ISSN 0031-3130 Patria I N D I P E N D E N T E Periodico dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia Al voto al voto La grande corsa ANNO LXII GENNAIO 2013 [3 EURO] N 1/2013 | POSTE ITALIANE SPA SPEDIZIONE IN A.P. D.L. 353/03 (CONV. 46/04) ART. 1, COMMA 1 DCB FILIALE DI ROMA Sommario Patria Indipendente Editore Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (A.N.P.I.) Sede legale Via degli Scipioni, 271 - 00192 Roma Direttore editoriale Carlo Smuraglia Editoriale Monti si fa il partito. Pd e Pdl rifanno i conti di Bruno Miserendino.......2 Primo Piano Direttore responsabile Wladimiro Settimelli Camusso: «Se non si riparte dal lavoro l’anno nuovo sarà terribile» di Natalia Marino.........................................................................................5 Comitato di Redazione Fulvia Alidori, Umberto Carpi, Enzo Fimiani, Andrea Liparoto, Diego Novelli, Marisa Ombra, Gianfranco Pagliarulo Interviste Segretaria di redazione Gabriella Cerulli ,PSDJLQD]LRQHHJUDÀFD Nuovasocieta.it Associati Abbonamenti Annuo € 25 (estero € 40) Sostenitore da € 45 versamenti in c/c postale n. 609008 intestato a: PATRIA indipendente Arretrati: € 5,00 a copia Per i parenti delle vittime delle stragi naziste dalle carte ancora dolore. Parla l’avvocato di parte civile Andrea Speranzoni di Toni Rovatti....8 Attualità ANPI: in 150 piazze italiane la giornata del tesseramento di Andrea Liparoto.......................................................................................12 3URÀOL Joyce Lussu, la partigiana cittadina del mondo di Maurizio Orrù...14 Tra memoria e storia Ada e Carlo Venegoni sposi tra carcere e confino di Dario Venegoni..16 1943 nel cuore di Roma. Ricercati, militari ed ebrei rifugiati dietro il rosone della chiesa di Mauro De Vincentiis.........................21 Direzione, Redazione, Amministrazione Via degli Scipioni, 271 - 00192 Roma Tel. 06 32.11.309 - 32.12.345 Fax 06 32.18.495 E-mail: [email protected] [email protected] Cultura e Arte Iscritto al n. 2535 del registro stampa di Roma il 4 febbraio 1952 e nel registro nazionale della stampa con il n. 1032 il 23 settembre 1983. Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione (ROC) con il n. 6552. Cinema L’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità GLULFKLHGHUQHJUDWXLWDPHQWHODUHWWLÀFDROD cancellazione, scrivendo a: PATRIA indipendente Via degli Scipioni, 271 - 00192 Roma Le informazioni custodite nell’archivio elettronico dell’Editore saranno utilizzate al solo scopo di inviare la rivista o altre comunicazioni concernenti l’abbonamento (Decreto Legislativo 30 giugno 2003, n. 196 sulla tutela dei dati personali). Sparisce «Belfagor» e la cultura è ancora più povera di Umberto Carpi..20 Itinerari della Resistenza Ricordando il medico-partigiano Felice Cascione. Tra quei sentieri nacque “Fischia il vento” di Roberto Moriani..........................................24 Cinema islamico: i giovani vogliono cambiare di Serena D’Arbela..27 %LEOLRWHFD............................................................................................ 29 &URQDFKH.................................................................................................34 Dai nostri lettori.......................................................................................38 6XOÀORGHOUDVRLR......................................................................................40 Al centro della rivista: il testo integrale del «RAPPORTO della Commissione storica italo-tedesca insediata dai Ministri degli Affari Esteri della Repubblica Italiana e della Repubblica Federale di Germania il 28 marzo 2009» sulle stragi nazifasciste in Italia e sugli Internati Militari Italiani (IMI) in Germania. La testata fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 250. Stampa 'XzJUDÀVQFSUHVVR$UWL*UDÀFKHVUO Via Vaccareccia 57, 00040 Pomezia-Roma WHOHPDLOLQIR#GXRJUDÀFRP Iscritto all’Unione Stampa Periodica Italiana Questo numero è stato chiuso il 04/01/2013 Le elezioni sono ormai alle porte e la situazione politica del Paese è in pieno sommovimento. Ne parla ampiamente, nell’editoriale, il nostro Bruno Miserendino. Per questo abbiamo scelto una COPERTINA simbolica che presenta la battaglia politico-elettorale come una JUDQGHHLPSRUWDQWLVVLPDJDUDVSRUWLYDFRPEDWWXWDÀQR DOORVSDVLPRHFRQXQDYLWWRULDDO´IRWRÀQLVKµ Editoriale IL MOMENTO POLITICO A DUE PASSI DALLE ELEZIONI Monti si fa il partito Pd e Pdl rifanno i conti Il professore è in campo e attrae consensi. Rischia di rifare una piccola '&3ULPRHIIHWWRURWWXUDFRQ%HUOXVFRQL/DORWWDFRQWUR´$OED'RUDWDµ di Bruno Miserendino P ochi soldi da spendere, poche certezze. È stato un Natale povero. Non che gli italiani si aspettassero granché, ma a volte un po’ di speranza sul futuro aiuta. Invece, a feste finite, nonostante gli incoraggiamenti di rito, le uniche cose chiare su questo inizio di 2013 sono due: la prima è che la crisi morderà ancora per diversi mesi, la seconda è che il 24 febbraio si vota. Unica consolazione: la campagna elettorale sarà breve. Il resto, politicamente parlando, è ancora confuso. L’incertezza è aumentata col tormentone natalizio che ha visto il professor Monti travestirsi da Amleto. Scende in campo, non scende. Si candida, non si candida. Fa una lista, non la fa. Ha dei dubbi, non vuole dispiacere a Napolitano che lo vuole super partes. È passato Natale, e il professore ha lasciato volutamente un margine di ambiguità. Vuole scendere, anzi “salire in politica”, ma sul come sta ancora decidendo. Ogni giorno, però, fa un passetto avanti e se i segnali lanciati negli ultimi giorni del 2012 sono veri, dietro la formula asettica dell’agenda di impegni e di riforme per l’Italia e l’Europa, lanciata a Natale, si intravede la nascita di un vero e proprio partito Monti. In cui confluiscono per ora i centristi di Casini, Fini, Montezemolo più i ministri Passera e Riccardi. Il dado, dunque, è tratto, Monti è in campo e già questo è un terremoto con cui tutti i contendenti devono fare i conti. Gli effetti di questo ingresso nell’agone politico non si misurano facilmente. I sondaggi all’inizio premiano sempre le novità, poi si assestano. Però potenzialmente un listone Monti PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 può prendere un 20% dei voti. Una piccola Dc. Il professore attrae consensi trasversali, come si vede dalla piccola migrazione di parlamentari di entrambi gli schieramenti pronti a salire sul suo carro. E attrae elettori di centrosinistra e centrodestra perché presso l’opinione pubblica può far valere ancora, nonostante stangate e tasse, la sua figura di tecnico autorevole che ha salvato l’Italia dal baratro. Vuole “rinnovare la politica”, dice. E questo piace. In più ha l’appoggio della Chiesa e delle can- cellerie europee. Il partito Monti va, ma questo pacchetto di consensi e appoggi autorevoli non gli garantisce automaticamente il ritorno a palazzo Chigi. Adesso tocca ai cittadini scegliere e poi ai partiti e lui sa che potrebbe essere premier solo se lo volesse anche il Pd. E infatti il suo scenario ideale l’ha spiegato bene nella conferenza di fine anno. Gli piacerebbe tornare a palazzo Chigi come capo di una vasta coalizione che comprenda il Pd e il variegato centro, più i transfughi moderati del Pdl, che Da sinistra, Angelino Alfano, Pier Luigi Bersani e Pier 2 Editoriale escluda tutti i populisti antieuropeisti, da Berlusconi, alla Lega a Grillo. Ed escluda, possibilmente, anche Vendola. Poiché sa che il centrosinistra ha già un suo programma e un candidato premier che se vince non può farsi da parte per un accordo di palazzo, perché vorrebbe dire prendere in giro i tre milioni di cittadini che hanno votato alle primarie, Monti deve tenere un profilo alto, non da semplice capo partito, per tenersi aperti anche altri ruoli e altre strade. Del resto, come si sa, per lui si parla di Quirinale. arebbe ingeneroso, però, ridurre tutto a fumisterie democristiane. Il professore, anche se non è chiaro come farà il suo listone, qualcosa di forte l’ha detto. Ha disegnato un nuovo bipolarismo. Ha criticato la sinistra radicale, e la Cgil, bollandoli come “conservatori”, soprattutto ha spiegato bene agli italiani, che stentano ancora a capirlo, perché Berlusconi non può rappresentare i cosiddetti moderati. È assurdo che se ne parli ancora, dopo 20 anni, e dopo un tramonto infinito, ma il Cavaliere S Ferdinando Casini è lì. Con le solite promesse, con l’invasione televisiva, con le invettive contro il complotto planetario che vuole affossarlo. Uno spettacolo triste che continua a far male all’Italia. Monti ha spiegato che il bipolarismo europeo è necessariamente fatto da un centrodestra liberale e costituzionale, e da un centrosinistra riformatore. Non c’è spazio per demagoghi e populisti, se il continente vuole un futuro. Il professore ha spiegato che all’estero Berlusconi ha incassato solo sorrisetti di commiserazione. Ha detto che è un irresponsabile a promettere l’abolizione dell’Imu, “perché chi venisse un anno dopo, dovrebbe raddoppiarla”. Ha concluso affermando che le sue giravolte sono state tali e tante da risultare “mentalmente incomprensibili”. Ovvio che per Berlusconi, che prima l’ha affossato e poi ha fatto finta di volerlo come capo dei cosiddetti moderati, Monti è diventato l’uomo nero, il killer mandato dalle cancellerie europee, un traditore al pari di Casini e Fini che lui vede bene come ministro delle fogne. La rottura è definitiva. E pesa. el resto Berlusconi non pensa di vincere. Conta di raggiungere il 23-25% dei voti, riprendendosi un po’ del suo vecchio elettorato disperso tra astensionismo e Grillo, per poi rifare l’alleanza con la Lega. Come nel 2006, quando volle il porcellum, l’obiettivo è rendere ingovernabile la possibile vittoria del centrosinistra. Perché in parlamento, anche con l’ingresso di Grillo, si formerebbe comunque una grande minoranza antisistema che avrebbe un filo comune: la guerra all’Europa, all’euro, alle banche, alle istituzioni ingessate che bloccano la crescita, in nome di meno tasse e meno vincoli. E naturalmente meno Costituzione. Berlusconi si intesterebbe la leadeship virtuale di questo vasto schieramento e potrebbe ritirarsi sentendosi vincitore, anche senza esserlo. Questo quadro non fa certo sorridere il centrosinistra. Dopo le primarie Bersani aveva avvertito i suoi: “Ci faranno sgambetti da tutte le parti”. E in effetti un elettorato spezzato in 4 blocchi (Pdl-Lega, Grillo, Monti, centrosinistra) non è il massimo per la governabilità. Al momento il centrosi- D 3 L’ex premier Mario Monti nistra resta alto nei sondaggi (Pd 2732% più Sel 5-7%, più il Psi all’1,5%). Avrebbe dunque la maggioranza alla Camera, per il premio previsto dal porcellum, ma non al Senato dove il pronto soccorso del centro montiano sarebbe indispensabile. E qui, proprio sull’agenda Monti, e sul rapporto col professore potrebbero nascere le prime crepe nella coalizione e all’interno dello stesso Pd. È vero che sia il centro che il centrosinistra hanno come riferimento l’Europa. Però un conto è prendere per buona l’agenda Monti così come è, un conto è lavorare in Italia e all’interno dell’Europa per imporre politiche che permettano più crescita, più equità più redistribuzione. I punti di contatto del programma del centrosinistra con il manifesto Monti, che poi non è altro che l’applicazione degli impegni assunti dall’Italia con Bruxelles, sono maggiori delle differenze. A cominciare da salario minimo, patrimoniale, lotta all’evasione fiscale. Però si sa che nel dettaglio si nasconde il diavolo. Un’avvisaglia si è vista già prima di Natale quando Monti è andato alla Fiat a prendersi gli applausi di una platea selezionata di operai, con Marchionne ed Elkann in prima fila. Lì la Cgil non c’era, ma quando si tratterà di fare le politiche per il lavoro e le imprese, Bersani e Vendola potranno sposare la linea Marchionne? Tutti questi ragionamenti su numeri e scenari, non tengono conto di una variabile imponderabile negli effetti: nel paese sono forti stanchezza, rabbia, disillusione, legittimo risentimento contro la politica e i partiti (che non sono riusciti nemmeno a riformare la legge elettorale). È la situazione più facile per chi parla alla pancia del paePATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Editoriale se, per chi vuole solo abbattere, senza proporre. È quello contro cui combatte Napolitano, ormai giunto alla fine del suo settennato. Ma politicamente parlando, il rischio Grecia resta alto. Non solo per la frammentazione e la divisione sul crinale pro-contro Europa, ma persino per il possibile rigurgito di formazioni neonaziste. Grillo l’ha detto qualche settimana fa: se non ci fossimo noi, ci sarebbero i nazisti col passo dell’oca. Nel senso che ci sarebbe “Alba Dorata”. La logica “accetta me se no viene uno peggio”, è un po’ triste, ma è il segno dei tempi. Peraltro il rischio che si presenti qualcosa di simile anche nel nostro paese, non è scongiurato, se il presidente del La sezione italiana di Alba Dorata Forum democrazia e sicurezza del Pd, Emanuele Fiano, ha iniziato una raccolta di firme per l’applicazione piena della Costituzione e della legge Mancino del ’93 in fatto di costituzione di gruppi che si richiamano al fascismo e al nazismo. L’obiettivo è proprio fermare una versione italica di Alba Dorata, che si è già presentata sul web. Ecco il programma: “Pulizia radicale di tutti i rifiuti tossici della società, salvare le cose giuste fatte da Mussolini”. Sul sito sono comparse facce di politici italiani con la stella di David in fronte, insulti contro Vendola in quanto omosessuale, nonché articoli per minimizzare la Shoa. Un campionario triste e noto, che sembra impossibile possa fare presa in Italia. Però nemmeno in Grecia sembrava possibile che finissero in parlamento i neonazisti. Invece ci sono e hanno più voti di Casini in Italia. Meglio firmare e vigilare. Che almeno questo ci venga risparmiato. COMMA 22 ALBA DORATA E IL PARADOSSO SUI FASCISTI Perché “Comma 22”? È il titolo di un romanzo di Joseph Heller e dell’omonimo film (1970) di Mike Nichols. Tratta di un militare che cerca di fuggire dal mostruoso non senso della guerra dichiarandosi pazzo, ma si trova intrappolato da un inflessibile comma del regolamento che suona più o meno così: “Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo”. Proviamo ad applicare lo stesso paradosso alle interpretazioni della XII Disposizione Finale della Costituzione: “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. Va da sé, essendo vietata sotto qualsiasi forma, che non è necessario chiamarsi “partito fascista” per rappresentare tale forza politica. Ciò che conta sono i princìpi, i valori, i programmi, i simboli, le storie, i comportamenti. Eppure forze che mutuano in modo più o meno largo princìpi, valori, programmi, simboli, storie, comportamenti che si rifanno al partito fascista, scorrazzano impunite in lungo e in largo sulla penisola, negando risolutamente la loro matrice politica ed ideale, o mitigandola, o “modernizzandola”. Vale, fra i molti esempi, per Casa Pound, abbondantemente foraggiata dal Sindaco di Roma Gianni Alemanno, vale per Forza Nuova, vale, da oggi, anche per Alba Dorata, che nelle scorse settimane si è costituita in partito politico. No, non in Grecia; lì c’è già, ha i suoi parlamentari e i suoi squadristi (spesso sono le stesse persone). Qui, in Italia. Il suo simbolo? “Alba Dorata – si legge sul suo sito internet – utilizza il simbolo della greca o meandro perché simbolo conosciuto della Grecia culla della civiltà europea”. Si tratta in sostanza di una rielaborazione grafica della svastica, lo stesso simbolo dei camerati ellenici. Solita mitologia “classicheggiante”, solite credenziali più o meno fondamentaliste (“Alba Dorata difende e promuove il cristianesimo in tutte le sue forme e modi”), solite dichiarazioni d’intenti (“né di destra, né di sinistra, né di centro”), per segretario un certo Alessandro Gardossi, definito dal giornale online Agora Vox Italia “ex leghista ed ex forzanovista triestino”. Cosa avvicina la neonata formazione italiana al partito greco, tristemente noto per spedizioni punitive, pestaggi e devastazioni? L’obiettivo: “L'obiettivo comune è fare in modo che il mostro dittatoriale neocomunista legato alle banche travestito da liberismo democratico sia scoperto dai popoli europei”. Come si vede, idee chiare e distinte. Naturalmente, a loro dire, non sono razzisti, né nazisti, né fascisti. Ed ecco l’ideale Comma 22, che rende drammaticamente inapplicata la Costituzione repubblicana: “È vietato costituire un partito che, per princìpi, valori, programmi, simboli, storie, comportamenti, si riferisca al partito fascista, perché ciò vuol dire ricostituire sotto altra forma il disciolto partito fascista. Ma se si costituisce un partito che, per princìpi, valori, programmi, simboli, storie, comportamenti, si riferisce al partito fascista, ciò non vuol dire ricostituire sotto altra forma il disciolto partito fascista”. C’è qualcosa che non va. Zazie PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 4 Primo Piano LA CGIL PER PRIMA HA GIÀ LANCIATO L’ALLARME Camusso: «Se non si riparte dal lavoro l’anno nuovo sarà terribile» La crisi dei grandi impianti industriali e l’altissimo numero delle aziende a cassa integrazione. I giovani che non riescono ad entrare nel mondo GHOODYRUR´&RQO·$13,ULFRUGHUHPRJOLVFLRSHULGHOµ di Natalia Marino U n piano per creare lavoro, unica strada per dare possibilità e futuro all’Italia, puntando su un diverso modello di sviluppo. La CGIL presenterà a gennaio 2013 la sua proposta, anzi la sua visione, come fece Giuseppe Di Vittorio nel 1949, per ricostruire il Paese dalle macerie della guerra. E oggi per uscire dalle rovine della crisi economica. «Il bilancio dell’anno appena trascorso è sotto gli occhi di tutti: per l’Italia il 2012 è stato disastroso – spiega Susanna Camusso, segretario generale della CGIL – e a rimetterci di più sono state, come al solito, le categorie di cittadini più esposte. Lavoratori, pensionati e disoccupati si sono visti sottrarre reddito e opportunità». La crisi internazionale morde i Paesi occidentali da oltre quattro anni ma, secondo il segretario, sui conti del nostro Paese pesano come macigni le scelte politiche degli ultimi esecutivi. «Il governo Berlusconi ha sprecato tre anni intestardendosi a negare la gravità delle ripercussioni della crisi globale su un’economia come quella italiana che, già nel 2008, stentava a crescere. Così i problemi si sono sommati e moltiplicati, senza che nessuno intervenisse». Ricordate? Il refrain era sempre lo stesso: il problema non dipende da Susanna Camusso, segretario generale Cgil noi, le nostre banche sono più solide di quelle straniere, gli italiani sono un popolo di risparmiatori, possiamo far fronte ai nostri impegni. E il ministro dell’Economia Giulio Tremonti che, fino a pochissime settimane prima della deflagrazione della bolla immobiliare e finanziaria negli Stati Uniti affermava che per far ripartire il nostro Paese bisognava fare più debito, innestava una clamorosa retromarcia. In un batter d’occhio smetteva i panni di sostenitore della finanza creativa e delle ricette miracolose, come quella di vendere il pa- 5 trimonio dello Stato, per indossare il costume di un avaro molieriano che tiene ben stretti i cordoni della borsa, anzi nasconde la cassaforte sotto il letto. Mentre il suo principale crapulone folleggiava e aboliva l’ICI sulla prima casa, che oggi abbiamo restituito con interessi salatissimi. «Il Governo Monti, poi – continua Camusso – ha peggiorato nettamente la situazione con una politica di rigore declinata solo sui tagli (ospedali, scuole, amministrazioni locali), riducendo i servizi pubblici e determinando un aggravamento delle condizioni soggettive ed economiche delle persone. Un impoverimento dettato anche dalla tassazione di pensioni e redditi da lavoro, di famiglie spesso già in sofferenza per la cassa integrazione, la mobilità, la disoccupazione. Il dato economico è diventato oggettivamente il dato del malessere sociale. Tutto questo senza che chi governa abbia idea di come ripartire». Un rigore a senso unico, che ha subito attinto alle tasche dei soliti noti, promettendo per l’ennesima volta la stretta finale sull’evasione fiscale. Ma i blitz della Finanza a Cortina, insieme agli spot del Ministero sui parassiti sociali, oltre a fornire una rappresentazione del mutato clima, avranno PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Primo Piano un seguito effettivo nei confronti dei grandi capitali sconosciuti alle casse dello Stato? Quella che è sicuramente mancata all’azione del governo è stata una sacrosanta lotta agli sprechi, in primo luogo quelli della politica, i più invisi ai cittadini. La diminuzione del numero dei Parlamentari, invocata a parole da quasi tutti, è di là da venire. Il taglio delle province, seppure approvato, è in alto mare, minacciato da una pioggia di ricorsi. Annidate nei gangli politico-amministrativi degli enti locali, sull’esempio di una grandeur berlusconiana che nel frattempo andava in pezzi, le spese folli sono continuate in una versione, se possibile, ancora più becera. In nome di una malintesa sussidiarietà orizzontale, prevista per avvicinare le istituzioni ai cittadini e al loro controllo. E oggi venute alla luce non per una netta azione di governo, ma per le inchieste della magistratura e, spesso, per ripicche e vendette di chi meno riusciva ad arraffare. ntanto il Paese andava in pezzi. Lasciato solo, escluso. I dati lo hanno confermato e lo confermano: il debito pubblico del nostro Paese, svettato a 2.000 miliardi, misura quanto non si sia nemmeno riusciti a raggiungere quell’abbattimento all’origine del programma e dell’intervento del governo Monti. «Non si può guidare l’Italia, Paese tanto complesso – afferma Susanna Camusso – coi manuali di testo. Governare le condizioni concrete è ben altra cosa. Bisogna smettere di pensare che i tagli siano sempre un risparmio, perché si trasformano in maggiori costi sociali e più alti costi economici, magari in altri settori. Come quando bisogna spendere montagne di soldi per i danni dopo un’alluvione, perché non si è investito sulla