa dirsi pedagogico, perché, come
spiegava Riccardo Massa «C'è infatti
un'intenzione educativa implicita, latente in tutte le esperienze teatrali. Il teatro educa
non solo in senso esplicito, come il teatro didattico o didascalico della tradizione
brechtiana, ma nel senso che in esso c'è in gioco un progetto di cura del sé, di
formazione di sé, di educazione di sé, di esperienza di sé» 175.
Infine, accogliendo un’accezione del politico che non attiene tanto al contenuto
quanto alle modalità di messinscena e soprattutto alla relazione attore-spettatore, e alla
cura riservata a questa relazione, ciò che sembra più interessante, e che rimane
concettualmente forte alla luce di questo “svuotamento di senso” dello spettacolo, è
proprio il mutato modo di intendere gli spettatori, un rafforzamento del concetto di
comunità che – pur essendo strettamente legato a quell'esperienza – avrà ricadute
importantissime fino al teatro contemporaneo. Di fatto questa decentralizzazione dello
spettacolo verso un “fuori da sé” problematizza e interroga il ruolo dello spettatore e il
concetto di comunità spettatoriale.
Che comunità è quella che si forma in maniera trasversale e “spontanea” intorno
ad un evento teatrale, sia esso in un luogo deputato, sia esso in un luogo extrateatrale,
senza essere motivata, condizionata e responsabilizzata attraverso l'acquisto di un
biglietto? Non si tratta davvero di un pubblico casuale e spontaneo perché il fatto di non
aver pagato (di non aver scelto di “spendere” tempo e denaro per un'esperienza di
175F. Antonacci, F. Cappa (a cura), Riccardo Massa. Lezioni su la peste, il teatro, l'educazione, Franco
Angeli, Milano, 2001, p. 27.
120
fruizione artistica) implica comunque la scelta (e autorizza comunque la scelta) di
abbandonare luogo e tempo dell'evento teatrale, decidendo così di interrompere
l'esperienza spettatoriale e di sottrarsi alla comunità in “formazione”.
La responsabilità viene sempre e comunque a ricadere – con diverse attenuazioni
e sfumature di senso – sullo spettatore, anzi, in un'ottica più pertinente, sulla “comunità”
di spettatori che in un dato momento, in un dato luogo, influenza e “significa” la
rappresentazione teatrale. Così ciò che non risulta “politico” a Parigi può esserlo invece
a Reggio Calabria. È evidente che stiamo dentro alla questione più squisitamente
semiotica dell'interpretazione dell'evento spettacolare.
Alla fine di questo percorso, dentro un teatro che si dà esplicitamente fini
educativi in un'ottica prevalentemente politica, possiamo, per chiarezza, chiudere con la
definizione di teatro politico data da Massimo Castri nel 1973: «Per “teatro politico” è
bene si intenda ormai quel teatro che vuole partecipare con i propri mezzi specifici al
generale sforzo e processo di trasformazione della realtà e quindi, in definitiva,
dell'uomo, nella prospettiva di una ricostruzione dell'integrità e della totalità dell'uomo,
che nella società divisa in classi e basata sullo sfruttamento è andata distrutta» 176. In
quest'ottica il compito “politico” del teatro è soprattutto dato dall'impiego dei suoi
“mezzi specifici”, quindi del suo linguaggio, delle sue poetiche, in direzione
dell'intervento sulla società. Un intervento che può essere stimolato già dal mostrare, dal
rendere evidente, grazie a un immaginario che il teatro dimostra di saper ancora gestire
bene, le storture, i paradossi, i punti di crisi e gli inceppamenti della società
postmoderna. È nel dialogo straordinario che lo spettacolo, attraverso i suoi mezzi
propri ovvero la relazione teatrale, riesce ad attivare con lo spettatore che il teatro può
essere considerato un luogo, uno dei più interessanti, di formazione dell'uomo.
La chiave resta quindi nella relazione teatrale, e in quello che condivide con la
relazione pedagogica io-altro. Rita Fadda, riprendendo nel suo complesso l'esperienza
italiana del gruppo interuniversitario di ricerca di pedagogia critica (coordinato da
Alberto Granese), ricorda come «[...], proprio la dimensione della formazione del
soggetto costituisca, per molti versi, un luogo, non solo possibile ma addirittura
privilegiato, del dispiegarsi ed inverarsi delle più importanti categorie dell'ermeneutica e
insieme un modo di radicalizzarla e di mostrarne tutta la crucialità, tutta la portata
critica, nel momento in cui in gioco non è l'interpretazione di un testo o di un'opera
d'arte, ma di un soggetto umano nella sua relazione con un altro soggetto a cui è stato
176M. Castri, Per un teatro politico, Einaudi, Torino, 1973, p. 8.
121
affidato e da cui dipende il suo destino formativo; una relazione che deve passare
necessariamente attraverso la comunicazione e l'interpretazione, la capacità di saper
cogliere, fin da quando sono ancora in nuce, i tratti distintivi, le propensioni, gli
elementi che determinano la singolarità e l'unicità di ogni individuo e il riconoscimento
della sua irriducibile alterità»177. Il teatro crea uno spazio magico, un qui e ora in cui è
possibile dare forma e consistenza all'esperienza umana, in cui avviare una relazione ioaltro; ovviamente non è detto che la relazione si avveri, ma alcune condizioni precise e i
mezzi propri del linguaggio teatrale lavorano in questa direzione.
Si stanno comunque trattando due oggetti di studio, la pedagogia e il teatro, in cui
la classica distinzione fra teoria e prassi è molto complessa e attiene al loro stesso
statuto ontologico. Per la pedagogia, abbiamo detto in I cap. [in particolare si veda F.
Cambi], per il teatro sappiamo [si veda cap. II] che l'azione, la performatività,
caratterizzano la specificità dell'arte stessa e necessitano di un rapporto “non mediato”
da altri mezzi di comunicazione. In tale immediatezza comunicativa, in tale importanza
riconosciuta al rapporto intersoggettivo, la questione “estetica” rischia di essere messa
tra parentesi, e questo annienterebbe il valore stesso del teatro. Bisogna invece
considerare la relazione teatrale sì come una relazione pedagogica, ma porre l'attenzione
sulla “modalità” con cui si avvera questa relazione, sul linguaggio dell'arte, o meglio
delle arti che il teatro mette in campo con la sua multicodicità.
177
R. Fadda, “Un modello italiano di pedagogia critica. Presupposti, sviluppi, problemi aperti”, in
E. Colicchi (a cura), Per una pedagogia critica. Dimensioni teoriche e prospettive pratiche, Carocci,
Roma, 2009, p. 31.
122
3. 3. Il regista-educatore e il teatro-laboratorio
La grande rivoluzione che si verifica nel teatro e che marca una convergenza
significativa con la pedagogia non è solo nel ruolo di cui è investito lo spettatore perché di responsabilità morale e civile, oltreché estetica lo spettatore può e deve essere
investito sempre nella relazione teatrale - quanto nel ruolo “nuovo” di cui è investito il
regista, un ruolo che lo obbliga, paradossalmente, a ripartire proprio da ciò che il regista
ha conquistato duramente nel corso soprattutto del Novecento, il ruolo dell'autore dello
spettacolo.
L'esperienza dell'animazione teatrale, come anche quella del teatro sociale, hanno
rimesso in gioco il ruolo del regista, lo hanno rimesso in discussione, attribuendogli da
una parte una responsabilità maggiore di tipo pedagogico e dall'altro costringendolo ad
“attenuare” la sua statura di creatore indiscusso dell'opera d'arte-spettacolo. Ad esempio,
nel teatro degli Oppressi di Boal «Il conduttore del TdO assume quindi un
atteggiamento “maieutico”, non dà risposte ai problemi, ma aiuta a trovarle fornendo le
tecniche e garantendo il percorso»178. È soprattutto nell'ambito dell'animazione teatrale
che il ruolo dell’educatore si avvicina molto a quello del regista facilitante, il quale aiuta
l’attore a fare ciò di cui ha bisogno per trovare il personaggio, per recitare la parte,
nell’interazione con i compagni e con gli eventuali spettatori o osservatori.
Ma anche entrando nell'ambito del teatro di ricerca, di un teatro dalle linee
poetiche forti ed originali, si consideri come Grotowski definisce il suo ruolo, all'interno
del Teatro Laboratorio, “una strana posizione di guida”, sottolineando la centralità
dell'aspetto relazionale che istituisce non solo con gli attori – con ogni singolo attore –
ma con ogni persona che concorre alla nascita dello spettacolo, come ad esempio con
l'architetto Gurawski. Spiega Grotowski: «Vi è qualcosa di incomparabilmente intimo e
fruttuoso nel lavoro che svolgo con l'attore che mi è affidato. Egli deve essere attento,
confidente e libero, poiché il nostro lavoro consiste nell'esplorazione delle sue
possibilità estreme. La sua evoluzione è seguita con attenzione, stupore e desiderio di
collaborazione: la mia evoluzione è proiettata in lui, o meglio, è scoperta in lui, e la
nostra comune evoluzione diventa rivelazione. Questo non vuol dire formare un allievo
ma semplicemente aprirsi ad un altro essere rendendo possibile il fenomeno di una
“nascita condivisa o doppia”. L'attore nasce di nuovo – non solo come attore ma come
178R. Mazzini in A. Boal, Il poliziotto e la maschera. Giochi, esercizi e tecniche del Teatro
dell'Oppresso, edizioni la meridiana, Molfetta (BA) 2005, p. 24.
123
uomo – e con lui io rinasco. È un modo goffo di esprimerlo ma quello che si ottiene è
l'accettazione totale di un essere umano da parte di un altro» 179.
L'educatore teatrale oggi può andare ad occupare un ruolo cruciale nella
formazione soprattutto degli adolescenti, esterno alla famiglia e alla scuola, è anche
esterno a quelle occupazioni di divertimento ed evasione che di solito si condividono
con i propri coetanei nei gruppi amicali, e questo tipo di condivisione può verificarsi, in
linea di massima, in tutte le fasi della vita, dall'età dell'infanzia fino all'anzianità.
