dicembre 2013
anno 0 numero 6
TeatrocultFOGLIO Campania
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Tempi duri, e il teatro risponde per le rime
Antonio Tedesco
Tempi duri, e il teatro risponde per le rime. Un
mese di dicembre non certo accomodante e
pacificato quello che si prospetta sulle scene dei
teatri napoletani. Poca, quasi nulla, della scontata e
conciliante bonomia natalizia e spazio al disagio,
alla ribellione, all’urlo fuori dagli schemi. Quasi un
movimento spontaneo, un anelito di protesta che
si innalza attraverso lo strumento dei linguaggi
scenici e si concretizza in una rosa di proposte
meno prevedibili e usuali, in grado di trasformarsi,
allo stesso tempo, in un’occasione preziosa per
allargare il campo di un’offerta teatrale spesso
troppo scontata e ripetitiva.
Una rapida ricognizione ai cartelloni dei teatri di
Napoli ci presenta subito titoli dal forte valore
simbolico, oltre che drammaturgico in senso
stretto. E ci pare giusto cominciare, a questo
proposito, proprio dal famoso manifesto degli
“Angry Young Men”, quel Ricorda con rabbia di
John Osborne, che sconvolse la tranquilla e
conformista routine del teatro anglosassone degli
anni Cinquanta, e che il Teatro Bellini ripropone,
con Stefania Rocca e Daniele Russo tra gli
interpreti, per la regia di Luciano Melchionna.
L’insofferenza al sistema e alle soffocanti
convenzioni sociali e politiche, trasuda da quasi
ogni battuta di questo testo.
Il disagio, l’alienazione, l’antagonismo di classe,
sono tangibili e palpitanti. I personaggi trascinano,
dibattendosi, le loro vite in un mondo che fanno
fatica a riconoscere. E’ solo un caso che
quest’opera, in verità poco rappresentata negli
ultimi anni, riemerga proprio in un momento
storico (e sociale, ed economico) come quello che
stiamo vivendo? E che dire di quella rabbia ancor
più violenta, radicale, estrema, appena alleviata (o
forse resa solo più sottilmente acuta ed insidiosa)
da una forte vena sarcastica, che era quella
espressa da Joe Orton, anche lui inglese come
Osborne, di cui è stato contemporaneo, scrittore
maledetto
per
antonomasia,
anarchico,
omosessuale, radicalmente irriducibile ai canoni
del sistema. Peppe Miale lo rievocherà, attraverso
brani dai suoi esplosivi scritti al Théâtre De Poche
con Il malloppo. Lo stesso Orton, tra l'altro, è un
autore che Pippo Delbono deve sentire
particolarmente vicino, a giudicare dalle molte
affinità e dai tanti tratti che li accomunano. Anche
Delbono, infatti, racconta la sua storia all’insegna
della diversità, di quella condanna alla marginalità
tenacemente combattuta con gli strumenti
dell’arte che, sul palcoscenico del Piccolo Bellini, si
raccoglieranno intorno al suo acuminato e
toccante Racconti di giugno. Un percorso
autobiografico per il regista e interprete di Urlo,
che attraversa le tappe della sua sofferenza, di
un’esperienza esaltante e dolorosa al tempo
stesso, e racconta della forza che ha trovato dentro
di sé per superare ogni ostacolo e seguire la sua
strada, caparbiamente, nonostante tutto. Ma
ancora altri interpreti e autori dai connotati
artistici tutt’altro che natalizi e consolatori si
aggirano nel corso del mese per i teatri di Napoli.
Dal Beckett di Giorni felici, che si potrà vedere nella
Sala Assoli del Tetro Nuovo per l’interpretazione
della intrigante coppia Nicoletta Braschi e Roberto
De Francesco, con la regia di Andrea Renzi, a un
altro grande “eversivo”, Eugene Ionesco, il cui
Delirio a due (nel titolo già l’anima dell’opera) sarà,
invece, a Galleria Toledo. Il Nuovo Teatro Sanità,
dal canto suo, conferma, ancora una volta, le scelte
coraggiose cui ci sta già abituando e presenta Hotel
Splendid, un adattamento di Mario Gelardi da
Splendid’s di Jean Genet, un altro grande
“maledetto” del Novecento. E non induca in
inganno un titolo in apparenza più leggero, Miseria
e Nobiltà che Laura Angiulli riprende, dopo il
debutto di inizio stagione, sempre a Galleria
Toledo, continuando il suo percorso di rilettura del
repertorio scarpettiano iniziato alcuni anni fa con
O miedeco d'e pazze. Uno Scarpetta rivisto a modo
suo, ovviamente, quello cioè di una regista che
viene da una lunga esperienza di ricerca e
sperimentazione. Così che, anche i personaggi resi
“TEATRO DI CONTRABBANDO” IN NOME DELLA LIBERTA’ CULTURALE
Nasce a Fuorigrotta l’Associazione Te.Co. aperta al traffico di parole e idee
Continuano a sorgere nuove consistenze teatrali, coraggiose sfide
supportate da propositi innovativi, in un tempo di sana ribellione, dove si
combatte efficacemente attraverso l’arma del sapere.
Un chiaro segnale di lotta contro una crisi che non deve prendere il
sopravvento sulla linfa culturale e artistica di un popolo in eterno
fermento. Miracolo in questo senso è l’Associazione Culturale Te.Co, una
piccola realtà teatrale che negli ultimi mesi si sta facendo spazio
all'interno del panorama culturale campano. Obiettivo di Te.Co, acronimo
di Teatro di Contrabbando, è dare voce - e uno spazio - a chi cerca di
"contrabbandare" la propria arte e le proprie idee.
Il progetto nasce dall’idea di teatro di cinque giovani attori, Chiara
Vitiello, Simona Pipolo, Francesca Romana Bergamo, Luca Sangiovanni
ed Alessandro Palladino, con alle spalle anni di esperienza, che spinti dalla
necessità di lavorare in maniera indipendente a progetti di qualità, hanno
deciso di creare un polo teatrale nel quartiere di Fuorigrotta (Via Diocleziano
316). Il programma promosso da questa Associazione si propone come
alternativa alle affermate realtà teatrali del nostro territorio.