prevenzione». L’immagine che forse più di altre riassume l’Italia ferita è quella delle migliaia di esodati: «Una vicenda che ha mostrato al mondo i limiti del governo dei tecnici, che dovevano mettere a posto il Paese e invece non sono stati capaci di dare risposte a persone in carne e ossa. E sono centinaia di migliaia». Uomini e donne che non si sarebbero sentiti dimenticati e abbandonati ai loro grandi problemi quotidiani. I PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 «La proposta della CGIL di detassare le tredicesime recuperando i fondi dall’evasione fiscale non avrebbe certo inciso sulle ragioni strutturali della crisi, ma poteva essere un segnale di fiducia per i cittadini. Invece si è concentrata l’attenzione e la preoccupazione solo sulle variabili macroeconomiche. È stata una scelta politica ben precisa dei governi europei, e niente affatto nuova. La cosiddetta logica del rigore ha rieditato concetti di reaganiana e thatcheriana memoria: ad esempio, quello che la scuola di Chicago chiamava “affamare la bestia” (cioè noi, ndr). Alla base c’è l’assunto assurdo che la disuguaglianza possa essere motore di sviluppo. Mentre la crisi mondiale documenta il fallimento del modello capitalista per cui la ricchezza da sola è capace di creare altra ricchezza». Sulle fosche previsioni per il 2013, senza un cambio di rotta, la CGIL ha lanciato l’allarme per prima, inascoltata o smentita. Fino a quando ancora una volta a parlare è stata l’evidenza e si è cominciato a ventilare che la ripresa slitterà al 2014: lo sport da tempo praticato di allontanare progressivamente il traguardo. «Dal nostro punto di osservazione – continua il Segretario – potevamo smentire tutte le previsioni di ripresa nei prossimi mesi, perché se non si riparte dal lavoro non ci sono chances. Il prossimo anno sarà terribile, ce lo dice la messa in discussione dei grandi impianti industriali, l’altissimo numero di aziende in cassa integrazione in deroga, le difficoltà del commercio con tanti esercizi che chiudono, le rilevazioni mensili sui dati dei senza lavoro». Gli indici sono tutti negativi: sono tre milioni i disoccupati e altrettanti i lavoratori costretti a prestare manodopera in nero. Gli Osservatori del sindacato documentano più di un miliardo di ore di cassa integrazione da gennaio a novembre 2012; 520 mila lavoratori in Cig a zero ore; il taglio del reddito, al netto delle tasse, arriva in totale a 3,8 miliardi. Ancora: ammontano a 15 milioni gli italiani inattivi (il 48,7% donne), due milioni sono i giovani che non lavorano e neppure studiano. «I nostri ragazzi che non riescono a entrare 6 nel mondo del lavoro – spiega Camusso – sono l’altra faccia della stessa medaglia rispetto a coloro che ne vengono brutalmente buttati fuori. Per ripartire, in queste condizioni, non basta il rigore. Occorre una redistribuzione della ricchezza e investimenti mirati al posto dei tagli ciechi. E, soprattutto, un nuovo modello di sviluppo, altrimenti la crisi non potrà avere fine. Ad ora, invece, non ci sono mai state risposte rispetto al futuro. Si è agito sempre nell’emergenza, mai per immaginare un domani differente». Compito di un grande sindacato, che ha esercitato un ruolo determinante nella storia del Paese e che oggi si trova a dover agire in uno scenario globale, per farsi portatore delle nuove istanze sociali è comprendere a fondo le missioni da assolvere. Nel librointervista a Susanna Camusso Il lavoro sommerso, a cura di Stefano Lepri (Laterza, 2012), si affronta un tema delicato: il rapporto tra padri, madri (e anche nonni) e giovani generazioni. «Il rischio peggiore, in una stagione come questa, è nella vecchia logica che la mediazione debba essere trovata all’interno della famiglia, costretta a supplire alla mancanza di servizi, asili nido, protezioni e ammortizzatori sociali. La soluzione non va cercata in termini di solidarietà interna, spalmando in ambito familiare quel poco che si ha a disposizione. Togliere ai padri per dare ai figli è un concetto sbagliato, legato all’idea che il welfare e i diritti sul lavoro siano un costo e non una risorsa. Si devono costruire le condizioni per non obbligare i giovani a restare nel nucleo familiare d’origine fino a 35 anni». Che Camusso auspichi alle prossime elezioni la vittoria del centrosinistra, lo si sa. Cosa dovrebbero fare nuovo Parlamento e nuovo Governo per mostrare al più grande sindacato italiano che si è imboccata la strada giusta? «Va detto che scorciatoie non ce ne sono, la risalita sarà lunga, faticosa ma, innanzitutto, va archiviato il neoliberismo. Poi si possono adottare subito alcune misure a costo zero, ne voglio indicare in particolare tre. Primo: riformare la normativa sugli appalti che ha permesso finora alla cri- Primo Piano minalità di infiltrarsi nel mondo produttivo. Seconda mossa: una norma che tuteli la rappresentanza sindacale, per recuperare il grave arretramento della democrazia, sospesa e messa alla porta nei luoghi di lavoro in questi anni. La terza misura dovrà cambiare la norma-emblema del governo Berlusconi: l’art. 8 della legge approvata nell’agosto 2011 che con la contrattazione territoriale ha permesso di derogare a gran parte della legislazione nazionale sul lavoro, comprese le modalità di assunzione e licenziamento. Il Partito democratico ha già presentato una proposta legislativa che va in questa direzione. Ritengo anche giunto il tempo di una seria riforma fiscale, ma spetta ai partiti inserirla nei programmi elettorali. Noi guarderemo ai fatti. Bisogna però comprendere che creazione di posti di lavoro e redistribuzione del reddito devono andare di pari passo: costituiscono i due capisaldi che valuteremo per giudicare l’azione del nuovo esecutivo». er il numero uno della CGIL bisogna guardare a un’altra Italia, in grado di dare segnali positivi, basterebbe raccoglierli e sostenerli. Come il progetto per il petrolchimico di Porto Torres, che riconvertirà alla chimica verde il polo sardo. Un esempio, piccolo forse, ma emblematico, per generare prospettive e valorizzare le nostre straordinarie potenzialità, contro il giudizio diffuso che dipinge un’Italia dell’improvvisazione, costruita senza neppure un’idea di Paese. «Non tutto il mondo produttivo italiano è come la Fiat – dice la Camusso – che ha scelto di aggredire frontalmente le tutele. Esistono realtà dove, nonostante le difficoltà, si sono ottenuti miglioramenti sul piano contrattuale e su quello dei diritti. La visione della fabbrica torinese è stata favorita dalla crisi e dalla mancanza di lavoro. Dunque la premessa per ripartire è creare lavoro. E lavoro di qualità, l’unico modo di sviluppare la ricchezza di pari passo alla soddisfazione e all’emancipazione delle persone. Per questo tutele e creazione di lavoro devono procedere insieme. Una volta per tutte: la lunga stagione della finanza P Manifestazione Cgil a Roma che moltiplicava i capitali per magia è definitivamente tramontata». Nel 2013 ricorreranno 70 anni dagli scioperi nelle fabbriche del Nord. Qual è il senso più attuale di ricordare quanto accadde nel ‘43? «Con la Fondazione Di Vittorio e l’ANPI stiamo mettendo a punto una serie di iniziative, ma abbiamo già cominciato da tempo a ragionare sul contributo che il mondo del lavoro, con gli scioperi del 1943-’45, ha portato alla Resistenza, alla Lotta di Liberazione dal nazifascismo. L’Articolo 1 della Costituzione dice che la Repubblica Italiana è fondata sul lavoro: ogni cambiamento, ogni passo verso la conquista della democrazia nel nostro Paese è stato sempre scandito dalla mobilitazione dei lavoratori. Celebrando il 150° dell’Unità, mettendo in relazione Risorgimento e Resistenza, abbiamo ricordato i lavoratori sulle barricate nelle giornate di Bava Beccaris e a Marsala». Risalire le tracce di questo protagonismo porta a comprendere che il percorso per la dignità e l’emancipazione, in realtà, non finisce mai. «È proprio così. Riguardando volantini e piattaforme degli scioperi del ‘43-‘45 si trova, per esempio, la rivendicazione della parità di salario tra uomini e donne. Così scopriamo come un tema che sembrerebbe comparire molto dopo, comunque dopo la Liberazione e la Costituzione, era già fortemente percepito. Si trattava delle richieste provenienti dal mondo 7 femminile che aveva sostituito nelle fabbriche gli uomini spediti in guerra. La difesa delle fabbriche dagli occupanti rappresenta anche una battaglia per la retribuzione e la qualità del lavoro, riafferma il legame imprescindibile tra lavoro e vita delle persone. È questo il messaggio che ci arriva chiaro e forte anche da quelle vicende: senza il lavoro non si va da nessuna parte, mai». A Genova, il 4 ottobre 1949, durante il secondo congresso nazionale della CGIL dalla fine della guerra, il segretario Giuseppe Di Vittorio annunciava il “Piano economico costruttivo” che la Confederazione proponeva al governo e al Paese per uscire della grave crisi economica in cui versava l’Italia. Un piano che coniugava le richieste e le necessità dei lavoratori a quelle dei disoccupati, tracciando un modello di sviluppo economico ed emancipazione sociale per un Paese ancora in gran parte analfabeta, fatto di poveri braccianti e operai sfruttati. Ricominciava così una mobilitazione nuova, determinata, corale e democratica per il lavoro, il salario, i pari diritti di donne e uomini. Si rilanciava una stagione di lotta che avrebbe dato i suoi frutti nel tempo, fino allo Statuto dei lavoratori, Il Presidente del Consiglio di allora, Alcide De Gasperi, liquidò la proposta del sindacato: «Piani ce ne sono tanti, mancano i quattrini». Vi ricorda qualcosa? PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Interviste LE DURE ESPERIENZE DELL’AVVOCATO ANDREA SPERANZONI Per i parenti delle vittime delle stragi naziste dalle carte ancora dolore Si è occupato, come parte civile, di Marzabotto, Casalecchio di Reno, Monchio e di tanti altri massacri. La sentenza dell’Aja. Necessaria una risposta concreta dei governi italiano e tedesco di Toni Rovatti S iamo ormai quasi giunti al termine della recente stagione processuale sui crimini di guerra compiuti da reparti tedeschi in Italia durante la seconda guerra mondiale, riapertasi grazie al ritrovamento nel 1994 – nel corso delle indagini relative al processo Priebke – di un’imponente raccolta di documenti d’inchiesta sui crimini nazifascisti; indebitamente trattenuti nel 1947 presso Palazzo Cesi, sede della Procura militare generale a Roma, e in seguito illegalmente archiviati 1. La riscoperta di 695 fascicoli giudiziari relativi a stragi, omicidi e violenze commesse nel corso del conflitto da reparti militari appartenenti all’esercito occupante tedesco o alla Repubblica sociale italiana, ha offerto la possibilità a oltre cinquant’anni di distanza di istruire una nuova serie di processi di grande importanza: sia per la rilevanza penale dei delitti commessi fra il 1943 e il 1945; sia per la definizione di una storia nazionale condivisa. In qualità di avvocato di parte civile, protagonista PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 L’avvocato Andrea Speranzoni di alcuni dei procedimenti di questa fase, qual è il suo giudizio su questa particolare esperienza professionale? H o iniziato a occuparmi dei processi per crimini nazifascisti in Italia tra il 2004 e il 2005, rappresentando le parti civili nei dibattimenti penali per le stragi di Marzabotto, Casa lecchio di Reno (Bologna), Monchio (Modena), Cervarolo (Reggio 8 Emi lia), Ca st a gno d’Andrea (Firenze), Mommio (Massa Ca rra ra), Borgo Ticino (Novara) e infine Fragheto-Casteldelci (Rimini-Forlì). Tra le parti civili che ho assistito vi sono stati numerosi familiari delle vittime, enti pubblici territoriali e l’ANPI nazionale. Lungo questi otto anni di esperienza giudiziaria tardiva per crimini di enorme portata ho avuto modo di misurarmi, oltre che su un numero considerevole di problematiche processuali penali di non frequente verificazione nella vita professionale del penalista, con aspetti deontologici ed esistenziali riconducibili ai familiari delle vittime di prima e seconda generazione, che hanno generato in me numerose domande aprendo ambiti di riflessione inaspettati e complessi. In molti casi, infatti, i superstiti e i familiari delle vittime non erano mai tornati a misurarsi con il ricordo di quei fatti o non erano più stati nei luoghi degli eccidi. Si trattava quindi di chiedere ai miei assistiti di compiere un percorso di ricostruzione della propria esperienza traumatica, indispensa- Interviste bile per il processo, ma per nulla semplice e indolore in una dimensione soggettiva. Queste le domande più frequenti che mi ponevo: «è giusto chiedere a una persona che è stata dimenticata dalla Giustizia per più di sessant’anni di ripercorrere esperienze così lontane, in cui tutti gli affetti più cari e la vita familiare era stata sconvolta da crudeli omicidi? Qual è il significato più profondo che le vittime ricercano nel processo? È doveroso o no raccontare ai miei assistiti pezzi di verità giudiziaria emergenti dalle vecchie istruttorie, che riguardano la morte dei loro cari? Come posso coniugare il dovere deontologico d’informazione del cliente con l’enormità delle crudeltà che vanno emergendo dalla lettura delle carte?» E ancora: «La dimensione del dolore e della riemersione di un trauma in persone tanto anziane non può forse costituire un pericolo dal punto di vista psicologico?». Le risposte a queste domande sono arrivate pian piano ed hanno richiesto delicatezza, sensibilità e rispetto per il diverso modo personale di vivere la dimensione del ricordo su quei fatti. Mentre la chiave di lettura dell’esperienza processuale si andava via via formando, mi rendevo conto pertanto di come fosse intimamente legata alle esigenze di verità e giustizia che le parti civili manifestavano; e come trovasse completa attuazione proprio nel racconto dentro l’aula giudiziaria di quello che era accaduto e di ciò che era stata la vita dopo gli eccidi. Non tutti i casi giudiziari sono tuttavia assimilabili tra loro. Diversi infatti i contesti territoriali, diverso il grado di rielaborazione locale della memoria sui fatti di eccidio, diverso l’approccio con le fratture sociali determinate dai fatti accaduti in un momento storico connotato da importanti fenomeni di violenza politica. La disumanizzazione delle vittime da parte degli autori dei massacri nazifascisti ha, però, comunque ottenuto in ognuno dei procedimenti una risposta di giustizia basata sulla centralità del testimone di quei fatti. Da un punto di vista personale e umano questa esperienza è stata di straordinaria importanza: per i rapporti sviluppati con i miei assistiti, per la forza e i valori che mi hanno comunicato, e per tutto ciò che hanno espresso fuori e dentro le aule giudiziarie; per i racconti sui fatti e sulla vita precedente a essi, e sulle speranze riposte nella Giustizia come momento ricompositivo e di verità. Quali sono stati concretamente i risultati ottenuti a favore delle vittime in oltre dieci anni di indagini e procedimenti dibattuti presso i Tribunali militari? I dieci anni di processi, molti dei quali conclusisi con delle condanne alla pena dell’ergastolo, hanno portato a importanti risultati per quanto concerne l’accertamento di fatti e responsabilità perlopiù sconosciute o solo parzial- mente conosciute. Circa la concretezza dello sconto delle pene detentive da parte degli imputati condannati e dei risarcimenti del danno posti a loro carico (e, in alcuni, casi anche a carico della Repubblica Federale di Germania) ottenuti con le sentenze, l’esperienza giudiziaria li ha stabiliti e sanciti. Successivamente tuttavia non risulta che sia stata data una risposta positiva né alle richieste di estradizione dei condannati formulate dalla Giustizia militare italiana, né tanto meno che sia stato dato seguito alla detenzione in Germania dei condannati. Sul versante dei risarcimenti invece, con la sentenza pronunciata dalla Corte internazionale dell’Aja il 3 febbraio del 2012, i Giudici internazionali – chiamati a esprimersi sull’interpretazione di alcune norme pattizie internazionali – hanno dichiarato che anche di fronte ad un crimine contro l’umanità commesso da un eser- Marzabotto - I resti dell’Oratorio di Cerpiano incendiato dai nazisti 9 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Interviste cito occupante, vale il principio di immunità dello Stato cui appartengono i militari che hanno perpetrato il crimine. In altre parole: non possono essere disposti dei risarcimenti a carico dello Stato per il quale i militari agirono. Vale la pena ricordare che davanti a questa Corte per Statuto gli unici soggetti legittimati a discutere della questione erano i due Stati, non le vittime. E osservare come i giuristi che hanno rappresentato l’Italia davanti alla Corte in questa occasione abbiano speso argomenti ricchi e convincenti, nonostante l’esito. Dunque, in sintesi, l’esperienza giudiziaria militare interna è giunta con grande fatica a fornire delle risposte e a stabilire responsabilità e importanti principi di civiltà giuridica. Gli interventi giudiziari internazionali successivi (o i non interventi nel caso dell’esecuzione delle condanne) suggeriscono, da un lato, la prevalenza dello scudo protettivo rappresentato dall’immunità dello Stato – nel caso specifico la Repubblica Federale di Germania – rispetto alla Giustizia; dall’altro, il primato della volontà politica. Un campo assai complesso in cui l’avvocato di parte civile non ha potuto avere più voce in capitolo. Quali possibili strategie di risarcimento auspica possano essere intraprese in futuro attraverso la definizione di accordi bilaterali fra Italia e Germania? E quali invece, a suo parere, potranno essere i rischi di una soluzione diplomatica della vicenda processuale? L a vicenda processuale ha già trovato una sua definizione. È bene aver le idee chiare su questo. La politica e la diplomazia non potranno incidere sugli accertamenti definitivi interni di ordine penale. Invece l’invito formulato dalla sentenza dell’Aja ai due Stati a trovare una definizione del problema dei risarcimenti penso sarà gestito, nella sostanza, dalle diplomazie italiana e tedesca. È opportuno che la responsabilità di una risposta adeguata a un tema di così cruciale importanza se la assuma, a questo punto, chi governa la politica estera e della giustizia dei due Paesi in questo momento. La risposta concreta della politica alle vittime del nazifascismo credo debba costituire, infatti, un pilastro dell’identità europea. La soluzione diplomatica, se si concretizzerà nei confronti dei familiari delle vittime, sarà certamente una opportunità per loro; non un problema. Quali sono a suo parere i punti di forza, da un lato, e le contraddizioni, dall’altro, di questa inusitata convergenza fra definizione di una verità giudiziaria e definizione di una verità storica? I Il Monumento ai Martiri delle Fosse Ardeatine PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 l rapporto fra storia e processo penale in queste vicende costituisce un intreccio di problematica definizione. Bisogna tuttavia partire da un dato di fatto ineludibile: la trattazione delle responsabilità penali per crimini nazifascisti negli ultimi dieci anni rientra nella categoria del giudiziario, non dello storico. Le verità costruite nelle aule dei Tribunali sono per l’appunto giudiziarie, in quanto governate dalle regole del codice di procedura penale e dalle norme sulla formazione della prova. Vero è che i magistrati che hanno inve- 10 stigato su tali fatti di eccidio e strage si sono avvalsi di consulenti storici al fine di inquadrare i fenomeni e gli accadimenti; ma, mentre nel processo penale lo storico si deve arrestare di fronte alle responsabilità individuali, non è soggetto a questo vincolo né a molti altri quando valuta le fonti nel proprio ambito. Le due verità – processuale e storica – in queste vicende spesso convergono, ma dobbiamo sempre ricordarci che giungono a confluire attraverso due percorsi intrinsecamente diversi. Un atto processualmente irrilevante o inutilizzabile perché tardivo, può ad esempio risultare invece di cruciale importanza per la ricostruzione storica. Quale è stato, a suo parere, il coinvolgimento in questo tipo di procedimenti dell’opinione pubblica non specializzata? C redo che l’opinione pubblica italiana in questi anni sia stata adeguatamente informata su quello che avveniva nelle aule giudiziarie. Numerosissimi sono stati gli articoli di stampa, le trasmissioni televisive e le occasioni di divulgazioni organizzate dalle associazioni dei familiari delle vittime, anche mediante siti internet specializzati. Nonostante questo, la percezione di ciò che si è fatto e ottenuto credo non sia stata né piena, né corretta. Le cause sono numerose: la frammentarietà delle informazioni; l’affermata straordinarietà dell’esperienza; l’età dei criminali; la confusione continua tra l’idea della giustizia e l’idea del perdono; il luogo comune della necessità di “voltar pagina”; la non esatta percezione che un crimine contro l’umanità lascia i propri effetti sulle vittime per l’intero corso della loro vita. Molto di utile è stato, però, fatto. Penso, ad esempio, ai documentari Lo stato di eccezione, Il violino di Cervarolo e La Malora che hanno scelto di mostrare i testimoni nelle aule di giustizia, amplificando la loro voce e i loro racconti. Che effetto ha avuto sull’opinione pubblica costatare che da parte di Interviste collegi giudicanti dei due paesi vi siano stati giudizi sui medesimi imputati, accusati dei medesimi crimini, per mezzo degli stessi elementi di prova non solo diversi, ma addirittura divergenti? L a sentenza di archiviazione tedesca sui fatti di Sant’Anna non ho avuto modo di leggerla. Mi interrogo, però, su come possano essere dichiarati non processabili in Germania per carenza di prove imputati tra i quali erano compresi anche dei rei confessi. Nell’opinione pubblica italiana questa archiviazione ha prodotto dubbi e sconcerto. A livello nazionale la vicenda giudiziaria di Sant’Anna ha, infatti, avuto ben tre vagli di giudizio e una mole di indagini assai imponente con chiari accertamenti di responsabilità concorsuali. La