L'educatore non è una figura genitoriale, non coincide neanche con quella
dell'insegnante scolastico, e non è nemmeno equiparabile a quella di un amico. Meno
autoritaria del padre o dell'insegnante, ma più autorevole di un amico, la figura
dell'educatore riveste un ruolo privilegiato ed unico, di guida influente, di insegnante
che non dà voti e non impartisce lezioni, di maestro che suggerisce percorsi ma non
obbliga a intraprenderli, di opportunità di confronto vivente attraverso attività mirate
alla scoperta di se stessi.
La competenza dell'educatore non è data dal suo bagaglio culturale più o meno
ampio di teoria e storia del teatro, ma dalla sua capacità di mettere a frutto teoria e storia
del teatro nella relazione con l'altro, con l'allievo, con il partecipante all'attività teatrale.
A differenza dell'insegnante di teatro dell'Accademia e a differenza del regista di una
compagnia, il suo obiettivo non è formare attori o farli recitare in uno spettacolo
riuscito, ma l'obiettivo è di aiutarli a conoscersi attraverso l'attività teatrale, contribuire a
renderli forti nelle scelte da intraprendere coinvolgendo la cura del loro corpo, della
voce, dei loro sensi tutti, del loro mondo interiore. Avviare quindi un percorso – con
l'allievo e non per l'allievo – di conoscenza e consapevolezza che può condurre ad
un'adesione anche forte alle professioni del teatro, o che può soltanto contribuire
positivamente ad arricchire le proprie esperienze personali e ad acquisire nuove tecniche
del corpo e dell'anima da usare nella vita in altri ambiti e contesti.
Il regista-educatore può e deve lavorare con gli allievi-attori alla costruzione di
uno spettacolo che può anche non essere, alla fine del periodo di prove, perfettamente
rispondente ai canoni estetici che si intendeva perseguire, ma deve avere la forza e la
sensibilità umana di considerarlo come parte integrante di un processo organico di cui lo
spettacolo in sé e per sé è da considerarsi come una delle tappe, neanche,
necessariamente, la più importante, sebbene sia la più visibile grazie al fatto che viene
condivisa con un pubblico.
179J. Grotowski, Per un teatro povero, Bulzoni, Roma, 1970, p. 32.
124
Quella del regista-educatore non è figura semplice, la doppia dicitura non deve
significare essere regista a metà o educatore a metà, poiché non si possono tenere
laboratori teatrali per bambini o corsi di teatro per casalinghe, per carcerati e ragazzi di
quartiere per ripiego, come esperimento o come attività secondaria rispetto una
considerata primaria ed prestigiosa. Il regista-educatore è più di un regista e più di un
educatore, deve saper conciliare l'aspirazione all'arte con la missione educativa, e questa
è impresa che è riuscita solo a taluni grandi registi che hanno fatto propria – spesso in
maniera inconsapevole – l'istanza formativa in nome dell'arte e della cultura, più che in
nome dell'obiettivo educativo esplicito.
Invece, se riprendiamo ad esempio il già citato lavoro di Augusto Boal con il
Teatro dell'Oppresso, la sintesi del suo ruolo e del suo lavoro come regista vede, senza
ombra di dubbio, il prevalere di un obiettivo educativo, dato che «Boal, con la creazione
del TdO, si propone di utilizzare gli strumenti teatrali per analizzare e trasformare la
realtà “restituendo al popolo i mezzi di produzione teatrale” […]. In altre parole
l'obiettivo è lo sviluppo della “teatralità umana”, cioè della capacità di ogni persona
(non solo dell'artista) di usare il linguaggio teatrale, di “essere teatro”, usando questo
medium per conoscere il mondo reale e trasformarlo»180. Con il suo teatro Boal “sfrutta”
il ruolo del regista, o meglio ciò che il ruolo del regista consente di fare, per essere
innanzitutto educatore. L'istanza estetica tende ad essere eclissata da quella educativa,
per cui il Teatro dell'Oppresso non è Augusto Boal, ma è una realtà da Boal ideata,
costruita e diffusa come anche repertorio di idee, tecniche ed esercizi che al proprio
ideatore potranno e dovranno sopravvivere grazie ad altre persone che ne porteranno
avanti la progettualità.
La questione della “pratica” teatrale o, per meglio dire, delle “pratiche” teatrali
oggi è questione che mette in campo non poche difficoltà, in particolare per quel che
concerne gli eventuali aspetti pedagogici. Tali difficoltà sono legate al fatto che le
cosiddette discipline del teatro occupano, nell'ambito del patrimonio culturale e del
bagaglio esperenziale di bambini, giovani ed adulti un posto estremamente marginale.
L'esperienza del teatro, non solo da “attori” ma anche e soprattutto da “spettatori” non è
esperienza comune e condivisa della maggior parte delle persone della seconda metà del
XX e di questo primo decennio del XXI secolo.
Diventa quindi ancora più difficile ipotizzare e verificare se c'è e in che misura un
contributo delle pratiche teatrali alla formazione dell'individuo. Dato che il teatro né
180R. Mazzini, in A. Boal, op. cit., p. 23.
125
come teoria né come pratica appartiene alle discipline di studio presenti in ambito
scolastico negli istituti di diverso ordine e grado, anche se adesso, con i Licei Coreutici
si sta proponendo un’apertura importante in questa direzione.
In generale si sta mettendo in discussione – in ambito pedagogico – la stessa
possibilità che la scuola possa essere considerata il luogo (non l'unico ma il principale)
dell'educazione, in realtà, è tutta l'intera società ad apparire inadeguata. Ricordiamo che
la nostra è un'epoca, spiega Brezinka, in cui è stato coniato lo slogan “fine
dell'educazione” ma spesso questo slogan viene utilizzato senza comprendere
minimamente cosa voglia dire e senza supportare questo concetto con un quadro storico,
sociale e culturale, il più preciso possibile dell'epoca in questione: «Lo slogan 'fine
dell'educazione' ha ben poco a che fare con la realtà. Se viene inteso come descrizione
di un dato di fatto, allora è falso. Al contrario, oggi le istituzioni, il personale e le attività
preposti all'educazione sono più numerosi che mai. Viviamo in una società
iperscolarizzata, che ottimisticamente è anche definita 'società acculturata'. Mai prima
d'ora un numero così grande di giovani è stato sottoposto a un periodo educativo tanto
prolungato quanto avviene ai nostri tempi» 181.
La marcata e preponderante scolarizzazione attuata dalla metà del XX secolo in
poi, non risponde in maniera adeguata alle esigenze dei bambini, poi adolescenti e infine
adulti. Le scuole pubbliche (Brezinka fa riferimento a quelle tedesche, ma il discorso
credo si possa estendere a quelle europee) «Per 9-13 anni impegnano il tempo per lo
studio dei nostri giovani con una combinazione intellettualistica di scienza, tecniche
culturali e una pallida morale razionale. A questo va aggiunto l'influsso confusivo dei
mass media durante il tempo libero. Sia a livello scolastico sia extra-scolastico,
mancano attività capaci di formare la mente e di dare significato alla vita» 182.
Quello che appare più trascurato, nell'ambito della formazione scolastica, fin
troppo presente in termini di quantità temporale ma povera rispetto quella “ideale”, è
l'aspetto “emozionale dell'individuo. L'uomo ha bisogno di emotività: «Difendiamoci
anche dall'inganno di un'immagine intellettualistica dell'uomo. Essa suggerisce che gli
uomini siano programmati per un apprendimento razionale senza limiti; lascia intendere
che essi debbano ricevere quante più possibili informazioni critiche sul mondo, le quali
rubano la “magia” della vita, dissacrano il sacro, smascherano il bene e scacciano il
bello dalla loro vita. In verità gli uomini non hanno solo bisogni razionali e intellettuali,
ma anche emotivi: protezione in un orizzonte circoscritto, unità nei valori importanti
181W. Brezinka, Educazione e pedagogia in tempi di cambiamento culturale, Vita e pensiero, 2011, p. 51.
182Ivi., p. 48.
126
comuni, ideali che non vengono annientati da continue indagini» 183. Si tratta di un
aspetto molto importante poiché «La forza motivante che guida le azioni è
principalmente emozionale e dipende dal sostegno manifesto di chi ha idee simili.
L'orientamento valoriale dell'individuo è determinato sostanzialmente dal patrimonio di
fede vissuto dalla propria comunità» 184.
L'uomo ha necessità, nell'arco della sua vita e per una piena formazione anche
emotiva, di soddisfare anche questo tipo di bisogni, che possono trovare – per Brezinka
– riscontri ad esempio nella fede, oppure, e questo è ciò a cui vuole tendere la presente
ricerca, nella sfera delle arti. Fra tutte le arti sono proprio quelle di tipo performativo, e
il teatro in particolare, che possiedono caratteristiche tali da poter aiutare l'uomo a
soddisfare anche i propri bisogni emotivi poiché queste arti sono fondate sulla relazione
fra l'uomo e l'altro da sé, ovvero gli altri uomini, la comunità, il mondo.
C’è oggi, ad esempio, un proliferare di attività teatrali attivate nelle scuole, che
sembrano sorgere attraverso un movimento in apparenza “spontaneo” e “caotico”, ma
che si stanno concentrando soprattutto sulla fascia d'età che interessa le medie superiori.
Occorre però chiedersi come mai questa particolare attenzione per gli adolescenti,
perché vengono - seppure in modo non sistematico e, nella stragrande maggioranza dei
casi, non supportato da presupposti teorici – fatti oggetto di tanta attenzione da parte
degli operatori teatrali, registi, educatori, attori ecc. Mentre la formazione in generale, e
l’educazione teatrale in particolare, rappresentano una risorsa che può riguardare l’intera
vita dell’uomo.
Provando a rispondere a questa domanda, si riscontrano principalmente due ordini
di motivi sul perché questo accada:
- il primo è di natura “politica” e “contingente”, dovuto, ad esempio, alla
proliferazione di progetti con finanziamenti regionali o ministeriali o europei tesi ad
affrontare tematiche diverse ma che in maniera tangenziale o trasversale finiscono per
inglobare le attività teatrali al loro interno (PON ecc.); progetti invece specificatamente
indirizzati alla diffusione della cultura teatrale piuttosto che finalizzati alla produzione
di spettacoli; lo sviluppo delle artiterapie e, di conseguenza della teatroterapia, come
attività che interessano diverse disabilità (dall'handicap fisico al disagio mentale) o
anche gruppi specifici di persone contraddistinte da caratteristiche comuni (gli anziani, i
carcerati, gli immigrati, ecc.).
