- Fondazione Brigata Maiella

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ISSN 0031-3130
Patria
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Periodico dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
Al voto
al voto
La grande corsa
ANNO LXII GENNAIO
2013 [3 EURO]
N 1/2013 | POSTE ITALIANE SPA SPEDIZIONE IN A.P. D.L.
353/03 (CONV. 46/04) ART. 1, COMMA 1 DCB FILIALE DI ROMA
Sommario
Patria Indipendente
Editore
Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
(A.N.P.I.)
Sede legale
Via degli Scipioni, 271 - 00192 Roma
Direttore editoriale
Carlo Smuraglia
Editoriale
Monti si fa il partito. Pd e Pdl rifanno i conti di Bruno Miserendino.......2
Primo Piano
Direttore responsabile
Wladimiro Settimelli
Camusso: «Se non si riparte dal lavoro l’anno nuovo sarà terribile»
di Natalia Marino.........................................................................................5
Comitato di Redazione
Fulvia Alidori, Umberto Carpi, Enzo Fimiani,
Andrea Liparoto, Diego Novelli,
Marisa Ombra, Gianfranco Pagliarulo
Interviste
Segretaria di redazione
Gabriella Cerulli
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Per i parenti delle vittime delle stragi naziste dalle carte ancora dolore.
Parla l’avvocato di parte civile Andrea Speranzoni di Toni Rovatti....8
Attualità
ANPI: in 150 piazze italiane la giornata del tesseramento
di Andrea Liparoto.......................................................................................12
3URÀOL
Joyce Lussu, la partigiana cittadina del mondo di Maurizio Orrù...14
Tra memoria e storia
Ada e Carlo Venegoni sposi tra carcere e confino di Dario Venegoni..16
1943 nel cuore di Roma. Ricercati, militari ed ebrei rifugiati
dietro il rosone della chiesa di Mauro De Vincentiis.........................21
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dati personali).
Sparisce «Belfagor» e la cultura è ancora più povera di Umberto Carpi..20
Itinerari della Resistenza
Ricordando il medico-partigiano Felice Cascione. Tra quei sentieri
nacque “Fischia il vento” di Roberto Moriani..........................................24
Cinema islamico: i giovani vogliono cambiare di Serena D’Arbela..27
%LEOLRWHFD............................................................................................ 29
&URQDFKH.................................................................................................34
Dai nostri lettori.......................................................................................38
6XOÀORGHOUDVRLR......................................................................................40
Al centro della rivista:
il testo integrale del «RAPPORTO della Commissione storica
italo-tedesca insediata dai Ministri degli Affari Esteri della
Repubblica Italiana e della Repubblica Federale di Germania
il 28 marzo 2009» sulle stragi nazifasciste in Italia e sugli
Internati Militari Italiani (IMI) in Germania.
La testata fruisce dei contributi statali diretti
di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 250.
Stampa
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Via Vaccareccia 57, 00040 Pomezia-Roma
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Iscritto all’Unione Stampa Periodica
Italiana
Questo numero è stato chiuso il 04/01/2013
Le elezioni sono ormai alle porte e la situazione politica del
Paese è in pieno sommovimento. Ne parla ampiamente,
nell’editoriale, il nostro Bruno Miserendino.
Per questo abbiamo scelto una COPERTINA simbolica
che presenta la battaglia politico-elettorale come una
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Editoriale
IL MOMENTO POLITICO A DUE PASSI DALLE ELEZIONI
Monti si fa il partito
Pd e Pdl rifanno i conti
Il professore è in campo e attrae consensi. Rischia di rifare una piccola
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di Bruno Miserendino
P
ochi soldi da spendere, poche
certezze. È stato un Natale povero. Non che gli italiani si
aspettassero granché, ma a volte un
po’ di speranza sul futuro aiuta. Invece, a feste finite, nonostante gli incoraggiamenti di rito, le uniche cose
chiare su questo inizio di 2013 sono
due: la prima è che la crisi morderà
ancora per diversi mesi, la seconda è
che il 24 febbraio si vota. Unica consolazione: la campagna elettorale sarà
breve. Il resto, politicamente parlando, è ancora confuso. L’incertezza è
aumentata col tormentone natalizio
che ha visto il professor Monti travestirsi da Amleto. Scende in campo,
non scende. Si candida, non si candida. Fa una lista, non la fa. Ha dei
dubbi, non vuole dispiacere a Napolitano che lo vuole super partes. È
passato Natale, e il professore ha lasciato volutamente un margine di
ambiguità. Vuole scendere, anzi “salire in politica”, ma sul come sta ancora decidendo. Ogni giorno, però,
fa un passetto avanti e se i segnali
lanciati negli ultimi giorni del 2012
sono veri, dietro la formula asettica
dell’agenda di impegni e di riforme
per l’Italia e l’Europa, lanciata a Natale, si intravede la nascita di un vero
e proprio partito Monti. In cui confluiscono per ora i centristi di Casini,
Fini, Montezemolo più i ministri
Passera e Riccardi. Il dado, dunque,
è tratto, Monti è in campo e già questo è un terremoto con cui tutti i
contendenti devono fare i conti. Gli
effetti di questo ingresso nell’agone
politico non si misurano facilmente.
I sondaggi all’inizio premiano sempre le novità, poi si assestano. Però
potenzialmente un listone Monti
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
può prendere un 20% dei voti. Una
piccola Dc. Il professore attrae consensi trasversali, come si vede dalla
piccola migrazione di parlamentari
di entrambi gli schieramenti pronti a
salire sul suo carro. E attrae elettori
di centrosinistra e centrodestra perché presso l’opinione pubblica può
far valere ancora, nonostante stangate e tasse, la sua figura di tecnico autorevole che ha salvato l’Italia dal
baratro. Vuole “rinnovare la politica”, dice. E questo piace. In più ha
l’appoggio della Chiesa e delle can-
cellerie europee. Il partito Monti va,
ma questo pacchetto di consensi e
appoggi autorevoli non gli garantisce
automaticamente il ritorno a palazzo
Chigi. Adesso tocca ai cittadini scegliere e poi ai partiti e lui sa che potrebbe essere premier solo se lo volesse anche il Pd. E infatti il suo scenario
ideale l’ha spiegato bene nella conferenza di fine anno. Gli piacerebbe
tornare a palazzo Chigi come capo
di una vasta coalizione che comprenda il Pd e il variegato centro, più i
transfughi moderati del Pdl, che
Da sinistra, Angelino Alfano, Pier Luigi Bersani e Pier
2
Editoriale
escluda tutti i populisti antieuropeisti, da Berlusconi, alla Lega a Grillo.
Ed escluda, possibilmente, anche
Vendola. Poiché sa che il centrosinistra ha già un suo programma e un
candidato premier che se vince non
può farsi da parte per un accordo di
palazzo, perché vorrebbe dire prendere in giro i tre milioni di cittadini
che hanno votato alle primarie,
Monti deve tenere un profilo alto,
non da semplice capo partito, per
tenersi aperti anche altri ruoli e altre
strade. Del resto, come si sa, per lui
si parla di Quirinale.
arebbe ingeneroso, però, ridurre tutto a fumisterie democristiane. Il professore, anche se
non è chiaro come farà il suo listone,
qualcosa di forte l’ha detto. Ha disegnato un nuovo bipolarismo. Ha criticato la sinistra radicale, e la Cgil,
bollandoli come “conservatori”, soprattutto ha spiegato bene agli italiani, che stentano ancora a capirlo, perché Berlusconi non può rappresentare
i cosiddetti moderati. È assurdo che se
ne parli ancora, dopo 20 anni, e dopo
un tramonto infinito, ma il Cavaliere
S
Ferdinando Casini
è lì. Con le solite promesse, con l’invasione televisiva, con le invettive contro
il complotto planetario che vuole affossarlo. Uno spettacolo triste che
continua a far male all’Italia. Monti
ha spiegato che il bipolarismo europeo è necessariamente fatto da un
centrodestra liberale e costituzionale,
e da un centrosinistra riformatore.
Non c’è spazio per demagoghi e populisti, se il continente vuole un futuro. Il professore ha spiegato che all’estero Berlusconi ha incassato solo
sorrisetti di commiserazione. Ha detto che è un irresponsabile a promettere l’abolizione dell’Imu, “perché chi
venisse un anno dopo, dovrebbe raddoppiarla”. Ha concluso affermando
che le sue giravolte sono state tali e
tante da risultare “mentalmente incomprensibili”. Ovvio che per Berlusconi, che prima l’ha affossato e poi
ha fatto finta di volerlo come capo
dei cosiddetti moderati, Monti è diventato l’uomo nero, il killer mandato dalle cancellerie europee, un traditore al pari di Casini e Fini che lui
vede bene come ministro delle fogne.
La rottura è definitiva. E pesa.
el resto Berlusconi non pensa
di vincere. Conta di raggiungere il 23-25% dei voti, riprendendosi un po’ del suo vecchio
elettorato disperso tra astensionismo e
Grillo, per poi rifare l’alleanza con la
Lega. Come nel 2006, quando volle il
porcellum, l’obiettivo è rendere ingovernabile la possibile vittoria del centrosinistra. Perché in parlamento, anche con l’ingresso di Grillo, si
formerebbe comunque una grande
minoranza antisistema che avrebbe
un filo comune: la guerra all’Europa,
all’euro, alle banche, alle istituzioni
ingessate che bloccano la crescita, in
nome di meno tasse e meno vincoli. E
naturalmente meno Costituzione.
Berlusconi si intesterebbe la leadeship
virtuale di questo vasto schieramento
e potrebbe ritirarsi sentendosi vincitore, anche senza esserlo.
Questo quadro non fa certo sorridere
il centrosinistra. Dopo le primarie
Bersani aveva avvertito i suoi: “Ci faranno sgambetti da tutte le parti”. E
in effetti un elettorato spezzato in 4
blocchi (Pdl-Lega, Grillo, Monti, centrosinistra) non è il massimo per la
governabilità. Al momento il centrosi-
D
3
L’ex premier Mario Monti
nistra resta alto nei sondaggi (Pd 2732% più Sel 5-7%, più il Psi all’1,5%).
Avrebbe dunque la maggioranza alla
Camera, per il premio previsto dal
porcellum, ma non al Senato dove il
pronto soccorso del centro montiano
sarebbe indispensabile. E qui, proprio
sull’agenda Monti, e sul rapporto col
professore potrebbero nascere le prime crepe nella coalizione e all’interno
dello stesso Pd. È vero che sia il centro
che il centrosinistra hanno come riferimento l’Europa. Però un conto è
prendere per buona l’agenda Monti
così come è, un conto è lavorare in
Italia e all’interno dell’Europa per imporre politiche che permettano più
crescita, più equità più redistribuzione. I punti di contatto del programma
del centrosinistra con il manifesto
Monti, che poi non è altro che l’applicazione degli impegni assunti dall’Italia con Bruxelles, sono maggiori delle
differenze. A cominciare da salario
minimo, patrimoniale, lotta all’evasione fiscale. Però si sa che nel dettaglio si nasconde il diavolo. Un’avvisaglia si è vista già prima di Natale
quando Monti è andato alla Fiat a
prendersi gli applausi di una platea selezionata di operai, con Marchionne
ed Elkann in prima fila. Lì la Cgil
non c’era, ma quando si tratterà di
fare le politiche per il lavoro e le imprese, Bersani e Vendola potranno
sposare la linea Marchionne?
Tutti questi ragionamenti su numeri e
scenari, non tengono conto di una variabile imponderabile negli effetti: nel
paese sono forti stanchezza, rabbia,
disillusione, legittimo risentimento
contro la politica e i partiti (che non
sono riusciti nemmeno a riformare la
legge elettorale). È la situazione più
facile per chi parla alla pancia del paePATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Editoriale
se, per chi vuole solo abbattere, senza
proporre. È quello contro cui combatte Napolitano, ormai giunto alla fine
del suo settennato. Ma politicamente
parlando, il rischio Grecia resta alto.
Non solo per la frammentazione e la
divisione sul crinale pro-contro Europa, ma persino per il possibile rigurgito di formazioni neonaziste. Grillo
l’ha detto qualche settimana fa: se
non ci fossimo noi, ci sarebbero i nazisti col passo dell’oca. Nel senso che ci
sarebbe “Alba Dorata”. La logica “accetta me se no viene uno peggio”, è un
po’ triste, ma è il segno dei tempi. Peraltro il rischio che si presenti qualcosa di simile anche nel nostro paese,
non è scongiurato, se il presidente del
La sezione italiana di Alba Dorata
Forum democrazia e sicurezza del Pd,
Emanuele Fiano, ha iniziato una raccolta di firme per l’applicazione piena
della Costituzione e della legge Mancino del ’93 in fatto di costituzione di
gruppi che si richiamano al fascismo e
al nazismo. L’obiettivo è proprio
fermare una versione italica di Alba
Dorata, che si è già presentata sul
web. Ecco il programma: “Pulizia radicale di tutti i rifiuti tossici della società, salvare le cose giuste fatte da
Mussolini”. Sul sito sono comparse
facce di politici italiani con la stella di
David in fronte, insulti contro Vendola in quanto omosessuale, nonché articoli per minimizzare la Shoa. Un
campionario triste e noto, che sembra
impossibile possa fare presa in Italia. Però nemmeno in Grecia sembrava possibile che finissero in parlamento i neonazisti. Invece ci sono
e hanno più voti di Casini in Italia.
Meglio firmare e vigilare. Che almeno questo ci venga risparmiato.
COMMA 22
ALBA DORATA E IL PARADOSSO SUI FASCISTI
Perché “Comma 22”? È il titolo di un romanzo di Joseph Heller e dell’omonimo film (1970) di Mike Nichols. Tratta di un militare che cerca di fuggire dal mostruoso non senso della guerra dichiarandosi pazzo,
ma si trova intrappolato da un inflessibile comma del regolamento che suona più o meno così: “Chi è pazzo
può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo
non è pazzo”.
Proviamo ad applicare lo stesso paradosso alle interpretazioni della XII Disposizione Finale della Costituzione: “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. Va da sé, essendo
vietata sotto qualsiasi forma, che non è necessario chiamarsi “partito fascista” per rappresentare tale forza
politica. Ciò che conta sono i princìpi, i valori, i programmi, i simboli, le storie, i comportamenti. Eppure
forze che mutuano in modo più o meno largo princìpi, valori, programmi, simboli, storie, comportamenti
che si rifanno al partito fascista, scorrazzano impunite in lungo e in largo sulla penisola, negando risolutamente la loro matrice politica ed ideale, o mitigandola, o “modernizzandola”.
Vale, fra i molti esempi, per Casa Pound, abbondantemente foraggiata dal Sindaco di Roma Gianni Alemanno, vale per Forza Nuova, vale, da oggi, anche per Alba Dorata, che nelle scorse settimane si è costituita in
partito politico. No, non in Grecia; lì c’è già, ha i suoi parlamentari e i suoi squadristi (spesso sono le stesse
persone). Qui, in Italia. Il suo simbolo? “Alba Dorata – si legge sul suo sito internet – utilizza il simbolo della
greca o meandro perché simbolo conosciuto della Grecia culla della civiltà europea”. Si tratta in sostanza di
una rielaborazione grafica della svastica, lo stesso simbolo dei camerati ellenici.
Solita mitologia “classicheggiante”, solite credenziali più o meno fondamentaliste (“Alba Dorata difende e
promuove il cristianesimo in tutte le sue forme e modi”), solite dichiarazioni d’intenti (“né di destra, né di
sinistra, né di centro”), per segretario un certo Alessandro Gardossi, definito dal giornale online Agora Vox
Italia “ex leghista ed ex forzanovista triestino”.
Cosa avvicina la neonata formazione italiana al partito greco, tristemente noto per spedizioni punitive,
pestaggi e devastazioni? L’obiettivo: “L'obiettivo comune è fare in modo che il mostro dittatoriale neocomunista legato alle banche travestito da liberismo democratico sia scoperto dai popoli europei”. Come si vede,
idee chiare e distinte.
Naturalmente, a loro dire, non sono razzisti, né nazisti, né fascisti.
Ed ecco l’ideale Comma 22, che rende drammaticamente inapplicata la Costituzione repubblicana: “È vietato costituire un partito che, per princìpi, valori, programmi, simboli, storie, comportamenti, si riferisca al
partito fascista, perché ciò vuol dire ricostituire sotto altra forma il disciolto partito fascista. Ma se si costituisce un partito che, per princìpi, valori, programmi, simboli, storie, comportamenti, si riferisce al partito
fascista, ciò non vuol dire ricostituire sotto altra forma il disciolto partito fascista”.
C’è qualcosa che non va.
Zazie
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
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Primo Piano
LA CGIL PER PRIMA HA GIÀ LANCIATO L’ALLARME
Camusso: «Se non si riparte
dal lavoro l’anno nuovo
sarà terribile»
La crisi dei grandi impianti industriali e l’altissimo numero delle aziende
a cassa integrazione. I giovani che non riescono ad entrare nel mondo
GHOODYRUR´&RQO·$13,ULFRUGHUHPRJOLVFLRSHULGHOµ
di Natalia Marino
U
n piano per creare lavoro, unica strada per dare
possibilità e futuro all’Italia, puntando su un diverso
modello di sviluppo. La CGIL
presenterà a gennaio 2013 la
sua proposta, anzi la sua visione, come fece Giuseppe Di Vittorio nel 1949, per ricostruire il
Paese dalle macerie della guerra. E oggi per uscire dalle rovine della crisi economica.
«Il bilancio dell’anno appena
trascorso è sotto gli occhi di tutti: per l’Italia il 2012 è stato disastroso – spiega Susanna Camusso, segretario generale della
CGIL – e a rimetterci di più
sono state, come al solito, le categorie di cittadini più esposte.
Lavoratori, pensionati e disoccupati si sono visti sottrarre reddito e opportunità». La crisi internazionale morde i Paesi
occidentali da oltre quattro anni ma,
secondo il segretario, sui conti del
nostro Paese pesano come macigni le
scelte politiche degli ultimi esecutivi.
«Il governo Berlusconi ha sprecato
tre anni intestardendosi a negare la
gravità delle ripercussioni della crisi
globale su un’economia come quella
italiana che, già nel 2008, stentava a
crescere. Così i problemi si sono
sommati e moltiplicati, senza che
nessuno intervenisse».
Ricordate? Il refrain era sempre lo
stesso: il problema non dipende da
Susanna Camusso, segretario generale Cgil
noi, le nostre banche sono più solide
di quelle straniere, gli italiani sono
un popolo di risparmiatori, possiamo far fronte ai nostri impegni. E il
ministro dell’Economia Giulio Tremonti che, fino a pochissime settimane prima della deflagrazione della
bolla immobiliare e finanziaria negli
Stati Uniti affermava che per far ripartire il nostro Paese bisognava fare
più debito, innestava una clamorosa
retromarcia. In un batter d’occhio
smetteva i panni di sostenitore della
finanza creativa e delle ricette miracolose, come quella di vendere il pa-
5
trimonio dello Stato, per indossare il costume di un avaro
molieriano che tiene ben stretti
i cordoni della borsa, anzi nasconde la cassaforte sotto il letto. Mentre il suo principale crapulone folleggiava e aboliva
l’ICI sulla prima casa, che oggi
abbiamo restituito con interessi
salatissimi.
«Il Governo Monti, poi – continua Camusso – ha peggiorato
nettamente la situazione con
una politica di rigore declinata
solo sui tagli (ospedali, scuole,
amministrazioni locali), riducendo i servizi pubblici e determinando un aggravamento delle condizioni soggettive ed
economiche delle persone. Un
impoverimento dettato anche
dalla tassazione di pensioni e
redditi da lavoro, di famiglie
spesso già in sofferenza per la cassa
integrazione, la mobilità, la disoccupazione. Il dato economico è diventato oggettivamente il dato del malessere sociale. Tutto questo senza
che chi governa abbia idea di come
ripartire».
Un rigore a senso unico, che ha subito attinto alle tasche dei soliti noti,
promettendo per l’ennesima volta la
stretta finale sull’evasione fiscale. Ma
i blitz della Finanza a Cortina, insieme agli spot del Ministero sui parassiti sociali, oltre a fornire una rappresentazione del mutato clima, avranno
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Primo Piano
un seguito effettivo nei confronti dei
grandi capitali sconosciuti alle casse
dello Stato? Quella che è sicuramente
mancata all’azione del governo è stata una sacrosanta lotta agli sprechi,
in primo luogo quelli della politica, i
più invisi ai cittadini. La diminuzione del numero dei Parlamentari, invocata a parole da quasi tutti, è di là
da venire. Il taglio delle province,
seppure approvato, è in alto mare,
minacciato da una pioggia di ricorsi.
Annidate nei gangli politico-amministrativi degli enti locali, sull’esempio di una grandeur berlusconiana
che nel frattempo andava in pezzi, le
spese folli sono continuate in una
versione, se possibile, ancora più becera. In nome di una malintesa sussidiarietà orizzontale, prevista per avvicinare le istituzioni ai cittadini e al
loro controllo. E oggi venute alla luce
non per una netta azione di governo,
ma per le inchieste della magistratura e, spesso, per ripicche e vendette di
chi meno riusciva ad arraffare.
ntanto il Paese andava in pezzi.
Lasciato solo, escluso. I dati lo
hanno confermato e lo confermano: il debito pubblico del nostro
Paese, svettato a 2.000 miliardi, misura quanto non si sia nemmeno riusciti a raggiungere quell’abbattimento all’origine del programma e
dell’intervento del governo Monti.
«Non si può guidare l’Italia, Paese
tanto complesso – afferma Susanna
Camusso – coi manuali di testo. Governare le condizioni concrete è ben
altra cosa. Bisogna smettere di pensare che i tagli siano sempre un risparmio, perché si trasformano in
maggiori costi sociali e più alti costi
economici, magari in altri settori.
Come quando bisogna spendere
montagne di soldi per i danni dopo
un’alluvione, perché non si è investito sulla prevenzione». L’immagine
che forse più di altre riassume l’Italia
ferita è quella delle migliaia di esodati: «Una vicenda che ha mostrato al
mondo i limiti del governo dei tecnici, che dovevano mettere a posto il
Paese e invece non sono stati capaci
di dare risposte a persone in carne e
ossa. E sono centinaia di migliaia».
Uomini e donne che non si sarebbero sentiti dimenticati e abbandonati
ai loro grandi problemi quotidiani.
I
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
«La proposta della CGIL di detassare
le tredicesime recuperando i fondi
dall’evasione fiscale non avrebbe certo inciso sulle ragioni strutturali della crisi, ma poteva essere un segnale
di fiducia per i cittadini. Invece si è
concentrata l’attenzione e la preoccupazione solo sulle variabili macroeconomiche. È stata una scelta politica ben precisa dei governi europei, e
niente affatto nuova. La cosiddetta
logica del rigore ha rieditato concetti
di reaganiana e thatcheriana memoria: ad esempio, quello che la scuola
di Chicago chiamava “affamare la
bestia” (cioè noi, ndr). Alla base c’è
l’assunto assurdo che la disuguaglianza possa essere motore di sviluppo. Mentre la crisi mondiale documenta il fallimento del modello
capitalista per cui la ricchezza da sola
è capace di creare altra ricchezza».
Sulle fosche previsioni per il 2013,
senza un cambio di rotta, la CGIL
ha lanciato l’allarme per prima, inascoltata o smentita. Fino a quando
ancora una volta a parlare è stata l’evidenza e si è cominciato a ventilare
che la ripresa slitterà al 2014: lo sport
da tempo praticato di allontanare
progressivamente il traguardo. «Dal
nostro punto di osservazione – continua il Segretario – potevamo smentire tutte le previsioni di ripresa nei
prossimi mesi, perché se non si riparte dal lavoro non ci sono chances. Il
prossimo anno sarà terribile, ce lo
dice la messa in discussione dei grandi impianti industriali, l’altissimo
numero di aziende in cassa integrazione in deroga, le difficoltà del commercio con tanti esercizi che chiudono, le rilevazioni mensili sui dati dei
senza lavoro».
Gli indici sono tutti negativi: sono
tre milioni i disoccupati e altrettanti
i lavoratori costretti a prestare manodopera in nero. Gli Osservatori del
sindacato documentano più di un
miliardo di ore di cassa integrazione
da gennaio a novembre 2012; 520
mila lavoratori in Cig a zero ore; il
taglio del reddito, al netto delle tasse,
arriva in totale a 3,8 miliardi. Ancora: ammontano a 15 milioni gli italiani inattivi (il 48,7% donne), due
milioni sono i giovani che non lavorano e neppure studiano. «I nostri
ragazzi che non riescono a entrare
6
nel mondo del lavoro – spiega Camusso – sono l’altra faccia della stessa medaglia rispetto a coloro che ne
vengono brutalmente buttati fuori.
Per ripartire, in queste condizioni,
non basta il rigore. Occorre una redistribuzione della ricchezza e investimenti mirati al posto dei tagli ciechi.
E, soprattutto, un nuovo modello di
sviluppo, altrimenti la crisi non potrà
avere fine. Ad ora, invece, non ci
sono mai state risposte rispetto al futuro. Si è agito sempre nell’emergenza, mai per immaginare un domani
differente».
Compito di un grande sindacato, che
ha esercitato un ruolo determinante
nella storia del Paese e che oggi si trova a dover agire in uno scenario globale, per farsi portatore delle nuove
istanze sociali è comprendere a fondo
le missioni da assolvere. Nel librointervista a Susanna Camusso Il lavoro sommerso, a cura di Stefano
Lepri (Laterza, 2012), si affronta un
tema delicato: il rapporto tra padri,
madri (e anche nonni) e giovani generazioni. «Il rischio peggiore, in una
stagione come questa, è nella vecchia
logica che la mediazione debba essere
trovata all’interno della famiglia, costretta a supplire alla mancanza di
servizi, asili nido, protezioni e ammortizzatori sociali. La soluzione
non va cercata in termini di solidarietà interna, spalmando in ambito
familiare quel poco che si ha a disposizione. Togliere ai padri per dare ai
figli è un concetto sbagliato, legato
all’idea che il welfare e i diritti sul
lavoro siano un costo e non una risorsa. Si devono costruire le condizioni per non obbligare i giovani a
restare nel nucleo familiare d’origine
fino a 35 anni».
Che Camusso auspichi alle prossime
elezioni la vittoria del centrosinistra,
lo si sa. Cosa dovrebbero fare nuovo
Parlamento e nuovo Governo per
mostrare al più grande sindacato italiano che si è imboccata la strada giusta? «Va detto che scorciatoie non ce
ne sono, la risalita sarà lunga, faticosa
ma, innanzitutto, va archiviato il
neoliberismo. Poi si possono adottare
subito alcune misure a costo zero, ne
voglio indicare in particolare tre. Primo: riformare la normativa sugli appalti che ha permesso finora alla cri-
Primo Piano
minalità di infiltrarsi nel mondo
produttivo. Seconda mossa: una norma che tuteli la rappresentanza sindacale, per recuperare il grave arretramento della democrazia, sospesa e
messa alla porta nei luoghi di lavoro
in questi anni. La terza misura dovrà
cambiare la norma-emblema del governo Berlusconi: l’art. 8 della legge
approvata nell’agosto 2011 che con la
contrattazione territoriale ha permesso di derogare a gran parte della legislazione nazionale sul lavoro, comprese le modalità di assunzione e
licenziamento. Il Partito democratico ha già presentato una proposta
legislativa che va in questa direzione.
Ritengo anche giunto il tempo di
una seria riforma fiscale, ma spetta ai
partiti inserirla nei programmi elettorali. Noi guarderemo ai fatti. Bisogna però comprendere che creazione
di posti di lavoro e redistribuzione
del reddito devono andare di pari
passo: costituiscono i due capisaldi
che valuteremo per giudicare l’azione
del nuovo esecutivo».
er il numero uno della CGIL
bisogna guardare a un’altra Italia, in grado di dare segnali positivi, basterebbe raccoglierli e sostenerli. Come il progetto per il
petrolchimico di Porto Torres, che
riconvertirà alla chimica verde il
polo sardo. Un esempio, piccolo forse, ma emblematico, per generare
prospettive e valorizzare le nostre
straordinarie potenzialità, contro il
giudizio diffuso che dipinge un’Italia dell’improvvisazione, costruita
senza neppure un’idea di Paese.
«Non tutto il mondo produttivo italiano è come la Fiat – dice la Camusso – che ha scelto di aggredire
frontalmente le tutele. Esistono
realtà dove, nonostante le difficoltà,
si sono ottenuti miglioramenti sul
piano contrattuale e su quello dei
diritti. La visione della fabbrica torinese è stata favorita dalla crisi e dalla mancanza di lavoro. Dunque la
premessa per ripartire è creare lavoro. E lavoro di qualità, l’unico modo
di sviluppare la ricchezza di pari
passo alla soddisfazione e all’emancipazione delle persone. Per questo
tutele e creazione di lavoro devono
procedere insieme. Una volta per
tutte: la lunga stagione della finanza
P
Manifestazione Cgil a Roma
che moltiplicava i capitali per magia
è definitivamente tramontata».
Nel 2013 ricorreranno 70 anni dagli
scioperi nelle fabbriche del Nord.
Qual è il senso più attuale di ricordare quanto accadde nel ‘43?
«Con la Fondazione Di Vittorio e
l’ANPI stiamo mettendo a punto
una serie di iniziative, ma abbiamo
già cominciato da tempo a ragionare
sul contributo che il mondo del lavoro, con gli scioperi del 1943-’45, ha
portato alla Resistenza, alla Lotta di
Liberazione dal nazifascismo. L’Articolo 1 della Costituzione dice che la
Repubblica Italiana è fondata sul lavoro: ogni cambiamento, ogni passo
verso la conquista della democrazia
nel nostro Paese è stato sempre scandito dalla mobilitazione dei lavoratori. Celebrando il 150° dell’Unità,
mettendo in relazione Risorgimento
e Resistenza, abbiamo ricordato i lavoratori sulle barricate nelle giornate
di Bava Beccaris e a Marsala». Risalire le tracce di questo protagonismo
porta a comprendere che il percorso
per la dignità e l’emancipazione, in
realtà, non finisce mai. «È proprio
così. Riguardando volantini e piattaforme degli scioperi del ‘43-‘45 si trova, per esempio, la rivendicazione
della parità di salario tra uomini e
donne. Così scopriamo come un
tema che sembrerebbe comparire
molto dopo, comunque dopo la Liberazione e la Costituzione, era già
fortemente percepito. Si trattava delle richieste provenienti dal mondo
7
femminile che aveva sostituito nelle
fabbriche gli uomini spediti in guerra. La difesa delle fabbriche dagli occupanti rappresenta anche una battaglia per la retribuzione e la qualità
del lavoro, riafferma il legame imprescindibile tra lavoro e vita delle persone. È questo il messaggio che ci
arriva chiaro e forte anche da quelle
vicende: senza il lavoro non si va da
nessuna parte, mai».
A Genova, il 4 ottobre 1949, durante il secondo congresso nazionale
della CGIL dalla fine della guerra,
il segretario Giuseppe Di Vittorio
annunciava il “Piano economico
costruttivo” che la Confederazione
proponeva al governo e al Paese per
uscire della grave crisi economica in
cui versava l’Italia. Un piano che
coniugava le richieste e le necessità
dei lavoratori a quelle dei disoccupati, tracciando un modello di sviluppo economico ed emancipazione sociale per un Paese ancora in
gran parte analfabeta, fatto di poveri braccianti e operai sfruttati.
Ricominciava così una mobilitazione nuova, determinata, corale e democratica per il lavoro, il salario, i
pari diritti di donne e uomini. Si
rilanciava una stagione di lotta che
avrebbe dato i suoi frutti nel tempo,
fino allo Statuto dei lavoratori, Il
Presidente del Consiglio di allora,
Alcide De Gasperi, liquidò la proposta del sindacato: «Piani ce ne
sono tanti, mancano i quattrini».
Vi ricorda qualcosa?
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Interviste
LE DURE ESPERIENZE DELL’AVVOCATO ANDREA SPERANZONI
Per i parenti delle vittime
delle stragi naziste
dalle carte ancora dolore
Si è occupato, come parte civile, di Marzabotto, Casalecchio di Reno,
Monchio e di tanti altri massacri. La sentenza dell’Aja. Necessaria
una risposta concreta dei governi italiano e tedesco
di Toni Rovatti
S
iamo ormai quasi
giunti al termine
della recente stagione processuale sui
crimini di guerra compiuti da reparti tedeschi in Italia durante
la seconda guerra
mondiale, riapertasi
grazie al ritrovamento
nel 1994 – nel corso
delle indagini relative
al processo Priebke –
di un’imponente raccolta di documenti
d’inchiesta sui crimini
nazifascisti; indebitamente trattenuti nel
1947 presso Palazzo
Cesi, sede della Procura militare generale a
Roma, e in seguito illegalmente archiviati 1.
La riscoperta di 695
fascicoli giudiziari relativi a stragi, omicidi
e violenze commesse nel corso del
conflitto da reparti militari appartenenti all’esercito occupante
tedesco o alla Repubblica sociale
italiana, ha offerto la possibilità a
oltre cinquant’anni di distanza di
istruire una nuova serie di processi di grande importanza: sia per la
rilevanza penale dei delitti commessi fra il 1943 e il 1945; sia per
la definizione di una storia nazionale condivisa. In qualità di avvocato di parte civile, protagonista
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
L’avvocato Andrea Speranzoni
di alcuni dei procedimenti di questa fase, qual è il suo giudizio su
questa particolare esperienza professionale?
H
o iniziato a occuparmi dei
processi per crimini nazifascisti in Italia tra il 2004 e
il 2005, rappresentando le parti civili nei dibattimenti penali per le
stragi di Marzabotto, Casa lecchio
di Reno (Bologna), Monchio
(Modena), Cervarolo (Reggio
8
Emi lia), Ca st a gno
d’Andrea (Firenze),
Mommio (Massa Ca rra ra), Borgo Ticino
(Novara) e infine Fragheto-Casteldelci (Rimini-Forlì). Tra le parti
civili che ho assistito vi
sono stati numerosi familiari delle vittime,
enti pubblici territoriali
e l’ANPI nazionale.
Lungo questi otto anni
di esperienza giudiziaria tardiva per crimini
di enorme portata ho
avuto modo di misurarmi, oltre che su un
numero considerevole
di problematiche processuali penali di non
frequente verificazione
nella vita professionale
del penalista, con
aspetti deontologici ed
esistenziali riconducibili
ai familiari delle vittime di prima e
seconda generazione, che hanno generato in me numerose domande
aprendo ambiti di riflessione inaspettati e complessi. In molti casi,
infatti, i superstiti e i familiari delle
vittime non erano mai tornati a misurarsi con il ricordo di quei fatti o
non erano più stati nei luoghi degli
eccidi. Si trattava quindi di chiedere
ai miei assistiti di compiere un percorso di ricostruzione della propria
esperienza traumatica, indispensa-
Interviste
bile per il processo, ma per nulla
semplice e indolore in una dimensione soggettiva. Queste le domande più frequenti che mi ponevo: «è
giusto chiedere a una persona che è
stata dimenticata dalla Giustizia
per più di sessant’anni di ripercorrere esperienze così lontane, in cui
tutti gli affetti più cari e la vita familiare era stata sconvolta da crudeli omicidi? Qual è il significato
più profondo che le vittime ricercano nel processo? È doveroso o no
raccontare ai miei assistiti pezzi di
verità giudiziaria emergenti dalle
vecchie istruttorie, che riguardano
la morte dei loro cari? Come posso
coniugare il dovere deontologico
d’informazione del cliente con l’enormità delle crudeltà che vanno
emergendo dalla lettura delle carte?» E ancora: «La dimensione del
dolore e della riemersione di un
trauma in persone tanto anziane
non può forse costituire un pericolo dal punto di vista psicologico?».
Le risposte a queste domande sono
arrivate pian piano ed hanno richiesto delicatezza, sensibilità e rispetto per il diverso modo personale di vivere la dimensione del
ricordo su quei fatti. Mentre la
chiave di lettura dell’esperienza
processuale si andava via via formando, mi rendevo conto pertanto
di come fosse intimamente legata
alle esigenze di verità e giustizia
che le parti civili manifestavano; e
come trovasse completa attuazione
proprio nel racconto dentro l’aula
giudiziaria di quello che era accaduto e di ciò che era stata la vita
dopo gli eccidi.
Non tutti i casi giudiziari sono tuttavia assimilabili tra loro. Diversi
infatti i contesti territoriali, diverso
il grado di rielaborazione locale
della memoria sui fatti di eccidio,
diverso l’approccio con le fratture
sociali determinate dai fatti accaduti in un momento storico connotato da importanti fenomeni di
violenza politica. La disumanizzazione delle vittime da parte degli
autori dei massacri nazifascisti ha,
però, comunque ottenuto in ognuno dei procedimenti una risposta
di giustizia basata sulla centralità
del testimone di quei fatti.
Da un punto di vista personale e
umano questa esperienza è stata di
straordinaria importanza: per i
rapporti sviluppati con i miei assistiti, per la forza e i valori che mi
hanno comunicato, e per tutto ciò
che hanno espresso fuori e dentro
le aule giudiziarie; per i racconti sui
fatti e sulla vita precedente a essi, e
sulle speranze riposte nella Giustizia come momento ricompositivo e
di verità.
Quali sono stati concretamente i
risultati ottenuti a favore delle
vittime in oltre dieci anni di indagini e procedimenti dibattuti
presso i Tribunali militari?
I
dieci anni di processi, molti dei
quali conclusisi con delle condanne alla pena dell’ergastolo,
hanno portato a importanti risultati per quanto concerne l’accertamento di fatti e responsabilità
perlopiù sconosciute o solo parzial-
mente conosciute. Circa la concretezza dello sconto delle pene detentive da parte degli imputati
condannati e dei risarcimenti del
danno posti a loro carico (e, in alcuni, casi anche a carico della Repubblica Federale di Germania)
ottenuti con le sentenze, l’esperienza giudiziaria li ha stabiliti e sanciti. Successivamente tuttavia non
risulta che sia stata data una risposta positiva né alle richieste di
estradizione dei condannati formulate dalla Giustizia militare italiana, né tanto meno che sia stato
dato seguito alla detenzione in
Germania dei condannati. Sul versante dei risarcimenti invece, con la
sentenza pronunciata dalla Corte
internazionale dell’Aja il 3 febbraio
del 2012, i Giudici internazionali –
chiamati a esprimersi sull’interpretazione di alcune norme pattizie internazionali – hanno dichiarato che
anche di fronte ad un crimine contro l’umanità commesso da un eser-
Marzabotto - I resti dell’Oratorio di Cerpiano incendiato dai nazisti
9
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Interviste
cito occupante, vale il principio di
immunità dello Stato cui appartengono i militari che hanno perpetrato il crimine. In altre parole: non
possono essere disposti dei risarcimenti a carico dello Stato per il
quale i militari agirono. Vale la pena
ricordare che davanti a questa Corte
per Statuto gli unici soggetti legittimati a discutere della questione erano i due Stati, non le vittime. E osservare come i giuristi che hanno
rappresentato l’Italia davanti alla
Corte in questa occasione abbiano
speso argomenti ricchi e convincenti, nonostante l’esito.
Dunque, in sintesi, l’esperienza
giudiziaria militare interna è giunta con grande fatica a fornire delle
risposte e a stabilire responsabilità
e importanti principi di civiltà giuridica. Gli interventi giudiziari internazionali successivi (o i non interventi nel caso dell’esecuzione
delle condanne) suggeriscono, da
un lato, la prevalenza dello scudo
protettivo rappresentato dall’immunità dello Stato – nel caso specifico la Repubblica Federale di Germania – rispetto alla Giustizia;
dall’altro, il primato della volontà
politica. Un campo assai complesso
in cui l’avvocato di parte civile non
ha potuto avere più voce in capitolo.
Quali possibili strategie di risarcimento auspica possano essere intraprese in futuro attraverso la
definizione di accordi bilaterali
fra Italia e Germania? E quali invece, a suo parere, potranno essere
i rischi di una soluzione diplomatica della vicenda processuale?
L
a vicenda processuale ha già
trovato una sua definizione.
È bene aver le idee chiare su
questo. La politica e la diplomazia
non potranno incidere sugli accertamenti definitivi interni di ordine
penale. Invece l’invito formulato
dalla sentenza dell’Aja ai due Stati
a trovare una definizione del problema dei risarcimenti penso sarà
gestito, nella sostanza, dalle diplomazie italiana e tedesca. È opportuno che la responsabilità di una
risposta adeguata a un tema di così
cruciale importanza se la assuma, a
questo punto, chi governa la politica estera e della giustizia dei due
Paesi in questo momento. La risposta concreta della politica alle vittime del nazifascismo credo debba
costituire, infatti, un pilastro
dell’identità europea. La soluzione
diplomatica, se si concretizzerà nei
confronti dei familiari delle vittime, sarà certamente una opportunità per loro; non un problema.
Quali sono a suo parere i punti di
forza, da un lato, e le contraddizioni, dall’altro, di questa inusitata convergenza fra definizione
di una verità giudiziaria e definizione di una verità storica?
I
Il Monumento ai Martiri delle Fosse Ardeatine
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
l rapporto fra storia e processo
penale in queste vicende costituisce un intreccio di problematica definizione. Bisogna tuttavia partire da un dato di fatto
ineludibile: la trattazione delle responsabilità penali per crimini nazifascisti negli ultimi dieci anni rientra nella categoria del giudiziario,
non dello storico. Le verità costruite nelle aule dei Tribunali sono per
l’appunto giudiziarie, in quanto
governate dalle regole del codice di
procedura penale e dalle norme
sulla formazione della prova. Vero
è che i magistrati che hanno inve-
10
stigato su tali fatti di eccidio e strage si sono avvalsi di consulenti storici al fine di inquadrare i fenomeni
e gli accadimenti; ma, mentre nel
processo penale lo storico si deve
arrestare di fronte alle responsabilità individuali, non è soggetto a
questo vincolo né a molti altri
quando valuta le fonti nel proprio
ambito. Le due verità – processuale
e storica – in queste vicende spesso
convergono, ma dobbiamo sempre
ricordarci che giungono a confluire
attraverso due percorsi intrinsecamente diversi. Un atto processualmente irrilevante o inutilizzabile
perché tardivo, può ad esempio risultare invece di cruciale importanza per la ricostruzione storica.
Quale è stato, a suo parere, il
coinvolgimento in questo tipo di
procedimenti dell’opinione pubblica non specializzata?
C
redo che l’opinione pubblica
italiana in questi anni sia
stata adeguatamente informata su quello che avveniva nelle
aule giudiziarie. Numerosissimi
sono stati gli articoli di stampa, le
trasmissioni televisive e le occasioni
di divulgazioni organizzate dalle associazioni dei familiari delle vittime, anche mediante siti internet
specializzati. Nonostante questo, la
percezione di ciò che si è fatto e ottenuto credo non sia stata né piena,
né corretta. Le cause sono numerose: la frammentarietà delle informazioni; l’affermata straordinarietà
dell’esperienza; l’età dei criminali; la
confusione continua tra l’idea della
giustizia e l’idea del perdono; il luogo comune della necessità di “voltar
pagina”; la non esatta percezione
che un crimine contro l’umanità lascia i propri effetti sulle vittime per
l’intero corso della loro vita. Molto
di utile è stato, però, fatto. Penso, ad
esempio, ai documentari Lo stato di
eccezione, Il violino di Cervarolo e
La Malora che hanno scelto di mostrare i testimoni nelle aule di giustizia, amplificando la loro voce e i
loro racconti.
Che effetto ha avuto sull’opinione
pubblica costatare che da parte di
Interviste
collegi giudicanti dei due paesi vi
siano stati giudizi sui medesimi
imputati, accusati dei medesimi
crimini, per mezzo degli stessi elementi di prova non solo diversi,
ma addirittura divergenti?
L
a sentenza di archiviazione tedesca sui fatti di Sant’Anna
non ho avuto modo di leggerla. Mi interrogo, però, su come possano essere dichiarati non processabili in Germania per carenza di
prove imputati tra i quali erano
compresi anche dei rei confessi.
Nell’opinione pubblica italiana questa archiviazione ha prodotto dubbi
e sconcerto. A livello nazionale la
vicenda giudiziaria di Sant’Anna ha,
infatti, avuto ben tre vagli di giudizio e una mole di indagini assai imponente con chiari accertamenti di
responsabilità concorsuali. La sentenza tuttavia per essere criticata andrebbe studiata. E qualora sussistessero mezzi di impugnazione, gli
avvocati tedeschi che difendono lì le
vittime dovrebbero impugnarla.
Essendo Lei anche coautore di un
importante testo su questo tema
uscito nel 2012, le chiedo infine di
offrirci una chiave di accesso a
questo progetto editoriale (apparentemente di profilo strettamente tecnico-giuridico) che ha sviluppato a fianco del procuratore
Marco De Paolis e della professoressa Silvia Buzzelli.
L
a ricostruzione giudiziale dei
crimini nazifascisti in Italia.
Questioni preliminari, pubblicato dall’editore Giappichelli di Torino, costituisce un primo passo di
analisi su un fenomeno giudiziario
su cui la comunità scientifica si è
poco o per nulla occupata. Il lavoro
prende le mosse da una necessità: stabilire un baricentro a questa peculiare esperienza di giustizia, analizzando alcune sue specif iche
caratteristiche, la centralità della
narrazione da parte delle vittime e il
rapporto tra investigazione giudiziaria e ostacoli frapposti alla stessa.
Tra le pieghe di un processo, oltre
alle problematiche di ordine giuridico, spesso si nascondono chiavi di
La traslazione dei resti delle vittime della strage di S.Anna di Stazzema verso il Monumento
Ossario, avvenuta nella primavera del 1948
lettura che fuoriescono dallo spazio
dell’aula e dei codici e si rivolgono a
principi di civiltà e di convivenza tra
gli uomini, suggerendo verità inedite
e disvelando risposte nuove ai problemi contemporanei. È ora necessario estrapolare da questa esperienza
di giustizia categorie concettuali utili
allo sviluppo del diritto e al progresso della società democratica. Da questo punto di vista penso ci siano ancora molte porte da aprire.
NOTE:
1) Si vedano, tra gli altri: Mimmo
Franzinelli, Le stragi nascoste. L’armadio della vergogna: impunità e
rimozione dei crimini di guerra nazifascisti 1943-2001, Mondadori,
Milano 2002; Franco Giustolisi,
L’armadio della vergogna, Nutrimenti, Roma 2004.
Andrea Speranzoni è avvocato del
Foro di Bologna. Ha svolto studi ed
approfondimenti in materia di tutela
11
della vittima del reato, specializzandosi
in diritto penale dei minori e diritto
penale militare. Collabora con la cattedra di procedura penale europea e
sovranazionale della professoressa Silvia Buzzelli presso l’Università di Milano-Bicocca e dal 2010 con il War
Crimes Studies Center dell’Università
di Berkeley (California). Tra il 2005 e
oggi ha difeso numerose parti civili –
parti private ed enti pubblici – nei
processi per crimini di guerra perpetrati da militari nazisti tra il 1943 e il
1945 ai danni della popolazione civile
italiana.
PUBBLICAZIONI:
Contesti di strage, Biesse, Venezia,
1996; Le stragi: i processi e la storia,
Biesse,Venezia, 1999; Fenomeni di terrorismo. Il terrorismo in Grecia nel periodo 1967-1974, Proskenio, Atene,
2003; La ricostruzione giudiziale dei
crimini nazifascisti in Italia, Giappichelli, Torino, 2012 [con Marco De
Paolis e Silvia Buzzelli]
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Attualità
TANTO INTERESSE INTORNO ALL’ANPI. I NUOVI ISCRITTI
In 150 piazze italiane
la giornata
del tesseramento
S
di Andrea Liparoto
ono stati migliaia, anche
quest’anno, i cittadini e le cittadine – tantissimi i giovani –
che sono scesi in piazza per incontrare l’ANPI in occasione della
giornata nazionale del tesseramento
svoltasi domenica 18 novembre in
150 piazze d’Italia. Un successo
straordinario, anche sotto il profilo
mediatico – l’iniziativa è circolata
su gran parte delle testate nazionali,
online e cartacee – un momento di
prezioso entusiasmo civile
che ha permesso all’Associazione, dunque
all’antifascismo e alla memoria viva della Resistenza,
di raccogliere
ad e s ion i, e
nuove “ga mbe” per portare
avanti due battaglie, in particolare: quella per ottenere
finalmente verità giu st i zia
Tesseramento ANPI i a Sanremo (in alto) e Milano
per le vittime
delle stragi nazifasciste – nei gazebo zione, Vincenzo Calò, componente
si è potuto così raccogliere firme per della Presidenza del Comitato Prola petizione rivolta al Presidente del vinciale e coordinatore Regionale
Senato, lanciata in settembre – e del Lazio: “Al nostro arrivo, alle pril’altra per sensibilizzare il Paese tut- me ore del mattino, già avevamo cato sul fenomeno della crescita dei pito che la giornata sarebbe stata promovimenti neofascisti sollecitando pizia. Un paio di persone attendevano
dunque partecipazione e iniziativa. il nostro arrivo leggendo il giornale
E la reazione è stata di grande atten- acquistato alla vicina edicola. Volevano iscriversi all’ANPI e firmare la
zione e desiderio di approfondire.
A Roma, l’attesa era tanta. Ci ha petizione sulle stragi. Erano informascritto, con toni al limite dell’esalta- tissimi e certi della loro decisione. Alla
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
12
mia d om anda del perché
avevano fatto
quella scelta,
mi hanno risposto che non
si poteva più
stare a guardare alla luce dei
tanti, troppi
a cca d im e n t i
che ormai offendevano la
nostra storia.
Era di pochi
giorni prima
la bravata fatta in una scuola di Roma da parte di un gruppo di
giovani esponenti di Destra e ancora
vivo era il risentimento per l’oltraggio
del Sindaco di Affile di voler innalzare un monumento in ricordo del fascista Graziani. A seguire una continua
processione civile soprattutto di giovani che non volevano restare indifferenti. I ciclisti si fermavano, un tassista bloccava il traffico per gridarci il
suo sostegno e tanta, tanta gente
chiedeva d’ iscriversi, di sottoscrivere,
di firmare la petizione sulle stragi,
ed alcuni chiedevano di abbonarsi a
Patria, un po’ per scoprirlo, un po’
per sostenerlo. Pochi lo conoscevano,
ora lo conosce qualcuno in più e certo
lo apprezza. Una giornalista ci dava
il suo sostegno e chiedeva di collaborare. Fino a sera non ci sarebbe stato
un solo attimo di respiro. Che bella
giornata!”.
Così anche a Padova, Reggio Emilia, Sondrio, Forlì e Ascoli Piceno.
Milano e Pescara hanno registrato
forse la partecipazione più alta, con-
Attualità
fermata anche dalle centinaia di firme raccolte. L’ANPI modenese –
che ha svolto la giornata presso la
Camera di commercio alla presenza
del Presidente nazionale Carlo
Smuraglia – non ha mancato di
dare il suo robusto contributo, che
si va ad aggiungere a quello già messo in campo fin da agosto: ad oggi
sono 3.500 le firme raccolte dal Comitato provinciale. E le Sezioni non
sono state da meno: siamo stati informati che a Sanremo in due ore
60 cittadini hanno firmato la petizione. Da segnalare, poi, la capacità
e “creatività” organizzativa dell’Associazione.