sentenza tuttavia per essere criticata andrebbe studiata. E qualora sussistessero mezzi di impugnazione, gli avvocati tedeschi che difendono lì le vittime dovrebbero impugnarla. Essendo Lei anche coautore di un importante testo su questo tema uscito nel 2012, le chiedo infine di offrirci una chiave di accesso a questo progetto editoriale (apparentemente di profilo strettamente tecnico-giuridico) che ha sviluppato a fianco del procuratore Marco De Paolis e della professoressa Silvia Buzzelli. L a ricostruzione giudiziale dei crimini nazifascisti in Italia. Questioni preliminari, pubblicato dall’editore Giappichelli di Torino, costituisce un primo passo di analisi su un fenomeno giudiziario su cui la comunità scientifica si è poco o per nulla occupata. Il lavoro prende le mosse da una necessità: stabilire un baricentro a questa peculiare esperienza di giustizia, analizzando alcune sue specif iche caratteristiche, la centralità della narrazione da parte delle vittime e il rapporto tra investigazione giudiziaria e ostacoli frapposti alla stessa. Tra le pieghe di un processo, oltre alle problematiche di ordine giuridico, spesso si nascondono chiavi di La traslazione dei resti delle vittime della strage di S.Anna di Stazzema verso il Monumento Ossario, avvenuta nella primavera del 1948 lettura che fuoriescono dallo spazio dell’aula e dei codici e si rivolgono a principi di civiltà e di convivenza tra gli uomini, suggerendo verità inedite e disvelando risposte nuove ai problemi contemporanei. È ora necessario estrapolare da questa esperienza di giustizia categorie concettuali utili allo sviluppo del diritto e al progresso della società democratica. Da questo punto di vista penso ci siano ancora molte porte da aprire. NOTE: 1) Si vedano, tra gli altri: Mimmo Franzinelli, Le stragi nascoste. L’armadio della vergogna: impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti 1943-2001, Mondadori, Milano 2002; Franco Giustolisi, L’armadio della vergogna, Nutrimenti, Roma 2004. Andrea Speranzoni è avvocato del Foro di Bologna. Ha svolto studi ed approfondimenti in materia di tutela 11 della vittima del reato, specializzandosi in diritto penale dei minori e diritto penale militare. Collabora con la cattedra di procedura penale europea e sovranazionale della professoressa Silvia Buzzelli presso l’Università di Milano-Bicocca e dal 2010 con il War Crimes Studies Center dell’Università di Berkeley (California). Tra il 2005 e oggi ha difeso numerose parti civili – parti private ed enti pubblici – nei processi per crimini di guerra perpetrati da militari nazisti tra il 1943 e il 1945 ai danni della popolazione civile italiana. PUBBLICAZIONI: Contesti di strage, Biesse, Venezia, 1996; Le stragi: i processi e la storia, Biesse,Venezia, 1999; Fenomeni di terrorismo. Il terrorismo in Grecia nel periodo 1967-1974, Proskenio, Atene, 2003; La ricostruzione giudiziale dei crimini nazifascisti in Italia, Giappichelli, Torino, 2012 [con Marco De Paolis e Silvia Buzzelli] PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Attualità TANTO INTERESSE INTORNO ALL’ANPI. I NUOVI ISCRITTI In 150 piazze italiane la giornata del tesseramento S di Andrea Liparoto ono stati migliaia, anche quest’anno, i cittadini e le cittadine – tantissimi i giovani – che sono scesi in piazza per incontrare l’ANPI in occasione della giornata nazionale del tesseramento svoltasi domenica 18 novembre in 150 piazze d’Italia. Un successo straordinario, anche sotto il profilo mediatico – l’iniziativa è circolata su gran parte delle testate nazionali, online e cartacee – un momento di prezioso entusiasmo civile che ha permesso all’Associazione, dunque all’antifascismo e alla memoria viva della Resistenza, di raccogliere ad e s ion i, e nuove “ga mbe” per portare avanti due battaglie, in particolare: quella per ottenere finalmente verità giu st i zia Tesseramento ANPI i a Sanremo (in alto) e Milano per le vittime delle stragi nazifasciste – nei gazebo zione, Vincenzo Calò, componente si è potuto così raccogliere firme per della Presidenza del Comitato Prola petizione rivolta al Presidente del vinciale e coordinatore Regionale Senato, lanciata in settembre – e del Lazio: “Al nostro arrivo, alle pril’altra per sensibilizzare il Paese tut- me ore del mattino, già avevamo cato sul fenomeno della crescita dei pito che la giornata sarebbe stata promovimenti neofascisti sollecitando pizia. Un paio di persone attendevano dunque partecipazione e iniziativa. il nostro arrivo leggendo il giornale E la reazione è stata di grande atten- acquistato alla vicina edicola. Volevano iscriversi all’ANPI e firmare la zione e desiderio di approfondire. A Roma, l’attesa era tanta. Ci ha petizione sulle stragi. Erano informascritto, con toni al limite dell’esalta- tissimi e certi della loro decisione. Alla PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 12 mia d om anda del perché avevano fatto quella scelta, mi hanno risposto che non si poteva più stare a guardare alla luce dei tanti, troppi a cca d im e n t i che ormai offendevano la nostra storia. Era di pochi giorni prima la bravata fatta in una scuola di Roma da parte di un gruppo di giovani esponenti di Destra e ancora vivo era il risentimento per l’oltraggio del Sindaco di Affile di voler innalzare un monumento in ricordo del fascista Graziani. A seguire una continua processione civile soprattutto di giovani che non volevano restare indifferenti. I ciclisti si fermavano, un tassista bloccava il traffico per gridarci il suo sostegno e tanta, tanta gente chiedeva d’ iscriversi, di sottoscrivere, di firmare la petizione sulle stragi, ed alcuni chiedevano di abbonarsi a Patria, un po’ per scoprirlo, un po’ per sostenerlo. Pochi lo conoscevano, ora lo conosce qualcuno in più e certo lo apprezza. Una giornalista ci dava il suo sostegno e chiedeva di collaborare. Fino a sera non ci sarebbe stato un solo attimo di respiro. Che bella giornata!”. Così anche a Padova, Reggio Emilia, Sondrio, Forlì e Ascoli Piceno. Milano e Pescara hanno registrato forse la partecipazione più alta, con- Attualità fermata anche dalle centinaia di firme raccolte. L’ANPI modenese – che ha svolto la giornata presso la Camera di commercio alla presenza del Presidente nazionale Carlo Smuraglia – non ha mancato di dare il suo robusto contributo, che si va ad aggiungere a quello già messo in campo fin da agosto: ad oggi sono 3.500 le firme raccolte dal Comitato provinciale. E le Sezioni non sono state da meno: siamo stati informati che a Sanremo in due ore 60 cittadini hanno firmato la petizione. Da segnalare, poi, la capacità e “creatività” organizzativa dell’Associazione. La giornata non è stata solo gazebo, ma anche ulteriori forme e luoghi di incontro che hanno innescato belle prospettive. Come per esempio a San Gavino Monreale, nella provincia di Medio Campidano. Racconta Carlo Marras, Presidente del Comitato Provinciale: “La mattina, una concomitante manifestazione sportiva, che aveva in piazza della Resistenza il punto centrale (partenza, arrivo e premiazioni) è stata utile per farci conoscere meglio e presentare l’ iniziativa, utilizzando i mezzi messi a disposizione dalla società sportiva organizzatrice. Ho presentato personalmente, quale Presidente del Comitato Provinciale del Medio Campidano, l’ iniziativa ai microfoni posti al traguardo della gara. Con la società sportiva abbiamo avuto in comune le iniziative del 25 Aprile 2012 (come gruppo ANPI del Medio Campidano, per la Festa della Liberazione 2012, prima del congresso dal 15 maggio, abbiamo proseguito, in piazza, la Il gazebo ANPI a Forlì campagna 2012 di Tesseramento e di diffusione della nostra rivista Patria e partecipato al corteo con le Autorità a cui partecipava anche la banda musicale, mentre la società sportiva il 25 aprile orLa giornata del tesseramento nel Medio Campidano ganizza un’altra manifestazione, la corsa di Prima- in città”. E l’entusiasmo nella città vera). Penso che sia utile coltivare calabrese è stato talmente intenso questo sodalizio che unisce i valori da spingere il Comitato provinciale dello sport con quelli della Resistenza. a dar corso ad una “seconda puntaPace, Libertà e Giustizia sono valori ta” il 13 dicembre. universali che ben si addicono anche Buone nuove, dunque, per il futuro. n fruttuosa parte l’ha giocaalle competizioni sportive”. Oppure a ta anche la Sicilia. A PalerMacerata (svoltasi però il 24 e il 25 mo – nonostante una piognovembre), dove il centro dell’iniziativa – anche qui partecipatissima gia insistente, come del resto in gran – è stata l’inaugurazione di una nuo- parte delle altre città – l’ANPI ha va via, “Via delle partigiane”, con tenuto un ricco dialogo con le pergli interventi di alcuni giovani della sone riuscendo a raccogliere anche Rete degli Studenti medi, di una testimonianze di non pochi giovani partigiana, di una consigliera comu- che hanno raccontato dei loro nonnale, e della presidentessa del locale ni antifascisti partigiani o deportati, nonché valutazioni sulla politica istituto storico della Resistenza. otizie positive sono giunte d’oggi non propriamente fiduciose. anche dal sud, dove l’ANPI Ci ha scritto anche Ottavio Terraè ormai presente in tutte le nova, presidente del Comitato proprovince e dove intensa è l’attività in vinciale palermitano e Coordinatoparticolare sul terreno della lotta re Regionale della Sicilia: “Per gli alle mafie e alla corruzione. A Reg- straordinari risultati che registriamo gio Calabria, significativo è stato in tutta la regione in queste giornate, l’afflusso delle cittadine e dei citta- dovremmo tornare più spesso nelle dini al gazebo, quasi mossi da un piazze. La vivacità di confronto che imperioso appetito di radici, valori notiamo attorno ai nostri simboli ci trasparenti, cambiamento. Ha di- ripaga per le coraggiose scelte che chiarato su un quotidia- l’ANPI, aprendosi agli antifascisti e no locale Sandro Vitale, ai giovani, ha fatto e oggi una nuova Presidente del Comitato PRIMAVERA con l’ANPI è possibile provinciale: “È necessario anche in Sicilia”. Ottimi risultati che l’ANPI e le altre realtà anche a Taranto, dove è in corso da che s’ impegnano per un due anni un importante lavoro di nuovo civismo lavorino raccolta di adesioni che ha portato il per far esprimere un’ isti- numero degli iscritti da 28 del 2010 tuzione comunale che so- a oltre 300 nel 2012. stituendo quella senza Una giornata, dunque, di preziosa qualità etiche e politiche semina democratica – il 18 novemavuta finora, sia in linea bre dell’ANPI – e di fresco spirito con la Costituzione Presto partigiano che l’Associazione – e chiederemo un incontro ai tutti i nuovi aderenti – è impegnata commissari per segnalare da sempre a tenere vivo in un Paese quello che è facile vedere che non smette di averne bisogno. U N 13 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 3URÀOL UNA SPLENDIDA FIGURA DI ANTIFASCISTA E INTELLETTUALE Joyce Lussu, la partigiana cittadina del mondo I viaggi in Africa alla scoperta del colonialismo. Quell’incredibile scuola SHUIDOVLÀFDUHGRFXPHQWL0HGDJOLDG·DUJHQWRSHUOD5HVLVWHQ]D di Maurizio Orrù L a memoria è una straordinaria fonte di storia, nel senso di racconti e testimonianze, di percorsi autobiografici, che rappresentano elementi utili e necessari per ricostruire particolari avvenimenti e contesti storici. È utile, anzi necessario, riappropriarsi della Storia, dei suoi personaggi e delle vicende che sono entrate prepotentemente nella memoria storica collettiva nazionale. Per questo bisogna ricordare la splendida figura di Joyce Salvadori Lussu, che deve essere considerata un indimenticabile esempio di umanità, di anticonformismo e di spirito democratico e antifascista, che l’Italia dovrebbe ulteriormente conoscere, citare ed usare. Joyce Lussu nacque a Firenze nel 1912, da genitori democratici e progressisti i quali, per le loro idee antifasciste, dovettero, loro malgrado, lasciare Firenze per incompatibilità politica ed ideologica e trasferirsi in Svizzera. Qui Joyce e suo fratello Max trascorsero una splendida e dorata adolescenza, ricevendo un’educazione cosmopolita e anticonformista. Joyce, che ebbe un percorso universitario assai ricco e variegato – laurea in Lettere alla Sorbona, poi in Filosofia a Lisbona – rimase in Germania fino all’avvento del nazismo, poi iniziò una serie di viaggi in Africa fra il 1933 e il 1938, che le permisero di conosce la triste realtà politica-coloniale di questo immenso continente. Joyce rientrò in Europa e, sbarcata in Francia, venne individuata e perseguitata dalla famigerata poliPATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 e Libertà e del Partito Sardo d’Azione. Questo incontro clandestino sfociò in un solido e duraturo rapporto d’amore, che li porterà al matrimonio e ad una ferrea intesa intellettuale e politica. coniugi Lussu iniziarono il loro “pellegrinaggio antifascista” nei Paesi europei vittime della dittatura: in Inghilterra, dove Joyce frequenta un corso per la contraffazione di documenti e timbri, assai utili per la salvezza di tanti perseguitatati politici; in Spagna e in Portogallo, ovvero luoghi nei quali erano importanti gli apporti politici ed organizzativi in chiave democratica, per i quali i nostri erano conosciuti e apprezzati. Joyce rientrò in Italia nel 1943 e, dopo l’arresto di Benito Mussolini, partecipò attivamente ed eroicamente alla Resistenza, dando prova di coraggio ed abnegazione in qualità di staffetta partigiana. Questi presupposti le permisero di ottenere la Medaglia d’Argento al Valor Militare per la Resistenza. Anche a guerra finita, Joyce continuò la sua battaglia politica attraverso la scrittura, descrivendo molte azioni della sua vita partigiana e le tante esperienze vissute nelle battaglie politiche per i diritti civili delle popolazioni curde, aborigene ed africane. È stata, secondo autorevoli pareri, una scrittrice e poetessa di rara sensibilità. Tante le sue opere pubblicate nel corso degli anni: “Liriche”, “Portrait”, “Il libro delle streghe”, “Sguardi sul domani”, “Padre, Padrone e Padreterno”, i racconti sardi “L’olivastro e l’ innesto”. Nu- I Joyce Lussu nel 1938 zia fascista, con la “qualifica” di sovversiva pericolosa. Nel corso del tempo,la forte personalità di Joyce è stata oggetto di numerose valutazioni. Scrive Nello Ayello, giornalista e scrittore, «(…..) Forse la leggenda più irripetibile della scrittrice rimane la sua biografia, vissuta accanto a un patriota che si chiama Emilio Lussu, peregrinando avventurosamente tra fronti e frontiere». Joyce Lussu rientrò a Parigi nel 1938, anno in cui incontrò clandestinamente il mitico antifascista Emilio Lussu, conosciuto con il nome di battaglia di “Mr. Mill”, fondatore del Movimento Giustizia 14 3URÀOL Joyce Lussu con i patrioti curdi, all’inizio degli anni Sessanta I coniugi Joyce ed Emilio Lussu merosi anche i saggi e le traduzioni letterarie, come quelle delle opere del poeta curdo Nazim Hikmet, conosciuto ed apprezzato dal grosso pubblico proprio grazie al suo impegno. Joyce Lussu, oltre al suo impegno antifascista e alla sua verve culturale, è stata una fervente militante del Partito Socialista, in cui ha profuso capacità e intelligenza politica, tanto da costituire e promuovere l’UDI (Unione Donne Italiane). Un Incarico che avrebbe lasciato dopo poco tempo, per insofferenze politiche ed organizzative. Anche questo era un aspetto del multiforme ed originale carattere di questa donna. crive Silvia Ballestra, da molti considerata biografa ufficiale di Joyce Lussu: «(…) Ho conosciuto Joyce Lussu nel 1991. Eravamo una schiera di “streghe” riunite a casa sua, con, ciascuna, alcune pagine nostre da sottoporre all’esame delle altre. All’esame di Joyce, in particolare. Ricordo ancora: essendo una piovosa sera di novembre, Joyce ci diede l’ordine, gentile, di ammantarci, tutte, con dei tabarri di sua proprietà. Erano dei tabarri, o scialli coloratissimi e pelosissimi. Gli unici due uomini presenti erano stati costretti anch’essi a indossare i tabarri. Gli uomini si occupavano, su ordine di Joyce, del settore “cucina”, uno dei più complessi e rischiosi almeno sotto il tetto e il giudizio di Joyce. I due maschi sparecchiavano e preparavano il caffè, sgomenti e agili. Noi “streghe”, intanto si parlava e par- S lava, divertite e concentrate (…)». nche in questo contesto Joyce dimostrava anticonformismo e un’innata ironia. Joyce Lussu nella sua lunga e avventurosa vita “è stata cittadina del mondo” militando e dando il suo originale contributo in quei molti colonizzati, ovvero denunciando soprusi e barbarie ai danni delle popolazioni inermi ed indifese politicamente e socialmente. A questo riguardo scrive Joyce: «(….) Durante la guerra fredda, avevo lavorato con il Movimento mondiale della Pace, che aveva per emblema la colomba di Picasso col ramoscello d’ulivo e si contrapponeva alla crociata anticomunista indetta dagli Stati Uniti e dalle potenze colonialiste, coi loro clienti e dipendenti, compresi i governi italiani. Durante quest’attività, avevo girato parecchio e conosciuto rivoluzionari di tutti i continenti, rendendomi conto che la guerra partigiana che avevo combattuto era stata soltanto l’inizio di una lunghissima serie di guerre partigiane altrettanto legittime e necessarie, dato che il nazi-fascismo era stato solo parzialmente abbattuto e rispuntava dalle sue radici: lo sfruttamento sostenuto dalla forza delle armi, il colonialismo, il razzismo (…)» (Lotte, ricordi e altro, Ed. Biblioteca del Vascello, 1992) Joyce Lussu nutriva un particolare amore (ricambiato) per le genti sarde, le quali avevano, ed hanno un particolare affetto e stima nei confronti dei coniugi Lussu, per tutto ciò che hanno fatto e dato nelle vicende politiche di stampo A 15 autonomista della Sardegna. È stata, negli ultimi anni della sua vita, una prestigiosa fondatrice e dirigente regionale sarda dell’ISSRA (Istituto Sardo per lo studio della Resistenza e dell’Autonomia) in cui ha dedicato molto del suo impegno politico e culturale. Degni di attenzione i suoi appassionati interventi sui temi dei diritti civili, sulla pace, sull’antifascismo militante, che teneva regolarmente nelle scuole di ogni ordine e grado e nelle Università. crive Joyce, sulla morte del proprio marito: «(…) Il ’75 fu invece un anno triste. Emilio morì ai primi di marzo, senza vedere l’inizio della primavera. Era una bella giornata, e dalle finestre si vedevano le chiome dei pini at torno a Ca stel Sant’Angelo, che avevamo guardato insieme per trent’anni. Nel silenzio totale della casa, sentivo la sveglia di cucina battere il tempo con ritmi monotoni e tristi, come gli attitus delle donne sarde. Non più, per te, il tempo… il tempo, per te, mai più (…)». (Portrait Ed. Transeuropa, 1988). Da quel tempo, dopo una serie di intralci burocratici, è stato aperto il Museo storico di Armungia, dedicato alle memorie di Emilio e Joyce Lussu, che, attraverso un articolato ed intelligente percorso fotografico e multimediale percorre le tappe della vita dei coniugi. Da vedere per coloro i quali arrivano nel sud Sardegna. Joyce Lussu morì a Roma, alla veneranda età di 86 anni, il 4 marzo 1998. S PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Tra memoria e storia UNA COPPIA DI ANTIFASCISTI DA SAN VITTORE AL LAGER DI BOLZANO Ada e Carlo Venegoni sposi tra carcere e confino /XLRSHUDLRFRPXQLVWDVL´DFFXOWXUDµLQFHOOD/HLGLIDPLJOLDERUJKHVH impara a battersi contro il regime. L’altro fratello Venegoni di Dario Venegoni Attraverso un suggestivo percorso Dario Venegoni (vice presidente dell’ANED, Associazione Nazionale Ex Deportati nei campi nazisti) racconta parallelamente le due esperienze di vita dei genitori. Una biografia familiare che rappresenta, oltre che una “storia civile”, anche lo spaccato di una generazione messa a dura prova dalle tragedie del totalitarismo e della guerra. I miei genitori, Ada Buffulini e Carlo Venegoni, erano partigiani. Si sono conosciuti alle prime luci dell’alba, il 7 settembre 1944, in uno dei cortili del carcere di San Vittore, mentre tedeschi e fascisti li caricavano, insieme a molti altri, su alcune “corriere” dell’azienda dei trasporti milanese. Destinazione: il lager nazista di Bolzano, anticamera di altre deportazioni verso i campi della morte. I due erano diversissimi tra loro, e venivano da vicende che si potrebbero dire opposte. Anche quella mattina affrontarono quel trasferimento con sentimenti radicalmente divergenti. Lei, avvisata non so come della partenza, aveva scritto a un’amica una lettera che “era una specie di testamento”, come disse poi. A 32 anni non aveva idea di cosa fossero i lager nazisti, ma ne sapeva abbastanza per immaginare di dover scrivere quel messaggio estremo. Lui, di 10 anni più vecchio, era semplicemente raggiante. La sera prima aveva sentito una SS che consegnandolo a un collega, nel reparto tedesco del carcere, aveva detto “Questo è uno di quelli di domani mattina”, e per tutta la notte aveva vegliato, pensando che erano le sue ultime ore, che la sua vita stava per finire a soli 42 anni, e che all’alba lo avrebbero fucilato. E quando realizzò finalmente che non lo aspettava il plotone di esecuzione ma una corriera che lo avrebbe porPATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Ada Buffulini con la divisa e la matricola del campo di Bolzano nel 1945 tato verso i monti non finì di dire ai suoi compagni che quello era “il più bel viaggio” della sua vita. Nel campo di Bolzano Ada e Carlo collaborarono molto da vicino, come componenti di un comitato clandestino di resistenza che sul modello del CLN prevedeva al proprio interno la presenza delle diversi correnti dell’antifascismo: Ada rappresentava i socialisti, Carlo i comunisti. Perché anche in questo erano diversi. La cosa non impedì loro di ritrovarsi a guerra finita, di sposarsi e di condividere il resto della vita. Carlo nasce nel 1902 a Legnano, importante centro industriale a nordovest di Milano, in una famiglia operaia poverissima. I suoi genitori avevano cominciato a lavorare addi- 16 rittura da bambini, a 8 anni. Carlo, e con lui tutti i fratelli, entra in fabbrica dopo le elementari, attorno ai 12 anni. Lavora il padre, lavorano i bambini, tra una gravidanza e l’altra torna in fabbrica anche la