183Ivi, p. 15.
184W. Brezinka, op. cit., p. 78.
127
- il secondo è invece basato su una sempre più diffusa convinzione che le attività
teatrali possano rendere “più attrattive” e più interessanti, coinvolgenti ecc, quelle
scuole che mostrano maggiori difficoltà ad attrarre alunni, ci si trova quindi,
automaticamente, fuori dalla cosiddetta scuola dell'obbligo, e ci si trova a fare
riferimento a quell'età, genericamente e superficialmente considerata come “età di
crisi”, ovvero l'adolescenza (e seguendo questo ragionamento si finisce per ricadere –
per certi versi – nel teatro inteso come “terapia”, ovvero al punto precedente).
In realtà esistono motivazioni interessanti sul perché occorra indirizzare
principalmente sulla fascia d'età degli adolescenti la “cura” teatrale. Esiste un fondo di
verità nella convinzione generalizzata dell'adolescenza come periodo di “crisi” nella
crescita e formazione dell'individuo. Ma questa “crisi” non deve assolutamente essere
intesa come un periodo negativo, ma come un periodo in cui è più semplice la
“ricezione” di alcuni caratteri propri del “fare teatro”.
È luogo comune considerare l'adolescenza come un’età problematica e
l'adolescente come se vivesse questa età della sua esistenza come un “periodo di crisi”.
Ciò ha molto a che fare con la “percezione del tempo dell'adolescente, per la
psicanalista francese Françoise Dolto: «L'adolescente vivrebbe infatti ciò che A. Camus
chiamava il “vivo decisivo”. Deve incessantemente ricominciare a tentare di vivere,
come se quel periodo non dovesse mai finire. È la fatica di Sisifo, la prova della
coscienza impegnata in un tunnel. L'adolescente non sa dove finisce il tunnel. Il suo
tempo è inframmezzato da gioia immensa e da sofferenze tanto improvvise quanto
passeggere. Credo che soffra e gioisca al di sotto del livello continuo di umore: il suo
umore oscilla incessantemente tra depressione ed esaltazione, proprio una caratteristica
di questa fase»185.
Gli adolescenti, inoltre, vivono in questa fase della loro vita l'approccio con la
“verità”, poiché in particolare nella nostra epoca, appartengono ad un'età ancora scevra
dai condizionamenti degli ambienti di lavoro e della società adulta in generale. Ed è nel
gruppo che valorizzano il senso dell'amicizia, della verità, la forza dei rapporti
interpersonali: «Nella misura in cui le famiglie non propongono più riti di passaggio ai
figli, e che gli adulti sono essi stessi completamente squalificati nella loro ricerca di
vita, i giovani raggruppandosi, sostenendosi a vicenda, usando un linguaggio un po' più
gestuale, si comportano come se stessero inventando scambi nuovi o come se vivessero
185
F. Dolto, Adolescenza. Esperienze e proposte per un nuovo dialogo con i giovani tra i 10 e i 16
anni, Oscar Mondadori, Milano 2009, p. 37.
128
contro la società, pensando di poter inventare cose nuove. E hanno ragione. Tocca ai
giovani farlo, non agli adulti»186.
Nei capitoli centrali del suo studio dedicato agli adolescenti, Dolto sottolinea
l'importanza dell'amicizia come legame fra i giovani, un legame percepito come più
forte dell'amore, ed è sotto la spinta di questo legame , o della delusione per la sua
cessazione attraverso il tradimento, che i giovani sono spinti a formare delle comunità in
cui riconoscersi e da proporre come sostituto della famiglia.
Il legame del “gruppo” amicale è considerato più solido rispetto quello amoroso,
in cui interferisce fortemente il desiderio sessuale, e va nella direzione della costituzione
di una famiglia senza figure genitoriali, che prevede rapporti relazionali di tipo
“orizzontale” come accade fra fratelli e sorelle, sia in senso letterale dei termini, sia
metaforico: «Fratellanza e sorellanza alludono, per altro verso, al venir meno della
gerarchia generazionale, ovvero alla comunità dei pari, il contesto sociale nel quale più
si coltiva il valore dell'appartenenza, l'utopia di essere tutti – in linea con la metafora
dell'orizzontalità – allo stesso livello. Si appartiene in quanto si è consimili, si
condividono con altri condizioni essenziali quali l'età, i riferimenti culturali, emozioni e
sensazioni»187. Questo scenario diventa sempre più concreto e auspicabile in una società,
come la nostra, in cui i nuclei familiari sono notevolmente ridotti e a fronte del
fenomeno tutto moderno della famiglia allargata, permane e prende forza la società dei
“figli unici”, con lo straordinario senso di solitudine e isolamento che ne consegue .
Al mutato contesto familiare si unisce il cambiamento radicale della società
moderna in rapporto con quella arcaica. La scomparsa dei riti di iniziazione determina
lo spaesamento e il senso di inadeguatezza degli adolescenti che può anche condurre
alla disperazione e al suicidio. L'attività teatrale, lo spettacolo vissuto come prova
conclusiva in cui si instaura la “relazione teatrale” fra attore e spettatore può proporsi
come sostituto – seppur parziale ed edulcorato – di un rito di iniziazione. Anche
l’interrogarsi sul valore educativo del “saggio” finale di un'attività teatrale di tipo
laboratoriale rivolta (condotta con) agli adolescenti può essere uno snodo importante
poiché pure un sano e onesto confronto con il pubblico durante una prova spettacolare
può acquisire le caratteristiche di una sorta di “rito di iniziazione”.
La società odierna ha soppresso i riti di passaggio per l'adolescenza. Alla pubertà
non ci sono più iniziazioni né apprendistati. Occorre porre ancora nuove domande e
chiedersi se, ad esempio, “l'azione sublimata” del rito di passaggio possa essere
186
Ivi, pp. 46-47.
187I. Gamelli, op. cit., p. 85.
129
identificata con il gesto teatrale.
Se, sempre con Françoise Dolto, si acquisisce la consapevolezza che «l'uomo ha
bisogno di progetti»188 indipendentemente dalla loro realizzabilità, il teatro può essere il
luogo in cui provare a “realizzare” questi progetti, seppur per finta, attraverso un'azione
sublimata e quindi “benefica”, nella piena consapevolezza delle parti (ovvero dell’essere
attori o spettatori), sapendo che si tratta di un gioco, ma di un gioco terribilmente
“serio”.
Non si può attuare una semplice sostituzione e certo il passaggio non è immediato:
«Il progetto non può sostituire il rito di passaggio. Ma forse può permettere di farne a
meno. Il rito di passaggio serviva a una comunità che aveva bisogno di conservare tutti i
suoi membri e trovava così il mezzo per legare al clan tutti i giovani facendo loro
affrontare rischi all'interno della tribù: i rischi dell'iniziazione. Prove tremende. Se ne
esce vivo sarà un individuo fantastico. Ciò implica che la società dia il modello. Oggi,
in assenza di un modello familiare o sociale, quando il figlio succede sempre meno al
padre, il rito di passaggio non ha più senso, ma forse il progetto, rispondendo alla
tentazione del pericolo con una certa prudenza, può aiutare a morire all'infanzia, per
raggiungere un altro livello di padronanza nella vita collettiva» 189.
Il teatro può partecipare al progetto, in una maniera specialissima, può aiutare a
sperimentarlo, ad immaginarlo. Ovviamente non tutto il teatro può avere questa
funzione. Il teatro che qui si vuole mettere in stretta relazione con la pedagogia
affidandogli un intento pedagogico, e marcandone una sua partecipazione alla
progettualità dell’uomo, non è, né deve mai essere inteso come, un mezzo di
“intrattenimento”, poiché esso è teso a stimolare l'uomo, a farlo riflettere, a indurlo a
pensare. Non semplicemente a tenerlo impegnato o ad aiutarlo a coprire una porzione di
tempo libero che altrimenti non si saprebbe come impegnare. Il tempo libero, nella
società postmoderna, abbonda, paradossalmente, tende ad abbondare sempre di più.
In particolare è il laboratorio teatrale il luogo perfetto, ideale, per far sviluppare “il
gioco serio del teatro”190. Infatti il laboratorio teatrale, pur se applicato nelle sue più
diverse forme, modalità e finalità, mantiene sempre una caratteristica che in
quest'ambito rimane basilare, e cioè il dare centralità al “lavoro sul corpo”.
È il “linguaggio del corpo” che prende il sopravvento sugli altri linguaggi – che
pure sono contemplati, inclusi e talvolta ne costituiscono l'obiettivo ultimo – e proprio
188
F. Dolto, op. cit., p. 68.
189Ivi, p. 70.
190
Cfr. W. Orioli, Il gioco serio del teatro, Macro Edizioni, Cesena 2007.
130
per questo prevalere, il luogo del laboratorio è pensato come un luogo in cui vengono
sovvertite o almeno eluse le più consolidate convenzioni (spaziali e temporali) del
controllo, inteso in ottica foucaltiana 191.
Il laboratorio, intanto come luogo fisico e materiale, deve poter ospitare il
linguaggio del corpo, deve consentire la libertà di espressione corporea dei partecipanti
all'attività, nei limiti – e nell'utilizzo funzionale e poetico di questi stessi limiti –
consentiti da spazi sovente adattati all'uso e quindi strutturalmente inadeguati. Per
antonomasia, aldilà dell'uso effettivamente attuato, che può essere diversissimo e in sé
prevedere un'attività e il suo più diretto opposto, il laboratorio dovrebbe essere un
luogo, per l'attore ma per tutte le categorie umane che possono essere coinvolte, in cui
sia possibile usare il linguaggio del corpo senza troppe restrizioni. Perché: «Il
linguaggio del corpo ci racconta, e non viceversa. La relazione ci precede, ed è solo il
“pregiudizio dell'Io” a impedirci di coglierne il valore in tutta la sua portata» 192.
