Il «Rigoletto» di Daniele Abbado alla Fenice

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26 — all’opera
Il «Rigoletto»
di Daniele Abbado
alla Fenice
lante armonico; il risultato è una «prosa musicale» nuova e sorprendente. Tutto questo «parlato» è in netto contrasto con la vocazione del Duca al
cantato. Da qui l’intuizione di Berio, che considerava Rigoletto come «una delle più clamorose anticipazioni dello
straniamento brechtiano»: c’è un particolare senso critico
dei personaggi verso se stessi, le proprie passioni, le proa cura di Arianna Silvestrini
prie vicende. Il motore delle situazioni è il non-detto, ciò
che non si conosce o non si vuole far conoscere, il pensiero nascosto che deve farsi enunal 25 settembre al 6 otciazione. Questo motore funziotobre sarà in scena in Fenice il
na, in modo particolare, nei duetti
Rigoletto firmato da DanieVenezia – Teatro La Fenice
25, 28, 29 settembre; 5, 6 ottobre, ore 19.00
e nelle arie di Rigoletto, le più mole Abbado, che ci racconta la sua perso1 ottobre, ore 17.00
derne, costruite su sezioni musicanale visione dell’opera verdiana.
2 ottobre, ore 15.30
li, dettate dal pensiero, nettamenGiuseppe Verdi amava moltisRigoletto di Giuseppe Verdi
te differenziate, se non addirittusimo Rigoletto. Lo ha difeso enormaestro concertatore e direttore Myung-Whun Chung
ra opposte.
memente, dalle cattive interpreregia Daniele Abbado
E il personaggio Rigoletto?
tazioni e, prima ancora, da feOrchestra e Coro del Teatro La Fenice
È perfetto simbolo e sintesi del
roci attacchi. La censura, infatmaestro del Coro Claudio Marino Moretti
ti, giudicava indecoroso attribu- nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice procedimento verdiano: in ogni
ire un ruolo tanto
negativo a un sovrano, così come
accade nel dramma Le Roi s’amuse
di Victor Hugo da
cui l’opera è tratta. «È il più gran
soggetto e forse il
più gran dramma
de’ tempi moderni», dichiarò Verdi. Con questo allestimento speriamo di ottenere una
forza drammatica
all’altezza di quella che cercava il
compositore.
Cosa significa mettere in scena og gi
quest’opera?
Il Rigoletto rischia
di non produrre
oggi il «turbamento morale» che interessava a Verdi e
momento il protagonista vive una assoluta univocità, che
che nasceva dallo spettacolo del bene e del male tra logarantisce la chiarezza espressiva del «gesto». Siamo in un
ro intrecciati, non personificati, in modo facile, in figure
mondo in cui i personaggi, Rigoletto per primo, affermacontrapposte. Questa impostazione dava le vertigini. In
no con forza il diritto a incarnare pienamente il proprio
particolare, il fatto che la sedotta potesse avere pietà del
destino, dovesse anche condurli alla rovina.
seduttore e il fatto che un farabutto, il Duca, potesse aveQual è il tema più interessante per lo spettatore contemporaneo?
re nostalgia dell’onestà; oltre ovviamente a tutto quanto
Un tema bellissimo è quello della conoscenza dell’aniè legato a un protagonista deforme, tanto negativo quanmo umano, di ciò che sfugge, di ciò che manca e che è
to sublime. Tutto questo, oggi, rischia di non essere colto
imperfetto. Trovo estremamente affascinante la forza di
ma di produrre solamente il deforme, il grottesco, l’imquesto argomento. Verdi lo ha esplorato molto chiarapudico, il morboso, il pulp, il moralmente corrotto come
mente nell’ultimo atto, quando Rigoletto costringe Gilfosse una mera spettacolarizzazione. Trovo che questa,
da a osservare l’incontro del Duca con Maddalena, quapurtroppo, sia la tradizione recente delle messinscena del
si le imponesse di scoprire la verità fino a quel momento
Rigoletto, perfettamente in linea con il gusto degradato dei
tenuta distante. Per fare questo, Rigoletto rende l’esibinostri tempi, ed è proprio questa visione che stiamo cerzionismo amatorio del Duca ancor più «teatrale» e mette
cando di evitare e di superare.