mamma, ma tutti insieme non riescono a garantirsi un livello di vita decente. La condizione dei lavoratori nelle fabbriche è spaventosa. Mio padre racconterà di orari impossibili, di capi che a dispetto dei suoi 12 anni lo assegnano al turno di notte, di angherie dei vecchi operai nei confronti dei giovani, di una vita letteralmente senza speranza. Ada è più fortunata: nasce nel settembre 1912 a Trieste in una famiglia colta e benestante: il padre è ingegnere, la madre maestra elementare. In casa si fa musica, si legge la grande letteratura internazionale, i bambini vanno a scuola e tutti arriveranno a laurearsi. Per consentire loro di studiare il padre aliena un terreno avuto in eredità sul Carso: “Il migliore affare della mia vita”, dirà. I Venegoni cambiano spesso casa, per seguire il lavoro e anche per sfuggire ai creditori. I Buffulini abiteranno si può dire per un secolo lo stesso grande appartamento, con le finestre affacciate sul verde del Giardin Pubblico. Le polizie del regno d’Italia cominciano prestissimo a occuparsi di Carlo, giovanissimo operaio, ribelle e determinato. Negli archivi resta trac- Tra memoria e storia Ada Buffulini parla alla tribuna del 24° congresso nazionale del PSI - Firenze 1946 Da sinistra i fratelli Nedda, Ida, Ada e Tito Buffulini nel giugno 1919 cia di una condanna a 9 mesi di prigione per furto inflittagli il 22 marzo 1917, in piena guerra mondiale, quando lui non ha neppure compiuto 15 anni. Di questa condanna mio padre con noi figli non farà mai parola: propendo quindi per l’ipotesi che si sia trattato di un gesto di pura e semplice ribellione, in quel periodo in cui, come lui ricorderà, era “un ragazzo solo e disperato”. Poche settimane dopo quella condanna, ecco la svolta che segnerà tutta la sua vita. Il Primo Maggio 1917 Carlo partecipa con il fratello Mauro, di un anno più giovane, a un comizio socialista. Il segretario della Camera del Lavoro legnanese, un certo Montanari, parla di quello che sta avvenendo in Russia, dice che là i lavoratori hanno abbattuto lo Zar, e che anche qui è ora che gli operai divengano padroni del proprio destino. Deve essere un grande oratore, quel Montanari, perché i due fratelli ne sono rapiti. Cominciano a leggere la stampa socialista, a studiare, a organizzare il circolo giovanile, e raggruppano in poco tempo centinaia di giovani operai come loro. L’impegno politico è una scelta per la vita, per dare una speranza, un senso alla propria esistenza e per cambiare il destino di quelli come loro. Il resto, si potrebbe quasi dire, è conseguenza di quella scelta fatta da ragazzi. In fabbrica i fratelli Venegoni impa- rano a farsi rispettare, assumono responsabilità crescenti, si guadagnano un larghissimo consenso tra i lavoratori. Nel settembre del 1920, quando esplode lungo tutta la penisola il movimento dell’occupazione delle fabbriche, Carlo è uno dei leader dell’occupazione della “Franco Tosi”, azienda elettromeccanica che impiega quasi 15.000 lavoratori. E quando il movimento termina viene licenziato per rappresaglia, insieme ad altri 5 dirigenti della rivolta: ha appena 18 anni, ma già da 6 lavora in fabbrica e tutti lo considerano un capo. oi nel 1921 la scissione di Livorno, la nascita del partito comunista; l’incontro con Antonio Gramsci; la nomina (1924) a far parte della delegazione italiana al V congresso dell’Internazionale comunista a Mosca; la scoperta delle dimensioni planetarie del movimento, ma anche delle sue profonde divisioni interne. Carlo si ribella con altri delegati italiani alle pressioni di Stalin (è forse uno degli ultimi a poterlo fare senza incorrere in tragiche conseguenze). Al ritorno in Italia sposa la causa di Amedeo Bordiga e della sinistra interna, e nel 1926 viene eletto nel Comitato centrale del partito. In quello stesso anno deve entrare in clandestinità dopo il varo delle leggi eccezionali, incaricato di ricostruire la Confederazione del lavoro nelle città del “Triangolo indu- P 17 Carlo Venegoni in una foto segnaletica della polizia dopo l’arresto nel 1927 striale”: Milano, Torino, Genova. Negli stessi anni, a Trieste, Ada va a scuola, assiste ai concerti, all’opera, alle corse dei cavalli, va d’estate al mare a Pirano, in Istria, e qualche volta in montagna, sulle Dolomiti. Le piace scrivere: compone piccole pièces teatrali che “mette in scena” in salotto, insieme ai fratelli. Rimane memorabile l’errore della sorella Nedda, proprio all’attacco del primo atto di una di queste commedie: “Notte fanal, sotto il fatal….”. Le sorelle ne rideranno a crepapelle ancora a decenni di distanza. Il padre suona praticamente qualsiasi strumento musicale, i figli stentano un po’, ma sono indotti a provarci anche loro: il padre assegna a uno il violino, e alle figlie il piano, il violoncello, con l’ illusione di potere un giorno avere in casa una piccola orchestra da camera. La mamma canta, con questo accompagnamento domestico. Sono anche anni di studio serio nella scuola triestina che, sia pur italianizzata, conserva l’ impronta di rigore tipica delle istituzioni dell’impero di Francesco Giuseppe. I Buffulini hanno una grande apertura culturale e impiegano le proprie risorse per i libri, la musica, per i teatri. I ragazzi vestono più che dignitosamente, spesso tutti uguali, “alla marinara”. Per il resto il regime domestico potrebbe essere definito frugale, valutato con gli standard di oggi. Non si butta via niente, tutto PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Tra memoria e storia si ricicla, si riusa, lo spreco è un peccato. La vita “mondana” non esiste; la casa è una specie di fortezza che si apre poche volte all’anno per selezionate “visite” che impegnano la famiglia per giorni e giorni a pulire e lustrare, e a preparare il grande evento. Vittorio Buffulini, il padre di Ada, è “ovviamente” iscritto al Fascio, come d’obbligo, essendo un funzionario pubblico (ingegnere capo del Comune, con l’ufficio che si affaccia su Piazza dell’Unità). In casa si commentano con un certo distacco certe “pagliacciate” del regime, ma nessuno è neppure sfiorato dall’idea che una persona perbene possa dirsi – o addirittura essere – “antifascista”: non si fa, non sta bene, l’ordine costituito è un dogma, la Patria ha bisogno di ordine e di disciplina. ll’inizio dell’estate del 1927 Carlo è arrestato dai fascisti a Torino, dove cerca di riorganizzare il sindacato alla Fiat. Con spirito profetico aveva deciso di intitolare Portolongone il giornaletto indirizzato ai lavoratori del Lingotto, paragonando le condizioni di vita e di lavoro nel celebre stabilimento torinese a quelle del più famigerato penitenziario italiano. Non sapeva ancora che proprio in quell’ergastolo sarebbe stato rinchiuso di lì a non molto, per alcuni terribili anni di prigione. Deferito al Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, Carlo è condannato nel 1928 a dieci anni di reclusione. Con lui sono condannati per “ricostituzione del Partito comunista” sindacalisti comunisti, socialisti, anarchici e un repubblicano. Il tribunale non va tanto per il sottile e il difensore d’ufficio non si agita troppo, limitandosi a rimettersi “alla clemenza della Corte”. Per Carlo gli anni della galera sono anni di formazione, di studio appassionato. L’operaio che aveva solo la quinta elementare studia filosofia, economia, storia, geografia, lingue. Lo fa da solo, nei lunghi anni dell’isolamento, e con la guida di compagni più esperti quando per qualche tempo è rinchiuso con altri dirigenti comunisti di spicco nel carcere di Alessandria. Sarà per lui – e per molti altri prigionieri politici del fascismo – “l’Università del carcere”, come si disse poi. A PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Ada, nel frattempo, all’Università ci va davvero. Terminato il liceo classico a Trieste con ottimi voti, discute coi genitori del proprio avvenire. Il suo fermo desiderio è quello di diventare medico. La discussione ruota attorno a due opzioni: o Padova, o Milano. Padova sarebbe più vicina a Trieste, e lei potrebbe tornare a casa più spesso, ma la mamma ha alcune buone amiche a Milano che potrebbero offrire ospitalità. È così che nel 1930, a 18 anni, Ada sbarca da sola nella metropoli e si iscrive a Medicina, dove le ragazze si contano sulle dita di una mano: sembra alquanto disdicevole per la morale corrente, infatti, che una donna scelga una professione che la porterà ad avere a che fare con tante nudità, anche maschili. Paradossalmente le vite parallele dei miei genitori tendono in qualche modo a convergere proprio nel momento in cui sembrano agli antipodi: lui chiuso nelle peggiori prigioni del regno, lei libera come l’aria nella grande città. Per entrambi sono invece anni di formazione, di studio, di scoperta. Persino l’ambiente culturale che Ada inizia a frequentare a Milano comincia ad avere qualche punto di contatto con quello di Carlo. Per una serie di fortuite circostanze lei frequenta a Milano Abigaille Zanetta, comunista e femminista, che Carlo conosce da tempo; diventa amica di Virginia Scalarini, figlia del grande vignettista Giuseppe; entra in contatto con diversi reduci dal confino, antifascisti di- chiarati. È un mondo giovane, anticonformista, non allineato, ribelle, lontano mille miglia dall’ambiente conformista e provinciale di Trieste. Un mondo solidamente antifascista. Così anche Ada, sui vent’anni, comincia a prendere le distanze dal regime. La sua è una ricerca di libertà: libertà di cultura, di idee, di letture, di relazioni. È una giovane donna che rifiuta alla radice il ruolo che il regime le vuole assegnare nella società, proprio in quanto donna. Ada rifiuta i dogmi della società del suo tempo, tiene un diario in cui condanna l’ istituto del matrimonio, critica la famiglia e la proprietà privata: quando i suoi scoprono quel diario, nel 1931, scoppia una tragedia familiare. E lei decide che è giunto il tempo di camminare da sola e di seguire il proprio istinto e le proprie aspirazioni. Gli anni Trenta sono difficili per entrambi. Liberato dal carcere, lui è sottoposto a un regime di vigilanza rigorosissimo. Conosciuto come comunista, trova esclusivamente lavori di fatica, ma non per questo rinuncia a organizzare il suo partito, instancabilmente, mentre il fratello Mauro emigra in Francia, poi va a Mosca, quindi torna in Italia per essere arrestato e condannato a sua volta a 5 anni e mezzo dal Tribunale speciale. Allo scoppio della guerra, nel giugno 1940, i due fratelli Venegoni sono arrestati e condotti in altrettanti campi di concentramento; Carlo a Colfiorito, Mauro a Istorio. Carlo Venegoni riceve da Enrico Berlinguer una medaglia nel cinquantenario della fondazione del PCI, nel 1971 18 Tra memoria e storia Di nuovo, paradossalmente, i destini di Ada e Carlo si avvicinano: ammalati di TBC, entrambi soggiornano a lungo, all’inizio degli anni Quaranta, in sanatorio, lui piantonato dalle guardie a Legnano, lei a Sondalo. Caduto il fascismo il 25 luglio 1943, lui a Legnano si pone a capo della resistenza nella sua zona e ha una vivace polemica con i dirigenti del PCI. Proprio nei giorni dell’armistizio lei conosce Lelio Basso e inizia a collaborare con lui e con il partito socialista: ha trovato uno sbocco al suo spontaneo antifascismo. La “normalità” dura soltanto un paio di mesi. L’arresto di una sua compagna la induce a una scelta drastica: si tinge i capelli di biondo, annuncia alla portinaia che parte per un lungo viaggio, chiude casa ed entra in clandestinità. Per otto mesi i due girano per Milano sotto falso nome, con documenti falsi, lavorando per la Resistenza, senza mai incrociarsi, nemmeno nelle occasioni in cui Carlo incontra Lelio Basso. Ada è arrestata a Milano il 4 luglio 1944 con altri, nel corso di una riunione per illustrare le scelte dei socialisti a un gruppo di studenti del Politecnico. Carlo “cade” il 28 agosto, nel corso di una irruzione delle camicie nere in una tipografia dove stava preparando un numero dell’Unità clandestina. Infine, all’alba del 7 settembre, la partenza per il Lager, insieme. A Bolzano viene loro assegnato un triangolo rosso e un numero: 3795 per lei, 3906 per lui. A Bolzano, nel comitato clandestino, i due collaborano, discutono, litigano. “Quel mascalzone di Carlo – scrive lei a Lelio Basso – mi parla sempre male del Partito Socialista, e qualche volta purtroppo ha ragione”. Con l’aiuto della Resistenza bolzanina l’organizzazione dei prigionieri gestisce una corrispondenza clandestina con l’esterno, cerca di organizzare delle fughe, prova a far pervenire ai deportati aiuti in viveri, capi d’abbigliamento, denaro. Nelle lettere che Ada riesce a far pervenire clandestinamente a Lelio Basso, che vive sotto falso nome a Milano, lei racconta di una domenica in cui con Carlo ha fatto su e giù per il campo infinite volte, approfittando della relativa libertà della giornata aprile 1945, Ada impiega la sua prifestiva: sembra di vederli mentre ma notte di libertà a scrivere e a stamvanno avanti e indietro discutendo pare con i socialisti di Bolzano un voe chiacchierando, con la scusa della lantino che sarà diffuso all’indomani, politica. Chissà che tutto non sia Primo Maggio, nella zona industriale iniziato quella domenica, sotto l’oc- di una Bolzano ancora interamente chio delle mitragliatrici piazzate occupata dai nazisti. Nel 1946 Ada e Carlo si sposano. sulle torrette di guardia. Alla fine di ottobre lui riesce a eva- Quando l’anno dopo nasce il loro pridere, grazie a un piano di cui in re- mo figlio, lei scrive per il suo piccolo altà ancora adesso io so poco. False un lungo memoriale. “Da quando sei guardie con falsi documenti riesco- nato – gli scrive – ho indirizzato tutta no a farsi consegnare il prigioniero, la mia vita in modo che tu non ti debrichiesto evidentemente da una au- ba vergognare di me, in modo ch’io ti torità superiore. Quando nel campo possa lasciare come unica eredità l’esi accorgeranno dell’inganno lui sempio di una vita coerente”. sarà già quasi a Milano, su una E così è stato, fino alla scomparsa: militanti del PCI (al quale Ada aderì grande macchina nera. da non perdonerà mai a Car- nel 1947), attivi nel sindacato, nelle lo di averle taciuto quel pia- associazioni della Resistenza e nelle no di fuga. Lui si giustifiche- istituzioni democratiche. rà dicendo che era una normale Questa è l’eredità di Ada e Carlo, regola di clandestinità. Ma lei non che oggi avrebbero 100 e 110 anni. si farà convincere: “La realtà è che Quest’anno ho parlato spesso di loro non ti sei fidato di me”, gli disse in diversi incontri pubblici, per feuna volta, ancora molti anni dopo, steggiare a mio modo il centenario me presente. della nascita di mia madre, e perché Lui torna a Milano in tempo per ve- trovo al fondo di questa loro storia il dere il fratello Mauro poche ore pri- senso profondo della Resistenza itama del martirio: riconosciuto nella liana, che non fu quella caricatura sua zona, Mauro è atrocemente tor- che oggi talora si tramanda, con uoturato e trucidato dalle camicie nere mini tutti uguali, con lo stesso fazalla fine di ottobre del 1944. zoletto al collo e lo stesso Sten a traDiventato eccessivamente pericolo- colla, ma un moto di popolo che unì so rimanere a Milano, Carlo a di- uomini e donne diversissimi tra loro cembre è trasferito a Genova, re- per ceto sociale, per cultura, per sponsabile delle Sap del centro città, orientamento politico e per fede ate partecipa in quella veste all’insur- torno agli ideali della libertà, della rezione vittoriosa di aprile. democrazia e della pace. Lei rimane fino alla liberazione nel Lager, coordinatrice del comitato clandestino dei prigionieri. Quando i sospetti su di lei si fanno troppo forti viene richiusa in isolamento nelle celle del campo. Due mesi di terrore, a pochi metri dai torturati e dagli Carlo Venegoni (il primo in piedi a sinistra) con altri antifascisti nel FDPSRGLFRQFHQWUDPHQWRIDVFLVWDGL&ROÀRULWR3*$OODVXDVLQLVWUD assa ssin at i . Lelio Basso Liberata il 30 A 19 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Cultura e arte /$5,9,67$',´9$5,$80$1,7­µ86&,9$'$/ Sparisce «Belfagor» e la cultura è ancora più povera di Umberto Carpi Luigi Russo, fondatore della rivista P eccato, peccato davvero. Con l’ultimo fascicolo del 2012 (la rivista usciva puntualissima dal gennaio 1946, scadenza bimestrale) «Belfagor» ha cessato di esistere. Non problemi economici, non carenza di collaboratori e lettori, ma la decisione dell’attuale direttore, il grecista Carlo Ferdinando Russo, figlio del fondatore e mitico primo direttore Luigi Russo. Stanchezza sua, certo, dopo anni di dedizione assoluta alla rivista, alla sua tenuta e al suo livello: ma forse anche la sensazione, da me non condivisa, che un’epoca fosse finita, che «Belfagor» fosse ormai un ‘fuori tempo’. Qualcuno ha scritto di mancanza di eredi: vero in senso notarile, meno vero quanto a continuità di una grande tradizione antifascista, laica, progressiva. L’ANPI e «Patria», tanto per dire, coi loro vecchi partigiani, con i loro anziani militanti democratici dei decenni postbellici, con i PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 loro giovani e giovanissimi di una nuova leva resistenziale non nostalgica ma ben attiva, sono qui a testimoniare che le ragioni storico-politiche e lo spirito combattivo di «Belfagor» restano ancora in campo. Anzi, coi tempi grami che corrono per la tenuta stessa della Costituzione e dello Stato democratico, di quei valori e di quello strenuo animus pugnandi si avverte più che mai la necessità. «Belfagor» (dal titolo di una celebre novella di Machiavelli, del quale Russo fu uno dei massimi studiosi italiani e forse il più efficace nel contrastare l’uso fascista del machiavellismo) venne progettata dallo storico Omodeo e da Russo, due antifascisti crociani di sinistra, aderenti al Partito d’Azione: perciò assai criticati dal Croce, che vedeva come il fumo negli occhi quel sinistreggiante Partito (il monarchico Croce del resto non accettò mai il 25 aprile 1945 quale data discriminante, bensì il 25 luglio 1943). Deceduto prematuramente Omodeo, «Belfagor» restò la rivista di Russo, che la diresse fino alla morte, nel 1961, facendone la più bella e autorevole e indipendente ‘rivista di varia umanità’. Di altissimo livello la sezione dei saggi; straordinaria, anche per la sua continuità, la sezione dei ritratti critici di contemporanei (alla fine, una imponente galleria di centinaia di profili); gustosa, intrigante l’altra sezione delle noterelle e schermaglie, la più ‘russiana’, concepita nel segno del gusto polemico (nel più alto senso etico-politico) del direttore. Il quale – nell’evolversi della situazione politica, nel progressivo 20 dissolversi del Partito d’Azione, fortemente attratto dalla lettura di Gramsci sui cui quaderni (datigli in lettura da Togliatti) tenne una memorabile lezione alla Scuola Normale che dirigeva, essendone presto cacciato per discriminazione politica – si avvicinò animosamente al PCI, aderendo nel 1948 al Fronte Popolare. «Belfagor» fu segnata da questa vicenda politica e intellettuale, divenendo uno dei luoghi fondamentali della cultura, degli studi, dei dibattiti della sinistra nella sua stagione più ricca e tormentata. Bianchi Bandinelli, Bobbio, Calamandrei, Luporini, Binni, Cantimori, tanti altri, il meglio dell’Italia d’allora, intellettuali già prestigiosi e giovani emergenti. Alla morte di Luigi Russo, come ho già ricordato, la direzione di «Belfagor» passò al figlio Carlo Ferdinando, personalità a sua volta assai profilata, di impronta molto radicale ed eterodossa: suoi grandi meriti (oltre all’essere riuscito a mantenerne intatto per decenni livello e prestigio), l’attenzione acuta per i fenomeni culturali apertisi nella stagione del Sessantotto, l’immutata fedeltà, sempre viva e varia per varietà di prospettive, ai valori dell’antifascismo, della laicità, della democrazia. Una rivista nata sull’onda della Resistenza e vissuta fino alla fine nel suo spirito insieme determinato ma mai settario. Per questo l’ANPI e «Patria» segnalano con grande rammarico questo nuovo, grande vuoto che si apre nella cultura e nella stampa democratica con la morte di «Belfagor», scaffale glorioso nella biblioteca postresistenziale. Tra memoria e storia UNA INCREDIBILE STORIA DEL 1943 NEL CUORE DI ROMA Ricercati, militari ed ebrei rifugiati dietro il rosone della chiesa Un muro per chiudere la volta a botte. Dentro, quindici persone alla YROWD/·DLXWRGHOODJHQWHGHOULRQH3LHWUR/HVWLQLHODÀJOLD*LXOLDQD GL0DXURGH9LQFHQWLLV 6XRU0DUJKHULWD%HUQqVLOGLSORPDGL*LXVWRWUDOH1D]LRQLFRQVHJQDWRGDOOR<DG9DVKHPD3DGUH'UHVVLQRH3LHWUR/HVWLQL Q uesta è la storia della “Sezione Aerea San Gioacchino” (in sigla: S.A.S.G.), come è stata ricostruita da Padre Ezio Marcelli, in un pamphlet, stampato in proprio, dal titolo: “Stupenda pagina di cronaca nella chiesa di San Gioacchino a Roma. Novembre 1943-giugno 1944”. Attori principali: il redentorista padre Antonio Dressino, parroco di San Gioacchino (nel quartiere Prati); suor Margherita Bernès del convento delle Figlie della Carità; l’ingegnere Pietro Lestini vice-presidente dell’A- zione Cattolica della parrocchia e sua figlia Giuliana Lestini, studentessa. Grazie alla loro opera, trovarono rifugio nella chiesa ricercati politici, militari sbandati ed ebrei, nascosti prima nell’annesso teatrino parrocchiale, poi a partire dal 3 novembre 1943, tra la volta a botte e il tetto a capriate; in uno spazio che, per sfuggire a eventuali perquisizioni, venne murato fino alla Liberazione di Roma (4 giugno 1944). In quell’ambiente sono state ospitate – in tempi diversi – dalle dieci alle quindici persone che hanno potuto contare, 21 come unico mezzo di contatto con l’esterno, sul rosone del timpano, apribile – per motivi di sicurezza – solo di notte. All’inizio, in quello “stanzone aereo” non c’era nulla; dopo qualche tempo erano stati realizzati: un gabinetto, che rispettava le regole della decenza, una luce elettrica in ogni spazio riservato a ciascun ospite, più una luce in quello comune, con tavolo e sedie, una radio e alcuni fornelletti per riscaldare le vivande; era stato costruito anche un argano per il carico e scarico dei materiali, mentre una scala a corda PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Tra