Il laboratorio più che il luogo del corpo deve essere inteso come il luogo in cui il
corpo, i corpi possano agire, muoversi, liberarsi anche da quei movimenti “funzionali” e
“costrittivi” che si è obbligati a compiere per le più diverse ragioni.
Se è vero che per Dewey ogni esperienza, anche e soprattutto quella estetica, ha
un “carattere attivo”, bisogna spostare questo concetto dal livello del pensiero a quello
dell'azione, ovvero considerare l'esperienza estetica non come qualcosa a cui si assiste
ma a cui si “partecipa”. In effetti questo ruolo particolarissimo era avvertito nella
tragedia greca, che aveva attribuito al coro uno statuto particolarissimo per cui: «Il
rapporto che si stabilisce, il dualismo elementare e insostituibile che tenderà alla
conciliazione in atto dei due elementi che s'integrano, la tesi e l'antitesi che si realizzerà
nella sintesi della realtà in movimento, è dunque fra la libertà creativa dell'immagine e
la responsabilità attiva della partecipazione. E diciamo partecipazione per meglio
significare che l'essenziale non è il fatto estetico, né la formula conoscitiva, né la norma
pratica che pur sempre da un fatto estetico derivano, ma l'impegno profondo dell'essere,
l'accordo della coscienza: un fatto ontologico, insomma; e a paragone del suo esser
profondo, ogni altra cosa, parola e segno, è superficiale» 193.
L'esperienza estetica non deve essere vincolata al luogo teatro, ma può attuarsi in
tutti i luoghi della performance. Questo spostamento implica la possibilità di essere
spettatori diversi, anzi, non più spettatori ma “partecipanti” attivi; uomini e donne che si
191Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 2005.
192I. Gamelli, op. cit., p. 24.
193M. Apollonio, Storia, dottrina, prassi del coro, Brescia, Morcelliniana, 1956, p. 26 e p. 34; cit. in
A.M. Cascetta e L. Peja, Ingresso a teatro, Le Lettere, Firenze 2003, p. 97.
131
rendono disposti a partecipare ad un rito, ad entrare nel gioco, a costruire una relazione
esclusiva ed unica nell'ambito dell'evento teatrale.
Questo ruolo così complesso e duplice del regista, orientato allo spettacolo come
opera d'arte ma anche alla relazione interpersonale come condizione essenziale del
lavoro teatrale, ha bisogno di uno spazio adeguato per potersi espletare, uno spazio che
insieme possa accogliere le esigenze di una produzione teatrale come quelle di un
processo formativo non necessariamente finalizzato allo spettacolo. Questo luogo in cui
essere registi-educatori è proprio il teatro-laboratorio.
La complessità della formazione si può rintracciare nel teatro inteso come luogo
del “laboratorio”, ovvero un ambiente preciso e circoscrivibile in cui l’uomo dà forma a
se stesso e si educa nel suo rapporto con ciò che gli è “altro”. Nel laboratorio teatrale
l'esperienza della “rappresentazione” e la distanza estetica permettono alle persone
coinvolte di fare esperienza di sé (emozioni, rievocazioni, vissuto corporeo) in modo
non ansiogeno. Il lavoro si può svolgere in un ambiente protetto ma non “privato”, mai
completamente precluso allo sguardo dell'altro, un luogo di lavoro con l'altro, in cui vi
sia la possibilità di agire con il corpo ma anche con la voce in una relazione spaziotemporale condivisa.
Nel laboratorio teatrale, nelle cosiddette fasi di training in cui ci si esercita, si
lavora all'allenamento fisico, sulla concentrazione e l'improvvisazione, è fondamentale
sia il lavoro con gli altri, quindi in gruppo, sia quello di ascolto con il regista che guida
ma anche quello personale, svolto su se stessi con se stessi, alla ricerca della propria
identità e specificità. In questa fase la maggior parte delle tecniche e degli esercizi
teatrali, ormai entrati a far parte delle pratiche teatrali riconosciute e utilizzate in diversi
ambiti, riguardano l'interazione, il “gioco”, la “scelta” di/con alcuni oggetti.
Spesso viene chiesto ai partecipanti ad un laboratorio teatrale, che si tratti di attori
oppure no, di portare con sé un oggetto che li rappresenti, da usare durante la pratica
laboratoriale. A volte l'oggetto da portare deve essere scelto seguendo l'indicazione di
massima data dal regista-educatore, un'indicazione abbastanza generale (ad esempio
quella di portare un frutto, un libro, una valigia, ecc.) in maniera tale da consentire
all'allievo di scegliere qualcosa che nel rispetto della consegna data gli permetta
comunque di esprimere la propria personalità e il proprio gusto proponendo un oggetto
molto specifico e particolare, quando non unico. È infatti poco probabile che nell'ambito
dell'indicazione di un libro, o di un cappello, due persone portino lo stesso libro o lo
stesso cappello ed anche se questo si verificasse, sia il libro che il cappello si
132
porterebbero addosso quei “segni” del tempo e della propria storia che li renderebbero
unici.
Da un punto di vista pedagogico, questa modalità di lavoro teatrale con gli oggetti
riprende gli studi di Maria Montessori sulla “libera scelta” dei bambini. Rileggendo
alcune pagine di Educare alla libertà, colpisce la somiglianza fra alcuni esercizi della
pratica laboratoriale teatrale con quelli proposti dalla pedagogista. Nel metodo
Montessori i bambini scelgono il gioco con cui interagire e lo tirano dentro al loro
mondo interiore, non per imitazione perché i giochi sono tutti uno diverso dall'altro:
«Non è dunque l'imitazione. Anche il modo in cui il bambino userà il materiale ce lo
dimostra: perché il bambino finisce per immergersi nel suo esercizio con tale intensità
di attenzione che non si accorge più delle cose circostanti e continua a lavorare,
ripetendo l'esercizio uniformemente decine e decine di volte consecutive. […] Siamo
perciò dinanzi ad una vera e propria rivelazione del mondo interiore. Gli stimoli esterni
come una calamita attirano al di fuori qualche manifestazione collegata con le
profondità dell'anima. Ci troviamo dinanzi ad un fenomeno di sviluppo puro e
semplice»194.
Attraverso l'oggetto il bambino fa esperienza di sé ma anche esperienza del
mondo, agisce sull'oggetto e lo usa per conoscere la sua stessa azione, un'azione
“inutile” nel senso che non è finalizzata ad un compito preciso, ma è un'azione “di
sviluppo puro e semplice”. Anche le azioni-interazioni che si svolgono nel laboratorio
teatrale con gli oggetti non sono azioni necessariamente finalizzate allo spettacolo, forse
lo diventeranno, forse no, nel laboratorio non sono ancora “prove” dello spettacolo
anche perché lo spettacolo potrebbe non esserci. Anche nel laboratorio teatrale l'azione
viene ripetuta, innumerevoli volte, alla ricerca del gesto giusto, che non è detto sia poi
quello ultimo, quello “buono”. Più avanti Montessori usa un altro termine
importantissimo per descrivere questa attività, un termine riferito alla maestra, che nel
nostro caso può essere riferito al regista-educatore: «Ostacolo sarà ogni cosa esterna e
più ancora ogni attività esteriore [che] devii quel fragile e occulto impulso vitale che
guida il piccolo, benché [egli] non ne sia ancora cosciente. La maestra perciò può
divenire il principale ostacolo perché [svolge] un'attività più energica e cosciente di
quella dei bambini»195. Il regista-educatore deve lavorare con l'allievo, fare esperienza
con lui, scoprire il mondo assieme, ed essendo più forte in quanto “più cosciente” deve
sapersi mettere da parte, talora svolgere un ruolo di osservatore esterno.
194M. Montessori, Educare alla libertà, Mondadori, Milano, 2008, pp. 90-91.
195Ibidem.
133
Il lavoro del regista diventa più difficile, poiché deve iniziare un percorso che
porti l'allievo alla “consapevolezza di sé” prima ancora di farlo agire dentro lo
spettacolo, prima ancora di coinvolgerlo nella performance artistica.
La questione della consapevolezza ad esempio è trattata da Boal nell'esperienza
del teatro-forum in cui c'è il coinvolgimento dello spettatore che diventa attore, in una
maniera profondamente diversa da come la facevano accadere, ad esempio, gli attori del
Living Theatre o come accade nell'happening. Il passaggio dal teatro-invisibile al teatroforum avviene attraverso la “consapevolezza”: «Nel teatro-invisibile lo spettatore si
trasforma in protagonista dell'azione senza averne coscienza. Ecco perché è
indispensabile andare più lontano e far partecipare lo spettatore a un'azione drammatica,
ma con piena coscienza di causa. E per incoraggiarlo a partecipare bisogna prima
riscaldarlo con degli esercizi e dei giochi; è indispensabile incoraggiarlo tramite il gioco
delle rappresentazioni del teatro-immagine» 196.
Il luogo designato all'esercizio e al gioco è il teatro-laboratorio, mentre colui che
guida l'esperienza complessiva (che conduce all'incontro con lo spettatore) è il regista,
un regista che deve saper essere un regista-educatore senza abdicare al ruolo di creatore
di mondi, di creatore d'arte: «Penso sia così che debbano essere i maghi-pedagoghi:
all'inizio devono fare la loro magia per incantarci, poi insegnarci i loro trucchi. È anche
così che devono essere gli artisti rivoluzionari: devono essere creatori, e anche
insegnare al pubblico come esserlo, come fare dell'arte, affinché la possiamo usare tutti
assieme»197. In questo passaggio viene sottolineato la capacità del teatro di “agire”, di
“fare” e di essere “rivoluzionario”. Qui ritroviamo il percorso artistico di Asja Lacis, e
anche la prosecuzione ideale a cui si aggancia Eugenio Barba quando insiste sul
concetto di “rivoluzione” che può essere innescata dal teatro 198.