Rigoletto è un’opera di segreti e apparizioni nascoste. La
tecnica usata da Verdi in diversi punti è quella del parMyung-Whun Chung (foto di Riccardo Musacchio).
all’opera
D
Gilda nel ruolo perdente dello spettatore passivo.
Gilda si ribellerà a questa situazione con l’arma dei
vinti, con l’autopunizione e il sacrificio di sé.
Verdi in quest’opera cerca un nuovo equilibrio tra azione e passione, tra situazione e moti dell’animo, tra pensiero, contesto drammatico e decantazione lirica del pensiero. Prima con Macbeth e poi qui, Verdi costruisce la sua poetica sostituendo l’idealità – cioè le leggi del conformismo
teatrale romantico – non certo con il realismo ma anzi con
l’esemplarità dei personaggi e delle situazioni. Il modello dichiarato è il teatro di Shakespeare, e questo modello
lo spinge alla ricerca di «tipi», personaggi più grandi, più
esemplari e più veri dei personaggi reali. Nell’evoluzione
compiuta dal compositore c’è la rinuncia a qualsiasi ingenua trasparenza etica, ma nelle sue mani tiene sempre uno
strumento di verità: la correlazione tra lo stile vocale del
personaggio e la sua natura morale, il cui evolversi nelle diverse situazioni determina anche l’evoluzione della scrittu-
ra musicale. Il Rigoletto è un’opera fondata su modelli anzitutto letterari, non musicali.
Verdi dava al grottesco un senso alto e del tutto moderno. Il personaggio di Rigoletto racchiude in sé sia il comico che il tragico, è un personaggio ambiguo, è contemporaneamente il Matto e il Re, un provocatore e un giustiziere fallito, un padre innamorato e un padre che produce sciagure. C’è, evidentemente, una forte proiezione identificativa di Verdi sul suo personaggio e sulla sua paternità infelice, la paternità che produce mostri. Ma RigoletGiuseppe Bertoja, Estremità più deserta d’una via cieca.
Bozzetto per la prima rappresentazione di Rigoletto,
Venezia, Teatro La Fenice, 11 marzo 1851.
Matita, penna e acquerello. Pordenone, Civico Museo Ricchieri.
to è, in parte, consapevole della sua ambiguità, «recita» la
sua deformità fisica, ha una grande passione per l’esagerazione. La difformità di Rigoletto sta proprio nel carattere
contraddittorio, non certo nella somma di mille difetti fisici che vorrebbero indicare in modo pesante una difformità di tipo morale. La difformità è qualcosa che Rigoletto «recita» e che «deve recitare», infatti egli va oltre la debolezza della sua deformità fisica, arrivando a momenti di
forza virile, di autorevolezza, come indicano chiaramente la scrittura musicale e il testo (pensiamo per esempio a
«Ora mi guarda o mondo»). Trovo che le contraddizioni
del personaggio, tipicamente verdiane, siano la vera forza
di quest’opera, come la contraddizione tra voler essere obbediti e voler essere amati dai propri figli. Un Rigoletto virile, un uomo capace di momenti di forza e che conosce
in parte le proprie ambiguità: questa è la nostra intenzione
scenica e queste riflessioni sono state il punto di partenza
del nostro lavoro. Per questo ho condiviso e accolto subito la richiesta di realizzare un allestimento molto
asciutto.
Quali sono le novità
di questa messinscena?
Tra le opere di
Verdi, questa è
quella che si presta in special modo a un lavoro teatralmente molto
essenziale, quasi
un grosso spettacolo di prosa, molto compatto e poco descrittivo, lontano dalle abitudini delle grandi
scenografie. Credo che sia un grandissimo testo, me
ne sono convinto sempre più studiandolo in questi mesi. È uno di
quei testi che pongono ancora molti
interrogativi e che
forniscono forti
stimoli per la sensibilità contemporanea. Anche per questo non va affogato
in un mondo illustrativo pesante.