La giornata non è stata solo gazebo,
ma anche ulteriori forme e luoghi di
incontro che hanno innescato belle
prospettive. Come per esempio a
San Gavino Monreale, nella provincia di Medio Campidano. Racconta
Carlo Marras, Presidente del Comitato Provinciale: “La mattina,
una concomitante manifestazione
sportiva, che aveva in piazza della
Resistenza il punto centrale (partenza, arrivo e premiazioni) è stata utile
per farci conoscere meglio e presentare
l’ iniziativa, utilizzando i mezzi messi a disposizione dalla società sportiva
organizzatrice. Ho presentato personalmente, quale Presidente del Comitato Provinciale del Medio Campidano, l’ iniziativa ai microfoni posti al
traguardo della gara. Con la società
sportiva abbiamo avuto in comune le
iniziative del 25 Aprile 2012 (come
gruppo ANPI del Medio Campidano,
per la Festa della Liberazione 2012,
prima del congresso dal 15 maggio,
abbiamo proseguito, in piazza, la
Il gazebo ANPI a Forlì
campagna
2012 di Tesseramento e di
diffusione della
nostra rivista
Patria e partecipato al corteo
con le Autorità
a cui partecipava anche la
banda musicale, mentre la
società sportiva
il 25 aprile orLa giornata del tesseramento nel Medio Campidano
ganizza un’altra manifestazione, la corsa di Prima- in città”. E l’entusiasmo nella città
vera). Penso che sia utile coltivare calabrese è stato talmente intenso
questo sodalizio che unisce i valori da spingere il Comitato provinciale
dello sport con quelli della Resistenza. a dar corso ad una “seconda puntaPace, Libertà e Giustizia sono valori ta” il 13 dicembre.
universali che ben si addicono anche Buone nuove, dunque, per il futuro.
n fruttuosa parte l’ha giocaalle competizioni sportive”. Oppure a
ta anche la Sicilia. A PalerMacerata (svoltasi però il 24 e il 25
mo – nonostante una piognovembre), dove il centro dell’iniziativa – anche qui partecipatissima gia insistente, come del resto in gran
– è stata l’inaugurazione di una nuo- parte delle altre città – l’ANPI ha
va via, “Via delle partigiane”, con tenuto un ricco dialogo con le pergli interventi di alcuni giovani della sone riuscendo a raccogliere anche
Rete degli Studenti medi, di una testimonianze di non pochi giovani
partigiana, di una consigliera comu- che hanno raccontato dei loro nonnale, e della presidentessa del locale ni antifascisti partigiani o deportati,
nonché valutazioni sulla politica
istituto storico della Resistenza.
otizie positive sono giunte d’oggi non propriamente fiduciose.
anche dal sud, dove l’ANPI Ci ha scritto anche Ottavio Terraè ormai presente in tutte le nova, presidente del Comitato proprovince e dove intensa è l’attività in vinciale palermitano e Coordinatoparticolare sul terreno della lotta re Regionale della Sicilia: “Per gli
alle mafie e alla corruzione. A Reg- straordinari risultati che registriamo
gio Calabria, significativo è stato in tutta la regione in queste giornate,
l’afflusso delle cittadine e dei citta- dovremmo tornare più spesso nelle
dini al gazebo, quasi mossi da un piazze. La vivacità di confronto che
imperioso appetito di radici, valori notiamo attorno ai nostri simboli ci
trasparenti, cambiamento. Ha di- ripaga per le coraggiose scelte che
chiarato su un quotidia- l’ANPI, aprendosi agli antifascisti e
no locale Sandro Vitale, ai giovani, ha fatto e oggi una nuova
Presidente del Comitato PRIMAVERA con l’ANPI è possibile
provinciale: “È necessario anche in Sicilia”. Ottimi risultati
che l’ANPI e le altre realtà anche a Taranto, dove è in corso da
che s’ impegnano per un due anni un importante lavoro di
nuovo civismo lavorino raccolta di adesioni che ha portato il
per far esprimere un’ isti- numero degli iscritti da 28 del 2010
tuzione comunale che so- a oltre 300 nel 2012.
stituendo quella senza Una giornata, dunque, di preziosa
qualità etiche e politiche semina democratica – il 18 novemavuta finora, sia in linea bre dell’ANPI – e di fresco spirito
con la Costituzione Presto partigiano che l’Associazione – e
chiederemo un incontro ai tutti i nuovi aderenti – è impegnata
commissari per segnalare da sempre a tenere vivo in un Paese
quello che è facile vedere che non smette di averne bisogno.
U
N
13
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
3URÀOL
UNA SPLENDIDA FIGURA DI ANTIFASCISTA E INTELLETTUALE
Joyce Lussu, la partigiana
cittadina del mondo
I viaggi in Africa alla scoperta del colonialismo. Quell’incredibile scuola
SHUIDOVLÀFDUHGRFXPHQWL0HGDJOLDG·DUJHQWRSHUOD5HVLVWHQ]D
di Maurizio Orrù
L
a memoria è una straordinaria fonte di storia, nel senso
di racconti e testimonianze,
di percorsi autobiografici, che rappresentano elementi utili e necessari per ricostruire particolari avvenimenti e contesti storici.
È utile, anzi necessario, riappropriarsi della Storia, dei suoi personaggi e
delle vicende che sono entrate prepotentemente nella memoria storica
collettiva nazionale.
Per questo bisogna ricordare la
splendida figura di Joyce Salvadori
Lussu, che deve essere considerata
un indimenticabile esempio di
umanità, di anticonformismo e di
spirito democratico e antifascista,
che l’Italia dovrebbe ulteriormente
conoscere, citare ed usare.
Joyce Lussu nacque a Firenze nel
1912, da genitori democratici e
progressisti i quali, per le loro idee
antifasciste, dovettero, loro malgrado, lasciare Firenze per incompatibilità politica ed ideologica e
trasferirsi in Svizzera. Qui Joyce e
suo fratello Max trascorsero una
splendida e dorata adolescenza, ricevendo un’educazione cosmopolita e anticonformista.
Joyce, che ebbe un percorso universitario assai ricco e variegato –
laurea in Lettere alla Sorbona, poi
in Filosofia a Lisbona – rimase in
Germania fino all’avvento del nazismo, poi iniziò una serie di viaggi
in Africa fra il 1933 e il 1938, che
le permisero di conosce la triste realtà politica-coloniale di questo
immenso continente.
Joyce rientrò in Europa e, sbarcata
in Francia, venne individuata e
perseguitata dalla famigerata poliPATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
e Libertà e del Partito Sardo d’Azione. Questo incontro clandestino
sfociò in un solido e duraturo rapporto d’amore, che li porterà al
matrimonio e ad una ferrea intesa
intellettuale e politica.
coniugi Lussu iniziarono il loro
“pellegrinaggio antifascista” nei
Paesi europei vittime della dittatura: in Inghilterra, dove Joyce
frequenta un corso per la contraffazione di documenti e timbri, assai
utili per la salvezza di tanti perseguitatati politici; in Spagna e in
Portogallo, ovvero luoghi nei quali
erano importanti gli apporti politici ed organizzativi in chiave democratica, per i quali i nostri erano
conosciuti e apprezzati.
Joyce rientrò in Italia nel 1943 e,
dopo l’arresto di Benito Mussolini,
partecipò attivamente ed eroicamente alla Resistenza, dando prova
di coraggio ed abnegazione in qualità di staffetta partigiana. Questi
presupposti le permisero di ottenere la Medaglia d’Argento al Valor
Militare per la Resistenza.
Anche a guerra finita, Joyce continuò la sua battaglia politica attraverso la scrittura, descrivendo molte azioni della sua vita partigiana e
le tante esperienze vissute nelle battaglie politiche per i diritti civili
delle popolazioni curde, aborigene
ed africane.
È stata, secondo autorevoli pareri,
una scrittrice e poetessa di rara
sensibilità. Tante le sue opere pubblicate nel corso degli anni: “Liriche”, “Portrait”, “Il libro delle streghe”, “Sguardi sul domani”, “Padre,
Padrone e Padreterno”, i racconti
sardi “L’olivastro e l’ innesto”. Nu-
I
Joyce Lussu nel 1938
zia fascista, con la “qualifica” di
sovversiva pericolosa.
Nel corso del tempo,la forte personalità di Joyce è stata oggetto di
numerose valutazioni. Scrive Nello
Ayello, giornalista e scrittore,
«(…..) Forse la leggenda più irripetibile della scrittrice rimane la sua
biografia, vissuta accanto a un patriota che si chiama Emilio Lussu,
peregrinando avventurosamente
tra fronti e frontiere».
Joyce Lussu rientrò a Parigi nel
1938, anno in cui incontrò clandestinamente il mitico antifascista
Emilio Lussu, conosciuto con il
nome di battaglia di “Mr. Mill”,
fondatore del Movimento Giustizia
14
3URÀOL
Joyce Lussu con i patrioti curdi, all’inizio degli anni Sessanta
I coniugi Joyce ed Emilio Lussu
merosi anche i saggi e le traduzioni
letterarie, come quelle delle opere
del poeta curdo Nazim Hikmet,
conosciuto ed apprezzato dal grosso pubblico proprio grazie al suo
impegno.
Joyce Lussu, oltre al suo impegno
antifascista e alla sua verve culturale, è stata una fervente militante
del Partito Socialista, in cui ha
profuso capacità e intelligenza politica, tanto da costituire e promuovere l’UDI (Unione Donne
Italiane). Un Incarico che avrebbe
lasciato dopo poco tempo, per insofferenze politiche ed organizzative. Anche questo era un aspetto
del multiforme ed originale carattere di questa donna.
crive Silvia Ballestra, da molti
considerata biografa ufficiale
di Joyce Lussu: «(…) Ho conosciuto Joyce Lussu nel 1991. Eravamo una schiera di “streghe” riunite a casa sua, con, ciascuna,
alcune pagine nostre da sottoporre
all’esame delle altre. All’esame di
Joyce, in particolare.
Ricordo ancora: essendo una piovosa sera di novembre, Joyce ci
diede l’ordine, gentile, di ammantarci, tutte, con dei tabarri di sua
proprietà. Erano dei tabarri, o
scialli coloratissimi e pelosissimi.
Gli unici due uomini presenti erano stati costretti anch’essi a indossare i tabarri. Gli uomini si occupavano, su ordine di Joyce, del
settore “cucina”, uno dei più complessi e rischiosi almeno sotto il
tetto e il giudizio di Joyce. I due
maschi sparecchiavano e preparavano il caffè, sgomenti e agili. Noi
“streghe”, intanto si parlava e par-
S
lava, divertite e concentrate (…)».
nche in questo contesto Joyce dimostrava anticonformismo e un’innata ironia.
Joyce Lussu nella sua lunga e avventurosa vita “è stata cittadina del
mondo” militando e dando il suo
originale contributo in quei molti
colonizzati, ovvero denunciando
soprusi e barbarie ai danni delle
popolazioni inermi ed indifese politicamente e socialmente.
A questo riguardo scrive Joyce:
«(….) Durante la guerra fredda,
avevo lavorato con il Movimento
mondiale della Pace, che aveva per
emblema la colomba di Picasso col
ramoscello d’ulivo e si contrapponeva alla crociata anticomunista
indetta dagli Stati Uniti e dalle potenze colonialiste, coi loro clienti e
dipendenti, compresi i governi italiani. Durante quest’attività, avevo
girato parecchio e conosciuto rivoluzionari di tutti i continenti, rendendomi conto che la guerra partigiana che avevo combattuto era
stata soltanto l’inizio di una lunghissima serie di guerre partigiane
altrettanto legittime e necessarie,
dato che il nazi-fascismo era stato
solo parzialmente abbattuto e rispuntava dalle sue radici: lo sfruttamento sostenuto dalla forza delle
armi, il colonialismo, il razzismo
(…)» (Lotte, ricordi e altro, Ed. Biblioteca del Vascello, 1992)
Joyce Lussu nutriva un particolare amore (ricambiato) per le genti
sarde, le quali avevano, ed hanno
un particolare affetto e stima nei
confronti dei coniugi Lussu, per
tutto ciò che hanno fatto e dato
nelle vicende politiche di stampo
A
15
autonomista della Sardegna.
È stata, negli ultimi anni della sua
vita, una prestigiosa fondatrice e dirigente regionale sarda dell’ISSRA
(Istituto Sardo per lo studio della
Resistenza e dell’Autonomia) in
cui ha dedicato molto del suo impegno politico e culturale. Degni
di attenzione i suoi appassionati
interventi sui temi dei diritti civili, sulla pace, sull’antifascismo militante, che teneva regolarmente
nelle scuole di ogni ordine e grado
e nelle Università.
crive Joyce, sulla morte del
proprio marito: «(…) Il ’75
fu invece un anno triste.
Emilio morì ai primi di marzo,
senza vedere l’inizio della primavera. Era una bella giornata, e
dalle finestre si vedevano le chiome dei pini at torno a Ca stel
Sant’Angelo, che avevamo guardato insieme per trent’anni. Nel silenzio totale della casa, sentivo la
sveglia di cucina battere il tempo
con ritmi monotoni e tristi, come
gli attitus delle donne sarde. Non
più, per te, il tempo… il tempo,
per te, mai più (…)». (Portrait Ed.
Transeuropa, 1988).
Da quel tempo, dopo una serie di
intralci burocratici, è stato aperto il
Museo storico di Armungia, dedicato alle memorie di Emilio e Joyce
Lussu, che, attraverso un articolato
ed intelligente percorso fotografico
e multimediale percorre le tappe
della vita dei coniugi. Da vedere
per coloro i quali arrivano nel sud
Sardegna.
Joyce Lussu morì a Roma, alla veneranda età di 86 anni, il 4 marzo 1998.
S
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Tra memoria e storia
UNA COPPIA DI ANTIFASCISTI DA SAN VITTORE AL LAGER DI BOLZANO
Ada e Carlo Venegoni
sposi tra carcere e confino
/XLRSHUDLRFRPXQLVWDVL´DFFXOWXUDµLQFHOOD/HLGLIDPLJOLDERUJKHVH
impara a battersi contro il regime. L’altro fratello Venegoni
di Dario Venegoni
Attraverso un suggestivo percorso Dario Venegoni (vice presidente dell’ANED, Associazione Nazionale Ex Deportati nei campi nazisti) racconta parallelamente le due esperienze di vita dei genitori. Una biografia familiare
che rappresenta, oltre che una “storia civile”, anche lo spaccato di una generazione messa a dura prova dalle
tragedie del totalitarismo e della guerra.
I
miei genitori, Ada Buffulini e
Carlo Venegoni, erano partigiani.
Si sono conosciuti alle prime luci
dell’alba, il 7 settembre 1944, in uno
dei cortili del carcere di San Vittore,
mentre tedeschi e fascisti li caricavano, insieme a molti altri, su alcune
“corriere” dell’azienda dei trasporti
milanese. Destinazione: il lager nazista di Bolzano, anticamera di altre deportazioni verso i campi della morte.
I due erano diversissimi tra loro, e venivano da vicende che si potrebbero
dire opposte. Anche quella mattina
affrontarono quel trasferimento con
sentimenti radicalmente divergenti.
Lei, avvisata non so come della partenza, aveva scritto a un’amica una
lettera che “era una specie di testamento”, come disse poi. A 32 anni
non aveva idea di cosa fossero i lager
nazisti, ma ne sapeva abbastanza per
immaginare di dover scrivere quel
messaggio estremo. Lui, di 10 anni
più vecchio, era semplicemente raggiante. La sera prima aveva sentito
una SS che consegnandolo a un collega, nel reparto tedesco del carcere,
aveva detto “Questo è uno di quelli
di domani mattina”, e per tutta la
notte aveva vegliato, pensando che
erano le sue ultime ore, che la sua
vita stava per finire a soli 42 anni, e
che all’alba lo avrebbero fucilato. E
quando realizzò finalmente che non
lo aspettava il plotone di esecuzione
ma una corriera che lo avrebbe porPATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Ada Buffulini con la divisa e la matricola
del campo di Bolzano nel 1945
tato verso i monti non finì di dire ai
suoi compagni che quello era “il più
bel viaggio” della sua vita.
Nel campo di Bolzano Ada e Carlo
collaborarono molto da vicino, come
componenti di un comitato clandestino di resistenza che sul modello
del CLN prevedeva al proprio interno la presenza delle diversi correnti
dell’antifascismo: Ada rappresentava
i socialisti, Carlo i comunisti. Perché
anche in questo erano diversi. La
cosa non impedì loro di ritrovarsi a
guerra finita, di sposarsi e di
condividere il resto della vita.
Carlo nasce nel 1902 a Legnano, importante centro industriale a nordovest di Milano, in una famiglia operaia poverissima. I suoi genitori
avevano cominciato a lavorare addi-
16
rittura da bambini, a 8 anni. Carlo, e
con lui tutti i fratelli, entra in fabbrica dopo le elementari, attorno ai 12
anni. Lavora il padre, lavorano i
bambini, tra una gravidanza e l’altra
torna in fabbrica anche la mamma,
ma tutti insieme non riescono a garantirsi un livello di vita decente.
La condizione dei lavoratori nelle
fabbriche è spaventosa. Mio padre
racconterà di orari impossibili, di
capi che a dispetto dei suoi 12 anni
lo assegnano al turno di notte, di angherie dei vecchi operai nei confronti
dei giovani, di una vita letteralmente
senza speranza.
Ada è più fortunata: nasce nel settembre 1912 a Trieste in una famiglia
colta e benestante: il padre è ingegnere, la madre maestra elementare. In
casa si fa musica, si legge la grande
letteratura internazionale, i bambini
vanno a scuola e tutti arriveranno a
laurearsi. Per consentire loro di studiare il padre aliena un terreno avuto
in eredità sul Carso: “Il migliore affare della mia vita”, dirà.
I Venegoni cambiano spesso casa, per
seguire il lavoro e anche per sfuggire
ai creditori. I Buffulini abiteranno si
può dire per un secolo lo stesso grande
appartamento, con le finestre affacciate sul verde del Giardin Pubblico.
Le polizie del regno d’Italia cominciano prestissimo a occuparsi di Carlo, giovanissimo operaio, ribelle e
determinato. Negli archivi resta trac-
Tra memoria e storia
Ada Buffulini parla alla tribuna del 24°
congresso nazionale del PSI - Firenze 1946
Da sinistra i fratelli Nedda, Ida, Ada e Tito Buffulini nel giugno 1919
cia di una condanna a 9 mesi di prigione per furto inflittagli il 22 marzo
1917, in piena guerra mondiale,
quando lui non ha neppure compiuto 15 anni. Di questa condanna mio
padre con noi figli non farà mai parola: propendo quindi per l’ipotesi
che si sia trattato di un gesto di pura
e semplice ribellione, in quel periodo
in cui, come lui ricorderà, era “un ragazzo solo e disperato”.
Poche settimane dopo quella condanna, ecco la svolta che segnerà tutta la sua vita. Il Primo Maggio 1917
Carlo partecipa con il fratello Mauro, di un anno più giovane, a un comizio socialista. Il segretario della
Camera del Lavoro legnanese, un
certo Montanari, parla di quello che
sta avvenendo in Russia, dice che là i
lavoratori hanno abbattuto lo Zar, e
che anche qui è ora che gli operai divengano padroni del proprio destino.
Deve essere un grande oratore, quel
Montanari, perché i due fratelli ne
sono rapiti. Cominciano a leggere la
stampa socialista, a studiare, a organizzare il circolo giovanile, e raggruppano in poco tempo centinaia
di giovani operai come loro. L’impegno politico è una scelta per la vita,
per dare una speranza, un senso alla
propria esistenza e per cambiare il
destino di quelli come loro.
Il resto, si potrebbe quasi dire, è conseguenza di quella scelta fatta da ragazzi.
In fabbrica i fratelli Venegoni impa-
rano a farsi rispettare, assumono responsabilità crescenti, si guadagnano
un larghissimo consenso tra i lavoratori. Nel settembre del 1920, quando
esplode lungo tutta la penisola il movimento dell’occupazione delle fabbriche, Carlo è uno dei leader dell’occupazione della “Franco Tosi”,
azienda elettromeccanica che impiega quasi 15.000 lavoratori. E quando
il movimento termina viene licenziato per rappresaglia, insieme ad altri 5
dirigenti della rivolta: ha appena 18
anni, ma già da 6 lavora in fabbrica e
tutti lo considerano un capo.
oi nel 1921 la scissione di Livorno, la nascita del partito comunista; l’incontro con Antonio Gramsci; la nomina (1924) a far
parte della delegazione italiana al V
congresso dell’Internazionale comunista a Mosca; la scoperta delle dimensioni planetarie del movimento,
ma anche delle sue profonde divisioni interne. Carlo si ribella con altri
delegati italiani alle pressioni di Stalin (è forse uno degli ultimi a poterlo
fare senza incorrere in tragiche conseguenze). Al ritorno in Italia sposa
la causa di Amedeo Bordiga e della
sinistra interna, e nel 1926 viene eletto nel Comitato centrale del partito.
In quello stesso anno deve entrare in
clandestinità dopo il varo delle leggi
eccezionali, incaricato di ricostruire
la Confederazione del lavoro
nelle città del “Triangolo indu-
P
17
Carlo Venegoni in una foto segnaletica
della polizia dopo l’arresto nel 1927
striale”: Milano, Torino, Genova.
Negli stessi anni, a Trieste, Ada va a
scuola, assiste ai concerti, all’opera,
alle corse dei cavalli, va d’estate al
mare a Pirano, in Istria, e qualche
volta in montagna, sulle Dolomiti. Le
piace scrivere: compone piccole pièces
teatrali che “mette in scena” in salotto, insieme ai fratelli. Rimane memorabile l’errore della sorella Nedda,
proprio all’attacco del primo atto di
una di queste commedie: “Notte fanal, sotto il fatal….”. Le sorelle ne
rideranno a crepapelle ancora a decenni di distanza. Il padre suona praticamente qualsiasi strumento musicale, i figli stentano un po’, ma sono
indotti a provarci anche loro: il padre
assegna a uno il violino, e alle figlie il
piano, il violoncello, con l’ illusione di
potere un giorno avere in casa una
piccola orchestra da camera. La
mamma canta, con questo accompagnamento domestico.
Sono anche anni di studio serio nella
scuola triestina che, sia pur italianizzata, conserva l’ impronta di rigore
tipica delle istituzioni dell’impero di
Francesco Giuseppe. I Buffulini hanno
una grande apertura culturale e impiegano le proprie risorse per i libri, la
musica, per i teatri. I ragazzi vestono
più che dignitosamente, spesso tutti
uguali, “alla marinara”. Per il resto il
regime domestico potrebbe essere definito frugale, valutato con gli standard
di oggi. Non si butta via niente, tutto
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Tra memoria e storia
si ricicla, si riusa, lo spreco è un peccato. La vita “mondana” non esiste; la
casa è una specie di fortezza che si apre
poche volte all’anno per selezionate
“visite” che impegnano la famiglia per
giorni e giorni a pulire e lustrare, e a
preparare il grande evento.
Vittorio Buffulini, il padre di Ada, è
“ovviamente” iscritto al Fascio, come
d’obbligo, essendo un funzionario pubblico (ingegnere capo del Comune, con
l’ufficio che si affaccia su Piazza
dell’Unità). In casa si commentano con
un certo distacco certe “pagliacciate”
del regime, ma nessuno è neppure sfiorato dall’idea che una persona perbene
possa dirsi – o addirittura essere – “antifascista”: non si fa, non sta bene, l’ordine costituito è un dogma, la Patria
ha bisogno di ordine e di disciplina.
ll’inizio dell’estate del 1927
Carlo è arrestato dai fascisti a
Torino, dove cerca di riorganizzare il sindacato alla Fiat. Con spirito profetico aveva deciso di intitolare
Portolongone il giornaletto indirizzato
ai lavoratori del Lingotto, paragonando le condizioni di vita e di lavoro nel
celebre stabilimento torinese a quelle
del più famigerato penitenziario italiano. Non sapeva ancora che proprio
in quell’ergastolo sarebbe stato rinchiuso di lì a non molto, per alcuni
terribili anni di prigione.
Deferito al Tribunale Speciale per la
difesa dello Stato, Carlo è condannato nel 1928 a dieci anni di reclusione. Con lui sono condannati per
“ricostituzione del Partito comunista” sindacalisti comunisti, socialisti, anarchici e un repubblicano. Il
tribunale non va tanto per il sottile
e il difensore d’ufficio non si agita
troppo, limitandosi a rimettersi
“alla clemenza della Corte”.
Per Carlo gli anni della galera sono
anni di formazione, di studio appassionato. L’operaio che aveva solo
la quinta elementare studia filosofia,
economia, storia, geografia, lingue.
Lo fa da solo, nei lunghi anni dell’isolamento, e con la guida di compagni più esperti quando per qualche
tempo è rinchiuso con altri dirigenti
comunisti di spicco nel carcere di
Alessandria. Sarà per lui – e per
molti altri prigionieri politici del fascismo – “l’Università del carcere”,
come si disse poi.
A
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Ada, nel frattempo, all’Università ci
va davvero. Terminato il liceo classico
a Trieste con ottimi voti, discute coi
genitori del proprio avvenire. Il suo
fermo desiderio è quello di diventare
medico. La discussione ruota attorno
a due opzioni: o Padova, o Milano.
Padova sarebbe più vicina a Trieste, e
lei potrebbe tornare a casa più spesso,
ma la mamma ha alcune buone amiche a Milano che potrebbero offrire
ospitalità. È così che nel 1930, a 18
anni, Ada sbarca da sola nella metropoli e si iscrive a Medicina, dove le
ragazze si contano sulle dita di una
mano: sembra alquanto disdicevole
per la morale corrente, infatti, che
una donna scelga una professione che
la porterà ad avere a che fare con tante nudità, anche maschili.
Paradossalmente le vite parallele dei
miei genitori tendono in qualche
modo a convergere proprio nel momento in cui sembrano agli antipodi: lui chiuso nelle peggiori prigioni
del regno, lei libera come l’aria nella
grande città. Per entrambi sono invece anni di formazione, di studio,
di scoperta.
Persino l’ambiente culturale che Ada
inizia a frequentare a Milano comincia ad avere qualche punto di contatto con quello di Carlo. Per una serie
di fortuite circostanze lei frequenta a
Milano Abigaille Zanetta, comunista
e femminista, che Carlo conosce da
tempo; diventa amica di Virginia
Scalarini, figlia del grande vignettista
Giuseppe; entra in contatto con diversi reduci dal confino, antifascisti di-
chiarati. È un mondo giovane, anticonformista, non allineato, ribelle,
lontano mille miglia dall’ambiente
conformista e provinciale di Trieste.
Un mondo solidamente antifascista.
Così anche Ada, sui vent’anni, comincia a prendere le distanze dal regime. La sua è una ricerca di libertà:
libertà di cultura, di idee, di letture,
di relazioni. È una giovane donna
che rifiuta alla radice il ruolo che il
regime le vuole assegnare nella società, proprio in quanto donna.
Ada rifiuta i dogmi della società del
suo tempo, tiene un diario in cui
condanna l’ istituto del matrimonio,
critica la famiglia e la proprietà privata: quando i suoi scoprono quel
diario, nel 1931, scoppia una tragedia familiare. E lei decide che è
giunto il tempo di camminare da
sola e di seguire il proprio istinto e le
proprie aspirazioni.
Gli anni Trenta sono difficili per entrambi. Liberato dal carcere, lui è
sottoposto a un regime di vigilanza
rigorosissimo. Conosciuto come comunista, trova esclusivamente lavori
di fatica, ma non per questo rinuncia
a organizzare il suo partito, instancabilmente, mentre il fratello Mauro
emigra in Francia, poi va a Mosca,
quindi torna in Italia per essere arrestato e condannato a sua volta a 5
anni e mezzo dal Tribunale speciale.
Allo scoppio della guerra, nel giugno
1940, i due fratelli Venegoni sono arrestati e condotti in altrettanti campi
di concentramento; Carlo a Colfiorito, Mauro a Istorio.
Carlo Venegoni riceve da Enrico Berlinguer una medaglia nel cinquantenario
della fondazione del PCI, nel 1971
18
Tra memoria e storia
Di nuovo, paradossalmente, i destini
di Ada e Carlo si avvicinano: ammalati di TBC, entrambi soggiornano a
lungo, all’inizio degli anni Quaranta, in sanatorio, lui piantonato dalle
guardie a Legnano, lei a Sondalo.
Caduto il fascismo il 25 luglio 1943,
lui a Legnano si pone a capo della resistenza nella sua zona e ha una vivace
polemica con i dirigenti del PCI.
Proprio nei giorni dell’armistizio lei
conosce Lelio Basso e inizia a collaborare con lui e con il partito socialista:
ha trovato uno sbocco al suo spontaneo antifascismo. La “normalità”
dura soltanto un paio di mesi. L’arresto di una sua compagna la induce a
una scelta drastica: si tinge i capelli di
biondo, annuncia alla portinaia che
parte per un lungo viaggio, chiude
casa ed entra in clandestinità.
Per otto mesi i due girano per Milano sotto falso nome, con documenti
falsi, lavorando per la Resistenza,
senza mai incrociarsi, nemmeno nelle occasioni in cui Carlo incontra Lelio Basso. Ada è arrestata a Milano il
4 luglio 1944 con altri, nel corso di
una riunione per illustrare le scelte
dei socialisti a un gruppo di studenti
del Politecnico. Carlo “cade” il 28
agosto, nel corso di una irruzione
delle camicie nere in una tipografia
dove stava preparando un numero
dell’Unità clandestina.
Infine, all’alba del 7 settembre, la
partenza per il Lager, insieme. A Bolzano viene loro assegnato un triangolo rosso e un numero: 3795 per lei,
3906 per lui.
A Bolzano, nel comitato clandestino,
i due collaborano, discutono, litigano. “Quel mascalzone di Carlo –
scrive lei a Lelio Basso – mi parla
sempre male del Partito Socialista, e
qualche volta purtroppo ha ragione”.
Con l’aiuto della Resistenza bolzanina l’organizzazione dei prigionieri
gestisce una corrispondenza clandestina con l’esterno, cerca di organizzare delle fughe, prova a far pervenire ai deportati aiuti in viveri, capi
d’abbigliamento, denaro.
Nelle lettere che Ada riesce a far pervenire clandestinamente a Lelio Basso, che vive sotto falso nome a Milano, lei racconta di una domenica in
cui con Carlo ha fatto su e giù per il
campo infinite volte, approfittando
della relativa libertà della giornata aprile 1945, Ada impiega la sua prifestiva: sembra di vederli mentre ma notte di libertà a scrivere e a stamvanno avanti e indietro discutendo pare con i socialisti di Bolzano un voe chiacchierando, con la scusa della lantino che sarà diffuso all’indomani,
politica. Chissà che tutto non sia Primo Maggio, nella zona industriale
iniziato quella domenica, sotto l’oc- di una Bolzano ancora interamente
chio delle mitragliatrici piazzate occupata dai nazisti.
Nel 1946 Ada e Carlo si sposano.
sulle torrette di guardia.
Alla fine di ottobre lui riesce a eva- Quando l’anno dopo nasce il loro pridere, grazie a un piano di cui in re- mo figlio, lei scrive per il suo piccolo
altà ancora adesso io so poco. False un lungo memoriale. “Da quando sei
guardie con falsi documenti riesco- nato – gli scrive – ho indirizzato tutta
no a farsi consegnare il prigioniero, la mia vita in modo che tu non ti debrichiesto evidentemente da una au- ba vergognare di me, in modo ch’io ti
torità superiore. Quando nel campo possa lasciare come unica eredità l’esi accorgeranno dell’inganno lui sempio di una vita coerente”.
sarà già quasi a Milano, su una E così è stato, fino alla scomparsa:
militanti del PCI (al quale Ada aderì
grande macchina nera.
da non perdonerà mai a Car- nel 1947), attivi nel sindacato, nelle
lo di averle taciuto quel pia- associazioni della Resistenza e nelle
no di fuga. Lui si giustifiche- istituzioni democratiche.
rà dicendo che era una normale Questa è l’eredità di Ada e Carlo,
regola di clandestinità. Ma lei non che oggi avrebbero 100 e 110 anni.
si farà convincere: “La realtà è che Quest’anno ho parlato spesso di loro
non ti sei fidato di me”, gli disse in diversi incontri pubblici, per feuna volta, ancora molti anni dopo, steggiare a mio modo il centenario
me presente.
della nascita di mia madre, e perché
Lui torna a Milano in tempo per ve- trovo al fondo di questa loro storia il
dere il fratello Mauro poche ore pri- senso profondo della Resistenza itama del martirio: riconosciuto nella liana, che non fu quella caricatura
sua zona, Mauro è atrocemente tor- che oggi talora si tramanda, con uoturato e trucidato dalle camicie nere mini tutti uguali, con lo stesso fazalla fine di ottobre del 1944.
zoletto al collo e lo stesso Sten a traDiventato eccessivamente pericolo- colla, ma un moto di popolo che unì
so rimanere a Milano, Carlo a di- uomini e donne diversissimi tra loro
cembre è trasferito a Genova, re- per ceto sociale, per cultura, per
sponsabile delle Sap del centro città, orientamento politico e per fede ate partecipa in quella veste all’insur- torno agli ideali della libertà, della
rezione vittoriosa di aprile.
democrazia e della pace.
Lei rimane fino
alla liberazione nel Lager,
coordinatrice
del comitato
clandestino dei
prigionieri.
Quando i sospetti su di lei si
fanno troppo
forti viene richiusa in isolamento nelle celle del campo.
Due mesi di
terrore, a pochi
metri dai torturati e dagli Carlo Venegoni (il primo in piedi a sinistra) con altri antifascisti nel
FDPSRGLFRQFHQWUDPHQWRIDVFLVWDGL&ROÀRULWR3*$OODVXDVLQLVWUD
assa ssin at i .
Lelio Basso
Liberata il 30
A
19
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Cultura e arte
/$5,9,67$',´9$5,$80$1,7­µ86&,9$'$/
Sparisce «Belfagor» e la cultura
è ancora più povera
di Umberto Carpi
Luigi Russo, fondatore della rivista
P
eccato, peccato davvero. Con
l’ultimo fascicolo del 2012 (la
rivista usciva puntualissima
dal gennaio 1946, scadenza bimestrale) «Belfagor» ha cessato di esistere. Non problemi economici, non
carenza di collaboratori e lettori, ma
la decisione dell’attuale direttore, il
grecista Carlo Ferdinando Russo,
figlio del fondatore e mitico primo
direttore Luigi Russo. Stanchezza
sua, certo, dopo anni di dedizione
assoluta alla rivista, alla sua tenuta e
al suo livello: ma forse anche la sensazione, da me non condivisa, che
un’epoca fosse finita, che «Belfagor»
fosse ormai un ‘fuori tempo’. Qualcuno ha scritto di mancanza di eredi: vero in senso notarile, meno vero
quanto a continuità di una grande
tradizione antifascista, laica, progressiva. L’ANPI e «Patria», tanto
per dire, coi loro vecchi partigiani,
con i loro anziani militanti democratici dei decenni postbellici, con i
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
loro giovani e giovanissimi di una
nuova leva resistenziale non nostalgica ma ben attiva, sono qui a testimoniare che le ragioni storico-politiche e lo spirito combattivo di
«Belfagor» restano ancora in campo. Anzi, coi tempi grami che corrono per la tenuta stessa della Costituzione e dello Stato democratico,
di quei valori e di quello strenuo
animus pugnandi si avverte più che
mai la necessità.
«Belfagor» (dal titolo di una celebre
novella di Machiavelli, del quale
Russo fu uno dei massimi studiosi
italiani e forse il più efficace nel
contrastare l’uso fascista del machiavellismo) venne progettata dallo
storico Omodeo e da Russo, due antifascisti crociani di sinistra, aderenti al Partito d’Azione: perciò assai
criticati dal Croce, che vedeva come
il fumo negli occhi quel sinistreggiante Partito (il monarchico Croce
del resto non accettò mai il 25 aprile 1945 quale data discriminante,
bensì il 25 luglio 1943). Deceduto
prematuramente Omodeo, «Belfagor» restò la rivista di Russo, che la
diresse fino alla morte, nel 1961, facendone la più bella e autorevole e
indipendente ‘rivista di varia umanità’. Di altissimo livello la sezione
dei saggi; straordinaria, anche per la
sua continuità, la sezione dei ritratti
critici di contemporanei (alla fine,
una imponente galleria di centinaia
di profili); gustosa, intrigante l’altra
sezione delle noterelle e schermaglie, la più ‘russiana’, concepita nel
segno del gusto polemico (nel più
alto senso etico-politico) del direttore. Il quale – nell’evolversi della situazione politica, nel progressivo
20
dissolversi del Partito d’Azione, fortemente attratto dalla lettura di
Gramsci sui cui quaderni (datigli in
lettura da Togliatti) tenne una memorabile lezione alla Scuola Normale che dirigeva, essendone presto
cacciato per discriminazione politica – si avvicinò animosamente al
PCI, aderendo nel 1948 al Fronte
Popolare. «Belfagor» fu segnata da
questa vicenda politica e intellettuale, divenendo uno dei luoghi fondamentali della cultura, degli studi,
dei dibattiti della sinistra nella sua
stagione più ricca e tormentata.
Bianchi Bandinelli, Bobbio, Calamandrei, Luporini, Binni, Cantimori, tanti altri, il meglio dell’Italia
d’allora, intellettuali già prestigiosi
e giovani emergenti.
Alla morte di Luigi Russo, come ho
già ricordato, la direzione di «Belfagor» passò al figlio Carlo Ferdinando, personalità a sua volta assai profilata, di impronta molto radicale ed
eterodossa: suoi grandi meriti (oltre
all’essere riuscito a mantenerne intatto per decenni livello e prestigio),
l’attenzione acuta per i fenomeni
culturali apertisi nella stagione del
Sessantotto, l’immutata fedeltà,
sempre viva e varia per varietà di
prospettive, ai valori dell’antifascismo, della laicità, della democrazia.
Una rivista nata sull’onda della Resistenza e vissuta fino alla fine nel
suo spirito insieme determinato ma
mai settario. Per questo l’ANPI e
«Patria» segnalano con grande rammarico questo nuovo, grande vuoto
che si apre nella cultura e nella
stampa democratica con la morte di
«Belfagor», scaffale glorioso nella biblioteca postresistenziale.
Tra memoria e storia
UNA INCREDIBILE STORIA DEL 1943 NEL CUORE DI ROMA
Ricercati, militari ed ebrei
rifugiati
dietro il rosone della chiesa
Un muro per chiudere la volta a botte. Dentro, quindici persone alla
YROWD/·DLXWRGHOODJHQWHGHOULRQH3LHWUR/HVWLQLHODÀJOLD*LXOLDQD
GL0DXURGH9LQFHQWLLV
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Q
uesta è la storia della “Sezione Aerea San Gioacchino”
(in sigla: S.A.S.G.), come è
stata ricostruita da Padre Ezio Marcelli, in un pamphlet, stampato in
proprio, dal titolo: “Stupenda pagina
di cronaca nella chiesa di San Gioacchino a Roma. Novembre 1943-giugno 1944”.
Attori principali: il redentorista padre Antonio Dressino, parroco di
San Gioacchino (nel quartiere Prati);
suor Margherita Bernès del convento
delle Figlie della Carità; l’ingegnere
Pietro Lestini vice-presidente dell’A-
zione Cattolica della parrocchia e sua
figlia Giuliana Lestini, studentessa.
Grazie alla loro opera, trovarono rifugio nella chiesa ricercati politici,
militari sbandati ed ebrei, nascosti
prima nell’annesso teatrino parrocchiale, poi a partire dal 3 novembre
1943, tra la volta a botte e il tetto a
capriate; in uno spazio che, per sfuggire a eventuali perquisizioni, venne
murato fino alla Liberazione di
Roma (4 giugno 1944). In quell’ambiente sono state ospitate – in tempi
diversi – dalle dieci alle quindici persone che hanno potuto contare,
21
come unico mezzo di contatto con
l’esterno, sul rosone del timpano,
apribile – per motivi di sicurezza –
solo di notte. All’inizio, in quello
“stanzone aereo” non c’era nulla;
dopo qualche tempo erano stati realizzati: un gabinetto, che rispettava le
regole della decenza, una luce elettrica in ogni spazio riservato a ciascun
ospite, più una luce in quello comune, con tavolo e sedie, una radio e
alcuni fornelletti per riscaldare le vivande; era stato costruito anche un
argano per il carico e scarico dei
materiali, mentre una scala a corda
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Tra memoria e storia
permetteva ai rifugiati l’accesso.
Questo il racconto di un “ospite” sulla sua arrampicata nel rifugio:
“Aspettai su una terrazza sotto un
rosone con un gran freddo: ero salito
verso le diciannove e rimasi lì in attesa, perché dovevo raggiungere gli altri a mezzanotte. Si era alla fine di
gennaio e la giornata la ricordo come
particolarmente rigida; camminavo
su e giù per la terrazza per non intirizzire. A un tratto un tramestio sottile, qualcuno stava calandosi da una
scala di corda ch’era comparsa all’improvviso, appena rischiarata dal fioco lume delle stelle; scorsi una figura che mi affiancò e con un gesto mi
invitò a salire”.
Pochi redentoristi, insieme a padre
Dressino, tenevano i contatti con i
clandestini. Il sacrestano era l’addetto al carico e allo scarico dei rifornimenti e dei rifiuti.
In premessa al libro-testimonianza di
Giuliana Lestini “S.A.S.G.”, ora
pressoché introvabile, si legge:
“Quando si è costruita una vita basata su princìpi consolidati da una lunga esperienza, è difficile distruggerla;
oggi è necessario ricordare il passato,
perché certe azioni, ignorate per cinquant’anni, vedano la luce nel riflesso di un mondo che ha tanto bisogno
di credere e di ritrovare quei saldi e
reali valori della vita stessa, primo fra
tutti quella solidarietà, tra cittadini
di tutto il mondo, uniti per lottare e
sconfiggere la minaccia che gravava
allora sull’intera umanità e che purtroppo è ancora in agguato… Ho
voluto scrivere queste memorie per
rievocare la figura di mio padre, Pietro Lestini e la storia della sua lotta
contro gli oppressori nazisti negli
anni ’43 e ’44 a Roma, i sentimenti
di solidarietà e di altruismo disinteressato che lo spinsero a operare nella
clandestinità, in difesa di tutti i perseguitati a causa della razza, della religione, dell’idea politica e dell’amore
per una patria libera e democratica;
una lotta condotta contro ogni forma di violenza, tesa solo a sottrarre
quanti più possibili uomini alla tortura, alla prigionia, alla morte”.
Giuliana Lestini ricorda anche
che molti furono coloro che, senza
rifugiarsi nella soffitta, aderirono
alla S.A.S.G., restandone all’esterPATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
no per collaborare e fiancheggiare ha ricordato: “Si passavano le ore a
l’organizzazione.
discutere del più e del meno, della
a presenza e la vita di tanta vita passata, delle speranze per il fugente in soffitta restò nasco- turo, del desiderio di uscire da quel
sta, fino alla fine. A tutti, luogo. A volte ci portavano i giornacompresi i parenti più stretti, ai li”. Il resto di una copia del “Messagquali venivano recapitati messaggi, gero” del 2 aprile 1944 è stato ritrovasempre controllati e perfino censu- to in una fessura della soffitta,
rati da Pietro Lestini.
durante un sopralluogo nel 2009;
Questo controllo fu necessario per rinvenuta anche una copia di “Crox”,
evitare che trapelasse l’esistenza e il rivista di “Parole incrociate da tavoluogo del nascondiglio. In una lette- lo”; in altre fessure sono state rinvera, scritta da uno degli “ospiti” alla nute alcune scatole di carte da gioco,
fidanzata, fu resa illeggibile questa di fiammiferi e di sigarette “Giuba”.
frase: “Sento molto la tua mancanza Il peso maggiore dell’assistenza ai rispecie quando odo cantare il vostro fugiati fu sostenuto da Suor Marghegallo”. La famiglia della ragazza abi- rita Bernès. A Roma dal 1933, era
tava nel fabbricato che formava un molto conosciuta in Prati: le fu facile,
corpo unico con la parrocchia e il cui così, ricevere e trovare aiuti tra gli
cortile, allora, era
adiacente
alla
chiesa. Una simile notizia non poteva passare, per
non far capire ai
familiari
dello
scrivente che il
suo rifugio era
molto vicino alla
loro abitazione.
Avrebbe potuto
fornire la possibilità di localizzarlo, col rischio
della vita di tutti
i rifugiati e di coloro che li assistevano. Nella corrispondenza non
veniva usato il
nome del mittente ma un codice.
Pietro Lestini
così aveva ammonito: “La sicurezza è basata sul silenzio; nessuno
deve fornire notizie agli altri, neppure ai familiari”.
Ogni rumore doveva essere evitato, per non creare
sospetti tra i fedeli presenti nella
chiesa. Un ospite,
il tenente Clemente Gonfalone
/DFKLHVDGL6DQ*LRDFFKLQRLQ3UDWL,OURVRQHSLSLFFROR
(poi sacerdote),
L
22
Tra memoria e storia
abitanti del quartiere. È certo che il
coraggio, l’impegno, la costanza, in
lei furono grandi, se si pensa che per
oltre sette mesi, quando il pane era
razionato, riuscì a non farne mancare a “quella gente lassù”. Così come
per il pranzo di Natale 1943 che
permise ai rifugiati “in libera uscita”
(si erano calati, con tutti gli accorgimenti necessari, dal rosone) di incontrare i familiari in una sala del
convento delle suore.
Carlo Prosperi, uno dei rifugiati “aerei”, ha descritto così la figura di Suor
Margherita: “Magra, pallida, sempre
sorridente e con una espressione un
po’ meravigliata; sembrava che stesse
sempre per dire bravo con la erre arrotondata della lingua materna”.
LQDOWRqTXHOORGRYHVLQDVFRQGHYDQRLSHUVHJXLWDWL
Una consorella, a proposito dell’opera di Suor Margherita, ha ricordato: “Noi avevamo un po’ paura, forse anche molta; lei no, non ha mai
avuto paura”.
Suor Margherita, nel 1951, passò ad
Ain Karim, a pochi chilometri da
Gerusalemme, dove continuò, insieme con altre consorelle, la sua opera
di bontà e di consolazione tra i più
poveri. Prima di morire, ad Alessandria d’Egitto (nel 1966), ebbe la gioia di incontrare due dei “rifugiati”
della S.A.S.G..
Andrea Riccardi1, autore del saggio
“L’inverno più lungo. 1943-’44”, ha
ricordato che Prati era un quartiere
difficile. Si erano verificati atti violenti contro gli ebrei. Un’ebrea che
vendeva rotoli di
fettuccia al vicino
mercato dell’Unità era stata portata via con il suo
bambino. Altri
ebrei erano stati
razziati nei loro
negozi. Da Prati
proveniva il delatore di don Morosini, condannato a morte per il
suo aiuto alla Resistenza, che viveva a poche centinaia di metri da
San Gioacchino.
L’ospitalità della
parrocchia era legata a un tessuto
di solidarietà e di
azione clandestina. Lestini ha dichiarato che nella
sua qualità di
“vice presidente
dell’Unione Uomini di Azione
Cattolica, col
consenso del parroco di San Gioacchino” distribuì sussidi ai
militari e ai civili.
C’era un fitto lavoro clandestino
nel quartiere che
andava dall’occultamento dei
23
ricercati, degli sbandati, degli ebrei
sino ad atti di resistenza. Leopoldo
Moscati (il più giovane dei rifugiati:
15 anni) ha spiegato l’anima dell’operato di quel gruppo di religiosi e di
laici: “un verissimo spirito umanitario, senza che sia mai trapelato alcun
interesse e pressione di carattere economico, religioso, politico…”. Parrocchie, religiosi, laici, famiglie, case
private costituivano un tessuto di
volenterosi che proteggeva le presenze clandestine.
In memoria di padre Dressino, lo
Yad Vashem ha consegnato alla parrocchia il diploma di “Giusto tra le
Nazioni”, un riconoscimento che lo
accomuna a Pietro e Giuliana Lestini e a Suor Margherita, anche loro
insigniti della stessa onorificenza.
POST SCRIPTUM
H
o visitato la “Sezione Aerea”
il 17 giugno 2012, insieme a
un gruppo di Suore del convento delle Figlie della Carità, consorelle di Suor Margherita Bernès,
con la preziosa guida di padre Pietro, attuale vice-parroco di San Gioacchino. Per arrivarci si sale dalla
sacrestia al quarto piano dell’edificio, per raggiungere la base della cupola; una scala a chiocciola, poi, porta all’ ingresso dello “stanzone”. Si
entra attraverso un varco nel muro
eretto per celare il rifugio (è ancora
in sede buona parte dei mattoni).
Con accorgimenti, si percorrono i
lati del rettangolo. Nella parte di sinistra, entrando, sono ancora visibili
alcuni disegni realizzati con il carboncino da un rifugiato, restato sconosciuto: un uomo si copre il volto
(forse simbolo della difficile condizione condivisa, sia fisica che psicologica), un Cristo sofferente e una Madonna con bambino (l’ immagine è
parzialmente compromessa dall’umidità); nella parete che racchiude il
Rosone c’ è traccia, in piccolo, di alcuni alberi e di una casa di campagna.
NOTE:
1) È ministro per la Cooperazione internazionale e l’Integrazione, nel governo
Monti. È professore a Roma Tre e fondatore della Comunità di S. Egidio.
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Itinerari della Resistenza
Curenna, Borgo e Monte Castellermo, coperto dalle nubi
RICORDANDO IL MEDICO-PARTIGIANO FELICE CASCIONE
Tra quei sentieri nacque
“Fischia il vento”
6XOOHQRWHGL´.DWLXVFLDµLOWHVWRLWDOLDQR/HEDQGHGHO3RQHQWH/LJXUH
HO·DVVDOWRIDVFLVWD´XPHJXµGHFRUDWRGLPHGDJOLDG·2UR
di Roberto Moriani
S
ubito dopo l’8 settembre 1943,
anche nel Ponente Ligure, sulle
alture a ridosso delle città costiere si vanno formando le bande partigiane che saranno poi unificate ed
organizzate nelle “Brigate Garibaldi”
della “Prima Zona Liguria”. Prima fra
tutte nell’imperiese quella guidata dal
giovane medico Felice Cascione, per
tutti “u megu”. Inizialmente essa è
stanziata in località “Magaietto” nel
comune di Diano Castello, dove si
raccolgono e si organizzano i gruppi
di giovani che per primi vi affluiscono. Verso la fine di novembre le condizioni del momento consiglieranno
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
lo spostamento della banda in via di
formazione in una zona ritenuta più
sicura dietro la montagna del Pizzo
d’Evigno, che sovrasta le Valli di Oneglia, di Diano e di Andora, in alcuni
casoni 1 nella zona del “Passu du Beu”
sopra la frazione Duranti nel Comune di Stellanello (SV) in Val Merula
dove resterà fino al 20 dicembre. Durante questo periodo si creeranno le
condizioni di una vera organizzazione
militare e logistica della formazione
partigiana e qui, nei periodi di calma,
alla sera intorno al fuoco nasceranno
le prime strofe della canzone “Fischia
il vento”, destinata in breve tempo a
24
diventare, attraverso la sua diffusione
spontanea, l’inno di tutta la Resistenza. Tra questi giovani volontari c’è il
partigiano “Ivan”, Giacomo Sibilla,
reduce dalla campagna di Russia dove
aveva imparato una popolare canzone, “Katiuscia”, che parlava della nostalgia di una ragazza per il suo soldato al fronte. Il motivo suonato con la
chitarra da “Ivan” è orecchiabile e
accattivante per tutti e, le stesse condizioni di questi partigiani e la dura
vita che conducono, assieme all’anelito che li spinge, suggeriscono all’animo sensibile del Comandante Cascione le parole ed i primi versi del
Itinerari della Resistenza
loro inno. “Fischia il vento, urla la
bufera, scarpe rotte eppur bisogna ardir, a conquistare la rossa primavera,
in cui sorge il sol dell’avvenir”.
l 14 dicembre 1943 parte della
banda viene chiamata a partecipare, soccorrendo altri gruppi locali,
al primo scontro armato di un certo
rilievo noto come la “battaglia di
Colla Bassa” a monte del paese di
Montegrazie nell’entroterra di Porto
Maurizio (Imperia) per rintuzzare la
minaccia di una rappresaglia nazifascista. La battaglia, che impegnerà un
centinaio di uomini tra tedeschi e fascisti, si risolverà per essi in un pesante
rovescio e darà un primo segnale della
effettiva consistenza, anche militare,
della nascente Resistenza imperiese.