Al Te.Co- Teatro di Contrabbando si prevede una interessante rassegna teatrale
che terminerà a maggio 2014. In cartellone numerosi attori e registi noti del
panorama culturale campano come Patrizia Spinosi, Pietro Tammaro e Giovanni
Meola.
(t.m.)
www.teatrodicontrabbando.com
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immortali dal film di Mario Mattoli del 1954, che
ha impresso nella memoria collettiva soprattutto
l’icona di uno straordinario Totò, assumono
risvolti non proprio rassicuranti e ci parlano del
nostro presente che, in senso non solo economico,
è fatto di dilagante miseria e di ben scarse nobiltà.
Un allestimento che, continuando a seguire il filo
del nostro discorso ideale, si ricollega a quello di
Totò e Vicé, presentato come la storia (guarda
caso) di due clochard, scritta da Franco Scaldati e
messa in scena da Vetrano e Randisi al Teatro
Nuovo. Così, proprio Totò, con la sua versatile e
impareggiabile maschera, per assonanze e
riferimenti, e passando idealmente per Beckett e
Ionesco, arriva fin qui. Condensa la rabbia, la
disillusione, l’insofferenza al sistema e l’istinto di
ribellione (a proposito dei quali non bisogna
neanche dimenticare il Don Giovanni di Filippo
Timi al Bellini) in una devastante ironia e in un
colossale
e
profondamente
rivoluzionario
sberleffo. A lui, al grande Totò, in qualità di nume
tutelare occulto, dedichiamo questo mese di teatro
napoletano, con tutto ciò che dentro scalpita,
freme, vi ribolle e, soprattutto, nel sacro nome
dell’arte, si ribella.
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L’attore al Cilea con una pièce scritta da Titina e dal padre Peppino
Nel solco di una grande famiglia d’arte, Luigi De Filippo fa il suocero
Laura Canevali
tema eternamente attuale”.
Con una delle più divertenti
commedie del teatro umoristico
di Titina e Peppino De Filippo,
Un suocero in casa, debutta al
Cilea dal 19 al 22 dicembre con
una personale interpretazione,
Luigi De Filippo nei panni del
suocero pestifero.
Andata in scena per la prima
volta nel 1935 al Teatro
Politeama
di
Napoli,
la
commedia
ottenne
un
immediato successo.
Sul palcoscenico temi come la
vita quotidiana e la famiglia sono
letti con la forza dell’ironia.
Stefanino, un giovane impiegato
metodico e pedante, vive con la
moglie che ama teneramente. Ma
la presenza invadente in casa del
suocero Federico, lo porta
all’esasperazione. Per Luigi De
Filippo riproporre quest’opera è
un modo per riavvicinarsi con
affetto alla famiglia, a quelli che
sono state le sue radici, i suoi
maestri.
Ci sono vari artisti sulla scena
napoletana. Ne vede uno che
possa ritenersi all’altezza di
Totò, Eduardo, Peppino, Nino
Taranto…?
“Non voglio fare torto a nessuno, e
per questo non faccio nomi in
particolare. Napoli ha tanti bravi
attori, li ha sempre avuti”.
De Filippo, quanto ha influito
nella sua vocazione di attore
l’essere figlio di una delle più
importanti
famiglie
del
teatro?
“E’ stato fondamentale.
Luigi De Filippo
La famiglia mi ha insegnato ad
amare il teatro, e a lavorarci.
Oggi finalmente riconoscono e
apprezzano il mio lavoro”.
Dopo tanti anni finalmente i
De Filippo si sono riconciliati.
Non avete pensato ad una
eventuale
collaborazione
artistica?
“Una collaborazione in questo
senso sarebbe impensabile.
Siamo
legati
a
generi
completamente
differenti,
ognuno è impegnato con il
proprio teatro”.
Porta in scena un’opera di suo
padre e di Titina. Un ritorno al
passato. Perché il pubblico
dovrebbe venire a vederla?
“Perché è una commedia bella,
divertente. Venire a teatro per
opere come questa è un modo per
trascorrere due ore in modo
intelligente e non volgare come
spesso
accade
davanti
alla
televisione”.
Come trova la sua città rispetto a
quella dei tempi andati? In che
cosa è cambiata? L’oro di Napoli
esiste ancora o dobbiamo
parlare di polvere?
“E’ cambiata in tutto. Il ricordo che
ne ho io non esiste più, anche se lì
affondano le mie radici. In quanto
all’oro, certo che esiste. Vi è tanta
brava gente, onesta, che lotta, si
impegna”.
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Come definirebbe il suo teatro, e
come può rispecchiarsi nella
realtà odierna?
“Il mio è un teatro realistico. E c’è
da dire che noi De Filippo, per
tradizione, parliamo di famiglia, un
Con Cirillo al Mercadante la farsa di Feydeau diventa commedia all’italiana
Anni Sessanta: l’ipocrisia borghese svelata da “La purga”
Federica De Cesare
Arturo Cirillo ha inaugurato il suo tour con la
prima di “La purga”. Il regista ripropone
l’umoristico testo del francese Feydeau in sette
città italiane. Ambientata in una casa degli anni
‘60-’70 la storia utilizza come pretesto la
defecazione per far emergere, attraverso
dialoghi surreali e ironici, tutta l’ipocrisia della
borghesia di allora, come di oggi. Al centro, un
nucleo familiare attorno al quale girano
equivoci al limite del paradossale, e un uomobambino costipato, Totò, l’unico che, beffando
gli altri, non si libererà dello sporco contenuto
del suo corpo, salvandone così la sola esteriorità
ad immagine del falso perbenismo della società
borghese. In scena con lo stesso Cirillo, Sabrina
Scuccimarra, Rosario Giglio, Luciano Saltarelli
e Giuseppina Cervezzi. Al Mercadante dal 10 al
15 dicembre.
Il Teatro Mercadante attende lei e la sua
compagnia. Il pubblico napoletano ha sempre
dimostrato gradimento per
il sottile
umorismo tipico delle opere di Feydeau. Cosa
si aspetta da questo incontro?
Ritengo che Feydeau non sia un autore
particolarmente conosciuto, in Italia, dal
pubblico medio. Non ricordo molti spettacoli
tratti da sue opere. Credo, che il mondo
dell’artista sia molto legato al contesto e alla
cultura francese e che piuttosto vivano in Italia
dei corrispettivi.