memoria e storia permetteva ai rifugiati l’accesso. Questo il racconto di un “ospite” sulla sua arrampicata nel rifugio: “Aspettai su una terrazza sotto un rosone con un gran freddo: ero salito verso le diciannove e rimasi lì in attesa, perché dovevo raggiungere gli altri a mezzanotte. Si era alla fine di gennaio e la giornata la ricordo come particolarmente rigida; camminavo su e giù per la terrazza per non intirizzire. A un tratto un tramestio sottile, qualcuno stava calandosi da una scala di corda ch’era comparsa all’improvviso, appena rischiarata dal fioco lume delle stelle; scorsi una figura che mi affiancò e con un gesto mi invitò a salire”. Pochi redentoristi, insieme a padre Dressino, tenevano i contatti con i clandestini. Il sacrestano era l’addetto al carico e allo scarico dei rifornimenti e dei rifiuti. In premessa al libro-testimonianza di Giuliana Lestini “S.A.S.G.”, ora pressoché introvabile, si legge: “Quando si è costruita una vita basata su princìpi consolidati da una lunga esperienza, è difficile distruggerla; oggi è necessario ricordare il passato, perché certe azioni, ignorate per cinquant’anni, vedano la luce nel riflesso di un mondo che ha tanto bisogno di credere e di ritrovare quei saldi e reali valori della vita stessa, primo fra tutti quella solidarietà, tra cittadini di tutto il mondo, uniti per lottare e sconfiggere la minaccia che gravava allora sull’intera umanità e che purtroppo è ancora in agguato… Ho voluto scrivere queste memorie per rievocare la figura di mio padre, Pietro Lestini e la storia della sua lotta contro gli oppressori nazisti negli anni ’43 e ’44 a Roma, i sentimenti di solidarietà e di altruismo disinteressato che lo spinsero a operare nella clandestinità, in difesa di tutti i perseguitati a causa della razza, della religione, dell’idea politica e dell’amore per una patria libera e democratica; una lotta condotta contro ogni forma di violenza, tesa solo a sottrarre quanti più possibili uomini alla tortura, alla prigionia, alla morte”. Giuliana Lestini ricorda anche che molti furono coloro che, senza rifugiarsi nella soffitta, aderirono alla S.A.S.G., restandone all’esterPATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 no per collaborare e fiancheggiare ha ricordato: “Si passavano le ore a l’organizzazione. discutere del più e del meno, della a presenza e la vita di tanta vita passata, delle speranze per il fugente in soffitta restò nasco- turo, del desiderio di uscire da quel sta, fino alla fine. A tutti, luogo. A volte ci portavano i giornacompresi i parenti più stretti, ai li”. Il resto di una copia del “Messagquali venivano recapitati messaggi, gero” del 2 aprile 1944 è stato ritrovasempre controllati e perfino censu- to in una fessura della soffitta, rati da Pietro Lestini. durante un sopralluogo nel 2009; Questo controllo fu necessario per rinvenuta anche una copia di “Crox”, evitare che trapelasse l’esistenza e il rivista di “Parole incrociate da tavoluogo del nascondiglio. In una lette- lo”; in altre fessure sono state rinvera, scritta da uno degli “ospiti” alla nute alcune scatole di carte da gioco, fidanzata, fu resa illeggibile questa di fiammiferi e di sigarette “Giuba”. frase: “Sento molto la tua mancanza Il peso maggiore dell’assistenza ai rispecie quando odo cantare il vostro fugiati fu sostenuto da Suor Marghegallo”. La famiglia della ragazza abi- rita Bernès. A Roma dal 1933, era tava nel fabbricato che formava un molto conosciuta in Prati: le fu facile, corpo unico con la parrocchia e il cui così, ricevere e trovare aiuti tra gli cortile, allora, era adiacente alla chiesa. Una simile notizia non poteva passare, per non far capire ai familiari dello scrivente che il suo rifugio era molto vicino alla loro abitazione. Avrebbe potuto fornire la possibilità di localizzarlo, col rischio della vita di tutti i rifugiati e di coloro che li assistevano. Nella corrispondenza non veniva usato il nome del mittente ma un codice. Pietro Lestini così aveva ammonito: “La sicurezza è basata sul silenzio; nessuno deve fornire notizie agli altri, neppure ai familiari”. Ogni rumore doveva essere evitato, per non creare sospetti tra i fedeli presenti nella chiesa. Un ospite, il tenente Clemente Gonfalone /DFKLHVDGL6DQ*LRDFFKLQRLQ3UDWL,OURVRQHSLSLFFROR (poi sacerdote), L 22 Tra memoria e storia abitanti del quartiere. È certo che il coraggio, l’impegno, la costanza, in lei furono grandi, se si pensa che per oltre sette mesi, quando il pane era razionato, riuscì a non farne mancare a “quella gente lassù”. Così come per il pranzo di Natale 1943 che permise ai rifugiati “in libera uscita” (si erano calati, con tutti gli accorgimenti necessari, dal rosone) di incontrare i familiari in una sala del convento delle suore. Carlo Prosperi, uno dei rifugiati “aerei”, ha descritto così la figura di Suor Margherita: “Magra, pallida, sempre sorridente e con una espressione un po’ meravigliata; sembrava che stesse sempre per dire bravo con la erre arrotondata della lingua materna”. LQDOWRqTXHOORGRYHVLQDVFRQGHYDQRLSHUVHJXLWDWL Una consorella, a proposito dell’opera di Suor Margherita, ha ricordato: “Noi avevamo un po’ paura, forse anche molta; lei no, non ha mai avuto paura”. Suor Margherita, nel 1951, passò ad Ain Karim, a pochi chilometri da Gerusalemme, dove continuò, insieme con altre consorelle, la sua opera di bontà e di consolazione tra i più poveri. Prima di morire, ad Alessandria d’Egitto (nel 1966), ebbe la gioia di incontrare due dei “rifugiati” della S.A.S.G.. Andrea Riccardi1, autore del saggio “L’inverno più lungo. 1943-’44”, ha ricordato che Prati era un quartiere difficile. Si erano verificati atti violenti contro gli ebrei. Un’ebrea che vendeva rotoli di fettuccia al vicino mercato dell’Unità era stata portata via con il suo bambino. Altri ebrei erano stati razziati nei loro negozi. Da Prati proveniva il delatore di don Morosini, condannato a morte per il suo aiuto alla Resistenza, che viveva a poche centinaia di metri da San Gioacchino. L’ospitalità della parrocchia era legata a un tessuto di solidarietà e di azione clandestina. Lestini ha dichiarato che nella sua qualità di “vice presidente dell’Unione Uomini di Azione Cattolica, col consenso del parroco di San Gioacchino” distribuì sussidi ai militari e ai civili. C’era un fitto lavoro clandestino nel quartiere che andava dall’occultamento dei 23 ricercati, degli sbandati, degli ebrei sino ad atti di resistenza. Leopoldo Moscati (il più giovane dei rifugiati: 15 anni) ha spiegato l’anima dell’operato di quel gruppo di religiosi e di laici: “un verissimo spirito umanitario, senza che sia mai trapelato alcun interesse e pressione di carattere economico, religioso, politico…”. Parrocchie, religiosi, laici, famiglie, case private costituivano un tessuto di volenterosi che proteggeva le presenze clandestine. In memoria di padre Dressino, lo Yad Vashem ha consegnato alla parrocchia il diploma di “Giusto tra le Nazioni”, un riconoscimento che lo accomuna a Pietro e Giuliana Lestini e a Suor Margherita, anche loro insigniti della stessa onorificenza. POST SCRIPTUM H o visitato la “Sezione Aerea” il 17 giugno 2012, insieme a un gruppo di Suore del convento delle Figlie della Carità, consorelle di Suor Margherita Bernès, con la preziosa guida di padre Pietro, attuale vice-parroco di San Gioacchino. Per arrivarci si sale dalla sacrestia al quarto piano dell’edificio, per raggiungere la base della cupola; una scala a chiocciola, poi, porta all’ ingresso dello “stanzone”. Si entra attraverso un varco nel muro eretto per celare il rifugio (è ancora in sede buona parte dei mattoni). Con accorgimenti, si percorrono i lati del rettangolo. Nella parte di sinistra, entrando, sono ancora visibili alcuni disegni realizzati con il carboncino da un rifugiato, restato sconosciuto: un uomo si copre il volto (forse simbolo della difficile condizione condivisa, sia fisica che psicologica), un Cristo sofferente e una Madonna con bambino (l’ immagine è parzialmente compromessa dall’umidità); nella parete che racchiude il Rosone c’ è traccia, in piccolo, di alcuni alberi e di una casa di campagna. NOTE: 1) È ministro per la Cooperazione internazionale e l’Integrazione, nel governo Monti. È professore a Roma Tre e fondatore della Comunità di S. Egidio. PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Itinerari della Resistenza Curenna, Borgo e Monte Castellermo, coperto dalle nubi RICORDANDO IL MEDICO-PARTIGIANO FELICE CASCIONE Tra quei sentieri nacque “Fischia il vento” 6XOOHQRWHGL´.DWLXVFLDµLOWHVWRLWDOLDQR/HEDQGHGHO3RQHQWH/LJXUH HO·DVVDOWRIDVFLVWD´XPHJXµGHFRUDWRGLPHGDJOLDG·2UR di Roberto Moriani S ubito dopo l’8 settembre 1943, anche nel Ponente Ligure, sulle alture a ridosso delle città costiere si vanno formando le bande partigiane che saranno poi unificate ed organizzate nelle “Brigate Garibaldi” della “Prima Zona Liguria”. Prima fra tutte nell’imperiese quella guidata dal giovane medico Felice Cascione, per tutti “u megu”. Inizialmente essa è stanziata in località “Magaietto” nel comune di Diano Castello, dove si raccolgono e si organizzano i gruppi di giovani che per primi vi affluiscono. Verso la fine di novembre le condizioni del momento consiglieranno PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 lo spostamento della banda in via di formazione in una zona ritenuta più sicura dietro la montagna del Pizzo d’Evigno, che sovrasta le Valli di Oneglia, di Diano e di Andora, in alcuni casoni 1 nella zona del “Passu du Beu” sopra la frazione Duranti nel Comune di Stellanello (SV) in Val Merula dove resterà fino al 20 dicembre. Durante questo periodo si creeranno le condizioni di una vera organizzazione militare e logistica della formazione partigiana e qui, nei periodi di calma, alla sera intorno al fuoco nasceranno le prime strofe della canzone “Fischia il vento”, destinata in breve tempo a 24 diventare, attraverso la sua diffusione spontanea, l’inno di tutta la Resistenza. Tra questi giovani volontari c’è il partigiano “Ivan”, Giacomo Sibilla, reduce dalla campagna di Russia dove aveva imparato una popolare canzone, “Katiuscia”, che parlava della nostalgia di una ragazza per il suo soldato al fronte. Il motivo suonato con la chitarra da “Ivan” è orecchiabile e accattivante per tutti e, le stesse condizioni di questi partigiani e la dura vita che conducono, assieme all’anelito che li spinge, suggeriscono all’animo sensibile del Comandante Cascione le parole ed i primi versi del Itinerari della Resistenza loro inno. “Fischia il vento, urla la bufera, scarpe rotte eppur bisogna ardir, a conquistare la rossa primavera, in cui sorge il sol dell’avvenir”. l 14 dicembre 1943 parte della banda viene chiamata a partecipare, soccorrendo altri gruppi locali, al primo scontro armato di un certo rilievo noto come la “battaglia di Colla Bassa” a monte del paese di Montegrazie nell’entroterra di Porto Maurizio (Imperia) per rintuzzare la minaccia di una rappresaglia nazifascista. La battaglia, che impegnerà un centinaio di uomini tra tedeschi e fascisti, si risolverà per essi in un pesante rovescio e darà un primo segnale della effettiva consistenza, anche militare, della nascente Resistenza imperiese. Nel corso dell’azione cadranno tra l’altro prigionieri dei partigiani un tenente ed il milite delle brigate nere Michele Dogliotti che, condotti presso il comando della banda al Passu du Beu, eviteranno la fucilazione grazie all’energico intervento del “megu”: “ ho studiato tanti anni per salvare vite umane, ora non mi sento di sop- I primerli. Teniamoli con noi e cerchiamo di fargli capire le nostre ragioni”. Queste, più o meno le parole che adoperò e che furono riportate dai suoi compagni. Da quel momento i due seguirono gli spostamenti della formazione godendo anche di una certa libertà. La cosa si rivelerà in seguito fatale per le sorti della banda e dello stesso Comandante. n seguito alla Battaglia di Colla Bassa la sede del comando del Passu du Beiu diventa insicura, troppo esposta alla prevedibile reazione fascista. Il CLN avverte sospetti movimenti di truppe tedesche ed individua per la formazione una nuova posizione più arretrata e sicura nell’entroterra di Albenga, sotto la cima del Monte Castellermo presso il “Casone dei Crovi” 2. All’alba del 21 dicembre inizia il trasferimento verso la nuova destinazione. Si discende al paese di Testico e da qui verso il fondovalle del torrente Lerrone passando da Poggio Bottaro. Giunti sotto il paese di Casanova Lerrone i partigiani di Cascione risalgono la montagna I verso Nord in direzione della cresta montuosa che separa in questo punto la Valle Lerrone dalla Valle d’Arroscia e passano dalla cappella campestre di S. Bernardo per discendere alla frazione Bosco. Rifocillati dagli abitanti con quel poco che avevano, sostano in un casone di fortuna dove si fermano a dormire e a riposare anche la giornata successiva; altri versi della canzone si aggiungeranno ai primi. La notte seguente protetti dall’oscurità raggiungono il pericoloso fondovalle dell’Arroscia percorso dalla strada statale che congiunge Albenga alla Val Tanaro in Piemonte, la attraversano presso Ponte Rotto di Ranzo e prendono a risalire verso Nord attraverso Onzo e fino alla destinazione del Casone dei Crovi a quota 750 metri. che raggiungeranno tra il 23 ed il 24 dicembre. a Notte di Natale del 1943 gli abitanti della frazione Curenna del Comune di Vendone, uscendo dalla messa di mezzanotte, avranno la sorpresa di trovare il gruppo dei partigiani armati sul sagrato della L I LUOGHI DELLA MEMORIA ED IL PERCORSO /HWDSSHGHJOLVSRVWDPHQWLGHOOD%DQGDGHO´0HJXµ Magaietto: prima sede della banda, dal mese di settembre al 20 novembre 1943 gruppo di casoni nel Comune di Diano Castello (IM) sulle alture che conÀQDQRFRQLO&RPXQHGL3RQWHGDVVLRSRFRGLVWDQWHGDOOH“Case Merea”. IL SENTIERO DI “FISCHIA IL VENTO” L’intero percorso dal Passu du Beu al Casone dei Crovi misura 18 chilometri. Tutte le tappe indicate sono raggiungibili in auto provenendo da Albenga, da Andora o dal Piemonte attraverso la Val Tanaro. Passu du Beu: Sede del comando dal 23 novembre al 21 dicembre 1943 versante settentrionale del Monte Pizzo d’Evigno, piccolo gruppo di casoni compresi in uno stanziamento agro-pastorale a quota 610 mt nel comune di Stellanello (SV) in Val Merula o Valle di Andora, sopra la frazione Duranti. La zona è raggiungibile dalla frazione anche con fuoristrada lungo una carrareccia in vari punti dissestata. Felice Cascione “u megu”, il medico partigiano 4XLQDFTXHUROHSULPHVWURIHGL´)LVFKLDLOYHQWRµ 'DODOGLFHPEUHVLVYROJHODPDUFLDGLWUDVIHULPHQWRGHOODEDQGDYHUVRLO´&DVRQHGHL&URYLµVRSUDODIUD]LRQH&XUHQQD di Vendone. Queste le tappe: Passu du Beu - Duranti - Testico - Poggio Bottaro - Casanova Lerrone - Cappella di S.Bernardo - Bosco (frazione di Casanova, situata però in valle Arroscia) - passaggio dell’Arroscia a Ponte Rotto di Ranzo - Onzo - Curenna di Vendone (dove venne cantata per la prima volta la canzone, la notte di Natale del 1943 sul sagrato della chiesa all’uscita della messa, vi si trova un monumento con lapide memoriale in una piazzetta ricavata a monte della strada provinciale sotto il borgo) - Borgo - Casone dei Crovi. Casone dei Crovi: sede della banda dal 24 dicembre 1943 all’8 gennaio 1944 Casoni sparsi in quota 750 mt. sotto le rocce di Castellermo, tutt’ora utilizzati da allevatori di Curenna. Sulla facciata del Casone dei &URYLYLqODODSLGHGHGLFDWDD&DVFLRQHHD´)LVFKLDLOYHQWRµ'DOODIUD]LRQH%RUJRXQRVWHUUDWRVDOHFRQGLYHUVLWRUQDQWLYHUVRLOFDsone incrociando più volte l’antica mulattiera. Percorribile in auto fuoristrada o 4x4. La Frazione Curenna è raggiungibile in auto dalla Valle Arroscia attraverso Costa Bacelega e Onzo, oppure da Albenga attraverso il Comune di Arnasco dove si possono ammirare le stele che lo scultore Kriester ha dedicato alla memoria di Fischia il vento. 'DOO·JHQQDLRGHO·ODEDQGDVLWUDVIHULVFHQHO&RPXQHGL$OWRD´&DVH)RQWDQHµLQTXRWDGRYHUHVWHUjÀQRDOO·HSLORJRWUDJLco del 27 gennaio 1944. Monumento sulla piazza principale di Alto. A Case Fontane una lapide sovrastata da una colonna, dedicata GDOODPDGUHDOVDFULÀFLRGL)HOLFH&DVFLRQH 25 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Itinerari della Resistenza Il testo originale di “Fischia il vento” Casone nella zona del “Passu du Beu” chiesa, ad intonare la loro nuova canzone “Fischia il vento” nella sua primitiva stesura, che verrà rifinita e completata nel Casone dei Crovi i giorni seguenti. Ogni partigiano fu accolto il giorno di Natale presso le famiglie del paese che si strinsero a loro in un abbraccio fraterno e solidale. el corso della settimana successiva iniziano i contatti con un altro gruppo partigiano dell’albenganese, stanziato nei pressi di Alto (CN) alla testata della Val Pennavaira, progettando una possibile unificazione dei due gruppi. Il 6 gennaio 1944 Felice Cascione e buona parte della brigata in pieno assetto si portano a scopo esplorativo al paese di Alto dove vengono accolti dagli altri partigiani e da parte della popolazione. Viene improvvisata una piccola festa nel corso della quale verrà cantato ufficialmente l’inno della brigata nel suo testo definitivo. Il giorno seguente viene però funestato dalla notizia portata da una staffetta, che dal Casone dei Crovi il prigioniero Dogliotti, salvato a suo tempo da Cascione, era riuscito a fuggire dopo aver tentato di uccidere il partigiano che era con lui, facendo perdere le sue tracce. Questo evento fece rompere gli indugi e decidere per il definitivo trasferimento di tutta la formazione dai boschi di Curenna a Case Fontane, un gruppetto di tre casamenti rurali a circa 1150 mt. di quota a monte della chiesetta di Madonna del Lago di Alto. Qui le due bande ormai unificate contano oltre 60 uomini organizzati in diverse squadre che assumono diverse iniziative sia sul versante ligure che su quello piemontese N PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 dell’Alta Val Tanaro. Anche in questo periodo di permanenza ai casoni di Fontane, non di rado il “Megu” accompagnato da qualche partigiano, non manca di portare la sua opera di medico alla gente di queste frazioni di montagna bisognosa e isolata, cosa che contribuisce ad accattivare la simpatia e la riconoscenza della popolazione, all’inizio un po’ diffidente verso i “ribelli”. a mattina del 27 gennaio 1944, mentre sono già in corso preparativi per il trasferimento della formazione che da oltre 20 giorni è stanziata sul posto, giunge da valle una nutrita formazione di tedeschi e fascisti orientati dalle informazioni del Dogliotti e di altre spie. I partigiani che ancora si trovavano a case Fontane, allertati dalle sentinelle si dispongono fra le rocce sovrastanti di Rocca Asperiosa preparandosi a respingere l’attacco imminente. La sparatoria è già iniziata a distanza quando Cascione, tenta in extremis di recuperare uno zaino contenente tutti i documenti della Brigata rimasto nel casone del comando e rimane ferito ad una gamba impossibilitato a muoversi. Vani risulteranno i tentativi di alcuni partigiani di metterlo in salvo, ormai il nemico è giunto numeroso sul posto. “u megu” verrà finito vilmente dalla pallottola di un fascista quando ormai inerme era caduto nelle mani dei tedeschi. L’ultimo suo atto fu quello di evitare l’immediata esecuzione dell’altro partigiano catturato con lui, l’ex carabiniere Giuseppe Cortellucci: “Il comandante sono io, lui è un mio prigioniero!”. Così si conclude la breve epopea per- L 26 sonale del primo Comandante autore dei versi immortali. Ma egli è già divenuto un mito per i giovani che sempre più numerosi accorreranno ad ingrossare le fila della Resistenza del Ponente Ligure. BIBLIOGRAFIA Francesco Biga: “Felice Cascione e la sua canzone immortale”, Edizione ISRECIM (Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea della Provincia di Imperia), 2007, Tip. Dominici, Imperia. Francesco Biga: “Felice Casione” (La breve esistenza di un medico, comandante partigiano nel Ponente Ligure, Medaglia d’oro al Valor Militare alla memoria, con una nota di Alessandro Natta), Ed. Dominici, Imperia, 1996. G. Strato: “Storia della Resistenza Imperiese (I Zona Liguria)” Vol I - La Resistenza nella Provincia di Imperia dalle origini a metà giugno 1944 - Sabatelli Editore, Savona, 1976. Attilio Mela: “Qualcosa della Resistenza”, Ed. Istituto Storico della Resistenza, Tip. Dominici, Imperia, 1995. Riferimenti Internet: Fischia il Vento Associazione Culturale: it-it.facebook.com/FischiaIlVentoAssociazioneCulturale Pagina di FB ricca di foto d’epoca, immagini relative a manifestazioni eventi resistenziali e relativi al “Sentiero di Fischia il Vento”. NOTE 1) Il “casone”, traduzione italiana di “Casun”, in questa parte di Liguria, è una piccola e rustica costruzione ad uso rurale e saltuario. 