L'azione che si dispiega nel laboratorio mette in moto il corpo non come
ginnastica, ma come attività sinestetica, fondata sulla relazione e sulla reciprocità. Molti
esercizi teatrali utilizzati in fase laboratoriale prevedono l'annullamento dell'uso di un
senso a favore degli altri (essere bendati e/o chiudere gli occhi, fare esperienza del
silenzio, ecc.), la consapevolezza del proprio corpo si realizza attraverso l'incontro con
il corpo dell'altro: l'aggancio è visivo, vocale, o tattile: «Toccare è essere toccati.
Quando tocchiamo qualcuno entriamo in relazione non solo con il suo ma anche con il
nostro corpo; nel toccare si riducono le distanze. Ciò che si tocca ci può anche toccare
196A. Boal, Il poliziotto e la maschera. Giochi, esercizi e tecniche del Teatro dell'Oppresso , edizioni la
meridiana, Molfetta (BA) 2005, p. 41.
197Ivi, p. 46.
198Cfr. E. Barba, Teatro. Solitudine mestiere rivolta, Ubulibri, Milano 1985.
134
nell'accezione di risultare toccante, perfino commovente, ed è in questo senso che la
letteratura e soprattutto la poesia hanno contribuito nel tempo ad assegnare alla parola
una valenza quasi più spirituale, psichica, che fisica» 199.
Il laboratorio teatrale ad esempio pensato per la scuola superiore deve fare i conti
con le aspettative e con l'idea del teatro che l'adolescente ha acquisito attraverso le sue
precedenti esperienze di lettore e spettatore, oltre che attraverso altri laboratori teatrali
frequentati nelle scuole elementari e medie inferiori. La dimensione ludica viene
solitamente indirizzata verso una dimensione creativa (sempre partecipativa) però più
orientata sulla possibilità di far confluire (di includere) l'immaginario culturale dei
giovani. Questo aspetto è spesso fondamentale per farli sentire parte di un processo di
creazione e costruzione artistiche.
L'incontro tra teatro e pedagogia, soprattutto a scuola, può avvenire riconoscendo
un ruolo centrale all'esperienza laboratoriale. «Ad una scuola verbalistica e centrata
sostanzialmente sull'insegnamento e sulla trasmissione del sapere Dewey risponde con
la proposta del laboratorio, centro nevralgico in cui l'esperienza attiva e creativa del
soggetto diventa la condizione stessa dell'apprendimento, secondo una linea di ricerca
che gli studi di psicologia andavano tracciando negli anni in cui Dewey elaborava il suo
modello di educazione progressiva»200.
Il teatro-laboratorio dà centralità assoluta all'uomo-attore inteso in questo caso
come persona che “agisce”, che partecipa ad un percorso artistico. Sia che questo
culmini con uno spettacolo oppure no. Ma nel laboratorio non è solo il linguaggio del
corpo ad essere centrale, il laboratorio, come il teatro, è luogo della parola, ma in
un'accezione “corporea” della parola, una parola “detta”, orale, agita attraverso l'oralità,
la performatività della voce. Caratteristica a cui l'educazione, e l'agenzia formativa che
più la rappresenta, ovvero la scuola, ha abdicato da tempo, a favore della parola scritta,
della lettura silenziosa, dello studio solipsistico. Eppure, ci ricorda Gamelli: «La
reciprocità particolare insita nell'oralità si presta perciò ad essere assunta come una
strategia formativa», e ancora, riferirsi all'oralità come strategia narrativa «consente di
ripensare radicalmente i nostri stili educativi, di “ridare voce” a situazioni formative
fortemente condizionate da una visione marcatamente solipsistica, di valorizzare la
dimensione della risonanza quale risorsa irrinunciabile del gioco formativo» 201.
Già Artaud, con la sua eccezionale capacità visionaria, aveva teorizzato lo
199I. Gamelli, op. cit., pp. 152-153.
200T. Iaquinta, La scuola laboratorio. La teoria deweyana e l'interpretazione di Francesco De
Bartolomeis, Edizioni Scientifiche Calabresi, 2005, p. 6.
201I. Gamelli, op. cit., pp. 128-129.
135
spostamento dalla parola scritta – morta – della letteratura drammatica, al corpo –
vivente – dell'attore sulla scena, attribuendogli così il peso dell'esistenza stessa del
teatro, quella doppiezza fatta di forme luminose e ombre che le travalicano, come
attiene alle culture magiche: «Come ogni cultura magica espressa da appropriati
geroglifici, anche il vero teatro ha le sue ombre; e, fra tutti i linguaggi e tutte le arti, è il
solo le cui ombre abbiano travolto i loro limiti. Si può anzi dire che esse sin dall'origine
non abbiano tollerato limiti. […] Ma il vero teatro, in quanto si muove e in quanto si
avvale di strumenti vivi, continua ad agitare ombre in cui la vita non ha cessato di
sussultare. L'attore, che non ripete mai due volte lo stesso gesto ma compie gesti, si
muove e innegabilmente violenta le forme, al di là di queste forme e attraverso la loro
distruzione raggiunge ciò che sopravvive alle forme e provoca la loro continuazione» 202.
Il laboratorio teatrale, inteso come luogo della pratica, della messa in gioco
dell'esperienza e dell'immaginazione, nell'ambito di attività di tipo pedagogico, si può
rivelare un luogo utile in cui far emergere dal vissuto dei partecipanti quell'immagine
del corpo che essi custodiscono e che può essere in netto contrasto con quello che
Françoise Dolto chiama “il reale del corpo”203. Frequentemente e non solo a causa di
patologie specifiche la rappresentazione mentale del proprio corpo non coincide con “il
reale del corpo”.
Nella letteratura relativa alla definizione di laboratorio teatrale è fondamentale il
concetto di “fare assieme” e di apprendere reciprocamente, non c'è una trasmissione di
sapere ma una condivisione, una compartecipazione, un reciproco apprendimento.
Il laboratorio teatrale rappresenta questo “luogo” di costruzione dell'esperienza,
spiega Barba: «Allora non si trattava più di insegnare o imparare qualcosa, tracciare un
metodo personale, scoprire una nuova tecnica, trovare un linguaggio originale,
demistificare se stesso o gli altri. Solamente non aver paura l’uno dell’altro. Avere il
coraggio di avvicinarsi l’uno all’altro fino a essere trasparenti e lasciare intravedere il
pozzo della propria esperienza. Da qui quel pudore che rifiuta la presenza di estranei
durante il lavoro. E quando viene il tempo della presenza degli altri – gli spettatori –
essi sono i testimoni di questa situazione umana che continuiamo a chiamare teatro» 204.
Da un punto di vista storico, il laboratorio ha messo in crisi il teatro, ma da un
punto di vista “pedagogico” lo ha fatto rinascere più forte di prima. Il laboratorio ha
sconvolto i ruoli prefissati e ha aperto al “gioco” del teatro. Questa dimensione “ludica”
202
A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino, 2000, pp. 131-132.
203Cfr. F. Dolto, L'immagine inconscia del corpo, Como, Red 1996.
204E. Barba, op. cit., p. 83.
136
è quella a cui l'educazione teatrale ha più attinto nella scuola elementare, ed è una
dimensione che si è rivelata proficua. «Il bambino, come l'adulto per altro, non conosce
che feste stereotipe ed occasioni di felicità comunitaria tutte strutturate dall'alto:
conosce evasioni, quindi, da una realtà intesa come seria, normale e necessaria. La
nostra festa è invece occasione di gioco e di autogestione dell'espressione. Non
evasione, non fuga, ma anzi rientro, riconquista di quella dimensione ludica della vita
che noi riteniamo decisiva per l'uomo» 205.
205
F. Passatore, S. Destefanis, A. Fontana, F. De Lucis, Io ero l'albero (tu il cavallo), Guaraldi,
Rimini 1972, p. 38.
137
Conclusioni
Giocare, formare, vivere. Proposte per un'educazione teatrale.
Alla fine di questo percorso si ritorna, ancora una volta e questa volta per
chiudere, sul perché di tanto insistere sull'arte del teatro, sulle arti performative piuttosto
che su quelle visuali o plastiche. Arti queste ultime, forse, per certi versi più attraenti, in
particolare per gli adolescenti e gli adulti, arti che possono essere esercitate nel chiuso
di una stanza, arti che creano in solitudine opere, oggetti che possono essere spostati,
venduti, esposti, fruiti (magari digitalmente su youtube o su myspace) senza il dispendio
di energie e l'organizzazione complessa di gestire un'agenda di luoghi e tempi in cui
“incontrarsi”, attori e spettatori, con quel che ne consegue. Molte risposte sono state
date a questo quesito importante, tutte filtrate, sia attraverso percorsi teorici sia più
squisitamente storici, da un'ontologia del teatro fondata sulla “relazione teatrale”, sul
rapporto relazionale attore-spettatore, relazione che rende quest'arte molto vicina alla
pedagogia e al suo oggetto specifico: la formazione.
Ma c'è ancora un'altra motivazione da prendere in considerazione, in apparenza
semplice, certo parziale, ma che merita di essere comunque trattata, perché portatrice di
verità, oltre che di suggestioni che andrebbero approfondite. Il teatro è l'arte che più di
tutte, oggi, mette in crisi il concetto di proprietà, di possesso. È un'arte che produce
un'opera che non si può possedere, non collezionabile, non museificabile. È un'arte che
ha eletto il suo morire a fondamento del suo esistere, del suo restare sempre viva.
Spiega Peter Brook: «In un teatro vivo ogni giorno affronteremmo le prove verificando
le scoperte del giorno precedente, pronti a credere che la verità del dramma ci sia
sfuggita ancora una volta»206.
Il teatro, per poter essere attivo nella società ha bisogno continuamente di morire a
se stesso in un rituale di morte che ad ogni replica deve compiersi – obbligatoriamente,
ne va della sua stessa identità di arte “effimera” - come atto compiuto per mano di chi
pure lo tiene in vita, l'attore per lo spettatore. Non è un'arte che esiste in potenza o che si
protende al futuro, essa sta tutta nell'atto e nulla di tangibile lascia dopo, è un'arte che,
come il fuoco, nel vivere si consuma, con fiamme uniche e irripetibili, condannata a
durare solo nel luogo e nel tempo (il qui e ora) dell'esperienza scenica. Pur fondandosi
206
P. Brook, Lo spazio vuoto, Bulzoni, Roma 1997, p. 27.
138
sull'imitazione, deve annientare l'imitazione per essere vivente 207.
