LE "FILOSOFIE" DEL LONTANO ORIENTE

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LE "FILOSOFIE"
DEL LONTANO ORIENTE
DIVERSITÀ DI CULTURE, DIVERSITÀ DI "LINGUAGGI"
Si può parlare di "filosofie" o è più corretto parlare di "religioni", a proposito delle culture del Lontano Oriente, elaborate
contemporaneamente al nostro periodo antico e medievale? Esse vengono spesso classificate come religioni, ma in più di un caso - come
ad esempio in quello del Confucianesimo e del Buddhismo- non sembra appropriato parlare solo di 'religione': si tratta, infatti, di dottrine
in cui è possibile riscontrare non solo una robusta componente 'razionale' e 'filosofica', ma delle vere e proprie filosofie, che sviluppano
esplicitamente delle concezioni della realtà naturale e umana.
Comunque, è praticamente impossibile ricondurre a un unico modello le molteplici vie seguite da singoli pensatori e scuole filosofiche
e religiose del Lontano Oriente, fioriti nel periodo storico che coincide con lo sviluppo delle civiltà antiche della Grecia e di Roma.
In questa sede possiamo indicare quattro percorsi di pensiero filosofico e religioso: Induismo, Buddhismo, Confucianesimo e Taoismo,
movimenti di vastissima portata cui ancora oggi guarda e con cui si identifica un'ampia parte della popolazione del mondo. Si tratta di
movimenti storico-culturali di grande complessità, che hanno avuto una molteplicità di linee di sviluppo e che hanno offerto
interpretazioni anche molto divergenti della propria dottrina.
Le concezioni originarie, spesso dovute a pensatori legati ad una cultura orale, non si sono tradotte immediatamente in testi scritti,
opera successiva di discepoli o di continuatori di quella tradizione. A loro volta i testi fondamentali di ogni dottrina hanno conosciuto nel
tempo differenti interpretazioni. Noi dipendiamo, perciò, per la conoscenza dei testi più antichi, dai commentari che accompagnano quelle
opere, ed è difficile risalire all'aspetto originale delle idee.
Questa molteplicità di letture è da collegare anche al linguaggio che la speculazione religiosa e filosofica dell'Oriente ha forgiato e
utilizzato. Si tratta di un linguaggio ricco di immagini, simboli, metafore, allusivo e pregnante, che non si affida a concetti e a una logica
simili a quelli elaborati dall'Occidente e che l'Occidente tende a considerare come l'unico modo di procedere del pensiero. L'antropologo
Marcel Granet afferma, ad esempio: "la lingua cinese [non sembra] affatto essere organizzata per esprimere dei concetti. Ai segni astratti
[...] essa preferisce simboli ricchi di suggestioni pratiche; invece di un'accezione definita, questi possiedono una efficacia indeterminata".
Questo crea nel lettore occidentale poco esperto un senso di disorientamento e, talvolta, in modo più o meno esplicito, una reazione di
insofferenza e di rigetto.
Si tratta, infatti, di modi di intendere e di comunicare spesso molto diversi da quelli a noi abituali - anche perché diversi sono i loro
contesti d'origine, le culture che li hanno espressi.
Per tutti questi motivi, occorre guardarsi dall'interpretare queste concezioni utilizzando le impostazioni e gli strumenti concettuali
elaborati dall'Occidente. Solo con molta cautela, infatti, è possibile effettuare comparazioni o trovare analogie e somiglianze tra le
concezioni e i modelli elaborati in Oriente e quelli prodotti dal pensiero occidentale, ad esempio nel mondo greco.
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ALCUNE DOTTRINE DEL LONTANO ORIENTE
L'INDUISMO
Il termine Induismo è stato coniato dagli europei nel XIX secolo, durante il periodo coloniale, per indicare la religione indiana, cui si
sono collegate, nel corso di tremila anni, filosofie e scuole di pensiero molto diverse.
Più che una specifica dottrina, o un rigido sistema di dogmi, l'Induismo offre concezioni del mondo complesse e suggestive e,
soprattutto, modelli e codici di comportamento, stili di vita.
L'Induismo non conosce dogmi, né proposizioni di fede, né un magistero (com'è quello della Chiesa nel Cattolicesimo), ma dà
importanza al giusto agire, al giusto rito.
1.
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3.
L'Induismo ha attraversato tre fasi principali:
il periodo vedico (1.500 a.C);
il Brahmanesimo (800 a.C.);
l'Induismo vero e proprio (dal V secolo a.C).
La religione vedica
L'induismo rappresenta la terza e ultima fase di sviluppo nella storia della religiosità indiana, dopo la fase della religione vedica (1500900 a.C. circa) e la fase della religione brahmanica (900-400 a.C. circa). L'origine di tutti i sistemi filosofici indiani, infatti, viene fatta
risalire dagli studiosi al Rig-veda - datato intorno al 1300-1200 a.C. -, che la tradizione considera il più antico e importante dei quattro
Veda, una raccolta di antiche scritture composte da saggi anonimi.
Questa antica dottrina sosteneva l'esistenza di un principio originario assoluto, un'entità androgina (cioè insieme maschio e femmina)
da cui discendeva Purùsa, l'"uomo cosmico", dal cui corpo smembrato avevano origine a loro volta le cose esistenti: gli dei, gli uomini,
la terra e il cielo; in questa prospettiva, tutta l'evoluzione del mondo era tesa alla riunificazione delle parti e al ritorno della molteplicità
all'Uno. È importante sottolineare come in tale religione fossero presenti elementi che si ritroveranno nel sistema induista più recente, ad
esempio l'idea di un principio unitario originario al di là delle apparenze e della molteplicità, la concezione di una legge necessaria che
regola il cosmo e le azioni degli uomini, la suddivisione della società in gruppi sociali rigidamente separati. In essa, inoltre, grande rilievo
rivestivano i riti sacrificali, con i quali gli uomini ricorrevano al dio per ricevere soccorso e ottenere indulgenza per i defunti; rituali che si
possono considerare gli antecedenti delle rigorose pratiche di "liberazione", al centro, come vedremo, delle forme cultuali induiste.
La filosofìa delle Upanishad
Le successive raccolte di testi che compongono i Veda contengono interpretazioni, spiegazioni e veri e propri ampliamenti della
dottrina originaria del Rig-veda. La più importante, e più recente, è costituita dalle Upanishad, composte tra il IX e l'VIII secolo a.C, che
presentano un contenuto filosofico e morale relativamente nuovo e più evoluto e coincidono con l'elaborazione della religione
brahmanica - la seconda delle tre fasi storiche in cui si può suddividere lo sviluppo della religiosità indiana -, caratterizzata dall'egemonia
della casta sacerdotale. La società indiana, che ancora oggi è suddivisa in caste, riserva lo studio dei Veda, il sacro sapere, ai membri delle
sole caste superiori, mentre la gran parte della popolazione ne è esclusa.
Il periodo brahmanico ha visto una consistente riduzione del numero degli dèi, non pochi dei quali si comportavano come uomini
facendo apparire instabile l'ordine del mondo. I più importanti sono tre, quelli della Trimurti o triade divina: Brahma (il Creatore);
Vishnu (il Preservatore, colui che si prende cura dell'universo e che talvolta si incarna per restaurare la giustizia e salvare il genere
umano); Shiva (il Distruttore/Ricreatore, spesso rappresentato come "Signore della danza", dio che, distruggendo, porta a compimento il
cerchio della vita in modo che si possa avviare un nuovo ciclo).
Le Upanishad contengono alcune teorie di fondo che possiamo ritrovare in tutte le varie articolazioni della religiosit à indiana e che
saranno oggetto privilegiato della nostra indagine:
•
la credenza nel ciclo delle rinascite, il samsára, e nella legge del karman che lo condiziona;
•
l'esistenza di un ordine necessario, il dhárma, che presiede alla vita naturale e morale;
•
la fede nel Bráhman, il principio universale e assoluto fonte di tutte le cose;
•
l'esigenza di elaborare delle vie di liberazione dalla condizione umana.
Si tratta di dottrine in cui riscontriamo, seppure con caratteristiche differenti, la medesima esigenza alla base delle prime elaborazioni
filosofiche occidentali: il desiderio di spiegare gli aspetti fondamentali dell'esistenza umana, dalla presenza della gioia e del dolore,
all'esperienza del mutamento e della permanenza, ai fenomeni della nascita e della morte.
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Il jainismo
Il jainismo è un movimento fondato - in netta opposizione al potere e all'esteriorità religiosa dei brahmani - dal profeta Mahavira,
conosciuto anche come il "Jina", il "vincitore". Costui avrebbe diffuso la sua predicazione nel VI secolo a.C. e, secondo la tradizione,
sarebbe vissuto più o meno nella stessa regione e nello stesso periodo di Buddha. Il jainismo conta oggi più di tre milioni di adepti,
concentrati soprattutto nello Gujarat, la regione più occidentale dell'India. Il principio etico fondamentale dei jainisti è la non violenza e
il rispetto della vita in ogni sua forma.
Per questo motivo alcuni seguaci spazzano con una scopetta la strada mentre camminano e si coprono la bocca con un fazzoletto, per
non nuocere neppure ai più minuscoli e invisibili esseri viventi. Tale norma influenza ogni aspetto della vita dei jainisti, ai quali sono
precluse molte attività lavorative dal momento che il rispetto per le forme viventi si estende, oltre che a uomini, animali e piante, anche
alle particelle degli elementi fondamentali della materia (terra, acqua, aria). Le professioni tradizionalmente intraprese dagli adepti di
tale corrente induista sono, pertanto, di tipo accademico o commerciale e, dunque, di alto livello economico e sociale.Nel Jainismo la
scelta vegetariana è fondamentale per avere successo nel percorso di evoluzione spirituale. I Jain (monaci e laici) osservano da sempre
uno stretto regime vegetariano. Da quando l’uomo ha industrializzato lo sfruttamento degli animali, i Jain hanno ulteriormente
rinvigorito la Dottrina, sconsigliando (in The Book of Compassion) tutti gli alimenti di origine animale, poiché provenienti da violenza. I
Jain non mangiano neppure quei vegetali (Udumbaara) estirpando i quali si uccide l'intera pianta.