Questa essenzialità è la prima importante novità dell’allestimento; la seconda sta nel modo in cui cercheremo di
rendere la grande forza interiore del protagonista.
Torna a Venezia dopo la Madame Butterfly di due anni fa…
Sono molto felice di tornare con quest’opera al Teatro
La Fenice, uno dei pochi teatri sani in Italia in questo momento, che trovo stia producendo spettacoli di qualità. Sono anche entusiasta di tornare a collaborare con il maestro
Myung-Whun Chun; insieme abbiamo lavorato a Roma e
a Parigi, sempre con grande piacere. E ho molte aspettative su questo nostro lavoro a Venezia. ◼
all’opera
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«Rigoletto»,
ovvero
«La maledizione»
di Giorgio Pagannone
Un’opera come questa non si giudica in una sera. Ieri fummo come sopraffatti dalla novità: novità o piuttosto stranezza nel soggetto; novità nella musica, nello stile, nella stessa forma de’ pezzi, e non ce ne femmo un intero concetto. [...] è, insomma, Le roi s’amuse di Victor Hugo, netto e schietto, con tutti i suoi peccati. Il maestro, o il poeta, […] cercarono il bello
ideale nel difforme, nell’orrido, mirarono all’effetto, non per
le usate vie della compassione e del terrore, ma dello strazio
dell’anima e del raccapriccio [...] E l’opera ciò non pertanto ebbe il più compiuto successo. («Gazzetta Ufficiale di Venezia»,
12 marzo 1851)
S
che il Rigoletto ebbe soprattutto un
successo «di scandalo». Verdi dava inizio a quella che sarebbe diventata la «trilogia popolare» con
un’opera volutamente anticonformista, provocatoria,
«strana» e «raccapricciante»: nuova appunto. La novità
dei soggetti era un imperativo sempre più pressante per
Verdi in quegli anni; e infatti la trilogia verdiana presenta una galleria di personaggi davvero insolita e bizzarra:
un buffone (Rigoletto), una zingara (Azucena nel Trovatore), una cortigiana (Violetta nella Traviata). Quasi che Verdi volesse, ponendo una sfida a sé stesso e agli spettatori
dell’epoca, dar voce ai reietti della società, agli impresentabili (e irrappresentabili), e redimerli presentandone anche i lati più nobili: Rigoletto buffone e padre, Azucena
zingara e madre, Violetta prostituta e innamorata.
Fu forte in Verdi la tentazione di dar voce, anzi
«dar musica», alla loro fatale predestinazione,
al loro inesorabile, tragico destino. La maledizione: questo era il titolo inizialmente dato al Rigoletto, poi modificato per eludere la
censura. Maledizione che consuma, corrode l’animo del buffone («Quel vecchio maledivami», dirà a metà dell’atto I; «Ah, la maledizione», griderà sconvolto alla fine dell’opera). Maledizione che lega con un filo rosso
tutta la vicenda, così come la Vendetta per Azucena, e il Sagrifizio per
Violetta.
Il dramma di Hugo poneva
peraltro un’altra sfida che a
Verdi stava a cuore: la commistione di comico e tragico, fino ad allora rarissima
nel melodramma ottocentesco, e tale da spiazzare più d’un critico alla prima rappresentazione. Si pensi all’Introduzione dell’opera,
pezzo magnifico che
vede la festa da ballo (o
orgia che dir si voglia), i
frizzi e i lazzi del buffone,
all’opera
i può ben dire
l’oscena ballata del Duca (Questa o quella per me pari sono), contrapposti al terribile monito di Monterone (la maledizione, appunto), che cala una nera cappa sulla festa e sulla vicenda tutta.