Nel corso dell’azione cadranno tra
l’altro prigionieri dei partigiani un tenente ed il milite delle brigate nere
Michele Dogliotti che, condotti presso il comando della banda al Passu du
Beu, eviteranno la fucilazione grazie
all’energico intervento del “megu”:
“ ho studiato tanti anni per salvare
vite umane, ora non mi sento di sop-
I
primerli. Teniamoli con noi e cerchiamo di fargli capire le nostre ragioni”.
Queste, più o meno le parole che
adoperò e che furono riportate dai
suoi compagni. Da quel momento i
due seguirono gli spostamenti della
formazione godendo anche di una
certa libertà. La cosa si rivelerà in
seguito fatale per le sorti della banda e dello stesso Comandante.
n seguito alla Battaglia di Colla
Bassa la sede del comando del Passu du Beiu diventa insicura, troppo esposta alla prevedibile reazione
fascista. Il CLN avverte sospetti movimenti di truppe tedesche ed individua per la formazione una nuova
posizione più arretrata e sicura
nell’entroterra di Albenga, sotto la
cima del Monte Castellermo presso il
“Casone dei Crovi” 2. All’alba del 21
dicembre inizia il trasferimento verso
la nuova destinazione. Si discende al
paese di Testico e da qui verso il fondovalle del torrente Lerrone passando
da Poggio Bottaro. Giunti sotto il paese di Casanova Lerrone i partigiani
di Cascione risalgono la montagna
I
verso Nord in direzione della cresta
montuosa che separa in questo punto
la Valle Lerrone dalla Valle d’Arroscia e passano dalla cappella campestre di S. Bernardo per discendere
alla frazione Bosco. Rifocillati dagli
abitanti con quel poco che avevano,
sostano in un casone di fortuna dove
si fermano a dormire e a riposare anche la giornata successiva; altri versi
della canzone si aggiungeranno ai
primi. La notte seguente protetti
dall’oscurità raggiungono il pericoloso fondovalle dell’Arroscia percorso dalla strada statale che congiunge
Albenga alla Val Tanaro in Piemonte, la attraversano presso Ponte Rotto
di Ranzo e prendono a risalire verso
Nord attraverso Onzo e fino alla destinazione del Casone dei Crovi a
quota 750 metri. che raggiungeranno tra il 23 ed il 24 dicembre.
a Notte di Natale del 1943 gli
abitanti della frazione Curenna
del Comune di Vendone, uscendo dalla messa di mezzanotte, avranno la sorpresa di trovare il gruppo dei
partigiani armati sul sagrato della
L
I LUOGHI DELLA MEMORIA ED IL PERCORSO
/HWDSSHGHJOLVSRVWDPHQWLGHOOD%DQGDGHO´0HJXµ
Magaietto: prima sede della banda, dal mese di settembre al 20
novembre 1943
gruppo di casoni nel Comune di Diano Castello (IM) sulle alture che conÀQDQRFRQLO&RPXQHGL3RQWHGDVVLRSRFRGLVWDQWHGDOOH“Case Merea”.
IL SENTIERO DI “FISCHIA IL VENTO”
L’intero percorso dal Passu du Beu al Casone dei Crovi misura 18 chilometri. Tutte le tappe indicate sono raggiungibili in auto provenendo da
Albenga, da Andora o dal Piemonte attraverso la Val Tanaro.
Passu du Beu: Sede del comando dal 23 novembre al 21 dicembre 1943
versante settentrionale del Monte Pizzo d’Evigno, piccolo gruppo di casoni compresi in uno stanziamento agro-pastorale a quota 610 mt nel
comune di Stellanello (SV) in Val Merula o Valle di Andora, sopra la
frazione Duranti. La zona è raggiungibile dalla frazione anche con fuoristrada lungo una carrareccia in vari punti dissestata.
Felice Cascione “u megu”, il medico partigiano
4XLQDFTXHUROHSULPHVWURIHGL´)LVFKLDLOYHQWRµ
'DODOGLFHPEUHVLVYROJHODPDUFLDGLWUDVIHULPHQWRGHOODEDQGDYHUVRLO´&DVRQHGHL&URYLµVRSUDODIUD]LRQH&XUHQQD
di Vendone. Queste le tappe:
Passu du Beu - Duranti - Testico - Poggio Bottaro - Casanova Lerrone - Cappella di S.Bernardo - Bosco (frazione di Casanova, situata
però in valle Arroscia) - passaggio dell’Arroscia a Ponte Rotto di Ranzo - Onzo - Curenna di Vendone (dove venne cantata per la
prima volta la canzone, la notte di Natale del 1943 sul sagrato della chiesa all’uscita della messa, vi si trova un monumento con lapide
memoriale in una piazzetta ricavata a monte della strada provinciale sotto il borgo) - Borgo - Casone dei Crovi.
Casone dei Crovi: sede della banda dal 24 dicembre 1943 all’8 gennaio 1944
Casoni sparsi in quota 750 mt. sotto le rocce di Castellermo, tutt’ora utilizzati da allevatori di Curenna. Sulla facciata del Casone dei
&URYLYLqODODSLGHGHGLFDWDD&DVFLRQHHD´)LVFKLDLOYHQWRµ'DOODIUD]LRQH%RUJRXQRVWHUUDWRVDOHFRQGLYHUVLWRUQDQWLYHUVRLOFDsone incrociando più volte l’antica mulattiera. Percorribile in auto fuoristrada o 4x4. La Frazione Curenna è raggiungibile in auto dalla
Valle Arroscia attraverso Costa Bacelega e Onzo, oppure da Albenga attraverso il Comune di Arnasco dove si possono ammirare le
stele che lo scultore Kriester ha dedicato alla memoria di Fischia il vento.
'DOO·JHQQDLRGHO·ODEDQGDVLWUDVIHULVFHQHO&RPXQHGL$OWRD´&DVH)RQWDQHµLQTXRWDGRYHUHVWHUjÀQRDOO·HSLORJRWUDJLco del 27 gennaio 1944. Monumento sulla piazza principale di Alto. A Case Fontane una lapide sovrastata da una colonna, dedicata
GDOODPDGUHDOVDFULÀFLRGL)HOLFH&DVFLRQH
25
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Itinerari della Resistenza
Il testo originale di “Fischia il vento”
Casone nella zona del “Passu du Beu”
chiesa, ad intonare la loro nuova canzone “Fischia il vento” nella sua primitiva stesura, che verrà rifinita e
completata nel Casone dei Crovi i giorni seguenti. Ogni partigiano fu accolto il giorno di Natale presso le famiglie del paese che si strinsero a loro in
un abbraccio fraterno e solidale.
el corso della settimana successiva iniziano i contatti con
un altro gruppo partigiano
dell’albenganese, stanziato nei pressi
di Alto (CN) alla testata della Val
Pennavaira, progettando una possibile unificazione dei due gruppi. Il 6
gennaio 1944 Felice Cascione e buona parte della brigata in pieno assetto
si portano a scopo esplorativo al paese
di Alto dove vengono accolti dagli altri partigiani e da parte della popolazione. Viene improvvisata una piccola
festa nel corso della quale verrà cantato ufficialmente l’inno della brigata
nel suo testo definitivo. Il giorno seguente viene però funestato dalla notizia portata da una staffetta, che dal
Casone dei Crovi il prigioniero Dogliotti, salvato a suo tempo da Cascione, era riuscito a fuggire dopo aver
tentato di uccidere il partigiano che
era con lui, facendo perdere le sue
tracce. Questo evento fece rompere
gli indugi e decidere per il definitivo
trasferimento di tutta la formazione
dai boschi di Curenna a Case Fontane, un gruppetto di tre casamenti rurali a circa 1150 mt. di quota a monte
della chiesetta di Madonna del Lago
di Alto. Qui le due bande ormai unificate contano oltre 60 uomini organizzati in diverse squadre che assumono diverse iniziative sia sul versante
ligure che su quello piemontese
N
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
dell’Alta Val Tanaro. Anche in questo periodo di permanenza ai casoni
di Fontane, non di rado il “Megu”
accompagnato da qualche partigiano, non manca di portare la sua opera di medico alla gente di queste
frazioni di montagna bisognosa e
isolata, cosa che contribuisce ad accattivare la simpatia e la riconoscenza della popolazione, all’inizio un
po’ diffidente verso i “ribelli”.
a mattina del 27 gennaio 1944,
mentre sono già in corso preparativi per il trasferimento della
formazione che da oltre 20 giorni è
stanziata sul posto, giunge da valle
una nutrita formazione di tedeschi e
fascisti orientati dalle informazioni
del Dogliotti e di altre spie. I partigiani che ancora si trovavano a case Fontane, allertati dalle sentinelle si dispongono fra le rocce sovrastanti di
Rocca Asperiosa preparandosi a respingere l’attacco imminente. La sparatoria è già iniziata a distanza quando
Cascione, tenta in extremis di recuperare uno zaino contenente tutti i documenti della Brigata rimasto nel casone del comando e rimane ferito ad
una gamba impossibilitato a muoversi. Vani risulteranno i tentativi di alcuni partigiani di metterlo in salvo,
ormai il nemico è giunto numeroso
sul posto. “u megu” verrà finito vilmente dalla pallottola di un fascista
quando ormai inerme era caduto nelle
mani dei tedeschi. L’ultimo suo atto
fu quello di evitare l’immediata esecuzione dell’altro partigiano catturato
con lui, l’ex carabiniere Giuseppe
Cortellucci: “Il comandante sono io,
lui è un mio prigioniero!”.
Così si conclude la breve epopea per-
L
26
sonale del primo Comandante autore dei versi immortali. Ma egli è già
divenuto un mito per i giovani che
sempre più numerosi accorreranno
ad ingrossare le fila della Resistenza
del Ponente Ligure.
BIBLIOGRAFIA
Francesco Biga: “Felice Cascione e la sua
canzone immortale”, Edizione ISRECIM
(Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea della Provincia di Imperia), 2007, Tip. Dominici, Imperia.
Francesco Biga: “Felice Casione” (La
breve esistenza di un medico, comandante partigiano nel Ponente Ligure, Medaglia d’oro al Valor Militare alla memoria,
con una nota di Alessandro Natta), Ed.
Dominici, Imperia, 1996.
G. Strato: “Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria)” Vol I - La Resistenza nella Provincia di Imperia dalle
origini a metà giugno 1944 - Sabatelli
Editore, Savona, 1976.
Attilio Mela: “Qualcosa della Resistenza”, Ed. Istituto Storico della Resistenza,
Tip. Dominici, Imperia, 1995.
Riferimenti Internet:
Fischia il Vento Associazione Culturale:
it-it.facebook.com/FischiaIlVentoAssociazioneCulturale
Pagina di FB ricca di foto d’epoca, immagini relative a manifestazioni eventi
resistenziali e relativi al “Sentiero di Fischia il Vento”.
NOTE
1) Il “casone”, traduzione italiana di
“Casun”, in questa parte di Liguria, è
una piccola e rustica costruzione ad uso
rurale e saltuario.
2) Il “Casone dei Crovi”, tutt’ora utilizzato da allevatori locali come margheria.
Cinema
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Cinema islamico:
i giovani vogliono cambiare
di Serena D’Arbela
C’
è voglia di cambiare nelle
nuove generazioni islamiche stimolate dalla TV e
da Internet. Troviamo in due film
di diversa ambientazione queste
aspirazioni ad infrangere limiti culturali dalla rigidità insopportabile.
Il primo (La bicicletta verde) con regia femminile (Haifaa Al-Mansour)
viene dell’Arabia Saudita ed è un
piccolo capolavoro anche grazie a
Waad Mohammed, la piccola deliziosa interprete. Presentato alla sezione Orizzonti dell’ultimo Festival
di Venezia ed uscito nelle sale con
il patrocinio di Amnesty International, per il suo contenuto sui diritti
negati, il film scorre con composta
ironia centrando le sue frecciate sulla condizione della donna nel regno
saudita. Lo stile leggero ma senza
compromessi ben si attaglia alla ragazzina di dieci anni che aspira ad
avere una bicicletta per gareggiare con l’amichetto Abdullah nelle
strade periferiche di Ryiadh. Ma a
Wadjda è vietato dalle regole di una
società che resiste agli ammodernamenti del costume, invocando i testi sacri e discriminando la donna.
Seguiamo la protagonista litigare
e scherzare con il coetaneo, che
non vede differente da sé. Le sfide giocose con Abdullah spesso
la mostrano superiore ma non le
è consentito di avere il velocipede
considerato un mezzo diabolico.
Questi tabù e prescrizioni non
possono non ricordarci passati fanatismi religiosi della nostra Storia
superati con travaglio nei secoli. Il
velo nero imprigiona la bambina
come le scarpe nere, come la monotona recita dei versetti. L’ombra
del peccato è dappertutto e l’uomo
è visto come un pericolo costante
da tenersi lontano, mentre regnano ipocrisia e sotterfugi. L’amante
di un’austera maestra visita le sue
stanze sotto le spoglie di un finto
ladro. La scolaresca è obbediente
ma i sorrisetti e le occhiate maliziose non si contano. “Il mondo in
Arabia non è più come quando io
ero ragazzina – dice Hayfaa che
è la prima regista donna saudita –
Le ragazze hanno i loro sogni, sono
ambiziose, hanno accesso a tante risorse. Sarà difficile tagliarle fuori e
tenerle sempre sotto controllo”.
/DSURWDJRQLVWDGHOÀOP´/DELFLFOHWWDYHUGHµ
27
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Cinema
La determinazione di Wadjda ci
conquista, mentre raccoglie soldi per
comprarsi la bicicletta con lavoretti,
piccoli scambi e perfino un ruolo di
messaggera d’amore. Il prezzo alto
la costringe ad iscriversi ad una gara
coranica, imparando a memoria le
sure del libro sacro. Quando vince
l’ambito premio però, non può toccare il denaro perché la bici non è
consentita alle femmine. La somma prende un’altra destinazione,
donata ai “fratelli palestinesi”. La
ragazzina ci resta male, ma avrà comunque ciò che ha guadagnato. Ci
pensa la madre (Reem Abdullah)
ad offrirle la bicicletta. Il film fila
con lievità tra sorriso, pianto e solidarietà femminile. La sequenza finale ha una grande forza. In sella al
veicolo nuovo fiammante la bambina corre sbrigliata seminando il
simpatico Abdullah. L’ispirazione neorealista del film conferisce
all’oggetto quel significato simbolico caro alle celebri sequenze dei
“maestri” italiani. La “volata” infatti è anche una metafora spiritosa
della capacità femminile liberata.
ome Wadjda, ma in un contesto differente, anche Nader,
il sedicenne protagonista di
Alì ha gli occhi azzurri, vuole che
le cose cambino. Nel film italiano
(Premio Speciale della giuria al re-
C
cente Festival Internazionale del
Film di Roma)
ambientato tra il
raccordo anulare di Roma e il
litorale di Ostia,
troviamo gli immigrati di seconda generazione. Il
giovane protagonista, figlio di egiziani, si trova tra
due fuochi: l’appartenenza alla
terra d’origine e
ai suoi valori traNader e Brigitte in “Alì ha gli occhi azzurri”
dizionali e la nuova identità in via di assimilazione. caseggiati occupati da extracomuÈ nato in Italia dove vive e studia, nitari o all’aperto sul lungomare
vuole essere come i suoi compagni, invernale. Incorre in bravate, piccoli
porta le lenti a contatto colora- furti, regolamenti di conti, tipici del
te. Claudio Giovannesi fa recitare suo giro di conoscenze e in una raun personaggio vero, che si muove pina nata in quel mondo ambiguo.
con grande naturalezza in ogni si- Nel quartiere i giovani sottoproletatuazione. Lo ha ascoltato a lungo ri e immigrati, divisi tra la scuola,
e registrato insieme al suo gruppo la discoteca e la strada sono preda
di amici. L’impianto realistico-do- di un costume degradato noto alla
cumentario e la giusta distanza da cronaca. Nader spesso sbaglia, ma
osservatore del regista coadiuvato il suo animo è sincero e caparbio,
dal co-sceneggiatore Filippo Gra- confrontandosi col difficile percorvino, la buona fotografia (Daniele so verso una coscienza adulta. Deve
Ciprì) e le didascalie in arabo ren- fare i conti con nuove situazioni nel
dono autentica la storia filmica. L’a- bene e nel male e con le sue radici,
dolescente ribelle difende il proprio riferimenti etici, sacralità dell’amicidiritto di crescere zia ma anche tabù tradizionali come
e di scegliere. Ha le pretese maschiliste di dominio
trovato un ragaz- sulla donna. S’infuria infatti con
za, Brigitte, ne l’amico del cuore Stefano che osa
è innamorato e corteggiare sua sorella, ma riesce a
ricambiato ma la parlare col padre benzinaio, più sagmadre non am- gio e comprensivo della mamma.
mette questa relal film è un brano di verità sul
zione in contrasto
territorio e fa riflettere lo spettacon le regole del
tore sui fatti senza intromissioni
matrimonio mu- moralistiche o ideologiche. Evisulmano. Lui non denzia la complessità del fenomeno
ha alcuna inten- emigrazione e dei processi di intezione di obbedi- grazione attraverso le immagini di
re, sacrificando chi li vive. La sequenza finale della
l’amore. Rimpro- famiglia che attende intorno alla
verato e cacciato tavola il ritorno del figliol prodigo
fuori dalla porta, col suo posto intatto, ha la fissità
sta fuori per set- di un’icona, ma contiene la dialette giorni, i sette tica tra pazienza biblica e spinte di
giorni del film. rinnovamento. Le nuove identità
Ore irrequiete e nascono dal basso e fremono per
pericolose, per- introdurre nella tradizione nuove
La regista Haifaa Al-Mansour
nottamenti in esperienze culturali.
I
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
28
Biblioteca
Pitzinnos
Pastores Partigianos
“su caddu o s’ebba, sa calavrina”, il cavallo, la cavalla,
la puledra. I fratelli accompagnarono i fratelli, i padri
i figli. Da Osidda il viaggio in treno sarebbe stato a
Chilivani e poi Sassari, poi Alghero, poi l’aeroporto,
poi l’ignoto. Notevole il carico di presagi. Andavano
alla guerra. A Fertilia li caricarono
su un aereo diretto a Ciampino. I
epigrafe è del grande poeta Anpitzinnos si ritrovarono perlopiù
drea Zanzotto: «…Lo “sbaninsieme a Perugia, avieri – “aviatori
damento”… si riferisce sia al
senza aeroplano” come scrive a casa
fenomeno degli “sbandati” dopo l’8
uno di loro – nelle caserme “Fortesettembre (passati alla resistenza quasi
braccio” e “Regina Margherita”. Ininconsciamente o rimasti al margine
sieme vissero i giorni dello sbando
dell’azione…) sia alle incertezze affacdopo il tragico 8 settembre. “Bandiciatesi nel dopoguerra riguardo al sitarono senza causa” nelle campagne
gnificato, alla direzione, alla possibilità
dell’Alto Lazio e qui applicarono i
stessa di un movimento-progresso stocodici esperiti nella campagna sarda,
rico… una storia finalmente “vera” …»
abigeato compreso, per sopravvivere.
“Pitzinnos Pastores Partigianos eravaSe ne stavano buttati lungo la linea
mo insieme sbandati”, è il primo titoferroviaria. Videro molte truppe nalo della collana Annales dell’ANPI di
zifasciste attraversare quella che loro
Nuoro. Ne sono autori Piero Cicalò,
avrebbero poi chiamato “Sa tuppa de
Pietro Dettori, Salvatore Muravera,
Bieda”, il bosco, la macchia di Blera.
Natalino Piras. Il libro, in distribuzione sia in Sardegna che in altre parti
Piero Cicalò, Pietro Dettori, Assistettero a rappresaglie e rastreld’Italia, lo si può avere con una sottoSalvatore Muravera, Natalino Piras lamenti. Tanto sangue di innocenscrizione a partire da 20 euro.
«Pitzinnos Pastores Partigianos ti. Altri pitzinnos sardi come loro,
come loro sbandati, vennero uccisi,
È un racconto corale ma pure di voci
eravamo insieme sbandati»
individualmente distinte. In questo laANPI Nuoro – collana Annales/1, massacrati dai nazifascisti insieme a
civili inermi. I pitzinnos pastores si
voro di ricerca vengono messe insieme
2012, pagg. 520
cercò, specialmente da parte del gediverse interviste. Il punto di partenza
sottoscrizione a partire da € 20.
è l’8 settembre 1943, data dell’ArmiIntroduzione di Paolo Padovan, nerale Barracu di Santu Lussurgiu e
del colonnello Fronteddu di Dorgali,
stizio (in realtà firmato il 3 settembre
prefazione di Bachisio Bandinu
di irreggimentarli come soldati della
a Cassibile, vicino Siracusa) che segue
repubblica di Salò, alleata ad Hitler,
quella del 25 luglio dello stesso anno,
la caduta del fascismo e l’arresto di Mussolini. Un tem- fondata da Mussolini dopo essere stato liberato da un
po tragico. Ci sono in quei giorni una grande confusio- commando tedesco a Campo Imperatore, nel Gran Sasne e un grande senso di smarrimento. L’Italia continua so. Lo sbandamento continuava. I ragazzi di Barbagia
a restare in guerra. Solo che cambia il fronte: i nemici si ritrovarono insieme nella caserma di via La Lungara
di ieri, gli anglo-americani già presenti nel territorio na- a Roma e da qui, nel dicembre 1943, avviati in treno,
zionale dopo gli sbarchi in Sicilia e ad Anzio, diventano in due differenti scaglioni a Trieste, al confine con la
i nuovi alleati. I nazisti tedeschi, Wehrmacht e SS con Slovenia, a combattere contro i partigiani italiani e jucui gli eserciti mussoliniani avevano iniziato la guerra goslavi di Tito. Nell’attraversare l’Italia i ragazzi sardi
diventa nemico occupante che mette la penisola a fer- videro solo devastazione, morte. Avevano cercato, nei
ro e fuoco. È l’inizio delle formazioni partigiane, della giorni dello sbandamento, di fuggire dalla guerra e troguerra di Liberazione e della Resistenza. Vi partecipa- vare un imbarco per la Sardegna. Si ritrovarono nell’orno anche i Pitzinnos Pastores. Erano tutti ragazzi sui rore della guerra. Durò poco lo stare con i repubblichivent’anni, alcuni anche meno, che provenivano princi- ni. A gennaio del 1944, a ridosso dei giorni dei fuochi
palmente da Bitti, Orgosolo, Orune, Galtellì, Dorgali, di Sant’Antonio, scapparono in massa dalla caserma di
Orosei, Nuoro e altri paesi di una delle province più Villa Opicina in quel di Trieste e furono partigiani con
oscure di una Italia mai unita. Non fosse che erano e la Brigata d’Assalto che combatteva insieme al IX Corsono punti di emanazione di un racconto che diventa pus Sloveno. Tutto questo racconta il libro, l’esperienza
via via sempre più coinvolgente. Una geografia di ap- della guerra partigiana, chi cadde in battaglia, chi fu
partenenza pastorale e contadina, quella dei pitzinnos torturato e ucciso, chi tornò. La storia è raccontata dal
pastores, sconosciuta dalle mappe, una zona periferica punto di vista dei pitzinnos pastores e si basa principalcome luogo delle Storia. I pitzinnos pastores partirono mente sulle interviste, riportate bilingui, in sardo e tra“paris”, insieme, più di uno, a gruppi, dai diversi pae- duzione italiana a fronte, a Luisu Podda, Luisu Mereu e
si. I ragazzi bittesi furono accompagnati a cavallo alla Corraineddu di Orgosolo, a Anzelinu Soro di Galtellì.
stazione di Osidda. Bisognava essere almeno in due per C’è spazio anche per Amarette, soprannome del bittese
ogni nucleo familiare, perché poi uno portasse indietro Antonio Michele Pintus, oggi novantenne, che racconta
L’
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PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Biblioteca
Maria Rossini
la postina partigiana
i giorni dello sbandamento in maniera insieme estraniata e partecipe: la memoria dei suoi vent’anni e degli altri compagni come condizione indispensabile per
dire qualcosa ai ventenni d’oggi che non sia solamente
unu ammentu, un ricordo individuale e basta. Qui si
cerca di andare oltre, di stabilire orizzonte. Molti dei
l 29 aprile 1945 una squadra partigiana della bripitzinnos pastores di questa storia furono nel “cuore di
gata Cacciatori delle Alpi ferma, armi alla mano,
tenebra” del colonialismo italiano in Africa. Ne condiuna vettura militare germanica sulla quale viaggia il
visero, costretti, l’orrore. La guerra di Liberazione serve generale Jurgen von Kamptz (con una bandiera bianca
alla speranza del dopo, riscatta quel “cuore di tenebra”. bene in vista) partita da Vittorio Veneto, diretta a San
La storia partigiana racconta la geografia antropologi- Vendemmiano. L’alto ufficiale si arrende e, subito conca dei paesi di provenienza dei pitzinnos pastores. Gli dotto a Ogliano, stende di suo pugno un documento di
stessi luoghi dove si fece elaborazione comunitaria del resa assai significativo così concepito: «Noi capitoliamo,
lutto all’annuncio, molti mesi dopo, della loro morte in consegniamo le armi e tutte le munizioni. Tutto il bagabattaglia. I pitzinnos furono pianti in assenza di corpo, glio resti in mano agli uomini. La vita di ciascuno sarà
una fotografia sopra una “fressata”, un tappeto o co- garantita». L’ultima riga è di eccezionale importanza: il
perta tradizionali, o sopra una “bertula”, una bisaccia. gruppo partigiano tutela al massimo i militari nazisti;
Intorno le donne a fare “teju”, lamentazione funebre, i soldati disarmati sono condotti alla Caserma Gotti,
e “attitu”, il canto delle prefiche. Questo libro motiva gli ufficiali superiori accompagnati a Villa Chiggiato.
ragioni, sentimenti, pulsioni, smarrimenti, prese di co- Diversi storici sanno chi è von Kamptz e, quale comanscienza. I protagonisti principali sono Joglieddu Sanna dante di reparti speciali della polizia militare germanie Nenneddu Sanna, entrambi bittesi, entrambi morti in ca, rammentano bene che si tratta dello stesso generale
battaglia, entrambi ventenni. Anche attraverso le loro nazista che nelle Marche, in fase di ritirata, si è maclettere si raccontano il contesto pastorale e la caserma chiato di stragi e uccisioni di civili inermi come minudi Perugia. Dello sbandamento, delle stragi nazifasciste, ziosamente descrive anche questo libro di Giacomini.
della vita partigiana saranno i ritornati a raccontare, per Centrato sulla singolare vicenda della locale partigiana
loro e per tutta la dimensione di sarditudine che da un Maria Rossini, staffetta di notevole impegno e determipunto di vista geografico e storico la guerra di Liberazio- nazione dispiegata nei territori di Pergola, Arcevia, Sasne e la Resistenza hanno comportato.
soferrato, Fabriano, Monte Sant’AnIl volume ha la giusta ambizione di
gelo e dintorni (tra Ancona e Pesaro).
entrare nelle scuole. È stato elaborato
Il vissuto, singolare, della Rossini è
anche nel segno di una didattica deldettagliato da diversi documenti d’arla Storia. Ci sono, a corredo di quechivio, dalla testimonianza del figlio
sta narrazione, fotografie, illustrazioGiovanni, dalle carte riferite al suo arni, cartine e mappe, racconti e poesie
resto e alla carcerazione a Pergola ad
che intersecano e legano le varie paropera della polizia fascista. La stafti. È un libro di viaggio. Chiudono
fetta partigiana, grande camminatriil volume una cronologia, altre tavole
ce, non era giovanissima; contava 38
di comparazione, bibliografia-discoanni e a scuola aveva frequentato non
grafia-filmografia-sitografia,
tutte
più della terza elementare, rivelandoragionate, e un sostanzioso indice dei
si tuttavia ansiosa di sapere, di leggenomi. Prima ancora ci sono la lettera
re, di approfondirsi culturalmente. A
di don Milani ai cappellani militari
quattordici anni aveva fatto la portanel 1965 e un inserto a colori chiamalettere sostituendo la sorella maggioto “Romancero Partigiano”. Apre con
re nel frattempo sposatasi.
due pagine di dediche. Ci sono quelAlla fissazione della memoria storica
le private dei quattro autori e quelle
contribuiscono le due sezioni ANPI di
5XJJHUR*LDFRPLQL
pubbliche a personaggi ispiratori: lo
“Una donna sul monte - la partigia- Sassoferrato e Arcevia promuovendo
storico delle “Annales” Marc Bloch, il
na Maria Rossini di Cabernardi e il queste pagine – come viene precisateologo protestante Dietrich Bonhomistero dei militi scomparsi nella to nell’introduzione – “di approfoneffer, il giornalista cecoslovacco Justrage del S. Angelo di Arcevia”. dimento e di ricerca storica su fatti e
lius Fučík, tutti combattenti della
Affinità elettive, Edizioni ae di personaggi del nostro passato recente.
Resistenza, tutti uccisi dal nazismo, e
Valentina Conti - Vicolo Stelluto Vicende e protagonisti di quella svolta
poi il regista cinematografico Robert
3, 60121 Ancona - (www.edi- profonda, maturata nei lunghi anni
Bresson, Antonio Gramsci, don Lodi una guerra disastrosa... che sui nozioniae.it)
renzo Milani e la poetessa Wisława
Ancona, 2012, pagg. 185, € 15. stri territori è passata più velocemente
Szymborska.
A cura di Alvaro Rossi, introdu- che in altre parti d’Italia, ma ha lazioni di Alvaro Rossi e Angelo sciato gli stessi indelebili segni nelle
N. P.
coscienze e nella memoria collettiva”.
Verdini
I
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
30
Biblioteca
Quei tristi segni ci parlano emblematicamente anche di
Palmina Mazzarini uccisa a sei anni dai soldati nazisti
e fascisti sul Monte Sant’Angelo. Così, in apertura, Angelo Verdini con “Blusetta rosa” dice versi per Palmina
iniziando così: “Dopo la neve del lungo inverno/i fiori
tenui dell’albero del ciliegio e del biancospino/tornano al
mondo/e si contendono l’azzurro del cielo”. E ancora: “Il
rosa trapassa al rosso/lievemente scurito/dall’ ignara rugiada/su un corpo di compostezza/di trecce intatte e sporgenza
di piccole ossa./Ti incontrerò ancora/per non finire mai di
raccontarti il monte”. Ecco, raccontare il monte e quanto
è avvenuto in altri luoghi del vicinato, sottomessi alla
crudeltà degli armati di von Kamptz.
Primo de Lazzari
*• * • * • * •
Renato Chirici
il poeta dei partigiani
“N
d’acqua pulita, giovani tralci di vite… Lo scorrere degli
elementi e del tempo, lo sbocciare, appassire e ricrescere
delle foglie, dei fiori, dei frutti. E dentro al movimento
della natura, sincrono ad esso, quello degli uomini. È
proprio il cammino, sui monti, che cementa l’unità di
ideali e di speranze: “I passi\ Strascicati\ Le parole\ Il
freddo delle armi\ Sulle mani,\ Il primo della fila\ Che
sorride…\ Con voi\ Fratelli\ Mi pare\ Ancora andare\ Per
quei sentieri\ Insieme\ A camminare…”.
Il ricordo corre a coloro che sono stati bloccati, interrotti nel loro procedere avanti, che non ce l’hanno fatta
ad assaporare il gusto della libertà, rimasti “Ora\ A riposare\ Sotto la terra\ Fermi\ Ad aspettare”, a ricostituire
e solidificare il patrimonio genetico ultimo di questa Resistenza emiliana, “Pietra dura\ Tagliente\ Pietra d’Appennino\ Coesa\ Con rosso cemento”.
Il percorso umano e poetico di Renato Chirici si è mosso
negli anni a seguire lungo tracciati che intersecano, sempre
sul filo teso tra l’oggi e le vissute stagioni, amore e famiglia,
momenti di gioia e rimpianto sottile, luoghi natii e dialetto ancestrale, frammenti gozzaniani dell’infanzia lontana e sguardi spietati dentro a uno specchio, in un fiato
di nebbia. “Io,\ Com’un’uva,\ Ancora appesa\ Al tralce,\ Ora
d’inverno\ Continua\ A rinsecchire”.
oi siamo il nostro passato: \ Il presente non ci
appartiene fino a che \ non sarà già stato”. Il
senso e il significato di ogni fatto, di ogni
esperienza, di un’intera esistenza non può essere colto
Natalia Marino
finché non possiamo vederlo e analizzarlo per intero,
per sempre compiuto e definito. Questo riafferma con
*• * • * • * •
i versi posti in esergo l’italo-ottuagenario autore di
questa raccolta di poesie. Partigiano, Renato Chirici
ha combattuto l’occupazione nazifascista nella Brigata
Stella Rossa “Lupo” che operava nella zona di Bologna
e Modena. E come un altro ottantenne esemplare, il
l titolo di questo libro sarebbe piaciuto molto a
Carlo Altoviti di Ippolito Nievo che nacque veneziano
mia madre. Era stata lei stessa a suggerirlo, senza
e morì italiano, si volge ancora a riguardare il sacrificio
volerlo, all’editore, quando in una conversazione,
di una generazione di giovani uomini: “Non è lontana,
\ non sono lontani… \ tutti con me. \ Vicini… \ Col mio parlando di sé, le sfuggì una battuta: “Una vita? Forse
due…”. Così Sara Scalia comincia la
lapis \ Corto e spuntato \ Scrivo e scrivo
presentazione di queste pagine. La vita
\ La parola che amo: \ RESISTENZA”.
della Mafai è stata incastonata nei moI volti e le voci dei compagni caduti
menti più drammatici e cruciali della
riaffiorano dalla memoria, in una rinstoria d’Italia del Novecento: le persenovata presenza, praticamente in tutte
cuzioni razziali, la guerra, la Resistenza
le poesie che l’autore ha dedicato alla
e la parabola del comunismo. La forza
lotta di Liberazione nazionale e vandi questo libro, come sottolinea la fino a sottolineare il valore di una viglia, è nel suo personalissimo punto di
cenda dolorosa che è stata al contemosservazione sul dipanarsi della storia:
po personale e comune, individuale e
gli occhi di una bambina, poi di una
condivisa. Sintetizzato nel lampo che
ragazza e infine di una giovane donna.
si sprigiona fin dal titolo della raccolMiriam era nata in una famiglia di
ta, Come un’uva. Lo spiega bene, nelartisti: pittore il padre, Mario Mafai,
la sua introduzione al volume, Anna
pittrice e scultrice la madre, Antonietta
Zambelli esplicitando lo scarto gramRaphaël, ebrea fuggita dalla Lituania e
maticale che, grazie all’articolo indegiunta in Italia dall’Inghilterra. Visse
terminativo accoppiato a un sostantigli anni dei bombardamenti a Genovo singolare, illumina d’un sol colpo
Renato Chirici
va e dell’occupazione nazista a Roma,
unicità dell’acino e molteplicità del
“Come un’uva - Poesie di uno durante la quale assieme alla sorella digrappolo. Ancora il paesaggio agreste
pseudo poeta italo-ottuagenario” stribuiva clandestinamente “l’Unità”.
dell’Appennino emiliano irrompe dai
Edizioni Oltre i Portici, Rimini La zona che le sorelle Mafai dovevano
versi di Chirici: boschi antichi, rovi
2012, pp. 80, € 5
gestire per la distribuzione del giornale
spesse e cupe, rami di quercia, fiumi
Miriam Mafai:
“Una vita, quasi due”
“I
31
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Biblioteca
andava da piazzale Flaminio a piazza
Venezia e dal Corso a via Ripetta e a
via della Scrofa. Così cominciò la vita
di militanti comuniste, clandestine a
Roma, città ormai occupata dai teden una concisa, utile nota editoschi. L’incontro decisivo fu quello con
riale, Sandro Teti puntualizza
Antonio Bussi, un compagno falegnache questa «pubblicazione non è
me che abitava in via di Campo Marzio
un’operazione anacronistica... Esisto(venne arrestato e fucilato il 7 marzo
no libri caduchi che perdono di signi1944). Annota la Mafai che lì, a casa
ficato se sottratti al loro tempo. Non
sua, vide per la prima volta – assieme
è il caso di Masse armate ed esercito
alla sorella – “l’Unità”. Erano pochi foregolare nelle cui pagine... troviamo
gli di carta quasi trasparente, da piegare
tutti i temi della politica moderna e
in quattro, facendone poi dei pacchetti
tutti i nodi insoluti del “secolo bredi dieci copie, incartati per essere distrive”, con cui inevitabilmente bisogna
buiti a “compagni fidati”. I ricordi di
confrontarsi... è con profonda conquesto periodo sono tanti e si incrociano
vinzione che pubblico una versione
con le figure e i personaggi incontrati e
critica di quest’opera».
frequentati. Nel dopoguerra la passione,
Miriam Mafai
A sua volta lo storico Luciano Canprima civile e solo in un secondo tempo
“Una vita, quasi due”
fora (Università degli studi di Bari)
politica, che ispirò molti della sua geneRizzoli (2012),
informa che «Questo libro apparve
razione, la portò a proseguire la militanpag.265,
presso Nicola Teti Editore nel giugno
za come funzionaria del PCI in Abruzzo
Euro 18,00
1975, pochi mesi dopo la liberazione
e come assessore al Comune di Pescara.
Poi gli eventi del 1956, le rivelazioni del XX Congresso del di Saigon da parte dell’Esercito di liberazione vietnaPCUS, l’invasione dell’Ungheria, il suo trasferimento a Pa- mita comandato allora, e per molto tempo dopo, da Vo
rigi, per una nuova pagina di vita. Questo appassionato rac- Nguyen Giap».
conto di decenni importanti per la storia d’Italia e per quella Del famoso generale Giap, Canfora valuta essere stato
mondiale si interrompe qui. L’autobiografia, che per anni «forse il testimone più significativo del secolo VenteMiriam Mafai si era rifiutata di scrivere, e a cui aveva mes- simo. Egli ha combattuto vittoriosamente contro gli
so mano negli ultimi tempi, con impegno crescente, non occupanti che si illudevano di poter disporre del posarà mai terminata. La morte (9 aprile 2012) le ha impedito polo vietnamita come di un oggetto: i giapponesi, i
di narrarci la sua seconda vita, quella da giornalista, prima francesi, gli americani».
con “l’Unità”, poi proseguita con “Noi Donne” (direttrice), Il giornalista americano Stanley Karnow, del New York
successivamente come inviata di “Paese Sera” e, in seguito, Times, vede in Giap «Un uomo leggendario, un audace
stratega, un logico, un organizzatocome editorialista de “La Repubblica”,
re instancabile (che) ha combattuto
di cui è stata tra i fondatori, nel 1976. È
per più di trent’anni, plasmando un
stata anche Presidente della Federazione
gruppo di guerriglieri disorganizzati
Nazionale della Stampa Italiana. Quein uno degli eserciti più efficienti al
sta seconda parte, se fosse stata scritta,
mondo».
sarebbe stata importante per ricostruiSi può dire, in definitiva, che la storia
re il contributo dato dalle donne per la
infinita delle guerre spesso mette in
storia del giornalismo italiano, dopo la
essere similitudini paradossali ma ancaduta del fascismo. Dal dopoguerra e
che istruttive. Come accade al genefino ai giorni nostri è tutto un periodo
rale tedesco Friedrich von Paulus grain cui si sono chiariti molti aspetti del
tificato da Hitler col massimo grado
rapporto donna-mass media e che può
di feldmaresciallo dell’esercito nazista
essere interpretato con maggiore approquando la sua sconfitta a Stalingrado
fondimento, in una prospettiva storiera ormai certa ad opera dell’armata
ca che colga le sue radici nel passato,
sovietica in URSS. Così succede anpartendo da “Noi Donne”, stampato
che al borioso colonnello francese
a Napoli nel luglio 1944 e un mese
ad Hanoi all’inizio di maggio 1954.
dopo a Roma, come organo ufficiale
Il nobile Christian Marie Ferdinand
dell’Unione Donne Italiane. La testata
9R1JX\HQ*LDS
del periodico, fondato nel 1936, appar«Masse armate ed esercito regolare» de la Croix de Castries riceve la proteneva alle donne antifasciste italiane
Sandro Teti Editore, Roma, 2011, mozione al grado superiore di generale quando la sua resa, nelle mani di
residenti in Francia.
pagg. 194, € 16,00.
Prefazione di Luciano Canfora e Giap, è solo questione di ore.
Vietnam:
il grande Giap
I
Mauro De Vincentiis
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
postfazione di Tommaso De Lorenzis
32
p. d. l.
Biblioteca
SEGNALAZIONI DI LIBRI
NUOVI … E RITROVATI
a cura di Tiziano Tussi
L’ultimo Bennet con due racconti “sporchi”. Il narrato-
re inglese che oramai da anni ci ha abituato al racconto salace, con risvolti piccanti e godibili retroscena, in
queste due storie mette in scena un mondo di erotismo
spicciolo giocato su nascondimenti e/o rivelazioni sorprendenti.
Insospettabili signore, vedove, affittacamere che si fanno pagare l’affitto invece che con denari con partecipazioni voyeuristiche ad amplessi più o meno recitati;
intrecci famigliari, tra genitori e figli, che mettono in
scena l’unica forma d’intelligenza e di disinvoltura sessuale in una donna che entra in famiglia, all’apparenza
assolutamente ligia alle regole.
E tutto in chiave decisamente british, per cui scomporsi
in pubblico è vietato.
Alan Bennett, Due storie sporche, Adelphi, Milano,
2011, p. 134, e 16.
*• * • * • * •
Veramente ben curato, l’Autore sarebbe rimasto soddisfatto di tanta sincera deferenza. La raccolta di epitaffi
di Indro Montanelli, al veleno come ci si aspetta da un
toscanaccio. Anzi sott’odio, come dice il titolo. Al di là
della piacevolezza di lettura di fulminei ricordi, in vita,
di amici e nemici dell’Indro, il curatore, Marcello Staglieno, mette in campo il mondo dei liberali tutti d’un
pezzo, che si aspettavano che dal loro mondo scaturisse
la spinta all’eticità che avrebbe messo a posto le cose in
Italia. O almeno facevano finta di crederci. Molti nomi
si rincorrono – Longanesi, Flaiano, Ansaldo, Bontempelli, lo stesso Staglieno – e tutti accomunati da amicizia. Amicizia che Montanelli divideva anche con alcuni
che non erano di quella parrocchia un po’ sgangherata.
Scritti alla metà degli anni ’50. Uno per tutti: Qui/per
la prima volta/ Alida Valli/ giace/ sola.
Indro Montanelli, Ricordi sott’odio. Ritratti taglienti per cadaveri eccellenti, Rizzoli, Milano,
2011, p. 219, € 17.
*• * • * • * •
Tre storie di Carlo M. Cipolla tra il Medioevo ed il
Rinascimento. Il panorama è essenzialmente il mondo
degli affari e quindi delle truffe. I commerci di banchieri fiorentini e l’attività di corruzione delle monete
all’epoca usatissime, i luigini. La terza storia riguarda
la capacità di una famiglia, oggi si direbbe, di economisti, di commentare e definire l’ambito del grande
commercio. Un piccolo libretto, brevi saggi, ristampato
ora dalla casa editrice il Mulino. Cipolla vi appare sempre preciso ed accattivante. Bella è anche la citazione
riportata sulla quarta di copertina che attiene al primo
saggio. In soldoni: la storia non serve a imparare nulla
né a scansare nulla. Stessi errori stesse illusioni. L’uomo
si dibatte in una perenne nebbia dubitativa. Le storie del
libretto di Cipolla ce lo dimostrano. Anche nei secoli da
lui abitati, stessi comportamenti e tentativi leciti ed illeciti di arricchirsi, di vivere alle spalle degli altri o, solo
più prosaicamente, di vivere.
Carlo M. Cipolla, Tre storia extra vaganti, il Mulino, Bologna, 2011, p. 91, €10.
*• * • * • * •
Una pagina nascosta di letteratura e di vita. Emanuel
Carnevali poeta morto accidentalmente all’età di 45
anni, nel 1942. Solita vita spezzata e disperata, incrocia
Ezra Pound, William Carlos Williams, Ernest Walsh.
Passa troppo tempo in manicomi e case di cura. Scrive,
oltre che poesie, anche prosa e questo libretto ne è un
esempio. Sforbiciate filosofiche, brevi bozzetti di vita
di internati. Prolusioni sulla bellezza e sulla bruttezza
delle donne, sempre innamorato, almeno così vorrebbe.
Uno sguardo su una storia nell’abisso delle sofferenze
psichiche. Un tipo da scandagliare che scrive in inglese,
appreso, come ci dice la curatela del libro, guardando
le insegne luminose dei negozi e delle strade, di notte,
mentre fa il suo lavoro di spazzino. Indicato come anticipatore della beat generation. Da ricercare tra le pieghe
dell’editoria italiana.
Emanuel Carnevali, Corteo di personaggi a Villa
Rubazziana, Via del vento edizioni, Pistoia, 2012,
p. 35, € 4.
*• * • * • * •
Se si vuole avere un esempio recente di come non vi
siano in giro idee politiche di un qualche spessore basterebbe leggere il libretto di Giulio Sapelli, che insegna
storia economica all’università Statale di Milano. Prima
mette in tavola analisi globali sull’Italia che partono dal
Risorgimento ed arrivano a noi, con il binomio guida
nazionale-internazionale che dovrebbe averci ispirato da
sempre. Poi critica l’ultimo governo Berlusconi per non
aver capito nulla del Paese. Infine passa a definire, in
senso classico – dictator romanus – con tutti gli annessi
del caso, anche la crudeltà dell’agire di Monti. Napolitano insomma ha agito bene togliendo a Berlusconi
qualcosa che non riusciva a comprendere – il governo
– ma non è riuscito a dare corso a ciò che “l’abile Casini
ed il fine filosofo Buttiglione” suggerivano, cioè a mettere d’accordo Berlusconi e Bersani “ponendo loro con
rudezza la drammaticità dell’italica situazione”. Come
si vede un’idea assolutamente banale. Un ottimo esempio di ciò che lo stesso Sapelli indica come stato generale di vita sociale in Italia, chiudendo il libretto, in una
poesia di T.S. Eliot – O dark dark dark. They all go in
the dark /O buio buio buio.
Tutti vanno nel buio. Sapelli compreso.
Giulio Sapelli, L’inverno di Monti. Il bisogno della politica, Guerini e Associati, Milano, 2012, p. 73, € 8.
33
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Cronache
Ballerini e attori della commedia di Traversi (foto Michele Ballantini)
LIVORNO:
UN BILANCIO DEL 2012
Intensa anche quest’anno l’attività
dell’ANPI di Livorno, che ha organizzato o partecipato a varie iniziative promosse anche dalle Istituzioni
locali o da altre associazioni.
Particolarmente nutrito il programma di aprile, iniziato con la presentazione del libro “Le eredità di Vittoria
Giunti” – introdotto dall’autore Gaetano Alessi e commentato dall’On.
Anna Maria Biricotti – che è dedicato all’eccezionale figura di una partigiana comunista fiorentina divenuta successivamente primo sindaco
donna a Santa Elisabetta (AG) nel
1956 e che ha trasmesso ai giovani
del luogo l’entusiasmo e il coraggio
necessari per lottare contro la mafia
e i suoi “intoccabili” esponenti. E
ancora: un dibattito su “Resistenza e
giovani: valori che restano”, organizzato da ANPI-Ass. “Cure Palliative”
e SVS, durante il quale sono stati letti e commentati brani del volume di
Umberto Vivaldi “Il mio 25 Aprile.
Diario di un Italiano”, spaccato di
una Livorno del dopoguerra semidistrutta ed impegnata in una vera e
propria lotta alla sopravvivenza.
Iniziative ormai “storiche” e molto
apprezzate in città sono state il tradizionale spettacolo, organizzato dal
Coordinamento Femminile ANPIANPPIA con la collaborazione di
ARCI Solidarietà e con il patrocinio
e il contributo della Provincia e del
Comune di Livorno, e la Borsa di
Studio, intitolata a Giotto Ciardi.
Quest’anno il regista e autore di
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
I ragazzi premiati a Livorno
“Onora i Padri”, Alessio Traversi, si è
liberamente ispirato alla fiaba “Hansel e Gretel”, di cui ha fatto una personale e surrealistica rivisitazione in
chiave attuale: «Non si riesce ad essere abbastanza padri ma nello stesso
tempo non si può più essere figli»,
commenta lo stesso Traversi. Protagonisti dello spettacolo ancora una
volta sono stati la Compagnia dei detenuti della Casa Circondariale di Livorno e cinque scuole di danza della
città: Arabesque, Arte Danza, Atelier
delle Arti, Ex-it Danza e Laboratorio
di Danza e Movimento, che hanno
interpretato il ruolo di una sorta di
“commento coreutico” alle scene più
dense di pathos e di significato. Bravi
i ballerini e belle le coreografie.
A raccogliere sempre un gran numero di adesioni e di apprezzamenti si è
svolta poi la Borsa di Studio intitolata a Giotto Ciardi, Carabiniere Partigiano decorato con Medaglia d’Oro
al Valor Militare.
Gli studenti impegnati nell’elaborazione di validi lavori di grafica sono
stati quelli dell’Istituto “Cristoforo
Colombo” di Livorno. Alla cerimonia di premiazione erano presenti, oltre alla figlia Paola, Presidente
dell’ANPI Comunale di Livorno,
i Presidenti dell’ANPI Provinciale, Vittorio Cioni e della Provincia,
Giorgio Kutufà, l’Assessore alle Culture del Comune Mario Tredici,
Maddalena Feola per l’Ufficio Scolastico Provinciale e il Maggiore Lecca, dell’Arma dei Carabinieri.
Sono stati premiati: Rebecca Nerini
(primo premio e un attestato di merito); Nicole Bernardini e Denise Or-
34
sini, rispettivamente secondo e terzo
premio. Un altro attestato di merito
è andato a Margherita Scali.
La figura di Giotto Ciardi è stata
commemorata anche in occasione
dell’8 settembre dal Comune di Livorno, con la presentazione del volume “Giotto Ciardi - Carabiniere e Partigiano” a cura di Giovanni Laterra.
Cristina Tosi
•••••
A PIOMBINO
IL CANTIERE
DELLA GIOVENTÙ
Una serata storica è stata organizzata il 30 agosto scorso, alla Festa
Nazionale Democratica dell’Economia e del Lavoro, nell’area dibattiti dello stand dei Giovani Democratici Val di Cornia Elba. Sono
stati trattati molteplici temi, dalle
forme di antifascismo che hanno
portato alla costituzione del Comitato di Concentrazione Nazionale,
all’organizzazione della vita degli
abitanti di Piombino durante il
fascismo e infine la testimonianza
vera e autorevole sulla “battaglia di
Piombino” del 10 settembre 1943.
Daniele Fioretti, membro GD e
tesserato ANPI, ha sviluppato un
discorso introduttivo sul parallelo
tra i giovani del tempo e i giovani
d’oggi; mentre l’arduo compito di
esporre le numerose vicende storiche dal ’22 al ’43 è stato svolto da
Ilvio Milani, presidente dell’ANPI
di Piombino, testimone diretto
nella seconda Guerra mondiale,
Cronache
promotore e fondatore del “Fronte della Gioventù” di Piombino.