Nel darsi come opera deperibile e destinata a morire, sempre diversa proprio
perché nelle sue ulteriori messe e ri-messinscena cerca di avvicinarsi alla verità, lo
spettacolo si offre come qualcosa di unico e, paradossalmente, non “replicabile”. Nel
gergo teatrale la replica è la riproposizione nel tempo e in diverse sedi di uno spettacolo
considerato come finito, organizzato in ogni sua parte e rigidamente chiuso in un
copione a lungo provato dalla compagnia sotto la guida di un regista. Ma la replica, nel
teatro in generale e in quello contemporaneo in particolare, non può essere presa alla
lettera, essa deve darsi sempre come unica, quindi non è realmente “replicabile”; è la
natura stessa del teatro a non rendere possibile la ripresa in maniera esatta dello
spettacolo.
L'irripetibilità rende l'opera effimera, inafferrabile e “vivente”, frutto di un
insieme di relazioni fra esseri umani unite ad un insieme di fattori contingenti – anche di
tipo materiale e casuale – che la condizionano e la possono modificare sensibilmente.
Lo spettacolo, frutto dell'arte del teatro, è impossibile da possedere, rimane esperienza
condivisa che può restare come traccia positiva o negativa nel soggetto-persona, ma
nessuno vi può esercitare un diritto di proprietà.
Ciò che può minare, alle fondamenta e in profondità, quel concetto di libertà posto
dalla pedagogia alla base della formazione dell'uomo è proprio il possesso; ovvero la
situazione diffusa e preponderante, nonché caratterizzante la modernità, per cui il
soggetto, l'uomo della contemporaneità, si relazioni con il mondo, con gli oggetti che lo
costituiscono e con gli altri uomini, attraverso il desiderio di possederli, o già
considerandoli, in maniera diffusa, acritica e “spensierata” - spensierata nel senso di non
averne neanche fatto oggetto di ragionamento – in loro pieno possesso, per disporne a
piacimento come per disinteressarsene pienamente.
Sulla rischiosa dinamica soggetto-oggetto dell'uomo nel mondo spiega Gennari:
«Un rischio aleggia tuttavia nel soggetto: che egli si senta padrone degli oggetti che
207
«In un mondo in cui l'andare avanti spesso è un avanzare obliquamente o un tornare indietro, il
teatro può procedere soltanto con l'andatura del granchio. Ecco perché per molto, molto tempo ancora non
potrà assolutamente esservi uno stile mondiale per un teatro del mondo, com'era nei teatri di prosa e nei
teatri d'opera del XIX secolo. Ma non tutto è movimento, non tutto è distruzione, non tutto è
irrequietezza, non tutto è moda. Vi sono pilastri su cui poggia un'affermazione: quei momenti in cui,
all'improvviso, da qualche parte, si ottengono risultati. Quelle rappresentazioni, quelle occasioni quando,
sul piano collettivo, un'esperienza totale, un teatro totale fatto di spettacolo e spettatore rendono
insignificante ogni distinzione tra Teatro Mortale, Teatro Ruvido e Teatro Sacro. In questi rari momenti il
teatro della gioia, della catarsi, della celebrazione, il teatro della ricerca, il teatro dei contenuti comuni, il
teatro vivente sono un tutt'uno. Ma conclusa l'esperienza, quel momento non torna più e non può essere
ricatturato con un'imitazione: il mortale è in agguato, la ricerca ricomincia daccapo» (Ivi, pp. 142-143).
139
possiede, senza pensare che siano gli oggetti ad impadronirsi di lui. Questi, allora, curva
la propria vita su ciò che possiede, fino a trattare gli altri uomini come oggetti che
debbono appartenergli. Il bisogno di un esercizio della proprietà sugli oggetti e i
soggetti presenti nel suo mondo pone l'uomo in una condizione psicologica di possesso.
Ma l'altro è un soggetto, per giunta libero! E l'oggetto stesso non può venir identificato
con il soggetto, anche se lui lo ha prodotto o acquistato. Una educazione alla ragione e
una educazione al sentimento dell'oggetto avviano il soggetto alla cultura, alla
conoscenza e alla coscienza dell'oggetto. La formazione dell'uomo si decide anche in
questa concezione dell'oggetto, di cui si rinuncia alla proprietà, al possesso, per renderlo
ancor più parte dell'uomo»208.
Il teatro quindi come arte che non produce oggetti ma crea relazioni fra soggetti, è
metafora perfetta per spiegare la relazione auspicabile dell'uomo con il mondo, una
relazione fondata sull'armonia, sul confronto, sul dialogo, non produttivo in quanto non
lascia “prodotto” che possa essere vendibile, acquistabile, conservato, ma può essere
“scambiato”209, condiviso, goduto nella relazione stessa, che esiste e nell'esistere si
consuma.
Il rapporto dell'uomo con il teatro è un rapporto che nella società contemporanea
viene in linea di massima percepito come extraquotidiano, nel senso di un qualcosa che
non appartiene alla normalità della vita quotidiana, ma si colloca in uno spazio di
eccezionalità e straordinarietà. A questo proposito basti pensare a come solitamente i
bambini accolgono la prospettiva di “andare a teatro” o di “fare teatro” nell'ambiente
scolastico.
Nonostante storicamente il teatro sia l'arte più antica e “naturale” nell'esperienza
umana, addirittura si potrebbe definirla connaturata all'esperienza culturale di intere
società, forse a causa del prevalere dell'educazione cristiana-cattolica, o forse a causa
del cristallizzarsi di forme del teatro “borghesi” o comunque definite come tradizionali
che hanno allontanato il più vasto pubblico dalla coltivazione dell'esperienza teatrale,
oggi il teatro viene considerato qualcosa che ha a che fare con l'eccezionalità
dell'avvenimento, qualcosa che càpita poche volte nella vita e una volta che si è pagato
il pedaggio dell'ingresso a teatro si può considerare pagato il proprio debito nei
confronti di quest'arte. Un'arte che è spesso collegata ad un immaginario affascinante
ma vetusto, attraente ma polveroso; talora il teatro viene inteso come un esercizio
208M. Gennari, Trattato di pedagogia generale, Bompiani, Milano, 2006, p. 74.
209Il teatro antropologico, ad esempio, ha fatto propria l'istanza del “baratto”, rendendo così la
performance come qualcosa che oltre a dare valore all'esperienza umana, riconosce valore all'esperienza
di altre comunità. In quest'ottica nel baratto si realizza pienamente lo scambio culturale.
140
intellettualistico, un hobby esotico riservato a persone che amano la cultura e si
dedicano ad attività noiose, un passatempo costoso per appassionati di una cultura
fortemente codificata e scarsamente connessa con la realtà e l'attualità.
Eppure il teatro potrebbe ricoprire un ruolo più generoso e capillare nell'ambito
dell'educazione e della formazione dell'uomo, e forse bisognerebbe partire proprio
dall'aggiornamento del suo immaginario. Non è che il teatro “vecchia maniera” o “di
tradizione” non esista più. Esiste, ed i mausolei che lo celebrano continuano ad essere
abbastanza frequentati, come d'abitudine si va alle cerimonie commemorative, al museo
dei bei tempi andati, l'abbonamento alla stagione di prosa viene pagato per trovare
conferme tranquillizzanti alla propria idea di cultura. Ed è un bene che questo teatro
continui ad esistere, accanto a proposte il più possibili inclusive e rinvigorenti dei
linguaggi della scena.
I linguaggi ipercodificati della tradizione occidentale accanto/assieme/mescolati ai
linguaggi, anch'essi ormai ipercodificati, del cosiddetto teatro “di ricerca” – per usare
un'etichetta anch'essa mortifera – messi al servizio di tanti altri teatri possibili, dal
teatro-ragazzi, alle esperienze di teatro di strada e al teatro di figura, dal filone di
successo del teatro di narrazione, alle esperienze più avanguardistiche del teatro-danza,
accanto a progetti di teatro partecipato e sociale (eredi dell'animazione teatrale) fino alla
rivoluzione tecnologica delle video performances dal vivo. Il paesaggio complessivo
dell'offerta teatrale contemporanea è smisurato e il teatro, in particolare quello che cerca
di osare di più e di individuare canali meno usuali e meno “mediati” (da un sistema
economico e organizzativo dei teatri ormai atrofizzato) per incontrare il pubblico,
questo teatro sta conoscendo un interessante incremento di fruizione coinvolgendo
nuove categorie spettatoriali.
Ci sarebbe bisogno di una maggiore presenza di teatro, nella pedagogia e nella
cultura in genere, se non altro per fare fronte al bisogno crescente dell'uomo
contemporaneo di comunicazione “reale” e di interrelazione: con gli altri, con gli
oggetti, con il mondo. Il rapporto stesso fra soggetto e oggetto è stato messo in crisi,
nella contemporaneità. Non è più basato neanche sul possesso dell'oggetto, mette in
gioco l'oscenità data dall'istantaneità totale delle cose, dalla sovraesposizione alla
trasparenza del mondo, situazione generata – e de-generata – dall'invasione capillare
della tecnologia informatica nelle nostra quotidianità, dal proliferare senza controllo
dell'immagine digitale su tutti i nostri schermi e i nostri monitor.
La descrizione che ne ha dato Jean Baudrillard rimane ad oggi la più efficace:
141
«Tutto è partito dagli oggetti, ma non c'è più un sistema degli oggetti. La loro critica era
ancora quella di un segno gravido di senso, con la sua logica fantasmatica e incosciente,
e la sua logica differenziale e di prestigio. […] Tutto questo esiste ancora, e
simultaneamente tutto questo scompare. La descrizione di questo universo proiettivo,
immaginario e simbolico, è ancora quella dell'oggetto come specchio del soggetto.
