Guida Breve della mostra 1861 I Pittori del

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6 ottobre 2010
16 gennaio 2011
Gerolamo Induno.
La partenza dei coscritti nel 1866, (1878) - Milano, Museo del Risorgimento (deposito, Soprintendenza per i Beni Architettonici e del Paesaggio)
Foto Saporetti, Milano
1861
I pittori del Risorgimento
mostra a cura di Fernando Mazzocca e Carlo Sisi
con la collaborazione di Anna Villari
Dopo la premessa ideologica e rivoluzionaria del biennio
1848-1849 e dopo un decennio – detto di preparazione
– denso di eventi, è tra il 1859 e il 1861, con la Seconda
guerra di indipendenza, la spedizione dei Mille, ideata e
guidata da Giuseppe Garibaldi, e le complesse operazioni
diplomatiche del conte di Cavour, che si compie l’antico
sogno dell’Unità d’Italia. Era un sogno che, da Dante in poi,
aveva accompagnato il pensiero politico italiano – si pensi,
nel Cinquecento, agli scritti di Niccolò Machiavelli e Francesco
Guicciardini – fino alla rivoluzione francese e all’arrivo di
Napoleone in Italia. Con Bonaparte si infiammarono, infatti,
le coscienze e il patriottismo di moltissimi italiani del Nord e
del Sud ed emersero i concetti di nazione italiana e della sua
unità. Il significato ideale dell’Italia unita si arricchì nel corso
dell’Ottocento con il desiderio di libertà politiche e civili e di
indipendenza dallo straniero.
Sono questi i valori che prenderanno il nome di Risorgimento.
Quei due anni così decisivi vennero vissuti e rievocati nel
nome dell’arte da grandi pittori e patrioti, come il macchiaiolo
toscano Giovanni Fattori, il lombardo Gerolamo Induno e
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il piemontese Eleuterio Pagliano, che nell’estate del 1849
avevano partecipato, seguendo Garibaldi, alla difesa della
Repubblica romana. Con i loro dipinti di grandi dimensioni –
qui esposti al primo piano – nasceva, come già era avvenuto
nella Francia napoleonica, anche un nuovo genere di pittura,
quella di soggetto militare. In queste opere, rivoluzionarie
anche dal punto di vista formale e volutamente prive di ogni
retorica, i protagonisti sono i soldati e i volontari, consapevoli di
combattere per un’Italia nuova e pronti a morire per essa.
Al secondo piano, i dipinti di Francesco Hayez e Gerolamo
Induno dedicati al 1848-1849, sono la premessa per
introdurre una serie di quadri di medio e piccolo formato dove,
con altre scelte iconografiche e su un registro narrativo diverso,
più intimo e raccolto, si riflettono le speranze, i sentimenti, le
aspettative di quegli anni: il deludente armistizio di Villafranca
che lasciava Venezia all’Austria, la spedizione dei Mille, il
“tradimento” di Aspromonte. La mostra si chiude con due
drammatici capolavori di Fattori, a ricordare l’estremo e terribile
sacrificio offerto all’Italia da tanti, anonimi eroi.
Oh mia patria sì bella e perduta!
Il popolo e i suoi eroi
Gli abitanti di Parga che abbandonano la loro patria (18261831) di Francesco Hayez, esposto per la prima volta a
Milano nel 1831, ricorda un episodio della guerra combattuta
dai greci contro i turchi per la conquista dell’indipendenza
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nazionale. Il destino del popolo greco, che doveva
abbandonare la propria città invasa dall’esercito nemico ed
imbarcarsi per l’esilio, colpì molto l’opinione pubblica europea
e Hayez lo rappresentò pensando alle vicende dell’Italia divisa
e oppressa dal dominio straniero, nel sogno della libertà e
dell’unità. Il dipinto venne interpretato nella sua dimensione
patriottica da Giuseppe Mazzini che parlò di “popolo” come
protagonista della storia.
Questa vicenda poteva paragonarsi anche a quella degli ebrei
costretti ad abbandonare la patria occupata dall’esercito
babilonese, immortalata nel 1842 dal giovane Giuseppe Verdi
nel celebre coro del Nabucco, “Va pensiero sull’ali dorate”,
divenuto una sorta di inno patriottico.
Anche il Masaniello che chiama il popolo alla rivolta di
Alessandro Puttinati e lo Spartaco di Vincenzo Vela, due tra le
sculture più celebri del secolo, ideate e modellate entrambe
nel 1846, hanno prefigurato le lotte del Risorgimento. Si tratta
dei protagonisti - lo schiavo ribelle dell’antichità e il pescatore
napoletano del Seicento - di due rivolte popolari armate,
prese a modello nell’Ottocento per il loro valore simbolico. La
popolarità di queste due sculture monumentali, ispirate non
più al bello ideale classico ma al naturalismo di Bernini, è
confermata dal fatto che loro copie in piccolo formato erano
presenti in molte case italiane.