La "ruota della vita"
Entriamo dunque nel vivo della speculazione indiana, che quasi mai ha un fine puramente teorico. Manca nella terminologia indiana un
vocabolo che corrisponda esattamente a "filosofia", anche se non ne è assente il concetto. La riflessione indiana ha un fine pratico: è
orientata a conoscere la via che permetta all'uomo di raggiungere l'illuminazione e la liberazione dal giogo della natura (identificato,
come vedremo, dal ciclo delle reincarnazioni) . Le soluzioni elaborate dall'induismo hanno dato forma non solo alla cultura, ma anche al
modo di vivere indiano, e più in generale orientale, penetrando nelle fibre più profonde dell'essere individuale e comunitario.
La prima delle dottrine che costituiscono i fondamenti dell'induismo è quella della vita come una continua "migrazione in circolo",
samsára ("corrente"), scandita dal perenne ciclo delle rinascite che mette l'uomo in balìa delle forze distruttrici del tempo. Si tratta di una
circolarità senza progresso, caratterizzata dalla ripetizione, bene espressa nell'immagine dell'asino bendato che crede di camminare in
avanti, mentre gira sempre intorno alla macina a cui è stato legato.
La forza che, essendo all'origine dell'esistenza degli esseri, continua a coinvolgerli nel dinamismo della corrente della vita è il kárman.
Questo termine letteralmente significa "azione" e può essere considerato come l'equivalente del principio di causalità che regola
l'ordinamento del mondo. Il kárman nell'elaborazione degli antichi Veda coincideva con l'azione rituale e con gli effetti che essa poteva
determinare; nelle Upanishad, invece, viene a rappresentare l'insieme delle azioni compiute da ogni essere durante la propria
esistenza, causa del suo destino dopo la morte. Secondo l'induismo, infatti, i nostri comportamenti e le nostre parole producono effetti
duraturi: alla morte dell'individuo, mentre il corpo si decompone, l'anima è pronta a iniziare una nuova vita, reincarnandosi in un altro
corpo, inferiore o superiore a seconda della condotta tenuta nella vita precedente. La legge del kárman impone che ognuno sconti il male
compiuto attraverso le sue azioni nella stessa vita o, in modo differito, nell'esistenza successiva. Le rinascite possono avvenire in forma
umana, ma anche in corpi animali, qualora le azioni compiute in precedenza siano state particolarmente riprovevoli. Di qui il divieto di
cibarsi di carne: «La carne non può essere mai ottenuta senza recare danno a creature viventi; e il danno arrecato ad esseri senzienti
pregiudica il raggiungimento della beatitudine celeste; si rifugga perciò la carne» (Leggi di Manu, 5, 48).
Le dottrine del samsára e del kárman forniscono una motivazione etica alla rigida suddivisione degli uomini in caste tra loro
nettamente separate; infatti, è proprio per la legge del kárman che una persona nasce nell'uno o nell'altro gruppo sociale in conseguenza
delle azioni compiute nella vita precedente. Ciò comporta una sorta di passività e di fatalismo, che ostacola lo sviluppo della società
indiana - che pure ha abolito il sistema castale dalla propria Costituzione -, dal momento che l'individuo è portato ad accettare umilmente,
senza reagire o opporsi, il destino e il ruolo che gli sono toccati in sorte.
Ogni casta possiede un dhárma particolare, cioè regole molto rigide di comportamento che inchiodano gli indù a schemi di vita
prefissati dalla nascita: se le caste più elevate - brahmani, guerrieri, artigiani - godono di un'indubbia superiorità sociale rispetto alla
maggioranza delle persone appartenenti alla casta dei servi, nello stesso tempo, quanto più in alto nella gerarchia castale si trova un
induista, tanto più rigide sono le norme cui deve attenersi. Bisogna precisare che il dhárma non rappresenta solo l'ordinamento etico, ma,
più in generale, la legge che regola ogni aspetto dell'universo: per questo si avrà un dhárma che governa lo scorrere dei fiumi, un
dhárma che regola il nascere e il tramontare del sole e così via.
Le vie della liberazione
L'induismo ritiene che esistano molte vie di liberazione dal circolo del samsára che condiziona l'uomo e lo sospinge a nuove e
continue reincarnazioni; con grande tolleranza, infatti, ammette rituali ed esercizi spirituali differenti a seconda del diverso grado di
consapevolezza che il soggetto riesce a raggiungere. Il grado più alto si consegue quando l'individuo arriva a riconoscere l'unità e
l'armonia di tutto l'universo e comprende di esserne parte superando la propria individualità. A tal proposito la Bhagavadgita, uno
dei testi sacri più letti e venerati dagli induisti, dice:
Tutte le azioni avvengono per l'intrecciarsi delle forze della natura; ma colui che è traviato dal sentimento del proprio "io" pensa: "sono
io colui che fa".
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Ma colui che conosce il rapporto tra le forze della natura e le azioni vede come certe forze della natura agiscono sulle altre, e non ne
diviene schiavo.
Bhagavadgita, III, 27-28
Si tratta di un punto importante della dottrina induista, che professa un fondamentale monismo: secondo tale punto di vista, principio
unitario dell'universo è infatti il Bráhman, il divino, l'”indiviso", l'assoluto, quell'essenza dell'universo che il saggio sa scorgere al di là
del fluire e delle varie forme individuali della natura: «il supremo Bráhman senza principio, né essere, né non essere» (Bhagavadgita,
XIII, 12); esso è il principio «imperscrutabile, non nato, impensabile, di cui non si può parlare» (Maitry-Upanishad, VI, 17).
Al Bráhman è collegato l'átman, il principio di unità dell'essere umano, il "sé cosciente", l'anima, l'essenza dell'individuo. Ecco una
suggestiva immagine che lo presenta come luce interiore dell'uomo:
Quando il sole e la luna sono entrambi tramontati, [...] quando il fuoco si è spento e tutte le voci si sono acquietate, che cos'è allora la
luce dell'uomo? L'io diviene allora la sua luce. Illuminato solamente dall'io egli si siede, si allontana, fa il suo lavoro e poi ritorna.
Brhadaranyaka Upanishad, IV, III, 6, in Upanìshad, a cura di C. Della Casa, UTET, Torino 1983, p. 125
Secondo le Upanishad, l'átman è parte del Bráhman, sua emanazione e riflesso, e solo colui che riesce a comprendere e sperimentare
tale identità raggiunge la "liberazione". Si tratta di una consapevolezza che richiede un percorso lungo e faticoso, il cui punto d'arrivo è
l'ascetismo, cioè il progressivo distacco dell'io individuale dal corpo e dalla illusoria molteplicità (il mondo della maya governato dal
samsára). Nell'esperienza di liberazione l'individuo consegue l'assoluta indipendenza da tutto ciò che lo circonda e il completo distacco da
ogni preoccupazione materiale, secondo la bella immagine del testo seguente:
Nell'ascesi l'uomo, simile al dio, vive un anticipo di quella fusione con il Bráhman che, nella sua forma più completa, si può
raggiungere solo con l'annullamento dell'individuo nella morte. In questo stato, paragonato a quello dell'unione tra la donna e l'uomo,
viene a cessare la conoscenza, che oppone il soggetto all'oggetto, il mondo all'uomo, il corpo all'anima, e si raggiunge la beatitudine. Il
percorso che conduce a tale vertice mistico, come abbiamo accennato, non è univoco: l'induismo, infatti, riconosce e ammette molte vie di
liberazione.
Tra di esse, vogliamo ora soffermarci sullo yoga, una complessa disciplina psicofisica che, a partire dagli anni Sessanta del secolo
scorso, ha suscitato grande interesse anche in Occidente, dov'è praticata e seguita da un numero crescente di persone (benché non sempre
nella sua forma originale e completa).
La Bhagavadgita
Bhagavadgita significa letteralmente "Canto del Beato". Si tratta di un poemetto didascalico di argomento filosofico-religioso scritto
verosimilmente nel II secolo d.C. Esso costituisce uno dei diciotto libri della Mahabharata (IV sec. a.C-lV sec. d.C), il più vasto poema
epico della letteratura mondiale - consta di novantamila versi - che narra la guerra tra i discendenti di Bharata. Recitata e letta
quotidianamente, la Bhagavadgita è l'opera più amata e nota di tutta la letteratura religiosa induista. La sua filosofia di fondo può racchiudersi nelle seguenti scarne riflessioni: l'essere umano individuale è immortale; il
fine della vita è il raggiungimento della consapevolezza che l'io non è un attore autonomo e separato, ma costituisce una sola cosa con la
realtà divina, a cui può arrivare agendo in accordo con la propria natura. In quest'opera si parla anche di una "devozione amorosa" del
fedele verso la divinità e della "grazia" con cui quest'ultima lo aiuta nel cammino verso la liberazione, elementi nuovi rispetto alla
tradizione induista.
La liberazione attraverso lo yoga
Lo yoga occupa un posto di primo piano nella storia del pensiero indiano. L'autore del testo principale relativo a questa disciplina è
Patanjali, di cui non abbiamo informazioni precise. La tradizione indiana lo identifica con il famoso grammatico sanscrito omonimo,
vissuto probabilmente nel II secolo d.C. In ogni caso a Patanjali si attribuisce il merito di aver sistematizzato l'antichissima tradizione
yoga, operando una felice sintesi di tutte le teorizzazioni precedenti, e di aver trasformato lo yoga da tradizione ascetica e mistica arcaica
in un vero e proprio sistema filosofico organizzato e unitario.
Analizziamo, dunque, le linee essenziali di questa filosofia, seguendo le indicazioni che Patanjali fornisce nel libro Yoga-sutra.
Innanzitutto dobbiamo precisare che il termine "yoga" significa "giogo" e indica la capacità da parte dell'io di assoggettare tutte le forze
fisiche e psichiche, al fine di raggiungere la massima concentrazione spirituale su di sé.