2) Il “Casone dei Crovi”, tutt’ora utilizzato da allevatori locali come margheria. Cinema ´/$%,&,&/(77$9(5'(µ(´$/Ï+$*/,2&&+,$==855,µ Cinema islamico: i giovani vogliono cambiare di Serena D’Arbela C’ è voglia di cambiare nelle nuove generazioni islamiche stimolate dalla TV e da Internet. Troviamo in due film di diversa ambientazione queste aspirazioni ad infrangere limiti culturali dalla rigidità insopportabile. Il primo (La bicicletta verde) con regia femminile (Haifaa Al-Mansour) viene dell’Arabia Saudita ed è un piccolo capolavoro anche grazie a Waad Mohammed, la piccola deliziosa interprete. Presentato alla sezione Orizzonti dell’ultimo Festival di Venezia ed uscito nelle sale con il patrocinio di Amnesty International, per il suo contenuto sui diritti negati, il film scorre con composta ironia centrando le sue frecciate sulla condizione della donna nel regno saudita. Lo stile leggero ma senza compromessi ben si attaglia alla ragazzina di dieci anni che aspira ad avere una bicicletta per gareggiare con l’amichetto Abdullah nelle strade periferiche di Ryiadh. Ma a Wadjda è vietato dalle regole di una società che resiste agli ammodernamenti del costume, invocando i testi sacri e discriminando la donna. Seguiamo la protagonista litigare e scherzare con il coetaneo, che non vede differente da sé. Le sfide giocose con Abdullah spesso la mostrano superiore ma non le è consentito di avere il velocipede considerato un mezzo diabolico. Questi tabù e prescrizioni non possono non ricordarci passati fanatismi religiosi della nostra Storia superati con travaglio nei secoli. Il velo nero imprigiona la bambina come le scarpe nere, come la monotona recita dei versetti. L’ombra del peccato è dappertutto e l’uomo è visto come un pericolo costante da tenersi lontano, mentre regnano ipocrisia e sotterfugi. L’amante di un’austera maestra visita le sue stanze sotto le spoglie di un finto ladro. La scolaresca è obbediente ma i sorrisetti e le occhiate maliziose non si contano. “Il mondo in Arabia non è più come quando io ero ragazzina – dice Hayfaa che è la prima regista donna saudita – Le ragazze hanno i loro sogni, sono ambiziose, hanno accesso a tante risorse. Sarà difficile tagliarle fuori e tenerle sempre sotto controllo”. /DSURWDJRQLVWDGHOÀOP´/DELFLFOHWWDYHUGHµ 27 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Cinema La determinazione di Wadjda ci conquista, mentre raccoglie soldi per comprarsi la bicicletta con lavoretti, piccoli scambi e perfino un ruolo di messaggera d’amore. Il prezzo alto la costringe ad iscriversi ad una gara coranica, imparando a memoria le sure del libro sacro. Quando vince l’ambito premio però, non può toccare il denaro perché la bici non è consentita alle femmine. La somma prende un’altra destinazione, donata ai “fratelli palestinesi”. La ragazzina ci resta male, ma avrà comunque ciò che ha guadagnato. Ci pensa la madre (Reem Abdullah) ad offrirle la bicicletta. Il film fila con lievità tra sorriso, pianto e solidarietà femminile. La sequenza finale ha una grande forza. In sella al veicolo nuovo fiammante la bambina corre sbrigliata seminando il simpatico Abdullah. L’ispirazione neorealista del film conferisce all’oggetto quel significato simbolico caro alle celebri sequenze dei “maestri” italiani. La “volata” infatti è anche una metafora spiritosa della capacità femminile liberata. ome Wadjda, ma in un contesto differente, anche Nader, il sedicenne protagonista di Alì ha gli occhi azzurri, vuole che le cose cambino. Nel film italiano (Premio Speciale della giuria al re- C cente Festival Internazionale del Film di Roma) ambientato tra il raccordo anulare di Roma e il litorale di Ostia, troviamo gli immigrati di seconda generazione. Il giovane protagonista, figlio di egiziani, si trova tra due fuochi: l’appartenenza alla terra d’origine e ai suoi valori traNader e Brigitte in “Alì ha gli occhi azzurri” dizionali e la nuova identità in via di assimilazione. caseggiati occupati da extracomuÈ nato in Italia dove vive e studia, nitari o all’aperto sul lungomare vuole essere come i suoi compagni, invernale. Incorre in bravate, piccoli porta le lenti a contatto colora- furti, regolamenti di conti, tipici del te. Claudio Giovannesi fa recitare suo giro di conoscenze e in una raun personaggio vero, che si muove pina nata in quel mondo ambiguo. con grande naturalezza in ogni si- Nel quartiere i giovani sottoproletatuazione. Lo ha ascoltato a lungo ri e immigrati, divisi tra la scuola, e registrato insieme al suo gruppo la discoteca e la strada sono preda di amici. L’impianto realistico-do- di un costume degradato noto alla cumentario e la giusta distanza da cronaca. Nader spesso sbaglia, ma osservatore del regista coadiuvato il suo animo è sincero e caparbio, dal co-sceneggiatore Filippo Gra- confrontandosi col difficile percorvino, la buona fotografia (Daniele so verso una coscienza adulta. Deve Ciprì) e le didascalie in arabo ren- fare i conti con nuove situazioni nel dono autentica la storia filmica. L’a- bene e nel male e con le sue radici, dolescente ribelle difende il proprio riferimenti etici, sacralità dell’amicidiritto di crescere zia ma anche tabù tradizionali come e di scegliere. Ha le pretese maschiliste di dominio trovato un ragaz- sulla donna. S’infuria infatti con za, Brigitte, ne l’amico del cuore Stefano che osa è innamorato e corteggiare sua sorella, ma riesce a ricambiato ma la parlare col padre benzinaio, più sagmadre non am- gio e comprensivo della mamma. mette questa relal film è un brano di verità sul zione in contrasto territorio e fa riflettere lo spettacon le regole del tore sui fatti senza intromissioni matrimonio mu- moralistiche o ideologiche. Evisulmano. Lui non denzia la complessità del fenomeno ha alcuna inten- emigrazione e dei processi di intezione di obbedi- grazione attraverso le immagini di re, sacrificando chi li vive. La sequenza finale della l’amore. Rimpro- famiglia che attende intorno alla verato e cacciato tavola il ritorno del figliol prodigo fuori dalla porta, col suo posto intatto, ha la fissità sta fuori per set- di un’icona, ma contiene la dialette giorni, i sette tica tra pazienza biblica e spinte di giorni del film. rinnovamento. Le nuove identità Ore irrequiete e nascono dal basso e fremono per pericolose, per- introdurre nella tradizione nuove La regista Haifaa Al-Mansour nottamenti in esperienze culturali. I PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 28 Biblioteca Pitzinnos Pastores Partigianos “su caddu o s’ebba, sa calavrina”, il cavallo, la cavalla, la puledra. I fratelli accompagnarono i fratelli, i padri i figli. Da Osidda il viaggio in treno sarebbe stato a Chilivani e poi Sassari, poi Alghero, poi l’aeroporto, poi l’ignoto. Notevole il carico di presagi. Andavano alla guerra. A Fertilia li caricarono su un aereo diretto a Ciampino. I epigrafe è del grande poeta Anpitzinnos si ritrovarono perlopiù drea Zanzotto: «…Lo “sbaninsieme a Perugia, avieri – “aviatori damento”… si riferisce sia al senza aeroplano” come scrive a casa fenomeno degli “sbandati” dopo l’8 uno di loro – nelle caserme “Fortesettembre (passati alla resistenza quasi braccio” e “Regina Margherita”. Ininconsciamente o rimasti al margine sieme vissero i giorni dello sbando dell’azione…) sia alle incertezze affacdopo il tragico 8 settembre. “Bandiciatesi nel dopoguerra riguardo al sitarono senza causa” nelle campagne gnificato, alla direzione, alla possibilità dell’Alto Lazio e qui applicarono i stessa di un movimento-progresso stocodici esperiti nella campagna sarda, rico… una storia finalmente “vera” …» abigeato compreso, per sopravvivere. “Pitzinnos Pastores Partigianos eravaSe ne stavano buttati lungo la linea mo insieme sbandati”, è il primo titoferroviaria. Videro molte truppe nalo della collana Annales dell’ANPI di zifasciste attraversare quella che loro Nuoro. Ne sono autori Piero Cicalò, avrebbero poi chiamato “Sa tuppa de Pietro Dettori, Salvatore Muravera, Bieda”, il bosco, la macchia di Blera. Natalino Piras. Il libro, in distribuzione sia in Sardegna che in altre parti Piero Cicalò, Pietro Dettori, Assistettero a rappresaglie e rastreld’Italia, lo si può avere con una sottoSalvatore Muravera, Natalino Piras lamenti. Tanto sangue di innocenscrizione a partire da 20 euro. «Pitzinnos Pastores Partigianos ti. Altri pitzinnos sardi come loro, come loro sbandati, vennero uccisi, È un racconto corale ma pure di voci eravamo insieme sbandati» individualmente distinte. In questo laANPI Nuoro – collana Annales/1, massacrati dai nazifascisti insieme a civili inermi. I pitzinnos pastores si voro di ricerca vengono messe insieme 2012, pagg. 520 cercò, specialmente da parte del gediverse interviste. Il punto di partenza sottoscrizione a partire da € 20. è l’8 settembre 1943, data dell’ArmiIntroduzione di Paolo Padovan, nerale Barracu di Santu Lussurgiu e del colonnello Fronteddu di Dorgali, stizio (in realtà firmato il 3 settembre prefazione di Bachisio Bandinu di irreggimentarli come soldati della a Cassibile, vicino Siracusa) che segue repubblica di Salò, alleata ad Hitler, quella del 25 luglio dello stesso anno, la caduta del fascismo e l’arresto di Mussolini. Un tem- fondata da Mussolini dopo essere stato liberato da un po tragico. Ci sono in quei giorni una grande confusio- commando tedesco a Campo Imperatore, nel Gran Sasne e un grande senso di smarrimento. L’Italia continua so. Lo sbandamento continuava. I ragazzi di Barbagia a restare in guerra. Solo che cambia il fronte: i nemici si ritrovarono insieme nella caserma di via La Lungara di ieri, gli anglo-americani già presenti nel territorio na- a Roma e da qui, nel dicembre 1943, avviati in treno, zionale dopo gli sbarchi in Sicilia e ad Anzio, diventano in due differenti scaglioni a Trieste, al confine con la i nuovi alleati. I nazisti tedeschi, Wehrmacht e SS con Slovenia, a combattere contro i partigiani italiani e jucui gli eserciti mussoliniani avevano iniziato la guerra goslavi di Tito. Nell’attraversare l’Italia i ragazzi sardi diventa nemico occupante che mette la penisola a fer- videro solo devastazione, morte. Avevano cercato, nei ro e fuoco. È l’inizio delle formazioni partigiane, della giorni dello sbandamento, di fuggire dalla guerra e troguerra di Liberazione e della Resistenza. Vi partecipa- vare un imbarco per la Sardegna. Si ritrovarono nell’orno anche i Pitzinnos Pastores. Erano tutti ragazzi sui rore della guerra. Durò poco lo stare con i repubblichivent’anni, alcuni anche meno, che provenivano princi- ni. A gennaio del 1944, a ridosso dei giorni dei fuochi palmente da Bitti, Orgosolo, Orune, Galtellì, Dorgali, di Sant’Antonio, scapparono in massa dalla caserma di Orosei, Nuoro e altri paesi di una delle province più Villa Opicina in quel di Trieste e furono partigiani con oscure di una Italia mai unita. Non fosse che erano e la Brigata d’Assalto che combatteva insieme al IX Corsono punti di emanazione di un racconto che diventa pus Sloveno. Tutto questo racconta il libro, l’esperienza via via sempre più coinvolgente. Una geografia di ap- della guerra partigiana, chi cadde in battaglia, chi fu partenenza pastorale e contadina, quella dei pitzinnos torturato e ucciso, chi tornò. La storia è raccontata dal pastores, sconosciuta dalle mappe, una zona periferica punto di vista dei pitzinnos pastores e si basa principalcome luogo delle Storia. I pitzinnos pastores partirono mente sulle interviste, riportate bilingui, in sardo e tra“paris”, insieme, più di uno, a gruppi, dai diversi pae- duzione italiana a fronte, a Luisu Podda, Luisu Mereu e si. I ragazzi bittesi furono accompagnati a cavallo alla Corraineddu di Orgosolo, a Anzelinu Soro di Galtellì. stazione di Osidda. Bisognava essere almeno in due per C’è spazio anche per Amarette, soprannome del bittese ogni nucleo familiare, perché poi uno portasse indietro Antonio Michele Pintus, oggi novantenne, che racconta L’ 29 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Biblioteca Maria Rossini la postina partigiana i giorni dello sbandamento in maniera insieme estraniata e partecipe: la memoria dei suoi vent’anni e degli altri compagni come condizione indispensabile per dire qualcosa ai ventenni d’oggi che non sia solamente unu ammentu, un ricordo individuale e basta. Qui si cerca di andare oltre, di stabilire orizzonte. Molti dei l 29 aprile 1945 una squadra partigiana della bripitzinnos pastores di questa storia furono nel “cuore di gata Cacciatori delle Alpi ferma, armi alla mano, tenebra” del colonialismo italiano in Africa. Ne condiuna vettura militare germanica sulla quale viaggia il visero, costretti, l’orrore. La guerra di Liberazione serve generale Jurgen von Kamptz (con una bandiera bianca alla speranza del dopo, riscatta quel “cuore di tenebra”. bene in vista) partita da Vittorio Veneto, diretta a San La storia partigiana racconta la geografia antropologi- Vendemmiano. L’alto ufficiale si arrende e, subito conca dei paesi di provenienza dei pitzinnos pastores. Gli dotto a Ogliano, stende di suo pugno un documento di stessi luoghi dove si fece elaborazione comunitaria del resa assai significativo così concepito: «Noi capitoliamo, lutto all’annuncio, molti mesi dopo, della loro morte in consegniamo le armi e tutte le munizioni. Tutto il bagabattaglia. I pitzinnos furono pianti in assenza di corpo, glio resti in mano agli uomini. La vita di ciascuno sarà una fotografia sopra una “fressata”, un tappeto o co- garantita». L’ultima riga è di eccezionale importanza: il perta tradizionali, o sopra una “bertula”, una bisaccia. gruppo partigiano tutela al massimo i militari nazisti; Intorno le donne a fare “teju”, lamentazione funebre, i soldati disarmati sono condotti alla Caserma Gotti, e “attitu”, il canto delle prefiche. Questo libro motiva gli ufficiali superiori accompagnati a Villa Chiggiato. ragioni, sentimenti, pulsioni, smarrimenti, prese di co- Diversi storici sanno chi è von Kamptz e, quale comanscienza. I protagonisti principali sono Joglieddu Sanna dante di reparti speciali della polizia militare germanie Nenneddu Sanna, entrambi bittesi, entrambi morti in ca, rammentano bene che si tratta dello stesso generale battaglia, entrambi ventenni. Anche attraverso le loro nazista che nelle Marche, in fase di ritirata, si è maclettere si raccontano il contesto pastorale e la caserma chiato di stragi e uccisioni di civili inermi come minudi Perugia. Dello sbandamento, delle stragi nazifasciste, ziosamente descrive anche questo libro di Giacomini. della vita partigiana saranno i ritornati a raccontare, per Centrato sulla singolare vicenda della locale partigiana loro e per tutta la dimensione di sarditudine che da un Maria Rossini, staffetta di notevole impegno e determipunto di vista geografico e storico la guerra di Liberazio- nazione dispiegata nei territori di Pergola, Arcevia, Sasne e la Resistenza hanno comportato. soferrato, Fabriano, Monte Sant’AnIl volume ha la giusta ambizione di gelo e dintorni (tra Ancona e Pesaro). entrare nelle scuole. È stato elaborato Il vissuto, singolare, della Rossini è anche nel segno di una didattica deldettagliato da diversi documenti d’arla Storia. Ci sono, a corredo di quechivio, dalla testimonianza del figlio sta narrazione, fotografie, illustrazioGiovanni, dalle carte riferite al suo arni, cartine e mappe, racconti e poesie resto e alla carcerazione a Pergola ad che intersecano e legano le varie paropera della polizia fascista. La stafti. È un libro di viaggio. Chiudono fetta partigiana, grande camminatriil volume una cronologia, altre tavole ce, non era giovanissima; contava 38 di comparazione, bibliografia-discoanni e a scuola aveva frequentato non grafia-filmografia-sitografia, tutte più della terza elementare, rivelandoragionate, e un sostanzioso indice dei si tuttavia ansiosa di sapere, di leggenomi. Prima ancora ci sono la lettera re, di approfondirsi culturalmente. A di don Milani ai cappellani militari quattordici anni aveva fatto la portanel 1965 e un inserto a colori chiamalettere sostituendo la sorella maggioto “Romancero Partigiano”. Apre con re nel frattempo sposatasi. due pagine di dediche. Ci sono quelAlla fissazione della memoria storica le private dei quattro autori e quelle contribuiscono le due sezioni ANPI di 5XJJHUR*LDFRPLQL pubbliche a personaggi ispiratori: lo “Una donna sul monte - la partigia- Sassoferrato e Arcevia promuovendo storico delle “Annales” Marc Bloch, il na Maria Rossini di Cabernardi e il queste pagine – come viene precisateologo protestante Dietrich Bonhomistero dei militi scomparsi nella to nell’introduzione – “di approfoneffer, il giornalista cecoslovacco Justrage del S. Angelo di Arcevia”. dimento e di ricerca storica su fatti e lius Fučík, tutti combattenti della Affinità elettive, Edizioni ae di personaggi del nostro passato recente. Resistenza, tutti uccisi dal nazismo, e Valentina Conti - Vicolo Stelluto Vicende e protagonisti di quella svolta poi il regista cinematografico Robert 3, 60121 Ancona - (www.edi- profonda, maturata nei lunghi anni Bresson, Antonio Gramsci, don Lodi una guerra disastrosa... che sui nozioniae.it) renzo Milani e la poetessa Wisława Ancona, 2012, pagg. 185, € 15. stri territori è passata più velocemente Szymborska. A cura di Alvaro Rossi, introdu- che in altre parti d’Italia, ma ha lazioni di Alvaro Rossi e Angelo sciato gli stessi indelebili segni nelle N. P. coscienze e nella memoria collettiva”. Verdini I PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 30 Biblioteca Quei tristi segni ci parlano emblematicamente anche di Palmina Mazzarini uccisa a sei anni dai soldati nazisti e fascisti sul Monte Sant’Angelo. Così, in apertura, Angelo Verdini con “Blusetta rosa” dice versi per Palmina iniziando così: “Dopo la neve del lungo inverno/i fiori tenui dell’albero del ciliegio e del biancospino/tornano al mondo/e si contendono l’azzurro del cielo”. E ancora: “Il rosa trapassa al rosso/lievemente scurito/dall’ ignara rugiada/su un corpo di compostezza/di trecce intatte e sporgenza di piccole ossa./Ti incontrerò ancora/per non finire mai di raccontarti il monte”. Ecco, raccontare il monte e quanto è avvenuto in altri luoghi del vicinato, sottomessi alla crudeltà degli armati di von Kamptz. Primo de Lazzari *• * • * • * • Renato Chirici il poeta dei partigiani “N d’acqua pulita, giovani tralci di vite… Lo scorrere degli elementi e del tempo, lo sbocciare, appassire e ricrescere delle foglie, dei fiori, dei frutti. E dentro al movimento della natura, sincrono ad esso, quello degli uomini. È proprio il cammino, sui monti, che cementa l’unità di ideali e di speranze: “I passi\ Strascicati\ Le parole\ Il freddo delle armi\ Sulle mani,\ Il primo della fila\ Che sorride…\ Con voi\ Fratelli\ Mi pare\ Ancora andare\ Per quei sentieri\ Insieme\ A camminare…”. Il ricordo corre a coloro che sono stati bloccati, interrotti nel loro procedere avanti, che non ce l’hanno fatta ad assaporare il gusto della libertà, rimasti “Ora\ A riposare\ Sotto la terra\ Fermi\ Ad aspettare”, a ricostituire e solidificare il patrimonio genetico ultimo di questa Resistenza emiliana, “Pietra dura\ Tagliente\ Pietra d’Appennino\ Coesa\ Con rosso cemento”. Il percorso umano e poetico di Renato Chirici si è mosso negli anni a seguire lungo tracciati che intersecano, sempre sul filo teso tra l’oggi e le vissute stagioni, amore e famiglia, momenti di gioia e rimpianto sottile, luoghi natii e dialetto ancestrale, frammenti gozzaniani dell’infanzia lontana e sguardi spietati dentro a uno specchio, in un fiato di nebbia. “Io,\ Com’un’uva,\ Ancora appesa\ Al tralce,\ Ora d’inverno\ Continua\ A rinsecchire”. oi siamo il nostro passato: \ Il presente non ci appartiene fino a che \ non sarà già stato”. Il senso e il significato di ogni fatto, di ogni esperienza, di un’intera esistenza non può essere colto Natalia Marino finché non possiamo vederlo e analizzarlo per intero, per sempre compiuto e definito. Questo riafferma con *• * • * • * • i versi posti in esergo l’italo-ottuagenario autore di questa raccolta di poesie. Partigiano, Renato Chirici ha combattuto l’occupazione nazifascista nella Brigata Stella Rossa “Lupo” che operava nella zona di Bologna e Modena. E come un altro ottantenne esemplare, il l titolo di questo libro sarebbe piaciuto molto a Carlo Altoviti di Ippolito Nievo che nacque veneziano mia madre. Era stata lei stessa a suggerirlo, senza e morì italiano, si volge ancora a riguardare il sacrificio volerlo, all’editore, quando in una conversazione, di una generazione di giovani uomini: “Non è lontana, \ non sono lontani… \ tutti con me. \ Vicini… \ Col mio parlando di sé, le sfuggì una battuta: “Una vita? Forse due…”. Così Sara Scalia comincia la lapis \ Corto e spuntato \ Scrivo e scrivo presentazione di queste pagine. La vita \ La parola che amo: \ RESISTENZA”. della Mafai è stata incastonata nei moI volti e le voci dei compagni caduti menti più drammatici e cruciali della riaffiorano dalla memoria, in una rinstoria d’Italia del Novecento: le persenovata presenza, praticamente in tutte cuzioni razziali, la guerra, la Resistenza le poesie che l’autore ha dedicato alla e la parabola del comunismo. La forza lotta di Liberazione nazionale e vandi questo libro, come sottolinea la fino a sottolineare il valore di una viglia, è nel suo personalissimo punto di cenda dolorosa che è stata al contemosservazione sul dipanarsi della storia: po personale e comune, individuale e gli occhi di una bambina, poi di una condivisa. Sintetizzato nel lampo che ragazza e infine di una giovane donna. si sprigiona fin dal titolo della raccolMiriam era nata in una famiglia di ta, Come un’uva. Lo spiega bene, nelartisti: pittore il padre, Mario Mafai, la sua introduzione al volume, Anna pittrice e scultrice la madre, Antonietta Zambelli esplicitando lo scarto gramRaphaël, ebrea fuggita dalla Lituania e maticale che, grazie all’articolo indegiunta in Italia dall’Inghilterra. Visse terminativo accoppiato a un sostantigli anni dei bombardamenti a Genovo singolare, illumina d’un sol colpo Renato Chirici va e dell’occupazione nazista a Roma, unicità dell’acino e molteplicità del “Come un’uva - Poesie di uno durante la quale assieme alla sorella digrappolo. Ancora il paesaggio agreste pseudo poeta italo-ottuagenario” stribuiva clandestinamente “l’Unità”. dell’Appennino emiliano irrompe dai Edizioni Oltre i Portici, Rimini La zona che le sorelle Mafai dovevano versi di Chirici: boschi antichi, rovi 2012, pp. 80, € 5 gestire per la distribuzione del giornale spesse e cupe, rami di quercia, fiumi Miriam Mafai: “Una vita, quasi due” “I 31 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Biblioteca andava da piazzale Flaminio a piazza Venezia e dal Corso a via Ripetta e a via della Scrofa. Così cominciò la vita di militanti comuniste, clandestine a Roma, città ormai occupata dai teden una concisa, utile nota editoschi. L’incontro decisivo fu quello con riale, Sandro Teti puntualizza Antonio Bussi, un compagno falegnache questa «pubblicazione non è me che abitava in via di Campo Marzio un’operazione anacronistica... Esisto(venne arrestato e fucilato il 7 marzo no libri caduchi che perdono di signi1944). Annota la Mafai che lì, a casa ficato se sottratti al loro tempo. Non sua, vide per la prima volta – assieme è il caso di Masse armate ed esercito alla sorella – “l’Unità”. Erano pochi foregolare nelle cui pagine... troviamo gli di carta quasi trasparente, da piegare tutti i temi della politica moderna e in quattro, facendone poi dei pacchetti tutti i nodi insoluti del “secolo bredi dieci copie, incartati per essere distrive”, con cui inevitabilmente bisogna buiti a “compagni fidati”. I ricordi di confrontarsi... è con