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L’epopea delle battaglie.
Dalla Crimea alla Seconda guerra di indipendenza
La nascita di un nuovo genere artistico, quello della pittura
militare relativa alla rappresentazione della storia moderna,
si deve a un pittore soldato, Gerolamo Induno, chiamato nel
1855 a partecipare alla spedizione in Crimea, dove l’esercito
piemontese combatté a fianco dell’Impero ottomano, della
Francia e dell’Inghilterra contro la Russia zarista. Si trattò
per Induno di un’importante occasione di incontro con altri
pittori di battaglie europei, come il celebre Horace Vernet, tutti
impegnati a documentare in pittura uno dei più sanguinosi
conflitti dell’epoca.
Tornato a Milano con appunti e disegni presi sul campo
di battaglia, Induno eseguì una serie di dipinti di diverso
formato, di cui il principale è il monumentale Battaglia della
Cernaja (1857), che venne in seguito acquistato dal re Vittorio
Emanuele II. L’originalità dell’opera è nella scelta del pittore
di collocare in primo piano non gli ufficiali ma gli umili soldati
– tra cui è anche un ferito – rendendoli per la prima volta i
protagonisti della storia.
Un simile, innovativo, punto di vista sarà utilizzato ancora da
Induno, quando rappresenterà le più celebri battaglie della
Seconda guerra di indipendenza, come La presa di Palestro
del 30 maggio 1859 (1860) e La battaglia di Magenta
(1861), e da Giovanni Fattori, nella originalissima invenzione
compositiva dell’Assalto a Madonna della Scoperta (eseguito
tra il 1864 e il 1868), dedicato a un momento della battaglia
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di San Martino del 24 giugno 1859, scontro decisivo della
campagna dell’esercito franco-piemontese contro l’Austria.
L’epopea delle battaglie.
Dalla Seconda guerra di indipendenza
alla breccia di Porta Pia
La Seconda guerra di indipendenza del 1859 vide anche
la partecipazione dei volontari, i Cacciatori delle Alpi riuniti
intorno alla figura carismatica di Giuseppe Garibaldi. Questi
sono rappresentati, quasi uno per uno, nel corale dipinto di
Eleuterio Pagliano, Il passaggio del Ticino a Sesto Calende
dei Cacciatori delle Alpi il 23 maggio 1859 (1865), dove
il generale Garibaldi assiste assorto al varcare il fiume che
rappresentava allora il confine tra Piemonte e Lombardia.
L’opera colpisce per il suo taglio “fotografico”, che si ritrova
anche nella Battaglia di Varese (1862) del pavese Federico
Faruffini. Questo dipinto, realizzato con una tecnica assai
diversa da quella di Pagliano, mostra i Cacciatori delle Alpi
impegnati nello scontro con gli austriaci, e il momento della
morte di Ernesto Cairoli, rappresentato sulla destra in primo
piano. Fu per disposizione testamentaria di Ernesto che il
suo amico Faruffini eseguì la sua unica opera di soggetto
militare. Il motivo compositivo del quadro – l’impressionante
avanzare verso lo spettatore dei soldati con le baionette
sguainate – domina anche uno dei più celebri capolavori
del Risorgimento, la grande tela del napoletano Michele
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Cammarano eseguita ad appena un anno di distanza dai
fatti, che rappresenta I bersaglieri alla presa di Porta Pia. Alla
forza dinamica di questa immagine si contrappone un altro
dipinto di Cammarano dedicato all’entrata dell’esercito italiano
a Roma, I bersaglieri (19 settembre 1870), di molti anni
successivo (1915). La composizione è statica, dominata in
primo piano dagli equipaggiamenti poggiati al suolo come una
sorta di singolare natura morta, mentre all’orizzonte si distingue
chiaramente il profilo di San Pietro: la Città Eterna sta per
essere finalmente unificata al Regno d’Italia.
1848-1849.
Oh giornate del nostro riscatto!
Il 1848, che segnò in tutta Europa un momento di “risveglio”
politico e civile, diede inizio in Italia alla lotta armata contro la
dominazione straniera. Gli episodi più significativi furono nel
marzo le Cinque giornate di Milano, la proclamazione della
Repubblica di San Marco a Venezia e la nascita a Roma della
Repubblica, guidata da Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo
Armellini e difesa contro i francesi da Garibaldi, dallo stesso
popolo romano e da volontari giunti da tutta Italia, tra cui i
pittori soldati Gerolamo Induno e Eleuterio Pagliano.