Coerentemente con i principi della filosofia induista, anche per lo yoga classico la liberazione dall'ignoranza è il fine di tutte le tecniche
ascetiche e le pratiche di meditazione, che culminano nel raggiungimento della consapevolezza e dell'illuminazione. È proprio la
conoscenza delle realtà ultime che permette all'uomo di liberarsi dalle illusioni della sensibilità e del mondo fenomenico e di
"risvegliarsi", ossia di scoprire la vera natura dello spirito. Una visione non dissimile aveva elaborato il filosofo occidentale Eraclito,
quando aveva parlato dell'illusorietà dei fenomeni e aveva distinto tra gli «svegli», cioè coloro che riescono a raggiungere la verità, e i
«dormienti», gli ignoranti che rimangono immersi nell'apparenza.
Il cammino dello yoga classico
Ma qual è la via per affrancarsi dall'ignoranza? Patanjali la identifica con il cammino dello yoga classico, attraverso il quale lo yogin
(colui che intraprende il percorso dello yoga) riesce a superare la molteplicità, l'attaccamento alla realtà illusoria, l'azione, il desiderio e
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ogni altro sforzo, ricongiungendosi all'unità originaria dell'assoluto. Tale percorso, che richiede una ferrea autodisciplina, si svolge
attraverso otto gradi, suddivisi in due fasi distinte.
La prima fase è quella dello hatha yoga, in cui si ottiene il controllo totale del corpo e delle energie attraverso una rigorosa pratica di
esercizi fisici; essa implica cinque livelli:
1) le "astinenze": dalla violenza, dalla menzogna, dal furto, dall'eccesso della sessualità, dall'avarizia. Queste prescrizioni inducono
nell'adepto una condizione di purificazione che gli renderà più agevole il cammino verso la liberazione;
2) le "osservanze": della purezza, del regime ascetico, della recitazione di formule sacre (come la sillaba "om"), dello studio dei testi
e del rispetto per il proprio "guru" (il maestro);
3) l'assunzione di corrette posizioni e posture del corpo (ásana), presupposto fondamentale di ogni corretta meditazione.
Concentrandosi in una posizione di equilibrio, si giunge infatti a neutralizzare l'azione dei sensi e a rendere ininfluente la stessa presenza
del peso corporeo, liberando la mente da distrazioni esterne;
4) il controllo della respirazione (il pranayáma), che riveste un ruolo particolarmente importante: se infatti lo yogin riesce a ridurre al
minimo il ritmo respiratorio può raggiungere la concentrazione, astraendosi dagli oggetti fisici e materiali, ossia conseguendo la capacità
di liberare l'attività conoscitiva dal dominio degli oggetti esterni. Quando i sensi "riposano in se stessi", secondo l'immagine dello Yogasutra, lo yogin non ricorre più alle sensazioni per conoscere un oggetto, ma vi accede direttamente attraverso la propria mente;
5) il distacco dei sensi dal mondo materiale, cioè l'insensibilità nei confronti degli stimoli esterni.
Questi primi cinque gradi sono il presupposto della seconda fase, quella più importante, denominata "yoga regale" (raja yoga) e a sua
volta distinta in tre livelli, gli ultimi tre del percorso dello yogin verso l'illuminazione:
6) la contemplazione, in cui occorre fissare la propria mente su un punto determinato per eliminare qualsiasi pensiero;
7) la meditazione, che Patanjali definisce «una corrente di pensiero unificata» e che consiste in una condizione caratterizzata dalla
continuità dello sforzo mentale per assimilare l'oggetto della meditazione, liberi da ogni altro interesse esterno;
8) l'”immersione” o "illuminazione" (il samádhi), cioè lo stato in cui il pensiero afferra l'oggetto della meditazione direttamente,
deterfninando una coincidenza tra conoscenza e oggetto della conoscenza. Si tratta dell'esito finale di tutto il percorso, corrispondente
all'estasi mistica, in cui lo spirito è come disgiunto dalla materia.
Lo yogin che raggiunge il samádhi sperimenta uno stato di superamento della sensibilità, delle emozioni, delle false immagini
mentali e soprattutto di ogni dualismo tra soggetto e oggetto, pensiero ed essere, individuo e mondo: egli si pone al di fuori del tempo e
dello spazio, al di là della sua stessa esistenza individuale, assimilandosi all'assoluto, ilBráhman, l'unità originaria, e liberandosi dal
circolo del samsára che domina la realtà. Si tratta di uno stato in cui egli raggiunge i «poteri miracolosi» di cui parla il terzo libro dello
Yoga-sutra - ad esempio conoscere le proprie esistenze precedenti, o penetrare gli stati mentali degli altri uomini -, ma, soprattutto, ottiene
la liberazione, che consiste nel sottrarre il "sé" dal giogo della natura: «Come un uomo morto, egli non ha alcuna relazione reale con la
vita; è un jivanmukta, un "liberato in vita". Egli non vive più nel tempo e sotto la dominazione del tempo, bensì in un eterno presente» (M.
Eliade, voce "Yoga" in Enciclopedia delle religioni, voi. IX: "Induismo", a cura di D. Cosi - L. Saibene - R. Scagno, Jaca Book, Milano
2006, p. 5).
IL BUDDISMO
Il Buddha storico
Secondo la tradizione il buddismo prende l'avvio proprio dall'esperienza del Buddha storico, il principe Siddhartha Gautama. La sua
vita, avvolta nella leggenda, è in genere suddivisa in quattro periodi: la nascita e l'infanzia; il cammino verso l'illuminazione; gli anni
della predicazione; la fine della vita terrena e il nirvana, il principe Siddhartha nasce in una regione himalayana nel Nord dell'India
intorno al 563 a.C. Nobile, riceve un'educazione adeguata al suo rango e passa la sua giovinezza nel lusso e negli agi della vita di corte.
Ma, lentamente, in lui si insinua il seme del dubbio e sorge la consapevolezza della vacuità della vita condotta, che si rafforza
nell'incontro con l'umanità povera e sofferente che ha occasione di conoscere fuori dal suo palazzo. Decide allora di abbandonare tutto,
per intraprendere un cammino di ricerca e di purificazione indossando le vesti dell'asceta itinerante. Vive sette anni di durissima rinuncia
in cui, secondo la tradizione, mangia unicamente un chicco di riso al giorno. La sua inquietudine non trova pace, finché un giorno, raccoltosi in meditazione
sotto un albero di fico, raggiunge l'illuminazione e la convinzione che la giusta via da seguire sia quella "di mezzo", intermedia tra lo
sfrenato abbandono al piacere e l'esasperata rinuncia alla vita. Comincia allora il suo percorso di insegnamento. A Benares, dove si reca in
seguito al "risveglio" (Buddha in sanscrito vuol dire proprio "il risvegliato", "l'illuminato"), predica la sua dottrina, che si compone di
quattro "nobili verità", in cui sono contenuti la diagnosi e il rimedio al male e al dolore dell'umanità. Buddha trascorre gli ultimi anni di
vita in un monastero a Sravasti. Quando è ormai ottantenne, intorno al 480 a.C, affronta un viaggio verso Kusinagara e, durante il viaggio,
muore forse per avvelenamento da funghi, accomiatandosi dai discepoli con queste parole: «Dopo la mia morte, insegnate il bene, fate del
bene, operate del bene. Se così agirete io sarò sempre al vostro fianco».
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Il buddismo come dottrina di liberazione e salvezza
La riflessione sull'esistenza ha avuto in India un'ulteriore risposta nel pensiero buddista. A differenza dell'induismo, il buddismo
risale a un unico fondatore, il principe Siddhartha Gautama (poi denominato "Buddha", che in sanscrito significa "il risvegliato"), che
visse in India nella seconda metà del VI secolo a.C, contemporaneo di Confucio e Lao-tzu in Cina, di Pitagora ed Eraclito in Grecia.
La dottrina di Buddha ha carattere essenzialmente pratico, in quanto non si cura di conoscere la natura dell'universo o del divino, ma
ha come obiettivo fondamentale quello di salvare l'uomo dalla sofferenza che contraddistingue l'esistenza.
In questa prospettiva l'insegnamento di Buddha non è presentato come un sistema dottrinale dogmatico e inconfutabile, ma come il
«veicolo», la «nave», grazie alla quale è possibile attraversare l'oceano delle apparenze sensibili, dell'ignoranza e del dolore, per
raggiungere il distacco, la saggezza, l'illuminazione. Proprio utilizzando questa metafora le tre grandi correnti in cui si distingue l'universo
buddista vengono definite: "piccolo veicolo" - il buddismo hinayana, che restringe la possibilità di salvezza ai soli monaci -, "grande
veicolo" - quello più allargato, che estende tale possibilità agli altri devoti -, "veicolo di diamante" - il buddismo tantrico, che si affida a
pratiche psicofisiche e alla recitazione di formule per raggiungere l'unione con l'assoluto.
Il riconoscimento del dolore dell'esistenza
Il buddismo non offre un sistema di credenze codificato, ma l'indicazione di una via,
quella sperimentata da Buddha nella sua personale e concreta ricerca della verità. In questo risiede la fondamentale differenza rispetto
all'induismo e il motivo della diffidenza buddista per la casta sacerdotale dei brahmani, i quali rivendicavano una superiorità rispetto agli
altri uomini proprio in virtù della saggezza di cui erano depositari. Dell'induismo, però, il buddismo conserva alcuni concetti
fondamentali: in particolare la credenza nel samsára, il ciclo delle rinascite, e nel kárman, la legge che lo determina e secondo la quale le
azioni condizionano il destino degli uomini.