Da questo stimolante incontro è
nato un progetto di collaborazione
tra ANPI e Giovani Democratici
Val di Cornia-Elba, i cui 13 membri
hanno sottoscritto la tessera ANPI
con l’intento di promuovere la conoscenza della storia e soprattutto
della Resistenza, attraverso lezioni
di gruppo nelle scuole tenute da
esperti del settore. Il progetto che
è in fase embrionale – ma ha un
nome: il “cantiere della Gioventù”
– cercherà di coinvolgere i giovani
della zona non solo con lo studio
della storia ma cercherà anche di
istituire dei corsi di qualificazione
in idraulica, elettronica e giardinaggio al fine di insegnare nuove nozioni pratiche e magari per trovare il
tanto agognato posto lavoro.
Ci auguriamo che queste proposte
vengano seguite e partecipate per ricreare uno spirito comune e un’unità d’intenti ormai persa tra i giovani
del luogo, tra i giovani cosiddetti
impegnati e un’associazione come
l’ANPI, che si è sempre prodigata
per trasmettere valori positivi e costruttivi per realizzare quell’ideale
di un’Italia libera, unita e democratica che ha portato i suoi membri
più anziani persino a rischiare la
vita per questo sogno. Il “Cantiere”
serve appunto per non spezzare il
sogno, che ha le ali un po’ rattrappite, per ridargli vigore e volare alto,
insieme e uniti tra giovani, GD e
ANPI per superare questa dura crisi
economica e costruire una prospettiva di futuro concreta.
RACCONTI DI FASCISMO
E ANTIFASCISMO
NEL CAGLIARITANO
La sera del 18 novembre in uno
spazio suggestivo e disadorno del
bastione di S. Croce, su iniziativa
dell’ANPI di Cagliari, si è tenuta la
rappresentazione teatrale della Resistenza a Monserrato (Pauli), comune
dell’hinterland cagliaritano. Tanti
piccoli eroi popolari, che al fascismo hanno opposto una Resistenza,
tanto più difficile in quanto l’azione
si svolge in un ambiente ristretto,
dove è impossibile mimetizzarsi o
darsi alla clandestinità. Un’opposizione, dunque, aperta, a fronte alta,
quella capeggiata da Mario Corona,
Antonio Tinti e Giuseppe Zuddas.
La rappresentazione - Nasce
dall’oscurità più profonda del palcoscenico, nel suggestivo Spazio
di Santa Croce, l’officina di Coa
Cagada, e man mano prende luce
dalle storie e dai racconti di fascismo e antifascismo, in una Monserrato che ancora non dimentica
e che vuole far rivivere, ridare vita
ai coraggiosi protagonisti di quegli
anni così duri e così difficili. Fausto
Siddi, Fabio Marceddu, Giuseppe
Ligios e Rita Atzeri, gli interpreti
appassionati di “La Bianca pedala”,
che insieme contestualizzano passato e presente, e danno voce alle decine di antifascisti perseguitati dal
regime in un angolo di Sardegna,
forse troppo poco noto. Molto originale il movimento degli attori che
si succedono nello spazio scenico e
si alternano nella narrazione, per
dare sostegno e dinamicità al ritmo narrativo e mettere in risalto i
modi diversi della recitazione. E c’è
ironia e immediatezza nell’officina
di Coa Cagada, che racconta di suo
nonno, di come erano e come sono
i monserratini, dei bombardamenti
e di come si viveva allora. Mentre
fortemente drammatica diviene la
recitazione nel ricordo dei giovani
antifascisti sardi e della loro partecipazione alla Resistenza, il nome
di ciascuno cadenzato dal movimento di una figura oscura, che
batte la scena col suo bastone e che
vuole restare nell’ombra. Ancor più
drammatico il racconto della vita di
Mario Corona, dall’opposizione alla
cattura, al carcere, che sa trasmettere al pubblico la forza di quell’impegno, riuscendo a colpire l’immaginazione degli spettatori, a turbarne
gli animi, grazie ad un’interpretazione particolarmente efficace. Fino
all’ultima voce narrante, chiara e
intensa che, attraverso le vicende di
Antonio Tinti e Giuseppe Zuddas,
diviene diretta interprete della comunità intera di Pauli. Sentimenti e
pensieri di uomini che hanno fatto
la storia rivivono adesso in teatro,
nella coralità di un mondo ancora
profondamente legato a quella esperienza e ai suoi valori, come fossero
vivi e sempre così forti da resistere
ad una realtà ormai decisamente
volta in altra direzione.
Per questo ha convinto il pubblico
“La Bianca pedala”, primo studio
sui temi della Resistenza monserratina scritto da Rita Atzeri del Crogiuolo, su richiesta dell’ANPI di
Monserrato. E per la capacità degli
attori di aver saputo dare significato
al testo, restituendo il carattere dei
tempi nell’evocazione, dai tratti pur
così lievi, di persone e avvenimenti.
In una scena povera e volutamente
disadorna, è proprio l’interpretazione degli attori, lo stile della loro recitazione a dare risalto ai contenuti,
a costruire direttamente il rapporto
col pubblico senza forme di intermediazione. E a mettere in risalto lo spirito dello spettacolo, e il senso profondo che ne anima l’ispirazione.
Gianna Lai
ANPI Cagliari
I giovani dell’ANPI di Piombino
35
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Cronache
A C AGLIARI
INCONTRO DELL’ANPI
CON GLI STUDENTI
Dal 10 novembre al 10 dicembre
2012, promosse dalle componenti
più impegnate dell’associazionismo
culturale e sociale si sono svolte a
Cagliari una serie di iniziative sul
tema dei “Diritti”, dai diritti civili, di libertà e associazione, ai diritti alla salute e alla salvaguardia
dell’ambiente.
L’insieme delle iniziative, alle quali
l’ANPI ha concorso hanno caratterizzato il “mese dei diritti”.
Il 10 dicembre, in coincidenza con
il 64° anniversario della dichiarazione dei diritti umani delle Nazioni Unite, si è tenuta l’iniziativa
conclusiva che ha avuto per tema
“I diritti fondamentali nella Costituzione italiana” ed è stata curata
dal Comitato provinciale e dalla Sezione di Cagliari dell’ANPI.
La conferenza, coordinata dal presidente della Sezione di Cagliari,
Antonello Murgia – che si è svolta
presso la Sala del Consiglio Provinciale del Palazzo Regio in Piazza Castello – è stata caratterizzata
dalla presenza di diverse classi di
studenti ed insegnanti di tre Istituti
superiori di Cagliari e interland e da
una mostra allestita in una delle sale
del Palazzo.
Dopo l’intervento della Presidente
della Provincia di Cagliari, Angela Quaquero, ha svolto la relazione
introduttiva il Presidente del Comitato Provinciale ANPI Marco Sini
che ha presentato l’ANPI, la sua
storia, i valori e i principi sui quali si fonda e le molteplici attività
per salvaguardare e trasmettere la
memoria della Resistenza, dell’antifascismo e dei principi fondanti
sui quali poggiano le fondamenta
della democrazia repubblicana. Ma
l’ANPI non è solo l’associazione della “memoria” nota perché promuove
la ricorrenza del 25 aprile! L’ANPI
è anche questo naturalmente! Ma è
una componente del tessuto associativo democratico presente ed attiva
nelle battaglie politiche, culturali e
sociali dell’oggi: il contrasto ai rigurgiti neofascisti e neonazisti in
Italia e in Europa, la lotta contro la
corruzione e per la legalità, la difesa
della scuola pubblica di qualità, la
promozione di politica di accoglienza e di integrazione per i migranti
che scelgono il nostro Paese.
La relazione del professor Andrea Pubusa ha illustrato la storia della Costituzione repubblicana che origina
dalla Resistenza e dalla Liberazione
ed i suoi contenuti con particolare
riferimento ai “diritti”: da quelli individuali di libertà e di associazione
a quelli civili, al diritto al lavoro ed
ai diritti del lavoro, dai diritti sociali ai diritti di partecipazione democratica dei cittadini alle Autonomie
regionali e locali.
Con gli interventi degli studenti e
la lettura ed il commento di singoli
articoli della Costituzione si è passati ad una fase “colloquiale” della
Conferenza che ha consentito agli
studenti e ad alcuni docenti di svolgere brevi interventi, domande, curiosità.
Pollio Salimbeni all’inaugurazione di Messina
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
In conclusione una bella ed apprezzata iniziativa che qualifica ancor di
più l’ANPI e ne esalta il ruolo di trasmettitore della memoria e di agente
di impegno sociale e civile sulle sfide dell’oggi.
Marco Sini
•••••
A M ESSINA
INAUGURAZIONE
BENE CONFISCATO
Antimafia e antifascismo insieme a
Messina.
Si è svolta lo scorso 1° dicembre l’inaugurazione del primo bene confiscato alla mafia affidato dal Comune
alla società civile. I locali sequestrati
e quindi confiscati in via definitiva
dall’autorità giudiziaria facevano
parte di una rete usura legata alla
criminalità mafiosa del capoluogo
siciliano. Il Comitato Addio Pizzo
Messina ne ha ottenuto l’affidamento dopo aver partecipato al bando
ad evidenza pubblica esitato dal Comune proponendo un progetto per
il ri-utilizzo del bene confiscato incentrato sulla promozione delle “cultura della legalità, della solidarietà e
dell’ambiente, basata sui principi della Costituzione, in opposizione al fenomeno delle organizzazioni criminali di stampo mafioso e al pizzo”. Il
progetto di gestione vede, all’interno
dell’ampio partenariato, la significativa presenza dell’ANPI di Messina
che oltre a trovare la sede provinciale presso il bene confiscato è impegnata nella promozione di percorsi
socio-educativi e culturali finalizza-
Viene apposta una targa sul bene confiscato, a Messina
36
Cronache
SHEL SHAPIRO CANTA E RECITA LA COSTITUZIONE ITALIANA
Disponibile a partire dal 12 dicembre, ma ideato e scritto già la scorsa primavera,
“Undici” è il nuovo brano di Shel Shapiro, artista che molti ricorderanno per la militanza nei Rokes. Da sempre interprete della controcultura italiana (basti pensare a
“Che colpa abbiamo noi”), recentemente impegnato in opere cinematografiche e teatrali, Shel Shapiro guarda alla crisi di identità e di valori in atto nel nostro Paese. E
pensa che la riscoperta della Costituzione Italiana sia un atto doveroso, da rivolgere
soprattutto ai più giovani. Un messaggio di lotta e di speranza, un atto molto sentito
da parte di un artista straniero innamorato del nostro Paese, dove vive da molti anni.
In “Undici”, Shel Shapiro recita i primi undici articoli della Costituzione Italiana.
Shapiro ritiene infatti che sia importante che venga ribadita l’importanza di quella
Costituzione conquistata con tanta fatica dal popolo italiano, in un momento in cui
sembra che il popolo non abbia più voce in capitolo; ed in un momento in cui tutte Shel Shapiro (foto Marina Alessi)
le persone della sua generazione sembrano cadute in preda alla rassegnazione, o al cinismo, e non credono più in
un cambiamento. Proprio per questo occorre lanciare un messaggio ai giovani, perché possano capire che è ancora
possibile cambiare le cose e che non sono soli, che saranno ascoltati. Il brano è accompagnato da un video diretto e
filmato dal grande regista.
Marco Risi
ti a tenere vivo il legame tra la lotta
alle mafie e i valori della Resistenza
e della Costituzione Repubblicana.
Non a caso nel suo intervento alla
cerimonia inaugurale Alessandro
Pollio Salimbeni, Vice Presidente
Nazionale dell’ANPI, ha richiamato la figura di Placido Rizzotto che
“da antifascista ha trovato la naturale prosecuzione del suo impegno
da Partigiano nella lotta alla mafia e
al malaffare nella città di Corleone
subito dopo la fine del conflitto”. La
presenza di autorità civili, delle forze
dell’ordine e di numerosi cittadini ha
dato il segno della volontà di riscatto
dei messinesi onesti. Il responsabile
provinciale dell’ANPI di Messina,
Teodoro Lamonica ha ribadito la
“necessità di rilanciare un impegno
forte per i valori fondanti della Costituzione: antifascismo, democrazia, e lavoro”. In questo quadro si è
inserita la partecipazione dell’ANPI
alla manifestazione delle forze democratiche in risposta alla presenza
di Forza Nuova a Messina proprio
quindici giorni dopo l’inaugurazione del bene confiscato. Il cammino
dell’ANPI di Messina continua con
la partecipazione ad un progetto che
vede il coinvolgimento di giovani e
giovanissimi nel segno della trasmissione dei valori e degli ideali, che rappresenta il cuore delle attività dell’antifascismo contemporaneo.
Domenico Siracusano
LA DIVISIONE
“GARIBALDI”
IN JUGOSLAVIA
Una iniziativa molto partecipata quella
che si è tenuta lo scorso 10 Novembre
a Sellia Marina in provincia di Catanzaro. Organizzata dal comitato
provinciale dell’ANPI con la collaborazione dell’ANVRG la serata ha visto
la partecipazione di tantissime persone
di tutte le età, oltre alla presenza dei ragazzi delle scuole elementari che hanno
cantato l’Inno Nazionale e omaggiato
l’eroe dei due mondi. Il tema dell’incontro era “Il valore della Memoria - La
Divisione Partigiana Garibaldi in Jugoslavia”. Con l’introduzione fatta da
Mario Vallone, Presidente del Comitato Provinciale di Catanzaro è stato
letto un messaggio della Presidenza
della Repubblica con un caloroso saluto all’ANPI, al Partigiano Garibaldino
Giuseppe Gianzanetti e a tutti i partecipanti. Proprio dal riconoscimento
ad uno degli ultimi combattenti della
Divisone Garibadi in Jugoslavia è nata
l’idea dell’iniziativa alla quale hanno
partecipato Annita Garibaldi Jallet,
Presidente Nazionale dell’Anvrg, il
dott. Antonio Reppucci, Prefetto di
Catanzaro, il Sindaco Giuseppe Amelio e il Presidente del Consiglio Comunale Nicola Giancotti. Una serata
all’insegna della storia e della memoria. Per non dimenticare le migliaia di
morti in Jugoslavia e il contributo dato
dai nostri partigiani per la liberazione
di quei territori dall’occupazione nazifascista.
Mario Vallone
Il folto pubblico presente all’incontro di Sellia Marina (Catanzaro)
37
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Dai nostri lettori
RICORDATE
SABRA E CHATILA?
L
a più grande e conosciuta delle
fosse comuni situata all’ingresso del campo di Chatila è ridotta oggi ad una discarica, un campo
lurido nel quale vengono gettati i rifiuti di un mercato lì a pochi passi e
detriti di ogni genere, polvere e avanzi. “Avanzi” di un passato lungo
trent’anni, “avanzi” di una storia che
non passa, avanzi di un massacro avvenuto trent’anni fa, un massacro durato dal 16 al 18 settembre 1982 perpetrato dai miliziani falangisti alleati
di Israele. In quel campo per due giorni avvenne di tutto: ogni brutalità
dell’immaginario umano in poche
ore si concentrò in un piccolo lembo
di terra per 43 ore durante le quali l’olocausto di penosa memoria venne
riservato ad un villaggio di rifugiati
palestinesi, mantenuto costantemente
illuminato dall’esercito agli ordini di
Sharon e del suo assistente Eitan, durante le due notti per permettere ai
“cristiani” falangisti quanta più morte
fosse possibile. Fucilazioni manco a
dirlo sommarie, uomini a cui vennero
incise croci sul petto, seppellimenti di
persone ancora vive, famiglie interamente massacrate e bulldozer continuamente attivi nel tentativo di rimuovere e occultare non tanto le
tracce, ma proprio per cancellare dalla terra una popolazione. Alla fine i
morti saranno migliaia, forse 3.000,
più di 3.000, un numero mai accertato con esattezza perché di quel genocidio non è mai importato niente a
nessuno. Nessuno! Ma quei morti ci
sono, avevano un volto ed un nome
anche se oggi nessuno sa più, migliaia, perlopiù donne coi loro bambini,
vecchi, torturati, violentati, calpestati
ed alla fine annientati, cancellati fisicamente dal mondo. Ebbene oggi su
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
quel campo non
esiste una lapide o
un segno che ricordi la presenza
di quelle fosse comuni, l’emblema a
trent’anni di distanza della volontà “umana” di dimenticare,
di
voltarsi dall’altra
parte. Allora come
oggi. Allora come
di fronte ai campi
di sterminio nazisti. La storia
non insegna nulla,
mai. Sabra e Chatila non è finita quel
18 settembre 1982, Sabra e Chatila è
un massacro di innocenti che continua da trent’anni, perché nessun governo vuole ricordare, perché nessun
colpevole ha pagato, il “regista” del
genocidio divenne persino primo ministro di Israele e noi ci siamo fatti
meraviglia del nostro presidente del
consiglio per 17 anni per molto meno.
La tragedia di Sabra e Chatila non è
conclusa, perché le vittime di quel
massacro continueranno ed essere uccise ogni ora, ogni giorno che ci separa dalla doverosa giustizia e dal loro
umano e religioso rispetto.
Alessandro Fontanesi – per e-mail
A CASALE
UNA STRADA
PER IL FASCISTA
C
aro direttore,
a Casale Monferrato (AL), cittadina piemontese sonnacchiosa e certamente non progressista
(almeno non più...) è successo ciò che
Luigi Ganapini ha denunciato nell’ultimo numero di ottobre del nostro
mensile con il titolo “Una vergogna il
sacrario per il fascistissimo Graziani”.
L’attuale amministrazione di centrodestra – che si oppone da tre anni alla
realizzazione del Luogo della Memoria insistentemente richiesto dal nostro Comitato Unitario Antifascista e
dall’ANPI (in ricordo dei Tredici Partigiani della “Banda Tom” (Comandante Antonio Olearo Medaglia d’Oro alla memoria) massacrati nel
gennaio 1945 alla locale “Cittadella”)
– ha dedicato una via, seppur periferica, al Generale di aviazione fascista
38
Emanuele Cassinelli che operò in
Africa e Spagna, nonché i giardini
pubblici prospicienti il nostro ospedale al criminale di guerra Gen. Ugo
Cavallero, fascistissimo e servo dei tedeschi.
A nulla sono valse le proteste degli antifascisti casalesi a smuoverli dalla loro
decisione anzi, un cittadino ha protestato sul giornale locale perché la via a
Cassinelli... non viene sufficientemente pulita dai netturbini comunali.
Come sapete meglio di me il revisionismo dilaga fra l’indifferenza generale e i sorrisini dei vecchi fascisti, confermandomi però che tutto questo
succede anche perché c’è distrazione,
stanchezza e rassegnazione da parte
nostra. Ma tant’è!
Lanfranco Giovannacci
Casale Monferrato
BRAVI GLI ALPINI
E LA GUERRA?...
H
o letto tempo fa un articolo
intitolato “Gli Alpini entrano
a scuola per tramandare i valori”. Difficile sfatare un mito, difficile
smontare un luogo comune. Difficile
confrontarsi con chi ha tutto nella pancia e non riesce a ragionare razionalmente. Difficile perché non ti ascoltano. Veniamo comunque al sodo. Si
parla di attività didattiche nella scuola
per promuovere valori alpini, ma non
c’è niente delle belle cose di cui si parla
che abbia che fare con gli alpini come
istituzione militare.
Eppure gli alpini si presentano come
tali, non rinnegano né condannano il
loro passato di invasori di mezza Europa, di autori di stragi nei Balcani e anche Africa (Africa! Che ci facevano?).
Sono felicissimo, e ne conosco di alpini, che meritoriamente si impegnano
in iniziative di solidarietà (me li ricordo
dal terremoto del Friuli) e di salvaguardia dell’ambiente. Sono presenti sul
territorio con iniziative encomiabili.
È sicuramente importante conservare i
luoghi della Prima guerra mondiale,
ma forse bisognerebbe ricordare “l’inutile strage” per una condanna della
guerra e della logica militarista che ci
procurò seicentomila morti. Invece, ci
si limita ad un’epopea di eroismi senza
criticare chi ci condusse al massacro
per ottenere ciò che ci era stato promes-
Dai nostri lettori
so se non fossimo entrati in guerra tradendo l’alleanza con l’Austria. Guerra
che poi ci ha regalato la “vittoria mutilata” e poi il fascismo e con il fascismo
un’altra guerra. Un’altra epopea da mitizzare: la ritirata dalla Russia. E tutto
ancora una volta intruppati senza condannare la logica della guerra e degli
eserciti, fatta l’eccezione dell’alpinopartigiano Ermes Gatti.
Se gli alpini vogliono tramandare i loro
valori, devono togliersi le stellette e non
mescolarsi con un’istituzione, dell’Esercito che dopo averli trascinati in avventure militari in tutto il mondo, ora
li usa come testa di ponte nelle scuole
per mascherarsi come un’istituzione
“umanitaria” che promuove civiltà e dà
lavoro.
Associazione degli alpini svegliati! Il
nemico marcia alla tua testa. I valori
degli alpini nulla hanno a che fare con
l’esercito, le guerre e i massacri. I vostri
sono semplicemente i grandi valori civili di solidarietà e rispetto della natura
tipici della pacifica gente di montagna.
Adriano Moratto
Movimento Nonviolento
NOI ITALIANI
L’INFLAZIONE
E LA GRECIA
L’
inflazione non è altro che l’indice percentuale che si ricava
dal rapporto del continuo aumento dei prezzi di beni e servizi, in
un periodo di tempo definito, con la
diminuzione del potere d’acquisto
della moneta, in un certo Paese o area
più ampia. Più alto è questo indice,
peggiore è l’andamento dell’aumento
dei prezzi, minore è il potere d’acquisto dei salari e stipendi, con (ma non
necessariamente) minor interesse da
parte di terzi ad effettuare investimenti. I dati relativi ad aprile 2012
parlano degli indici di inflazione rapportati ad anno. Per aree ampie, c’è da
segnalare un 2,6% nella zona Euro ed
un po’ meno, il 2,3 negli USA.
Rimanendo in Europa sono Paesi della zona Euro coloro che hanno adottato l’Euro come moneta, mentre restano fuori da detta “zona” ma
rimangono pur sempre nell’Europa,
altri Paesi che hanno mantenuto la
loro moneta. Se l’inflazione determina oltre al potere d’acquisto anche la
tenuta di un Paese dal punto di vista
economico, finanziario e produttivo,
e quindi la sua credibilità rispetto a
terzi, noi (Italia) non è che andiamo
molto bene con la nostra inflazione al
3,3%. Per fare esempi è bene attenersi
ad economie simili alle nostre e rimanendo in Europa, zona Euro, ci si può
raffrontare con Francia e Germania
che ambedue hanno il 2,1% quindi
molto meglio di noi. Ma se ci vogliamo confrontare con altri Paesi d’Europa, fuori dalla zona Euro e sempre
con economie simili alla nostra ci
dobbiamo riferire alla Svezia (1,1%)
ed all’Inghilterra (3%) sfatando ciò
che dicono certi economisti “benpensanti” che se si sta fuori dall’Euro la
moneta perde valore. Noi siamo sempre i più bravi, perdiamo standoci dentro. Ma siamo sicuri che chi di dovere
si renda realmente conto della situazione in cui siamo? La Grecia è semi-fallita, ma ci dicono di stare tranquilli perché l’Italia non è su quei binari. Può
essere, ma non ci credo. Sapete quant’è
l’inflazione nella disastrata Grecia? È
l’1,9% su base annua, mentre in Italia
è, come ho già detto, al 3,3%. Se tanto
contribuisce seppur marginalmente a
dare tanto, poveri noi.
Ugo Cortesi – per e-mail
TANTI SOLDI
PER LE ARMI
E GLI AEREI
G
iorni fa il Parlamento ha approvato la legge che delega al
prossimo governo la riforma
delle Forze Armate. Ho ascoltato le
ultime battute di questa vicenda seduto accanto alle donne che si portano
sulle spalle il peso intero di una famiglia che non ce la fa, a quelle che fanno due/tre lavori per arrivare a fine
mese, agli uomini disperati a cui è
stato tolto il lavoro e che oggi si sentono uno zero, ai dipendenti e artigiani
che stanno lottando con le unghie e
con i denti per difendere il proprio lavoro, ai nuovi poveri che fanno la fila
alle mense della Caritas e provano
vergogna per quello che non avevano
mai immaginato di dover fare, ai giovani che trovano le porte chiuse
dell’università e del mondo del lavoro,
alle famiglie di anziani che stanno
sempre peggio, a quelle che sostengo-
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no delle persone con disabilità e sono
state lasciate sole. E oggi sono ancora
qui, seduto accanto a loro, a cercar di
dare un senso a quello che è successo.
Ma un senso non c’è. Che le forze armate abbiano dei problemi non v’è
dubbio. Ma di questi tempi i problemi
ce l’hanno in tanti. Il Parlamento ha
scelto di occuparsi dell’esercito come
non ha fatto per nessun altro. Poveri,
disoccupati, inoccupati, esodati, precari, bisognosi, nessuno ha ricevuto
tanta attenzione, tanta dedizione
quanto questo piano per le forze armate. In soli 6 mesi questo parlamento ha approvato una legge che garantisce ai generali più di 230.000 milioni
di euro per i prossimi 12 anni. Roba
da guinness dei primati. Cosa posso
dire a tutta questa gente che ho a fianco e che non sa più dove andare a
sbattere la testa? Che il futuro delle
forze armate è più importante del
loro? Che fare la guerra in giro per il
mondo è più importante che dichiarare guerra alla miseria e alla disoccupazione? Che comprare gli F-35 è più
importante che dare un po’ d’aiuto a
chi ne ha disperato bisogno?
40 anni fa, il 12 dicembre 1972, il
Parlamento approvava la legge che riconosceva il diritto all’obiezione di
coscienza al servizio militare e istituiva il servizio civile alternativo. Ieri un
altro Parlamento, figlio di una pessima legge elettorale e di una politica
peggiore, ha approvato un’altra legge
ma di segno opposto. Al posto dell’obiezione (alle armi) c’è l’obbedienza
(alla lobby delle armi). Al posto della
coscienza (personale) c’è l’incoscienza
(collettiva). Al posto del servizio civile
c’è il servizio ai generali. Al posto dei
valori (della pace, del disarmo, della
solidarietà, della condivisione, della
partecipazione e dell’educazione) ci
sono i dolori provocati da una riforma
che taglia 43.000 posti di lavoro per
comprare altre bombe e organizzare
altre guerre. Non c’era modo peggiore
di chiudere questa legislatura.
Il fatto più grave, tra i molti che non
smetteremo di denunciare, è il furto
di libertà e democrazia perpetrato ai
danni del prossimo parlamento e,
quindi, di noi tutti.
Flavio Lotti
Coordinatore nazionale
della Tavola della pace
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
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Vignette di Mellana, Paparelli, Squillante
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Periodico dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
INSERTO ALLEGATO AL
N°1 GENNAIO 2013
RAPPORTO
della Commissione storica italo-tedesca
insediata dai
Ministri degli Affari Esteri
della Repubblica Italiana e
della Repubblica Federale di Germania
il 28 marzo 2009
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
F
orse è la prima volta, dal dopoguerra ad oggi, che una Commissione governativa italotedesca si impegna nello studio comune della Seconda guerra mondiale in relazione alla
lotta tra i due Paesi, all’ invasione nazista, alla Resistenza, alla nascita della repubblichina di Salò, alla deportazione degli ebrei, alla deportazione nei campi di sterminio e al destino
tragico di migliaia di soldati italiani imprigionati nella Germania di Hitler, i cosiddetti IMI, gli
Internati Militari Italiani che furono oltre seicentomila. Il lavoro della Commissione mista si è
protratto per tre anni e alla fine è stato redatto un intensissimo “rapporto” che è stato presentato
ufficialmente il 19 dicembre scorso nella Sala “Aldo Moro” del Ministero degli esteri, alla presenza dei due ministri degli esteri: quello italiano, Giulio Terzi di Sant’Agata e quello tedesco
Guido Westerwelle. Erano presenti anche il Presidente dell’ANPI prof. Carlo Smuraglia, alti
magistrati militari, ministri, alti ufficiali, i magistrati che si sono occupati delle stragi nazifasciste e i rappresentanti delle Associazioni delle vittime delle stragi di Cefalonia, Marzabotto,
Sant’Anna di Stazzema e delle Associazioni degli IMI.
Tutto, sarà bene ricordarlo, era cominciato il 18 novembre del 2008, nel corso di una visita
italo-tedesca al museo del campo di concentramento nazista della Risiera di San Sabba. Proprio
in quella occasione, i ministri degli esteri italiano e tedesco avevano deciso il varo della Commissione di inchiesta sulla guerra tra i due Paesi, sulle stragi, le fucilazioni, i massacri, il contributo dei partigiani alla guerra di Liberazione, la nascita dello staterello mussoliniano, sorto sotto
la supervisione nazista e sulla tragedia degli IMI. L’ iniziativa era stata decisa nella condivisione
degli ideali di riconciliazione, solidarietà e integrazione, in nome dell’Europa comune e pacifica.
Della Commissione italo-tedesca erano stati chiamati a far parte storici e studiosi di chiara fama.
Per parte tedesca la dott.ssa Gabriele Hammermann, il dott. Lutz Klinkhammer, il prof. Wolfgang Schieder, il dott. Thomas Schlemmer e il dott. Hans Woller. Per parte italiana il prof.
Mariano Gabriele il dott. Carlo Gentile, il prof. Paolo Pezzino, la dott.ssa Valeria Silvestri e il
prof. Aldo Venturelli. Presidenti della Commissione erano stati nominati il prof. Mariano Gabriele e il prof. Wolfgang Schieder.
La Segreteria Nazionale dell’ANPI e “Patria indipendente” hanno deciso di pubblicare integralmente la relazione della Commissione italo-tedesca, con l’ intenzione di aprire un ampio dibattito sul documento. Sempre la Segreteria Nazionale dell’ANPI, intanto, ha deciso di confermare
il progetto di un convegno tavola-rotonda sulle stragi nazifasciste che si terrà il 29 gennaio alle
ore 16, nella sede della Biblioteca del Senato, in Piazza della Minerva, a Roma.
Nel corso della presentazione della relazione della Commissione italo-tedesca al Ministero degli
esteri, ha parlato anche il Presidente dell’ANPI Carlo Smuraglia. Ecco il testo del suo intervento:
«R
ingrazio per l’ invito i Ministri degli esteri d’Italia e di Germania, i rappresentanti del
Ministero degli esteri, i Presidenti (italiano e tedesco) della Commissione storica italotedesca, e prendo atto, con piacere, del lavoro che ci viene presentato, sul quale non mi
pronuncio, ovviamente, in questa sede, anche perché ho potuto soltanto scorrerlo rapidamente e
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
2
soffermarmi solo un po’ di più sulla parte conclusiva (“Raccomandazioni della Commissione”).
Sono certo, comunque, che questo lavoro costituirà un importante punto di riferimento per ogni
ulteriore studio e riflessione ed apprezzo, sotto questo profilo, il lavoro compiuto, sotto la guida di due autorevoli Presidenti. L’ANPI pubblicherà integralmente sulla sua Rivista (Patria
indipendente), fin dal numero che uscirà ai primi di gennaio, la relazione, avviando così un
dibattito che sarà aperto ad ogni contributo di riflessione, di apprezzamento o di critica sui
singoli punti. Quanto, invece, alla parte propositiva, quella delle “Raccomandazioni”, qui si può già
dire qualcosa di più, anticipando, peraltro, che un ulteriore approfondimento si realizzerà in
occasione della tavola rotonda che l’ANPI ha già fissato, su tutti i temi delle stragi, per il 29
gennaio, con un titolo significativo “Le stragi nazifasciste del 1943-1945, tra memoria, responsabilità e riparazione”.
Intanto, rilevo che l’obiettivo principale del lavoro svolto dalla Commissione ed oggi ribadito
dagli autorevoli rappresentanti dei due Governi è quello di contribuire alla formazione di
una “memoria comune” fra i due Paesi, sulle vicende che si sono verificate in occasione dell’ultima guerra mondiale.
Debbo dire che il tema della creazione di una memoria “comune” è affascinante e al tempo stesso
di estrema difficoltà: lo è all’ interno di singoli Paesi, come dimostra il fatto che né in Italia né
in Germania si è riusciti a realizzare, a tutt’oggi, un simile obiettivo; ovvio, dunque, che le difficoltà ed i problemi aumentino quando si tratta di costruire una memoria comune a due Paesi.
È
opportuno qui ribadire, comunque, che presupposto fondamentale per creare anche solo
le basi di un siffatto obiettivo è l’assunzione di responsabilità, senza della quale non è
pensabile di edificare neppure le fondamenta. Questo vale, naturalmente, sia per l’Italia
che per la Germania, anche separatamente, perché il nostro Paese ha le sue responsabilità quanto
meno per quanto riguarda la nota vicenda del cosiddetto “armadio della vergogna”, ma fino ad
oggi non se l’ è pienamente assunta, in modo esplicito e formale. Quanto alla Germania, si
ha l’ impressione che a fronte di una disponibilità a riconoscimenti formali, pur importanti (tutti
abbiamo apprezzato la presa di posizione del Presidente Raub a Marzabotto e del Presidente Schultz a Sant’Anna di Stazzema), resta ancora molto cammino da percorrere per quanto riguarda gli aspetti sostanziali della responsabilità e della riparazione.
Eppure, i precedenti non mancano, a livello mondiale: basti pensare alla legge approvata in Canada nel 2010 ed al sistema adottato in Sudafrica al termine del lungo periodo dell’apartheid,
entrambi fondati, prima di tutto, su un’assunzione vera ed aperta di responsabilità.
Devo dire che dalla lettura delle “Raccomandazioni” si ricava l’ impressione di un certo squilibrio, tra ciò che si è disposti ad ammettere, anche attraverso forme reali di riparazione, per gli
IMI e ciò che invece riguarda le stragi (che non vengono mai nominate) e gli altri atti di violenza e di barbarie. In realtà, sulla prima parte (IMI) si può discutere ancora e certo spetterà all’Associazione rappresentativa di quella “categoria” indicare soluzioni e formulare proposte eventualmente più soddisfacenti. Sulla seconda, devo dire francamente che mi sembra che si continui a
restare ancora troppo nel generico, anche solo a voler mettere momentaneamente da parte il tema
dei risarcimenti, per addentrarsi in quello delle riparazioni. Si esprime la volontà di contribuire
alla ricostruzione complessiva di quanto accaduto tra il 1943 e il 1945, in Italia, ma poi non è
chiaro in quale modo si pensi di farlo; eppure, basterebbe prendere atto che c’ è già un lavoro
fortemente avviato anche col contributo di autorevoli membri della Commissione e vi è, soprattutto, un’ intesa tra l’ANPI nazionale e l’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, per completare quel lavoro e realizzare un mappa, ossia un atlante complessivo
delle stragi. Basterebbe semplicemente dichiarare la disponibilità concreta a contribuire al finanziamento di questo lavoro, che – oltre tutto – non comporta, a quanto risulta, oneri rilevanti.
Altrettanto generica mi sembra l’ indicazione della possibilità di costituire una Fondazione italotedesca, che dovrebbe essere centro di studi e di incontri; ma per gestire poi che cosa e per dare in
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PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
concreto quale contributo all’ansiosa ricerca di verità che è presente non solo nelle comunità
più colpite, ma anche nell’opinione pubblica più avveduta ed attenta del nostro Paese.
Ma ancora: esistono forme di riparazione che si possono realizzare finanziando opere pubbliche, nei Comuni particolarmente colpiti (e sono molti di più di quelli cui di solito si fa riferimento), intendendo per opere pubbliche non solo monumenti, ma anche qualcosa di più ampio e significativo sul piano della pubblica utilità, oltreché del consolidamento della memoria.
Non ho il tempo per entrare in ulteriori dettagli, ma è mia convinzione fermissima che se non c’ è
un apporto reale anche sul piano dell’attuazione della giustizia, non è possibile parlare di riparazioni. La Corte dell’Aja si è pronunciata sull’ intangibilità degli Stati (e in particolare della
Germania) da parte dell’attività giurisdizionale di altri Paesi.
Ma il senso comune dovrebbe assicurare, quanto meno, la garanzia del rispetto delle pronunce
giudiziarie del nostro Paese, nella parte in cui non riguardano lo Stato Federale della Germania,
ma dei soggetti singoli. Ma non solo questo rispetto non sempre c’ è stato (basti pensare al provvedimento di archiviazione della Magistratura di Stoccarda su tematiche delle quali si era occupata
l’Autorità giudiziaria italiana, in tutti i gradi del giudizio, affermando responsabilità singole
e irrogando pene severe), ma quel che rileva è che non conosciamo casi in cui sia stata assicurata
l’esecuzione di sentenze irrevocabili pronunciate dalla Magistratura italiana, né sul piano penale, né su quello civilistico.
Su questo terreno, sembra essere mancata qualsiasi forma di collaborazione fra i due Stati; e questo pesa come un macigno sulla possibilità di realizzare l’obiettivo complessivo di cui si è detto. Un
ostacolo che occorre assolutamente rimuovere, con ragionevolezza, se si vuole realmente proseguire
il dialogo e portare avanti il lavoro avviato.
Infine, poiché vedo che in più occasioni – anche nella relazione – si parla della necessità di
rimuovere pregiudizi e stereotipi, devo dire che ce n’ è uno che mi pare di particolare rilievo:
quello secondo il quale molte stragi sarebbero in sostanza dovute a reazioni o rappresaglie contro
atti compiuti dai partigiani. Ebbene, gli studi storici di cui disponiamo ci dicono, con ragionevole approssimazione, che la percentuale di azioni di ritorsione è stata inferiore al 20% del totale, mentre per il restante 80% si deve parlare di atti di barbarie gratuita, quelli che nella stessa
Relazione, in almeno due occasioni, vengono indicati come atti di “guerra ai civili”. Anche questo chiarimento è essenziale per favorire, nella chiarezza, l’auspicabile dialogo ed individuare
meglio, ed a ragion veduta, le più concrete e soddisfacenti forme di riparazione.
Insomma, e per concludere, mentre concordo con gli obiettivi finali ed apprezzo le finalità perseguite, credo che sia necessario passare ad una maggiore e più tempestiva concretezza. Bisogna
riconoscere che si è impiegato quasi un anno, dopo la sentenza della Corte dell’Aja, per arrivare
a questo, che è giusto definire come un punto di partenza piuttosto che come un punto di arrivo:
un po’ troppo lungo – questo periodo – per essere accettabile e per non indurci a chiedere che
venga ora – finalmente – il momento della concretezza, dell’assunzione delle responsabilità e
dell’adozione delle necessarie misure riparatorie».
Nelle foto della copertina: Partigiani sfilano, nel giorno della Liberazione, per le strade di Modena. Nazisti in parata nello stadio di Norimberga.
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
4
Documenti
Premessa
I
l 18 novembre 2008, in una dichiarazione
congiunta rilasciata a Trieste in seguito alla
visita al museo del campo di concentramento nazista della Risiera di San Sabba, i Ministri
degli Affari Esteri italiano e tedesco ribadirono
la condivisione degli «ideali di riconciliazione,
solidarietà e integrazione che sono alla base del
processo di costituzione dell’Europa». Essi annunciarono l’istituzione di una commissione
di storici investita del compito di occuparsi del
passato di guerra italo-tedesco ed in particolare del destino degli internati militari italiani deportati in Germania, al fine di contribuire alla creazione di una cultura della memoria
comune ai due paesi. La Commissione, il cui
mandato fu stabilito per la durata di tre anni,
fu ufficialmente nominata nel marzo 2009 dai
Ministri degli Affari Esteri dei due paesi. Ne
hanno fatto parte cinque membri tedeschi (la
dott.ssa Gabriele Hammermann, il dott. Lutz
Klinkhammer, il prof. dott. Wolfgang Schieder, il libero docente dott. Thomas Schlemmer
e il dott. Hans Woller) e cinque italiani (il prof.
dott. Mariano Gabriele, il dott. Carlo Gentile,
il prof. dott. Paolo Pezzino, la dott.ssa Valeria
Silvestri e il prof. dott. Aldo Venturelli) ed è
stata diretta dal professor Mariano Gabriele e
dal professor Wolfgang Schieder.
All’interno di questa cornice ufficiale la Commissione ha potuto svolgere il proprio lavoro in
modo completamente indipendente e definire
autonomamente il proprio modo di procedere.
A causa del breve tempo a sua disposizione, la
Commissione ha rimandato fin dall’inizio all’idea di affrontare la problematica generale delle relazioni italo-tedesche durante la seconda
guerra mondiale; relazioni che, comunque, potrebbero essere analizzate solamente all’interno
di un più ampio contesto europeo. D’altra parte, però, sarebbe risultato insoddisfacente per la
Commissione limitarsi ad un semplice riassunto
del vasto e variegato spettro dei risultati ottenuti finora dalla ricerca storica. Secondo l’opinione della Commissione sono infatti necessari
nuovi impulsi storiografici per permettere alla
memoria nazionale tedesca e a quella italiana di
trovare almeno alcune prospettive comuni.
A questo proposito la Commissione ritiene molto promettente analizzare la storia italo-tedesca
durante la seconda guerra mondiale dal punto
di vista della storia delle esperienze, cioè attraverso l’esperienza di chi ha vissuto di persona
gli avvenimenti di quell’epoca. Quest’impostazione metodologica, che tiene conto delle interpretazioni che i singoli individui diedero degli
eventi storici vissuti in prima persona, non vuole condurre ad una rilettura di questi: non si
tratta né di giungere ad una revisione di interpretazioni storiche comunemente accettate, né,
tanto meno, ad una relativizzazione dei crimini
di guerra commessi in Italia da parte tedesca,
bensì di inaugurare una prospettiva nuova, soprattutto per quel che riguarda le vittime. La
Commissione è infatti del parere che, osservando gli eventi alla luce del rapporto tra condizionamento storico strutturale ed esperienza
individuale, si sviluppi una prospettiva nuova,
che permetta di guardare diversamente alla storia, sotto molti aspetti connessa, di italiani e
tedeschi al tempo della dittatura e della guerra,
a partire dalla proclamazione dell’Asse RomaBerlino da parte di Mussolini il 1° novembre
1936 fino alla capitolazione della Wehrmacht in
Italia il 2 maggio 1945.
U
n approccio nella prospettiva della storia
delle esperienze necessita di fonti particolari, il cui spoglio è uno degli scopi che
la Commissione si è prefissa. Nello specifico si
tratta soprattutto di fonti autobiografiche come
diari, lettere, appunti databili al dopoguerra o
memorie, ma anche di trascrizioni di interrogatori o dichiarazioni rilasciate dalle vittime alla
polizia, come tante se ne trovano depositate in
archivi e biblioteche o in possesso di privati.
La Commissione non ha potuto fare lo spoglio
completo di tutto questo materiale, che in Italia
come in Germania è disseminato su tutto il territorio ed in parte di difficile accesso; tuttavia,
essa ha ritenuto parte del suo compito verificare, sul campione di materiale preso in visione,
quali documenti si prestino ad un’analisi che si
avvalga dell’approccio proprio della storia delle
esperienze. I risultati di queste ricerche hanno
infatti mostrato che sono moltissime le testimonianze autobiografiche sulle opposte esperienze
di guerra di italiani e tedeschi che giustificano
un’indagine di questo tipo. Si tratta di fonti riguardanti sia le diverse esperienze di guerra dei
soldati tedeschi in Italia, sia l’esperienza della
violenza vissuta dalla popolazione civile italiana
sotto l’occupazione tedesca. Sono documentati
anche i punti di vista individuali, fra di loro
opposti, dei sostenitori della Repubblica Sociale
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PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Documenti
Italiana e dei membri della Resistenza. Particolarmente ricca è infine la base documentaria
riguardante le dolorose esperienze sofferte dagli
internati militari italiani in Germania.
È evidente che la Commissione non avrebbe potuto svolgere da sola tutte queste impegnative
ricerche nelle biblioteche e negli archivi italiani
e tedeschi. Fortunatamente essa ha potuto avvalersi di collaboratrici e collaboratori scientifici
che, sotto la responsabilità di singoli membri
della Commissione, hanno svolto ricerche mirate in Germania e in Italia. Per la Germania il
dott. Patrick Bernhard, Moritz Buchner (Magister Artium), il dott. Rene Del Fabbro, il dott.
Tobias Hof, il dott. Kay Kufeke, la dott.ssa Kerstin von Lingen, Sonja Schilcher (Magister Artium) e il prof. dott. Rolf Wörsdörfer. Per l’Italia
il dott. Paolo Formicone, la dott.ssa Francesca
Gori, la dott.ssa. Daniela Martino, il dott. Amedeo Osti Guerrazzi, la dott.ssa. Michela Ponzani e la dott.ssa Antonella Tiburzi. Per il lavoro
svolto, da portare a termine spesso in tempi molto brevi, la Commissione rivolge loro un sentito
ringraziamento. Senza il loro impegno e la loro
affidabilità la Commissione non avrebbe potuto
raggiungere i suoi obiettivi.
ta per tutti i membri un’interlocutrice preziosa.
Il rapporto sull’attività della Commissione è stato scritto esclusivamente dai membri della stessa, i quali si assumono anche la piena responsabilità del suo contenuto, nonostante ci siano
state divergenze d’opinione nell’interpretazione
di alcuni materiali. La Commissione ha basato il testo della relazione conclusiva sugli studi
preparatori forniti da Mariano Gabriele e Wolfgang Schieder (Tedeschi e italiani tra il 1943 e
il 1945), Carlo Gentile, Thomas Schlemmer e
Hans Woller (La prospettiva dei soldati tedeschi), Carlo Gentile, Lutz Klinkhammer e Paolo
Pezzino (Le esperienze della popolazione italiana con le forze d’occupazione tedesche), Gabriele
Hammermann e Valeria Silvestri (Le esperienze
degli internati militari italiani) così come Lutz
Klinkhammer, Wolfgang Schieder e Aldo Venturelli (Proposte della Commissione).
Nel caso in cui i collaboratori scientifici abbiano contribuito alla stesura del rapporto viene riportato il loro nome: Paolo Formiconi, Daniela
Martino e René Del Fabbro per l’inventario dei
documenti d’archivio sulla storia degli internati
militari italiani, Michela Ponzani e René Del
Fabbro per l’antologia di testi autobiografici degli internati militari italiani, Francesca Gori
per la banca dati riguardante le violenze compiute dalle forze armate tedesche in Italia durante la guerra.
Al termine del rapporto la Commissione formula una serie di suggerimenti, la cui realizzazione
esula dalle sue competenze. Perciò essa si appella esplicitamente ai responsabili politici d’Italia
e Germania affinché essi prendano in seria considerazione queste proposte e si adoperino per
realizzarle nel più breve tempo possibile. Ciò
vale soprattutto per la costruzione, a Berlino,
di un memoriale per gli oltre 600.000 internati
militari italiani deportati in Germania dopo l’8
settembre 1943, il cui triste destino collettivo è
stato fino ad oggi ampiamente dimenticato.
P
er l’estrema disponibilità a ospitare nei loro
istituti le riunioni della Commissione un
grazie particolare va al prof. dott. Gregor
Vogt-Spira, ex segretario generale di Villa Vigoni, al prof. dott. Michael Matheus, direttore dell’Istituto Storico Germanico di Roma, al
prof. dott. Horst Möller, ex direttore dell’Istituto di Storia Contemporanea di Monaco e al
suo successore, il prof. dott. Andreas Wirsching,
così come al prof. dott. Luca Giuliani, rettore
del Collegio Scientifico di Berlino.
Un grazie di cuore va infine alla dott.ssa Christiane Liermann, collaboratrice scientifica di
Villa Vigoni, che ha svolto le mansioni del segretariato scientifico per la Commissione ed è sta-
Mariano Gabriele
Wolfgang Schieder
Presidenti della Commissione
storica italo-tedesca.
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Documenti
Italiani e tedeschi
tra il 1943 e il 1945
Culture della memoria
in Germania e Italia
P
er quanto possa sembrare strano, i rapporti
italo-tedeschi durante il periodo dell’Asse
Roma-Berlino – la cui nascita fu annunciata da Mussolini a Milano il 1° novembre 1936 e
la cui durata in Italia, pur nel mutare delle circostanze, si protrasse fino alla fine della guerra
il 2 maggio 1945 – non sono stati ancora studiati in modo sistematico. Pur essendoci infatti
una serie di studi in cui vengono esaminati alcuni aspetti importanti del tema, come i rapporti
nell’ambito della politica sociale, dello sport e
della cultura così come, soprattutto, l’organizzazione dell’occupazione tedesca in Italia fra il
1943 e il 1945 e la deportazione forzata in Germania di soldati disarmati del Regio Esercito
Italiano, manca tuttavia un’esauriente trattazione generale dell’argomento. Soprattutto manca,
sorprendentemente, un’analisi degli eventi bellici svoltisi in Italia nel periodo compreso tra lo
sbarco degli Alleati in Sicilia il 9-10 luglio 1943
e la capitolazione dell’armata tedesca impegnata
in Italia il 2 maggio 1945. Certo, vista da una
prospettiva globale, l’Italia non fui che un teatro
di guerra secondario, sia per gli Alleati che per
la Wehrmacht; tuttavia, si trattò pur sempre di
una guerra lunga e difficile, che causò molte perdite e lasciò traumi di lunga durata soprattutto
nella popolazione civile, che ne fu gradualmente
travolta da sud a nord. Non potendo fare suo a
causa del poco tempo a disposizione il compito
di analizzare questo scenario di guerra, la Commissione si appella insistentemente agli storici di
entrambi i paesi, affinché il tema venga raccolto
e approfondito.
Alla Commissione è stato affidato il compito di
occuparsi del passato italo-tedesco nella seconda
guerra mondiale e del peso durevole che questo
passato ha avuto sui rapporti tra Italia e Germania, al fine di contribuire alla creazione di una
comune cultura della memoria. Compito in cui,
secondo la Commissione, non rientrava l’analisi
di questi complessi processi politici relativi alla
cultura della memoria. Essa ritiene dubbio il fatto che da culture di memoria nazionali, quali da
decenni si stanno costituendo in Italia e in Germania, possano nascere in breve tempo affinità storico-politiche. L’essenziale è piuttosto che
ognuna delle due nazioni mantenga sempre uno
sguardo aperto sull’altra, senza assolutizzare il
proprio punto di vista. Se si può affermare senza
riserve che la storiografia abbia fatto dei grossi
passi avanti, dal momento che oggi non esistono
più differenze significative nel giudizio che gli
storici tedeschi e italiani esprimono sul comune
passato di guerra nel periodo dal 1939 al 1945,
al di fuori della comunità scientifica continuano
invece a sussistere divergenze considerevoli nel
modo di ricordare la seconda guerra mondiale.
Tale ricordo è ancora oggi sia in Italia che in
Germania influenzato da visioni che non lasciano spazio a punti di vista differenziati.
T
anto più la storia italiana e quella tedesca
si intrecciarono l’una con l’altra durante la
seconda guerra mondiale, quanto più divergente è stato il successivo sviluppo delle rispettive memorie storiche. Si potrebbe quasi credere che in Italia e in Germania ci si ricordi di
due passati completamente diversi. In entrambi
i Paesi presero a diffondersi diversi miti: nonostante ciò si verificasse un po’ ovunque durante la
seconda guerra mondiale, in Germania e in Italia
questa ‘mitologia’ assunse tuttavia un carattere
particolarmente antagonistico. Infatti, sebbene
tra l’8 settembre 1943 e il 2 maggio 1945 fossero presenti sul suolo italiano, oltre a centinaia
di migliaia di soldati tedeschi, numerosi burocrati, funzionari di polizia e dei servizi segreti
così come quadri dell’economia e del partito,
questo massiccio dispiegamento di forze venne
ampiamente dimenticato nella Germania del dopoguerra. Più che mai si preferirono dimenticare
i numerosi massacri di civili italiani compiuti tra
il 1943 e il 1945 da unità delle Waffen-SS e della
Wehrmacht. Nelle memorie dei dirigenti nazisti
in Italia – dal maresciallo Albert Kesselring a
Rudolf Rahn, plenipotenziario di Hitler presso
la RSI – si trova il giudizio unanime che la conduzione della guerra in Italia da parte dei tedeschi, la lotta armata al movimento di resistenza
italiano e il trattamento riservato alla popolazione civile avrebbero rispettato le norme del diritto
7
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Documenti
internazionale. Al contrario, la guerra partigiana
contro gli occupanti tedeschi venne dipinta come
ingiustificata e subdola; qualsiasi mezzo utilizzato
per combatterla fu considerato legittimo, e questo
anche retrospettivamente. Era questa una variante del mito postbellico tedesco della ‘Wehrmacht
pulita’, credibile proprio rispetto all’Italia, dove
non era possibile metterlo in questione ricorrendo all’argomento del coinvolgimento della Wehrmacht nello sterminio degli ebrei d’Europa.