Le gloriose giornate milanesi, che sembravano far rivivere lo
spirito di quelle del “nostro riscatto” cantate da Alessandro
Manzoni nel poema Marzo 1821, furono rappresentate in
pittura da opere molto diverse. In un coevo dipinto anonimo
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vediamo una famiglia abbandonare la città tornata in mano
degli austriaci, portando in salvo il tricolore. Nella intensa
Meditazione di Francesco Hayez (1851), intitolata anche
L’Italia nel 1848, uno dei capolavori del nostro Ottocento, la
patria assume le sembianze di una giovane donna col seno
scoperto - quindi di una madre che allatta i suoi figli – che
tiene tra le mani un volume con la scritta “Storia d’Italia” e una
croce del martirio sulla quale spiccano in rosso le date delle
Cinque giornate (“18.19.20.21.22 marzo / 1848”).
Rispetto a queste due testimonianze dirette degli eventi, il
dipinto di Napoleone Nani, Daniele Manin e Nicolò Tommaseo
liberati dal carcere e portati in trionfo in Piazza San Marco,
è una celebrazione postuma (1876) della partecipazione
popolare che fece sì che la Repubblica di San Marco durasse
più a lungo di tutte le altre esperienze rivoluzionarie del biennio
1848-1849.
Il confronto tra due ritratti, quello realizzato da Giuseppe
Molteni alla piccola Anna, figlia del Marchese Giorgio Guido
Pallavicino Trivulzio, amico e sostenitore di Garibaldi e
protagonista delle Cinque giornate, e quello di un’anonima
bambina di Trastevere uccisa durante i bombardamenti
francesi di Roma nel giugno 1849, testimonia anche che a
partecipare agli ideali rivoluzionari del 1848 furono le diverse
classi sociali: aristocratici, borghesi, popolo.
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Garibaldi e le camicie rosse:
il 1859, l’impresa dei Mille
La partecipazione popolare agli ideali e alle lotte del
Risorgimento è stata variamente interpretata dai pittori, in
opere per lo più di piccolo formato che consentivano di
rappresentare con immediatezza i risvolti umani legati alle
vicende storiche. Si tratta spesso di dipinti di interni, come
quelli del macchiaiolo Odoardo Borrani (Il 26 aprile 1859, del
1861) o di Gerolamo Induno (La lettera dal campo, del 1859,
Il racconto del ferito, del 1866), dove i riflessi delle grandi
battaglie o delle lotte politiche sono vissuti “dietro le quinte”,
nel tessuto umile della vita di tutti i giorni.
Anche l’epopea garibaldina, che del Risorgimento “popolare” è
stata la massima espressione, non ha assunto toni celebrativi,
come dimostra il ritratto di Garibaldi in camicia rossa, eseguito
un anno dopo la spedizione dei Mille dal macchiaiolo e
patriota Silvestro Lega, o L’imbarco a Genova del generale
Giuseppe Garibaldi, dove Induno registra in maniera del tutto
informale e coralmente affettuosa l’inizio – il 4 maggio 1860 –
della clamorosa impresa dei Mille.
Le battaglie combattute in Sicilia non hanno lasciato
pressoché traccia in pittura, se non nel capolavoro di Giovanni
Fattori, Garibaldi a Palermo (1860-1862), che ha ispirato una
scena del film Il Gattopardo di Luchino Visconti.
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Garibaldi e le camicie rosse: Aspromonte
Una testimonianza di particolare intensità, anche per le
grandi dimensioni dell’opera, è rappresentata dalla Sepoltura
garibaldina (un episodio del bombardamento di Palermo
del 1860) (1862-1864) del siciliano Filippo Liardo: il pianto
di due donne davanti alla bara di un garibaldino, ricorda il
sacrificio dei tanti che morirono in nome del sogno unitario, e
che continueranno anche in tarda età a riconoscersi in quegli
ideali, come testimonia – e siamo già alla fine del secolo - il
commovente Camicie rosse (1898) di Umberto Coromaldi.
Il loro sogno venne in parte infranto nel grave episodio di
Aspromonte del 29 agosto 1862, quando Garibaldi, diretto
a Roma con l’intenzione di liberarla dal potere temporale del
Papa, venne fermato e ferito dai soldati italiani per ordine del
primo ministro Urbano Rattazzi, in uno scontro che indignò
l’opinione pubblica del mondo intero. Gerolamo Induno, che
partecipò a quell’evento, ce ne ha lasciato una memoria
precisa in un grande dipinto dove appaiono, identificati uno
per uno, i protagonisti, noti e anonimi, di quella triste giornata.
Questo sentimento di accorata partecipazione si riflette in
un altro dipinto di Induno, Ascoltando la notizia del giorno
(1864), dove vediamo un gruppo di donne intente a leggere
il bollettino che riporta i fatti di Aspromonte. Gli abiti ciociari
indossati da una di esse alludono a Roma, il cui profilo
compare in lontananza, oltre la finestra, quasi come il miraggio
di un sogno non ancora raggiunto.