La novità fondamentale che il buddismo apporta a tali dottrine è l'accento posto sul dolore inevitabilmente connesso al ciclo delle
reincarnazioni e alla precarietà dell'esistenza; quest'ultima è infatti minata dalla dissoluzione, in quanto, per Buddha, non vi è certezza
della permanenza dell'io individuale nelle varie trasmigrazioni. Si tratta di un problema che il principe Siddhartha preferisce non
risolvere: l'átman, che per l'induismo rappresenta l'essenza dell'individuo, ciò che garantisce la sua stabilità al di là della molteplicità delle
reincarnazioni, rimane un concetto incerto, perlopiù considerato come coagulo di cinque elementi destinati a separarsi con la morte
dell'individuo e a ricongiungersi in modi diversi in altri corpi. Ciò che importa nella prospettiva di Buddha, però, è il risvolto psicologico
della questione, il senso di precarietà e la sofferenza che inevitabilmente accompagna l'esperienza della morte e, in generale, il
cammino terreno degli uomini. È a questo dolore che egli intende principalmente offrire una soluzione, consegnando agli uomini le
"quattro nobili verità" che ha intuito dopo il lungo e difficile percorso di ascesi culminato nella «notte santa». In quell'occasione egli è
diventato r"illuminato", colui che ha raggiunto la consapevolezza (la bodhi) e che ha deciso di rendere partecipi gli altri uomini della
verità e della via per conquistarla.
Le quattro nobili verità
Buddha rivela al mondo le "quattro nobili verità" nel famoso "Sermone di Benares", il primo da lui pronunciato pubblicamente.
LE DOMANDE FONDAMENTALI E LE NOBILI VERITÀ
♦ Prima domanda: Che cos'è la sofferenza? Risposta: la vita stessa è sofferenza: nascita, lavoro, separazione, vecchiaia, malattia,
morte. Tutto questo è doloroso.
♦ Seconda domanda: Come nasce la sofferenza? Risposta: con la sete della vita, con l'attaccamento alle cose, con l'avidità e l'odio e
l'accecamento. Da cui consegue il desiderio della rinascita per continuarne a godere sempre.
♦ Terza domanda: Come può venire superata la sofferenza? Risposta: con l'abbandono del desiderio. Soltanto così viene evidenziato
un nuovo karma, la successione di azioni sia buone che cattive, soltanto così viene impedito un ritorno nel circolo delle nascite.
♦ Quarta domanda. Per quale via deve essere raggiunto questo?
Risposta: per la via del mezzo
razionale - né ricerca del piacere, né castigo dell'io. Il famoso ottuplice sentiero che porta al Nirvana:
- retta conoscenza e retta disposizione: sapere
- retto discorso, retto agire e retto vivere: moralità, etica
- retto sforzo, retta concentrazione e retto raccoglimento.
da H. Kùng, Ricerca delle tracce, Queriniana, Brescia 2003
Come si può osservare si tratta di un'etica incentrata sulla moderazione: Buddha, infatti, riteneva che occorresse evitare sia l'estremismo
ascetico e il rigorismo etico sia lo sfrenato abbandono al piacere, cercando la «via giusta». I suoi principi fondamentali sono la
«benevolenza» e la «compassione»: il perfetto buddista è colui che ha rinunciato a ogni forma di violenza contro le creature,
avversandone anche il pensiero, e che si presenta «privo di frusta o di spada», gentile, amichevole, ben disposto verso tutti gli esseri
animati e inanimati.
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E' interessante la presentazione di questi quattro punti in chiave più comprensibile per una persona occidentale operata dal monaco
Khyentse Norbu nel suo moderno testo “Sei sicuro di non essere buddhista? ” (ed. Feltrinelli).
Secondo Norbu:
Si è buddhisti quando si accettano le seguenti quattro verità:
Tutte le cose composite sono impermanenti.
Tutte le emozioni sono dolore.
Tutte le cose sono prive di esistenza intrinseca.
Il nirvana trascende ogni concetto.
Queste quattro affermazioni, che furono pronunciate dal Buddha in persona, sono note come “i quattro sigilli”. Tradizionalmente,
per sigillo si intende una sorta di marchio che conferma l'autenticità. Per amor di semplicità e di scioltezza in questo testo le quattro
affermazioni saranno chiamate in differentemente sigilli e “verità”, senza confonderle con le quattro nobili verità del buddhismo che si
riferiscono esclusivamente ai diversi aspetti della sofferenza. È noto che i quattro sigilli abbracciano il buddhismo nel suo complesso,
eppure la gente non desidera affatto sentirne parlare. Senza spiegazioni più approfondite, servono solo a scoraggiare gli animi e in molti
casi, non riescono a suscitare un più vivo interesse. Cambia il soggetto della conversazione e tutto finisce lì.
Il messaggio dei quattro sigilli deve essere inteso letteralmente, non a livello metaforico o mistico – e deve essere preso sul serio. I
sigilli non sono tuttavia editti né comandamenti. Con un po' di riflessione, ci si accorge che non hanno nulla di moralistico o di rituale,
né alludono a comportamenti buoni o cattivi. Sono verità secolari basate sulla saggezza, e la saggezza è l'interesse primario di un
buddhista. La morale e l'etica passano in secondo piano. Qualche aspirata di sigaretta e un po' di frivolezza non impediscono di
diventare buddhisti, anche se non significa che abbiamo il permesso di essere sregolati o immorali.
In senso lato, la saggezza deriva da una mente che possiede quel che il buddhista definisce una “giusta visione”, per quanto non ci
sia affatto bisogno di considerarsi buddhisti per avere una visione giusta. In definitiva è questa visione che determina le nostre
motivazioni e le nostre azioni.
È il modo di vedere che ci guida lungo il sentiero del buddhismo. Se oltre ai quattro sigilli, siamo in grado di adottare tutto un insieme
di comportamenti idonei, diventiamo buddhisti migliori. Quali sono invece le condizioni per le quali non si è buddhisti?
Se non siete in grado di accettare che tutte le cose composite o fabbricate sono transitorie, se credete che esiste una sostanza o un
concetto fondamentale dotato di permanenza, allora non siete buddhisti.
Se non riuscite ad accettare che tutte le emozioni sono dolore, se credete che esistano emozioni autenticamente piacevoli, allora
non siete buddhisti.
Se non potete ammettere che tutti i fenomeni sono illusori e insignificanti, se pensate che alcune cose esistano intrinsecamente,
allora non siete buddhisti.
Se infine pensate che l'illuminazione esiste nell'ambito del tempo, dello spazio e del potere, allora non siete buddhisti.
Che cosa fa di voi un buddhista? Forse non siete nati in un paese buddhista o in una famiglia buddhista, non indossate la tunica,
non vi rasate il capo, mangiate carne e siete dei fan di Eminem e di Parsi Hilton. Ciò non significa che non possiate essere buddhisti. Per
essere buddhista, bisogna accettare che tutti i fenomeni compositi sono impermanenti, che tutte le emozioni sono dolore, che tutte le cose
sono prive di esistenza intrinseca e che l'illuminazione trascende tutti i concetti.
Non è necessario che vi preoccupiate costantemente di queste quattro verità, basta che siano presenti nella vostra mente. Non
andate in giro pensando continuamente al vostro nome, ma se qualcuno ve lo chiede lo ricordate all'istante. Non c'è alcun dubbio. Anche
a prescindere dagli insegnamenti di Buddha, anche senza aver mai sentito il nome Shakyamuni Buddha, chiunque accetti i quattro sigilli
può considerarsi in cammino sul suo stesso sentiero.
Il nirvana
L'obiettivo di tutte le prescrizioni morali è il superamento della propria individualità nella realtà cosmica dell'assoluto, ossia il
raggiungimento della condizione del nirvana, che rappresenta la dimensione della felicità e della pienezza di vita. Etimologicamente il
termine "nirvana" significa "estinzione" e può essere spiegato ricorrendo all'immagine della fiamma che lentamente si spegne: allo
stesso modo l'io si ritira progressivamente dal mondo, neutralizzando interessi, emozioni, sentimenti, pensieri per arrivare
all'imperturbabilità priva di oggetto e di scopo, in cui, al di là di ogni separazione e dualismo, si sperimenta l'unione con il tutto. Il nirvana
è questo stato particolare in cui si ottiene "l'estinzione" dei mali morali, dell'odio, del desiderio, della sofferenza e, da ultimo, dell'io stesso
riassorbito nella totalità.
Per meglio comprendere il significato del nirvana e dell'”estinzione” che esso comporta, proponiamo un esempio legato all'attualità.
Consideriamo il ritmo frenetico che sempre più spesso caratterizza le società occidentali; molto spesso tale stile di vita comporta un
disagio e un malessere esistenziale, in quanto le persone sono dominate dall'ansia, che deriva dalla competitività, dal bisogno di
mantenere livelli sempre alti di prestazione e di efficienza, dal desiderio incessante di beni materiali, sempre nuovi e sempre diversi di cui,
forse, non si ha neanche realmente necessità. In questo contesto il messaggio buddista è di estrema attualità in quanto propone un sorta di
"cessazione del gioco", la sospensione del desiderio, dell'ambizione e della tensione, rappresentando un'alternativa di vita concreta. Il
nirvana stesso, lungi dal coincidere con il "nulla", appare allora come una dimensione di "vuoto" interiore in cui, eliminate tutte le azioni
superflue, condizionate e insensate, tutti i pensieri inutili, si fa spazio al proprio essere e alle esigenze più autentiche.
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Che cosa diventa l'uomo che abbia raggiunto lo stato della totale estinzione, del Nirvana? A questa domanda non vi è risposta, poiché
Buddha ha rifiutato di rispondere ed ha anche sconsigliato i suoi discepoli dall'intraprendere questa ricerca.
Il messaggio di Buddha è improntato a pessimismo e rassegnazione? Apparentemente lo è, con l'insistenza sulla vita come sofferenza:
ma l'intento di tale messaggio è quello di 'liberare' l'uomo, di metterlo in grado di vedere e dominare il mondo e la propria vita.