Lo stesso Scarpetta è stato un drammaturgo molto
prolifico, forse ancor più di Feydeau, elaborando
innumerevoli testi attraverso la riscrittura e
l’adattamento di opere provenienti, in buona
parte, dal teatro comico francese.
Scarpetta è, in questo senso, un suo corrispettivo
e, al tempo stesso, un marchio di qualità tutto
italiano. Nella “Purga”, ho infatti, operato una
traslazione: l’ho allontanata dal paese di origine
ricollocandola in un Italia borghese a cavallo tra
gli anni ’60-’70, in un’atmosfera tipicamente da
commedia all’italiana. Tuttavia, non ho reso i
personaggi specificatamente italiani, quanto
piuttosto, universali, universalità che si riflette nei
costumi come nelle scene. L’universalità sulla
quale voglio puntare i riflettori, attraverso questa
rappresentazione, è “l’imbecillità” del mondo
borghese, di questo perbenismo di facciata che,
un po’ come nel film “La Cena dei cretini”,
ancora ci riguarda.
La sua teatralizzazione dell’opera “On purge
bebé” fonde, in qualche modo, il teatro del
paradosso dell’autore francese con il
surrealismo di Buňuel?
Lo spettacolo è il frutto della contaminazione di
molteplici elementi. Sicuramente mi sono ispirato
al “Fantasma della libertà” di Buňuel, che pone
l’accento sull’ipocrisia del mondo borghese.
Celebre ed emblematica la scena dell’invito a
cena, alla quale tutti partecipano seduti su dei
water e ove nessuno di fatto consuma alcun pasto.
Sarà necessario chiedere dello stanzino per
poter mangiare, ma ovviamente di nascosto.
Attraverso questo paradosso, per cui, defecare
diviene un atto socialmente accettato, mentre
nutrirsi è piuttosto qualcosa di cui
vergognarsi, Buňuel esplicita proprio la
“malattia” del mondo borghese che decide
cosa è giusto o meno fare.
Del film ho voluto cogliere proprio
quest’immagine stridente e allo stesso tempo
dissacrante.
Altra opera alla quale mi sono inspirato è
stata “Victor ou les enfants au pouvoir”,
Victor o i bambini al potere, di Roger Vitrac.
Grande satira alla borghesia.
Ritiene che portare in scena il paradosso
della
condizione
umana
attraverso
l’umorismo, a volte pungente del teatro,
possa risvegliare le coscienze?
Di sicuro chi si occupa di teatro realizza
un’operazione sulla mente, sia sulla propria
che su quella del pubblico. Tuttavia ritengo
quest’opera provocatoria.
A differenza di un Molière, in cui il tragico è
molto forte, Feydeau non guarda con
profondità le cose, ma le mette in scena con
“superficialità”. Si tratta, ovviamente, di una
superficialità provocatoria, per l’appunto, che
il pubblico può cogliere o meno.
Un umorismo caustico capace di suscitare
reazioni disparate e sul quale io ho
particolarmente agito mettendo in scena
elementi come i water o introducendo un
personaggio che ha una continua flatulenza.
Riscoprire i classici che hanno fatto storia,
può essere una soluzione per risolvere
l’attuale crisi del teatro per carenza di testi
validi?
Questo è un discorso complesso che riguarda
molti ambiti della cultura. In Italia, purtroppo,
c’è pochissima politica teatrale legata alla
nuova drammaturgia.
Far girare un testo innovativo è un’impresa
titanica. Perfino un autore come Bernard
avrebbe, oggi, difficoltà ad emergere.
Così alla mancanza di investimento
corrisponde una carenza di testi nuovi.
Sicuramente fare classici è un’ottima scelta,
quando si crea equilibrio tra vecchio e nuovo.
Sono spesso proprio i direttori dei teatri che
evitano di proporre nei cartelloni opere poco
conosciute
o
addirittura
totalmente
sconosciute al pubblico, nell’illusione che un
classico o un attore di punta, possa essere
determinante per riempire la sala.
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La Braschi, una subrettina
nel deserto di Beckett
per riflettere sulla vita
“Giorni felici” con la moglie di Benigni e
la regia di Renzi alla Sala Assoli del Nuovo
Francesco Gaudiosi
“È una donna letteralmente ben piantata a terra. Si arrabatta
con tutta se stessa, vive la tragedia dello sprofondare nella fine
con grazia, senza ribellarsi. E quando affiora il dolore, sa come
tenerlo a bada con noncuranza”. Così Nicoletta Braschi
definisce in una intervista la sua Winnie, la protagonsista di
“Giorni felici”, uno dei capolavori di Samuel Beckett, in scena
dal 6 dicembre alla Sala Assoli del Nuovo nella rivisitazione di
Andrea Renzi, regista, con Roberto Di Francesco al fianco della
moglie di Roberto Benigni, nel ruolo di Willie, suo marito.
La coppia che anima “Giorni felici” è emblematica dell’autore
irlandese: lei sprofonda lentamente dentro un cumulo di
sabbia; lui striscia come una bestia in una cavità di quel
cumulo, dove ha scavato la propria tana. “Tutto intorno è il
deserto beckettiano”, precisa Renzi, che dirige la Braschi per la
seconda volta dopo la felice esperienza, tre anni fa, di un altro
classico del Novecento, “Tradimenti” di Harold Pinter. Renzi,
evocando il modello del teatro nel teatro, legge Winnie e Willie
“non come semplici esseri
umani, ma come creature,
per l’appunto, teatrali,
ombre di palcoscenico che
hanno ancora il desiderio di
comunicare con noi. Lo
stesso Beckett, d’altra parte,
dava questa
interpretazione, dicendo
per esempio all’attrice che
per prima dette corpo a Willie, di pensare, nel costruire il
personaggio, a una subrettina”.
“Che cosa ci dice – si chiede il regista – il deserto disperato di
Winnie e Willie? Le buone maniere, le vecchie abitudini, le
citazioni dei classici, la borsa di Winnie con lo spazzolino e il
rossetto e il cappellino sono un mondo riconoscibile? Le loro
parole sono ancora umane?” La verità è che il Premio Nobel
irlandese costringe noi contemporanei “a confrontarci con la
problematicità della vita in una epoca in cui la società fa di
tutto per non guardarla e restare, inguaribilmente, alla
superficie delle cose”.
