32 scheda birdman - Il cineforum "Il posto delle fragole"

32° film “Cineforum
Il posto delle fragole”
21° edizione 2015
BIRDMAN – O (L’IMPREVEDIBILE VIRTÙ DELL’IGNORANZA) Alejandro González Iñárritu
Titolo originale: Birdman: or (The Unexpected Virtue of Ignorance). Regia: Alejandro González Iñárritu.
Sceneggiatura: Alejandro González Iñárritu, Nicolás Giacobone, Alexander Dinelaris, Armando Bo.
Fotografia: Emmanuel Lubezki. Montaggio: Douglas
Crise, Stephen Mirrione. Musica: Antonio Sanchez.
Scenografia: Kevin Thompson. Costumi: Albert
Wolsky. Interpreti: Michael Keaton (Riggan
Thomson), Emma Stone (Sam), Zach Galifianakis
(Jake), Naomi Watts (Lesley), Andrea Riseborough
(Laura), Edward Norton (Mike Shiner), Amy Ryan
(Sylvia), Lindsay Duncan (Tabitha Dickinson),
Jamahl Garrison-Lowe Pictures/M Prods/Le Grisbi
Productions. Distribuzione: 20th Century Fox.
Durata: 119’. Origine: USA/Canada, 2014.
Prova d’attore tra rinascita e condanna Giampiero Frasca
La prima impressione è la densità. L’affastellamento ipertrofico. Di spazi, di corpi, di situazioni. Di parole,
accavallate e sovrapposte. Di luoghi, labirintici e fluidi. Di presupposti, numerosi e disseminati qua e là in modo
apparentemente caotico. Una tendenza indubbiamente massimalista che parte dal teatro e investe una molteplicità di
aspetti, alcuni accennati, altri più approfonditi. Includendo anche lo stile adottato, non certo inedito, tuttavia
sorprendente, dichiaratamente ostentato e volutamente claustrofobico. Come se l’universo messo in scena fosse
osservato su un nastro trasportatore pronto a scivolare via, attento alle dinamiche dei personaggi ma sostanzialmente
indifferente alla loro sorte.
Il teatro come origine e pretesto per irradiarsi nella contemporaneità attraverso un complesso gioco di rifrazioni: è
questo il meticoloso progetto organizzato da Iñárritu e dai suoi tre sceneggiatori Alexander Dinelaris, Nicolás
Giacobone e Armando Bo (gli ultimi due già al lavoro con Iñárritu in Biutiful, e ora impegnati, tutti insieme, nella
creazione della serie tv The One Percent). L’assunto si origina da una Mission sostanzialmente Impossible: adattare
il racconto di Raymond Carver Di cosa parliamo quando parliamo d’amore per il palcoscenico sulle ali di un flebile
e benaugurante ricordo d’infanzia (il tovagliolino da cocktail su cui Carver scrisse una dedica al giovane Riggan
Thomson al termine di uno spettacolo scolastico). Ossia, come cercare di rappresentare con piccoli tocchi l’articolato
complesso di delicati squilibri borghesi, dotare del soffio vitale oggetti metaforici, animando, in questo modo, un
intero ambiente, reinterpretare la quasi pudica sottrazione del linguaggio fino alla creazione di un codice
comunicativo di tersa immediatezza. Il contrasto tra l’impianto allestito da Iñárritu & Co. e il minimalismo
dell’oggetto dell’adattamento è evidente: evocare Carver, cercare di ridurlo all’ignorante (come recita il sottotitolo)
tentativo di esaltare la propria natura di attore attraverso le sue idiosincrasie d’autore, significa scontrarsi
palesemente con l’estremismo espressivo di un film che dell’eccesso verbale e stilistico fa volutamente la sua cifra
d’elezione. E lo fa tramite un doppio filtro, perché Iñárritu moltiplica gli effetti espressivi della riscrittura di Riggan
Thomson, che modella il testo in funzione della sua (ri)affermazione come interprete completo (attribuisce al suo
personaggio battute che nel testo di partenza non gli appartengono, inserisce la scena del suicidio finale di Ed, figura
di cui, invece, si raccontavano solo le drammatiche gesta autodistruttive davanti al tavolo di una cucina).
Carver e l’impossibilità di ridurre a concetto l’amore, così come l’antitesi fra il minimalismo dell’opera e il
massimalismo del lavoro cinematografico che la narra (ma, volendo, anche la divergenza tra la sottrazione letteraria
e l’addizione della trasposizione di Riggan), inaugurano l’intricato (e consistente) sistema di nette opposizioni su cui
è organizzato l’intero film. L’amore di Carver e lo sforzo per catturarne l’ideale essenza espressiva sono il riflesso
della crisi di Riggan, attore in declino da anni, padre «accettabile» (come afferma la figlia) ed ex marito distratto e
aggressivo, schiavo del suo ego pronto a confondere l’amore con l’ammirazione incondizionata nei suoi confronti.
La crisi di Riggan diventa quindi un’illusoria rincorsa del tempo e sul tempo, dei fasti di una volta, ma non solo.
Tutto il presente di Riggan Thomson è vissuto su uno spesso filo di rimpianto del tempo perduto che il personaggio
intende disperatamente riprodurre per dare un significato alla sua vita attuale: l’apice del successo è stato raggiunto
all’inizio degli anni Novanta con i tre episodi della saga Birdman, ora è solo l’effigie appassita di un immaginario
pop buono per una locandina affissa alla parete di un camerino o per una foto ricordo di nostalgici fan incontrati in
un bar.