I
n Germania non fu celebrato praticamente
alcun processo contro gli atti di violenza e i
crimini di guerra commessi in Italia; anche
i processi che si svolsero in Italia ebbero luogo
soltanto nei primi anni del dopoguerra, con una
successiva ripresa negli anni ’80. Nel frattempo,
per motivi di ragion di Stato o per il timore di
scoprire crimini di guerra commessi dagli italiani, la maggior parte degli atti d’inchiesta era
scomparsa in un armadio, dal quale riemersero
solamente nel 1994 per entrare nella discussione
pubblica sotto la denominazione metaforica di
‘armadio della vergogna’. Soltanto Walter Reder, responsabile della strage di Monte Sole nel
comune di Marzabotto, e Herbert Kappler, responsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine nei
pressi di Roma, furono condannati all’ergastolo
nel corso di processi che destarono molto scalpore. Trattandosi in entrambi i casi di membri delle SS, la loro condanna contribuì a radicare nella
memoria collettiva della Repubblica Federale di
Germania la tendenza a riversare esclusivamente
sulle SS la colpa di tutti i crimini di guerra tedeschi compiuti in Italia, deresponsabilizzando
così completamente la Wehrmacht. La reclusione
pluridecennale dei due criminali di guerra nel
carcere di Gaeta non pregiudicò, ma anzi apparentemente rafforzò la credibilità del mito della
‘Wehrmacht pulita’.
Se nel dibattito pubblico interno alla Repubblica
Federale Tedesca era diffusa la tendenza a minimizzare il ruolo dell’occupazione nazista in
Italia e della massiccia politica repressiva da essa
messa in atto, fino a farne praticamente perdere
la memoria, questi temi furono invece per lungo tempo predominanti nella memoria collettiva
degli italiani. Dopo la definitiva caduta del regime fascista in Italia, ci fu certamente una fase in
cui si vollero fare i conti col fascismo dal punto
di vista politico, personale e giudiziario; tuttavia
questa fase fini già con l’amnistia generale del
22 giugno 1946. Da allora la memoria collettiva si concentrò per decenni sul ruolo storico
della Resistenza nella lotta contro l’occupazione
tedesca. Sebbene il movimento di resistenza non
sia stato militarmente in grado di prendere il
sopravvento sulle forze d’occupazione tedesche,
esso ebbe comunque un’importanza storica fonPATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
damentale dal punto di vista sia morale che politico. Quando nel 1947, nel clima della nascente
guerra fredda, i socialisti e i comunisti furono
estromessi dal Governo di Unità Antifascista di
Alcide De Gasperi con l’accusa di inaffidabilità, il richiamo alla Resistenza servì loro come
arma nel quadro della politica della memoria.
Con la formazione di un ‘arco costituzionale’,
la memoria della Resistenza fu trasformata per
subordinarla all’idea dell’unità di tutti gli antifascisti contro là repressiva occupazione tedesca.
Gli anni dell’intensa collaborazione tra l’Italia
fascista e la Germania nazista, alleate nell’Asse,
non rientravano nell’immagine che il governo
italiano voleva dare di sé e furono dunque per
lungo tempo ampiamente rimossi.
Tanto la diffusione del mito della ‘Wehrmacht
pulita’, quanto l’idealizzazione della Resistenza
contribuirono alla nascita e alla circolazione di
cliché negativi che, nei fatti, non corrispondevano per nulla al rapporto di amicizia che sui
piani più svariati andava instaurandosi tra i due
popoli nel dopoguerra. Ciò divenne particolarmente evidente nella riattualizzazione di stereotipi sorti quasi tutti durante la prima guerra
mondiale e riportati in vita nella fase finale del
secondo conflitto mondiale. Se da un lato è vero
che sia la propaganda politica sia la censura militare avevano fortemente contribuito, da entrambe le parti, alla creazione di topoi della memoria collettiva, è anche vero, dall’altro, che ciò fu
possibile solo in quanto esse poterono attingere
a una riserva di strutture mentali preesistenti
e ben radicate. In particolare l’addebito rivolto
agli italiani, considerati come ‘traditori’ a causa del loro ingresso in guerra nel 1915 al fianco
delle potenze dell’Intesa, fu riutilizzato con così
gran successo dalla propaganda nazionalsocialista dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 che
esso resistette a lungo nella Repubblica Federale Tedesca anche dopo il 1945. Lo stesso vale,
se possibile in misura ancora maggiore, per la
disgustosa definizione degli italiani come Spaghettifresser [divoratori di spaghetti], dietro cui
si nasconde una generale mancanza di comprensione per gli usi e i costumi di un altro popolo.
D
a parte italiana venne invece riportato in
uso al tempo della dominazione tedesca
l’espressione offensiva ‘crucchi’ [mangiatori di pane], le cui origini anche in questo caso
risalivano alla propaganda di guerra del primo
conflitto mondiale. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia nel 1940, gli italiani stessi, per distinguersi
dal ‘cattivo tedesco’, presero a definire se stessi
come ‘brava gente’ – stereotipo a tutt’oggi non
ancora del tutto scomparso. Una tale definizione
doveva servire a caratterizzare gli italiani come
popolo pacifico, sollevandoli così da qualsiasi re-
8
Documenti
che hanno vissuto gli eventi presi in considerazione, per quanto limitata potesse spesso essere la loro percezione. Un approccio di questo
tipo, che potremmo chiamare di storia delle
esperienze, è in grado di aprire una prospettiva aggiuntiva di indagine, pur senza operare
una revisione sostanziale delle interpretazioni
storiche esistenti. La Commissione parte dalla
constatazione che soltanto alcuni eventi entrano a far parte della memoria storica ufficiale di una nazione, per subire poi spesso un
processo quasi automatico di generalizzazione.
Solo così si spiega il fatto che modelli esplicativi così semplificatoci quali il mito tedesco
della ‘Wehrmacht pulita’ o l’immagine italiana
della Resistenza abbiano saputo imporsi e siano sopravvissuti per così lungo tempo. Ciò
che apparentemente non rientrava nel modello interpretativo politicamente dominante –
oggi denominato comunemente ‘narrazione’
– venne occultato, rimosso, semplificato, reinterpretato o semplicemente dimenticato. La
Commissione, al contrario, vuole mettere in
evidenza la pluralità e il carattere ambivalente
delle esperienze di incontro fra italiani e tedeschi durante la seconda guerra mondiale, intendendo così espressamente il proprio lavoro
come correttivo dei molteplici meccanismi di
reinterpretazione e rimozione del dopoguerra,
rispondenti più a esigenze politiche che a un
chiarimento storico.
La storia delle esperienze, così com’è intesa
dalla Commissione, non deve tuttavia esaurirsi
nella storia della vita quotidiana, bensì correlarsi con la storia delle strutture storiche e dei
processi di mutamento. Sono questi infatti a
determinare le esperienze dei singoli individui
e, al contempo, a rif letterle. Esperienza individuale e condizionamento storico strutturale
stanno dunque l’una rispetto all’altro in un
rapporto continuamente conf littuale e reciproco, che deve venire ogni volta determinato
nella sua specificità con il mutare delle circostanze. Di norma, le esperienze storiche primarie non possono essere raggiunte dagli storici
in modo diretto, ma possono comunque essere riportate alla luce attraverso testimonianze
autobiografiche di vario tipo. Con ciò si pone
per la storia delle esperienze il problema della
trasmissione delle fonti, sia per quanto riguarda la loro autenticità storica, sia per quanto
concerne invece la loro rappresentatività come
resoconti soggettivi degli eventi vissuti.
La stragrande maggioranza delle esperienze
di vita individuali viene tramandata di solito
oralmente e ne veniamo a conoscenza tramite
i resoconti – spesso di dubbia attendibilità –
di testimoni oculari o per puro sentito dire.
Possiamo avvicinarci maggiormente all’imme-
sponsabilità per ogni tipo di crimine di guerra.
La Commissione non s’illude di poter cancellare con un colpo di spugna tutti gli stereotipi
esistenti: essa è consapevole del fatto che i miti
della storia possono essere decostruiti solo attraverso un processo graduale di ricostruzione storica; tuttavia, è certo che un primo passo nella
lotta alla diffusione di tali stereotipi si compia
già nel momento in cui si cominci a chiamarli
col loro nome e venga riconosciuto il contesto
storico del loro sorgere. Così come oggi non può
sopravvivere in Germania il mito del corretto
comportamento della Wehrmacht sul suolo italiano, altrettanto inaccettabile è la sopravvivenza del mito degli italiani ‘brava gente’ in riferimento alla seconda guerra mondiale. Ciò che
secondo la Commissione è di vitale importanza
è che entrambe le parti siano pronte ad ammettere il proprio coinvolgimento e ad assumersi le
proprie responsabilità storiche. Da parte tedesca
è necessario contrastare l’indifferenza diffusa
nei confronti delle sofferenze patite dagli italiani
durante la fase finale della guerra; ad essa appartiene in primo luogo la percezione della terribile
sorte subita dagli ebrei italiani e dai deportati
nei campi di concentramento tedeschi, ma anche quella dei soldati, italiani del Regio Esercito,
colluso col fascismo, che vennero deportati in
Germania col nome di internati militari. L’Italia, da parte sua, deve riconoscere pubblicamente
la stretta collaborazione fra i regimi dittatoriali
di Mussolini e di Hitler sotto il segno dell’Asse a
partire dal 1936, la comune partecipazione alla
guerra in Francia, in Grecia, in Jugoslavia, nel
Nord Africa e nell’Unione Sovietica dal 1940 in
poi e il coinvolgimento di entrambe le dittature
nelle più efferate forme di repressione nella RSI.
Detto in altri termini, i tedeschi devono riconoscere che gli italiani non sono stati soltanto
collaboratori, ma anche vittime; e gli italiani, da
parte loro, devono accettare di non essere stati
soltanto vittime, bensì anche, in certa misura,
complici e collaboratori. Questo non significa
naturalmente che una parte debba presentare
all’altra il conto dei crimini commessi o fare sì
che essi si compensino a vicenda: compito della
ricerca storica è, secondo la Commissione, decostruire le semplificazioni e i pregiudizi diffusi,
mettendo in luce le complesse connessioni storiche che ne sono all’origine.
Il concetto di storia
delle esperienze
S
econdo la Commissione un approccio promettente per raggiungere questo obiettivo
consiste nell’analisi scientifica delle esperienze individuali degli uomini e delle donne
9
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Documenti
diata dimensione delle esperienze per mezzo
di testimonianze autobiografiche scritte come
diari, lettere o appunti redatti più tardi, anche
se bisogna tener conto del fatto che l’attendibilità storica di questi scritti diminuisce con l’aumentare della distanza temporale che li divide
dagli eventi raccontati. Si pone quindi la questione di quanto rappresentative possano essere
nel caso specifico le esperienze storiche vissute
da singoli. Per quante testimonianze autobiografiche si possano avere a disposizione, non è
dalla semplice addizione di singole esperienze
che può risultare una generalizzazione dell’esperienza. La memoria individuale è tuttavia
determinata socialmente, culturalmente, religiosamente o politicamente ed in questo modo
almeno parzialmente collegata alla memoria
di altri soggetti. Esperienze individuali apparentemente uniche vengono spesso vissute in
modo simile anche da altre persone che vengano a trovarsi in situazioni storiche analoghe.
Per questo motivo si parla anche di una ‘memoria comunicativa’, che costituisce dei gruppi
fra persone in contatto fra loro. Queste, dialogando tra di loro, scrivendosi o comunicando
con altri mezzi, oppure ancora attraverso descrizioni storiche, danno vita ad una memoria
collettiva di gruppo, senza esserne per questo
necessariamente consapevoli. Di conseguenza, la storia delle esperienze si concentra sul
collegamento delle esperienze individuali con
le esperienze di gruppi più o meno grandi.
L’incontro tra tedeschi e italiani
tra il 1943 e il 1945
S
e si vuole applicare l’approccio qui descritto alle esperienze che tedeschi e italiani
fecero gli uni con gli altri durante la seconda guerra mondiale, bisogna per prima cosa
prestare attenzione alle circostanze storiche in
cui tali esperienze ebbero luogo. A partire dalla proclamazione dell’Asse, i due popoli furono
innanzitutto legati l’uno all’altro da un destino politico oltremodo infelice: entrambi erano
rappresentati politicamente da dittature fasciste, la cui coesione interna dipendeva in modo
particolare dalla loro violenta espansione imperialista. Adolf Hitler e Benito Mussolini consolidarono le loro dittature trascinando i propri
popoli da un conf litto all’altro fino a che, a
partire dalla fine del 1941, affiancati anche dal
Giappone, si trovarono a condurre una guerra
contro quasi tutto il mondo, nella quale tutti e
tre i regimi soccombettero. La storia delle esperienze di tedeschi e italiani al tempo dell’Asse
si presenta dunque in primo luogo come storia di esperienze di guerra e di occupazione.
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
In secondo luogo occorre sottolineare che, sebbene i due dittatori non avessero mai progettato nessuna guerra in comune, nel 1940/41 essi
fecero comunque campagne di guerra comuni
in Francia, in Jugoslavia e in Grecia, portandole
vittoriosamente a termine; nel 1942/43, invece,
le due dittature andarono insieme incontro alla
sconfitta. In tutti questi teatri di guerra tedeschi
e italiani combatterono gli uni al fianco degli altri: l’esperienza di una fratellanza d’armi imposta si dall’alto, ma poi concretamente vissuta alla
base in milioni di singoli casi, fu dunque per i
soldati italiani e tedeschi un’esperienza primaria.
In terzo luogo non bisogna dimenticare che questa coalizione militare fini d’un colpo l’8 settembre 1943, con l’entrata in vigore dell’armistizio
voluto dal governo del maresciallo Badoglio di
comune accordo con gli Alleati. Da un giorno
all’altro non solo i governi e i quadri militari,
ma anche i soldati tedeschi e italiani divennero
da fratelli d’armi a nemici in guerra: una rottura
che, nel modo in cui si verificò, non ebbe eguali nel secondo conflitto mondiale. All’esperienza della solidarietà del periodo fascista subentrò
all’improvviso un rapporto di ostilità.
In quarto luogo è necessario mettere in evidenza la varietà dei contesti in cui ebbero luogo le
esperienze vissute dagli italiani e dai tedeschi. A
partire dall’8 settembre 1943 non è più possibile parlare di un ambiente omogeneo, per quanto
diversamente articolato, in cui avvenivano queste esperienze; da allora l’Italia fu infatti un paese diviso con una monarchia sotto il controllo
degli Alleati al sud e una repubblica ‘fascistissima’ al nord, guidata da Mussolini e posta sotto
il controllo delle forze d’occupazione tedesche.
Seguendo lo slittamento della linea del fronte il
confine tra i due Stati italiani si spostava sempre
di più verso nord. Si può parlare dunque di spazi
di esperienza situazionali, in cui tedeschi e italiani si confrontarono in circostanze di volta in
volta differenti.
In Sicilia, quello che rimase impresso nella memoria dei soldati tedeschi e della popolazione fu
soprattutto la resistenza comune contro le truppe alleate sbarcate sull’isola. Nel resto del Sud
Italia furono invece i sanguinosi combattimenti
con le unità della Wehrmacht in ritirata a lasciare il segno nella popolazione. Per quanto riguarda l’Italia settentrionale e centrale è necessario
procedere ad una differenziazione dei contesti
in cui poteva avvenire il faccia a faccia tra italiani e tedeschi: era infatti diverso se questi si
trovavano gli uni di fronte agli altri nelle immediate vicinanze del fronte, nell’entroterra del
territorio della RSI, solo nominalmente indipendente, o nelle cosiddette zone di operazione,
oppure durante azioni militari dirette contro i
partigiani, oppure ancora nel contesto non mili-
10
Documenti
tare della vita quotidiana durante l’occupazione.
Si deve tener conto in quinto luogo del fatto
che la mutevolezza delle esperienze dipendeva
naturalmente anche dal momento in cui i soldati ed i civili tedeschi venivano a contatto con
i militari italiani, con i funzionari della RSI e,
soprattutto, con la popolazione civile. Per entrambe le parti si apriva, a seconda della fase
storica, una diversa dimensione dell’esperienza.
Con ciò non s’intende soltanto la cesura tra la
fase dell’Asse prima dell’8 settembre 1943 e la
successiva fase di occupazione, ma anche il fatto
che, all’interno di questa seconda fase, le forze d’occupazione tedesche in Italia subirono un
continuo processo di radicalizzazione. Queste
risposero infatti alla forza crescente della Resistenza con una repressione sempre più spietata,
anche nei confronti dei più civili. Quanto più
la guerra si protraeva, tanto più ostili divenivano i rapporti tra tedeschi e italiani e tanto
più negativamente dovevano imprimersi queste
esperienze nella memoria individuale.
Se si tiene conto di queste condizioni storiche, le
diverse esperienze vissute da tedeschi ed italiani
dovranno essere valutate ricorrendo a criteri differenti. Pertanto è bene non parlare mai in modo
generico di ‘italiani’ e di ‘tedeschi’, ma piuttosto
essere consapevoli che si tratta di esperienze specifiche di singoli individui o di interi gruppi. Per
quanto riguarda gli italiani, per esempio, è fondamentale distinguere tra coloro che opponevano una resistenza attiva agli occupanti tedeschi,
coloro che invece collaboravano con gli occupanti, o, ancora, coloro che cercavano di evitare
qualsiasi coinvolgimento. Nonostante l’importanza di una tale differenziazione, queste diverse
esperienze di gruppo non sono state analizzate
finora che in modo assai lacunoso. L’unico punto
su cui oggi la ricerca concorda pienamente è che
coloro che resistevano militarmente alle forze di
occupazione tedesche o che con esse cooperavano fossero in entrambi i casi una minoranza. La
maggior parte della popolazione era infatti occupata dalla continua lotta per la sopravvivenza, la
quale però non escludeva frequenti atti di disobbedienza civile o di contestazione della disciplina
imposta dalle forze d’occupazione.
Esperienze di guerra vissute
dagli italiani a contatto coi tedeschi
L’
argomento di gran lunga più studiato è
il movimento di resistenza contro l’occupazione tedesca. Per gli antifascisti
impegnati nella lotta, i tedeschi e i loro complici fascisti incarnavano comprensibilmente
la negatività assoluta. Come dimostrano molte
testimonianze autobiografiche, questa conno-
tazione di negatività rimase viva anche dopo
la guerra. Alle forme ed alle dimensioni della
lotta contro la dominazione tedesca non è stata dedicata, in Germania, praticamente alcuna
attenzione; in Italia invece il suo innegabile significato storico è stato per lungo tempo enfatizzato. Da entrambe le parti questo portò ad
una percezione deficitaria del fenomeno, che
ostacolarono un riconoscimento storico realistico del valore della Resistenza.
La sollevazione contro le forze d’occupazione
si svolse in due grandi teatri d’azione: da una
parte le grandi città e dall’altra le impervie
regioni montane. Nelle città vi fu soprattutto una resistenza politica, nelle montagne tale
resistenza fu condotta anche nelle forme della guerra partigiana. La direzione della Resistenza fu assunta dai Comitati di Liberazione
Nazionale (CLN) che cominciarono a operare
in clandestinità già dall’8 settembre 1943. La
resistenza consisteva soprattutto in azioni di
propaganda, ma anche in atti di ostruzionismo
mirato e di sabotaggio di vario tipo. L’azione
politica più significativa fu rappresentata senza dubbio dagli scioperi di massa che ebbero
luogo nelle città industriali dell’Italia settentrionale nella prima settimana di marzo del
1944 e a cui parteciparono almeno 350.000
operai. Si trattò dello sciopero con la partecipazione di gran lunga più massiccia che abbia
mai avuto luogo in un paese europeo occupato
dai nazisti. Nella prospettiva della storia delle esperienze, tuttavia, sulle conseguenze di
quest’azione, che devono essere state notevoli, sappiamo finora molto poco. Le azioni più
spettacolari di resistenza cittadina furono invece gli attentati politici. Pianificati da gruppi di. guerriglia antifascista come i Gruppi di
Azione Patriottica (GAP), essi avevano anche
lo scopo di scuotere la maggioranza della popolazione civile dallo stato di attesa passiva in
cui versava. L’attentato più noto è quello di via
Rasella a Roma, durante il quale morirono 33
membri di un battaglione della polizia di ordinanza tedesca [Ordnungspolizei] e a cui seguì
una barbara azione di rappresaglia delle SS,
culminata nell’uccisione di 335 ostaggi italiani
alle Fosse Ardeatine. Le reazioni in cui i gruppi di resistenza avevano sperato tuttavia non
arrivarono. Al contrario, da lettere e petizioni
emerge addirittura che a volte il risentimento
della popolazione si dirigeva piuttosto contro
coloro che coni loro attentati provocavano le
rappresaglie tedesche, anziché contro gli autori
delle rappresaglie stesse. Anche a Roma, in alcuni settori della popolazione la deprecazione
nei confronti dell’attentato sopravanzò l’avversione prodotta dalle esecuzioni.
La resistenza militare era condotta da gruppi
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PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Documenti
di partigiani dal credo politico differente, ma
uniti nella lotta armata, che si formarono in regioni di montagna difficilmente accessibili. Il
potenziale bellico dei partigiani non consentiva successi militari di grande entità, ma era comunque sufficiente per creare crescenti problemi alle forze d’occupazione: dissuadeva infatti
i civili a cooperare con gli invasori e gettava in
un permanente ‘panico da partigiani’ i soldati
giovani e perlopiù inesperti della Wehrmacht.
L’approccio alla Resistenza nella prospettiva della storia delle esperienze non toglie nulla alle responsabilità storiche che pesano su alcune unità
delle Waffen-SS e della Wehrmacht per i massacri di civili e le uccisioni di ostaggi, compiuti
nella piena violazione delle norme del diritto
internazionale. Un tale approccio mette invece
in luce il fatto che le reazioni della popolazione
civile italiana alle azioni del movimento di resistenza furono molto più sfaccettate e complesse
dell’immagine che si è costituita nella memoria
successiva: esse spaziavano infatti dall’approvazione e dal sostegno nascosti fino all’indifferenza, per giungere infine ad una chiara disapprovazione e ad una aperta ostilità.
Alquanto meno studiato della Resistenza è il
collaborazionismo degli italiani con le forze di
occupazione tedesche nella RSI. La Commissione individua in questo caso una grande lacuna nella ricerca. La cooperazione italo-tedesca
nella Repubblica Sociale si sviluppò su diversi
livelli, pur essendo sempre caratterizzata da un
certo disequilibrio nei rapporti, in quanto la
libertà d’azione dei rappresentanti della RSI
rimase limitata rispetto a quella delle autorità
tedesche. La collaborazione degli italiani con i
tedeschi aveva il suo fulcro nella cooperazione
dei quadri del partito fascista e dei funzionari
statali con le autorità civili degli occupanti. La
polizia fascista collaborava in modo particolarmente stretto con gli organismi tedeschi incaricati della persecuzione, in particolar modo
nella ricerca di ebrei. Importante fu anche il
sostegno militare che i tedeschi riuscirono ad
ottenere dagli italiani nella lotta contro la resistenza armata all’occupazione. Inoltre pure gli
imprenditori e i lavoratori dovettero ‘ ‘scendere
a patti col regime d’occupazione tedesco, anche se spesso si trattava nel loro caso di una
collaborazione solo di facciata, dietro alla quale poteva addirittura celarsi un’attività clandestina a sostegno della Resistenza. Sappiamo
inoltre relativamente poco del comportamento
della Chiesa cattolica nei confronti degli occupanti. Non sussiste tuttavia alcun dubbio
che la maggioranza del basso clero si oppose al
reclutamento di lavoratori coatti e alla deportazione degli ebrei, in molti casi anche a costo
della prigionia e della vita.
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
La vita quotidiana a contatto con i tedeschi,
così come le diverse forme di resistenza indiretta, non sono ancora state studiate in modo
soddisfacente. Si può tuttavia partire dal presupposto che fosse la violenza quotidiana l’esperienza fondamentale con cui la maggior
parte della popolazione delle zone occupate
dovette convivere a partire dall’8 settembre
1943, anche se non tutte le regioni d’Italia
furono colpite in egual misura dalla guerra e
dalla persecuzione. Fra gli uomini giovani era
particolarmente viva la paura del reclutamento
forzato, fosse esso destinato al lavoro coatto in
Germania, all’Organizzazione Todt per la costruzione di opere difensive della Wehrmacht,
o al servizio nelle unità militari di Mussolini.
Anche se non si hanno ancora a disposizione
testimonianze precise, è logico pensare che i
più si trovassero a dover escogitare costantemente delle strategie per sottrarsi a queste minacce. Dall’autunno del 1944 molti di loro si
unirono ai partigiani, i quali divennero in questo modo sensibilmente più forti.
A
nche il ruolo delle donne sotto l’occupazione tedesca potrà essere approfondito dalla
prospettiva della storia delle esperienze. Al
tempo della Repubblica Sociale, a causa dell’assenza della maggioranza degli uomini, le donne ebbero molti oneri da sostenere e dovettero
spesso assolvere più compiti: da un lato, la cura
quotidiana della famiglia e, dall’altro, l’impegno
pubblico a sostegno del fascismo repubblichino o
l’attività segreta per la Resistenza.
Un campo che deve essere ulteriormente approfondito è infine quello costituito dalle
esperienze dei soldati e degli ufficiali del Regio Esercito Italiano che la Wehrmacht, dopo
l’armistizio, disarmò con la violenza, fece
prigionieri o addirittura uccise. Non pochi
riuscirono a darsi alla clandestinità, a fuggire nell’Italia meridionale, a nascondersi o a
passare dalla parte dei partigiani. Poco si sa,
tuttavia, della loro esperienza in clandestinità. Siamo invece più informati sul destino di
quei soldati che furono deportati in Germania
col nome di internati militari e, con l’eccezione degli ufficiali, obbligati al lavoro coatto. La
Commissione stessa non è riuscita a risalire al
loro numero esatto, ma le stime fatte parlano
di un minimo di 600.000 internati militari.
Compito della ricerca futura dovrà essere quello di precisare questi dati e di chiarire fino a
che punto ed in che modo gli internati militari
abbiano combattuto una ‘Resistenza senz’armi’, nonché quale importanza militare abbiano avuto i circa 200.000 alleati volontari ed
optanti. Un risultato sorprendente dei lavori
della Commissione a questo riguardo è il ritro-
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vamento di molte testimonianze autobiografiche finora sconosciute, a conferma del fatto
che, prendendo in considerazione anche le fonti già note, una ricerca sugli internati militari
dal punto di vista del loro destino collettivo
sarà possibile in futuro anche nella prospettiva
della storia delle esperienze. In questo modo la
Commissione si aspetta che venga resa giustizia storica alla sorte dei militari internati che,
dopo la guerra, non è stata quasi mai oggetto
di pubblica discussione.
S
e confrontata con la varietà di comportamenti degli italiani nei confronti dei tedeschi, l’esperienza collettiva dei tedeschi in
Italia durante la seconda guerra mondiale può
sembrare a prima vista più omogenea. In realtà, la struttura organizzativa e gerarchica della
Wehrmacht, fortemente unitaria, trasmette in
questo caso un’impressione sbagliata. Il comportamento dei soldati tedeschi nei confronti della popolazione civile italiana infatti non
fu per nulla omogeneo e subì inoltre nel corso
della guerra notevoli mutamenti.
Fino al settembre 1943, nello spirito dell’Asse,
era di grande importanza per gli alti comandi
della Wehrmacht che le unità di stanza in Italia vivessero nel maggior accordo possibile con
la popolazione del loro alleato più stretto. Per
fare un esempio, al fine di avvicinare i membri della Wehrmacht alla cultura e allo stile di
vita degli italiani, fu dato l’incarico a due intellettuali legati all’Italia – lo storico dell’arte Wilhelm Waetzoldt (1942) e l’archeologo
Ludwig Curtius (1943) – di illustrare in una
forma concisa le conquiste culturali del regime
fascista. Si trattava naturalmente di un’immagine edulcorata e dal chiaro scopo propagandistico. Evidentemente si ritenne necessario
intervenire propagandisticamente per arginare il crollo di stima verso l’alleato italiano. Ai
soldati tedeschi fu raccomandato di instaurare
uno spirito ‘cameratesco’ coi loro fratelli d’armi italiani e di rispettare i loro stili di vita
e le loro tradizioni. Ufficiali tedeschi trovarono spesso ospitalità presso famiglie italiane e
molti di loro cominciarono a impararne la lingua. Questo tipo di rapporti quotidiani restò
vivo anche quando le debolezze degli italiani
sul piano militare cominciarono a destare nei
tedeschi dubbi sempre maggiori sulla stabilità dell’Asse. Anche se sono necessarie ulteriori
verifiche, ci sono addirittura buoni motivi per
pensare che, nonostante l’inf luenza negativa
esercitata dalla propaganda nazionalsocialista,
la buona disposizione dei soldati tedeschi nei
confronti dei civili italiani non andò del tutto persa nemmeno dopo l’8 settembre. Fu solo
nel corso del 1944 che si affermarono defini-
tivamente quegli stereotipi negativi che già da
tempo si trovavano in circolazione. Anche in
questo caso tuttavia fu decisivo il contesto in
cui si formò di volta in volta l’esperienza dei
soldati tedeschi sul suolo italiano: al fronte,
nelle zone militarizzate dell’interno, durante
la lotta ai partigiani o nella Repubblica Sociale
amministrata da civili. Dunque quel confronto
tra membri della Wehrmacht e la popolazione
civile italiana, che ad un primo sguardo appariva privo di sostanziali differenze, si dimostra
invece assai complesso se guardato dal punto
di vista della storia delle esperienze. Un altro
elemento di cui bisogna tenere conto è che l’esperienza dei soldati in Italia fu determinata
anche dalle loro esperienze pregresse in altri
teatri di guerra. Più si avvicinava la fine della guerra e sempre più unità della Wehrmacht
consistevano o di soldati giovanissimi, spesso
provenienti direttamente dalla Gioventù hitleriana, oppure reclute di altri paesi integrate nelle Waffen-SS. Se ne può quindi dedurre
che, a partire dal 1944, la maggior parte dei
soldati tedeschi stanziati in Italia si trovasse al
fronte per la prima volta. La loro inesperienza militare e il confronto con la guerra partigiana li rendeva particolarmente ricettivi alla
propaganda nazionalsocialista. Inoltre giocava un ruolo significativo il fatto che in certe
unità delle Waffen-SS e della Wehrmacht stanziate in Italia, soprattutto nella 16ª divisione
dei Panzergrenadier “Reichsführer SS” e nella
divisione “Hermann Göring”, i ranghi intermedi fossero composti da ufficiali che avevano
precedentemente prestato servizio nella guerra
contro l’Unione Sovietica o addirittura come
personale di guardia nei campi di concentramento. Questi applicarono senza scrupoli i
metodi disumani della guerra di annientamento ‘antibolscevica’ non solo alla lotta contro i
partigiani, ma anche contro i civili e coinvolsero spesso in brutali massacri i giovani soldati
a loro sottoposti.
Questo però significa anche che non tutte le
divisioni tedesche in Italia furono pervase da
tale mentalità distruttiva. La Commissione
richiama l’attenzione sulla tendenza che sta
emergendo nella ricerca storica e che mette in
evidenza una pluralità di comportamenti dei
soldati tedeschi nei confronti sia della popolazione civile italiana che del movimento di
resistenza. Se è dunque possibile sotto molti
aspetti sollevare una parte delle unità della
Wehrmacht dall’accusa di crimini di guerra,
tanto più diviene necessario ritenerne altre ancora più responsabili.
Inoltre non si deve dimenticare il gruppo dei
disertori tedeschi e di origine austriaca – non
di rado passati poi dalla parte dei partigiani,
13
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Documenti
con i quali combatterono lealmente – che,
sebbene numericamente piuttosto modesto,
è per la storia delle esperienze di importanza
non marginale. Nella misura in cui è possibile
esprimersi su un argomento così poco studiato,
si può dire che le loro esperienze con gli italiani furono ovviamente di natura molto diversa
da quelle delle truppe che continuarono a combattere. Questa osservazione vale anche per il
numero sempre maggiore di soldati tedeschi
che, verso la fine della guerra, furono presi prigionieri dagli inglesi o dagli americani. Quali
esperienze abbiano fatto durante la prigionia
con i sorveglianti alleati o con le autorità civili nell’Italia liberata, è un terreno sotto molti aspetti ancora inesplorato e che necessita di
un’analisi approfondita, perché potrebbe trattarsi per alcuni soldati della prima volta in cui
essi furono messi a confronto con la realtà della sconfitta militare. La Commissione non ha
svolto nessuna ricerca mirata né sui disertori,
né sui prigionieri di guerra, ma concorda sulla
necessità che vengano intraprese entrambe.
P
articolare attenzione merita il fatto che
nel periodo dell’occupazione anche numerosi civili tedeschi vennero a contatto
con la popolazione italiana. Tra questi anche
diplomatici e alti funzionari, primo fra tutti
Rudolf Rahn, nominato da Hitler plenipotenziario del Reich presso Mussolini. Sono da
sottoporre ad analisi anche l’immagine che si
erano fatta del nemico gli organi della persecuzione tedesca, ai quali appartenevano anche
membri delle SS come Herbert Kappler o Erich
Priebke. Inoltre numerosi rappresentanti di varie istituzioni statali in Italia erano in concorrenza tra loro, come i funzionari del Ministero
degli Armamenti di Albert Speer, gli uffici di
Fritz Sauckel, plenipotenziario generale per il
lavoro, o le autorità preposte all’organizzazione
del piano quadriennale. In generale, i delegati
di queste autorità formavano un apparato burocratico considerevole, che venne più volte a
contatto diretto con la popolazione civile. Se
si prescinde dalle descrizioni lasciate dai rappresentanti del regime nazista nelle memorie
piuttosto inverosimili scritte dopo la guerra,
non sappiamo quasi nulla delle esperienze reali di questi burocrati con i civili italiani. C’è
da supporre comunque che la loro immagine
dell’Italia fosse assai inf luenzata dal rapporto
coi collaborazionisti della RSI.
In conclusione, non si deve dimenticare che
l’Italia fu per molti emigranti provenienti dalla Germania nazista, soprattutto ebrei, innanzitutto un paese in cui essi avevano trovato
un rifugio che poteva essere revocato. Dopo
l’armistizio, coloro che non erano riusciti a
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
fuggire prima furono presi di mira dagli apparati di repressione dei tedeschi e dei fascisti
della RSI e vennero a trovarsi costantemente
in pericolo di morte. Molti di loro furono aiutati da organizzazioni ebraiche, da istituzioni
cattoliche o dall’iniziativa di privati cittadini;
altri, invece, furono denunciati e si ritrovarono
vittime dell’ingranaggio distruttivo nazista.
Tre ambiti di ricerca
L
a Commissione sa di presentare solamente le linee principali di una ricerca scientifica che potrà essere completata solo
gradualmente. Nel breve tempo e coi mezzi
limitati che aveva a disposizione, alla Commissione non è stato possibile eseguire ricerche
esaustive. Le diverse circostanze in cui tedeschi
e italiani si trovarono gli uni di fronte agli altri durante la seconda guerra mondiale, le differenti esperienze vissute e tutte le nuove domande che queste problematiche portano con
sé richiedono infatti ricerche di lunga durata
che prendano le mosse, prima di tutto, da uno
spoglio sistematico delle fonti autobiografiche.
Tuttavia, per rendere comprensibile almeno la
varietà delle esperienze storiche fatte da tedeschi e italiani nel secondo conf litto mondiale,
la Commissione ha effettuato alcune ricerche
preparatorie in archivi e biblioteche. Questi
primi passi per sondare il terreno non possono
naturalmente sostituire ricerche di più ampio
respiro, ma dimostrano che sarà possibile rinvenire testimonianze autobiografiche che certo non ribalteranno completamente il giudizio
sui rapporti italo-tedeschi nella seconda guerra
mondiale, ma che ad ogni modo potranno gettare una nuova luce su alcuni aspetti centrali
relativi a questa problematica. Questo potrebbe contribuire alla formazione sia in Italia che
in Germania di una visione diversa della storia,
che prenda le distanze da reciproche percezioni
stereotipate ereditate dal passato. Anche se da
ciò alla fine non risulterà una comune cultura
della memoria italo-tedesca, si raggiungerebbe
però già di per sé un risultato molto positivo
se in entrambi i paesi interpretazioni autoassolutorie del passato lasciassero il posto a un
crescente processo di autocritica. Ciò non ha
nulla a che fare col relativismo storico, bensì
con una visione del passato rispondente allo
spirito di una limpida ricostruzione storica.
Un primo ambito di ricerca sondato è quello
riguardante i soldati tedeschi in Italia e le loro
esperienze individuali a contatto con la popolazione civile italiana. Si tratta delle esperienze
di più di un milione di soldati tedeschi che si
trovarono di stanza in Italia dal 1943 al 1945.
14
Documenti
Anche se è difficile trarre delle conclusioni generali, non per ultimo a causa dell’alto numero
di soggetti coinvolti, questa ricerca pionieristica mostra che le esperienze dei soldati tedeschi sul territorio italiano furono decisamente
più sfaccettate, maggiormente dipendenti dal
contesto e, spesso, meno brutali dell’immagine che si è imposta successivamente nella memoria collettiva. La Commissione ha trovato
in numerosi archivi e biblioteche una quantità
di materiale autobiografico finora sconosciuto,
che ben si presta a diventare oggetto di studi
nella prospettiva della storia delle esperienze.
Senza poter presentare dei risultati definitivi,
la Commissione vede qui un vasto campo di
ricerca in cui la prospettiva della storia delle esperienze può rivelarsi particolarmente
proficua. Un secondo ambito di ricerca sondato dalla Commissione è quello delle esperienze della popolazione italiana a contatto
con le forze d’occupazione tedesche. I risultati dell’indagine mostrano come i resoconti di
esperienze individuali non si lascino chiarire
tramite il semplice ricorso a modelli esplicativi
sommari. Anche se dal 1943 al 1945 l’esperienza della violenza fu dominante nella quotidianità dei civili italiani, il rapporto coi tedeschi
aveva conosciuto prima anche altri aspetti. Lo
stesso vale anche per la problematica particolarmente delicata del collaborazionismo degli
italiani con le forze d’occupazione tedesche al
tempo della Repubblica Sociale. Nonostante in
questo caso si abbia a che fare quasi esclusivamente con fonti apologetiche, emerge tuttavia
che la collaborazione dei ‘repubblichini’ con le
autorità tedesche non fu dettata, di norma, da
puro opportunismo, ma anche da motivi ideologici. Questo vale soprattutto per le unità militari della RSI, in cui si arruolarono prevalentemente quei volontari che ancora credevano
alla vittoria finale dell’Asse. Un terzo ambito
su cui gli interessi della Commissione si sono
concentrati particolarmente è la situazione
degli internati militari italiani prigionieri dei
tedeschi. La Commissione ha lavorato con successo alla raccolta di nuove fonti, attraverso le
quali è possibile fornire una interpretazione del
singolare destino degli internati militari nella
chiave interpretativa della storia delle esperienze. La Commissione ritiene che il riservare al
loro destino un posto particolare nella cultura
e nella politica della memoria di Italia e Germania sia un gesto che avrebbe dovuto essere
compiuto già da molto tempo. Gli internati
militari non possono scomparire più a lungo
dalla storia per finire nella zona grigia della
memoria italiana e di quella tedesca; piuttosto
il ricordo del loro incolpevole destino dovrebbe unire simbolicamente tedeschi e italiani.
Materiali di lavoro
per la ricerca futura
A
ffinché il proposito di analizzare la storia
italo-tedesca durante la seconda guerra
mondiale dal punto di vista della storia
delle esperienze possa essere concretizzato, la
Commissione presenta alcuni materiali di lavoro che dovranno servire da strumenti per la
ricerca futura. Ad essi appartiene innanzitutto
un inventario dettagliato delle fonti archivistiche sul destino collettivo degli internati militari che la Commissione ha rinvenuto in Italia
e in Germania e grazie alle quali la ricerca sulla tragica sorte degli internati potrà essere fondata su una base nuova e molto più ampia di
testimonianze. In secondo luogo la Commissione presenta un’antologia dei resoconti scritti
dagli internati militari dopo la loro liberazione. Per rendere possibile la loro ricezione anche
nei paesi di lingua tedesca, dove, al di fuori
della cerchia degli storici, il destino di questi
soldati è pressoché sconosciuto, i resoconti redatti in lingua italiana verranno pubblicati in
traduzione tedesca.
Infine, la Commissione renderà accessibile
online una banca dati contenente informazioni su più di 5.000 atti di violenza compiuti
da membri delle forze armate tedesche e denunciati ai Carabinieri dalle vittime stesse o
dai loro congiunti alla fine della guerra. Anche se questi dati necessitano ancora di una
interpretazione più articolata, essi documentano già in questa prima elaborazione l’enorme
violenza della repressione e nello stesso tempo
anche i diversi aspetti che l’occupazione nazista presentò nelle diverse regioni d’Italia. A tal
proposito la Commissione segnala anche una
banca dati online dell’Istituto Storico Germanico di Roma, nella quale sono elencate tutte
le unità tedesche della Wehrmacht e delle Waffen-SS che hanno combattuto in Italia e i loro
rispettivi teatri di operazione.
G
li strumenti di lavoro presentati dalla
Commissione non possono ovviamente
sostituire le analisi storiche, ma possono tuttavia facilitare notevolmente l’accesso
a quelle fonti di storia delle esperienze senza
le quali nessuna analisi storica è possibile. La
Commissione riterrà dunque di aver raggiunto
i propri obiettivi nel momento in cui in futuro
avrà stimolato l’avvio di ricerche compiute a
partire da una nuova prospettiva. Nuovi metodi storiografici sono infatti a suo parere una
delle condizioni necessarie al lungo processo
di formazione di una comune cultura della memoria italo-tedesca.
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PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Documenti
La prospettiva
dei soldati tedeschi
P
Le forze armate tedesche
in Italia
N
onostante il Patto d’Acciaio stipulato nel
1939, l’inizio della guerra e l’inizio di
una comune esperienza bellica in Italia
e in Germania non coincisero. Quando la Wehrmacht invase la Polonia il 1° settembre 1939,
l’Italia si limitò a dichiararsi potenza non belligerante e solo il 10 giugno 1940, quando la
vittoria tedesca sulla Francia era ormai pressoché certa, Benito Mussolini annunciò l’entrata
in guerra del regime fascista a fianco del Reich
tedesco. I primi a entrare in stretto contatto con
le forze armate italiane non furono certamente
i soldati semplici, bensì gli alti ufficiali degli
Stati Maggiori di collegamento, che erano stati istituiti dai rispettivi Comandi Supremi per
garantire uno scambio di informazioni e un
coordinamento più efficienti. Pur non contando molti membri, gli Stati Maggiori di collegamento costituivano i punti di raccordo operativi nella direzione della guerra di coalizione e si
ritrovarono così ad occupare un ruolo centrale
nello svolgersi degli eventi.
A causa della situazione bellica sopra descritta,
le truppe combattenti tedesche vennero a contatto solo relativamente tardi con lo scenario
italiano. Nel 1940/41 furono infatti soprattutto
gli appartenenti al X Fliegerkorps inviato in Sicilia, i marinai inviati con i loro sottomarini nel
Mediterraneo e i membri dell’Afrikakorps inviati
a combattere nel deserto africano, che attraversarono l’Italia. Tra il 1941 e il 1942, inoltre, il
II Fliegerkorps fu ritirato dal fronte orientale per
essere impiegato fino all’estate del 1943 nelle
basi della Sicilia e del Sud Italia contro gli obiettivi nel Mediterraneo – particolarmente in vista
dell’invasione di Malta, già pianificata. Fu solo
dopo la capitolazione delle forze italo-tedesche
in Africa nel maggio 1943, quando il Comando Supremo della Wehrmacht (OK W) cominciò
a temere uno sbarco imminente degli Alleati
in Sicilia, che divisioni di terra più consistenti
furono trasferite dalla Germania e dalla Francia nella penisola italiana. Quando, nel luglio
1943, ebbe effettivamente inizio l’attacco, circa
45.000 soldati tedeschi erano di stanza sull’isola.
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
er poter difendere il Nord Italia da uno
sbarco alleato e controllare rapidamente
il paese in caso di un cambiamento di
fronte, Hitler mobilitò altre divisioni dopo
la caduta di Mussolini. Nell’agosto del 1943
erano presenti sul suolo italiano 15 divisioni,
alcune delle quali ritirate dal fronte orientale.
Quando, l’8 settembre 1943, l’armistizio tra
l’Italia e gli Alleati fu reso pubblico, le truppe tedesche occuparono l’Italia fino a Napoli
compresa, mentre più a sud gli Alleati avevano già stabilito delle teste di ponte. I soldati italiani furono disarmati con la violenza e, nel disprezzo del diritto internazionale
vigente, dichiarati poco più tardi ‘internati
militari’. Il 2 maggio 1945, quando le truppe
tedesche in Italia deposero le armi, erano di
stanza sulla Penisola ancora 24 divisioni, sei
in meno rispetto all’agosto 1944, quando le
divisioni della Wehrmacht dislocate in Italia
raggiunsero con 30 divisioni la concentrazione più alta.
Quanti soldati tedeschi abbiano combattuto in
Italia tra il 1943 e il 1945 è, ora come allora, difficile da stabilire esattamente. All’inizio dell’aprile 1944 prestavano servizio al comando del feldmaresciallo Albert Kesselring
circa 600.000 uomini, 160.000 dei quali erano italiani. Oltre ai 440.000 soldati tedeschi
ancora presenti sul territorio italiano alla fine
della guerra si devono contare i circa 110.000
caduti, i prigionieri di guerra catturati fino a
quel momento, un numero incerto di feriti e
dispersi e, infine, i soldati delle 15 divisioni
precedentemente ritirate dall’Italia. Tenendo
conto di questi numeri si può parlare ragionevolmente di un milione di soldati tedeschi che
si avvicendarono nei combattimenti sul suolo
italiano fra il 1943 e il 1945.
Oltre a questi si deve tener conto di un gruppo
difficilmente quantificabile di civili tedeschi
residenti in Italia anche da tempo (commercianti, albergatori, studiosi, giornalisti, artisti), così come di un numero non precisamente
definibile di emigranti perseguitati – tra cui
numerosi ebrei – che negli anni ’30 avevano
trovato in Italia un rifugio inizialmente sicuro,
ma che alla fine furono trascinati anch’essi negli ingranaggi della persecuzione nazifascista.
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Documenti
La memoria collettiva
N
ella Germania Ovest la memoria collettiva della guerra in Italia fu da principio
fortemente influenzata dalle memorie
pubblicate da ex diplomatici, generali o esponenti delle SS. Nel contesto del dibattito sul riarmo, il loro scopo era quello di delineare un’immagine positiva delle operazioni militari sul
fronte meridionale per difendere il buon nome
della Wehrmacht. Dal punto di vista militare la
Repubblica Federale Tedesca doveva apparire
insomma come un alleato tanto onesto quanto
fidato. Paradossale è il fatto che anche i processi svoltisi nel dopoguerra tendessero in questa
direzione. Ciò vale in particolare per il processo ad Albert Kesselring, tenutosi davanti ad un
tribunale militare britannico nel 1947. Inizialmente condannato a morte, il feldmaresciallo
vide poi commutata la pena nel carcere a vita e,
successivamente, ridotta a 21 anni di prigione;
nel 1952 era già a piede libero. In tal modo, ciò
che rimase nella memoria dell’opinione pubblica tedesca non fu l’accusa per la fucilazione di
ostaggi o per gli ordini disumani impartiti nella
lotta alla Resistenza, bensì la strategia difensiva
di Kesselring davanti al tribunale, che riuscì a
far apparire cavalleresca la guerra in Italia, e il
comandante in capo un ‘gentleman’.
L’
intento primario di dipingere la Wehrmacht come un esercito professionale e
corretto ebbe inoltre l’effetto di danneggiare l’immagine dell’alleato italiano. Per presentare sotto una luce positiva l’operato dei tedeschi, i soldati e gli ufficiali italiani dovevano
essere descritti come il loro pendant negativo.
Stereotipi profondamente radicati nel passato
come quelli della ‘pigrizia’, della ‘viltà’ o della ‘imperizia militare’ tornarono in uso, mentre
sembrava essere stata dimenticata la stretta cooperazione negli anni dell’Asse. Nemmeno una
parola fu spesa sulla fratellanza d’armi cui s’inneggiava un tempo, il silenzio calò sulla componente ideologico-propagandistica dell’alleanza e
si cercò di far credere che gli sforzi dei due regimi per rafforzare l’alleanza imperialistica ben
oltre la sfera militare non ci fossero mai stati.
Gli immancabili stereotipi, presenti in molte
memorie, appartenevano al bagaglio mentale
dei soldati tedeschi già al tempo in cui misero
piede per la prima volta in Italia: agendo col
potere di una lente deformante, essi riuscirono
ad alterare la percezione della realtà, ad entrare
in concorrenza con gli eventi concreti e, dopo
la guerra, a funzionare da catalizzatori del complesso processo di trasformazione dell’esperienza di guerra in memoria di guerra. L’accusa che
pesò maggiormente fu senza dubbio quella di
tradimento; il fatto che gli italiani fossero dei
‘traditori’ sembrò ai tedeschi trovare una conferma indiscutibile nell’armistizio del settembre
1943 e nella dichiarazione di guerra dell’ottobre dello stesso anno. Mentre nei libri di memorie questa stigmatizzazione occupò un ruolo
di primo piano, non fu dato invece quasi alcun
rilievo al paese e alla sua gente, e anche i delitti
della Wehrmacht non trovarono posto in questa
narrazione: ruberie, violenza e uccisioni furono passate sotto silenzio. Nel caso si fosse dato
spazio alla trattazione della guerra dietro la linea del fronte, questa veniva interpretata come
legittima difesa contro nemici terribili, i partigiani, che combattevano in modo subdolo e con
mezzi illegali.
Le testimonianze autobiografiche redatte dopo
il 1945, così si potrebbe riassumere, sono certamente fonti importanti, anche se talvolta queste gettano luce più sulla politica tedesca del
dopoguerra e sui tentativi di imporre modelli
interpretativi apologetici che sulla conduzione
tedesca della guerra in Italia. Sia storici tedeschi che italiani hanno già ampiamente trattato
le caratteristiche più importanti della guerra e
della memoria collettiva che ne è rimasta, sottolineando anche il fatto che questa memoria
non coincide necessariamente con l’esperienza
vissuta dai soldati tedeschi in Italia tra il 1943
e il 1945. L’esperienza individuale e collettiva
della guerra fatta dai soldati tedeschi è dunque
ancora in attesa di essere approfondita: da questa premessa prendono avvio le riflessioni della
Commissione di storici italo-tedesca. La Commissione nelle sue analisi parte dall’ipotesi che
la guerra in Italia non fu certo una guerra ‘pulita’, ma nemmeno in primo luogo una guerra
di sterminio diretta contro la popolazione civile
dietro il pretesto della guerra partigiana. È senza dubbio più corretto affermare che si trattò
della sovrapposizione di tre conflitti militari a
dare alla guerra sulla penisola italiana la sua impronta particolare:
- innanzitutto la guerra delle forze armate tedesche contro gli eserciti degli Alleati, che, casi
eccezionali a parte, fu condotta in conformità
al diritto internazionale vigente;
- in secondo luogo la guerra contro i partigiani,
condotta da unità della Wehrmacht, delle Waffen-SS e della polizia d’ordinanza – non di rado
affiancate dalle milizie fasciste – con particolare durezza e scarso rispetto del diritto internazionale;
- in terzo luogo il conflitto fra le truppe tedesche d’occupazione e la popolazione civile, che
in momenti e regioni determinate degenerò in
una vera e propria guerra contro la popolazione
civile, condotta con mezzi criminali.