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Dal mondo di Dostoevskij
una riflessione moderna
che porta in scena i dubbi
Anita Curci
“Vivo da quarant'anni col Grande Inquisitore di
Dostoevskij. Da quando cominciai ad occuparmene
in occasione dello sceneggiato realizzato da Bolchi.
Qualcosa di inimmaginabile oggi. Interpretavo il
fratello Ivan e per anni mi sono sentito dire da
generazioni di spettatori che venivano ad
incontrarmi nei camerini dei teatri: "Ma quell'Ivan
Karamazov! Cose così perché non ne fanno più?".
Umberto Orsini si misura con un testo tratto da I
fratelli Karamazov che è soprattutto un manifesto
sulla autoprodotta mancanza di libertà degli
uomini. Al teatro Troisi dal 13 al 17 dicembre per
la regia di Pietro Babina.
Orsini, Il Grande Inquisitore continua in
qualche modo a “ossessionarla” fin dai tempi
dello sceneggiato tv di Sandro Bolchi. Era il
1969, visto da 15 milioni di telespettatori in
ognuna delle sette puntate…
Non ossessionato, ma certamente interessato agli
argomenti di Dostoevskij. Ai concetti contenuti nei
Fratelli Karamazov o nei Demoni, dove c’è
intelligenza… c’è praticamente tutto. Il brano più
importante era Il grande inquisitore, con un tema
molto attuale, dibattuto da intellettuali di oggi e di
allora, sul potere e sulla libertà. Diceva Ivan
Karamazov, ipotizzando che Cristo ridiscenda sulla
Terra: “Deve tornarsene indietro poiché la libertà
non è possibile, essendone noi privati nelle
manifestazioni della vita”. L’uomo, infatti, può far
sentire la propria opinione ma non può veramente
agire in libertà: deve comunque assoggettarsi a
qualcuno che diriga la sua libertà. Il nostro
spettacolo si concentra su queste riflessioni.
Io racconto quello che direbbe il Grande
Inquisitore.
Egli fa una serie di considerazioni sul perché Cristo
non sarebbe dovuto venire. E lo dice in una forma
televisiva, come in una Ted Conference, dove si
può in 18 minuti dire quello che deve essere detto.
La seconda parte è una meravigliosa invenzione
del regista. Assieme a me e a l’altro autore
Leonardo Capuano, Pietro Babina ha elaborato una
drammaturgia che tocca le questioni della fede e
della libertà, ma anche della sessualità, visti
attraverso l’ossessione del demonio e attraverso
quadri scenici molto belli, con l’apertura al tema
della violenza sui bambini; e delle colpe dei padri
che ricadono sui figli. Lo spettacolo non è facile, ma
penetrabile, anche nella prima parte, dove noi non
parliamo poiché è la nostra stessa faccia, i nostri
stessi movimenti a richiamare ciò che diremo
dopo, quando parleremo. Il pubblico all’inizio
appare sconcertato. Poi comprende e rimane
appagato.
Dunque, sintetizzando, nel capitolo sul “Grande
inquisitore” dei “Fratelli Karamazov” l’ateo
Ivan Karamazov rivela al fratello Alioscia di
aver immaginato un “poema” in cui racconta
che Gesù nel XVI secolo torna sulla terra e
incontra il Grande Inquisitore che, però, gli
chiede: “Perché sei tornato? Perché sei venuto
a disturbare il nostro lavoro?”. Secondo lui,
infatti, gli uomini non hanno bisogno di libertà.
Allora, la domanda è: lei crede che l’uomo sia in
grado di gestire la propria libertà?
Credo che alcuni uomini possano gestirla
liberamente. Ma sono degli eletti. Non è facile per
tutti.
Generalmente l’uomo deve essere guidato. Lo
vediamo nella realtà di oggi. Tutti legati da una
situazione collettiva che dirige e costringe a
riunirsi in un confortevole formicaio. Siamo
condizionati dalla vita, dagli acquisti, dalla
pubblicità. In cosa possiamo operare delle scelte?
Compriamo un capo e non un altro ma… il libero
arbitrio è cosa diversa.
La sua è una rilettura moderna di un
argomento antico, che coinvolge la coscienza
della realtà del male, il bisogno della fede in
Dio, ma anche quello del dubbio: per esempio,
com’è possibile che un Dio giusto abbia creato
il dolore…
Infatti, lo dice apertamente il nostro adattamento.
C’è una fede che traballa, ed è un segno evidente. Si
illumina e si spegne. Si illumina e si rispegne. È una
presenza ambigua e discontinua”.
Come si dipana lo spettacolo? Lei assume un
doppio ruolo, quello del narratore e quello
dell’Inquisitore, mentre a Leonardo Capuano è
affidato quello di Mefisto. Come entrano in
relazione i tre personaggi?
Entrano in relazione magicamente. In verità non vi
sono ruoli assegnati. All’improvviso sono Ivan
Karamazov invecchiato. Io faccio tutti i personaggi
dei Karamazov. Lo spettacolo è molto complesso
ed è sbagliato semplificarlo in spiegazioni. Bisogna
vederlo più che illustrarlo. È particolare, intenso,
con tanti quadri virtuali, disseminati e sfiorati in
modo diverso. Una messa in scena molto
contemporanea, dove si sentono rumori, suoni.
Dove esistono luoghi e non luoghi. Di certo, non è
la classica rappresentazione col salotto borghese;
siamo lontani dal teatro del Novecento. Lo
definirei, anzi, postmoderno. Ma non terrorizza il
pubblico come quelli dell’avanguardia, dove non si
capisce niente.
Lei lo ha definito uno “spettacolo europeo”.
Ho parlato di tono ‘europeo’ perché è simile a quel
teatro non borghese ma più dinamico che si vede
in una certa Europa, in Germania per esempio. E
poi perché il tema è universale, non ha rapporto
con la realtà, la famiglia o la spesa corrente
italiana. Non è legato a nulla che sia soltanto di una
nazione.
Intanto, prepara “Il giuoco delle parti” di
Pirandello, dove è il conflitto tra ragione e
sentimento il tema dominante. Come mai
questa scelta?