profonda conquesto periodo sono tanti e si incrociano vinzione che pubblico una versione con le figure e i personaggi incontrati e critica di quest’opera». frequentati. Nel dopoguerra la passione, Miriam Mafai A sua volta lo storico Luciano Canprima civile e solo in un secondo tempo “Una vita, quasi due” fora (Università degli studi di Bari) politica, che ispirò molti della sua geneRizzoli (2012), informa che «Questo libro apparve razione, la portò a proseguire la militanpag.265, presso Nicola Teti Editore nel giugno za come funzionaria del PCI in Abruzzo Euro 18,00 1975, pochi mesi dopo la liberazione e come assessore al Comune di Pescara. Poi gli eventi del 1956, le rivelazioni del XX Congresso del di Saigon da parte dell’Esercito di liberazione vietnaPCUS, l’invasione dell’Ungheria, il suo trasferimento a Pa- mita comandato allora, e per molto tempo dopo, da Vo rigi, per una nuova pagina di vita. Questo appassionato rac- Nguyen Giap». conto di decenni importanti per la storia d’Italia e per quella Del famoso generale Giap, Canfora valuta essere stato mondiale si interrompe qui. L’autobiografia, che per anni «forse il testimone più significativo del secolo VenteMiriam Mafai si era rifiutata di scrivere, e a cui aveva mes- simo. Egli ha combattuto vittoriosamente contro gli so mano negli ultimi tempi, con impegno crescente, non occupanti che si illudevano di poter disporre del posarà mai terminata. La morte (9 aprile 2012) le ha impedito polo vietnamita come di un oggetto: i giapponesi, i di narrarci la sua seconda vita, quella da giornalista, prima francesi, gli americani». con “l’Unità”, poi proseguita con “Noi Donne” (direttrice), Il giornalista americano Stanley Karnow, del New York successivamente come inviata di “Paese Sera” e, in seguito, Times, vede in Giap «Un uomo leggendario, un audace stratega, un logico, un organizzatocome editorialista de “La Repubblica”, re instancabile (che) ha combattuto di cui è stata tra i fondatori, nel 1976. È per più di trent’anni, plasmando un stata anche Presidente della Federazione gruppo di guerriglieri disorganizzati Nazionale della Stampa Italiana. Quein uno degli eserciti più efficienti al sta seconda parte, se fosse stata scritta, mondo». sarebbe stata importante per ricostruiSi può dire, in definitiva, che la storia re il contributo dato dalle donne per la infinita delle guerre spesso mette in storia del giornalismo italiano, dopo la essere similitudini paradossali ma ancaduta del fascismo. Dal dopoguerra e che istruttive. Come accade al genefino ai giorni nostri è tutto un periodo rale tedesco Friedrich von Paulus grain cui si sono chiariti molti aspetti del tificato da Hitler col massimo grado rapporto donna-mass media e che può di feldmaresciallo dell’esercito nazista essere interpretato con maggiore approquando la sua sconfitta a Stalingrado fondimento, in una prospettiva storiera ormai certa ad opera dell’armata ca che colga le sue radici nel passato, sovietica in URSS. Così succede anpartendo da “Noi Donne”, stampato che al borioso colonnello francese a Napoli nel luglio 1944 e un mese ad Hanoi all’inizio di maggio 1954. dopo a Roma, come organo ufficiale Il nobile Christian Marie Ferdinand dell’Unione Donne Italiane. La testata 9R1JX\HQ*LDS del periodico, fondato nel 1936, appar«Masse armate ed esercito regolare» de la Croix de Castries riceve la proteneva alle donne antifasciste italiane Sandro Teti Editore, Roma, 2011, mozione al grado superiore di generale quando la sua resa, nelle mani di residenti in Francia. pagg. 194, € 16,00. Prefazione di Luciano Canfora e Giap, è solo questione di ore. Vietnam: il grande Giap I Mauro De Vincentiis PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 postfazione di Tommaso De Lorenzis 32 p. d. l. Biblioteca SEGNALAZIONI DI LIBRI NUOVI … E RITROVATI a cura di Tiziano Tussi L’ultimo Bennet con due racconti “sporchi”. Il narrato- re inglese che oramai da anni ci ha abituato al racconto salace, con risvolti piccanti e godibili retroscena, in queste due storie mette in scena un mondo di erotismo spicciolo giocato su nascondimenti e/o rivelazioni sorprendenti. Insospettabili signore, vedove, affittacamere che si fanno pagare l’affitto invece che con denari con partecipazioni voyeuristiche ad amplessi più o meno recitati; intrecci famigliari, tra genitori e figli, che mettono in scena l’unica forma d’intelligenza e di disinvoltura sessuale in una donna che entra in famiglia, all’apparenza assolutamente ligia alle regole. E tutto in chiave decisamente british, per cui scomporsi in pubblico è vietato. Alan Bennett, Due storie sporche, Adelphi, Milano, 2011, p. 134, e 16. *• * • * • * • Veramente ben curato, l’Autore sarebbe rimasto soddisfatto di tanta sincera deferenza. La raccolta di epitaffi di Indro Montanelli, al veleno come ci si aspetta da un toscanaccio. Anzi sott’odio, come dice il titolo. Al di là della piacevolezza di lettura di fulminei ricordi, in vita, di amici e nemici dell’Indro, il curatore, Marcello Staglieno, mette in campo il mondo dei liberali tutti d’un pezzo, che si aspettavano che dal loro mondo scaturisse la spinta all’eticità che avrebbe messo a posto le cose in Italia. O almeno facevano finta di crederci. Molti nomi si rincorrono – Longanesi, Flaiano, Ansaldo, Bontempelli, lo stesso Staglieno – e tutti accomunati da amicizia. Amicizia che Montanelli divideva anche con alcuni che non erano di quella parrocchia un po’ sgangherata. Scritti alla metà degli anni ’50. Uno per tutti: Qui/per la prima volta/ Alida Valli/ giace/ sola. Indro Montanelli, Ricordi sott’odio. Ritratti taglienti per cadaveri eccellenti, Rizzoli, Milano, 2011, p. 219, € 17. *• * • * • * • Tre storie di Carlo M. Cipolla tra il Medioevo ed il Rinascimento. Il panorama è essenzialmente il mondo degli affari e quindi delle truffe. I commerci di banchieri fiorentini e l’attività di corruzione delle monete all’epoca usatissime, i luigini. La terza storia riguarda la capacità di una famiglia, oggi si direbbe, di economisti, di commentare e definire l’ambito del grande commercio. Un piccolo libretto, brevi saggi, ristampato ora dalla casa editrice il Mulino. Cipolla vi appare sempre preciso ed accattivante. Bella è anche la citazione riportata sulla quarta di copertina che attiene al primo saggio. In soldoni: la storia non serve a imparare nulla né a scansare nulla. Stessi errori stesse illusioni. L’uomo si dibatte in una perenne nebbia dubitativa. Le storie del libretto di Cipolla ce lo dimostrano. Anche nei secoli da lui abitati, stessi comportamenti e tentativi leciti ed illeciti di arricchirsi, di vivere alle spalle degli altri o, solo più prosaicamente, di vivere. Carlo M. Cipolla, Tre storia extra vaganti, il Mulino, Bologna, 2011, p. 91, €10. *• * • * • * • Una pagina nascosta di letteratura e di vita. Emanuel Carnevali poeta morto accidentalmente all’età di 45 anni, nel 1942. Solita vita spezzata e disperata, incrocia Ezra Pound, William Carlos Williams, Ernest Walsh. Passa troppo tempo in manicomi e case di cura. Scrive, oltre che poesie, anche prosa e questo libretto ne è un esempio. Sforbiciate filosofiche, brevi bozzetti di vita di internati. Prolusioni sulla bellezza e sulla bruttezza delle donne, sempre innamorato, almeno così vorrebbe. Uno sguardo su una storia nell’abisso delle sofferenze psichiche. Un tipo da scandagliare che scrive in inglese, appreso, come ci dice la curatela del libro, guardando le insegne luminose dei negozi e delle strade, di notte, mentre fa il suo lavoro di spazzino. Indicato come anticipatore della beat generation. Da ricercare tra le pieghe dell’editoria italiana. Emanuel Carnevali, Corteo di personaggi a Villa Rubazziana, Via del vento edizioni, Pistoia, 2012, p. 35, € 4. *• * • * • * • Se si vuole avere un esempio recente di come non vi siano in giro idee politiche di un qualche spessore basterebbe leggere il libretto di Giulio Sapelli, che insegna storia economica all’università Statale di Milano. Prima mette in tavola analisi globali sull’Italia che partono dal Risorgimento ed arrivano a noi, con il binomio guida nazionale-internazionale che dovrebbe averci ispirato da sempre. Poi critica l’ultimo governo Berlusconi per non aver capito nulla del Paese. Infine passa a definire, in senso classico – dictator romanus – con tutti gli annessi del caso, anche la crudeltà dell’agire di Monti. Napolitano insomma ha agito bene togliendo a Berlusconi qualcosa che non riusciva a comprendere – il governo – ma non è riuscito a dare corso a ciò che “l’abile Casini ed il fine filosofo Buttiglione” suggerivano, cioè a mettere d’accordo Berlusconi e Bersani “ponendo loro con rudezza la drammaticità dell’italica situazione”. Come si vede un’idea assolutamente banale. Un ottimo esempio di ciò che lo stesso Sapelli indica come stato generale di vita sociale in Italia, chiudendo il libretto, in una poesia di T.S. Eliot – O dark dark dark. They all go in the dark /O buio buio buio. Tutti vanno nel buio. Sapelli compreso. Giulio Sapelli, L’inverno di Monti. Il bisogno della politica, Guerini e Associati, Milano, 2012, p. 73, € 8. 33 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Cronache Ballerini e attori della commedia di Traversi (foto Michele Ballantini) LIVORNO: UN BILANCIO DEL 2012 Intensa anche quest’anno l’attività dell’ANPI di Livorno, che ha organizzato o partecipato a varie iniziative promosse anche dalle Istituzioni locali o da altre associazioni. Particolarmente nutrito il programma di aprile, iniziato con la presentazione del libro “Le eredità di Vittoria Giunti” – introdotto dall’autore Gaetano Alessi e commentato dall’On. Anna Maria Biricotti – che è dedicato all’eccezionale figura di una partigiana comunista fiorentina divenuta successivamente primo sindaco donna a Santa Elisabetta (AG) nel 1956 e che ha trasmesso ai giovani del luogo l’entusiasmo e il coraggio necessari per lottare contro la mafia e i suoi “intoccabili” esponenti. E ancora: un dibattito su “Resistenza e giovani: valori che restano”, organizzato da ANPI-Ass. “Cure Palliative” e SVS, durante il quale sono stati letti e commentati brani del volume di Umberto Vivaldi “Il mio 25 Aprile. Diario di un Italiano”, spaccato di una Livorno del dopoguerra semidistrutta ed impegnata in una vera e propria lotta alla sopravvivenza. Iniziative ormai “storiche” e molto apprezzate in città sono state il tradizionale spettacolo, organizzato dal Coordinamento Femminile ANPIANPPIA con la collaborazione di ARCI Solidarietà e con il patrocinio e il contributo della Provincia e del Comune di Livorno, e la Borsa di Studio, intitolata a Giotto Ciardi. Quest’anno il regista e autore di PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 I ragazzi premiati a Livorno “Onora i Padri”, Alessio Traversi, si è liberamente ispirato alla fiaba “Hansel e Gretel”, di cui ha fatto una personale e surrealistica rivisitazione in chiave attuale: «Non si riesce ad essere abbastanza padri ma nello stesso tempo non si può più essere figli», commenta lo stesso Traversi. Protagonisti dello spettacolo ancora una volta sono stati la Compagnia dei detenuti della Casa Circondariale di Livorno e cinque scuole di danza della città: Arabesque, Arte Danza, Atelier delle Arti, Ex-it Danza e Laboratorio di Danza e Movimento, che hanno interpretato il ruolo di una sorta di “commento coreutico” alle scene più dense di pathos e di significato. Bravi i ballerini e belle le coreografie. A raccogliere sempre un gran numero di adesioni e di apprezzamenti si è svolta poi la Borsa di Studio intitolata a Giotto Ciardi, Carabiniere Partigiano decorato con Medaglia d’Oro al Valor Militare. Gli studenti impegnati nell’elaborazione di validi lavori di grafica sono stati quelli dell’Istituto “Cristoforo Colombo” di Livorno. Alla cerimonia di premiazione erano presenti, oltre alla figlia Paola, Presidente dell’ANPI Comunale di Livorno, i Presidenti dell’ANPI Provinciale, Vittorio Cioni e della Provincia, Giorgio Kutufà, l’Assessore alle Culture del Comune Mario Tredici, Maddalena Feola per l’Ufficio Scolastico Provinciale e il Maggiore Lecca, dell’Arma dei Carabinieri. Sono stati premiati: Rebecca Nerini (primo premio e un attestato di merito); Nicole Bernardini e Denise Or- 34 sini, rispettivamente secondo e terzo premio. Un altro attestato di merito è andato a Margherita Scali. La figura di Giotto Ciardi è stata commemorata anche in occasione dell’8 settembre dal Comune di Livorno, con la presentazione del volume “Giotto Ciardi - Carabiniere e Partigiano” a cura di Giovanni Laterra. Cristina Tosi ••••• A PIOMBINO IL CANTIERE DELLA GIOVENTÙ Una serata storica è stata organizzata il 30 agosto scorso, alla Festa Nazionale Democratica dell’Economia e del Lavoro, nell’area dibattiti dello stand dei Giovani Democratici Val di Cornia Elba. Sono stati trattati molteplici temi, dalle forme di antifascismo che hanno portato alla costituzione del Comitato di Concentrazione Nazionale, all’organizzazione della vita degli abitanti di Piombino durante il fascismo e infine la testimonianza vera e autorevole sulla “battaglia di Piombino” del 10 settembre 1943. Daniele Fioretti, membro GD e tesserato ANPI, ha sviluppato un discorso introduttivo sul parallelo tra i giovani del tempo e i giovani d’oggi; mentre l’arduo compito di esporre le numerose vicende storiche dal ’22 al ’43 è stato svolto da Ilvio Milani, presidente dell’ANPI di Piombino, testimone diretto nella seconda Guerra mondiale, Cronache promotore e fondatore del “Fronte della Gioventù” di Piombino. Da questo stimolante incontro è nato un progetto di collaborazione tra ANPI e Giovani Democratici Val di Cornia-Elba, i cui 13 membri hanno sottoscritto la tessera ANPI con l’intento di promuovere la conoscenza della storia e soprattutto della Resistenza, attraverso lezioni di gruppo nelle scuole tenute da esperti del settore. Il progetto che è in fase embrionale – ma ha un nome: il “cantiere della Gioventù” – cercherà di coinvolgere i giovani della zona non solo con lo studio della storia ma cercherà anche di istituire dei corsi di qualificazione in idraulica, elettronica e giardinaggio al fine di insegnare nuove nozioni pratiche e magari per trovare il tanto agognato posto lavoro. Ci auguriamo che queste proposte vengano seguite e partecipate per ricreare uno spirito comune e un’unità d’intenti ormai persa tra i giovani del luogo, tra i giovani cosiddetti impegnati e un’associazione come l’ANPI, che si è sempre prodigata per trasmettere valori positivi e costruttivi per realizzare quell’ideale di un’Italia libera, unita e democratica che ha portato i suoi membri più anziani persino a rischiare la vita per questo sogno. Il “Cantiere” serve appunto per non spezzare il sogno, che ha le ali un po’ rattrappite, per ridargli vigore e volare alto, insieme e uniti tra giovani, GD e ANPI per superare questa dura crisi economica e costruire una prospettiva di futuro concreta. RACCONTI DI FASCISMO E ANTIFASCISMO NEL CAGLIARITANO La sera del 18 novembre in uno spazio suggestivo e disadorno del bastione di S. Croce, su iniziativa dell’ANPI di Cagliari, si è tenuta la rappresentazione teatrale della Resistenza a Monserrato (Pauli), comune dell’hinterland cagliaritano. Tanti piccoli eroi popolari, che al fascismo hanno opposto una Resistenza, tanto più difficile in quanto l’azione si svolge in un ambiente ristretto, dove è impossibile mimetizzarsi o darsi alla clandestinità. Un’opposizione, dunque, aperta, a fronte alta, quella capeggiata da Mario Corona, Antonio Tinti e Giuseppe Zuddas. La rappresentazione - Nasce dall’oscurità più profonda del palcoscenico, nel suggestivo Spazio di Santa Croce, l’officina di Coa Cagada, e man mano prende luce dalle storie e dai racconti di fascismo e antifascismo, in una Monserrato che ancora non dimentica e che vuole far rivivere, ridare vita ai coraggiosi protagonisti di quegli anni così duri e così difficili. Fausto Siddi, Fabio Marceddu, Giuseppe Ligios e Rita Atzeri, gli interpreti appassionati di “La Bianca pedala”, che insieme contestualizzano passato e presente, e danno voce alle decine di antifascisti perseguitati dal regime in un angolo di Sardegna, forse troppo poco noto. Molto originale il movimento degli attori che si succedono nello spazio scenico e si alternano nella narrazione, per dare sostegno e dinamicità al ritmo narrativo e mettere in risalto i modi diversi della recitazione. E c’è ironia e immediatezza nell’officina di Coa Cagada, che racconta di suo nonno, di come erano e come sono i monserratini, dei bombardamenti e di come si viveva allora. Mentre fortemente drammatica diviene la recitazione nel ricordo dei giovani antifascisti sardi e della loro partecipazione alla Resistenza, il nome di ciascuno cadenzato dal movimento di una figura oscura, che batte la scena col suo bastone e che vuole restare nell’ombra. Ancor più drammatico il racconto della vita di Mario Corona, dall’opposizione alla cattura, al carcere, che sa trasmettere al pubblico la forza di quell’impegno, riuscendo a colpire l’immaginazione degli spettatori, a turbarne gli animi, grazie ad un’interpretazione particolarmente efficace. Fino all’ultima voce narrante, chiara e intensa che, attraverso le vicende di Antonio Tinti e Giuseppe Zuddas, diviene diretta interprete della comunità intera di Pauli. Sentimenti e pensieri di uomini che hanno fatto la storia rivivono adesso in teatro, nella coralità di un mondo ancora profondamente legato a quella esperienza e ai suoi valori, come fossero vivi e sempre così forti da resistere ad una realtà ormai decisamente volta in altra direzione. Per questo ha convinto il pubblico “La Bianca pedala”, primo studio sui temi della Resistenza monserratina scritto da Rita Atzeri del Crogiuolo, su richiesta dell’ANPI di Monserrato. E per la capacità degli attori di aver saputo dare significato al testo, restituendo il carattere dei tempi nell’evocazione, dai tratti pur così lievi, di persone e avvenimenti. In una scena povera e volutamente disadorna, è proprio l’interpretazione degli attori, lo stile della loro recitazione a dare risalto ai contenuti, a costruire direttamente il rapporto col pubblico senza forme di intermediazione. E a mettere in risalto lo spirito dello spettacolo, e il senso profondo che ne anima l’ispirazione. Gianna Lai ANPI Cagliari I giovani dell’ANPI di Piombino 35 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Cronache A C AGLIARI INCONTRO DELL’ANPI CON GLI STUDENTI Dal 10 novembre al 10 dicembre 2012, promosse dalle componenti più impegnate dell’associazionismo culturale e sociale si sono svolte a Cagliari una serie di iniziative sul tema dei “Diritti”, dai diritti civili, di libertà e associazione, ai diritti alla salute e alla salvaguardia dell’ambiente. L’insieme delle iniziative, alle quali l’ANPI ha concorso hanno caratterizzato il “mese dei diritti”. Il 10 dicembre, in coincidenza con il 64° anniversario della dichiarazione dei diritti umani delle Nazioni Unite, si è tenuta l’iniziativa conclusiva che ha avuto per tema “I diritti fondamentali nella Costituzione italiana” ed è stata curata dal Comitato provinciale e dalla Sezione di Cagliari dell’ANPI. La conferenza, coordinata dal presidente della Sezione di Cagliari, Antonello Murgia – che si è svolta presso la Sala del Consiglio Provinciale del Palazzo Regio in Piazza Castello – è stata caratterizzata dalla presenza di diverse classi di studenti ed insegnanti di tre Istituti superiori di Cagliari e interland e da una mostra allestita in una delle sale del Palazzo. Dopo l’intervento della Presidente della Provincia di Cagliari, Angela Quaquero, ha svolto la relazione introduttiva il Presidente del Comitato Provinciale ANPI Marco Sini che ha presentato l’ANPI, la sua storia, i valori e i principi sui quali si fonda e le molteplici attività per salvaguardare e trasmettere la memoria della Resistenza, dell’antifascismo e dei principi fondanti sui quali poggiano le fondamenta della democrazia repubblicana. Ma l’ANPI non è solo l’associazione della “memoria” nota perché promuove la ricorrenza del 25 aprile! L’ANPI è anche questo naturalmente! Ma è una componente del tessuto associativo democratico presente ed attiva nelle battaglie politiche, culturali e sociali dell’oggi: il contrasto ai rigurgiti neofascisti e neonazisti in Italia e in Europa, la lotta contro la corruzione e per la legalità, la difesa della scuola pubblica di qualità, la promozione di politica di accoglienza e di integrazione per i migranti che scelgono il nostro Paese. La relazione del professor Andrea Pubusa ha illustrato la storia della Costituzione repubblicana che origina dalla Resistenza e dalla Liberazione ed i suoi contenuti con particolare riferimento ai “diritti”: da quelli individuali di libertà e di associazione a quelli civili, al diritto al lavoro ed ai diritti del lavoro, dai diritti sociali ai diritti di partecipazione democratica dei cittadini alle Autonomie regionali e locali. Con gli interventi degli studenti e la lettura ed il commento di singoli articoli della Costituzione si è passati ad una fase “colloquiale” della Conferenza che ha consentito agli studenti e ad alcuni docenti di svolgere brevi interventi, domande, curiosità. Pollio Salimbeni all’inaugurazione di Messina PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 In conclusione una bella ed apprezzata iniziativa che qualifica ancor di più l’ANPI e ne esalta il ruolo di trasmettitore della memoria e di agente di impegno sociale e civile sulle sfide dell’oggi. Marco Sini ••••• A M ESSINA INAUGURAZIONE BENE CONFISCATO Antimafia e antifascismo insieme a Messina. Si è svolta lo scorso 1° dicembre l’inaugurazione del primo bene confiscato alla mafia affidato dal Comune alla società civile. I locali sequestrati e quindi confiscati in via definitiva dall’autorità giudiziaria facevano parte di una rete usura legata alla criminalità mafiosa del capoluogo siciliano. Il Comitato Addio Pizzo Messina ne ha ottenuto l’affidamento dopo aver partecipato al bando ad evidenza pubblica esitato dal Comune proponendo un progetto per il ri-utilizzo del bene confiscato incentrato sulla promozione delle “cultura della legalità, della solidarietà e dell’ambiente, basata sui principi della Costituzione, in