Da questo punto in poi l’opera tiene col fiato sospeso fino alla catastrofe finale, e si catalizza quasi tutta sulla figura del padre-buffone, sul suo progressivo degrado morale e sfinimento interiore. Forse in nessun’altra opera
un personaggio ha una preminenza così smaccata: per di
più, un baritono. Chi l’avrebbe mai detto.
I contrasti, dicevamo. Si pensi alla scena terribile, nel
second’atto: Rigoletto si presenta a corte canticchiando
con il cuore in gola il La rà la rà (in minore), stavolta esposto lui al ludibrio dei cortigiani. E poi supplica, inveisce
(Cortigiani vil razza dannata), e di nuovo implora: mirabile
rappresentazione, drammatica e musicale – i due termini sono davvero inscindibili, nel Rigoletto –, di questa figura tragicissima, quasi scespiriana, completamente annientata per il ratto della figlia; figura di perdente, cui però è dato, attraverso la musica, il destro per riscattarsi come padre. Si pensi al meraviglioso duetto con la figlia nel
second’atto (Tutte le feste al tempio): un vero e proprio duetto d’amore, che con la sua melanconica bellezza surclassa
quello del finto innamoramento tra tenore e soprano nel
prim’atto (finto, se non altro, da parte del Duca libertino).
E ancora. Terz’atto: La donna è mobile. Cosa c’è di più triviale di questa canzone intonata dal Duca nella taverna,
e assurta a icona dell’opera lirica e di un certo stile zumpa-pa spesso rimproverato a Verdi dai critici di simpatie
wagneriane? Eppure, dove si troverà mai un effetto di
raggelante contrasto come quando Rigoletto, il sacco in
spalla, sentirà cantare da lontano di nuovo quel motivo,
realizzando così che il Duca è ancora vivo? Mirabile esempio di intuito drammatico, che rende onore al Verdi uomo di teatro, prima ancora che al musicista tout court.
E che dire dello straordinario quartetto (Bella figlia
dell’amore), che fonde in un unico insieme quattro voci e atteggiamenti espressivi diversissimi, due dialoghi in simultanea – uno dentro e uno fuori la locanda, uno leggero e
frivolo, l’altro tesissimo e mortale – per effigiare il contrasto più netto dell’opera, la
licenziosità del Duca e il candore di Gilda?
Lì si consuma davvero la vendetta di Monterone su Rigoletto, prima ancora che nell’epilogo tragico. Quella che doveva essere
una rivelazione per la figlia diventa
una sconfitta per il padre. Sconfitta che sfocia in totale disfatta col sacrificio inopinato di
Gilda (nella Scena, terzetto e
tempesta) e con lo straziante
duetto finale tra padre e figlia, cantato in penosa desolazione e «sfatto» anche
nella forma, con Rigoletto che quasi si limita a declamare la propria disperazione, contrappuntato
dalle flebili e angeliche
frasi di Gilda.
La complessità delGiuseppe Verdi.
la figura di Rigoletto spicca tanto più in contrasto con gli altri personaggi principali, in particolare Gilda e il Duca. Tanto Rigoletto è un personaggio
«dinamico», sfaccettato, tormentato, tanto costoro sono «statici», eguali a sé stessi. Gilda: un
essere etereo, quasi impalpabile nella sua
adolescenziale innocenza e ingenuità.
Il suo ritratto perfetto è la romanza giustamente celebre, Caro nome,
cantata appena dopo il duetto col
Duca (alias Gualtier Maldè): un
pezzo che si avvita su sé stesso
in una serie di variazioni ornamentali; aerei vocalizzi che
polverizzano via via il testo e
la linea melodica originaria.
Tanto il declamato di Rigoletto è legato alla parola, alla terrea realtà, tanto il canto di Gilda sembra muoversi in una dimensione irreale, onirica: e così sarà anche
nell’ora suprema della morte. Nondimeno Gilda ha
un ruolo fondamentale sullo scacchiere morale dell’opera, perché consente di meglio
misurare, dall’alto della sua purezza, le bassezze terrene in cui si
dibattono il padre, il Duca, i cortigiani. Gilda rappresenta un’idea,
una legge morale – speculare a quella
incarnata da Monterone –, prima ancora che un personaggio in carne ed ossa, per
quanto la vicenda ce la presenti fortemente innamorata (ma di un amore così totale da spingerla fino
al sacrificio). Donna-angelo simile a tante altre eroine del
melodramma ottocentesco, ma come mai essenziale a livello drammatico.