Eh sì, perché sono costretto a fare delle scelte
anche più popolari. La gente oggi compra i titoli e
Pirandello è uno interessante. È una commedia che
avevo già fatto con Lavia. Oggi la porto in scena
con Roberto Valeri. Il pubblico, però, vuole anche
essere sorpreso e io spero di riuscirci con una
rilettura differente e, credo, più credibile. ‘Il giuoco
delle parti’ è un dramma della gelosia che finisce
con la morte dell’amante. Però è una morte
filosofica, sopraffina, che avviene, cioè, attraverso
un ragionamento filosofico. Io proverò a rendere il
tutto un po’ più drammatico e problematico.
Pirandello, per esempio, mette in scena un modello
teatrale che è quello dell’alta borghesia, mentre io
l’ho rielaborato più verso il basso, con toni ora
realistici, ora anche onirici.
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Laura Angiulli tra Eduardo Scarpetta e Shakespeare
A Galleria Toledo Miseria e nobiltà come metafora dei nostri tempi
Antonio Tedesco
Dopo il debutto di inizio stagione torna in scena,
dal 14 al 28 dicembre, sempre a Galleria Toledo,
lo spettacolo Miseria e Nobiltà, la famosa
commedia di Eduardo Scarpetta, per la quale
Laura Angiulli cura la regia e l'adattamento
drammaturgico. Gli interpreti sono Alessandra
D'Elia, Nunzia Schiano, Tonino Taiuti, Agostino
Chiummariello,
Laura
Borrelli,
Michele
Danubio, Roberto Giordano, Stefano Jotti e
Antonio Marfella, a formare un cast che si
muove nel giusto equilibrio tra le istanze del
teatro di ricerca e quelle del teatro di
tradizione.
“Miseria e nobiltà è una metafora dei nostri
tempi” ci dice la Angiulli. che è fondatrice e
direttore artistico del teatro Galleria Toledo.
“Mettere in scena questo spettacolo, infatti, non
è stata una scelta casuale. Si inserisce
innanzitutto in un percorso che sto compiendo
da alcuni anni sulla drammaturgia napoletana,
occupandomi di autori che non sono certo
inferiori a quelli più famosi, e non mi riferisco
solo all’ambito del teatro napoletano, ma anche
a quello nazionale ed europeo. Autori come
Antonio Petito e Raffaele Viviani, che sono
esponenti di un universo teatrale ricchissimo,
che va non solo riscoperto, ma anche rivalutato
e valorizzato per quello che realmente merita”.
In che modo lei si avvicina teatralmente a
questi autori?
Credo che tentare di modernizzarli, come si fa
spesso, non sia il sistema migliore. Sono autori
che vanno storicizzati. Con essi bisogna
costruirsi una specie di codice di approccio. I
testi che ci sono giunti, ad esempio, specie per
quanto riguarda Petito, non sono neanche di
facile decifrazione. Capita, per dirne una, che le
parole siano tutte attaccate l’una all’altra, senza
spazi e segni di interpunzione. Insomma,
canovacci scritti, o trascritti, da gente che con
tutta probabilità aveva poca dimestichezza con
la scrittura. Questo, però, rende il lavoro ancora
più affascinante. Fa emergere una sorta di
teatralità pura, non contaminata da alcun
intento letterario.
Trasformandosi in miseria morale e culturale. La vera
nobiltà che abbiamo perduto è quella del sentire. La nobiltà
della cultura. Basta guardarsi attorno, gli esempi di come
Scarpetta avesse colto già allora i nodi cruciali della
questione si sprecano.
Questo significa che lasciano anche molta
libertà di interpretazione?
Oltre che sugli autori napoletani in questi anni ha
lavorato molto anche su Shakespeare. E’ andata
recentemente in scena una sua molto apprezzata
versione de La bisbetica domata. Mi pare che al di là
delle apparenze, questa specie di “doppio binario” da lei
seguito sia un forte segnale di coerenza rispetto a un
progetto complessivo di ricerca sulla classicità.
Non direi, anzi, al contrario. Sono testi con delle
strutture interne molto forti. Si presentano
complessi nella forma. Diciamo che a livello
strutturale non hanno niente da invidiare a un
Goldoni o a un Molière. Anche rispetto alla
comune provenienza dalla Commedia dell’Arte
sanno, specie Petito, trovare soluzioni diverse,
non convenzionali, soprattutto negli sviluppi
della costruzione drammaturgica, appunto.
Un lavoro stimolante, anche per chi, come
lei, predilige un approccio non tradizionale
al teatro?
Certo, il mio modo di mettere in scena questi
autori
è
molto
lontano
da
quello
convenzionalmente utilizzato. Anzi, credo che
proprio nel rigore, quasi filologico, della messa
in scena, nella meticolosa cura del linguaggio
utilizzato, e nel modo degli attori di recitarlo,
senza, come dicevo, modernizzazioni o
approssimazioni, ci sia il lavoro di ricerca più
determinante.
Si
è
creduto
sempre,
erroneamente, che si trattasse di autori “facili”
da portare sulla scena. E questo ha fatto sì che
diventassero repertorio quasi esclusivo di un
teatro amatoriale che, se da una parte ne ha
diffuso
la
conoscenza,
dall’altro
ha
enormemente ridotto il potenziale culturale di
questi testi.
In questo senso possiamo considerarli,
quindi, dei veri classici che, come diceva
Calvino, hanno sempre qualcosa di nuovo da
dire, al di là dei tempi o dei luoghi in cui
vengono riproposti?
Sicuramente. Tornando a Miseria e Nobiltà, per
esempio, Scarpetta ha scritto un testo che parla
Laura Angiulli
a noi forse ancor più che ai suoi
contemporanei. Se lo analizziamo vediamo che
l'elemento che ricorre maggiormente è quello
della finzione. Tutti fingono, o peggio, si
illudono, di essere quello che non sono. L’unico
elemento, inconfutabile, di verità è la fame. La
miseria, appunto, quella vera, che emerge e
diventa la molla, il motore di tutta la vicenda. Il
resto è tutta illusoria falsità. Fatta di esponenti
di una nobiltà ormai al tramonto, debosciata e
decadente, di nuovi borghesi arricchiti che
tentano di prenderne il posto, ma i loro soldi
non bastano a camuffarne la volgarità, la
pochezza di fondo. Scarpetta traccia le
coordinate di un mondo che cambia, e non
necessariamente in meglio. Fino ad arrivare ai
giorni nostri, in cui possiamo dire che il
concetto di miseria si è allargato e si fa ancor
più preoccupante.