Tale messaggio esprime una filosofia o una religione? Si è detto che proprio perché mira alla liberazione e alla salvezza dell'uomo il
Buddhismo è una religione. Ma, a differenza delle altre, è una religione senza dio: non vi è infatti né un dio creatore, né un dio salvatore,
anche perché la salvezza l'uomo la può raggiungere con le proprie forze. Inoltre, quella di Buddha è una prospettiva 'razionale' che lascia
poco spazio al misticismo, configurandosi soprattutto come un impegno di liberazione dalle 'passioni'.
Un particolare sviluppo il Buddhismo ha avuto in Giappone, dove, a partire dal 1215 d.C, ha assunto la forma Zen ("meditazione"), con
cui ha inteso distinguersi dalle esteriorità rituali, dagli eccessi nella venerazione del Buddha e dalle sottigliezze dottrinali propri del
Buddhismo di quei tempi. Così la via del raccoglimento interiore - che, d'altra parte, era una delle vie indicate dallo stesso fondatore - è
stata considerata fondamentale per giungere all'Illuminazione e al Risveglio.
Lo Zen è un silenzioso concentrarsi nella contemplazione per vedere bene dentro di noi, liberandoci dalle passioni, fino a raggiungere
uno stato di "vuoto" da ciò che occupa il nostro spirito. La convinzione dello Zen è che il Nirvana si possa raggiungere nella vita, senza
attendere la fine del circolo delle rinascite. Il "vuoto" è la presa di coscienza che la vera essenza dell'universo è di non avere essenza.
Da questa conoscenza deriva uno stato di leggerezza, di serenità nella vita, anche di fronte alla malattia e alla morte. La sofferenza si
può trasformare in pace e gioia. Questo spiegherebbe le rappresentazioni del 'sorriso del Buddha'. Per giungere alla "vuotezza" non
servono i libri, ma il rapporto tra maestro e allievi. I maestri zen, per rendere gli allievi disponibili al Risveglio bloccando i processi di
astrazione e concettualizzazione, li sottopongono a esercizi che distraggano totalmente il loro spirito, come riflettere su problemi che non
consentono soluzioni logiche e che si presentino come apparentemente assurdi.
Comunque, lo Zen non è ritiro dal mondo, ma è piena e attiva partecipazione alle attività quotidiane: la perfezione Zen consiste nel
vivere la propria vita quotidiana in maniera naturale e spontanea, con un atteggiamento attivo ed energico verso la vita e di amore per la
natura incontaminata.
IL PENSIERO CINESE
L'antica saggezza cinese e il suo orientamento pratico
Nei prossimi paragrafi esamineremo i principali indirizzi filosofici dell'antica Cina, mostrandone i tratti di continuit à e di discontinuità
rispetto alla riflessione indiana.
Innanzitutto dobbiamo sottolineare che la filosofia cinese, al pari delle altre culture orientali, ha un orientamento pratico: essa
concepisce la conoscenza non come fine a se stessa, ma come uno strumento in grado di migliorare la vita dell'uomo e di condurlo alla
felicità. Inoltre, il pensiero cinese, come quello indiano, è attento a cogliere la grande unità di fondo tra la natura e l'uomo, al di là
delle apparenze che ci presentano le cose come differenziate e contraddittorie. La stessa lingua della Cina, composta non da segni astratti
indicanti un concetto ben definito (come le nostre lettere dell'alfabeto), ma da ideogrammi, è espressione di una mentalità simbolica che
sa cogliere le analogie e le affinità tra le varie parti di cui si compone l'universo.
Tale prospettiva deriva dal fatto che le due grandi religioni della Cina - il taoismo e il confucianesimo, a cui bisogna aggiungere il
buddismo di origine indiana - affondano le loro radici in un'antichissima tradizione religiosa denominata "universismo", secondo la
quale l'uomo, il cielo e la terra sono i componenti essenziali dell'ordine cosmico e la vita di ogni singolo essere umano è parte integrante
della suprema armonia dell'universo. Da tale visione discende la convinzione che l'ordine naturale e quello etico siano strettamente
connessi e dipendenti l'uno dall'altro. Sia la vita dell'universo sia quella degli individui sono infatti caratterizzate dall'azione e
dall'alternanza di due forze, opposte e complementari, chiamate yin e yang. Questi due termini, che in origine indicavano le parti in ombra
(yin) e al sole (yang) di una montagna, costituiscono i concetti cardine dell'intera cultura cinese: lo yin è il principio femminile, che
opera nell'ambito "interno" e comprende tutto ciò che è ricettivo, passivo, materno, dunque la terra, la luna, il buio, l'inverno, ma anche la
mente femminile, che è intuitiva e complessa; lo yang è il principio maschile, che opera in ambito "esterno" e implica tutto ciò che è
attivo, produttivo, dinamico, dunque il caldo, il secco, il cielo, l'estate, ma anche l'intelletto razionale, lucido e acuto, simboleggiato dalla
luce.
Un antico simbolo cinese, il "diagramma della realtà ultima", che riproduciamo qui sotto, mostra bene l'equilibrio e la complementarità
tra queste forze primordiali. Come si può osservare, esse si completano a vicenda e in ciascuna delle due è presente una piccola parte del
principio opposto: insieme, esse realizzano la perfezione (il cerchio, la totalità), che è data appunto dall'unione del maschile e del
femminile.
Come abbiamo detto, il taoismo e il confucianesimo appaiono strettamente collegati proprio per questa comune radice, di cui ciascuna
delle due religioni accentua un carattere particolare.
Un altro aspetto che avvicina il taoismo e il confucianesimo è il fatto che entrambi vengono elaborati nel medesimo periodo - il VI secolo
a.C. -, in risposta alla grave crisi morale e politica caratterizzata dalla decadenza dell'aristocrazia tradizionale della dinastia Chou
(1027-481 a.C). Come vedremo, ciascuna delle due dottrine offrirà una soluzione originale, accentuando gli aspetti etici e rituali - il
confucianesimo - o l'introspezione e la meditazione interiore intesa come fuga dalla conflittualità del mondo - il taoismo. A questo
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proposito, è possibile riscontrare un'affinità tra l'origine delle principali religioni cinesi e l'origine della filosofia occidentale, che
nacque in Grecia anch'essa in un momento - il VI-V secolo a.C. - di grandi trasformazioni sociali e culturali causate dalla decadenza
dell'aristocrazia e dal formarsi delle città-Stato a ordinamento democratico.
Le due "anime" della Cina
Le correnti del taoismo e del confucianesimo sviluppano rispettivamente quelle che potremmo definire le due "anime" o i due
orientamenti della filosofia cinese: quello etico e politico e quello mistico e religioso. Il confucianesimo è una filosofia prevalentemente
umanistica, che sottolinea gli aspetti etici e rituali della religione tradizionale e che si preoccupa di insegnare agli uomini come vivere
saggiamente e come comportarsi nella società; il taoismo, al contrario, è una filosofia a sfondo mistico, che si propone di educare l'uomo
a trascendere i problemi quotidiani per raggiungere il livello più elevato di consapevolezza, cioè l'assimilazione dell'individuo alla totalità.
La cosa sorprendente per la mentalità occidentale è che queste due anime della cultura non sono mai state considerate dai cinesi come
contrapposte o contraddittorie: esse hanno sempre costituito due aspetti complementari della medesima natura umana. Gli scrittori cinesi
le hanno spesso descritte come due diversi mezzi per conseguire il medesimo obiettivo: la saggezza. In effetti, queste prospettive
possono essere applicate in ambiti differenti: il confucianesimo può aiutare l'uomo nella sua vita pratica, a contatto con gli altri e con il
mondo, il taoismo può invece rappresentare una guida nel personale e profondo percorso spirituale verso l'illuminazione. Come sostiene
un detto cinese, occorre essere "confuciani di giorno" (quando cioè bisogna lavorare e vivere in società) e "taoisti di notte" (ossia quando
ci si occupa di se stessi e della propria interiorità).
Storicamente al confucianesimo si assegnò una grande importanza specialmente nell'educazione dei giovani, che, dovendo entrare a far
parte della società, dovevano apprendere le regole del comportamento e dell'etichetta; al taoismo si attribuì, invece, la funzione di
riportare l'adulto, traviato dal criterio dell'utile e dai doveri sociali, a quei valori fondamentali che sono rappresentati dalla spontaneità e
dalla naturalità.
Due sistemi di pensiero assolutamente non antagonisti né alternativi, dunque, ma compatibili ed entrambi necessari, in particolare in un
panorama come quello odierno che vede la Cina impegnata in uno straordinario processo di espansione economica. È questo uno dei
motivi per cui al taoismo dominante si viene sempre più affiancando un recupero del confucianesimo (bandito ufficialmente nel
1912), favorito dal potere politico proprio per il suo carattere pratico e orientato al rispetto della legalità e alla convivenza sociale. La
ripresa di una grande tradizione religiosa e filosofica del passato non solo non appare anacronistica oggi, ma viene vista in Cina - non
diversamente dall'India, da sempre legata alle proprie tradizioni religiose - come un fattore propulsivo e progressista.
yin e yang in origine i due termini indicavano le parti in ombra (yin) e al sole (yang) di una montagna. Poi sono passati a significare le
due polarità opposte e correlative della realtà. In particolare, lo yin è il principio femminile, che opera nell'ambito "Interno" e comprende
tutto ciò che è ricettivo, passivo, materno; lo yang è il principio maschile, che opera in ambito "esterno" e implica tutto ciò che è attivo,
produttivo, dinamico.
IL CONFUCIANESIMO
Confucio
Confucio nacque nel 551 a.C. nel piccolo ma molto progredito ducato di Lu, posto ai confini occidentali dello Shantung, e mor ì nel 479
a.C, dopo una vita dedita all'insegnamento, ai viaggi e alla raccolta e sistemazione delle testimonianze dell'antica tradizione cinese. Le
notizie circa la sua vita sono molto scarse. La tradizione gli attribuisce la compilazione di diverse opere, tra cui le Memorie sui riti e le
appendici al Libro dei mutamenti (IV Ching),
ma perlopiù le sue idee furono raccolte dai discepoli in epoche che non è possibile datare con precisione. L'opera che i critici ritengono
più affidabile per stabilire il pensiero del maestro è rappresentata dai Dialoghi di Confucio, composti con molta probabilità negli anni
immediatamente seguenti la sua morte a opera di Mencio, nome italianizzato di Mengsi, uno dei suoi principali seguaci, l Dialoghi sono
un'opera frammentaria e dal carattere spesso oscuro, probabilmente appunti liberamente rielaborati. La scarsità e la frammentarietà dei
testi confuciani non ci permette, come per Socrate in Occidente, di parlare di un sistema filosofico attribuibile con certezza a questo
pensatore.