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PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Documenti
Spazi di esperienza
L
e basi su cui possono fondarsi le nuove ricerche sulla guerra tedesca in Italia sono
relativamente ridotte. Mentre la guerra
contro l’Unione Sovietica è stata ripetutamente
oggetto di vasti progetti di ricerca, per la storiografia il teatro di guerra italiano è sempre rimasto in secondo piano. Non disponiamo infatti
né di un’esaustiva trattazione generale in lingua
tedesca sulle operazioni militari, né di informazioni sufficienti sulla storia sociale e quotidiana
delle truppe tedesche in Italia, sulla loro origine,
la loro composizione sociale e le loro precedenti
esperienze di guerra; sono tutti temi affrontati
solo negli ultimi anni. Poco sappiamo anche a
riguardo delle rappresentazioni dell’Italia come
esse erano state formulate negli ordini del giorno, nei manuali di istruzioni per soldati [Tornisterschriften] o nei giornali del fronte, con cui
la Wehrmacht e le Waffen-SS inviavano le loro
truppe oltre il Brennero e sul modo in cui poteva
agire la propaganda su un esercito i cui soldati,
nonostante portassero la stessa uniforme, differivano enormemente tra loro per età, provenienza sociale, formazione ed esperienze politiche. In
ogni caso è sicuro che questo esercito combatté
per più di un anno e mezzo in Italia. Ai soldati,
che spesso prestavano servizio per mesi interi,
non mancò dunque la possibilità di conoscere
l’ambiente in cui vivevano, i camerati italiani
dell’esercito della RSI o anche i civili. Questi
contatti potevano essere fugaci o duraturi, venire presto dimenticati o lasciare impressioni più
profonde, mantenersi su un piano civile e quasi pacifico o degenerare in episodi di violenza.
Quanto al lato oscuro e criminale della condotta tedesca durante la guerra in Italia, disponiamo ora di informazioni più precise: il numero
dei crimini di guerra è ampiamente noto, così
come la loro distribuzione regionale e le fasi della guerra in cui essi si concentrarono. Anche per
quanto concerne la questione delle responsabilità non si brancola più nel buio. Ricerche recenti dimostrano che l’appartenenza a determinate
formazioni era un fattore spesso decisivo per il
compiersi di razzie, rappresaglie mortali e massacri; soprattutto le cosiddette truppe di élite e
le formazioni delle Waffen-SS giocavano in tale
contesto un ruolo particolarmente nefasto.
A queste formazioni erano peculiari sia il radicalismo di ufficiali e sottoufficiali, che spesso
avevano già prestato servizio nella campagna
contro l’Unione Sovietica e durante la quale si
erano impadroniti di maniere particolarmente brutali nel condurre le azioni di guerra, sia
l’inesperienza e l’indottrinamento ideologico
delle giovani reclute, provenienti quasi nella
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
loro totalità dalla Gioventù Hitleriana e portati a seguire volontariamente e a volte persino
con ammirazione i loro spregiudicati superiori, soprattutto quando si aveva a che fare con i
partigiani. Questi – così si diceva allora e così
sembra essersi impresso nella memoria dei soldati – violavano le convenzioni internazionali,
combattevano in modo ‘disonorevole’ ed erano
infettati dal virus del bolscevismo. Detto concisamente, i partigiani erano ritenuti piuttosto perfidi ed insidiosi, non per ultimo perché
si rite-neva che essi non si facessero scrupoli
ad impiegare anche donne e bambini nel raggiungimento dei loro obiettivi. Così nella lotta
contro le bande partigiane ogni mezzo diveniva
legittimo, anche quando erano persone innocenti a farne le spese. Nella visione della direzione
della Wehrmacht, improntata dalla intenzione
di discolparsi da ogni addebito, le vittime dovevano attribuire la colpa delle loro sciagure a
se stessi e soprattutto alla Resistenza, allorché
venivano a trovarsi intrappolati negli ingranaggi
spesso mortali della repressione e della violenza.
M
entre questi aspetti criminali della
guerra condotta dai tedeschi in Italia
sono stati nel frattempo dovutamente
indagati, non sappiamo quasi nulla sulla convivenza quotidiana dì tedeschi e italiani. I soldati
tedeschi venivano spesso acquartierati in piccoli
paesi, intrecciavano nuove conoscenze, venivano
a contatto per ragioni di servizio con i collaboratori italiani, visitavano luoghi antichi e chiese
famose; per non parlare dei contatti con la parte
femminile della popolazione, che si trattasse di
abusi sessuali commessi dai soldati occupanti,
o di avvicinamenti cercati dalle donne italiane
per opportunistiche strategie di sopravvivenza,
o, a volte, addirittura per affetto. Queste esperienze si lasciano difficilmente classificare e tanto meno generalizzare, non da ultimo perché le
fonti ad esse relative sono sparse sul territorio
e non sempre particolarmente illuminanti. Inoltre, aspetti come la violenza contro i civili e la
lotta alla Resistenza vengono spesso omessi o
solo marginalmente accennati. È tuttavia necessario aggiungere che, fra le rare volte in cui questi aspetti vengono tematizzati, le testimonianze
risalenti al periodo della guerra sono molto meno
inclini, rispetto a quelle scritte dopo il 1945, a
minimizzare o edulcorare i fatti, distaccandosi
così, tramite le loro descrizioni realistiche della
guerra partigiana, da quella memoria collettiva che comincerà a formarsi solo dopo il 1945.
La Commissione ha dedicato un’attenzione
particolare a tali fonti soggettive ed ha avviato
ricerche in tutti gli archivi rilevanti della Repubblica Federale di Germania. Inoltre essa ha
rintracciato una quantità notevole di materiali
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Documenti
in possesso di privati e ne ha assicurato l’accessibilità a scopi di ricerca. Si tratta soprattutto di
posta militare, diari, memorie scritte e fotografie. Sulla scorta di tali documenti e di altri ancora si possono formulare alcune ipotesi, orientate
alla cronologia, che devono essere ancora corroborate da uno studio approfondito delle fonti.
Le testimonianze raccolte lasciano trasparire
che, prima della caduta di Mussolini e del cambio di fronte dell’Italia, i rapporti tra i soldati
delle potenze dell’Asse erano molto meno tesi rispetto a quanto venne fatto credere dopo il 1945.
I pochi membri delle Forze Armate tedesche di
stanza in Italia fino all’estate del 1943 avevano
in realtà ben poco di cui lamentarsi. Verso la
fine della guerra, per esempio, un vecchio funzionario calabrese ricorda come i primi soldati
tedeschi fossero stati accolti nel suo paese con
fiori e regali. L’Asse, così si potrebbe sintetizzare, funzionò nonostante i suoi deficit strutturali
e fu addirittura capace di successi militari. Fu
solo quando questi successi cominciarono a ridursi e la situazione militare si complicò che i
rapporti tra i due alleati entrarono veramente in
crisi, come d’altra parte rispecchiano anche le
testimonianze autobiografiche.
C
on lo sbarco degli Alleati in Sicilia all’inizio del luglio 1943, quando agli occhi dei
propri alleati le truppe del Regio Esercito
non si batterono con il dovuto valore ed ebbero
inizio le ostilità tra tedeschi e italiani, con la destituzione di Mussolini poco dopo e infine con
la proclamazione dell’armistizio nel settembre
del 1943, l’immagine che molti soldati tedeschi
avevano dell’Italia cambiò radicalmente. Da
questo momento in poi nelle loro lettere e nei
loro diari questi ricorsero non di rado a citazioni tratte quasi letteralmente da discorsi radiofonici tedeschi traboccanti d’odio. Scrivevano per
esempio del «popolo di maiali e di straccioni»
e riferivano di atti di vendetta personale contro gli «italiani traditori». Per loro, gli «italiani
erano spregevoli quasi come gli ebrei». La propaganda ufficiale sembrò dunque aver effetto e
neutralizzare in un sol colpo la retorica dell’Asse degli anni precedenti.
Questo non può certo sorprendere, se si pensa
che all’epoca non doveva esserci quasi nessun
soldato tedesco che ignorasse la storia del presunto tradimento dell’Italia nei confronti della
Triplice Alleanza nel 1915. Effettivamente fu
proprio il motivo del ‘tradimento’ a dominare
nei discorsi e negli scritti riguardanti l’Italia che
circolavano nell’estate e nell’autunno del 1943:
su questo fatto le memorie dell’epoca, così come
quelle dell’immediato dopoguerra, non lasciano
sorgere alcun dubbio. In ogni caso emerge una
differenza, perché lo sgomento, l’indignazione e
la rabbia vengono posti più chiaramente in luce
nei diari e nelle lettere di posta militare piuttosto che nei ricordi del dopoguerra, spesso attenuati. Il rancore personale per il ‘comportamento degli italiani’ – le motivazioni per la scelta
dell’armistizio non erano o non volevano essere
comprese – poteva sfociare addirittura in fosche
previsioni per l’Italia e il popolo italiano tutto:
un popolo che, col suo ‘tradimento’, aveva dimostrato di non essere destinato a grandi imprese.
A
ccanto a questi slogan predominanti si trovavano anche singole lettere in cui emergeva una riflessione sull’accaduto che andava al di là della propaganda. Alcuni soldati non
riuscivano a capire il voltafaccia degli italiani e
inizialmente non volevano credere che l’alleato
di un tempo fosse ‘passato al nemico’. Per questi
sostenitori dell’Asse fu dunque un segnale positivo che alla fine di settembre del 1943 Mussolini
si fosse messo a capo della RSI. In questo atto
essi vedevano un primo passo verso la normalizzazione della situazione e diedero per scontato
che il duce avrebbe riunificato il popolo italiano
e l’avrebbe guidato nella lotta agli invasori angloamericani.
Ai rivolgimenti dell’estate del 1943 segui più
di un anno di violenti scontri armati. In questi
mesi, si cristallizzò da parte tedesca un’immagine dell’Italia decisamente più sfaccettata di quella propagandistica e stereotipata che circolava nei
mesi intercorsi tra la caduta di Mussolini e la dichiarazione di guerra del Regno d’Italia al Reich
tedesco. A questo proposito bisogna distinguere
quattro spazi di esperienza, che possono essere
così denominati: fronte, retrovie, lotta antipartigiana, campi di prigionia.
L
e esperienze e le memorie dei soldati tedeschi al fronte sono segnate soprattutto da
operazioni militari, combattimenti, fatiche,
ferite e paura della morte, così come dalla convivenza con i compagni. Sia nelle lettere e nei diari
che nei resoconti redatti dopo il 1945, l’attenzione si rivolge soprattutto alle grandi e piccole
operazioni militari condotte contro gli Alleati;
anche i frequenti spostamenti di truppe e i trasferimenti vengono regolarmente menzionati. Queste descrizioni, che a causa della ricostruzione a
volte molto dettagliata dello svolgimento delle
battaglie e dei movimenti delle truppe possono
certo essere di grande interesse per la storia militare in senso stretto, sono tuttavia solo parzialmente utilizzabili per gli obiettivi che si pone la
storia della vita quotidiana e dei rapporti sociali.
Nelle descrizioni provenienti dalle retrovie si
trova un’immagine assai sfaccettata dell’Italia.
Materiali d’archivio finora sconosciuti danno
un’idea della vita quotidiana dei soldati, i quali
19
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Documenti
spesso intrattenevano stretti rapporti con la popolazione civile. Oggetto delle descrizioni erano
sia il territorio e la gente che la vita all’interno
delle proprie truppe. I soldati tedeschi si dimostrarono particolarmente impressionati dalla cultura italiana, si trattasse di musei, chiese, monumenti o spettacoli teatrali. Spedivano a casa foto
e cartoline e corredavano i loro diari e le loro
lettere con piccoli disegni, a volte accompagnati
da osservazioni stupite sull’incapacità del popolo
italiano di valorizzare sufficientemente il proprio
patrimonio culturale. Nel maggio del 1944 un
caporale scriveva: «Chi non è stato a Roma, non
ha la minima idea del mondo. […] È tutto così
imponente ciò che è italiano. Mi affascina l’architettura di questa città, da un lato così moderna e dall’altro così intrisa di storia. Ma i suoi
abitanti non si rendono conto della particolarità
della città in cui vivono».
Soprattutto in alcune zone dell’Italia settentrionale, dove per circa un anno la guerra fu quasi
impercettibile e la presenza dei soldati tedeschi
assai esigua, sembrò risorgere tra l’autunno del
1943 e l’estate del 1944 la solidarietà dei giorni precedenti la rottura dell’Asse. Nei loro diari,
alcuni soldati appuntavano annotazioni positive
sulla popolazione civile: ci sono addirittura testimonianze in cui si parla quasi di una sorta di
familiarità, capace di far dimenticare il contesto politico-militare, addirittura di un angolo di
patria in terra straniera, anche se non si accenna alla possibilità che l’ospitalità italiana fosse
dovuta soprattutto alla paura e alla confusione
causate dalla particolare coesistenza di guerra
e guerra civile. Non è tuttavia da escludere che
una descrizione volutamente marcata di tali episodi rappresenti un contrappeso alle esperienze
di crimine e violenza. Così scriveva nel maggio
1944 ai suoi genitori Hermann L., soldato semplice appartenente al reggimento di artiglieria
della famigerata divisione “Hermann Göring”
di stanza nella provincia di Pisa: «Ho conosciuto qui una famiglia di italiani molto gentili, che
mi mettono a disposizione molte cose: mi danno
frutta, mi fanno il bucato... Insomma, me la passo bene. Con gli italiani riesco a capirmi bene e
alcuni mi hanno addirittura chiesto se fossi italiano, ma non siamo ancora a questo punto». Da
questo incontro, Hermann L. sembra esser stato
profondamente toccato. Ancora decenni dopo
scriveva: «Per tutta la vita ricorderò con estrema
riconoscenza l’ospitalità di questa famiglia italiana. Mamma Luisetta [...] mi aveva preparato un
banchetto. Loro stessi non possedevano sicuramente tanto. Ma erano stati macellati dei conigli
apposta per me. La mamma aveva cucinato più
portate, e anche il budino al cioccolato. Tutta la
famiglia, compresi i parenti più prossimi, presero
parte al pranzo. In quanto ospite d’onore, mi fePATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
cero sedere a capotavola. Gli onori e le cure che
questa famiglia [...] riservò a me, soldato straniero di un popolo straniero, non li dimenticherò
mai».
In certe fonti si trovano anche racconti di relazioni amorose, fidanzamenti, matrimoni, a volte
ricordati con nostalgia, a volte infarciti di stereotipi e cliché.
Il lato femminile della guerra maschile non si
esaurisce soltanto in questi aspetti. Insieme alle
truppe combattenti della Wehrmacht infatti si
trasferirono in Italia anche molte donne che prestavano servizio negli uffici degli Stati Maggiori,
erano addette alle comunicazioni e al controllo
degli spazi aerei o curavano malati e feriti negli
ospedali militari. Finora però si sa ben poco della loro storia e ancora meno delle loro specifiche
esperienze individuali. Le poche testimonianze
autobiografiche che possediamo rivelano un ampio spettro di esperienze, impressioni e punti di
vista che vanno dalla fede nell’Asse ad un autentico amore per la terra e per la gente, fino alla
diffidenza e alla rabbia ideologizzata per il venir
meno della volontà di combattere da parte degli
italiani, anzi per il loro ‘tradimento’ degli alleati
tedeschi.
C
ontatti più stretti tra i membri delle forze
armate tedesche e gli italiani, civili o militari che fossero, furono spesso resi difficili
da problemi linguistici. Non per questo, però,
mancano negli appunti dei soldati riferimenti
alla «voglia di vivere» degli italiani che, se calata nel contesto della guerra e della guerra civile,
suona grottesca, ma che non veniva certo riferita
unicamente per tranquillizzare i propri cari in
patria. Così scrive ad esempio Karl K., caporale
di una divisione di fanteria, alla fine del febbraio
1945: «Del resto io osservo qui, nelle osterie e nei
ristoranti di Verona, una vita che sembra davvero
scorrere serena. Gli italiani, ma anche i soldati
acquartierati qui traboccano di una palpabile voglia di vivere. E non è la prima volta che vedo
come una città, minacciata nella sua esistenza,
aumenti di 20 volte la propria voglia di vivere
grazie alla condotta di vita dei suoi abitanti».
Quando nel corso della guerra il confine tra il
fronte e le retrovie cominciò a farsi meno netto, i racconti dei soldati divennero sempre più
foschi. Essi notavano soprattut to come la situazione degli approvvigionamenti, che all’inizio,
se paragonata con altri teatri di guerra, poteva
essere definita addirittura prospera, fosse diventata molto precaria – sebbene sul mercato fossero
sempre disponibili in abbondanza beni di lusso
come stoviglie, profumo o cioccolata, certo solo
per coloro che disponevano di denaro. A scioccare in particolar modo i soldati tedeschi fu la miseria degli abitanti, e questo soprattutto laddove
20
Documenti
essi avevano fatto in precedenza esperienze così
positive, come per esempio a Roma, con le sue
boutiques e i suoi monumenti antichi. La popolazione affamata non rientrava infatti nell’immagine dell’Italia quale ‘ricca terra di cultura’ e paese
agricolo. Fenomeni di questo tipo venivano più
facilmente associati alle regioni povere dell’Est
Europa, che molti soldati conoscevano per avervi prestato servizio precedentemente. Pietà per i
civili italiani e incredulità di fronte agli effetti
della guerra si possono leggere in testimonianze
come la seguente: «Roma è adesso una città senza
pane e presto sarà una città che patirà veramente
la fame. Ad un incrocio, nel giro di dieci minuti, sono stato avvicinato da svariati adulti e da
almeno una mezza dozzina di bambini in cerca
di pane. [...] Una cosa del genere sarebbe molto
meno sorprendente e meno straziante in un qualsiasi altro luogo colpito dagli effetti immediati
della guerra – un villaggio russo, una località distrutta – che qui, nell’elegante centro della capitale italiana».
A
lle annotazioni dalle retrovie, che spesso suggeriscono l’idea di rapporti quasi
idilliaci, si contrappongono i drastici e
drammatici racconti sulle esperienze della guerra
contro la Resistenza. Proprio da queste descrizioni del movimento di resistenza italiano emerge
un’immagine tanto interessante quanto ambivalente dell’Italia.
Da un lato, i soldati tedeschi si sentivano traditi
poiché sembrava loro di combattere non solo per
gli interessi del Reich tedesco, ma anche, se non
addirittura soprattutto, per quelli dell’Italia. Che
il Paese fosse diviso e che il ‘Regno del Sud’ sotto Vittorio Emanuele III e Pietro Badoglio avesse
cambiato fronte e si fosse schierato con gli Alleati
rimaneva da questo punto di vista un fatto trascurabile, visto che per la propaganda e la politica
tedesche la RSI di Mussolini non era solamente
un alleato, ma anche l’unico governo legittimo
d’Italia. Delusione, rabbia e rinascita di un risentimento antico nei confronti dell’Italia sfociarono
in azioni brutali contro partigiani o presunti tali,
anche se molti massacri, nel frattempo ampiamente studiati, non hanno lasciato quasi nessuna
traccia nella memoria della generazione del tempo di guerra. Bisognava procedere senza scrupolo
contro quella «gentaglia assassina» e quelle «bande», e i «villaggi interi dovevano essere disinfestati con il fuoco». Ripetutamente si rimarcavano le
analogie con la ‘guerriglia’ in Unione Sovietica,
cosa che rendeva i soldati dolorosamente consapevoli del fatto di star conducendo una «lotta ai
partigiani in un paese alleato».
Dall’altro lato però i soldati tedeschi si sforzavano di non applicare alla totalità degli italiani
l’immagine che avevano dei partigiani e non vo-
levano dimenticare, per esempio, «la contadina
italiana [...] che ci portava pane e latte».
Per alcuni soldati tedeschi un grande problema era
costituito dai rastrellamenti compiuti nelle zone
controllate dai partigiani. Particolarmente delicata era la questione delle rappresaglie compiute
contro i civili in risposta alle azioni della Resistenza: oltre ad essere ingiustificate, esse avrebbero
potuto infatti condurre direttamente nelle braccia
del movimento partigiano quella parte di popolazione che tentava di tenersi fuori dal conflitto o
che stava addirittura dalla parte dei tedeschi.
N
ella lotta ai partigiani i reparti tedeschi
lavoravano spesso a stretto contatto con
le milizie fasciste, che non riservavano
alcuna pietà ai loro connazionali antifascisti.
Nonostante molti fatti siano noti, quest’ultimo
sanguinoso capitolo della storia dell’Asse non è
stato ancora scritto dal punto di vista della storia delle esperienze. Lo stesso vale, cum grano
salis, anche per la persecuzione e la deportazione
di ebrei italiani e stranieri, a cui presero parte,
osservando una sorta di divisione dei ruoli, italiani e tedeschi: i fascisti italiani fungevano da
delatori e collaboratori volontari, mentre la deportazione nei campi di sterminio restò in mano
ai tedeschi. Il fatto che ci siano parecchie lacune
riguardo a questo argomento è dovuto non da
ultimo alla mancanza di fonti significative: le
testimonianze tedesche al riguardo sono pressoché inesistenti e inoltre, nell’affrontare questo tema, si va a toccare un tabù che sopravvive
ancora oggi, come dimostrano alcune interviste
a ex soldati della Wehrmacht condotte su iniziativa della Commissione in questi ultimi mesi.
Strettamente collegato alla lotta armata della
Resistenza contro la Wehrmacht e le Waffen-SS
è un altro capitolo della storia delle esperienze
della guerra tedesca in Italia: la storia dei disertori tedeschi e di origine austriaca entrati nelle
file del movimento di resistenza. A nord come
a sud del Brennero il tema era scomodo. Nella
Germania Ovest, parlarne era addirittura tabù;
in Italia, nonostante alcuni comandanti della
Resistenza non avessero dimenticato i disertori
che si erano trovati sotto il loro comando e Roberto Battaglia, uno dei fondatori della ricerca
sulla Resistenza, avesse fin da subito sottolineato il ruolo dei «partigiani tedeschi», il ricordo
dei disertori con l’uniforme della Wehrmacht
si perse spesso dietro cliché comunemente accettati. Anche se non furono molto numerosi,
i partigiani tedeschi costituiscono un filone
estremamente interessante dal punto di vista
della storia delle esperienze, in quanto avvicinano due mondi altrimenti estranei l’uno all’altro
ed offrono una visione diversa della guerra tedesca in Italia.
21
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Documenti
A
partire dall’estate del 1944, dopo lo sbarco degli Alleati in Normandia e il fallito
attentato a Hitler, cominciano a trovarsi
nelle annotazioni dei soldati tedeschi elementi
decisamente nuovi. Alcuni di loro ora notavano
la compassione, percepita da molti soldati come
umiliazione, se non addirittura l’odio e la derisione con cui gli italiani si ponevano o perlomeno
parevano porsi nei loro confronti. Il mutato atteggiamento della popolazione era palpabile nelle
zone di guerra come nelle retrovie e molti soldati
tedeschi non solo si chiedevano perché dovessero
difendere un popolo «che nutriva odio nei nostri confronti», ma mettevano in dubbio anche
il senso della guerra in Italia in generale. «Non
si è mai parlato così apertamente come adesso di
disfatta e di crollo. Le speranze si sono ridotte
al minimo. La fine della guerra è prevista con
certezza per i prossimi mesi. Il rapporto con gli
italiani diventa sempre più difficile: ci si fanno
incontro con espressioni derisorie o, nel migliore
dei casi, compassionevoli. Agli occhi di tutti noi
siamo coloro che perderanno la guerra».
Furono in particolare le notizie ricorrenti sui
massicci bombardamenti che colpivano le città tedesche e sulle vittorie dell’Armata rossa sul
fronte orientale ad alimentare la preoccupazione
delle truppe combattenti per i propri famigliari
e congiunti in patria, che talvolta venivano addirittura incoraggiati a trasferirsi nelle regioni occidentali del Reich per non cadere nelle mani del
nemico russo.
Quanto più si avvicinava la fine della guerra, tanto più diveniva rilevante per i soldati tedeschi un
quarto spazio di esperienza: i campi per prigionieri di guerra, in cui si costituirono strutture
discorsive che si riveleranno estremamente significative per la memoria della guerra. I resoconti
sulla prigionia ruotavano soprattutto intorno alla
sconfitta e al modo in cui ci si era arrivati. In queste riflessioni, i soldati si avvalevano continuamente di un motivo ben noto, che già nell’estate.
del 1943 aveva avuto grande fortuna: il tradimento. Dopo lo shock della capitolazione dell’esercito tedesco in Italia, si fece ricorso ancora una volta a tutto il repertorio di stereotipi antiitaliani e
nella misura in cui si bollavano gli italiani come
traditori e capri espiatori si potevano eludere più
facilmente questioni di autocritica. Si legga, in
tal senso, l’appunto di Walter S., infermiere in
un reggimento di fanteria e fatto prigioniero già
nel settembre del 1944: «2 maggio 1945: il giorno peggiore della prigionia: gli eserciti tedeschi
presenti in Italia hanno capitolato. La guerra in
Italia è finita, l’abbiamo persa!!! Non ci posso credere, non può essere stato che tradimento. Non
mi vergogno delle lacrime che oggi ho versato,
molti compagni hanno fatto lo stesso. Profondo
odio e rabbia amara riempiono i nostri cuori».
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
«Tradimento», «odio» e «rabbia amara» sembrano essere state spesso le ultime reazioni dei
soldati tedeschi nei confronti dell’Italia e degli
italiani. Ciò che prevalse in seguito negli scritti autobiografici furono invece le crescenti preoccupazioni per il proprio futuro, per il destino
dei famigliari e la situazione degli approvvigionamenti. Più importanti dei rapporti con gli
italiani divennero ora i contatti coi vincitori,
soprattutto col personale di guardia dei campi.
Furono non da ultime queste nuove priorità che
contribuirono a far sì che alle complesse e a volte
contraddittorie esperienze individuali di guerra si sovrapponesse negli anni ’50 una memoria
collettiva comoda dal punto di vista biografico
e gradita da quello politico: cercando di lavare
le colpe della Wehrmacht e addossando alla Resistenza la responsabilità dell’escalation della
violenza dell’ultimo periodo di guerra, essa ha
rimosso sistematicamente gli aspetti criminali
della conduzione tedesca della guerra in Italia.
Prospettive
U
n primo confronto tra i modelli interpretativi propagandistici e spesso apologetici della guerra nella penisola italiana e le
immagini dell’Italia che emergono dalle testimonianze scritte prima del 1945 mette in luce un’evidente discrepanza tra esperienza (individuale) e
memoria (collettiva). In altre parole, memoria e
esperienza coincidono solo parzialmente e talvolta si trovano addirittura in aperto contrasto. Le
fonti soggettive risalenti al dopoguerra devono
essere lette sullo sfondo di queste considerazioni
e messe in relazione con documenti coevi, quali
lettere di posta militare e diari. Queste testimonianze, com’è ovvio, non riportano solo il punto
di vista soggettivo dell’autore, ma permettono
anche di trarre delle conclusioni sulle strutture
mentali e sulle impostazioni ideologiche della società di cui quelle testimonianze sono figlie. La
memoria individuale si basa su quelle esperienze
o quei contesti di esperienza che, di norma frammentati, decontestualizzati e politicamente connotati, nel corso degli anni entrano a far parte
della memoria collettiva di una società, influenzando così a loro volta gli individui.
Non tutte le esperienze dei soldati tedeschi hanno avuto accesso alla memoria collettiva. Trattandosi di una ricerca ancora agli inizi, è troppo
presto per trarre delle conclusioni in merito alla
completezza ed alla rappresentatività dei modelli
di esperienza sopra descritti. A troppe questioni
rilevanti le fonti attualmente a disposizione non
riescono ancora a dare una risposta o, perlomeno,
una risposta esauriente: quanto fu efficace la propaganda tedesca, oscillante tra fedeltà ideologica
22
Documenti
nei confronti dell’alleato e campagna denigratoria antiitaliana? Come si strutturò tra il 1943 e
il 1945 la cooperazione tra tedeschi e italiani nel
segno del ‘nuovo Asse’? Cosa pensavano le truppe
tedesche del fascismo e del suo duce? Come fu
vissuta dai soldati cattolici la guerra in un paese cattolico? Come si rapportarono i soldati alla
violenza da essi stessi esercitata e a quella subita?
Ci fu una specifica esperienza di guerra condizionata dal genere sessuale di appartenenza e, in
caso di risposta affermativa, che caratteristiche
aveva? E infine: per quali motivi soldati tedeschi
e di origine austriaca decisero di unirsi alla Resistenza? Che esperienze fecero questi uomini di
confine e cosa ne fu di loro dopo il 1945?
Per raggiungere risultati scientificamente fondati le ricerche di fonti autobiografiche dovrebbero essere ampliate e sistematizzate. In
una seconda fase, questo materiale deve essere
messo in relazione con le altre fonti scritte ufficiali provenienti dalle postazioni e dalle formazioni militari, dagli uffici pubblici e dalle
autorità giudiziarie e conservate negli archivi
tedeschi ed italiani. Solo partendo da questa
base più ampia è infatti possibile ricostruire in
modo adeguato l’esperienza dei soldati tedeschi
sul suolo italiano e far luce tanto sul rapporto
sfaccettato e spesso conflittuale instaurato con
la popolazione civile, quanto sullo scontro violento coi partigiani e sulla ‘fratellanza d’armi’,
al limite tra cooperazione e obbedienza, tra le
forze armate tedesche e i fascisti della Repubblica Sociale. Solo in questo modo si potrà osservare più da vicino una fase dei rapporti italo-tedeschi ancor oggi vissuta come dolorosa,
caratterizzata al contempo da collaborazione e
violenza e contrassegnata in entrambi i paesi da
opposti codici di politica della memoria. È perciò necessario un progetto di ricerca di ampia
portata sulla guerra in Italia, che prenda in considerazione oltre alla prospettiva tedesca anche
quella italiana. Un progetto di ricerca con tali
caratteristiche può essere solamente il frutto di
un’iniziativa bilaterale.
Le esperienze
della popolazione italiana
con le forze d’occupazione
tedesche
Il regime d’occupazione tedesco
e la RSI: repressione
e collaborazione
N
onostante i vertici del regime nazionalsocialista avessero messo in conto la capitolazione italiana, quando l’8 settembre 1943 l’uscita dell’Italia dalla guerra fu resa
nota, la maggior parte dei soldati e della popolazione tedesca rimase sorpresa e costernata.
La macchina propagandistica nazionalsocialista sfruttò con successo la situazione, accusando gli italiani di ‘tradimento’ – un’accusa
facilitata dalle ambigue modalità con cui si era
giunti all’armistizio con gli Alleati, tenuto fra
l’altro nascosto ai tedeschi. Dopo l’8 settembre
vi furono alcuni scontri armati fra truppe te-
desche – che, non essendo la Germania disposta a tollerare la rottura dell’alleanza, agivano senza scrupoli – e unità delle forze armate
italiane che tuttavia, soprattutto in Italia, si
andavano rapidamente dissolvendo. Dopo una
fase turbolenta durata poche settimane, nelle
quali la Wehrmacht si impose con brutalità in
tutti i territori occupati dell’Italia, dall’ottobre
1943 la popolazione italiana si trovò esposta
alla quotidianità di un regime di occupazione.
Con la nascita della Repubblica Sociale Italiana fu creato uno Stato fascista alleato della
Germania, di fatto sotto il controllo tedesco.
Anche se in Italia la maggioranza delle deportazioni, soprattutto quelle degli ebrei, fu messa
in opera dalle organizzazioni nazionalsocialiste
(SS e polizia), la collaborazione delle questure
italiane ha ricoperto un ruolo importante sul
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PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Documenti
piano logistico e amministrativo. Senza una
cooperazione italiana sul piano sia istituzionale sia individuale, le sole forze di occupazione
del regime nazionalsocialista non sarebbero
state in grado di esercitare un controllo delle
città capillare ed efficiente.
L’apparato italiano fedele a Mussolini non era
composto solo dai funzionari amministrativi
della Repubblica Sociale, ma anche dalle migliaia di collaborazionisti ideologicamente
convinti e divenuti ancora più radicali dopo il
passaggio dei poteri nell’estate 1943 e l’uscita
dalla guerra l’8 settembre, che vedevano ora in
tanti connazionali il nemico interno da combattere con brutalità e violenza. Quasi nessuno
fu in grado di sottrarsi alla conseguente polarizzazione della società fra amico e nemico.
La collaborazione estremamente ideologizzata
offerta alle forze d’occupazione allo scopo di
opprimere la popolazione italiana è stata presa in considerazione solo parzialmente dalla
ricerca storica. Tuttavia il ritratto che questi
collaboratori davano di sé viene chiaramente
alla luce sia sulla stampa dell’epoca sia nelle
fonti autobiografiche di singoli membri delle
unità di combattimento fasciste. Le fonti più
significative sono tuttavia costituite dagli atti
dei processi svoltisi subito dopo la guerra contro membri di questi gruppi. Le attività delle
diverse unità di combattimento della RSI, in
particolare delle “Brigate Nere”, si sono imposte solo negli ultimi anni all’attenzione della
ricerca scientifica. Dei fascisti ideologicamente
convinti faceva parte anche un piccolo gruppo
di forze di polizia della RSI che era solito rintracciare, arrestare e torturare autonomamente antifascisti e membri della Resistenza, per
poi consegnarli in un secondo tempo alla polizia tedesca. La violenza sanguinaria di questo gruppo di convinti fascisti repubblicani ha
indotto alcuni partigiani e antifascisti, verso
la fine della guerra, a rispondere con una violenza spesso incontrollata, che portò a numerose e mortali rese dei conti. La presenza di
consistenti gruppi di popolazione favorevole
all’alleanza ‘nazi-fascista’ – per diversi motivi:
ideologici, di continuità degli apparati statali,
di quieto vivere, di fiducia nella futura vittoria
definitiva della Germania – non può oscurare
la fondamentale asimmetria di potere fra gli
occupanti e gli occupati. Da parte tedesca, la
situazione è stata descritta in modo incompleto, semplificato e caratterizzato spesso da una
venatura critica nei confronti dell’Italia; allo
stesso modo, nei resoconti italiani risalenti al
periodo postbellico le forze d’occupazione appaiono spesso come una massa monolitica di
nemici rifiutata decisamente dalla popolazione
e gli alleati fascisti repubblicani come un riPATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
dotto manipolo di traditori della patria, privo
di qualsiasi sostegno fra la popolazione.
T
uttavia, come emerge da un’analisi in
chiave della storia delle esperienze, gli
incontri della maggioranza della popolazione italiana con le forze d’occupazione tedesche furono più differenziati e ambivalenti
rispetto a quanto la narrazione antifascista
prevalente nel dopoguerra non abbia sostenuto. Ciò dipese, non da ultimo, dal fatto – negato per lungo tempo dalle forze antifasciste
– che il conf litto aveva assunto anche le forme
di una guerra civile, dal momento che la popolazione italiana si trovò obbligata a prendere
posizione pro o contro il nuovo regime di Mussolini, e la Resistenza armata combatteva non
solo contro gli occupanti tedeschi, ma anche
contro i fascisti di Salò e i loro corpi armati.
Indubbiamente gli italiani che parteciparono
alla resistenza attiva o, sull’altro versante, si
arruolarono nei vari corpi armati della RSI,
collaborando attivamente con gli occupanti
tedeschi, furono delle minoranze, ma il sostegno che essi ricevettero dalla popolazione non
fu equamente ripartito: mentre i fascisti italiani dovevano fare i conti con il passare dei
mesi con una crescente ostilità e l’isolamento da parte della popolazione, gli antifascisti
e i membri della Resistenza godettero invece
dell’appoggio, o quanto meno della benevola
neutralità, di un numero sempre crescente di
italiani. Tuttavia l’esistenza di un regime fascista, alleato con i tedeschi, che cercava di mobilitare la popolazione del Nord e del Centro
Italia a favore dell’alleanza, indusse in alcuni
osservatori tedeschi l’erronea percezione che la
maggioranza degli italiani fosse disposta a collaborare con le forze di occupazione. Così, per
esempio, l’ambasciata del regime nazionalsocialista a Fasano aveva creato una rete efficiente di plenipotenziari con la funzione di addetti
culturali, delegati responsabili della propaganda, incaricati tedeschi negli Uffici di collegamento e presso i ministeri italiani. Nel territorio occupato, che si stava progressivamente
riducendo, gli Stati Maggiori del comando
militare tedesco controllavano una molteplicità di città e di località maggiori. Vari inviati
dell’amministrazione straordinaria [Sonderverwaltung ] nazionalsocialista, rappresentanti dell’Organizzazione Todt e del Plenipotenziario del Lavoro [Generalbevollmächtigter für
den Arbeitseinsatz], erano – per lo meno per
una parte dell’élite fascista della RSI attiva in
ambito amministrativo – importanti figure di
riferimento con cui mantenere un contatto costante per il comune lavoro da svolgere.
Anche nell’ambito della cultura ci furono mol-
24
Documenti
teplici contatti fra italiani e tedeschi. Studiosi di materie umanistiche e di scienze sociali
furono inviati in Italia dai vertici del regime
nazionalsocialista per prendere contatto con
i colleghi italiani, divulgare, con il loro aiuto, l’ideologia nazionalsocialista e sostenere il
proseguimento della guerra. Allo stesso scopo
servivano le misure messe in atto dai tedeschi
per controllare la radio e i giornali. Anche la
difesa delle principali opere d’arte italiane,
così come quella di biblioteche e archivi, non
fu fine a se stessa, ma venne sfruttata soprattutto per motivi propagandistici.
Un ulteriore elemento che poteva contribuire a
suscitare l’impressione di una continuità nelle
relazioni italo-tedesche era rappresentato dal
livello costante della produzione industriale,
che sotto l’occupazione tedesca prosegui quasi
indisturbata nell’Italia settentrionale: poiché
il numero degli attacchi aerei da parte degli
Alleati in Italia fu sensibilmente inferiore rispetto a quelli effettuati sulle zone fortemente
industrializzate della Germania, dall’inizio del
1944 molti ordinativi militari furono trasferiti
dalle fabbriche del Reich a quelle italiane.
Poco si sa dei numerosi incontri che in campo
industriale – soprattutto nel settore chimico –
ebbero luogo tra le autorità preposte alle questioni economiche, i dirigenti delle aziende,
i direttori di stabilimento e i rappresentanti
delle forze d’occupazione; tuttavia possiamo
affermare che molti italiani furono integrati
in modo funzionale nel sistema d’occupazione
tedesco attraverso la produzione di beni fondamentali in tempo di guerra, e, in tal modo,
conobbero i tedeschi soprattutto in qualità di
tecnocrati rappresentanti del sistema di controllo amministrativo delle forze d’occupazione, non certo numeroso dal punto di vista del
personale e tuttavia ramificato e produttivo.
La repressione nelle città
A
mpi strati della popolazione italiana urbana, tra cui soprattutto quegli operai
che seguivano controvoglia le direttive tedesche e fasciste, percepivano tuttavia le
forze d’occupazione per lo più come una minaccia in uniforme, la cui presenza suscitava
soprattutto paura: il timore che le strutture industriali venissero smantellate, le maestranze trasferite o addirittura deportate nella
‘Grande Germania’ [Großdeutsches Reich] era
sin troppo fondato nell’Europa occupata dai
nazionalsocialisti. Una relazione del 30 luglio
1944 del commissario della Polizia di Stato di
Genova spiega la «fobia» popolare antitedesca
nel modo che segue: «Tali sentimenti trovano
origine soprattutto nelle deportazioni di massa
di persone in Germania, portate via con modi
brutali e nella sistematica diuturna distruzione del porto, che rappresenta il giusto orgoglio
di ogni genovese e la fonte prima di benessere, goduto prima da tutta la città. Moltissimi
si lagnano di persecuzioni, soprusi, prepotenze e forse peggio, che i tedeschi in questa città
commettono senza distinzione di persone o di
cose... la classe operaia constata che ciò che non
è distrutto dai tedeschi, è asportato in Germania». È proprio nelle città e nelle zone a maggiore concentrazione industriale che parte della popolazione fece inoltre esperienze dolorose
con uno degli organi fondamentali di repressione delle forze di occupazione, cioè la polizia di
sicurezza [Sicherheitspolizei] nazionalsocialista.
Questa struttura fu impiegata soprattutto per
tenere a bada i lavoratori, impedire le ondate di
scioperi e soffocare sul nascere ogni opposizione
di carattere politico, soprattutto nelle zone industriali gravitanti attorno a Genova, Torino e
Milano, fondamentali per l’economia di guerra.
Decine di migliaia di italiani sospettati di antifascismo o di appartenere alla Resistenza finirono nelle mani di membri dell’apparato delle
SS e della polizia tedesca, il principale responsabile della deportazione di circa 24.000 oppositori politici italiani nei campi di concentramento tedeschi, e di circa 7.000 ebrei italiani
nei campi di sterminio, dove furono uccisi per
lo più nelle camere a gas. Anche un’alta percentuale di deportati nei campi di concentramento morì nei lager. Dopo la guerra, le loro
esperienze estreme sono entrate nella memoria collettiva degli italiani grazie a famigliari,
amici, vicini, compagni di lotta o di prigionia,
che hanno saputo mantenerle vive. Dal punto
di vista della storia delle esperienze, dunque,
in Italia le terribili conseguenze della politica
di occupazione nazionalsocialista lasciarono
le tracce più durature, mentre in Germania le
esperienze degli italiani sono state per lo più
ignorate. La Commissione, quindi, considera
parte integrante del proprio compito richiamare un’attenzione particolare sui crimini commessi dal regime nazionalsocialista in Italia.
S
Contatti con i tedeschi.
Esperienze
di violenza dietro il fronte
e nelle città il controllo tedesco veniva
esercitato dai militari e dalle SS e la popolazione associava ai tedeschi soprattutto
i rappresentanti visibili di questo apparato di
occupazione, gli abitanti dei paesi, delle città
25
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Documenti
più piccole dell’entroterra, delle regioni alpine
e appenniniche vennero in contatto con altri
esponenti delle forze d’occupazione: i membri delle unità della Wehrmacht impegnate al
fronte e i membri delle Waffen-SS. Una parte
della popolazione italiana fu vittima di azioni
violente compiute dai tedeschi durante la lotta
ai partigiani o operazioni di sfollamento, più
frequentemente durante la fase di ritirata.
L’
aspetto più rilevante di questa spirale di
violenze è costituito da stragi, uccisioni indiscriminate di popolazione civile, definite di solito genericamente ‘rappresaglie’ per una qualche azione partigiana, anche
se spesso non erano una risposta a specifiche
azioni di formazioni partigiane, ma operazioni
di ripulitura del territorio, volte a terrorizzare
la popolazione civile per impedirne qualsiasi
sostegno alla lotta armata. La violenza contro i
civili non si è manifestata tuttavia soltanto in
occasione della lotta ai partigiani, ma anche
nel corso della guerra al fronte.
Assegnando un’importanza particolare a queste esperienze di violenza, la Commissione ha
deciso di raccogliere in una banca dati (allegata a questa relazione) le denunce di violenza
registrate dalle autorità immediatamente dopo
la guerra – violenze che vanno dall’omicidio
al furto di beni, bestiame, cibo. Si tratta di
un complesso omogeneo di carte che consiste
principalmente negli specchi riepilogativi sulle
violenze, definite ‘nazifasciste’, sui civili italiani nel periodo dell’occupazione, inviati dai
Comandi dei Carabinieri delle diverse province
italiane prevalentemente nel periodo compreso
fra la Liberazione e l’estate del 1946 allo Stato Maggiore dell’Esercito, al Ministero della
Guerra, al Ministero degli Affari Esteri, e alla
Procura Generale della Repubblica di Roma.
Va precisato che in nessun modo le informative dei Carabinieri costituiscono un censimento completo delle violenze sui civili: i militari
dell’arma si sono limitati a raccogliere denunce di privati, o ad assumere informazioni, ma
spesso senza pretesa di completezza e senza verificare l’esattezza delle denunce. Così alcune
delle violenze più gravi commesse nel territorio
italiano (Sant’Anna di Stazzema, Monte Sole)
non sono presenti in questa fonte, per motivi
ancora da chiarire, e non sono state ritrovate le
informative relative ad alcune province.
Pur con queste limitazioni, che implicano conseguentemente una notevole sottostima del numero delle vittime in queste fonti e la necessità
di verifiche su altri documenti dei singoli casi
segnalati, le informative dei carabinieri rappresentano una fonte diffusa sull’intero territorio
nazionale, costruita con criteri omogenei, e co-
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
stituiscono quindi un’utile base di partenza, da
integrare in futuro con documentazione d’altro
tipo per quel censimento completo delle violenze sui civili nell’Italia occupata che ancora
manca. È, da sottolineare, ad esempio, che la
precisione con la quale sono descritti gli episodi a livello sia geografico (località) sia temporale (giorno e ora), può consentire l’incrocio
con altri dati, eventualmente già disponibili,
sulla dislocazione delle truppe tedesche in Italia (si veda ad esempio la banca dati dell’Istituto storico germanico di Roma su “La presenza
militare tedesca in Italia 1943-1945”), per arrivare anche ad una plausibile identificazione
dei reparti responsabili delle violenze.
P
er un’analisi più dettagliata della fonte si
rinvia all’allegato III a questa relazione.
Qui presentiamo i primi esiti dell’analisi della banca dati. Gli episodi di violenza registrati risultano 3.888, ed hanno coinvolto
11.220 persone. Di queste, 7.322 sono state
uccise. Per avere un’idea della sotto-stima di
questo dato, possiamo prendere ad esempio la
Toscana, la regione per la quale disponiamo
dei risultati storiografici più accurati, che hanno censito 3.778 civili uccisi in episodi di violenza con almeno 2 vittime (escluse cioè le uccisioni singole): la nostra fonte registra 2.320
morti (comprese le uccisioni singole), solo il
60% circa del più preciso dato sopra indicato.
Inoltre, a livello nazionale, le stime recenti più
attendibili delle vittime civili (escludendo cioè
i partigiani) uccise in azioni violente condotte
dall’esercito tedesco, a volte con la partecipazione di truppe della RSI o collaborazionisti
italiani, ammontano a circa 10.000-15.000.
Le regioni in cui gli episodi di violenza denunciati sono più numerosi sono la Toscana,
l’Emilia-Romagna, il Veneto, la Campania, il
Lazio, le Marche, la Lombardia, l’Umbria. È
evidente l’incidenza sul tasso di violenza delle
operazioni belliche, in particolare di una permanenza prolungata o di un rapido passaggio
del fronte durante la graduale ritirata dei tedeschi verso nord, nonché della presenza di
un movimento partigiano forte e consolidato,
come in Piemonte ed in Veneto. In ogni modo
si può osservare come spesso gli atti di violenza
collegati alle operazioni militari si unissero a
quelli da mettersi in relazione alla presenza di
partigiani.
Su un totale di 7.322 morti (per 761 dei qual i la
fonte non specifica il sesso), gli uomini uccisi
sono risultati 5.849, di cui 4.081 uomini adulti
fra 17 e 55 anni: non dando notizie dei più gravi massacri indiscriminati fra la popolazione,
la nostra fonte – le relazioni dei Comandi dei
carabinieri – sottostima particolarmente le ucci-
26
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sioni di donne e bambini. La maggior parte delle vittime, anche per la stessa natura della fonte,
che ha l’obbiettivo di elencare le violenze commesse a danno di civili, è rappresentata da civili
(9.630), di cui 5.891 risultano uccisi. I partigiani coinvolti sono invece 761, di cui 740 uccisi.
A
nalizzando il totale del numero di episodi per tipologia, non stupisce che le
tipologie di violenza maggiormente diffuse fossero i furti e i saccheggi, presenti praticamente in ogni provincia. Numerose furono
le uccisioni senza apparente motivo, spesso di
singole persone colpite durante momenti di vita
quotidiana; a queste tipologie di episodi vanno
aggiunti quelli avvenuti durante la ritirata dalle
zone occupate. È poi da considerarsi la violenza
sessuale, denunciata da 103 donne, concentrate
soprattutto in Toscana e Campania, per la quale
è lecito supporre che la fonte sottostimi, più che
per altre tipologie di episodi, la reale portata del
fenomeno. Troviamo quindi violenze commesse
perché le vittime erano accusate di essere partigiani o di dare loro sostegno, categoria in cui
vengono compresi anche massacri di interi paesi,
come Vallucciole, in provincia di Arezzo. Anche
le azioni definite come rappresaglia nelle fonti
italiane e quelle avvenute durante o in seguito alle cosiddette azioni di rastrellamento sono
numerose e vengono compiute praticamente in
tutte le regioni, pur se tendono ad addensarsi in
quelle a più intensa presenza partigiana.
Sulla base della data di ogni episodio, è stato possibile raggrupparli individuando alcune fasi della violenza. Rimandando all’allegato III per una
descrizione analitica delle varie fasi, ci si limita a
sottolineare come già nella prima fase della guerra, fino alla liberazione di Napoli e all’attestarsi
del fronte sulla Linea Gustav, la condotta delle
truppe tedesche sia stata particolarmente violenta nei confronti della popolazione civile. Responsabile di molti atti di violenza indiscriminata si
rese la Divisione “Hermann Göring”, che in seguito si sarebbe distinta in azioni contro i civili
anche in altre parti d’Italia.
Nel breve periodo dell’occupazione tedesca in
Campania si sovrapposero occupazione militare,
approntamento di fortificazioni, combattimenti,
ritirata strategica e rappresaglie, rastrellamenti,
deportazioni di uomini, distruzioni di abitati, furto di risorse alimentari, saccheggi, fino a
giungere a massacri indiscriminati. La risposta
della popolazione si concretizzò in atti di disobbedienza diffusa e opposizione alle razzie, che a
volte assunsero il carattere di vere e proprie insurrezioni spontanee, come a Napoli ed Acerra.
Tuttavia è indubbiamente con il giugno 1944,
dopo la liberazione di Roma, che si aprì il periodo più drammatico per la popolazione civile:
la ritirata tedesca, nei primi giorni affannosa e
disorganizzata, l’intensificazione dell’attività
partigiana, in parte causata anche dai proclami del comandante delle forze alleate in Italia
Harold Alexander, i ritardi nell’approntamento
della “Linea Verde” anche a causa dei sabotaggi partigiani, gli ordini draconiani emanati da
Kesselring fra giugno e luglio per combattere
la Resistenza, il protagonismo di formazioni tedesche altamente ideologizzate che si specializzarono in operazioni di ripulitura del territorio
a carattere terroristico verso i civili, tutto ciò
contribuì a fare dell’estate del 1944 e dei primi giorni di autunno il periodo di occupazione
più sanguinoso per i civili, soprattutto in Italia
centrale, tanto che in relazione a tale periodo
la storiografia ha parlato di ‘guerra ai civili’. In
questa fase anche l’attività partigiana lontano
dal fronte fu repressa con durezza, in Veneto,
Piemonte e Lombardia. Con l’esaurirsi ed il sostanziale fallimento dell’offensiva alleata contro
la “Linea Verde” e la stabilizzazione del fronte per l’inverno, il tasso di violenza sui civili
tende a ridursi. Tuttavia anche nell’autunnoinverno del 1944-’45 e nell’ultimo periodo di
guerra, dal 1° aprile alla cessazione delle ostilità, si conta un numero consistente di azioni
contro i civili (la regione in cui si concentra il
maggior numero di violenze di questa fase cronologica è il Veneto): si tratta di episodi commessi in azioni di rastrellamento di partigiani,
o di eccidi compiuti nel momento appena precedente alla ritirata, motivati, in una situazione
militare di estrema confusione, dalla risposta
ad attacchi partigiani alle colonne in ritirata,
da frustrazione e volontà punitiva nei confronti
della popolazione che impru¬dentemente aveva festeggiato la ritirata – non ancora totale
– delle truppe tedesche e la fine della guerra.