Trovo molto stimolante, addirittura esaltante, il lavoro sui
classici e in questo momento sono molto presa dall'opera di
Shakespeare.
Avverto anche qui questo senso forte di modernità che mi
danno Petito, Scarpetta, Viviani. Più in generale posso dire
di essere molto attratta da opere con strutture forti.
Un teatro nel senso pieno della parola in grado di dare il
massimo delle emozioni o il massimo del gioco.
Shakespeare ti pone i grandi interrogativi universali, come
accade nel Riccardo III o nel Macbeth che ho allestito alcuni
anni fa. Ma allo stesso tempo, come Scarpetta e Petito, può
muoversi anche su un piano di grande leggerezza e ironia.
Proprio La Bisbetica domata è un formidabile esempio di
teatro nel teatro. Il prologo prevede l'arrivo di una
compagnia di comici che dichiarano che quella sera
reciteranno, appunto, La Bisbetica domata. Lo scavo nel
cuore dell'animo umano qui si trasforma in una ricerca di
“naturalità” che comunque risponde sempre un grande
impegno di verità.
Quali sono i punti di contatto fra questi due universi
teatrali?
Il linguaggio, sicuramente. O comunque il discorso sulla
lingua. C'è in Shakespeare, come per altri versi, negli autori
napoletani, quello che definisco uno splendore della lingua.
Una ricchezza, una sontuosità del “dire”. E dove il “detto” e
il “pensato” si uniscono in un giro di voce. Una lingua che
per arrivare a noi in tutta la sua ricchezza e armoniosità,
deve essere, per l'appunto, storicizzata, avere in tutti i sensi,
cioè, la piena dignità di lingua teatrale.
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L’attrice scoperta da Taranto musa di Moscato con Napoli 43 e la novità Patria Puttana
Cristina Donadio: “Il cinema mi attira, ma il teatro è la mia vita”
‘Patria Puttana’ e, inoltre, ho in
stagione
anche
una
mia
performance, ‘Sexton’, di cui sono
ideatrice e regista oltre che attrice,
ispirata alle favole dei fratelli
Grimm trasformate dalla poetessa
americana Anne Sexton”.
Maurizio Vitiello
Occhi magnetici, sguardo forte,
pulsante. Cristina Donadio, uno dei
volti più intensi del cinema e del
teatro italiani d’autore. Attrice
essenziale, vigorosa, appassionata,
a soli diciotto anni debuttò nel film
“Nel regno di Napoli” di Werner
Schroeter.
Ha raggiunto
la
notorietà nel 1993 interpretando
Carmela nel secondo episodio di
“Libera” di Pappi Corsicato.
Nella sua carriera non ha mai
amato mediazioni e, dopo essere
stata diretta da Liliana Cavani, da
Pasquale Squitieri e aver recitato al
al fianco di Sergio Castellitto,
Claudia
Cardinale,
Fabrizio
Bentivoglio, al cinema è diventata
attrice preferita di Pappi Corsicato e
a teatro “musa” di Enzo Moscato.
Nel 2012 torna sul grande schermo
con “L’era legale”, diretta da
Enrico Caria. E’ reduce tra l’altro
del grande successo in prima
mondiale dello spettacolo di Sara
Sole Notarbartolo, «Sueño #4»,
interpretato
magistralmente
dall’attrice, affiancata sul palco da
Valentina Curatoli e Raffaele
Balzano a Pietrarsa nell’ambito
della scorsa edizione del Napoli
Teatro Festival. Uno spettacolo che
si è aperto con un omaggio al
drammaturgo spagnolo Calderón de
la Barca, autore nel 1635 del
dramma filosofico-teologico «La
vita è un sogno», e alla riscrittura
che ne fece Pasolini.
Come è iniziata la sua avventura di
attrice?
Ero una ragazzina, con Geppy
Gleijeses, eravamo due giovani che,
pieni di entusiasmo e voglia di
vivere, si buttavano nel mondo del
teatro. In quell'occasione venni
scoperta da Nino Taranto e
cominciò la mia vita di attrice
professionista in giro per l'Italia. A
scuola di palcoscenico da un grande
interprete della tradizione.
Cristina Donadio
Subito dopo, fui chiamata da
Aroldo Tieri per entrare nella sua
compagnia con Giuliana Lojodice,
Gianni Agus, Carlo Hintermann.
Col tempo ho acquisito il vero
significato dello stare in scena, la
consapevolezza necessaria, e devo
dire che tutto ciò è stato frutto
dell'incontro fondamentale, nel mio
percorso di attrice, con Enzo
Moscato e il suo teatro di frontiera.
Werner Schroeter e il film ‘Nel
regno di Napoli’ che vinse premi
nei festival più importanti del
mondo. Ricordo attori e registi un
po’
alla
rinfusa,
Squitieri,
Bevilacqua, Pasquale Marrazzo,
Ben Gazzara, Vittorio Caprioli,
Bentivoglio, Klaus Kinski, Treat
Williams, Margaret Lee, Leandro
Luchetti… e Murgia, Pisciscelli,
Gaudino, la Cavani, Sandro
Dionisio...
E’ stata anche una musa di Pappi
Corsicato.
Quando ho incontrato il suo cinema
eravamo già compagni di lavoro.
Lui aveva composto delle musiche
per i miei spettacoli teatrali.
Dunque, ‘Libera’ prima e, poi, tutti
gli altri film girati con lui sono
frutto di una profonda conoscenza
reciproca. Pappi è una persona
speciale e un regista di grande
visionarietà. Adoro i suoi film.
Il cinema le interessa più del
teatro?
Il teatro è la mia vita, è qualcosa di
necessario, di imprescindibile; è la
mia storia, è qualcosa a cui non
posso rinunciare. Il cinema mi deve
catturare, deve far scattare in me
un'urgenza, una spinta alla quale
non riesco a sottrarmi. E, lo
confesso, questo succede di rado
purtroppo.
A quanti film ha partecipato e
con quali registi?
Ho girato tanti film nella mia vita,
molti con giovani registi alla prima
esperienza.
Amo
il
cinema
indipendente e sono sempre pronta
a mettere la mia anima e il mio
volto in una storia che mi catturi,
anche se non è un progetto
commerciale.