Confucio: la personalità e l'opera
Il confucianesimo trae il suo nome da Confucio, una personalità di grande fascino al confine tra storia e leggenda. Le fonti da cui
possiamo attingere notizie sulla sua vita sono molto tarde; di certo possiamo dire che egli visse in un'epoca di crisi e di sfaldamento delle
certezze tradizionali, contro cui intese reagire con un impegno politico affrontato in prima persona (si dice, tra l'altro, che sia stato
ministro della giustizia).
Ma ben presto dovette restare deluso dalla carriera politica, tanto da abbandonarla del tutto per dedicarsi con maggior successo all'attivit à
di educazione dei giovani. Attorno a lui, infatti, raccolse un nutrito gruppo di allievi a cui impartì quell'insegnamento che si è condensato
- trascritto da qualcuno dei suoi discepoli - nei cosiddetti Dialoghi di Confucio, una raccolta di colloqui del maestro a cui faremo
riferimento nel corso della nostra trattazione. Quest'opera contiene una particolarità formale insolita per i tempi: l'autore si espone
direttamente e parla in prima persona. Si tratta di un elemento indicativo del rapporto pedagogico molto stretto che Confucio intendeva
instaurare con il proprio pubblico (non diversamente da Socrate, come vedremo).
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La tradizione ha esaltato a dismisura le sue doti sia fisiche sia morali, come d'altronde avviene nelle agiografie ("narrazioni della vita dei
santi", dal greco ághios, "sacro", "santo", e graphé, "scritto", "documento") di tutte le religioni. Di lui si narra che era molto alto e molto
forte (poteva sollevare da solo la sbarra che chiudeva la porta di una città) e che aveva una vista acutissima (dall'alto di una montagna
riusciva a distinguere nettamente anche gli oggetti più piccoli). Questa grande forza fisica era accompagnata da numerose altre doti morali
e spirituali, per cui si dice che ispirasse fiducia e benevolenza in tutti quelli che lo circondavano. Per quanto questi aneddoti siano, almeno
parzialmente, frutto della fantasia e della devozione, è possibile scorgervi quelli che dovevano essere i tratti caratteristici della sua
personalità: la mitezza e l'amore per gli altri, non disgiunti da un genuino sentimento umanistico, come avremo modo di approfondire
nel seguito della nostra indagine.
Una filosofia umanistica
Nei Dialoghi si sottolinea continuamente il ruolo determinante che, nell'apprendimento, svolge l'esempio positivo degli altri e della
tradizione. Confucio infatti - insieme ai suoi seguaci definiti i "letterati" - dedic ò un grandissimo impegno alla sistemazione del
patrimonio di riti e di usanze del passato, considerandoli un modello di grande valore e soprattutto uno strumento per uscire dalla
crisi morale e politica. Il rinnovamento spirituale e sociale poteva avvenire, a suo avviso, soltanto imparando e osservando il Li, cioè il
"retto comportamento", le cui norme potevano essere rintracciate nelle antiche usanze adattate al presente. Tra queste, un'importanza
particolare rivestiva il culto degli antenati, che prevedeva che in ogni casa vi fosse una nicchia in cui custodire le tavolette di legno con i
nomi, le eventuali cariche, le date di nascita e di morte dei propri defunti. A questi ultimi dovevano essere tributati offerte e sacrifici in
vari giorni del mese e in particolare nella notte di Capodanno. Altre norme fondamentali riguardavano i rapporti familiari e interpersonali
e implicavano, ad esempio, l'amore reciproco tra padre e figli, l'ossequio dei doveri previsti dalla consuetudine per gli uomini e per le
donne, il rispetto da parte dei giovani verso gli anziani, la lealtà tra amici... Anche i riti rivestivano un ruolo centrale nell'antica tradizione
(ad esempio i rituali propiziatori, quelli funebri, quelli legati ai matrimoni e alle festività...): Confucio li riprende e dispone che siano
trascritti e codificati. Egli valorizza in particolare la musica e la danza (gli viene attribuito il Libro della musica, ora perduto),
componenti costanti dei riti religiosi dell'antica Cina e simbolo dell'armonia e dell'equilibrio degli elementi costitutivi dell'universo.
In generale, Confucio professa una filosofia a sfondo umanistico, perché privilegia l'interesse per l'uomo rispetto a quello per la
natura e considera un valore la formazione umana e culturale dei cittadini. Un aforisma confuciano recita: «Non possiamo vivere con le
bestie né farne la nostra compagnia. Se non accettiamo di vivere fra gli uomini, con chi ci accompagneremo?».
Si può dunque affermare che il confucianesimo presenti un'impostazione antimetafisica, intendendo sottolineare con questa espressione
l'indirizzo etico e politico della sua speculazione, concentrata sull'uomo e sulla ricerca della virtù. Confucio insegnava soprattutto quattro
cose: la cultura, la morale, la lealtà, la sincerità. In secondo piano passavano le questioni inerenti il divino, considerato una sfera
fondamentale, ma di cui bisognava occuparsi solo dopo aver compiuto un lungo percorso di educazione e di perfezionamento etico.
Leggiamo quanto lui stesso afferma nei Dialoghi: «Tutti i discepoli possono ascoltare le lezioni del Maestro sullo sviluppo della
personalità e sulla cultura, ma non gli insegnamenti sulla natura dell'uomo e sull'azione del cielo» (Confucio, / dialoghi, III, V, 12, a cura
di A. Castellani, Sansoni, Firenze 1942); emblematiche risultano, a questo proposito, le dichiarazioni relativamente agli "spiriti" (le
divinità): «Il maestro diceva: dedicarsi con ogni serietà al proprio dovere verso l'umanità e, pur rispettando gli spiriti, tenersi lontani da
essi, questo può esser chiamato saggezza»; «Colui che non sa compiere i propri doveri verso gli uomini come sarà capace di onorare gli
spiriti?»; «Colui che non sa che cos'è la vita, come saprà che cos'è la morte?» (I dialoghi, III, VI, 20, cit.).
La missione pedagogica di Confucio
Al pari di Socrate, Confucio concepì il suo insegnamento come rivolto essenzialmente all'educazione morale degli uomini; riteneva
infatti che la "saggezza" e la "virtù" fossero insegnabili e che la virtù individuale fosse alla base del benessere e della prosperità di ogni
società: quando si sa come governare se stessi, si sa anche come governare gli uomini; quando si sa come governare gli uomini, si sa
anche come governare un impero. Questa l'essenza del suo pensiero etico-politico.
Confucio affermava che la virtù non è un dono "ereditario", ma il frutto di una progressiva conquista da parte dell'uomo, un bene a cui
tutti possono accedere attraverso l'educazione e il perfezionamento interiore; in un celebre brano dei Dialoghi si legge:
Il Maestro disse: a quindici anni io mi dedicai allo studio della saggezza; a trent'anni io camminavo con passo fermo sul cammino
della virtù; a quarant'anni non conoscevo più alcun dubbio; a cinquant'anni ero a conoscenza della volontà del Cielo; a sessantanni
io comprendevo, senza riflettervi, tutto ciò che il mio orecchio ascoltava; a settant'anni, anche seguendo gli impulsi del mio cuore,
io non trasgredivo ad alcuna regola morale.
I dialoghi, I, II, 4, cit.
In questo senso, tutta la ricerca filosofica di Confucio acquisiva una chiara funzione pedagogica; una pedagogia che, lungi dall'usare le
armi della costrizione, richiedeva il consapevole assenso e impegno da parte dell'allievo:
Io non insegno a colui che non si sforza di comprendere; io non aiuto a parlare colui che non si sforza di esprimere il proprio
pensiero. Se qualcuno dopo aver ascoltato l'esposizione della quarta parte di un problema non pu ò comprendere da se stesso e
esporre le altre tre parti io non gli insegno più.
I dialoghi, IV, VII, 8, cit.
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Saggezza di vita e amicizia
La saggezza, per Confucio, deriva dall'osservanza rigorosa del Li, cioè delle regole di comportamento che presiedono alla vita della
famiglia (etichetta), della società e dello Stato, e che impongono una serie di doveri come il rispetto, la cortesia, il decoro, l'autocontrollo,
ma anche il tributo votivo previsto dal culto dei defunti e delle varie divinità. Essa quindi implica un equilibrio profondo tra le qualità
naturali e l'educazione: attraverso quest'ultima, che comporta la conoscenza e la pratica delle virtù, l'uomo conquista la vera forma
dell'Uomo Superiore.
Nei Dialoghi si legge:
Quando le qualità naturali prevalgono sulla cultura avete l'uomo semplice e rozzo. Quando la cultura supera le qualità naturali,
avete il pedante. È solo quando le qualità naturali e la cultura sono proporzionatamente unite che voi avete l'Uomo Superiore.
I dialoghi, III, VI, 16, cit.
L'uomo non sarà mai veramente saggio se non saprà integrarsi nel gruppo degli amici;
è grazie alla vita di società, infatti, che si costruisce la dignità personale. Per Confucio l'uomo educato sa coltivare la propria persona e
rispettare gli altri: egli è "nobile" perché segue costantemente il Li. Quanto più si è nobili interiormente, tanto più si sapranno stabilire
rapporti positivi con gli altri, dando agli amici la tranquillità e la serenità. La stessa funzione del sovrano si può racchiudere in questa
massima: «educare la propria persona, avere rispetto di sé e dar tranquillità al popolo».