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La delusione di Villafranca
Il 14 luglio 1859 veniva diffusa a Milano la notizia di un
accordo stipulato a Villafranca, in provincia di Verona, tra
l’imperatore di Francia Napoleone III e l’imperatore austriaco
Francesco Giuseppe, il cui esercito era stato sconfitto nelle
sanguinose battaglie di Magenta, Solferino e San Martino.
L’armistizio, che ricordava un altro “tradimento”, quello di
Campoformio del 1797, quando Napoleone aveva “venduto”
Venezia all’Austria, prevedeva la sospensione del conflitto e
la rinuncia alla liberazione e all’annessione del Veneto alla
futura Italia unita. Questa vicenda provocò una forte delusione
soprattutto a Milano, la città che, ormai liberata, aveva
festeggiato le vittorie con una grande festa durante la quale lo
scoppio di bengala bianchi, rossi e verdi avevano illuminato a
giorno la grandiosa mole del duomo, come testimonia
l’affascinante veduta di Luigi Medici (Il duomo illuminato al
bengala, 1859).
Il dolore per la rinuncia a Venezia venne ricordato nel 1862 da
Domenico Induno, fratello maggiore di Gerolamo, in uno dei
dipinti più popolari del nostro Risorgimento, il Bullettino del
giorno 14 luglio 1859 che annunziava la pace di Villafranca,
eseguito per il re Vittorio Emanuele II e collocato in Palazzo
Reale a Milano.
Un anno prima, alla stessa esposizione di Brera alla quale
venne poi esposto il dipinto di Induno, era stato presentato
Venezia che spera, di Andrea Appiani, nipote del famoso
maestro neoclassico che era stato pittore di corte di
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Napoleone. La città rimasta sotto il dominio austriaco
e che sarà liberata solo nel 1866 con la Terza guerra di
indipendenza, è personificata in una giovane donna dallo
sguardo rivolto verso una meta lontana, e accompagnata dai
simboli della Serenissima: il leone di San Marco, l’ermellino, il
corno del doge, rovesciato ai suoi piedi in primo piano. Sembra
che Appiani, che fu il più fedele tra gli allievi di Hayez, abbia
utilizzato la stessa modella che compare nella Meditazione del
maestro, e simile è l’atmosfera di intensa partecipazione.
Il sacrificio e la gloria
La conclusione del percorso unitario con la Terza guerra di
indipendenza, che liberava il Veneto e lo annetteva all’Italia,
venne ricordata con la commissione a Gerolamo Induno di
un dipinto destinato al Palazzo Reale di Milano, raffigurante la
Partenza dei coscritti nel 1866 (1878), il cui tema è l’addio
alle famiglie dei soldati chiamati alle armi, benedetti dal
parroco di un paese di campagna, alla presenza di tutta la
collettività.
Ne I fratelli sono al campo. Ricordo di Venezia, un protagonista
della pittura lombarda di quegli anni, Mosé Bianchi, descriveva
nel 1869 le silenziose preghiere di tre donne veneziane,
in attesa del ritorno dei loro congiunti. Un punto di vista
altrettanto intimo è quello scelto dal pittore siciliano Giuseppe
Sciuti per ricordare in Le gioie della buona mamma (1877)
– e in uno spirito che ricorda due importanti testi educativi di
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quegli anni, il Bel Paese dell’abate Antonio Stoppani (1876)
e Cuore di Edmondo De Amicis (1886) – il completamento
dell’Unità d’Italia avvenuto nel 1870: una madre che allatta
segue affettuosa con lo sguardo il figlioletto più grande
indicare sulla carta geografica Roma ormai divenuta capitale
del Regno.
Dopo il 1870 intellettuali, scrittori e pittori cominciano a
riflettere anche sul prezzo pagato – in termini di vite umane,
di dolore e di delusioni – per la realizzazione degli ideali
risorgimentali. Due quadri, la cui forza di denuncia è stata
paragonata a quella delle incisioni di Goya dedicate ai Disastri
della guerra, Lo staffato e Lo scoppio del cassone di Giovanni
Fattori, entrambi del 1880, testimoniano il dramma di tanti
anonimi sacrifici.
A placare nel ricordo le tensioni e le tragedie di quei decenni,
sarà infine la morte dei Padri della Patria: Mazzini (1872),
Garibaldi (1882), e Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia,
morto nel 1878, la cui scomparsa è rivissuta nel dipinto
del fiorentino Odoardo Borrani, La Veglia (Il bollettino del
9 gennaio 1878) (1880). In un scuro interno borghese
rischiarato da una luce caravaggesca, tre donne di tre diverse
età, apprendono la notizia che segnerà la fine di un’epoca.
Fernando Mazzocca e Anna Villari
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Sotto l’Alto Patronato del
Presidente della Repubblica
con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali
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