L'opposizione del soggetto e dell'oggetto era ancora significativa, così come
l'immaginario profondo dello specchio e della scena. […] Oggi non più scena né
specchio, ma uno schermo e una rete. Non più trascendenza o profondità, ma la
superficie immanente dello svolgimento delle operazioni, la superficie liscia e operativa
della comunicazione. A immagine della televisione, il più bell'oggetto prototipico di
questa era nuova, tutto l'universo circostante e il nostro proprio corpo si fanno schermo
di controllo. Noi non ci proiettiamo più nei nostri oggetti con gli stessi affetti, gli stessi
fantasmi di possesso, di perdita, di lutto, di gelosia: la dimensione psicologica si è
attenuata, anche se la si può sempre reperire nei particolari» 210.
Il teatro è l'arte che può mettere in crisi questo stato di cose, primariamente perché
mette in discussione il concetto di possesso mantenuto invece con l'accumulo e il
controllo delle opere d'arte attuato da parte del sistema delle gallerie e dei musei
(conservativo e elitario), secondariamente perché nel suo darsi come relazione attorespettatore consente l'incontro fra l'io e l'altro e attiva una dimensione “umana” della
cultura, sociale e basata sulla condivisione. La relazione teatrale infine osteggia
l'attenuazione della dimensione psicologica di cui parla Baudrillard ed incrementa un
approccio “affettivo” al mondo, passionale ed empatico.
L'attività teatrale, esperita nelle sue molteplici forme che vanno dall'essere
semplici spettatori al cimentarsi in prima persona sul palcoscenico, considerata nella
prospettiva di lifelong learning, recupera un rapporto di vicinanza/prossimità con due
esperienze cardine della vita dell'uomo, quella della festa e quella del gioco, esperienze
che da un punto di vista storico e da un punto di vista teorico hanno caratterizzato la
nascita stessa del fenomeno teatrale.
Sono in effetti molti i tratti in comune fra la festa e il teatro, non solo poiché
storicamente il teatro da essa nasce e si sviluppa, quanto piuttosto per l'incarnare con/in
essa dei bisogni di socialità, ritualità, condivisione e “trasgressione” che gli sono insiti e
che oggi, più che mai, partecipano della sua costituzione e del suo rinnovamento: in
tanti modi, in tante forme.
210J. Baudrillard, L'altro visto da sé, Costa & Nolan, Genova, 1987, pp. 7-8.
142
Con Cambi si ricordi come la dimensione della festa, analizzata nella sua
costituzione basica, metta in campo elementi pressoché identici all'esperienza del teatro,
elementi quali il tempo, la ritualità, la comunità: «La festa è allora tempo sospeso,
nucleo di riti e di simboli, occasione di vacatio e di partecipazione attiva, momento
ludico e estetico e cerimonia costitutiva della comunità, come identità e come valore.
Da qui la funzione centrale della festa in ogni cultura: spezza la continuità della vita
sociale, ma così facendo ne riconferma i principi/valori; valorizza il soggetto (i suoi
bisogni, il suo istinto di gioco, il suo comunicare, etc.) irretendolo in un rito collettivo;
gratifica attraverso il ludico e la condizione comunitaria ma, con ciò, governa e
conforma il soggetto, ogni soggetto. La festa libera e condiziona ad un tempo. E proprio
per questo è uno strumento chiave della vita sociale, in ogni tempo e in ogni luogo» 211.
Nelle perdite denunciate dai più fini analisti del tempo, del mondo e della cultura
contemporanea, la perdita del rito (come iniziazione, partecipazione e rappresentazione)
figura come una sorta di punto di non ritorno. Abitiamo un'epoca che sta abbandonando,
progressivamente e inesorabilmente, la possibilità di darsi un tempo altro, di regalarsi
un'occasione di festa, di travestimento, di capovolgimento della quotidianità. Tutto è
stato irreggimentato e prestabilito, anche la vacanza e il tempo libero. La testimonianza
più allarmante arriva dalla gestione del tempo imposta ai bambini, impegnati tutto il
giorno e costretti a subire anche la programmazione del cosiddetto tempo libero
(occupato fra ludoteche, attività sportive e artistiche). In queste giornate scandite da
ritmi “adulti” la noia è stata definitivamente bandita, così come la possibilità di scoprire
un ozio creativo, improduttivo, e soprattutto libero dall'ingerenza degli adulti.
Infatti anche il gioco, simmetrico ma non coincidente con la festa 212, non trova più
spazi autonomi e liberi di espressione, ovvero spazi dettati dalla contingenza e dalla
necessità, quindi frutto della scoperta e dominati dall'immaginazione sfrenata. Anche
qui la modernità – intesa come epoca regolata dal capitalismo dell'industria del
divertimento – ha imposto modi e tempi e oggetti che esaltano la solitudine dell'attività
ludica, spersonalizzano gli ambienti, mortificano l'immaginazione con la vuota
perfezione del giocattolo.
Walter Benjamin aveva stigmatizzato il controllo sull'attività ludica del bambino:
«Scervellarsi pedantescamente per realizzare prodotti – siano essi immagini, giocattoli o
211F. Cambi, “Festa e formazione. Sincronia, diacronia, laicizzazione”, in op. cit., p. 213.
212«Se il giuoco trama tutta la civiltà umana e vi si colloca come un fattore costitutivo e irrinunciabile,
esso nella festa trova la sua espansione sociale e la sua simbolizzazione più esplicita. Feste o esperienze
cariche di festosità sono le gare, i tornei, le stesse guerre cavalleresche, ma anche la conversazione, i
giochi delle Accademie, la creazione estetica (dalla poesia al teatro, al teatro d'opera). Festa e gioco sono
simmetrici, anche se non coincidono» (Ibidem).
143
libri – adatti ai bambini è folle. Fin dall'Illuminismo questa è una delle fissazioni più
ammuffite dei pedagoghi. Totalmente infatuati per la psicologia, non si accorgono che il
mondo è pieno di cose che sono oggetto di interesse e di cimento per i bambini; e si
tratta delle più azzeccate»213. I bambini devono poter esercitare il diritto al gioco in
spazi e tempi non deputati, con giochi “inventati”, adattati, costruiti per l'occasione con
l'aiuto dell'immaginazione. Devono poter interagire con, manipolare ed usare i luoghi e
gli oggetti del mondo degli adulti e così facendo appropriarsene alla loro maniera. «I
bambini sono fondamentalmente portati a frequentare i luoghi dove si lavora, dove in
modo evidente si opera sulle cose. Sono attratti irresistibilmente dai materiali di scarto
che si producono in officina, nelle attività domestiche o lavorando in giardino, nelle
sartorie e nelle falegnamerie. Negli scarti di lavorazione riconoscono il volto che il
mondo delle cose rivolge a loro, a loro soli. Con gli scarti di lavorazione i bambini non
riproducono le opere degli adulti, tendono piuttosto a porre i vari materiali in un
rapporto reciproco nuovo e discontinuo, che viene loro giocando. I bambini, in questo
modo, si costruiscono il proprio mondo oggettuale da sé, un piccolo mondo dentro a
quello grande»214.
É un atto di costruzione del mondo oltre che di definizione di un tempo e di uno
spazio propri. Oggi l'atto ludico che coinvolge soggetti e oggetti è sempre più una
conquista, da parte dei bambini, ma anche da estendere agli adulti, perché il recupero di
rapporti più “umani” e diretti, ovvero non mediati dalle nuove tecnologie – capillari,
veloci e spersonalizzanti nonché anaffettive – è diventata un'esigenza salutare.
«Il gioco dispiega uno spazio e un tempo sottratti alla prevedibilità quotidiana,
l'assunzione dell'impegno a partecipare seriamente, la compromissione reciproca;
sancisce un ingresso e un'uscita, la conoscenza e il rispetto delle regole come conditio
sine qua non del suo funzionamento, il superamento di prove, la gerarchia dei ruoli, il
confronto con chi lo pratica da più tempo, l'apprendimento delle mosse, il
coinvolgimento fisico, la scoperta della bellezza come luogo di destinazione dei propri
gesti... Inoltre nel gioco si sperimenta anche, fra la circolarità del gesto materno e la
verticalità di quello paterno, l'“orizzontalità” dei gesti fraterni» 215.
Non tanto il teatro quanto il laboratorio teatrale è infatti un luogo in cui attraverso
il gioco della messinscena, sottoposto alla collaborazione attiva costante di tutti i
membri del gruppo – in ogni fase, anche e soprattutto in quella creativa attraverso le
213
W. Benjamin - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/1BYSG
214Ibidem.
215I. Gamelli, Sensibili al corpo, op. cit., p. 83.
144
improvvisazioni – si sviluppa l'orizzontalità relazionale. Pur essendoci, come c'è ed è
giusto che ci sia, la presenza del regista-educatore, il gruppo sperimenta l'appartenenza
al gruppo attraverso l'attivazione spontanea di relazioni interne e reticolari. Anche qui,
come nell'essere spettatori, essere attori significa sviluppare una relazionarità duplice,
con la guida (il regista-educatore) e contestualmente con gli altri partecipanti.
Partecipanti con cui si “condivide” il gioco, si gioca insieme, mentre il regista-educatore
può entrare ed uscire dal gioco per osservarlo dall'esterno.
Come nel gioco, in cui pure si esiste, si è presenti a se stessi e pure si impara ad
essere se stessi, ci si forma attraverso l'interazione con altri oggetti e altri soggetti, il
teatro è azione, per esistere ha bisogno di essere “agito” e nell'azione consumato. Ha
scritto Baudelaire con fulminante collegamento fra il gioco e il teatro: «Tutti i fanciulli
parlano ai loro giocattoli; i giocattoli diventano attori nel grande dramma della vita,
ridotto dalla camera oscura del loro piccolo cervello. I fanciulli coi loro giochi
testimoniano la loro grande facoltà d'astrazione e l'alta loro potenza immaginativa.
Giocano senza giocattoli. […] la diligenza, l'eterno dramma della diligenza
rappresentato con delle seggiole: la diligenza-seggiola, i cavalli-seggiola, i viaggiatoriseggiole; solo il postiglione è vivo! I cavalli restano immobili, e tuttavia egli divora con
una rapidità ardente spazi fittizi. Quale semplicità di messinscena! E non c'è da far
arrossire della sua impotente immaginazione questo pubblico viziato che esige dai teatri
una perfezione fisica e meccanica, e non concepisce che i drammi di Shakespeare
possano rimaner belli con un apparato di semplicità barbara?» 216.