Oltre al dovere di educare se stesso e di rispettare le convenzioni sociali, all'uomo spetta il compito di conservare nella società il
proprio "nome" e il proprio posto, ed è per questo valore "conservatore" che il confucianesimo ottenne per molto tempo l'appoggio
ufficiale dello Stato.
Si tratta di un punto importante della dottrina di Confucio, secondo la quale il nome esprime l'essenza delle cose (ciò per cui una cosa è
quello che è) : l'equivalente dell'idea nella filosofia occidentale. Ogni uomo deve rispecchiare nelle azioni e nel comportamento il proprio
nome, in quanto in esso è racchiusa la "forma" del proprio essere che coincide con la propria funzione sociale. Vi è dunque un legame
molto stretto tra conoscenza del nome e virtù: il saggio, colui che conosce i nomi delle cose, è anche colui che sa come si deve agire e
che quindi agisce nel modo migliore rispettando la propria natura e quella delle cose. Non è difficile ravvisare in questo aspetto del
confucianesimo un'affinità con l'intellettualismo etico di Socrate, per cui la conoscenza è condizione essenziale della virtù e chi
commette il male lo fa per ignoranza.
Pertanto il padre dovrà adempiere ai doveri che gli vengono dall'essere padre, e così il figlio, la moglie, il suddito e il sovrano.
Quest'ultimo, in particolare, non potrà governare con la forza e le punizioni, bensì, innanzitutto, attraverso l'esempio, mantenendo fede ai
doveri che il proprio nome gli impone. Come dice Confucio, infatti, se il principe governa il popolo attraverso le punizioni e lo tiene unito
con i castighi, il popolo esibirà un comportamento apparentemente corretto, ma non ne sarà interiormente convinto e non proverà
vergogna di fronte ai misfatti; se, invece, il re governerà con l'esempio della propria virtù e userà i riti per affratellare i sudditi, questi
sentiranno il senso di vergogna dei propri errori e si disporranno alla virtù con animo consapevole. Nel pensiero di Confucio il sovrano,
dunque, deve esercitare una funzione educativa verso il suo popolo, perché tra morale, politica e psicologia non vi è distinzione.
IL TAOISMO
Il taoismo: le origini
Come abbiamo detto, anche il taoismo affonda le sue radici nella più antica tradizione religiosa cinese. Esso ha influenzato l'arte, la
letteratura, la filosofia e la spiritualità dell'Estremo Oriente, e oggi si rivela assai fecondo nella discussione occidentale sui temi cruciali
dell'ecologia e della cura della salute, nell'ottica di una visione globale e unitaria della persona. Esso è, inoltre, la forma di spiritualità
più diffusa in Cina e componente essenziale delle arti marziali.
Il suo fondatore è Lao-tzu (letteralmente il nome significa "vecchio maestro"), vissuto all'epoca di Confucio (di cui era forse di poco più
anziano) e a cui è attribuito il testo fondamentale del taoismo, il Tao-te-ching (Il libro della "via e della virtù"), un breve libro di aforismi
considerato l'opera più bella e più profonda di tutta la letteratura cinese.
Un altro autore importante della filosofia taoista è Tchouang-tzu, un famoso saggio cinese del IV secolo a.C. vissuto nel Nord della Cina,
il quale nella sua opera omonima espone - in forma di favola e di dialogo filosofico - la teoria della trasformazione degli esseri e indica la
via da seguire per ricongiungersi al principio fondamentale dell'universo. Il suo libro fu preferito e maggiormente utilizzato dagli artisti e
dai letterati rispetto al Tao-te-ching e, ancora oggi, viene studiato dai religiosi, anche di fede buddista e confuciana. Alla filosofia di
Tchouang-tzu si ispira, infine, il terzo dei libri taoisti -Il vero classico del vuoto perfetto -, attribuito al maestro Lie-tzu, che è una
collezione di aneddoti e favole.
È a questi autori, personaggi avvolti da un'aura leggendaria e mitica, che dobbiamo l'origine di quella che poco per volta venne
definendosi come la spiritualità del Tao.
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Il taigitu, simbolo che illustra la
relazione tra Yin e Yang:
opposizione, interdipendenza,
complementarietà, trasformazione reciproca.
Il significato del Tao
La parola Tao è certamente la più misteriosa e densa di significati che la lingua cinese abbia prodotto: essa significava originariamente la
"via" e come tale la intesero i confuciani, interpretandola in senso morale, come la "giusta via" o il "retto procedere" etico dell'uomo, in
accordo con la loro visione pratica della vita. Lao-tzu, al contrario - recuperando l'essenza dell'antica tradizione universista -, la intese in
senso mistico e metafisico, come simbolo dell'unità fondamentale in cui si annullano tutte le contraddizioni e le differenze tra gli enti. In
tale prospettiva il Tao indica - analogamente al concetto induista del Bràhman - la realtà ultima, l'essenza indicibile e inconoscibile
dell'universo, che l'uomo deve riconoscere in modo intuitivo, e mistico, cioè superando la visione analitica della ragione:
Non so di chi esso [il Tao] sia figlio. Sembra che esistesse prima ancora che Dio. Lo guardiamo e non lo vediamo, e lo chiamiamo
"l'Uniforme". Lo ascoltiamo e non lo udiamo, e lo chiamiamo "l'Inaudibile". Tentiamo di afferrarlo senza riuscirci, e lo
chiamiamo il "Sottile". Con queste tre qualità, non può essere oggetto di descrizione; perciò le uniamo e otteniamo l'Unico.
La sua parte superiore non è luminosa, né è oscura l'inferiore. La sua azione è costante, eppure non si può dargli un nome ed esso
torna nel nulla. È chiamato la Forma dell'Informe, la Sembianza dell'Invisibile, il Fluente e l'Indeterminabile. [...]
Il grande Tao tutto pervade, si trova a destra e a sinistra. Tutte le cose devono a lui la loro esistenza, che esso d à loro, e nessuno gli
rifiuta obbedienza. Quando la sua opera è compiuta, esso non ne rivendica il merito. Esso riveste tutte le cose e non pretende di
esserne il Signore: esso si trova nelle cose più piccole.
Tutte le cose ritornano alla loro radice e scompaiono, e non sanno che è il Tao che presiede al loro corso; esso si trova nelle cose
più grandi. Il Tao, sotto l'aspetto di immutabile, non ha nome [...] Appena entra in azione, esso ha un nome e quando ha quel nome
gli uomini possono imparare a trovarvi la quiete. Quando l'hanno imparato, sono liberi da ogni pericolo di errore.
Tao-te-ching, in A. C. Bouquet, op. cit., pp. 242-243
Dal Tao derivano tutte le cose attraverso l'alternarsi ciclico dei due principi dello yin (femminile) e dello yang (maschile) e la sua azione
abbraccia l'intero universo, dai fenomeni naturali a quelli etici e politici.
L'uomo, per essere virtuoso, deve assecondare l'ordine del Tao senza ostacolarlo e senza determinarne il turbamento. Il compimento della
perfezione consiste in questo adeguamento di sé alla natura, che coincide con la pratica del wu wei, il "non agire", inteso non come
vuoto, ma come scelta di non interferire con il processo naturale di attività e di sviluppo delle cose.
Secondo i fondatori del taoismo la società corrompe la natura e l'intelligenza ed è fonte di dolore per l'uomo; l'unico rimedio è la
contemplazione solitaria:
Avvicinati! Ti dirò che cos'è il Tao supremo! Ritiro, ritiro, oscurità, oscurità: ecco l'apogeo del Tao supremo! Crepuscolo,
crepuscolo, silenzio, silenzio: non guardare niente, non sentire niente! Tieni stretta la tua potenza vitale, rimani nella quiete: il tuo
corpo non perderà la sua correttezza nativa! Conserva la quiete, conserva la tua essenza: e godrai della lunga vita! Che i tuoi occhi
non abbiano nulla da vedere! Le tue orecchie nulla da sentire! Il tuo cuore nulla da sapere! La tua forza vitale conserverà il tuo
corpo, il tuo corpo godrà della lunga vita! Veglia sul tuo intimo, chiuditi all'esterno: sapere molte cose è nocivo.
Tchouang-tzu, in M. Granet, Il pensiero cinese, trad. it. di G. Cardona, Adelphi, Milano 1987, p. 388
Il principio etico supremo del wu wei non implica la passività, in quanto il saggio taoista, attraverso la meditazione, la concentrazione e le
pratiche esoteriche, riesce a fondere il proprio principio vitale con quello dell'universo, potenziandolo e arrivando perfino a
prolungare la propria vita. Quest'ultimo aspetto è centrale nella dottrina taoista, la quale, diffondendosi in ampi strati della popolazione, ha
assimilato molti aspetti dell'antica tradizione sciamanica (la religione di origine siberiana in cui i profeti-sacerdoti, raggiungendo uno
stato di trance, potevano entrare in contatto con l'aldilà), riprendendone alcune pratiche dietetiche, ginniche, sessuali, alchemiche e
meditative volte, appunto, alla ricerca dell'immortalità. A queste pratiche è connessa la credenza negli "Immortali", i saggi della tradizione
che, riuscendo a vincere la morte, hanno assunto il ruolo di divinità nel pàntheon taoista, accanto alle varie personificazioni del Tao che
popolano l'iconografia cinese.
La fisica e l'etica taoista
L'uomo attraverso la meditazione deve ricongiungersi all'essenza cosmica e, in tal modo, ritrovare se stesso. Ma qual è la concezione
dell'universo propria del taoismo? La principale caratteristica dell'universo taoista è il movimento ciclico, in virtù del quale ogni
fenomeno fluisce incessantemente con un ritmo composto di andata e ritorno. Il sole, la luna, le stagioni, il clima, nel loro continuo
avvicendarsi, sono per i taoisti la regola e il modello del perenne divenire delle cose: «Allontanarsi - dice Lao-tzu - significa tornare». Nel
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Tao-te-ching si legge:
[...] l'essere e il non essere si generano a vicenda. Il difficile e il facile si completano a vicenda. Il lungo e il corto si caratterizzano
a vicenda. L'alto e il basso si spiegano a vicenda. Il suono e la voce si armonizzano a vicenda. Il prima e il dopo si seguono a
vicenda.