Tra i tanti, amo ricordare il primo,
In questo momento che sta
facendo?
Sto per riprendere ‘Napoli 43’, uno
spettacolo scritto e diretto da Enzo
Moscato sulle Quattro Giornate di
Napoli, dove recito insieme a
straordinari attori tra cui lo stesso
Moscato, Antonio Casagrande,
Benedetto Casillo. Lo porteremo al
San Ferdinando. Sempre con
Moscato preparerò una novità,
Il libro
Dalla “A” alla “PP” lo spumeggiante “Alfabeto”
di un maestro della scena, Paolo Poli
Maddalena Caccavale Menza
Raramente fioriscono geni della scena come Paolo Poli e, quando
succede, non solo è doveroso apprezzare questa fortuna che come
spettatori riceviamo, ma anche diffondere il più possibile il germe di
genialità, sia pure per contagio. Così risulta necessario il libro curato
da Luca Scarlini (Ed. Einaudi 2013) che è stato ideato come una sorta
di dizionario – da qui il titolo ALFABETO POLI - dove compaiono le
voci più significative del pensiero dell’artista toscano, ricavate dalle
interviste da lui rilasciate nel corso degli anni. Dalla “a” di “aggettivi”
alla “z” di “Zeffirelli”, nasce il ritratto di un protagonista dello
spettacolo italiano, e si aprono squarci insoliti su una storia del teatro
che è vista da angolazioni ironiche. Poli ha solcato la scena per oltre
cinquant’anni, ma non si è limitato a interpretare personaggi desunti
da altri. Al contrario, ha imposto il proprio stile, la personalità,
l’eleganza in un Paese dov’è difficile trovare simili virtù, senza cadere
nel vittimismo e nel compiacimento di chi si sente tanto “incompreso”
(non gli piacciono più di tanto neppure le associazioni gay). Poli è
riuscito a dare un forte segnale della propria arte attraversando con
passo leggero un periodo lungo della nostra storia. Fui colpita molto
da quanto dichiarato nel corso di un’intervista che mi concesse: gli
chiedevo un parere sul ruolo che la censura ha rappresentato nel suo
mondo e sugli ostacoli che ha incontrato a causa di essa; basti
ricordare lo spettacolo censurato su Santa Rita da Cascia, o
l’epurazione dalla televisione perché omosessuale. E Poli mi rispose:
“Solo le galline e i cani si ostinano a battere sempre sullo stesso punto
del cancello, senza capire la realtà. Le scimmie aggirano l’ostacolo
trovando un punto meno battuto da dove passare”. Ecco, per lui è
stato così, ha fatto sempre quello che ha voluto. “Alfabeto” è
veramente un libro interessante dove ci si può immergere nel mondo
della scena italiana attraverso lo sguardo impietoso e divertito di un
protagonista; un artista che è ancora più grande perché ha anche
saputo non prendersi troppo sul serio, “Fidanzato con i libri” (è un
uomo coltissimo), Poli parla di Pasolini, del Signora Bonaventura, di
Franca Valeri, Federico Fellini e Milena Vukotic con la stessa
leggerezza e ironia con cui parla di sé quando confessa di “non essere
tanto omosessuale da amare se stesso”. In quarta di copertina si legge
- ed è vero - che questo è l’alfabeto di chi non ha mai avuto paura di
stare al mondo. Selezionando centinaia d’interviste cartacee,
televisive e radiofoniche, Scarlini è riuscito a “costruire un sillabario
poetico e brillante” in cui il pensiero di Poli si esplicita sempre,
spumeggiante e intelligente, “sul filo dell’ironia e del paradosso”.
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Napoli le sta dentro?
Certo che mi sta dentro; è la città in
cui sono nata e la cui bellezza mi
commuove ancora. La sua luce
speciale illumina le mie giornate
anche quando sono lontana.
Nonostante le sue contraddizioni è
la città in cui ho deciso di vivere e
di resistere.
Napoli per me è uno stato d'animo”.
Non la lascerebbe nemmeno per
Roma o Milano?
Ho vissuto a Roma per 12 anni,
pensavo come tanti miei colleghi
che fosse la scelta giusta se vuoi
fare l'attore; poi, col tempo ho
sentito il bisogno di tornare a
Napoli e ho capito che trovavo
molti più stimoli nello stare nella
mia città. Il nostro mestiere ci porta
sempre in giro, avere un luogo di
ritorno che ti appartenga è
fondamentale
per
ritrovarsi.
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Al Piccolo Bellini
Gabriele Russo in cerca di Some Girl(s)
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Capita di comportarsi in maniera scorretta con persone che in un certo
senso hanno fatto parte della nostra esistenza e con le quali abbiamo
condiviso molto. Così, per cercare di "regolare i conti", si fa un salto
indietro nel proprio essere. Questo è ciò che accade in "Some Girl(s)", in
cui il protagonista (Gabriele Russo), giovane insegnante e aspirante
scrittore, decide di tornare indietro nel tempo e di andare alla ricerca delle
sue ex che, per svariati motivi, ha fatto soffrire. Vien fuori il ritratto di un
uomo con la paura estrema di impegnarsi in un rapporto serio e il senso di
colpa continuo per un passato che non gli dà pace. Quattro le donne che si
alternano in scena, Martina Galletta, Bianca Nappi, Roberta Spagnuolo,
Guia Zapponi. Dalla penna di Neil LaBute nasce una brillante commedia,
resa ancor più appassionante dalla regia di Marcello Cotugno. Al Piccolo
Bellini fino al 15 dicembre.
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Federica De Cesare, Francesco Gaudiosi, Teofilo Matteis,
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Programmazione teatri napoletani a dicembre
ACACIA
Dal 12 al 15 dicembre
Nancy Brilli in “La locandiera” di Goldoni, regia di Giuseppe Marini
Dal 19 al 22 dicembre
Anna Galiena, Marina Massironi, Stefania Sandrelli, Sergio Muniz in “Tres” di J.C.