Il Duca, dal canto suo, sembra irretito nel ruolo fisso
dello sciupafemmine; il fascino della voce tenorile è la
sua arma principale, ch’egli usa prima con la Contessa di
Ceprano (nell’Introduzione), poi con Gilda nel duetto dell’atto I, poi con Maddalena nel quartetto.
L’aria all’inizio del second’atto (cantabile: Parmi veder le lagrime; cabaletta: Possente amor mi chiama) sembra invero restituircene un ritratto diverso, quello dell’«attor giovane» sinceramente
preso dall’amore per la sua dama; ma è un’impressione fuggevole, l’aria è bella quanto futile,
non sta in alcun rapporto morale né sentimentale con la sconvolgente gravità dello scandalo che
sta per deflagrare nel confronto di Rigoletto coi
cortigiani. Ma questo, tra il fatuo bellimbusto
e il padre vulnerato, è appunto un divario
drammaturgicamente necessario, che
nell’aria del Duca trova un polo carico d’energia.
Attorno a queste figure ruotano
i personaggi comprimari: da un
lato Monterone, basso nobile,
il padre disonorato; dall’altro
Sparafucile, basso profondo,
e sua sorella, il mezzosopra-
no Maddalena. Anch’essi tipi fissi, rispettivamente icone di un superiore mondo morale, di una Giustizia divina (un consanguineo del Commendatore nel Don Giovanni), e di un’umanità sordida, dedita al malaffare e al crimine. La maggior colpa di Rigoletto
è la tracotanza: ha pensato di poter attingere alla «grandezza» (così nella scena
VII dell’ultim’atto), di riscattare cioè
il proprio onore e la propria condizione sociale, affidandosi a un
personaggio lurido come Sparafucile per togliere di mezzo il
Duca; alla fine il desiderio di
vendetta gli si ritorce contro,
sarà lui la vittima di una vendetta ben più grande e atroce, quella di Monterone.
Dei due bassi vanno menzionati almeno due brani. Da un lato la tremenda invettiva di Monterone
nell’Introduzione, cui abbiamo già accennato: dodici versi più la maledizione (Sii maledetto!), di una forza quasi sovrumana, proiettati in un declamato ampio, stentoreo, punteggiato da tremendi
scoppi orchestrali che anticipano il Dies irae della Messa da Requiem
e ricordano la scena finale del Don
Giovanni. Dall’altro il losco duetto che
Sparafucile intreccia con Rigoletto subito dopo, a festa conclusa. Un duetto piuttosto insolito, concepito tutto in «parlante», ossia
con le voci che declamano e dialogano sommessamente su una melodia orchestrale melliflua e soffusa, affidata a violoncello e contrabbasso nel registro acuto. Il contrasto tra il contenuto della conversazione e la melodia
che scorre sotto è stridente: è appunto uno di quei contrasti che rendono ancor più vivo il Rigoletto,
anche nella strumentazione. La melodia
in orchestra, ben più che la voce bruta
di Sparafucile, sembra blandire Rigoletto, insinuargli l’idea scellerata di
farla finita col Duca e con la corte,
ben prima degli eventi scatenanti (il rapimento della figlia e tutto il resto). È il tarlo della maledizione che comincia a rodere l’animo del buffone, a spingerlo verso la
perdizione definitiva. In Rigoletto davvero tout se tient. Dramma perfettamente coeso, proteso verso la catastrofe
in un’incalzante quanto varia catena di eventi, mirabilmente
rappresentati in musica. ◼
Sopra: Titta Ruffo,
uno dei più celebri
Rigoletto della storia.
A fianco:
Francesco Maria Piave.
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