Tao-te-ching, II, in P. Beonio Brocchieri, La filosofia cinese e dell'Asia orientale, cit., p. 60
Ognuna di tali polarità e contraddizioni interne all'essere è riferibile ai principi dello yin e dello yang, il femminile e il maschile, che
costituiscono, nella loro necessaria alternanza, la "via" propria del Tao: essa è la regola che governa l'eterno trasformarsi degli enti, che
presiede e garantisce l'ordine cosmico e a cui l'uomo deve adeguarsi assecondando la propria natura più profonda.
Tale concezione dell'universo viene spesso messa in relazione con alcune affermazioni presenti nei frammenti di Eraclito di Efeso; in
effetti, la convergenza tra le due visioni del mondo appare sorprendente. Noi qui ci limitiamo a sottolineare due analogie significative:
a) l'affermazione secondo cui "tutto scorre" nell'universo: Eraclito diceva che non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume;
b) l'interpretazione del movimento come alternarsi ciclico di opposti: «La strada all'in su e quella all'in giù è una sola e la medesima»,
diceva Eraclito; Lao-tzu analogamente osservava: «Il difficile e il facile si completano a vicenda».
Un concetto-chiave del Taoismo è quello della trasformazione e del mutamento di tutte le cose. Esso si collega all'idea (fondamentale
per il pensiero cinese) dell'opposizione e della complementarità di Yin e Yang. Alcuni ritengono che proprio per questa preferenza a
favore del contemperamento, della complementarità, il pensiero cinese tenda a non sposar mai le posizioni estreme.
Difatti, il saggio taoista si sforza di mantenere un equilibrio dinamico tra il bene e il male, consapevole del fatto che entrambi sono
presenti nella natura umana e che nessuno dei due può essere ignorato, cancellato o rimosso.
La polarità dello Yin e dello Yang si ritrova ovunque, in quanto tutta la realtà si svolge mediante questo processo vitale: si tratta, cioè,
di una tendenza che si trova per natura nelle cose e nelle situazioni e che va assecondata, semplicemente non creando ostacoli alla natura,
non contrastandola (wu-wei, cioè non-azione): "Non agendo non c'è niente che non si faccia"; "somma cosa è non sapere di sapere".
Nella combinazione e nell'interazione di Yin e Yang come forze polari fondamentali, Taoismo e Confucianesimo troveranno in seguito
un punto di convergenza.
Inizialmente, invece, era prevalsa la contrapposizione. Ad esempio, nel motto taoista "Non agire" vi era anche un intento
anticonfuciano: significava meno leggi, meno prescrizioni, meno rituali e convenzioni.
NON AGIRE
Quei che volendo tenere il mondo
lo governa,
a mio parere non vi riuscirà giammai.
Il mondo è un vaso sovrannaturale
che non si può governare:
chi governa lo corrompe,
chi dirige lo svia,
poiché tra le creature
taluna precede ed altra segue,
taluna è calda ed altra è fredda,
taluna è forte ed altra è debole,
taluna è tranquilla ed altra è pericolosa.
Per questo il santo
rifugge dall'eccesso,
rifugge dallo sperpero,
rifugge dal fasto.
Tao Te Ching, XXIX
Invece la via taoistica afferma: "Lascia che gli uomini siano come sono", lascia che la natura sia qual è. Altrimenti, se l'uomo si distacca
dalla natura, si producono dei mali, in quanto viene meno l'armonia tra uomo e natura. Le sofferenze, infatti, sono determinate da intralci
che la cultura ha frapposto alla natura. Si tratta quindi di condurre uno stile di vita che non mortifichi, con l'ascetismo, le nostre tendenze
essenziali e sia naturale, libero, rapportato alla semplicità e spontaneità della natura, in noi come fuori di noi.
I Taoisti propongono dunque il ritorno alla natura e l'unità di uomo e natura, obiettivo che l'individuo può conseguire misticamente
nella solitudine, nel silenzio e nel 'non agire', fino a realizzare l'armonia con il Tao.
Un altro aspetto del taoismo che deve essere sottolineato è la considerazione negativa della vita sociale e la disapprovazione del
formalismo esteriore e rituale tanto apprezzati, invece, dal confucianesimo. Per i taoisti il modello ideale è rappresentato dalla vita
monastica, condotta nell'isolamento e nella concentrazione, condizioni che consentono la pratica del wu wei e il raccoglimento interiore
indispensabile per scoprire e seguire la via del Tao.
Notevoli sono i risvolti etici della concezione taoista dell'universo come perenne fluire: essa comporta una visione matura e distaccata
degli eventi, in quanto ogni momento di dolore o di difficoltà può essere superato in considerazione del fatto che tutto è destinato a finire
e a tramutarsi nel suo opposto. Ne deriva un profondo senso dell'equilibrio e della giusta misura, che caratterizza tutto il pensiero
cinese; come dice Lao-tzu: «Il Santo rifugge dall'eccesso, dallo sperpero, dallo sfarzo», perché sa che, quanto più si accumulano ricchezze
e beni, tanto più si potranno subire perdite e ricadere nella povertà. Anche l'atteggiamento del wu wei sul piano etico si traduce in
comportamenti moderati: le virtù che ne derivano sono la modestia, l'altruismo, l'umiltà, la mitezza, la tolleranza e l'amore, qualità
proprie del saggio che ha compreso la grande affinità degli esseri all'interno dell'unità indifferenziata del Tao e che ha saputo sintonizzare
il proprio sentire con la legge universale.
La medicina e la cura del corpo
La concezione del Tao non ha solo un carattere teorico, ma presenta anche importanti risvolti pratici e concreti. Scopo principale del
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saggio taoista, infatti, è raggiungere la pace interiore e spirituale, ma anche garantirsi la salute del corpo che ne costituisce la condizione
fondamentale. Per questo motivo, oltre alle pratiche esoteriche volte al perseguimento dell'immortalità, riveste un ruolo particolarmente
importante la medicina intesa come strumento di purificazione.
Il cardine su cui si regge la medicina taoista è l'idea che occorra ricondurre l'organismo alla natura e al suo originario equilibrio biologico,
eliminando le tensioni e le disarmonie derivanti dalla cultura. Il medico deve conoscere in che cosa consiste la salute dei suoi pazienti e
operare per la sua conservazione più che correre ai ripari nel caso essa risulti compromessa. Per far capire la grande differenza che
sussiste tra la medicina taoista e quella occidentale, possiamo dire che se in Occidente un bravo medico è quello che ha più pazienti - cioè
ha un gran numero di malati che ricorrono a lui per la prescrizione di farmaci adatti a interrompere i processi patologici di cui sono affetti
-, in Oriente il medico migliore è colui che non ha pazienti, o che ne ha il meno possibile, in quanto, con la prevenzione, è riuscito a
preservare il loro stato di salute.
Per la medicina taoista il corpo è armonia di yin (l'interno) e yang (l'esterno) e i suoi organi appartengono all'uno o all'altro principio. Tra
essi scorre un flusso continuo di energia vitale e la salute consiste nel meraviglioso equilibrio che si crea tra le varie componenti
dell'organismo e tra l'organismo e l'ambiente in cui vive. Quando l'armonia si infrange per qualche motivo, sopraggiunge la malattia, che ì
cinesi curano inserendo degli aghi nei punti considerati cruciali dalla tradizione dell'agopuntura, al fine di riattivare lo scorrere della
forza vitale.
Anche la dieta prevista dalla dottrina taoista tende a far assumere al corpo una dose equilibrata di alimenti contenenti i due principi yin e
yang, sempre in conformità con il ciclo naturale delle stagioni dell'anno. La dieta taoista non prescrive né il digiuno né l'eccessivo
sacrificio; essa invita, piuttosto, a gustare l'essenza delle cose, sapendo alternare in uno stesso pasto alimenti che presentano i principi
opposti della vita. A tal proposito è utile sapere che i cibi di origine animale (carne e formaggi) sono considerati yang, in quanto gli
animali sono dotati di movimento. Fra gli ammali, inoltre, i volatili sono più yang degli animali terricoli e questi sono più yang dei pesci.
Lo zucchero e lo yogurt sono yin. I cereali e la frutta sono gli alimenti più bilanciati.
La dietetica cinese studia in dettaglio i cibi, considerandone diverse caratteristiche. Vengono presi in considerazione principalmente i
sapori e gli odori, la forma, la consistenza, la "natura" (intesa come l'effetto termico che il cibo produce quando è ingerito) e il
"movimento" (cioè la direzione che il cibo fa prendere all'energia che scorre nel nostro corpo). Ognuna di queste caratteristiche può essere
definita in base alla teoria yin e yang. Ad esempio, l'odore è più immediato e volatile, più sottile rispetto al sapore, quindi più yang. Il
sapore, a sua volta, è più yang della forma, legata alla consistenza fisica (yin) del cibo. In breve, secondo questa teoria, assumendo ogni
giorno in giuste proporzioni i cibi che fanno parte dei due grandi gruppi, in possesso di principi contrari ma complementari, si può
raggiungere uno stato di equilibrio psicofisico. Tale dieta si propone, infine, di limitare, se non addirittura di abolire, gli alimenti di
provenienza industriale, privilegiando i cibi naturali, freschi e integrali.
Come conclusione della trattazione del taoismo possiamo fare riferimento a un'immagine comune nell'iconografia cinese, quella del
"tronco grezzo" - cioè il tronco di un albero secolare, tortuoso e privo di fronde -, che esprime in modo esemplare l'ideale di sobrietà ed
essenzialità che impronta questa nobile tradizione religiosa: esso è il simbolo della difficile arte del Tao, che comporta l'abbandono del
superfluo e il tentativo di far emergere ciò che è "antico" e "originario"; un'arte che non si può né concettualizzare né descrivere a parole,
essendo affidata al silenzio dell'esperienza mistica.
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