Ma che azione è quella teatrale? Che tipo di contributo un'azione “per finta” può
portare alla formazione dell'uomo? Quella del teatro è un'azione vera e al tempo stessa
fittizia, reale e pure astratta, teorica e pratica insieme. È nell'azione teatrale che
possiamo costruire la metafora dell'indistinguibilità di theorein e praxis.
L'azione teatrale è un'azione “a vuoto” che pure va “a segno”, purificata da finalità
e finalismi contingenti, essa è proiettata in avanti, verso finalità ideali, avulse dalla
quotidianità e dall'immediato, è l'azione pura proiettata verso/nel mondo: capace di
avverare l'emozionalità, la poeticità, di allenare la sfera sentimentale. Il suo è un agire
“puro” che può apportare benefici importanti nella formazione dell'uomo. Da qui le
molte esperienze di azione teatrale presenti nella teatro-terapia, da qui i processi di
analisi e autoanalisi esplicati attraverso le rappresentazioni e i giochi di natura teatrale,
da qui i percorsi di “allenamento” e soprattutto di formazione attoriale attivati grazie al
216C. Baudelaire, “Morale del giocattolo” in R.M. Rilke, C. Baudelaire, H. von Kleist, Morale del
giocattolo. Tre incursioni nell'immaginario dell'infanzia, Stampa Alternativa, Viterbo s.d., p. 17.
145
ricorso al gioco, all'improvvisazione scenica. Da qui il lavoro condotto con bambini in
ambiti delicatissimi per aiutarli a portare a galla il loro vissuto traumatico, le loro
testimonianze più vicine alla realtà dei fatti.
Ma a questo proposito, ad esempio, Winnicott si affretta a chiarire: «Io vorrei
togliere l'attenzione dalla sequenza: psicoanalisi, psicoterapia, materiale di gioco, gioco,
e rimettere su questa sequenza rovesciata. In altre parole, è il gioco che è l'universale e
che appartiene alla sanità; il gioco porta alle relazioni di gruppo; il gioco può essere una
forma di comunicazione in psicoterapia; il gioco facilita la crescita e pertanto la sanità e
infine, la psicoanalisi si è sviluppata come una forma altamente specializzata di gioco,
al servizio della comunicazione con se stessi e con gli altri» 217. E in un altro passaggio,
sul rapporto gioco e terapia: «È bene ricordare sempre che il gioco è esso stesso una
terapia. Fare in modo che i bambini siano messi in condizione di giocare è di per sé una
psicoterapia che ha applicazione immediata e universale, e include lo stabilirsi di un
atteggiamento sociale positivo verso il gioco. Questo atteggiamento deve comprendere
il riconoscimento che il gioco può sempre diventare un fatto pauroso. I giochi e la loro
organizzazione debbono essere considerati come parte di un tentativo inteso a tenere a
bada l'aspetto pauroso del gioco. […] La caratteristica essenziale della mia
comunicazione è che il gioco è una esperienza, che è sempre una esperienza creativa, e
che è un'esperienza che si svolge nel continuum spazio-temporale, una forma
fondamentale di vita»218.
Il lavorare, attraverso un'azione fisica – non solo intellettuale – alla costruzione di
un processo esterno alla formazione, come può essere la drammatizzazione di un gioco
e/o l'allestimento di un'azione teatrale, può condurre all'attivarsi di un processo interno
di coscienza, questo sì formativo. Il teatro considerato innanzitutto come fare, come
processo esterno, progetto condiviso, passaggio attivo dal corporeo al mentale, che
procede a partire dal corporeo e dal materiale, in direzione di un processo interno di
coscienza. Quest'atto può rivelarsi un'azione formativa importante per l'uomo della
contemporaneità, un gesto di cura.
Nella sua ottica metateatrale e autoriflessiva su questi aspetti e le loro sfumature ci
aveva “giocato” anche Shakespeare in Amleto, attraverso un'azione teatrale vista da
“spettatore” e non agita in prima persona da attore; sarebbe potuta bastare una
rappresentazione teatrale per far confessare al re Claudio i suoi crimini, così spiega il
principe di Danimarca: «Uhm – ho sentito che assistendo a un dramma / Dei malfattori
217D.W. Winnicott, Gioco e realtà, Armando, Roma 2006, p. 76.
218Ivi, p. 88.
146
sono stati colpiti così a fondo / Dall'arte della scena che hanno confessato / I loro delitti.
L'assassinio infatti, / Pur non avendo lingua, parla con un organo / Miracoloso. Chiederò
a questi attori / Di recitare davanti a mio zio qualcosa / Che somigli all'assassinio di mio
padre. / Osserverò il suo contegno. Lo penetrerò / Fino in fondo. Se lui ha un
soprassalto / Conosco la mia strada. Lo spettro che ho visto / Può essere un diavolo, e il
diavolo ha il potere / Di assumere una forma gradevole, sì, / E forse, per la mia fragilità
e malinconia, / Essendo così potente con anime siffatte, / Mi inganna per dannarmi. Il
teatro è la cosa / Con cui metterò in trappola la coscienza del Re.» 219
Per Shakespeare il teatro era tutto, coincideva con il mondo ma, al tempo stesso, il
teatro introiettava la sua teoria critica, la sua riflessione speculativa, faceva diventare
scena i moti più segreti dell'anima e i tranelli della vita quotidiana, diventando
all'occorrenza strumento di verità attraverso la finzione dichiarata. Il Re non recita nella
compagnia dei teatranti, ma recita nella verità della rappresentazione drammatica: si
finge innocente pur essendo colpevole. Amleto è il regista che di tutti i livelli
metateatrali presenti nel testo si fa carico, fino alla morte. È colui che svela i
meccanismi più segreti del dispositivo teatrale anche a prezzo di mostrare la nudità della
propria macchina corporea-attoriale. Vuole arrivare alla verità del teatro usando come
strumento la finzione del teatro, in questo gioco sacrificherà Ofelia e consacrerà sé
stesso ad eroe tragico moderno.
Il teatro immaginato dai più grandi drammaturghi consegna alla storia dispositivi
di gioco perfetti, ogni possibilità di travestimento e impersonificazione, la costruzione
di personaggi inventati e veritieri al tempo stesso, metafore universali dell'uomo. Trame
e personaggi sempre vivi grazie alla rimessa in gioco del palcoscenico, all'azione che ne
rinnova pensiero, linguaggio, carattere. Di tutti i giochi inventati dall'uomo per l'uomo,
il teatro si presenta come il più semplice, diretto, perfetto: non necessita di nulla al di
fuori di un attore e di uno spettatore, di un io che vuole incontrare (comunicare, giocare,
interagire) con un altro.
Ciò che in questa ricerca si è provato a fare è stato lanciare una proposta
ermeneutica di lettura di un fenomeno e al tempo stesso azzardare un'organizzazione
delle molteplici forme che esso può assumere. Con lo studio dell'incontro – degli
incontri possibili – fra pedagogia e teatro si è cercato di proporre dei percorsi, percorsi
talora individuati prettamente in ambito pedagogico, talora invece in quello teatrale, che
facessero chiarezza sulla storia, sui limiti, sulle prospettive pedagogiche che questa
219W. Shakespeare, Amleto, traduzione e cura di A. Lombardo, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 117-119.
147
complessa relazione può creare.
Mentre la pedagogia ha rappresentato un punto fermo teorico, nel suo
caratterizzarsi come “pedagogia critica” e nella scelta di privilegiare il paradigma della
“relazione di cura”, il teatro è stato trattato alla luce di differenti accezioni, spesso
sfumate l'una nell'altra.
Il teatro come metafora privilegiata dello stare al mondo dell'uomo, in armonia
con il mondo. Il teatro come possibilità ludica e attrattiva di agire formativo. Il teatro
come anticorpo culturale alle troppe patologie “isolanti” della contemporaneità. Il teatro
come ulteriore amorevole tassello per la cura del sé. Il teatro come repertorio culturale
da proteggere, utilizzare, condividere con gli altri. E quest'ultimo punto ha
rappresentato, in qualche modo, l'avvio stesso alla ricerca. Dalla cultura è iniziato il
viaggio e alla cultura si è infine arrivati. Perché essa è nell’uomo, lo costituisce, lo
forma e ne è formata: «[...] non c'è mente senza cultura, senza linguaggio, senza forme
simboliche, senza saperi. Allora la mente e il soggetto (che “porta” la mente) dipendono
nel loro costituirsi, preservarsi, incrementarsi dalla cultura che assimilano e dalla
formazione culturale a cui vengono sottoposti. Quale cultura per un soggetto-mente
aperto, responsabile, critico e metacritico? Una cultura polimorfa e dialettica, in cui
logos e pathos si leghino insieme distinguendosi»220. Il teatro appartiene a questa
cultura auspicata da Cambi, è questa cultura.
220F. Cambi, “La “questione della tecnica” e la pedagogia”, op. cit., p. 151-152.
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Teatro come esperienza pedagogica
di Vincenza Costantino
Introduzione
Cinque piccoli passi fra teatro e educazione
p. 2
I capitolo - La pedagogia e l'esperienza dell'arte.
p. 15
1.1. Un sapere problematico.
1.2. L'esperienza dell'arte.
1.3. La relazione di cura e l’esperienza spettatoriale.
p. 17
p. 31
p. 42
II capitolo - Il teatro come ambiente educativo
p. 53
2.1. Un'arte problematica.
2.2. Il teatro e il panorama teorico-critico.
2.3. Definizioni, delimitazioni, sconfinamenti.
p. 61
p. 69
p. 86
III capitolo - Pedagogia e teatro: l'incontro possibile.
p. 92
3.1. Centralità della formazione.
3.2. L'antinomia ambivalente nell'educazione e nel teatro.
3.3. Il regista-educatore e il laboratorio teatrale.
p. 93
p. 102
p. 125
Conclusioni
p. 139
Giocare, formare, vivere. Proposte per un'educazione teatrale.
Riferimenti bibliografici
p. 151
157