Le direttive per la lotta
alle bande
D
opo l’8 settembre 1943 furono applicate all’Italia le direttive fondamentali
di lotta alle formazioni partigiane emanate dall’OKW (Oberkommando der Wehrmacht), fra novembre e dicembre del 1942
nell’ambito della guerra condotta nei paesi
dell’Europa Orientale, mantenendole anche
quando per altri teatri di guerra erano state
sostituite da ordini meno radicali. Nei primi
mesi dell’occupazione la situazione organizzativa della lotta alle formazioni partigiane era
poco chiara, con vari comandi militari regionali che agivano con grande autonomia. Dal
maggio 1944 in poi la guida di questa lotta
fu attribuita a Kesselring, comandante in capo
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PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
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militare del fronte Sud-Ovest; al di fuori della
zona d’operazioni dell’esercito la responsabilità operativa spettava al comandante supremo
delle SS e della polizia, Wolff, ma questi rimaneva comunque sottoposto al comandante
in capo e alle sue direttive. Il 17 giugno 1944
Kesselring emanò un ordine per la lotta alle
formazioni partigiane, che incitava i comandanti tedeschi ad azioni energiche e pretendeva
che questi mettessero da parte ogni scrupolo di
carattere umanitario. Il 1° luglio indicò, fra le
misure draconiane da adottare, l’arresto di una
percentuale di popolazione maschile nelle zone
di presenza partigiana, la fucilazione di questi
ostaggi in caso di atti di violenza, l’incendio
di abitazioni e villaggi. Nuovi ordini furono
emanati da Kesselring, mitigando quelli precedenti, il 21 agosto 1944, il 24 settembre 1944
e l’8 febbraio 1945. È da rilevare peraltro che
la strage di Vinca, nelle Alpi Apuane, è del 2428 agosto 1944, solo tre giorni dopo il primo
invito alla moderazione, e che le operazioni di
Monte Sole, nel corso delle quali si compì il
più grande massacro di civili nell’Europa Occidentale occupata dai tedeschi, con 770 vittime, in maggior parte bambini, donne e anziani, ebbero inizio pochi giorni dopo il secondo
degli ordini suddetti. Non sembra insomma
che gli inviti alla moderazione avessero un potere vincolante per i comandanti subordinati
oppure che il comandante in capo del fronte
Sud-Ovest si curasse di verificare che tali inviti fossero effettivamente messi in pratica.
C
on riferimento alla violenza contro civili e partigiani, la politica d’occupazione
tedesca in Italia si radicalizzò nel corso dell’anno 1944, a partire soprattutto dalla
tarda primavera. Le disposizioni emanate dai
vertici militari giustificarono anche le misure più crudeli per mantenere la sicurezza nelle
retrovie e potevano tradursi in una vera e propria ‘guerra ai civili’, soprattutto in determinate circostanze (vicinanza del fronte, territori
diventati strategicamente importanti per la difesa tedesca, combattimenti, etc.). È rilevabile
tuttavia una varietà di comportamenti delle
unità operative in fasi diverse della guerra ed
una differenziazione fra le truppe tedesche, sia
nella propensione a mettere effettivamente in
pratica gli ordini draconiani, sia nelle modalità con cui questi vennero applicati, quando
lo furono. L’applicazione sistematica di quegli
ordini venne attuata soprattutto da uomini che
avevano già sperimentato sul fronte orientale
l’imbarbarimento della guerra: le stragi più
efferate, che portarono all’annientamento di
intere comunità, furono commesse prevalentemente (anche se non esclusivamente) da reparti
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
caratterizzati da un forte coinvolgimento nell’ideologia nazionalsocialista quali la XVI Panzergrenadierdivision della Waffen-SS “ReichsführerSS”, e la “Hermann Göring”, che durante la
campagna d’Italia andò radicalizzando l’utilizzazione della violenza nei confronti dei civili.
Gli occupanti tedeschi poterono inoltre fare
spesso ricorso a un numero consistente di fascisti italiani pronti a combattere al loro fianco: si trattava in gran parte di unità di partito o di milizie mobili che fiancheggiavano le
unità di combattimento tedesche nelle azioni
sempre più sanguinose della cosiddetta ‘lotta
alle bande’. La banca dati raccolta dalla Commissione registra 233 atti di violenza compiuti
insieme dagli occupanti tedeschi e dai fascisti
italiani, nei quali persero la vita 750 persone.
Altri 189 atti di violenza furono compiuti da
unità segnalate genericamente come composte
da ‘nazifascisti’, un’espressione che probabilmente indica una partecipazione di entrambi i
gruppi. Altri 595 casi di atti violenti sono stati perpetrati solo da fascisti italiani, e hanno
portato alla morte di 693 persone.
A volte, come a Vinca, reparti delle Brigate Nere
e uomini della Guardia Nazionale Repubblicana parteciparono direttamente al massacro di
donne, bambini e anziani; altre volte si limitarono ad una finzione di supporto logistico, ad
esempio, contribuendo a chiudere il cerchio attorno alla zona da rastrellare. In alcuni casi si
trattava anche di reparti con personale italiano,
ma sotto comando tedesco, come le unità di “SS
italiane” o i “battaglioni volontari di polizia”.
La memoria dell’orrore
dei massacri
L
e descrizioni di sopravvissuti o testimoni
di stragi sono impregnate dell’orrore di
quanto avvenuto: il sacerdote don Giuseppe Vangelisti si recò a Sant’Anna di Stazzema, in provincia di Lucca, il giorno dopo
la strage, commessa il 12 agosto 1944 dal II
battaglione del SS-Panzergrenadierregiment
35 della XVI Panzergrenadierdivision della
Waffen-SS “Reichsführer-SS”, e ci ha lasciato una descrizione terrificante di quello che
vide: «La scena che maggiormente dava sgomento era quella della piazza della chiesa: una,
massa di cadaveri al centro, con la carne quasi
ancora friggente; da una parte il corpo di un
bimbo sui tre anni, tutto enfiato e screpolato
dal fuoco, con le braccia irrigidite e sollevate
come per chiedere aiuto, ed, intorno lo scenario delle case che mandavano ancora nell’aria
bagliori e scoppiettii, la chiesa con la porta
spalancata, lasciava vedere un grande braciere
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al di dentro, fatto con le panche e i mobili, e
nell’aria il solito fetore di carne arrostita che
levava quasi il respiro e che si espandeva a tutta
la vallata. La sepoltura di queste salme fu fatta il giorno 14 e vi presero parte una trentina
di volontari venuti dalla Culla. Fu un lavoro
abbastanza difficile e rischioso, specialmente
per i grandi nuvoli di mo¬sche, le cui punture avrebbero potuto causare infezioni mortali.
Non avevamo maschere, non avevamo disinfettanti. Avevamo solo una piccola bottiglia
di alcool e un po’ di cotone per tamponarci il
naso. Anche qui un episodio che ci commosse
tutti: fra quei cadaveri c’era una famiglia numerosa, quella di Antonio Tucci, un ufficiale
di marina oriundo di Foligno, ma di stanza a
Spezia, che con vari sfollamenti si era ritrovato
quassù. La sua famiglia era composta da 8 figli
(con età da pochi mesi fino a 15 anni) e la moglie. Mentre si stava apprestando la fossa, ecco
arrivare il Tucci correndo e gridando come un
forsennato, per buttarsi tra quel groviglio di
cadaveri: “Anch’io con loro!” urlava. Bisognò
immobilizzarlo finché non si fu calmato. Rimase per qualche giorno come semipazzo».
U
n altro religioso, Padre Lino delle Piane,
del convento francescano di Soliera, ci
racconta lo spettacolo delle vittime civili di una rappresaglia a Bardine di San Terenzo, in provincia di Massa-Carrara: «Appena
passato il ponte del Bardine potemmo vedere i
rastrellati uccisi lungo la strada. Sotto il Cimitero, vidi i primi due degli impiccati. Il fetore
[...] era terribile. Più avanzavo peggio era: più
forte il fetore più fitti gli impiccati. Abbordai
la curva che conduce al fiume e mi vidi a pochi
metri da un camion bruciato che mi sbarrava
la strada. Ai parafanghi di esso come quattro
fanali, legati con un filo di ferro (come del resto tutti gli altri cadaveri) erano sospesi quattro uccisi».
A Cerpiano, una delle località di Monte Sole,
vicino a Bologna, il 29 settembre 1944 gli uomini di Walter Reder del Reparto blindato di
ricognizione [Panzeraufklärungsabteilung] 16
avevano rinchiuso decine di persone nell’oratorio: una sopravvissuta al massacro ricorda che
le porte si aprirono, e sulle soglie comparvero
soldati con bombe a mano: «Allora gridai: gente, dite l’atto di dolore perché ci ammazzano
tutti! Non avevo ancora finito di pronunciare
queste parole che cominciarono a buttar dentro bombe da ambo le porte e dalla finestra
[...] Lo schianto delle bombe, le ferite riportate, gli urli disperati delle vittime mi avevano
fatto perdere i sensi; quando rinvenni mi resi
conto della catastrofe. I superstiti si chiamavano a vicenda, ognuno chiamava i suoi cari
molti dei quali non rispondevano più perché
morti». Circa 20 persone sopravvissero a quel
primo lancio di bombe. Più di 24 ore durò l’agonia dei superstiti: nel pomeriggio del giorno
successivo i tedeschi rientrarono nell’oratorio
e annunciarono che dopo venti minuti sarebbero tutti morti. Quindi si sentirono i fucili
che venivano ricaricati e cominciò una breve
sparatoria, dopo la quale i soldati passarono a
depredare i morti degli oggetti di un qualche
valore. Nel 2002 Albert Meier, all’epoca dei
fatti milite della Waffen- SS, responsabile degli
uomini che agirono a Cerpiano, incriminato
dalla Procura militare della Spezia nell’ambito dell’ultima mandata di indagini, rilasciò sul
letto di morte un’intervista ad una televisione
tedesca nella quale ribadì che a Monte Sole si
erano limitati ad eliminare dei «sinistri bacilli», cioè di sinistra, che attaccavano a tradimento i soldati tedeschi.
I membri delle comunità investite dalla violenza indiscriminata ritenevano che la strage fosse
inspiegabile, una sorta di catastrofe naturale,
unica e incommensurabile, e tale la avvertono
ancora oggi coloro che ne serbano la memoria. I
soldati tedeschi sono per lo più considerati, nella memoria dei superstiti, ‘belve’, la cui ‘ferocia’
è un dato antropologico: in tal modo, in passato essi sono stati paradossalmente posti sullo
sfondo del proscenio dai racconti dei superstiti, anche per la mancanza di una giustizia che
li chiamasse a rendere conto di simili episodi
criminosi, mentre la prima fila è stata occupata da altri soggetti, soprattutto dai partigiani.
Spesso la memoria dei sopravvissuti si è divisa
fra coloro che incolpavano i partigiani di avere
provocato, con il loro comportamento irresponsabile, la strage e chi, difendendoli, accusava i
portatori di quelle accuse di svalutare il ruolo
della Resistenza e dell’antifascismo, alle cui file
venivano senz’altro attribuite, senza distinzioni,
tutte le vittime civili delle stragi.
I
l meccanismo che ha attivato a livello locale
tali memorie antipartigiane dei sopravvissuti è stato quello di elaborare il lutto dopo
il massacro, facendosene una ragione, nello
sforzo di comprendere le cause di quanto successo. Coloro che avevano vissuto quei tragici
momenti in comunità isolate non erano in grado di ricercarle nella strategia militare o nella
guerra condotta da tedeschi che si poteva trasformare in una ‘guerra ai civili’. Era probabile
che venisse individuato un capro espiatorio a
livello locale, che tutti conoscessero e potesse perciò essere indicato alla comunità come
responsabile, se non altro morale, di quanto
successo. Questo meccanismo ha consentito
di trovare una ‘causa’ semplice della violen-
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PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
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za subita, immediatamente percepibile dalla
gente comune, costruendo in altre parole un
‘discorso’ sulla strage che le facesse acquisire
‘senso’ per chi l’aveva subita. Il capro espiatorio venne spesso individuato nei partigiani.
‘M
emorie divise’ sono state rintracciate
dagli storici a Civitella Val di Chiana come a Guardistallo, a Sant’Anna
di Stazzema come a Niccioleta, a Bardine di
San Terenzo e Vinca come a Monte Sole, per
non parlare delle stragi dell’ultima ora, come
quelle di Pedescala, in provincia di Vicenza, e
Stramentizzo e Molina di Fiemme, nel Trentino. Queste memorie non si sono configurate ovunque nello stesso modo, sono state più
o meno virulente nell’addebitare ai partigiani
la responsabilità morale dei vari episodi, più o
meno attutite dal tempo passato, e sulla loro
conformazione attuale hanno inf luito vari fattori: il comportamento dei partigiani prima e
dopo la strage, l’andamento della lotta politica
locale, la presenza o meno e la varia efficacia di
strategie di ricomposizione da parte delle istituzioni statali (Comuni, Province e Regioni).
Tuttavia la loro presenza è un dato di fatto,
da prendere in considerazione e da interpretare
storiograficamente.
Contatti violenti
tra occupanti e occupati
I
l contatto con le unità combattenti tedesche
non si limitò solo a conf litti risoltesi con
tragiche uccisioni: gli abitanti di numerosi
paesi degli Appennini emiliani, infatti, furono
vittime di rastrellamenti a opera di unità della
Wehrmacht, in seguito ai quali vennero trasferiti in campi di raccolta e deportati come manodopera per lavorare al consolidamento del
fronte o in Germania. Anche le loro esperienze
dolorose sono state dimenticate sia in Italia che
in Germania dopo la guerra. È evidente che
questi incontri con gli aguzzini tedeschi avevano luogo in un clima di paura e intimidazione,
non di rado legato all’incomprensione linguistica e culturale. Per gli italiani, i soldati d’occupazione rimasero così per lo più una massa
senza nome di uomini in uniforme e armati,
ricordati come ‘i tedeschi’; ciò non esclude che
qualche italiano si ricordasse di aver incontrato
un soldato tedesco corretto e gentile, rimasto
impresso nella memoria come ‘Hans’ o ‘Franz’.
Impressi nella memoria della popolazione civile sono rimasti inoltre non solo gli omicidi, le
stragi e le deportazioni, ma anche i saccheggi, i
furti, gli stupri, la distruzione di case. Di questi delitti si trova notizia non solo nelle denunPATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
ce presentate dagli italiani ai carabinieri, ma
qualche volta anche in altri documenti. Il 20
maggio 1944, un funzionario della prefettura di Ascoli Piceno annotò in termini drastici:
«Qui a Villa è pieno di tedeschi e slovacchi che
stanno a rovinare tutto e tutti, a chi rubano
una cosa, a chi un’altra e poi vogliono mangiare e dobbiamo levarlo dalla bocca nostra e dei
nostri figli per darlo a loro altrimenti è peggio...». E in una lettera censurata spedita dalla
zona di Mantova nel settembre 1944 si scrive:
«Sapesti mia cara Gina in quale situazione mi
trovo! Paure e sempre paure, più di una volta al giorno si subisce bombardamenti mentre
ti scrivo i così detti liberatori stanno martoriando la mia città... siamo in una pena mortale i tedeschi nel fare la ritirata vanno nelle
case e fanno man bassa di ogni cosa che trovano, vestiti, biancheria, materassi, oro, mobilio e via di seguito. Lasciano le case nude...».
U
na conferma di tali comportamenti si
trova anche nelle fonti tedesche del periodo post-bellico: i soldati tedeschi riferiscono nei loro ricordi di «allievi ufficiali
sadici» o di sottufficiali che «ancora una volta [si comportano] come pazzi con gli italiani». In relazione ad abusi di carattere sessuale
commessi da soldati tedeschi, per esempio, si
giunse ripetutamente ad azioni violente e omicide, soprattutto quando i familiari o i vicini
intervenivano per impedire lo stupro. In un
rapporto della Prefettura di Firenze risalente
al maggio 1944 si riassume in modo laconico:
«Numerose le notizie di violenze a danno di
giovani donne da parte delle truppe germaniche che bussano di notte in case dove sanno
esserci ragazze; asportazioni di ogni genere».
Un caso di tentato stupro particolarmente grave a causa delle sue conseguenze accadde a Bellona in Campania: qui furono giustiziate 54
persone perché la popolazione aveva cercato di
opporre resistenza a questo sopruso.
I violentatori erano prevalentemente soldati
semplici e sottufficiali. In alcuni casi intervenivano gli ufficiali, ma fonti italiane dimostrano che nel caso di proteste e denunce delle
vittime e dei loro familiari gli ufficiali difesero
ripetutamente i propri soldati. Spesso, la popolazione vessata era così alla mercé dei soldati,
soprattutto delle truppe al fronte: piccoli gruppi di combattenti si sottraevano facilmente al
controllo dei superiori ed abusavano a propria
discrezione della popolazione, seminando il
panico, facendo irruzione nelle case alla ricerca di cibo, alcool o altro bottino, assalendo
singole fattorie o piccoli paesi. Casi di soldati
ubriachi che minacciavano o maltrattavano i
civili si trovano spesso nelle denunce fatte ai
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Carabinieri, ma sono attestati anche nei rapporti dei prefetti e dei questori della RSI analizzati dalla Commissione.
Sebbene la polizia segreta militare tedesca
[Geheime Feldpolizei] e la gendarmeria [Feldgendarmerie] avessero il dovere di intervenire in caso di soprusi, il loro numero limitato
consentiva loro di occuparsi al massimo di casi
isolati. Le forze di polizia italiane non erano
quasi presenti, dato che – come quasi tutto
l’apparato amministrativo della RSI – fuggivano verso nord con l’avvicinarsi del fronte.
La Resistenza
D
i fronte a una violenza nazionalsocialista di tali dimensioni, non sorprende
che anche in Italia, come in tutti gli
Stati europei occupati dai tedeschi, minoranze politicamente impegnate abbiano intrapreso
la strada delle resistenza armata, che elementi
militari alla macchia avevano incominciato a
battere subito dopo l’armistizio.
Più ampio inoltre fu il numero di coloro che
reagirono all’occupazione tedesca con azioni
propagandistiche o politiche, ostruzionismo,
sabotaggi, rifiuto di collaborare con le forze
di occupazione. Dopo la guerra, le esperienze
e la percezione della resistenza armata e dello
scontro con le forze di occupazione naziste e
il fascismo di Salò si trasferirono nel discorso pubblico in modo molto più profondo di
tutte le altre forme di contatto avute con gli
occupanti, anche per l’elevato significato politico che la Resistenza ebbe per la legittimazione della democrazia italiana postbellica, con
l’effetto collaterale, fra l’altro, di sottolinearne
quasi esclusivamente i caratteri di lotta di liberazione nazionale, a scapito di quelli di guerra
civile e di lotta di classe. Nell’opinione pubblica tedesca, invece, a questa resistenza, ammesso che venisse percepita, venne per lo più
negato ogni valore politico e morale. Questo
portò a deficit percettivi reciproci che hanno a
lungo ostacolato una realistica valutazione storica della Resistenza.
La strategia del terrore adottata da alcune unità tedesche ha spesso avuto successo nel far sì
che chiunque propugnasse una qualche forma
di solidarietà civile, o di resistenza, con o senza armi che fosse, rappresentasse un potenziale ‘problema’ per i propri vicini, sfiancati da
anni di guerra. I rapporti fra i partigiani e le
popolazioni erano effettivamente delicati, alla
ricerca di un equilibrio tra la determinazione
dei primi nel portare avanti la lotta armata e
quella delle seconde di perseguire la propria
sicurezza. La Resistenza non fu né onnipre-
sente, né venne continuamente sostenuta dalla popolazione civile; con essa il potenziale di
conf litto era infatti elevato e poteva esplodere
nel tentativo di accaparrarsi le scarse risorse di
cibo o a causa del pericolo di eventuali rappresaglie naziste o fasciste per la presenza e le attività dei partigiani. Un compromesso fra partigiani e popolazione fu comunque raggiunto,
dato che è indubbiamente vero quanto hanno
sempre ripetuto i reduci della lotta armata,
cioè che essa, senza l’appoggio (o la neutralità) della popolazione, sarebbe stata impossibile; tale equilibrio fu però raggiunto a fatica e
non fu mai esente da una precarietà di fondo.
I
noltre i confini fra movimento partigiano
e sostenitori indecisi della Repubblica di
Salò furono a lungo permeabili e permisero
scambi in entrambe le direzioni. Le amnistie
fasciste dell’anno 1944 cercarono volutamente di incrinare il fronte della Resistenza e di
ricondurre una parte dei giovani che avevano
raggiunto i partigiani alla RSI. Anche se i programmi di amnistia ebbero senz’altro un successo almeno parziale, non se ne può tuttavia
dedurre alcun reale consenso per la RSI e gli
stessi fascisti della Repubblica di Salò erano
perfettamente consapevoli dell’atteggiamento
ostile o indifferente al fascismo che regnava
in molti settori della popolazione. Non solo i
rapporti giornalieri dei questori segnalavano
attentamente tutte le attività antifasciste, ma
in vari luoghi le autorità annotavano anche un
atteggiamento di indifferenza, come riporta
il seguente rapporto del 17 giugno 1944 dalla
Toscana: «Indifferentismo, attendismo, antifascismo d’ogni risma, disfattismo di ogni colore
signoreggiano perché trovano debole contrasto
nella opinione pubblica; tale e tanta è la stanchezza di questa guerra. Stampa, radio, manifesti, sembra predichino nel deserto. Solo gli
argomenti che si riferiscono al sollecito termine della guerra interessano la massa del popolo
[...] Le più assurde dicerie antigermaniche circolano e si moltiplicano senza tregua».
L’attività di vera e propria resistenza politica,
coordinata in maniera crescente dai CLN che
agivano in clandestinità nell’Italia occupata,
consisteva nella distribuzione di volantini e
manifesti, nella diffusione di stampa illegale,
ma anche nell’ostruzionismo amministrativo
e in decine di migliaia di atti di sabotaggio
di ogni genere. La sua forza divenne particolarmente visibile nella più grande sfida mai
lanciata alle pretese di controllo delle forze di
occupazione, ovvero lo sciopero generale nelle
città industriali del Nord nella prima settimana di marzo del 1944. Gli scioperi, ai quali
presero parte per lo meno 350.000 lavoratori,
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PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
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ebbero anche uno scopo chiaramente politico,
e furono percepiti come una ribellione degli
operai delle fabbriche contro le forze di occupazione tedesche e i loro alleati fascisti. Si trattò dello sciopero di gran lunga più consistente
che si fosse mai verificato in un Paese europeo occupato dal regime nazionalsocialista.
L
a ricerca storica ha dimostrato quale significato abbia avuto questo sciopero
generale per le forze di occupazione. Al
contrario, è ancora poco noto quale impressione esso abbia lasciato su quella parte della
popolazione civile che non era legata in qualche modo agli scioperanti. Quello che emerge
indiscutibilmente da numerose fonti coeve è
la paura dei civili italiani di essere arrestati e
deportati come manodopera in Germania. A
causa di questo costante stato di paura, la popolazione provò affannosamente ad impedire
qualsiasi evento che potesse incrinare il dominio delle forze d’occupazione o intensificarne
le misure repressive.
Le azioni più spettacolari nelle città furono
rappresentate dagli attentati organizzati dai
gruppi di guerriglia antifascista (Gruppi di
Azione Patriottica e Squadre di Azione Patriottica) allo scopo di dimostrare la forza della Resistenza e di mobilitare strati sempre più
ampi della popolazione contro il regime d’occupazione. Tra queste azioni, la più gravida di
conseguenze fu l’attentato dinamitardo contro
una compagnia di polizia d’ordinanza del reggimento “Bozen” in via Rosella a Roma, mediante il quale si voleva soprattutto contrastare
il dominio dei tedeschi sulla capitale italiana,
dove, nell’ottobre del 1943 erano stati rastrellati più di mille ebrei destinati alla deportazione. Gli occupanti tedeschi, senza esitare, ricorsero allora a una ‘misura punitiva’ brutale:
sotto il comando del tenente colonnello delle
SS [Obersturmbannführer] Herbert Kappler,
335 civili e militari vennero presi come ‘ostaggi’ (nella dicitura nazionalsocialista) e uccisi
alle Fosse Ardeatine.
Roberto Battaglia, rif lettendo subito dopo la
guerra sulle cause della mancata insurrezione a
Roma e con riferimento alle esperienze vissute
dai romani durante l’occupazione, riteneva si
dovesse ammettere «con sincerità» che la causa
«forse più importante di tutt[e]» fosse che la
gran massa degli abitanti della capitale «nutriva soltanto una ansietà di pace e d’ordine,
troppi dolori e troppi pericoli s’erano passati per accrescerli ancora una volta di propria
volontà all’ultimo momento». Il fatto che gli
attentati della Resistenza incontrassero le critiche di parte delle popolazione emerge dalle fonti coeve come anche da una discussione
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
pubblica pluridecennale proprio sulla valutazione dell’attentato di via Rasella.
T
uttavia l’avversione e il malumore nei
confronti dei tedeschi che tenevano occupata l’Italia e venivano considerati i
responsabili del perdurare della guerra e della
paura perdurante, determinarono l’atteggiamento nei loro confronti di gran parte della
popolazione italiana – ad eccezione, naturalmente, della minoranza di convinti fascisti
attivi al loro fianco. Anche dai rapporti delle
prefetture e delle autorità di polizia della RSI
emerge diffusamente che la grande maggioranza della popolazione – da Littoria ad Aosta,
da Terni a Cuneo, da Roma a Fiume – non
aveva un orientamento neutro nei confronti
delle forze di occupazione e non era disposta a
fornire collaborazione dando informazioni su
membri della Resistenza e sugli oppositori del
regime. Peraltro non si può negare che truppe e militari tedeschi abbiano offerto motivi
sufficienti a provocare tale avversione. Persino
dove non vennero registrati soprusi, come nel
quartier generale di Kesselring a Sant’Oreste
al Soratte, c’erano «paure e angosce» e la sensazione sgradevole che i tedeschi si comportassero da «padroni».
Molti italiani, pur non partecipando alla resistenza attiva, provavano ostilità nei confronti delle forze di occupazione, continuavano a
sentirsi inoltre cittadini del Regno d’Italia, che
si trovava in guerra con la Germania nazionalsocialista e, nel sud del paese, combatteva contro la Wehrmacht. Di conseguenza, i tedeschi
furono visti da questa parte della popolazione
come invasori e nemici dell’ordine legale, anche se non si erano resi personalmente colpevoli di soprusi. Il 25 aprile 1945 inasprì la visione
già negativa dei nemici tedeschi. Il movimento
di resistenza liberò molte fra le principali città
dell’Italia settentrionale dagli occupanti. Nonostante la ritirata tedesca fosse stata provocata
dalle truppe alleate in avanzata, l’impressione
che si diffuse fu che almeno una parte dell’Italia si fosse liberata con le proprie forze. Soldati
tedeschi divennero prigionieri di guerra, mentre gli italiani erano convinti di condividere la
posizione dei vincitori.
Spazi d’incontro
D
opo la guerra le violenze tedesche all’epoca dell’occupazione hanno plasmato
la memoria collettiva della maggioranza
degli italiani e in parte suscitano ancora oggi
nelle persone coinvolte forti reazioni emotive.
Sono invece state destinate all’oblio esperienze
32
Documenti
d’altro tipo, anche positive, fatte con esponenti
delle forze di occupazione; a livello individuale
vi furono infatti numerose esperienze positive.
La ricostruzione storica di queste esperienze,
alle quali la Commissione non ha potuto dedicare ricerche approfondite, potrebbe aiutare
a ricostruire un quadro differenziato degli incontri fra le forze di occupazione tedesche e la
popolazione italiana.
Talvolta gli italiani si resero conto che l’apparato militare tedesco non era un blocco monolitico – la fama di cui godevano la Wehrmacht
e le SS era infatti di diversa natura – e che
non necessariamente gli attentati dei partigiani erano seguiti da rappresaglie tedesche. La
popolazione certo temeva in egual modo tutti
i soldati tedeschi, ma distingueva tra le unità
presenti sul posto come truppe d’occupazione e
i soldati in fuga dalla linea principale del fronte, che credeva di poter riconoscere facilmente
dalle uniformi sudice. Inoltre la popolazione
era certamente a conoscenza della complessa composizione nazionale della Wehrmacht,
come testimonia il seguente estratto di una
lettera dal Piemonte: «Qui caro papà se ne vedono di ogni colore... ci sono fascisti, tedeschi,
russi, georgiani, bruciano case, che facce! Lo
Stanco, quello che ci tagliava i capelli, è stato
ucciso con una raffica di mitraglia, perché ha
tentato di fuggire...».
Inoltre un’immagine più differenziata dei tedeschi poteva crearsi quando si venne a sapere
della presenza di disertori fra le file della Wehrmacht, il cui numero crebbe soprattutto nell’estate del 1944. Solo per la provincia di Parma si
poterono rintracciare i nomi di più di 300 disertori, che in parte si mescolarono con la popolazione. Fra di loro, tuttavia, solo un numero
limitato di uomini era di madrelingua tedesca;
il gruppo più numeroso di disertori proveniva
dall’Unione Sovietica. E si possono trovare anche resoconti da cui emerge che le guarnigioni
tedesche che si trattennero più a lungo in una
certa località godettero, anche dopo l’8 settembre, di simpatia da parte della popolazione, soprattutto nelle regioni lontane dal fronte.
S
conosciuto è il numero di rapporti d’amicizia o d’amore fra militari tedeschi e donne italiane, ma da una prima sommaria
analisi delle lettere scritte dopo la fine del conf litto, aventi spesso come oggetto il ricongiungimento di coppie separate dagli avvenimenti
dell’ultima fase di guerra, emerge chiaramente
che le relazioni instaurate non erano state solo
sporadiche. La questione dell’esistenza di figli
nati da tali relazioni è ancora in gran parte da
affrontare, e le lettere scritte da donne diventate madri nell’immediato dopoguerra rappre-
sentano una prima fonte per analizzare questo
fenomeno.
Se l’elaborazione dal punto di vista della storia
delle esperienze di questi molteplici incontri
fra tedeschi e italiani non può certamente sovvertire l’immagine prevalentemente negativa
che la popolazione italiana si fece dei soldati
tedeschi, essa può tuttavia renderla più complessa e differenziata, come mostrano singoli
episodi che lasciano emergere ancora più nettamente la responsabilità personale dei soldati
coinvolti in atti di violenza.
D’altra parte agli abitanti divenne chiaro che
molti rappresentanti delle forze di occupazione non vedevano gli italiani come una massa
omogenea, e che, ad esempio, a quella parte
della popolazione che veniva considerata ben
disposta verso i tedeschi era riservato un trattamento più benevolo. Un fattore di notevole
importanza fu che nelle fila degli Stati Maggiori ci fossero tedeschi che avevano conosciuto l’Italia prima della guerra e potevano quindi
agire da mediatori. Anche se da parte tedesca
la necessità di un intervento duro contro i partigiani era indiscussa, alcuni ufficiali erano
però contrari all’uso del terrore indiscriminato
nei confronti della popolazione civile estranea
ai fatti, ritenuto insensato e controproducente. Queste differenze negli atteggiamenti degli
occupanti – che gli italiani talvolta colsero, ma
che non furono però in grado di interpretare
– conf luirono nei racconti del dopoguerra nei
quali, accanto alla massa di violenti, compare
ogni tanto anche un soldato tedesco ‘buono’,
spesso identificato come austriaco, alsaziano
o ceco, il quale al momento decisivo avrebbe
sparato in aria o lasciato libera una persona già
destinata al massacro.
Una memoria complessa
N
onostante la difficoltà di presentare
dati certi, la ricerca scientifica è attualmente concorde nell’affermare che
il numero di partigiani morti durante le azioni militari con le truppe tedesche e fasciste si
aggira sui 30.000; circa lo stesso numero di
italiani perse la vita dalla parte fascista. Si aggiungano, inoltre, circa 10.000-15.000 civili
uccisi nei massacri e nelle esecuzioni di ostaggi, prevalentemente per mano di soldati tedeschi. Anche migliaia di soldati tedeschi – il loro
numero preciso attende di essere stabilito – morirono nella lotta contro la Resistenza italiana.
La guerra partigiana in Italia, in cui rimasero
vittime fra le 70.000 e le 80.000 persone, può
essere quindi considerata una delle più sanguinose dell’Europa occidentale, non da ultimo
33
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Documenti
perché si sovrappose a una guerra civile interna
all’Italia.
Non deve quindi stupire che queste terribili
esperienze siano confluite nella memoria post
bellica e siano presenti ancor oggi in gran parte della società italiana, tramandate di generazione in generazione attraverso la memoria familiare, pur con notevoli differenze a seconda
delle esperienze individuali e dell’orientamento
politico delle persone coinvolte.
Le ferite della guerra civile italiana continuano inoltre a suppurare nella memoria collettiva,
proprio perché la resistenza degli italiani contro
il fascismo e il nazismo fu tanto reale quanto
l’alleanza fra Repubblica Sociale e regime nazionalsocialista. In Italia guerra, guerra di liberazione e guerra civile hanno aperto fossati che
ancor oggi dividono la società.
In Germania la complessità di questa situazione è nel migliore dei casi solo parzialmente
nota, e la Commissione è perciò concorde sulla
necessità che a questo tema si debba riservare
un’attenzione particolare, dato che il numero
delle vittime italiane di misure di persecuzione nazionalsocialista va ben oltre la cerchia dei
deportati nei campi di concentramento. La sofferenza delle vittime sopravvissute ai massacri
della Wehrmacht e delle SS e dei loro familiari è
stata dimenticata per decenni. Solo a partire dal
processo a Erich Priebke del 1996/97 ha comin-
ciato a delinearsi un mutamento nell’opinione
pubblica. Con le visite del Presidente Federale
Johannes Rau a Marzabotto e del Ministro degli Interni Otto Schily a Sant’Anna di Stazzema,
anche la politica e la diplomazia tedesche hanno ricordato queste vittime. Proprio il massacro
nella zona di Marzabotto (Monte Sole), infatti,
è stato spesso negato dall’opinione pubblica tedesca fino agli anni ’90; per questo la Commissione ritiene che sia giusto creare le condizioni
durevoli per far sì che l’esperienza dei sopravvissuti e delle comunità dei paesi colpiti trovi in
futuro adeguate possibilità di espressione.
Quando, nel giugno 1961, fu stipulato l’accordo
di indennizzo italo-tedesco, i crimini di guerra
tedeschi in Italia non erano ancora noti nella
loro interezza. Molti politici non erano ancora
sufficientemente consapevoli della responsabilità tedesca in molti massacri compiuti fra la popolazione italiana. Con la coscienza di queste
lacune nella percezione dei danni e del dolore
arrecati agli italiani dall’occupazione nazionalsocialista, la Commissione ha dedicato attenzione anche al destino delle vittime dei massacri
della Wehrmacht e delle SS. Esse, infatti, vanno
annoverate fra le vittime dimenticate dei crimini nazionalsocialisti tanto quanto gli internati
militari italiani e quei civili deportati dall’Italia
per essere inviati ai lavori forzati nel territorio
all’epoca incluso nel Reich.
Le esperienze degli internati
militari italiani
Una categoria di vittime
dimenticate?
S
ebbene gli internati militari italiani siano
stati particolarmente colpiti dal regime nazionalsocialista e dal complesso passato di
guerra italo-tedesco, dopo il 1945 il loro destino è stato completamente dimenticato. In Italia
essi sono stati per lungo tempo messi in secondo piano dalla memoria della Resistenza. Nella
Repubblica Federale Tedesca la leggenda della
‘Wehrmacht pulita’ portò a negare i crimini di
cui essa si rese colpevole nei confronti della popolazione civile italiana e della minoranza ebraica, così come dei prigionieri dei campi di concentramento e degli internati militari italiani.
Sulla storia degli internati militari sono circoPATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
late per decenni esclusivamente testimonianze
autobiografiche, scritte per lo più da ex ufficiali nel contesto di accesi dibattiti politici in
merito all’interpretazione delle vicende belliche e nel segno della concorrenza fra varie
categorie di vittime per un riconoscimento da
parte dello Stato, della legge e della società.
Solo gradual-mente agli internati militari riuscì l’accesso alla memoria collettiva. L’accento posto sulla ‘Resistenza senz’armi’ prestata
nei campi di prigionia costituì un ponte verso
la narrazione sulla Resistenza nella fase fra il
1943 e il 1945 allora dominante. Fu soltanto
a partire dagli anni ’80 che in Italia e in Germania la storiografia cominciò a occuparsi di
questo problema. Nonostante il ritardo con
cui la ricerca è cominciata, molti aspetti centrali di questa tematica – il disarmo e l’arre-
34
Documenti
sto degli internati militari italiani, i tentativi
di reclutamento nelle formazioni tedesche così
come nell’esercito fascista della Repubblica Sociale Italiana e le loro condizioni di vita e di
lavoro durante la prigionia tedesca – possono
considerarsi oggi adeguatamente studiati.
L’approccio della storia delle esperienze schiude una nuova prospettiva anche sull’ampio
spettro delle condizioni di vita degli internati
militari italiani, indica nuovi modelli di spiegazione oltre le narrazioni irrigidite in Italia
e in Germania e contribuisce all’indagine di
aspetti fino a questo momento trascurati.
A
ltri aspetti con cui la ricerca si è già
confrontata rimangono tuttora problematici. Per fare un esempio, a causa di
dati contraddittori trasmessi dalle fonti non
sappiamo ancora esattamente quanti furono
gli appartenenti alle forze armate italiane che,
nell’autunno del 1943, vennero disarmati, imprigionati e deportati nel ‘Terzo Reich’. Queste
incertezze statistiche rif lettono la situazione
di confusione diffusa che regnava nel periodo successivo all’armistizio, quando decine di
migliaia di soldati fuggirono per non cadere
nelle mani dei tedeschi, aiutati soprattutto
nell’Italia settentrionale dalla popolazione locale. Analogamente alle azioni di reclutamento
che la Wehrmacht e le SS compirono nei campi
di raccolta immediatamente dopo il disarmo,
anche questa fuga di massa ebbe come conseguenza la diminuzione costante del numero
dei militari italiani sotto custodia tedesca. La
diversità delle cifre riportate deriva non da ultimo anche dalla pratica di registrazione, ben
poco omogenea, adottata dall’Alto Comando
della Wehrmacht (OK W).
Dopo l’8 settembre 1943 deposero le armi in
totale 1.007.000 membri delle forze armate italiane. Il numero di soldati italiani che, in certi
casi anche per breve tempo, furono prigionieri
dei tedeschi si aggira intorno ai 725.000 secondo lo Stato Maggiore dell’esercito tedesco
e intorno agli 810.000 secondo le stime, più
affidabili, dello storico Gerhard Schreiber.
Chi non riuscì a fuggire dovette decidere se
restare fedele al giuramento fatto al re o se
continuare a combattere a fianco delle potenze dell’Asse. Coloro che si rifiutarono di cambiare schieramento o che non erano riusciti a
fuggire – si parla di circa 600/650.000 uomini
– furono deportati dalla Wehrmacht nei campi di prigionia del ‘Terzo Reich’, dei Balcani,
della Grecia, della Francia, del cosiddetto Governatorato Generale e dei territori sovietici
occupati. Poiché nei campi proseguiva il reclutamento di volontari per la Wehrmacht e le SS,
così come per un nuovo esercito sotto la guida
di Mussolini, anche il numero degli internati
militari presenti nei campi dell’esercito, della Luftwaffe e della marina subì consistenti
oscillazioni. Furono così 186.000 secondo
Gerhard Schreiber o 197.000 secondo Claudio Sommaruga gli ufficiali e i soldati che,
fino al marzo 1944, decisero di continuare
la guerra al fianco di Hitler e Mussolini. Il
1° febbraio 1944, quando il numero di prigionieri nei campi raggiunse il culmine, vi si
contavano secondo le stime dell’Alto Comando della Wehrmacht 24.400 ufficiali, 23.002
sottufficiali e 546.600 soldati. A questi sono
da aggiungere i circa 8.500 internati militari
impiegati come forza lavoro sul fronte orientale. Incerto è anche il numero dei soldati,
dei sottufficiali e degli ufficiali italiani che
persero la vita dopo l’8 settembre 1943, sia
durante il disarmo, sia durante la prigionia
tedesca. Il numero dei morti ammonta a circa
50.000, quello dei dispersi a più di 10.000.
In conseguenza del brutale modo di procedere della Wehrmacht, durante le operazioni
di disarmo morirono tra i 25.000 e i 26.000
soldati italiani, per lo più nell’ex Jugoslavia e
in Grecia: 6.500 persero la vita in battaglia,
6.000/6.500 furono uccisi perché cercarono
di opporre resistenza e più di 13.000 annegarono su navi colate a picco a causa dei bombardamenti o del sovraffollamento; a circa
5.200 ammontano i dispersi. Fino a 25.000
internati militari persero la vita nei campi di
prigionia a causa delle privazioni, della malnutrizione e delle dure condizioni di lavoro; il
maggior numero di morti si ebbe nei grandi
centri del Reich e dei Balcani addetti alla produzione di armamenti. Sconosciuto è il destino di altri 5.000 internati militari, le cui
tracce si perdono nei lager.
Prigionieri di guerra,
internati militari
e lavoratori civili
A
ncor prima che l’Italia uscisse dalla guerra, a Berlino si era già deciso come procedere nei confronti dei soldati italiani
in caso di armistizio separato. I vertici politico-militari del Reich avevano infatti già previsto di impiegare nell’industria tedesca degli
armamenti il maggior numero possibile di soldati e sottufficiali del Regio Esercito immediatamente dopo il loro disarmo, per supplire così
all’enorme mancanza di forza lavoro e poter
destinare al fronte i lavoratori tedeschi. Invece,
né Hitler, né l’Alto Comando della Wehrmacht
presero mai in considerazione l’opzione di un
35
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Documenti
reclutamento su vasta scala dei prigionieri italiani per la costituzione di un nuovo esercito
fascista nella RSI. Tutti i soldati italiani caduti nelle mani dei tedeschi dopo l’8 settembre
1943 furono così definiti in un primo tempo
‘prigionieri di guerra’.
Poiché con l’instaurarsi del nuovo governo fascista questi non potevano più essere trattenuti
a lungo come prigionieri di guerra, cioè come
prigionieri di uno stato nemico, il regime nazista, nel disprezzo delle norme del diritto internazionale, modificò il loro status. La definizione di prigionieri di guerra avrebbe infatti reso
troppo evidente la posizione subalterna del nascente governo di Mussolini e avrebbe danneggiato anche il raggiungimento degli obiettivi
dell’occupazione tedesca in Italia. Il 20 settembre 1943, poco prima della proclamazione del
nuovo regime fascista, un’ordinanza del Führer
decretò così che i soldati italiani fatti prigionieri vedessero mutare la loro denominazione
in ‘internati militari’. Il concetto di ‘internati
militari’ dette l’impressione che gli italiani si
fossero trovati in una posizione giuridica più
favorevole rispetto ai prigionieri di guerra di
altre nazioni. La definizione di questo status
era per Hitler particolarmente importante, sia
per la politica di occupazione che nei confronti
della popolazione italiana. L’obiettivo rimaneva infatti lo sfruttamento economico del paese
occupato ed il reclutamento sia di forza lavoro
che di soldati volontari italiani. Per gli internati militari italiani questa scelta ebbe in ogni
caso conseguenze molto rilevanti: come tali,
essi non avevano più diritto né alla consegna di
alimenti e medicine, né alle visite di controllo
delle delegazioni del Comitato Internazionale
della Croce Rossa, come invece era previsto
per i prigionieri di guerra.
Ben presto divenne chiaro che questa decisione comportava tuttavia molti problemi, sia in
relazione all’impiego degli ex soldati del Regio Esercito come forza lavoro, sia in ordine
alle relazioni interne all’Asse Berlino-Salò. A
causa delle cattive condizioni alimentari (le
razioni di cibo dipendevano dalle prestazioni lavorative), del trattamento umiliante, dei
compiti spesso assegnati senza tener conto delle competenze dei lavoratori, delle istruzioni
insufficienti e della mancanza di motivazione,
la produttività degli internati militari si rivelò
molto inferiore alle aspettative. Inoltre la detenzione dietro il filo spinato e le pessime condizioni di lavoro mettevano quotidianamente
in discussione la continuità dell’alleanza italotedesca propagandata da Hitler e Mussolini.
Soprattutto nell’industria pesante o nelle miniere il numero degli ammalati divenne spaventosamente elevato. Ciò nonostante si doPATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
vette aspettare fino all’estate del 1944 prima
che fossero prese delle contromisure. Solo il 20
luglio infatti Hitler emanò l’ordine di cambiare
lo status degli ex soldati italiani da ‘internati
militari’ a ‘lavoratori civili’, al fine di migliorarne le condizioni di vita e, di conseguenza, le
prestazioni lavorative. Questo cambiamento era
stato caldeggiato a lungo dal governo di Salò,
dal plenipotenziario del lavoro [Generalbevollmächtigte für den Arbeitseinsazt] e Ministro
degli Armamenti [Rüstungsminister] Albert
Speer. Esso fu reso noto nel quadro degli ordinamenti per la ‘mobilitazione totale alla guerra’
[totaler Kriegseinsatz], l’ultima grande operazione di politica degli armamenti del ‘Terzo Reich’.
Nel settembre del 1944, quindi, una parte consistente dei militari italiani internati fu sottratta alla sfera di competenza della Wehrmacht e
trasferita nei cosiddetti ‘lager comunitari’ [Gemeinschaftslager] del Fronte Tedesco del Lavoro (DAF). Come tutti gli altri lavoratori civili,
anche gli italiani vennero registrati alla polizia,
alla previdenza sociale, alla mutua e all’anagrafe.
M
olti internati si opposero al passaggio
dallo stato militare a quello civile: essi
temevano di infatti di venire reclutati
come conseguenza del loro consenso al servizio militare, di perdere il diritto al soldo o di
mettere in pericolo i loro congiunti nell’Italia
centrale e meridionale occupata dagli Alleati. A ciò si aggiungevano i mesi di oltraggiosi
trattamenti riservati loro dai tedeschi, la fame
e le pessime condizioni igieniche.
Tuttavia per molti internati il cambio di stato significò in un primo tempo un miglioramento delle condizioni di vita. I controlli da
parte delle guardie diminuirono e al contempo
fu concesso loro di muoversi più liberamente.
Poiché il pagamento avveniva ora in marchi del
Reich, gli italiani potevano comprare alimenti
e oggetti d’uso al mercato nero. Questi vantaggi furono tuttavia di breve durata. Tra il 1944
e il 1945 infatti la situazione degli ex internati
tornò nuovamente ad aggravarsi. Dall’inizio
del 1945, soprattutto nelle grandi città, le loro
condizioni di vita generali e la situazione degli
approvvigionamenti erano drammatiche.
Disarmo e trasferimento nei lager
Q
uando, la sera dell’8 settembre del 1943,
si diffuse la notizia della capitolazione
italiana, i soldati reagirono immediatamente con gioia ed entusiasmo: essi credevano
infatti che la guerra fosse finita. Secondo un
rapporto del sottufficiale Giuseppe Nuvola, i
superiori avevano difficoltà a mantenere la di-
36
Documenti
sciplina: «Noi sottufficiali cercavamo di tranquillizzare le masse delle reclute, che erano
troppo, giovani per poter capire e vedevano
davanti a loro solo la fine della guerra e non
i cannoni dei tedeschi puntati contro di noi a
soli 30 metri di distanza». Gli ufficiali invece
erano sgomenti di fronte alla proclamazione
dell’armistizio e alla mancanza di direttive
degli Alti Comandi dell’esercito italiano. L’aspirante ufficiale Lino Monchieri descrisse in
un momento successivo l’umiliante azione di
disarmo, nel corso della quale i tedeschi distribuirono volantini che recavano scritte le
seguenti parole: «L’Italia è divisa in due. Voi,
che siete nostri sottoposti, o accettate la nostra supremazia o subirete pesanti conseguenze per il vostro tradimento». Gli ordini vaghi
e dati troppo tardi dai comandi dell’esercito
italiano, le pesanti minacce dell’ex alleato e la
sua superiorità militare spiegano la mancanza
pressoché totale di estesi tentativi di resistenza. Molti dei soldati italiani, prestando fede
alle mendaci promesse dei tedeschi, credettero che sarebbero stati trasportati inizialmente
in campi di raccolta per poi essere lasciati liberi di tornare a casa. Questa speranza rivelò
il suo carattere illusorio quando i prigionieri
disarmati furono rinchiusi in caserme, campi
sportivi e stadi di calcio che si trovavano nelle
vicinanze di stazioni ferroviarie. Per molti il
trasferimento sui treni merci rimase un ricordo traumatico: i vagoni merci erano sovraffollati, il cibo scarso e le condizioni igieniche
precarie. I malati non ricevevano assistenza e
i tentativi di fuga venivano severamente puniti. In alcuni resoconti si parla anche di morti, il numero esatto dei quali ancora dovrebbe
ancora essere ricercato. Nei vagoni il morale
generale divenne presto rassegnato o addirittura disperato. Molti prigionieri italiani
raccontano di aver acquisito definitivamente la consapevolezza di essere stati ingannati
dai tedeschi una volta arrivati al confine del
Reich. Un internato militare scrive: «Durante
il tragitto i finestrini del vagone erano rimasti chiusi [...] Eravamo come sardine senz’aria,
non avevamo nulla da mangiare e non potevamo fare i nostri bisogni: tre moribondi e io
con la febbre e la gamba dolorante per la ferita
[...] Non sapevamo se fosse giorno o notte. Poi
furono aperte le porte. Da un uomo che, in italiano, ci disse: “Non muovetevi o sparo”. [...]
Vidi [un cartello] con la scritta ‘Monaco’. Li ci
hanno fatto scendere e ci hanno dato del pane
nero: una pagnotta su cui era stampata la data
1938 [sic!], non me lo dimenticherò mai». Appena arrivati nei campi di prigionia, i detenuti
italiani percepirono subito l’atmosfera carica
di tensione della popolazione tedesca. I senti-
menti di vendetta nei confronti dei ‘traditori’
si esprimevano in rozzi insulti; addirittura i
bambini gettavano pietre contro i prigionieri.
G
li internati appartenevano a una di quelle categorie che venivano particolarmente disprezzate dai tedeschi. Essi si trovavano in fondo alla gerarchia sociale della forza
lavoro straniera, un gruppo che veniva definito
in base a criteri politici, economici e razziali.