Il tovagliolino su cui Carver vergò la sua gratitudine dopo lo spettacolo scolastico, la figlia con la quale cerca di
instaurare un rapporto mai avuto nominandola sua assistente, la moglie amata dalla quale si è separato a causa del
suo egocentrismo dopato dalla celebrità hollywoodiana, la giovane amante che misura il desiderio di gravidanza dal
ritardo con cui si manifesta il ciclo, l’ossessione per la coincidenza delle morti delle star che ne decretano la reale
statura: la decadenza di Riggan è dovuta all’impossibilità di governare il tempo, da cui è invece letteralmente
dominato, guidato fino alle soglie dell’annullamento (uno dei moniti che gli sbatte in faccia a muso duro il suo
amico-avvocato-produttore Jake è «Non siamo più negli anni Novanta!», facendolo seguire dal più prosaico «Hai la
cerniera aperta», che ben illustra l’annaspare dell’ex divo). Lo stile eccentrico utilizzato da Iñárritu, malgrado appaia
come un gratuito tour de force, non è altro che la traduzione significante della crisi del personaggio, della sua
frantumazione egotica sacrificata allo scorrere impassibile del tempo. L’unione di più piani sequenza, idealmente
giuntati in one shot trick, i movimenti fluidi legittimati dal movimento dei personaggi e gli agganci con le altre
figure incontrate nel backstage del St. James Theatre incarnano la materialità sensibile di questo scorrimento, nel
quale il soggetto è trasceso dal tempo, venendone guidato e controllato, pur sfiancandosi nell’illusione di plasmarlo.
Aspetto amplificato dallo score di Antonio Sanchez, fatto di sola batteria, un lucido groviglio di ritmi dispari, uno
shittier sound (Iñárritu dixit) di urbana sporcizia, capace di sbriciolare il tempo della partitura e dei long take che
accompagna con una modulazione di frequenze ossessive, metaforicamente schizoidi, apertamente stranianti.
L’opposizione più evidente, tuttavia, è quella tra alto e basso. Un autentico architrave su cui l’intero film è
costruito. Contenutisticamente e graficamente. Un’opposizione talmente articolata da far derivare tutte le altre. Tra
ascesa (novantesca) e caduta (il recente passato), successo e insuccesso, Broadway e Hollywood, arte e consumo,
presenza e assenza («Io non esisto», dice disperato Eddie/Riggan sul palco prima di inscenare/realizzare il suo
suicidio), consapevolezza e ignoranza, prestigio e popolarità (la seconda come «cuginetta zoccola» della prima, dice
Mike Shiner), Birdman ondeggia continuamente tra due poli, dalla prima all’ultima inquadratura. L’immagine dello
stallo di Riggan è già tutta nel suo fachiresco porsi nella posizione del loto, levitato da terra, in mutande e di spalle
rispetto all’obiettivo che lo ritrae nella prima inquadratura del film. Insieme smarrimento dell’identità, persa dietro la
maschera di un noto supereroe (nella ovvia e più volte notata sovrapposizione con il Michael Keaton del Batman di
Burton), tentativo di messa a nudo del suo vero essere, condanna in un limbo incastonato tra l’illusione di nuova
ascesa e l’orrore di una definitiva caduta. Un’oscillazione che dopo un vorticoso giro di un paio d’ore su un
ottovolante di innalzamenti repentini, speranze deluse e sogni infranti si condensa unicamente nei big eyes di Emma
Stone, affacciatasi alla finestra della stanza d’ospedale rimasta vuota: uno sguardo preoccupato verso il basso,
sull’asfalto, mentre si distingue il suono di alcune sirene; poi un altro verso l’alto, con la bocca che si distende in un
sorpreso e rincuorato sorriso.
La traiettoria dello sguardo di Emma Stone obbliga infine a una riflessione sul ruolo giocato dalla realtà. Non solo
nel rapporto tra finzione e vita, sottesa allegoria di ogni pellicola sul teatro che in questo caso s’incarna nel Mike
Shiner di Edward Norton, iperbolico applicatore (talvolta didascalico) del Metodo («La verità non è mai noiosa»,
risponde a Sam/Emma Stone con cui sta giocando a “obbligo o verità”, ennesima opposizione del film). Birdman,
attraverso la densità di cui si parlava in precedenza, si colloca al di là della consueta distinzione e si pone domande
di inestricabile soluzione, partendo da un assunto attribuito a Susan Sontag posizionato in un angolo dello specchio
di Riggan: «A Thing is a Thing, not What is Said of That Thing». Arte e vita, reale e virtuale, concretezza e
immaginazione, ma anche lo spettacolo e la sua redazione soggettiva che è la critica, sono miscelati insieme in un
unico shaker percettivo il cui risultato non è la determinazione univoca della verità, ma proprio la propagazione del
dubbio. I cinguettii, i video in mutande sul web a spasso per Times Square che generano quello che è considerato
l’autentico potere, la pubblicità dei detergenti, i personaggi dei fumetti e i supereroi hollywoodiani, la stessa
presenza ossessiva di Birdman come sdegnoso grillo parlante di Riggan sono la testimonianza dell’attuale
superrealismo evocato come categoria con cui leggere il mondo dalla tracotante critica del «New York Times»
Tabitha Dickinson. Pienamente nella realtà, ma oltre essa, ontologicamente. Immagine di un genocidio culturale che
dell’ignoranza ha le subdole peculiarità, universalmente accettate come un soffocante gioco di società, ma non certo
la virtù.
Prossima rassegna giovedì 24 settembre 2015