Rubio, regia di Chiara Noschese
Dal 26 al 29 dicembre
Max Giusti in “Di padre in figlio”, di Max Giusti
AUGUSTEO
Dal 13 dicembre al 6 gennaio Alessandro Siani in “Sono in zona show”
BELLINI
Dal 10 al 15 dicembre Stefania Rocca e Daniele Russo in “Ricorda con rabbia” di John
Osborne, regia Luciano Melchionna
Dal 20 al 22 dicembre Balletto di Mosca La Classique in “Lo Schiaccianoci” da
Chajkovskij, coreografie di Lev Ivanov - Marius Petipa
Maître de Ballet Ekaterina Karpova, Evgenia Novikova, Andrey Shalin
Da mercoledì 25 dicembre al 12 gennaio
Nino D’Angelo in uno spettacolo da definire
PICCOLO BELLINI
Dal 19 al 22 dicembre “Racconti di giugno” di e con Pippo Delbono
Dal 26 dicembre al 6 gennaio “A Zonzo #02” di e diretto da InBalìa Compagnia
Instabile, con Marco Cacciola, Michelangelo Dalisi, Francesco Villano
BRACCO
Da giovedì 19 dicembre a domenica 12 gennaio
Caterina De Santis, Davide Ferri e Rosario verde in “Onda su onda - ovvero giallo in
crociera”, commedia comica, regia di Gaetano Liguori
CILEA
Dal 5 al 15 dicembre Federico Salvatore in “E noi zitti sotto”
Dal 19 al 22 dicembre Luigi De Filippo in “Un suocero in casa”, di peppino e Titina
De Filippo, regia di L. De Filippo
Dal 25 dicembre al 6 gennaio Biagio Izzo in “Esseoesse”, di Bruno Tabacchini e
Biagio Izzo, regia di Claudio Insegno
DIANA
2 dicembre “The Genesis Box, un’opera rock”, spettacolo di musica e danza
Dal 4 al 15 dicembre Giuseppe Fiorello in “Penso che un sogno così…”, su Domenico
Modugno, regia di Giampiero Solari
11 dicembre Michele Caputo in “Komicamente”, cabaret
16 dicembre Peppe Servillo e Solis String Quartet in “Spassiunatamente”
Dal 18 dicembre al 6 gen Massimo Ranieri in “Viviani Varietà regia di M. Scaparro
ELICANTROPO
Da giovedì 5 a domenica 8 dicembre
“In pantaloni rosa e garofano verde”, conferenza sull’omosessualità con Roberto
Azzurro, che firma anche la regia
GALLERIA TOLEDO
Dal 5 all’ 8 dicembre “Delirio a due”, anticommedia di Eugene Ionesco, regia e
interpretazione Elena Bucci, Marco Sgrosso
Dal 14 al 28 dicembre “Miseria e nobiltà” di Eduardo Scarpetta, con Laura Borrelli,
Agostino Chiummariello, Alessandra D’Elia, Michele Danubio, Roberto Giordano,
Stefano Jotti, Antonio Marfella, Nunzia Schiano, Tonino Taiuti. Drammaturgia e
regia di Laura Angiulli
25, 26, 29 e 30 dicembre Gino Curcione in “Scostumatissima tombola”
MERCADANTE
Dal 3 all’8 dicembre “Il cappotto”, liberamente tratto da Gogol, di e con Vittorio
Franceschi, regia di Alessandro D’Alatri
Dal 10 al 15 dicembre “La purga”, farsa di Feydeau, regia di A. Cirillo
9/12 dicembre nella sala Ridotto Per il progetto “Il mare non bagna Napoli”, tratto
dalla Ortese, “Il silenzio della ragione”, regia di Linda Dalisi, con Michelangelo Dalisi
NUOVO
4/8 dicembre Mariano Rigillo con “Ferito a morte – preludio”, di Raffaele La Capria,
un monologo con regia di Cladio Di Palma
10/15 dicembre Vetrano e Randisi presentano “Totò e Vice’”, storia di due clochard
nati dalla penna dello scrittore palermitano Franco Scaldati
Dal 19 dicembre al 6 gennaio Renato Carpentieri, Toni Laudadio, Enrico Ianniello e
Giovanni Laudeno in “Jucature”, di Paul Mirò, regia di E. Ianniello
NUOVO SALA ASSOLI
Dal 6 al 15 dicembre Nicoletta Braschi e Roberto De Francesco in “Giorni felici” di
Beckett, regia di Andrea Renzi
Dal 26 al 29 dicembre “La notte di Scroogie”, da Dickens, traduzione e adattamento
Marco Mario de Notaris
SAN FERDINANDO
Programmazione dal 2 gennaio con “Le voci di dentro” di Eduardo De Filippo, con
Toni e Peppe Servillo
START (San Biagio theater and perfoming Art)
13/ 14 dicembre “Walking No Tav”, di e con Dario Muratore
19/ 20 dicembre “Il marito smarrito” da Molière, drammaturgia e regia di F. Renda
TEATRO TROISI
Dal 13 al 17 Umberto Orsini in “La leggenda del grande inquisitore”, da Dostoevskij
TEATRO TOTO’
Dal 28 novembre all’8 dicembre Gianfranco Gallo nel musical “Quartieri spagnoli”,
ispirato alla “Lisistrata” di Aristofane
Da giovedì 12 a domenica 22 dicembre
Paolo Caiazzo in “liberi tutti 2.0”, monologo comico
Mercoledì 25 e giovedì 26
Giacomo Rizzo in “Un figlio per lo sceicco”
THEATRE DE POCHE
Da sabato 28 dicembre a domenica 26 gennaio
“Il malloppo” dagli scritti di Joe Orton, regia di Peppe Miale
TEATRO AREA NORD (TAN)
Dal 6 all’8 dicembre Libera Scena Ensemble e Le Nuvole presentano “Garage”, regia
di Lello Serao
Dal 20 al 22 dic “Pulcinella e l’erede universale”, liberamente tratto da “Il testamento
di Pulcinella” di Carlo Sigismondo Capece, regia di Massimo De Matteo
TEATRO SANNAZARO
Dal 6 dicembre Simone Schettino in “Se permettete, vorrei andare oltre”
Dal 20 dicembre Lara Sansone in “Nuovo cafè chantant”
NUOVO TEATRO SANITA’
Dal 5 all’8 dicembre “Hotel Splendid”, adattamento di Mario Gelardi da “Splendid’s”
di Jean Genet
TEATRO IL PRIMO
Dal 13 al 22 dicembre “In nome del padre”
Dal 26 al 19 gennaio “Bello, onesto, illibato, cerca vedova”