Nel primo periodo la Wehrmacht, i responsabili degli armamenti così come del lavoro e le
imprese trattavano gli internati militari italiani appena un poco meglio dei prigionieri di
guerra sovietici e dei lavoratori provenienti dai
territori occupati nell’est dell’Europa [Ostarbeiter]. Una campagna diffamatoria messa in
piedi dal Ministero della Propaganda tedesco,
che trovò grande risonanza tra la popolazione,
stigmatizzava gli internati militari come ‘traditori’. Gli agitatori nazionalsocialisti facevano
consapevolmente leva sulla data del 23 maggio
1915, ben presente nella memoria collettiva dei
tedeschi: in questa data il Regno d’Italia aveva
dichiarato guerra al suo alleato austro-ungarico. In tal modo, risentimenti accumulatisi nel
corso di decenni vennero riattivati. Inoltre gli
ordini contraddittori impartiti dalle autorità
responsabili della distribuzione del lavoro, secondo le quali gli internati militari dovevano,
da un lato, essere puniti e dall’altro, invece, essere integrati col massimo rendimento nel processo lavorativo, avevano conseguenze estremamente negative sulle loro condizioni di vita
e di lavoro. Attraverso l’approccio proprio alla
storia delle esperienze si potrebbe ugualmente differenziare la definizione degli internati
come ‘schiavi’, prevalente soprattutto in Italia
e tale da suggerire una analogia con la sorte dei
detenuti nei campi di concentramento.
“Cambio di fronte”
e “Resistenza senz’armi”
A
i soldati in prigionia di guerra non resta
normalmente nessuna scelta: in quanto
appartenenti ad una potenza nemica,
essi non possono che sperare in una rapida cessazione delle ostilità e nel conseguente ritorno
a casa. Per quanto riguarda invece i soldati italiani, in un primo tempo disarmati e poi degradati a internati militari, le cose andarono
diversamente. Questi ultimi, infatti, venivano
ripetutamente posti di fronte a una scelta: continuare a combattere al fianco di Mussolini e
Hitler o decidere di non cedere ai propagandistici tentativi di arruolamento anche di fronte
alle minacce e restare in prigione. Chi si deci-
37
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Documenti
deva per l’Asse e per la RSI non doveva necessariamente essere un fascista o un sostenitore
del duce; considerazioni opportunistiche, la
malnutrizione, la drammatica situazione degli
alloggi, le condizioni climatiche, i maltrattamenti e il lavoro forzato potevano essere altrettanto determinanti. Molti volevano semplicemente ritornare in Italia dalle loro famiglie.
Lo stesso vale per quegli ufficiali, sottufficiali
e soldati che rifiutarono ogni tipo di collaborazione: anche in questo caso il rifiuto si poteva basare su una autentica convinzione politica
antifascista, ma anche risultare da una generica stanchezza generata dalla guerra. Anche
l’ostilità nei confronti dei tedeschi, così come
il giuramento fatto al re, potevano essere motivi decisivi rifiutare una nuova collaborazione
militare, specialmente fra gli alti ufficiali. Se
le opzioni a disposizione degli internati militari erano, come si è visto, limitate, nondimeno
il margine d’azione che essi avevano all’interno di questi limiti era considerevole e spaziava
dalla resistenza attiva alla potenza detentrice
tedesca e dal sabotaggio delle fabbriche di armamenti alla resistenza parziale, fino all’acquiescenza e alla collaborazione.
G
li storici sono comunque ampiamente d’accordo sul fatto che la stragrande
maggioranza degli internati militari rifiutò di portare avanti la collaborazione militare col ‘Terzo Reich’ o con la Repubblica
Sociale Italiana. Questo atteggiamento di dissenso, senz’altro coraggioso se si tiene conto
delle pesanti sanzioni a cui si andava incontro, era diffuso più tra sottufficiali e soldati
semplici che nei ranghi degli ufficiali. Se ci
si basa sui dati raccolti da Claudio Sommaruga, 94.000 tra soldati, sottufficiali e ufficiali
italiani si arruolarono nelle forze armate della RSI o si misero a disposizione della Wehrmacht, della Luftwaf fe o delle SS in qualità
di ‘alleati volontari’ immediatamente dopo
l’arresto; altri 103.000 presero invece questa
decisione quando già si trovavano nei campi di
prigionia. Mentre circa il 23% dei soldati e dei
sottufficiali optò per un’ulteriore collaborazione militare nelle formazioni tedesche o italiane, tra gli ufficiali la percentuale degli ‘alleati
volontari’ era assai più alta, con percentuali
intorno al 46%.
Molti ufficiali giustificarono il rifiuto di continuare a combattere al fianco dei tedeschi o
nell’esercito di Mussolini con il giuramento
fatto al re. Il rifiuto di ogni collaborazione
poteva essere anche motivato dal trattamento
brutale e umiliante riservato dai tedeschi agli
italiani. L’ufficiale Aldo Gal descrive così la
scissione interiore provata dopo una di queste
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
azioni di reclutamento: «Il 27 dicembre, ci fu
la visita del Generale V., accompagnato dal sottotenente G., mio amico di sport all’Università a Padova (grande sorpresa!) e da tre ufficiali
tedeschi. La propaganda di questo generale è
vivace, aggressiva, e, nel suo intendere, anche
commovente: si deve aderire per difender le madri, le spose e le fidanzate, oltre ai figli. [...] Le
discussioni diventarono insopportabili, vivaci e
continue, anche di notte».
I
soldati e i sottufficiali invece addussero spesso
come causa del loro rifiuto una generica stanchezza generata dalla guerra. Tutte le speranze
dei prigionieri italiani erano volte alla fine del
conflitto e la loro disposizione nei confronti dei
rappresentanti nazisti e fascisti era un misto di
profonda avversione ed enorme diffidenza. Inoltre essi temevano che, una volta tornati in patria,
sarebbero stati trascinati in una guerra fratricida.
Sul posto di lavoro, sia da parte degli italiani che,
in generale, da parte di tutti i lavoratori stranieri, solo raramente vennero organizzati tentativi
di resistenza aperta: le pesanti sanzioni, la pessima situazione dei rifornimenti, la sorveglianza
continua e l’indebolimento dei legami di gruppo erano tutti elementi che non favorirono certo l’azione collettiva. Un internato che dovette
prestare servizio in una fabbrica di armamenti a
Fürstenberg e a Lübben scrisse a questo proposito:
«Un uomo privo di forze, non reagisce più. Non
riesce nemmeno più a reggersi in piedi.. È come
un malato..., com’è possibile reagire? Non provavamo nemmeno più rabbia». Centrale era quindi
la lotta per la propria sopravvivenza.
Il lager
G
li spazi di esperienza degli internati
militari italiani si riducevano essenzialmente al lager e al posto di lavoro.
L’arrivo nei campi di prigionia viene descritto
da molti internati come un’esperienza traumatica: i primi giorni erano segnati da insicurezza, paura, spaesamento e molti cominciarono a
rendersi conto solo allora di cosa significasse la
prigionia. La descrizione delle sistemazioni precarie delle prime settimane, come esse risultano
dalle fonti ufficiali, trovano conferma nelle testimonianze degli internati. In molte di queste
si accenna alle baracche sovraffollate, spoglie e
talvolta anche pesantemente danneggiate.
Le condizioni di vita degli internati – alla cui
definizione concorrono i seguenti fattori: ordinamento del lager, vitto, alloggio, condizioni
igieniche, assistenza medica, abbigliamento,
offerte culturali, organizzazione del tempo libero – mostravano tuttavia delle considerevoli
38
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differenze. I campi per le truppe [Mannschaftsstammlager], chiamati anche Stalag, erano destinati ad accogliere i sottufficiali e i soldati,
mentre gli Offizierslager erano per gli ufficiali. Nei territori del Reich e nel Governatorato
Generale vi erano oltre 60 grandi Stammlager
e 15 Offizierslager. Una gran parte dei soldati
semplici e dei sottufficiali, dopo la registrazione
delle generalità, veniva trasferita in lager separati [Teillager] sempre all’interno degli Stalag o
in lager secondari [Zweiglager] di proprietà delle industrie. Gli ufficiali, invece, tra l’autunno
del 1943 e la primavera del 1944 vennero spesso
alloggiati nei lager del Governatorato Generale.
La vita quotidiana degli internati dipendeva in
primo luogo dal tipo di campo in cui si trovavano. I soldati e i sottufficiali trascorrevano
solo poche ore al giorno nei lager e anche il loro
tempo libero era così rigidamente regolamentato che non riuscivano quasi mai a sfruttarlo per
riposarsi. Gli ufficiali invece, dal momento che
fino all’inizio del 1945 non furono assegnati al
lavoro, dovevano soffrire più della truppa e dei
sottufficiali la monotonia e lo snervante isolamento, accompagnati dall’impossibilità di ritagliarsi uno spazio privato. Al di là degli orari
stabiliti per la sveglia, l’appello, la razione di
zuppa e la distribuzione della posta, gli ufficiali internati restavano abbandonati a se stessi.
lonen]. Esse controllavano i detenuti ventiquattr’ore su ventiquattro: nel lager, mentre
andavano al lavoro e spesso anche durante il
lavoro. Molto differenti fra loro sono le descrizioni delle guardie fatte dagli internati. Se
le guardie tedesche erano infatti sopportabili
se non addirittura corrette quando agivano
da sole, potevano mostrarsi violente se erano controllate dai colleghi o, peggio ancora,
per ordine dei loro superiori: «Non tutte le
guardie [...] sono cattive; la maggior parte è
costretta ad esserlo per paura dei colleghi più
fanatici che potrebbero controllare e fare la
spia». I sorveglianti più anziani sono descritti
in termini decisamente più positivi rispetto ai
soldati delle giovani generazioni e le sentinelle di origine austriaca come più umane dei tedeschi del Reich. Al contrario, le guardie provenienti dall’Alto Adige pare si mostrassero
in molti casi ancora più privi di scrupoli che i
tedeschi. Anche quella parte del personale del
campo che era composto da invalidi di guerra
è descritto dagli italiani come altrettanto brutale e imprevedibile. Questi se la prendevano
con la propria sorte. «Si trattava per lo più di
gente violenta e incrudelita, forse perché erano tutti, in un modo o nell’altro, minorati: ad
alcuni mancava un piede, ad altri un dito, ad
altri ancora un braccio».
O
I
ltre ai prigionieri di guerra e agli internati militari, i comandanti dei lager
impartivano ordini anche alle guardie e ai loro ausiliari. Inoltre essi avevano il
compito di valutare costantemente le prestazioni lavorative dei prigionieri, di controllare
i ruolini di paga e di evitare che i detenuti
venissero a contatto con la popolazione tedesca, soprattutto con le donne, al di fuori del
posto di lavoro. Spesso il comportamento dei
comandanti dei campi nei confronti degli italiani era determinato da esperienze personali precedenti. Erminio Canova, un uomo di
fiducia italiano che lavorava a Rauenstein in
Turingia, descrisse così in un momento successivo un comandante che maltrattava gli
internati a causa di un’esperienza negativa
avuta in precedenza: «Nella guerra del ’15-’18
egli aveva combattuto sul Piave e li fu fatto
prigioniero. Nonostante fosse stato trattato
umanamente, trovò che fosse una punizione
dura e umiliante anche solo il fatto di avere la
sensazione di non poter fare quello che avrebbe voluto. È da quel tempo che gli è rimasto
l’odio per gli italiani ‘zingari’ e il desiderio di
potersi finalmente rivalere».
La sorveglianza e le punizioni erano di competenza delle guardie militari reclutate tra i
battaglioni territoriali [Landesschützenbatail-
ricordi degli internati militari nei lager si
concentrano su esperienze che li hanno segnati particolarmente. Essi si focalizzano sui
momenti più disumani della vita del campo, che
però non rappresentavano ovunque la regola. In
alcuni lager, per esempio, il personale di guardia costringeva i prigionieri radunatisi per l’appello mattutino a sottoporsi ad esercizi ginnici:
una forma di addestramento militare che spesso, a causa della debole costituzione dei soldati
italiani, rubava loro le ultime forze che avevano
in corpo. Stando all’opinione dei detenuti, per
i comandanti di alcuni campi la ginnastica, che
poteva durare anche ore intere, non era solo un
modo per mantenere la disciplina e aumentare
le prestazioni lavorative, ma anche una pratica
umiliante e punitiva. Per gli internati militari italiani tali pratiche ingiuste e oltraggiose,
spesso accompagnate da insulti quali «figli di
quel cane di Badoglio» o «siete ancora più porci di Badoglio», erano a volte tanto intollerabili
quanto i maltrattamenti fisici.
Anche le guardie avevano un margine di azione individuale non irrilevante. Alcuni soldati
tedeschi esercitavano infatti un inf lusso positivo sulla situazione dei prigionieri, riuscendo
per esempio a procurar loro di propria iniziativa una maggior quantità di cibo. Cosa che
non era affatto esente da rischi: «Il vecchio che
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ci sorveglia ha pietà di noi. Mentre le guardie
sono occupate con la minestra, lui ci porta scatolette di carne o verdure recuperate da qualche negozio distrutto. I gendarmi se ne accorgono e lo portano via».
Il comportamento dei tedeschi mutava spesso.
Soprattutto nei primi mesi, l’atteggiamento dei
membri della Wehrmacht era contraddistinto da disprezzo e ripulsa: «I soldati ci scherniscono, ci offendono, ci sputano addosso, ci
insultano e ci maledicono». Particolarmente
spietate e violente si mostrarono le guardie tedesche dopo la liberazione di Roma da parte
degli Alleati, dopo lo sbarco degli anglo-americani in Normandia e dopo l’attentato ad Hitler del 20 luglio 1944. Così descrive un testimone oculare l’atmosfera di quei giorni: «Non
ho mai visto i tedeschi così torvi. Cercano sui
nostri volti il minimo accenno di gioia per
punirci». Se in certi campi negli ultimi mesi
di guerra il nervosismo crescente dei tedeschi
corrispose ad una sfrenata disposizione alla
violenza nei confronti dei prigionieri, in altri
i membri della Wehrmacht si mostrarono sensibilmente più umani verso gli italiani, a causa dell’approssimarsi della fine della guerra.
T
ra i prigionieri stessi si stabilirono relativamente presto gerarchie sociali. Ai
vertici della piramide sociale del lager
stavano quegli internati che lavoravano come
uomini di fiducia e interpreti. Negli Stammlager e nei loro Zweiglager queste posizioni erano
occupate soprattutto da sottufficiali. A seguire, vi erano coloro che lavoravano negli uffici,
nelle cucine, come infermieri o operai.
Spesso si formavano piccoli gruppi a carattere familiare, basati su rapporti di cameratismo
o di amicizia preesistenti o sulla comune provenienza regionale. Un internato racconta di
questo genere di famiglia sostitutiva: «Ogni
membro, senza accorgersene, tacitamente, ha
assunto la mansione per la quale era più adatto. Così c’è che tiene la casa in ordine, […] chi
cucina; chi cuce e rammenda; chi fa gli scambi
di roba con i compagni e i russi. È c’è il capo
famiglia – nessuno l’ha eletto, ma tutti sanno
chi è [...]». Forme di solidarietà e di autoaffermazione sembrano aver giocato un ruolo più
significativo negli Offizierslager piuttosto che
negli Stalag. Questo serviva a metter da parte
molti dubbi individuali e a rafforzare il proprio atteggiamento morale.
Contrariamente a quanto avveniva negli
Stammlager, le attività culturali erano una parte fondamentale della vita che si svolgeva nei
campi per ufficiali. L’organizzazione di conferenze, mostre e manifestazioni era assunta da
quegli ufficiali che da civili erano stati attivi
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in campo scientifico, pubblicistico e culturale.
Le lezioni del professor Giuseppe Lazzati, docente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
di Milano, ebbero, per esempio, una particolare risonanza. In questo modo questi ufficiali
riuscirono ad aiutare i propri compagni di prigionia a resistere e a rivolgere le loro speranze
oltre la fine della guerra.
A causa del ridotto tempo libero concesso ai
lavoratori degli Stalag e degli Arbeitskommando [squadre di lavoro], la cultura non giocò, in
quei lager, alcun ruolo. Tutt’al più, venivano
improvvisate serate canore che, secondo quanto riportato, risvegliavano il ricordo dei tempi
di pace e la nostalgia della patria. Questi momenti avevano un effetto positivo sull’animo
dei prigionieri, ma anche sulla coesione degli
Arbeitskommando.
I
l problema più grosso rimaneva in generale
la situazione alimentare, che era catastrofica. Dal momento che al Comitato Internazionale della Croce Rossa era stato vietato di
assistere gli internati con alimenti e medicine
supplementari, questi potevano contare solo
sulle scarse razioni distribuite nei lager della
Wehrmacht. Capitava inoltre che i soldati e i
sottufficiali fossero puniti con la cosiddetta
Leistungsernährung, cioè con razioni di cibo
proporzionali alla prestazione lavorativa offerta. Una misura punitiva che, originariamente
usata solo con i lavoratori dell’est e i prigionieri di guerra sovietici, fu introdotta da alcune
industrie anche per gli internati militari. Gli
italiani erano già così indeboliti, che, a seguito
di questa pratica, la loro produttività invece
di aumentare diminuì considerevolmente e il
numero dei malati, soprattutto tra coloro che
lavoravano in miniera, nell’edilizia e nell’industria pesante, crebbe in continuazione. Tutto
questo era ben noto a Hitler quando, nel 1944,
ordinò di estendere questo provvedimento disciplinare a tutti gli internati poco produttivi.
P
roprio i morsi della fame e la malnutrizione sono descritti dagli internati militari
come l’esperienza centrale della prigionia. La paura di perdere il controllo a causa
dell’irrefrenabile impulso a procurarsi qualcosa di commestibile è un ricordo indelebile nella
mente di molti detenuti: «Come non ricordare
quelle tristi giornate in cui si andava a cercare
le bucce o i resti di patate e di rape tra le immondizie e i rifiuti, o si preparavano i complotti
rischiosi per rubarle dai magazzini? [...] Le gambe mi tremavano, mi vergogno di me stesso».
Fatta eccezione per chi lavorava nell’agricoltura
e nell’industria alimentare, quasi nessun internato riceveva la razione giornaliera ufficiale.
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I resoconti delle esperienze degli internati militari italiani permettono di individuare fasi
differenti: dall’autunno del 1943 alla primavera del 1944 gli internati percepirono le loro
razioni come del tutto insufficienti; a partire
dall’estate del 1944 e soprattutto dall’autunno,
dopo il cambio di status da ‘internati militari’
a ‘lavoratori civili’, le quantità di cibo aumentarono fino alla fine dell’anno; la situazione
alimentare si fece tuttavia nuovamente precaria
dall’inizio del 1945 fino alla fine della guerra,
soprattutto per quegli internati costretti a lavorare in regioni fortemente urbanizzate. Leggermente migliore si presentava la situazione
negli Offizierslager.
Anche l’abbigliamento, sporco e logoro, costituiva un grosso problema. Questo valeva soprattutto per quei prigionieri occupati
all’aperto: «L’abbigliamento degli italiani non
è adeguato alle condizioni dello Harz, tanto
più che non ricevono nuovi vestiti al posto di
quelli consunti. Il lavoro degli italiani nello
Oberharz è già di per sé sufficientemente sconveniente a causa delle condizioni climatiche.
Gli italiani non sono abituati al clima rigido di
qui e soffrono particolarmente per la frequentissime precipitazioni».
U
n altro problema erano i frequenti bombardamenti degli alloggi dei sottufficiali e dei soldati. A causa della prossimità
dei lager alle fabbriche i prigionieri si trovavano infatti nelle immediate vicinanza delle zone
a rischio. Dopo i bombardamenti molti venivano costretti a rimuovere le macerie o a rendere nuovamente agibili vie di comunicazione e
rotaie. Un internato descrive con queste parole
la paura che accompagnava i bombardamenti:
«La testa appoggiata alla terra dei fossati paraschegge, il cuore che correva all’impazzata,
la bocca bruciata dalla polvere, dallo zolfo e
dall’ossido di carbonio; così si aspettava, attimo dopo attimo, la bomba che sarebbe dovuta
scoppiare e quasi si desiderava che scoppiasse, questo era il peggio». Gli allarmi aerei e
i bombardamenti incidevano pesantemente
sullo stato psichico degli internati militari italiani. Inoltre in situazioni del genere non erano garantite nemmeno le condizioni igieniche
elementari e l’approvvigionamento minimo
necessario alla sopravvivenza. Negli Offizierslager, che si trovavano per la maggior parte
lontani dai grandi centri dell’industria bellica,
il rischio di bombardamenti aerei era invece
molto minore. Un’ulteriore condizione gravosa
per gli internati era il funzionamento solo parziale del servizio postale tra gli internati militari e i congiunti in patria. A causa delle difficoltà di trasporto sempre maggiori, pacchi di
vitale importanza arrivavano spesso a destinazione solo con grande ritardo o addirittura non
arrivavano affatto. Mentre gli ufficiali provenienti dall’Italia settentrionale ricevevano ancora con una certa regolarità i pacchi di aiuti,
i soldati dislocati negli Arbeitskommando ricevano solo sporadicamente aiuti da casa. Ciò
valeva soprattutto per coloro che provenivano
dalle regioni del Centro e del Sud Italia occupate dagli Alleati. Questa irregolarità nella distribuzione della posta si ripercosse negativamente sul morale e sulla salute dei prigionieri.
Il posto di lavoro
I
soldati semplici e i sottufficiali erano assegnati ai lavori forzati: soprattutto in qualità
di manovali, essi erano costretti a lavorare prevalentemente nell’industria degli armamenti, nell’industria pesante, nell’edilizia e in
miniera. In questi settori le razioni alimentari non corrispondevano affatto al fabbisogno
richiesto dal duro lavoro fisico giornaliero.
Particolarmente gravosa era la loro posizione
sociale nelle miniere, dove lavorava circa il 9%
degli internati militari. Nel settore agricolo, in
cui era occupato il 6% degli italiani, e nell’industria alimentare le condizioni di lavoro invece erano tollerabili.
Resoconti di internati militari rinvenuti di
recente rivelano uno spettro di condizioni di
vita molto ampio e differenziato. Queste differenze non dipendevano solo dai diversi rami
dell’industria in cui essi erano impiegati, ma
anche dal luogo in cui vivevano, in campagna
o in città, in zone agricole o urbanizzate. Contrariamente a quello che accadeva nelle grandi
industrie, dov’era impiegata la maggior parte
degli internati militari, le condizioni di lavoro
nelle piccole aziende o nelle succursali erano
sopportabili.
Gli orari di lavoro sempre più lunghi peggioravano sensibilmente la qualità della vita degli internati, anche perché l’alimentazione non
veniva adeguata alle crescenti esigenze fisiche
dei lavoratori. La forza lavoro straniera, i prigionieri di guerra e gli internati militari, che
si trovavano al livello più basso della gerarchia
politico-razziale, venivano costretti ai lavori
agricoli anche la domenica e nei giorni festivi.
Se si tiene conto di questo, dei turni notturni
e degli straordinari, si calcola che essi lavoravano più a lungo dei dipendenti aziendali tedeschi e dei lavoratori civili dell’Europa Occidentale. Il monte ore settimanale, stabilito in
modo autonomo da ogni impresa, si aggirava
tra le 50 e le 65 ore.
Un controllo rigoroso delle prestazioni e un
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gran numero di prescrizioni restrittive scandivano la giornata di lavoro degli IMI, i quali
divenivano vittime di maltrattamenti quando
le loro prestazioni lavorative venivano considerate insufficienti. Ancor più che gli atti di
violenza punitivi, i testimoni oculari documentano la paura degli imprevedibili scoppi di
ira delle guardie tedesche. Temevano soprattutto la brutalità degli addetti al servizio di
sicurezza aziendale [ Werksschutz], con le loro
camicie gialle e la croce uncinata al braccio.
Ufficialmente, i sorveglianti aziendali non
avevano alcun diritto di intervenire contro i
prigionieri di guerra e gli internati militari.
La realtà però era del tutto diversa. Essi punivano la scarsa efficienza dei detenuti, la mancanza di puntualità, le assenze per malattia
non autorizzate così come i tentativi di resistenza o sabotaggio. Molte aziende ritenevano
che la violenza fosse un mezzo legittimo per
incrementare il rendimento. In ogni momento
le guardie potevano procedere a perquisizioni
personali o al controllo dei documenti. Gli
IMI vivevano spesso la punizione come un accesso di violenza irrazionale e incontrollata.
In caso di scarso rendimento, essi venivano
picchiati con attrezzi da lavoro, spranghe di
ferro o pezzi di legno, cosa che conferma il carattere impulsivo della brutalità. Soprattutto
se avevano danneggiato i macchinari gli internati dovevano aspettarsi misure draconiane.
I
comandanti dei campi della Wehrmacht dovevano intervenire ripetutamente, poiché
in teoria solo loro erano autorizzati a prendere provvedimenti disciplinari nei confronti degli internati. Tuttavia, la maggior parte
dei dirigenti dei campi sembra non aver mai
dato troppo peso a questo problema. Anzi, la
dura critica dei dirigenti delle fabbriche alla
Wehrmacht, ritenuta responsabile di una sorveglianza troppo lassista, portò a una radicalizzazione delle norme punitive e ad un peggioramento considerevole delle condizioni di vita
e di lavoro proprio di quegli internati già malnutriti e di conseguenza meno efficienti. Le
aziende guadagnarono un potere di intervento
sempre maggiore sugli internati militari e sui
prigionieri di guerra. A partire dall’agosto del
1944 queste poterono addirittura proporre le
punizioni che venivano eseguite nel lager dopo
la fine del turno di lavoro.
Gli spazi di esperienza del posto di lavoro e
del lager si condizionavano dunque reciprocamente. Così il personale della Wehrmacht non
fungeva solo da istanza punitiva in caso di violazione delle regole o di mancato rispetto della
disciplina del lager, ma interveniva in misura sempre maggiore anche in caso di scarsa
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produttività o di disobbedienza sul posto di
lavoro. L’elenco delle punizioni militari, originariamente previsto per castigare chi contravveniva all’ordine del campo, si trasformò
in un mezzo di cui le aziende si potevano
servire per punire prestazioni insufficienti.
La combinazione di una direzione d’azienda
fedele alla linea e di una rigida gestione del
campo poteva avere conseguenze fatali per
gli internati: «Paolo, il nostro compagno di
Stube, denunciato dal Meister come lavoratore di scarso rendimento, e stato convocato al
comando. I tedeschi l’hanno fatto spogliare
e piegare sopra uno sgabello. Quattro soldati, fin che ebbero fiato, lo hanno battuto sul
dorso, sulle spalle, sulle braccia, sulle gambe,
riducendolo un cencio. Paolo urlava da impietrire! Noi, muti e impotenti, chiusi nella
Stube, stavamo col cuore sospeso [...]».
G
li ufficiali invece, che fino all’inizio del
1945 non era obbligati a prestare alcun
servizio lavorativo, erano sottoposti ad
un altro tipo di mortificazioni, quali l’ispezione del vestiario e dei bagagli, accompagnata
da atti di violenza, e l’appello giornaliero che
spesso poteva protrarsi per ore. Alcuni internati militari furono uccisi dai soldati della Wehrmacht, per esempio per aver calpestato per
sbaglio la striscia d’erba vicina al recinto del
campo. Questi atti violenti, del tutto in contrasto con il diritto internazionale e con l’ordinamento disciplinare vigente, provocavano
sgomento tra gli internati militari.
L’immagine dei tedeschi
N
ei loro scritti autobiografici gli internati militari tratteggiano un’immagine
molto sfaccettata dei tedeschi. Da quanto emerge da queste testimonianze, l’atteggiamento dei lavoratori tedeschi nei confronti degli internati era caratterizzato inizialmente da
indifferenza e distacco. Particolarmente inf lessibili erano i capisquadra, i cui maltrattamenti
erano i più duri da sopportare. Ciò valeva soprattutto in quei settori dell’industria tradizionalmente gestiti da uomini, come le miniere, le
costruzioni, certi settori dell’industria pesante
e l’Organizzazione Todt. Il comportamento nei
confronti degli italiani differiva anche a seconda dell’età. I lavoratori più anziani si dimostravano decisamente più umani dei giovani verso
gli internati: «Mi ricordo di un vecchio collega di lavoro nella fabbrica dei panzer, Erich
Limmeroth. Questo Erich metteva da parte del
cibo per darlo a me. Forse pensava ai suoi due
figli caduti in Russia». Da quanto ugualmente
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si legge nelle testimonianze autobiografiche,
un’altra differenza significativa era quella di
genere: le operaie donne mostravano infatti
verso gli italiani molta più empatia rispetto a
quanto facessero i loro colleghi uomini. Nella
memoria di molti italiani è rimasto impresso il
divieto intimidatorio di avvicinarsi alle donne
tedesche. Dopo l’acquisizione dello status di
lavoratori civili divenne tuttavia più facile per
gli italiani entrare in contatto con le tedesche.
Ma poiché, da un lato, essi si trovavano al fondo della gerarchia politico-razziale e, dall’altro, erano costantemente sotto sorveglianza,
questi contatti si trasformarono solo raramente in relazioni amorose. Negli schedari della
Gestapo di Düsseldorf e di Würzburg che sono
stati presi in visione sono infatti molto pochi
rispetto agli altri detenuti i prigionieri italiani
accu¬sati di ‘delitti sessuali’.
G
li internati militari italiani riferiscono
che l’atteggiamento dei tedeschi nei loro
confronti durante i primi mesi della
loro prigionia era estremamente ostile e irascibile, anche al di fuori del posto di lavoro. Si
sentivano accusare costantemente di aver tradito la Germania. Questa atmosfera ostile, che
gli italiani percepivano soprattutto mentre si
recavano al lavoro, si esprimeva con insulti e
anche con percosse. Tuttavia questi accessi d’ira si ridussero col passare del tempo, anche se
rimase sempre un certo risentimento di fondo.
Nelle memorie degli ex internati, che concordano fra loro su questo punto, si legge di una
graduale tendenza al miglioramento dei rapporti coi tedeschi, che a loro avviso era dovuto
a una migliore conoscenza della lingua tedesca
e a una migliore integrazione nei processi di
lavoro, ma anche a una situazione bellica sempre più disperata, che portava non pochi tedeschi a rivedere le proprie opinioni: «All’inizio
venivamo derisi e maltrattati, soprattutto dai
capi della fabbrica; poi, quando cominciarono
ad accorgersi che anche la loro situazione stava
peggiorando, presero a parlare più apertamente
con noi».
Nel settore agricolo, i tedeschi trattarono gli
internati militari italiani in modo prevalentemente umano, contravvenendo così a quanto
prescritto dagli uffici del partito e della propaganda. In molte aziende agricole, ad esempio, i divieti di contatto tra italiani e tedeschi
non ebbero alcun seguito; troppo importante
era la funzione economica della forza lavoro
straniera, soprattutto in quelle fattorie che potevano ormai essere gestite solo da donne e da
uomini anziani. In un ambiente come questo,
un rapporto di tipo tradizionale col personale
di servizio, le affinità confessionali e una certa
familiarità nelle relazioni erano di grandissima
importanza. Nelle campagne inoltre i controlli
della Wehrmacht e della polizia non avvenivano che sporadicamente.
Gli internati militari fecero esperienze prevalentemente positive anche con quei civili e
contadini che si recavano nei lager durante il
fine settimana alla ricerca di forza lavoro che
li aiutasse nei lavori di casa, nelle riparazioni
necessarie dopo un attacco aereo o durante il
raccolto. Spesso si conoscevano già come ‘colleghi’ sul posto di lavoro. Il pagamento era in
natura. Questi tedeschi si comportavano in
modo abbastanza umano e con cautela cominciavano ad interessarsi alle condizioni di vita
degli italiani. Ciò nonostante questi episodi
non devono far dimenticare le frequenti reazioni negative dei tedeschi non appena questi
vedevano i loro privilegi intaccati dagli stranieri. Molti internati ricordano per esempio la
rabbia degli abitanti delle grandi città tedesche
quando li pregavano di poter entrare nei rifugi
antiaerei o di salire sui mezzi di trasporto.
Fase finale e liberazione
N
egli ultimi mesi di guerra le condizioni
di vita dei lavoratori italiani peggiorarono nuovamente ed in modo drammatico, soprattutto nelle zone urbanizzate. In certi
luoghi il sistema di rifornimento andò completamente in tilt. Soprattutto dopo un bombardamento i prigionieri si aggiravano impotenti nelle città distrutte, cercando di mantenersi in vita
chiedendo l’elemosina, commerciando al mercato nero o rubando. Gli italiani impiegati nelle
zone in prossimità del fronte per la costruzione
di fossati anticarro sentivano spesso di essere in
pericolo di vita: a volte erano costretti a scavare
fossati anche di notte, in tutta fretta, sotto la
continua pressione delle guardie, soffrendo per
le pessime condizioni igieniche e alimentari, per
le marce estenuanti ed il vestiario inadatto. A
causa dei bombardamenti e della celerità con cui
questi lavori dovevano essere eseguiti cresceva
anche la predisposizione alla violenza del personale di guardia. A questo si aggiunse la durezza
dell’inverno 1944/1945. Il numero di morti e
malati era alto. Non pochi furono uccisi perché
scoperti a rubare del cibo. Le centrali della Gestapo furono infatti autorizzate a far giustiziare
i lavoratori stranieri sorpresi a rubare o a compiere tentativi di fuga o sabotaggio. In tal modo
le autorità regionali e locali godevano di una
totale libertà d’azione, senza per questo dover
essere sottoposte ad alcun controllo. Anche la
popolazione civile tedesca prese parte a questi
eccessi di violenza, dei quali caddero vittime,
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poco prima della fine della guerra, migliaia di
stranieri, tra cui centinaia di internati militari.
A
causa dell’avvicinarsi del fronte gli internati furono trasferiti sempre più verso l’interno del Reich. Dal momento
che non c’erano più mezzi di trasporto a disposizione, migliaia di internati militari, prigionieri di guerra e lavoratori civili stranieri
furono costretti dai membri della Wehrmacht
e dai Volkssturmverbände [unità della milizia
popolare] a estenuanti marce a piedi. Questi
sgomberi eseguiti nel caos terrorizzavano gli
internati, che non sapevano se sarebbero sopravvissuti alle marce forzate. Molte delle impressioni suscitate da quest’esperienza hanno
un carattere apocalittico e si sono impresse
indelebilmente nella memoria dei prigionieri:
villaggi in fiamme, vecchi e deboli moribondi,
cadaveri al margine della strada. Coloro che
sopravvivevano raggiungevano sfiniti i sovraffollati campi di prigionia.
Quando gli Alleati liberarono i campi, si diffu se tra gli internati un sentimento irrefrenabile di sollievo e di gioia. Ciò si verificò
soprattutto negli Of fizierslager: le migliaia di
ufficiali rinchiusi fino all’ultimo in condizioni di assoluto isolamento non avevano infatti
potuto percepire i primi segnali di cedimento,
che invece negli Stammlager si erano cominciati ad avvertire già prima della liberazione.
Alcuni ex internati si vendicarono di quelle
guardie o di quei capi dei lager che si erano distinti per un comportamento particolarmente
crudele. Altri furono spinti dalla rabbia generata dalla guerra e dalle crudeltà subite a distruggere i macchinari delle fabbriche. La fase
dell’immediato dopoguerra fu descritta da alcuni come un periodo di relativa ‘ricchezza’.
Il cibo restava in ogni caso la preoccupazione
principale. Proprio l’improvvisa disponibilità
di alimenti dopo mesi di malnutrizione fu per
molti italiani causa di pesanti disturbi gastrointestinali, a volte con conseguenze mortali.
Rimpatrio
M
olti internati militari italiani riuscirono a rientrare in Italia prima della fine della guerra, dove qua e là si
combattevano ancora dure battaglie tra le
truppe tedesche e quelle alleate o tra i partigiani e i militari della Repubblica Sociale.
I partigiani abbandonavano le loro basi sulle
montagne, molti civili erano in fuga e le unità della RSI, così come le formazioni tedesche, battevano in ritirata. Tra il maggio ed
il novembre del 1945, le forze di occupazioPATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
ne alleate lasciarono che gli ex internati, in
modo più o meno ordinato, fossero rimpatriati. Come la liberazione dei lager, così anche
l’attraversamento del confine fu accompagnato da forti emozioni. Valentino Carrara scrive: «Non riesco a descrivere le scene di quando
passammo il Brennero; ho visto il modo in cui
tutti scendevano dai vagoni, dai vagoni merci,
tutti malridotti. Siamo scesi tutti per abbracciarci, per piangere, perché dopo anni di prigionia e di guerra eravamo rientrati in Italia».
I
l ritorno a casa è ricordato come un momento di gioia, di commosso ricongiungimento,
di festa. Ancora oggi la maggior parte degli
ex internati ricorda la data esatta del proprio
ritorno. Tuttavia molti di loro incontrarono
delle difficoltà nel reinserimento nella società italiana. Il panorama politico e sociale era
completamente mutato. Già sulla strada verso
casa i più furono invasi da un senso di spaesamento: «Nessuno s’interessava di me. Tutti leggevano giornali i cui titoli io non avevo
mai sentito nominare». Le difficoltà maggiori
le ebbero i reduci di orientamento monarchico-conservatore: una volta tornati in patria,
infatti, essi si resero conto che i valori che li
avevano aiutati durante la prigionia, come per
esempio la fedeltà al re, avevano perso qualsiasi
significato. Mentre la Resistenza nella società
italiana del dopoguerra godeva di una considerazione pari a quella riservata due decenni prima ai soldati della prima guerra mondiale e veniva festeggiata come la forza che aveva vinto
sul ‘nazifascismo’, i prigionieri che rientravano
dalla Germania incarnavano invece la disfatta
dell’ 8 settembre, che dagli italiani non era stata ancora del tutto superata. Il tanto agognato
ritorno in patria degli ex internati militari fu
dunque percepito a volte come l’arrivo in un
paese straniero. Le privazioni sofferte durante la detenzione sembrarono agli ex IMI ancora più insensate alla luce del degradamento
sociale che erano ora costretti a sperimentare.
La collera nei confronti dei connazionali, che
non di rado mostravano verso il destino degli
internati solo ignoranza, è talvolta ancor oggi
avvertibile. Ciò che i reduci trovavano particolarmente offensivo erano lo scetticismo e il sospetto di collaborazionismo che spesso, benché
sottaciuto, serpeggiava anche in ambito privato. Nelle lunghe discussioni riguardo alla retribuzione dei soldati, il Ministero delle Finanze
si avvalse di questo sospetto generico per negare loro il pagamento del soldo che gli spettava.
Gli ex internati reagirono con indignazione a
questa discriminazione: l’impressione di essere
ritornati dalla guerra come sconfitti, mentre
altri potevano presentarsi come vincitori, era
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spesso sconfortante e la sensazione di essersi schierati dalla parte sbagliata era per loro
difficile da sopportare: «Mi è venuta incontro
una persona. Credevo di conoscerla. Era uno
di quelli che più disprezzavamo, uno di quelli
che al campo avevano firmato la dichiarazione d’adesione alla RSI [...]. Mi raccontò: un
anno d’addestramento in Germania. Ritorno
in Italia. Qualche mese in montagna [coi partigiani]. Ora è un eroe. Iniziai a capire che le
cose non andavano come avevo sperato. Un
secondo incontro. Un compagno di scuola,
un fannullone. Nella vita non aveva combinato niente [...]. Si è costruito la sua fortuna
facendo sempre affari con tutti. Amici. Nemici. Ha anche sostenuto i partigiani. Rimpiange che la guerra sia finita. Mi chiede che
novità ci sono. Gli racconto tutto. ‘Poverino”
dice la sua bocca, “povero stupido” dicono i
suoi occhi. Forse ha ragione». Il trattamento
riservato dalla società del dopoguerra agli ex
internati spinse molti di loro a passare sotto
silenzio le esperienze vissute durante la prigionia. Questa fase della loro vita divenne
un tabù anche in molte famiglie. Solo verso
la fine degli anni ’80, quando le interpretazioni correnti sul periodo dell’occupazione
tedesca e sulla Resistenza cominciarono a diventare in Italia oggetto di dibattito, crebbe
anche l’interesse per quelle vittime di guerra che fino ad allora erano state dimenticate.
Prospettive
L
e numerose fonti sugli internati militari
italiani rintracciate su incarico della Commissione aprono nuove prospettive di ricerca. Con il supporto di oltre 200.000 documenti
afferenti a singole persone presso il Ministero
della Difesa italiano (Commissariato Generale
Onoranze Caduti di Guerra) non sarà solamente possibile ricostruire la sorte collettiva degli
internati militari durante la guerra, ma anche
i loro percorsi individuali nei primi due decenni dopo la fine della guerra. Insieme ai fondi
d’archivio nella Deutsche Dienststelle (WASt)
a Berlino e i protocolli di interrogazione nei
distretti militari italiani, le fonti rinvenute di
recente si prestano particolarmente a studi prosopografici e di statistica sociale.
Raccomandazioni
della Commissione
C
onformemente al mandato ricevuto la
Commissione ritiene di poter presentare, oltre alla proposta di una ricostruzione del passato bellico italo-tedesco elaborata sulla base della storia delle esperienze,
alcune raccomandazioni per il futuro. Essa è
consapevole che tali proposte possono venire
concretizzate solo se in Italia e in Germania
si affermerà la volontà politica di promuovere
in uno spirito europeo l’avvicinamento delle
culture della memoria esistenti nei due paesi.
La Commissione si appella pertanto ai Governi di entrambi i paesi affinché divengano
consapevoli della necessità di una tale politica
della memoria. In particolare essa si rivolge al
Governo della Repubblica Federale di Germania che, in base a una dichiarazione del suo
Ministro degli Affari Esteri, si è dichiarato
pronto ad un gesto di generosità. Ad avviso
della Commissione, i finanziamenti a tal fine
necessari non possono costituire per sé un ar-
gomento contrario alla realizzazione di queste
raccomandazioni; gli investimenti per giungere a una migliore comprensione del passato
costituiscono proprio in questo caso un investimento per il futuro europeo.
L
a Commissione ritiene che per mantenere viva in modo duraturo la discussione
tra italiani e tedeschi sul loro comune
passato di guerra sia necessaria la creazione in
Germania di un luogo della memoria per gli
internati militari italiani, che ricordi il loro
singolare destino. La commissione raccomanda inoltre che parallelamente a ciò siano creati e sostenuti analoghi luoghi della memoria
in Italia.
Ciò per altro corrisponde al pressante desiderio delle Associazioni degli internati militari,
che da tempo hanno richiesto alla Repubblica
Federale di Germania un riconoscimento almeno simbolico delle loro sofferenze.
Ad avviso della Commissione, sulla base del-
45
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
Documenti
le responsabilità storiche, un luogo adeguato
per tale memoriale può essere identificato in
primo luogo a Berlino, dal momento che proprio qui nel 1943 i detentori del potere nel
‘Terzo Reich’ decisero il disarmo e la deportazione dei soldati italiani, i quali nei territori sottoposti al potere tedesco hanno patito
sofferenze come internati militari. Secondo la
Commissione il campo di lavoro coatto sito a
Berlino-Niederschöneweide, i cui edifici sono
rimasti in gran parte intatti, rappresenta un
luogo adatto allo scopo: in esso furono detenuti infatti anche internati militari italiani. La Commissione ha potuto constatare che
sul luogo esiste già un piccolo memoriale in
ricordo dei lavoratori coatti italiani, il quale
potrebbe venire ampliato agli internati militari. Sempre a Berlino e in parallelo a questo
memoriale potrebbe essere eretto nel cortile
interno dell’Ambasciata della Repubblica Italiana, il cui edificio è denso di ricordi storici,
un monumento in ricordo degli internati militari.
Parallelamente a ciò, la Commissione ritiene
opportuno sostenere in Italia iniziative analoghe, pur nella consapevolezza che esistono
alcune differenze istituzionali fra esse e il memoriale di Berlin-Schöneweide. La Commissione considera ad esempio con particolare
attenzione il museo dedicato al ricordo degli
internati militari, creato a Padova per iniziativa dell’Associazione Nazionale degli Ex-internati. La Commissione inoltre auspica che
il Governo italiano crei a Roma un adeguato
luogo della memoria per ricordare le vicende
degli internati militari italiani.
I
l memoriale centrale per gli internati militari a Berlin-Schöneweide deve adempiere
a due funzioni. Per un verso esso deve essere un luogo della memoria, nel quale – in
un luogo aperto al pubblico – il destino degli
internati militari venga ricordato con un monumento creato da un artista. Per altro verso
questo luogo della memoria deve adempiere in
modo permanente a compiti di natura scientifica e storico-didattica. Come dimostrano le
richieste sempre più frequenti rivolte ad archivi e memoriali non solo dai parenti delle
vittime, ma anche da studiosi, da collaboratori a progetti commemorativi a carattere regionale e da studenti delle scuole superiori e delle
università, si registra soprattutto in Italia un
interesse crescente della società per il numero,
i nomi, i luoghi di provenienza e le esperienze
degli internati militari deceduti in Germania
e nei territori controllati dal ‘Terzo Reich’. La
Commissione raccomanda pertanto di predisporre un libro commemorativo dei defunti,
PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013
nel quale vengano gradualmente registrati
tutti gli internati militari che hanno perso la
vita in Germania e nei territori controllati dal
regime nazionalsocialista. Tale libro commemorativo deve possibilmente essere impostato
come una banca dati (con accesso on-line). In
una prospettiva di lungo periodo esso potrà
essere ulteriormente ampliato per divenire
alfine un lessico biografico, nel quale venga
registrato il più alto numero possibile degli
oltre 600.000 internati militari.
È auspicabile che l’inventario delle più importanti fonti d’archivio relative al destino degli
internati militari predisposto dalla Commissione possa servire da ausilio per queste ricerche a lungo termine di carattere biografico.
La Commissione raccomanda espressamente l’utilizzo del materiale d’archivio da essa
rinvenuto. A questo riguardo ritiene di particolare importanza i circa 240.000 fascicoli,
attualmente raccolti a Roma presso l’Archivio
del Ministero dell’Economia, che conserva
le domande che furono presentate dopo l’accordo tra i due paesi del 1961 da coloro che
intendevano richiedere il loro riconoscimento
come internati militari, detenuti o forzati.
I
n secondo luogo si deve allestire in questo memoriale centrale un archivio fotograf ico, che documenti i luoghi, o almeno
quelli di maggiore importanza, nei quali gli
internati militari prestarono lavoro coatto. Al
fine di dare un volto agli internati militari è
necessario ricercare soprattutto fotografie risalenti al tempo di guerra, attraverso le quali
divenga possibile identificarli.
In terzo luogo nel memoriale centrale deve
essere allestita una mostra permanente sulla
storia degli internati militari, che possa offrire un quadro delle loro condizioni di vita
e di lavoro. Tale mostra può essere integrata
da altre mostre temporanee e da altre iniziative dirette a documentare singoli aspetti delle
esperienze collettive degli internati militari e
di altri lavoratori coatti italiani.
In quarto luogo il memoriale centrale deve
infine predisporre un servizio d’ informazione centralizzato per tutte le questioni riguardanti gli internati militari. In questo modo è
inoltre possibile promuovere la collaborazione
con le associazioni dei reduci della prigionia
esistenti in Italia, senza le quali, d’altronde,
tale memoriale centrale non potrebbe in alcun modo venir realizzato.
Per promuovere in modo sistematico la ricerca
scientifica sul rapporto tra italiani e tedeschi
durante la seconda guerra mondiale e per assicurare in modo duraturo la diffusione didattica delle conoscenze scientifiche scaturite dal
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Documenti
lavoro di ricerca nelle opinioni pubbliche dei
due paesi, la Commissione propone di istituire una Fondazione italo-tedesca di storia contemporanea, alla quale dovrebbero partecipare
non soltanto alcune istituzioni dei due paesi,
ma anche imprese e organizzazioni, che hanno a suo tempo impiegato gli internati militari in Germania. Essa dovrebbe poter disporre
o di un capitale proprio o ricevere un finanziamento statale duraturo. Con il supporto
di tale Fondazione possono essere promossi
vari progetti scientifici e di didattica della
storia, la cui selezione verrà decisa e valutata da un comitato scientifico italo-tedesco.
A
d avviso della Commissione, tale Fondazione italo-tedesca di storia contemporanea potrebbe promuovere i seguenti progetti:
- Per dare ulteriore impulso alla ricerca sulla seconda guerra mondiale dalla prospettiva
della storia delle esperienze risulta in primo
luogo necessario ampliare in modo sistematico la base documentaria. Ciò riguarda sia i
soldati tedeschi che si trovarono in Italia durante la seconda guerra mondiale, sia la popolazione civile italiana che ha vissuto il periodo
dell’occupazione tedesca. In una seconda fase
questo materiale autobiografico deve essere
adeguatamente inserito e valutato all’interno
del più vasto contesto storico e collegato al
patrimonio di documenti conservato dalle diverse istituzioni pubbliche dei due paesi. La
Commissione raccomanda di duplicare il materiale così raccolto e di renderlo disponibile
al pubblico in entrambi i paesi; ciò richiede
accordi a lungo termine tra la Fondazione e le
competenti istituzioni italiane e tedesche, al
fine di rendere disponibile in modo duraturo
tale materiale.
- Una particolare lacuna per il lavoro della
Commissione è stata la mancanza di una rappresentazione complessiva degli eventi bellici
in Italia tra il 1943 e il 1945. La Commissione
ritiene pertanto urgente avviare un tale grande progetto, collocandone al centro il rapporto sempre carico di tensioni tra la storia complessiva degli eventi bellici e la storia delle
singole esperienze individuali.
- In stretta connessione con questo progetto
appare necessario valorizzare in modo sistematico la banca dati predisposta dalla Commissione sugli atti di violenza compiuti in
Italia dalle forze armate tedesche, al fine di
svilupparla e di completarla predisponendo
una Atlante della violenza, nel quale si potrà
illustrare quali dimensioni abbia assunto in
Italia la politica della violenza perseguita dal
nazionalsocialismo e quali unità militari vi
furono coinvolte più di altre.
- Oltre a questi progetti di ricerca a lungo
termine la Fondazione, ad avviso della Commissione, può inoltre promuovere una adeguata traduzione, a livello di didattica della
storia, delle nuove conoscenze storiche acquisite in un ambito italo-tedesco. La Commissione stessa ha già discusso il progetto di una
mostra itinerante sulla storia italo-tedesca
durante il periodo dell’Asse Roma-Berlino,
che potrebbe circolare in Italia attraverso i
Goethe-Institute e in Germania attraverso gli
Istituti Italiani di Cultura.
- A parere della Commissione sono inoltre di
particolare importanza l’assegnazione di borse di studio e l’organizzazione permanente di
Summer School dedicate alla storia contemporanea italo-tedesca. Esse possono indurre
studenti italiani e tedeschi a occuparsi sempre più adeguatamente della storia contemporanea dell’altro paese, così da contrastare in
modo efficace il sempre più forte disinteresse
verso la storia transnazionale in atto nei due
paesi.
- A fronte del regresso della conoscenza della lingua dell’altro paese risulta inoltre molto
utile anche l’istituzione di un apposito fondo
per le traduzioni, attraverso il quale potrebbe essere sostenuta la reciproca traduzione di
pubblicazioni scientifiche dedicate alla storia
contemporanea italo-tedesca.
- In collaborazione con la Arbeitsgemeinschaft
fiir die neueste Geschichte Italiens in Germania e con la Società Italiana per la Storia
Contemporanea dell’Area di Lingua Tedesca
in Italia, la Fondazione italo-tedesca di storia
contemporanea potrebbe istituire un comune
forum storico, nel quale gli storici contemporanei di entrambi i Paesi potrebbero comunicare regolarmente tra loro. Questo forum
storico potrebbe analizzare quei problemi che
tornano ad emergere nel discorso politico e
che possono trovare una adeguata spiegazione solo attraverso un approfondito rapporto
con la storia.
A
d avviso della Commissione l’insieme
coordinato delle proposte qui avanzate
rappresenta lo strumento migliore per il
superamento di stereotipi consolidati in Italia e in Germania e per l’elaborazione delle
incomprensioni e dei traumi provocati dalla
guerra, dall’occupazione e dalle deportazioni. Italiani e tedeschi potrebbero così aprirsi a
nuovi orizzonti di collaborazione nello spirito
delle convinzioni europee, che i Ministri degli Esteri di entrambi i paesi hanno ricordato
al momento di istituire la Commissione.
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