opposizione al fenomeno delle organizzazioni criminali di stampo mafioso e al pizzo”. Il progetto di gestione vede, all’interno dell’ampio partenariato, la significativa presenza dell’ANPI di Messina che oltre a trovare la sede provinciale presso il bene confiscato è impegnata nella promozione di percorsi socio-educativi e culturali finalizza- Viene apposta una targa sul bene confiscato, a Messina 36 Cronache SHEL SHAPIRO CANTA E RECITA LA COSTITUZIONE ITALIANA Disponibile a partire dal 12 dicembre, ma ideato e scritto già la scorsa primavera, “Undici” è il nuovo brano di Shel Shapiro, artista che molti ricorderanno per la militanza nei Rokes. Da sempre interprete della controcultura italiana (basti pensare a “Che colpa abbiamo noi”), recentemente impegnato in opere cinematografiche e teatrali, Shel Shapiro guarda alla crisi di identità e di valori in atto nel nostro Paese. E pensa che la riscoperta della Costituzione Italiana sia un atto doveroso, da rivolgere soprattutto ai più giovani. Un messaggio di lotta e di speranza, un atto molto sentito da parte di un artista straniero innamorato del nostro Paese, dove vive da molti anni. In “Undici”, Shel Shapiro recita i primi undici articoli della Costituzione Italiana. Shapiro ritiene infatti che sia importante che venga ribadita l’importanza di quella Costituzione conquistata con tanta fatica dal popolo italiano, in un momento in cui sembra che il popolo non abbia più voce in capitolo; ed in un momento in cui tutte Shel Shapiro (foto Marina Alessi) le persone della sua generazione sembrano cadute in preda alla rassegnazione, o al cinismo, e non credono più in un cambiamento. Proprio per questo occorre lanciare un messaggio ai giovani, perché possano capire che è ancora possibile cambiare le cose e che non sono soli, che saranno ascoltati. Il brano è accompagnato da un video diretto e filmato dal grande regista. Marco Risi ti a tenere vivo il legame tra la lotta alle mafie e i valori della Resistenza e della Costituzione Repubblicana. Non a caso nel suo intervento alla cerimonia inaugurale Alessandro Pollio Salimbeni, Vice Presidente Nazionale dell’ANPI, ha richiamato la figura di Placido Rizzotto che “da antifascista ha trovato la naturale prosecuzione del suo impegno da Partigiano nella lotta alla mafia e al malaffare nella città di Corleone subito dopo la fine del conflitto”. La presenza di autorità civili, delle forze dell’ordine e di numerosi cittadini ha dato il segno della volontà di riscatto dei messinesi onesti. Il responsabile provinciale dell’ANPI di Messina, Teodoro Lamonica ha ribadito la “necessità di rilanciare un impegno forte per i valori fondanti della Costituzione: antifascismo, democrazia, e lavoro”. In questo quadro si è inserita la partecipazione dell’ANPI alla manifestazione delle forze democratiche in risposta alla presenza di Forza Nuova a Messina proprio quindici giorni dopo l’inaugurazione del bene confiscato. Il cammino dell’ANPI di Messina continua con la partecipazione ad un progetto che vede il coinvolgimento di giovani e giovanissimi nel segno della trasmissione dei valori e degli ideali, che rappresenta il cuore delle attività dell’antifascismo contemporaneo. Domenico Siracusano LA DIVISIONE “GARIBALDI” IN JUGOSLAVIA Una iniziativa molto partecipata quella che si è tenuta lo scorso 10 Novembre a Sellia Marina in provincia di Catanzaro. Organizzata dal comitato provinciale dell’ANPI con la collaborazione dell’ANVRG la serata ha visto la partecipazione di tantissime persone di tutte le età, oltre alla presenza dei ragazzi delle scuole elementari che hanno cantato l’Inno Nazionale e omaggiato l’eroe dei due mondi. Il tema dell’incontro era “Il valore della Memoria - La Divisione Partigiana Garibaldi in Jugoslavia”. Con l’introduzione fatta da Mario Vallone, Presidente del Comitato Provinciale di Catanzaro è stato letto un messaggio della Presidenza della Repubblica con un caloroso saluto all’ANPI, al Partigiano Garibaldino Giuseppe Gianzanetti e a tutti i partecipanti. Proprio dal riconoscimento ad uno degli ultimi combattenti della Divisone Garibadi in Jugoslavia è nata l’idea dell’iniziativa alla quale hanno partecipato Annita Garibaldi Jallet, Presidente Nazionale dell’Anvrg, il dott. Antonio Reppucci, Prefetto di Catanzaro, il Sindaco Giuseppe Amelio e il Presidente del Consiglio Comunale Nicola Giancotti. Una serata all’insegna della storia e della memoria. Per non dimenticare le migliaia di morti in Jugoslavia e il contributo dato dai nostri partigiani per la liberazione di quei territori dall’occupazione nazifascista. Mario Vallone Il folto pubblico presente all’incontro di Sellia Marina (Catanzaro) 37 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Dai nostri lettori RICORDATE SABRA E CHATILA? L a più grande e conosciuta delle fosse comuni situata all’ingresso del campo di Chatila è ridotta oggi ad una discarica, un campo lurido nel quale vengono gettati i rifiuti di un mercato lì a pochi passi e detriti di ogni genere, polvere e avanzi. “Avanzi” di un passato lungo trent’anni, “avanzi” di una storia che non passa, avanzi di un massacro avvenuto trent’anni fa, un massacro durato dal 16 al 18 settembre 1982 perpetrato dai miliziani falangisti alleati di Israele. In quel campo per due giorni avvenne di tutto: ogni brutalità dell’immaginario umano in poche ore si concentrò in un piccolo lembo di terra per 43 ore durante le quali l’olocausto di penosa memoria venne riservato ad un villaggio di rifugiati palestinesi, mantenuto costantemente illuminato dall’esercito agli ordini di Sharon e del suo assistente Eitan, durante le due notti per permettere ai “cristiani” falangisti quanta più morte fosse possibile. Fucilazioni manco a dirlo sommarie, uomini a cui vennero incise croci sul petto, seppellimenti di persone ancora vive, famiglie interamente massacrate e bulldozer continuamente attivi nel tentativo di rimuovere e occultare non tanto le tracce, ma proprio per cancellare dalla terra una popolazione. Alla fine i morti saranno migliaia, forse 3.000, più di 3.000, un numero mai accertato con esattezza perché di quel genocidio non è mai importato niente a nessuno. Nessuno! Ma quei morti ci sono, avevano un volto ed un nome anche se oggi nessuno sa più, migliaia, perlopiù donne coi loro bambini, vecchi, torturati, violentati, calpestati ed alla fine annientati, cancellati fisicamente dal mondo. Ebbene oggi su PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 quel campo non esiste una lapide o un segno che ricordi la presenza di quelle fosse comuni, l’emblema a trent’anni di distanza della volontà “umana” di dimenticare, di voltarsi dall’altra parte. Allora come oggi. Allora come di fronte ai campi di sterminio nazisti. La storia non insegna nulla, mai. Sabra e Chatila non è finita quel 18 settembre 1982, Sabra e Chatila è un massacro di innocenti che continua da trent’anni, perché nessun governo vuole ricordare, perché nessun colpevole ha pagato, il “regista” del genocidio divenne persino primo ministro di Israele e noi ci siamo fatti meraviglia del nostro presidente del consiglio per 17 anni per molto meno. La tragedia di Sabra e Chatila non è conclusa, perché le vittime di quel massacro continueranno ed essere uccise ogni ora, ogni giorno che ci separa dalla doverosa giustizia e dal loro umano e religioso rispetto. Alessandro Fontanesi – per e-mail A CASALE UNA STRADA PER IL FASCISTA C aro direttore, a Casale Monferrato (AL), cittadina piemontese sonnacchiosa e certamente non progressista (almeno non più...) è successo ciò che Luigi Ganapini ha denunciato nell’ultimo numero di ottobre del nostro mensile con il titolo “Una vergogna il sacrario per il fascistissimo Graziani”. L’attuale amministrazione di centrodestra – che si oppone da tre anni alla realizzazione del Luogo della Memoria insistentemente richiesto dal nostro Comitato Unitario Antifascista e dall’ANPI (in ricordo dei Tredici Partigiani della “Banda Tom” (Comandante Antonio Olearo Medaglia d’Oro alla memoria) massacrati nel gennaio 1945 alla locale “Cittadella”) – ha dedicato una via, seppur periferica, al Generale di aviazione fascista 38 Emanuele Cassinelli che operò in Africa e Spagna, nonché i giardini pubblici prospicienti il nostro ospedale al criminale di guerra Gen. Ugo Cavallero, fascistissimo e servo dei tedeschi. A nulla sono valse le proteste degli antifascisti casalesi a smuoverli dalla loro decisione anzi, un cittadino ha protestato sul giornale locale perché la via a Cassinelli... non viene sufficientemente pulita dai netturbini comunali. Come sapete meglio di me il revisionismo dilaga fra l’indifferenza generale e i sorrisini dei vecchi fascisti, confermandomi però che tutto questo succede anche perché c’è distrazione, stanchezza e rassegnazione da parte nostra. Ma tant’è! Lanfranco Giovannacci Casale Monferrato BRAVI GLI ALPINI E LA GUERRA?... H o letto tempo fa un articolo intitolato “Gli Alpini entrano a scuola per tramandare i valori”. Difficile sfatare un mito, difficile smontare un luogo comune. Difficile confrontarsi con chi ha tutto nella pancia e non riesce a ragionare razionalmente. Difficile perché non ti ascoltano. Veniamo comunque al sodo. Si parla di attività didattiche nella scuola per promuovere valori alpini, ma non c’è niente delle belle cose di cui si parla che abbia che fare con gli alpini come istituzione militare. Eppure gli alpini si presentano come tali, non rinnegano né condannano il loro passato di invasori di mezza Europa, di autori di stragi nei Balcani e anche Africa (Africa! Che ci facevano?). Sono felicissimo, e ne conosco di alpini, che meritoriamente si impegnano in iniziative di solidarietà (me li ricordo dal terremoto del Friuli) e di salvaguardia dell’ambiente. Sono presenti sul territorio con iniziative encomiabili. È sicuramente importante conservare i luoghi della Prima guerra mondiale, ma forse bisognerebbe ricordare “l’inutile strage” per una condanna della guerra e della logica militarista che ci procurò seicentomila morti. Invece, ci si limita ad un’epopea di eroismi senza criticare chi ci condusse al massacro per ottenere ciò che ci era stato promes- Dai nostri lettori so se non fossimo entrati in guerra tradendo l’alleanza con l’Austria. Guerra che poi ci ha regalato la “vittoria mutilata” e poi il fascismo e con il fascismo un’altra guerra. Un’altra epopea da mitizzare: la ritirata dalla Russia. E tutto ancora una volta intruppati senza condannare la logica della guerra e degli eserciti, fatta l’eccezione dell’alpinopartigiano Ermes Gatti. Se gli alpini vogliono tramandare i loro valori, devono togliersi le stellette e non mescolarsi con un’istituzione, dell’Esercito che dopo averli trascinati in avventure militari in tutto il mondo, ora li usa come testa di ponte nelle scuole per mascherarsi come un’istituzione “umanitaria” che promuove civiltà e dà lavoro. Associazione degli alpini svegliati! Il nemico marcia alla tua testa. I valori degli alpini nulla hanno a che fare con l’esercito, le guerre e i massacri. I vostri sono semplicemente i grandi valori civili di solidarietà e rispetto della natura tipici della pacifica gente di montagna. Adriano Moratto Movimento Nonviolento NOI ITALIANI L’INFLAZIONE E LA GRECIA L’ inflazione non è altro che l’indice percentuale che si ricava dal rapporto del continuo aumento dei prezzi di beni e servizi, in un periodo di tempo definito, con la diminuzione del potere d’acquisto della moneta, in un certo Paese o area più ampia. Più alto è questo indice, peggiore è l’andamento dell’aumento dei prezzi, minore è il potere d’acquisto dei salari e stipendi, con (ma non necessariamente) minor interesse da parte di terzi ad effettuare investimenti. I dati relativi ad aprile 2012 parlano degli indici di inflazione rapportati ad anno. Per aree ampie, c’è da segnalare un 2,6% nella zona Euro ed un po’ meno, il 2,3 negli USA. Rimanendo in Europa sono Paesi della zona Euro coloro che hanno adottato l’Euro come moneta, mentre restano fuori da detta “zona” ma rimangono pur sempre nell’Europa, altri Paesi che hanno mantenuto la loro moneta. Se l’inflazione determina oltre al potere d’acquisto anche la tenuta di un Paese dal punto di vista economico, finanziario e produttivo, e quindi la sua credibilità rispetto a terzi, noi (Italia) non è che andiamo molto bene con la nostra inflazione al 3,3%. Per fare esempi è bene attenersi ad economie simili alle nostre e rimanendo in Europa, zona Euro, ci si può raffrontare con Francia e Germania che ambedue hanno il 2,1% quindi molto meglio di noi. Ma se ci vogliamo confrontare con altri Paesi d’Europa, fuori dalla zona Euro e sempre con economie simili alla nostra ci dobbiamo riferire alla Svezia (1,1%) ed all’Inghilterra (3%) sfatando ciò che dicono certi economisti “benpensanti” che se si sta fuori dall’Euro la moneta perde valore. Noi siamo sempre i più bravi, perdiamo standoci dentro. Ma siamo sicuri che chi di dovere si renda realmente conto della situazione in cui siamo? La Grecia è semi-fallita, ma ci dicono di stare tranquilli perché l’Italia non è su quei binari. Può essere, ma non ci credo. Sapete quant’è l’inflazione nella disastrata Grecia? È l’1,9% su base annua, mentre in Italia è, come ho già detto, al 3,3%. Se tanto contribuisce seppur marginalmente a dare tanto, poveri noi. Ugo Cortesi – per e-mail TANTI SOLDI PER LE ARMI E GLI AEREI G iorni fa il Parlamento ha approvato la legge che delega al prossimo governo la riforma delle Forze Armate. Ho ascoltato le ultime battute di questa vicenda seduto accanto alle donne che si portano sulle spalle il peso intero di una famiglia che non ce la fa, a quelle che fanno due/tre lavori per arrivare a fine mese, agli uomini disperati a cui è stato tolto il lavoro e che oggi si sentono uno zero, ai dipendenti e artigiani che stanno lottando con le unghie e con i denti per difendere il proprio lavoro, ai nuovi poveri che fanno la fila alle mense della Caritas e provano vergogna per quello che non avevano mai immaginato di dover fare, ai giovani che trovano le porte chiuse dell’università e del mondo del lavoro, alle famiglie di anziani che stanno sempre peggio, a quelle che sostengo- 39 no delle persone con disabilità e sono state lasciate sole. E oggi sono ancora qui, seduto accanto a loro, a cercar di dare un senso a quello che è successo. Ma un senso non c’è. Che le forze armate abbiano dei problemi non v’è dubbio. Ma di questi tempi i problemi ce l’hanno in tanti. Il Parlamento ha scelto di occuparsi dell’esercito come non ha fatto per nessun altro. Poveri, disoccupati, inoccupati, esodati, precari, bisognosi, nessuno ha ricevuto tanta attenzione, tanta dedizione quanto questo piano per le forze armate. In soli 6 mesi questo parlamento ha approvato una legge che garantisce ai generali più di 230.000 milioni di euro per i prossimi 12 anni. Roba da guinness dei primati. Cosa posso dire a tutta questa gente che ho a fianco e che non sa più dove andare a sbattere la testa? Che il futuro delle forze armate è più importante del loro? Che fare la guerra in giro per il mondo è più importante che dichiarare guerra alla miseria e alla disoccupazione? Che comprare gli F-35 è più importante che dare un po’ d’aiuto a chi ne ha disperato bisogno? 40 anni fa, il 12 dicembre 1972, il Parlamento approvava la legge che riconosceva il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare e istituiva il servizio civile alternativo. Ieri un altro Parlamento, figlio di una pessima legge elettorale e di una politica peggiore, ha approvato un’altra legge ma di segno opposto. Al posto dell’obiezione (alle armi) c’è l’obbedienza (alla lobby delle armi). Al posto della coscienza (personale) c’è l’incoscienza (collettiva). Al posto del servizio civile c’è il servizio ai generali. Al posto dei valori (della pace, del disarmo, della solidarietà, della condivisione, della partecipazione e dell’educazione) ci sono i dolori provocati da una riforma che taglia 43.000 posti di lavoro per comprare altre bombe e organizzare altre guerre. Non c’era modo peggiore di chiudere questa legislatura. Il fatto più grave, tra i molti che non smetteremo di denunciare, è il furto di libertà e democrazia perpetrato ai danni del prossimo parlamento e, quindi, di noi tutti. Flavio Lotti Coordinatore nazionale della Tavola della pace PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 6XOÀORGHOUDVRLR Vignette di Mellana, Paparelli, Squillante PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 40 I NT ME CU DO Patria I N D I P E N D E N T E Periodico dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia INSERTO ALLEGATO AL N°1 GENNAIO 2013 RAPPORTO della Commissione storica italo-tedesca insediata dai Ministri degli Affari Esteri della Repubblica Italiana e della Repubblica Federale di Germania il 28 marzo 2009 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 F orse è la prima volta, dal dopoguerra ad oggi, che una Commissione governativa italotedesca si impegna nello studio comune della Seconda guerra mondiale in relazione alla lotta tra i due Paesi, all’ invasione nazista, alla Resistenza, alla nascita della repubblichina di Salò, alla deportazione degli ebrei, alla deportazione nei campi di sterminio e al destino tragico di migliaia di soldati italiani imprigionati nella Germania di Hitler, i cosiddetti IMI, gli Internati Militari Italiani che furono oltre seicentomila. Il lavoro della Commissione mista si è protratto per tre anni e alla fine è stato redatto un intensissimo “rapporto” che è stato presentato ufficialmente il 19 dicembre scorso nella Sala “Aldo Moro” del Ministero degli esteri, alla presenza dei due ministri degli esteri: quello italiano, Giulio Terzi di Sant’Agata e quello tedesco Guido Westerwelle. Erano presenti anche il Presidente dell’ANPI prof. Carlo Smuraglia, alti magistrati militari, ministri, alti ufficiali, i magistrati che si sono occupati delle stragi nazifasciste e i rappresentanti delle Associazioni delle vittime delle stragi di Cefalonia, Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema e delle Associazioni degli IMI. Tutto, sarà bene ricordarlo, era cominciato il 18 novembre del 2008, nel corso di una visita italo-tedesca al museo del campo di concentramento nazista della Risiera di San Sabba. Proprio in quella occasione, i ministri degli esteri italiano e tedesco avevano deciso il varo della Commissione di inchiesta sulla guerra tra i due Paesi, sulle stragi, le fucilazioni, i massacri, il contributo dei partigiani alla guerra di Liberazione, la nascita dello staterello mussoliniano, sorto sotto la supervisione nazista e sulla tragedia degli IMI. L’ iniziativa era stata decisa nella condivisione degli ideali di riconciliazione, solidarietà e integrazione, in nome dell’Europa comune e pacifica. Della Commissione italo-tedesca erano stati chiamati a far parte storici e studiosi di chiara fama. Per parte tedesca la dott.ssa Gabriele Hammermann, il dott. Lutz Klinkhammer, il prof. Wolfgang Schieder, il dott. Thomas Schlemmer e il dott. Hans Woller. Per parte italiana il prof. Mariano Gabriele il dott. Carlo Gentile, il prof. Paolo Pezzino, la dott.ssa Valeria Silvestri e il prof. Aldo Venturelli. Presidenti della Commissione erano stati nominati il prof. Mariano Gabriele e il prof. Wolfgang Schieder. La Segreteria Nazionale dell’ANPI e “Patria indipendente” hanno deciso di pubblicare integralmente la relazione della Commissione italo-tedesca, con l’ intenzione di aprire un ampio dibattito sul documento. Sempre la Segreteria Nazionale dell’ANPI, intanto, ha deciso di confermare il progetto di un convegno tavola-rotonda sulle stragi nazifasciste che si terrà il 29 gennaio alle ore 16, nella sede della Biblioteca del Senato, in Piazza della Minerva, a Roma. Nel corso della presentazione della relazione della Commissione italo-tedesca al Ministero degli esteri, ha parlato anche il Presidente dell’ANPI Carlo Smuraglia. Ecco il testo del suo intervento: «R ingrazio per l’ invito i Ministri degli esteri d’Italia e di Germania, i rappresentanti del Ministero degli esteri, i Presidenti (italiano e tedesco) della Commissione storica italotedesca, e prendo atto, con piacere, del lavoro che ci viene presentato, sul quale non mi pronuncio, ovviamente, in questa sede, anche perché ho potuto soltanto scorrerlo rapidamente e PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 2 soffermarmi solo un po’ di più sulla parte conclusiva (“Raccomandazioni della Commissione”). Sono certo, comunque, che questo lavoro costituirà un importante punto di riferimento per ogni ulteriore studio e riflessione ed apprezzo, sotto questo profilo, il lavoro compiuto, sotto la guida di due autorevoli Presidenti. L’ANPI pubblicherà integralmente sulla sua Rivista (Patria indipendente), fin dal numero che uscirà ai primi di gennaio, la relazione, avviando così un dibattito che sarà aperto ad ogni contributo di riflessione, di apprezzamento o di critica sui singoli punti. Quanto, invece, alla parte propositiva, quella delle “Raccomandazioni”, qui si può già dire qualcosa di più, anticipando, peraltro, che un ulteriore approfondimento si realizzerà in occasione della tavola rotonda che l’ANPI ha già fissato, su tutti i temi delle stragi, per il 29 gennaio, con un titolo significativo “Le stragi nazifasciste del 1943-1945, tra memoria, responsabilità e riparazione”. Intanto, rilevo che l’obiettivo principale del lavoro svolto dalla Commissione ed oggi ribadito dagli autorevoli rappresentanti dei due Governi è quello di contribuire alla formazione di una “memoria comune” fra i due Paesi, sulle vicende che si sono verificate in occasione dell’ultima guerra mondiale. Debbo dire che il tema della creazione di una memoria “comune” è affascinante e al tempo stesso di estrema difficoltà: lo è all’ interno di singoli Paesi, come dimostra il fatto che né in Italia né in Germania si è riusciti a realizzare, a tutt’oggi, un simile obiettivo; ovvio, dunque, che le difficoltà ed i problemi aumentino quando si tratta di costruire una memoria comune a due Paesi. È opportuno qui ribadire, comunque, che presupposto fondamentale per creare anche solo le basi di un siffatto obiettivo è l’assunzione di responsabilità, senza della quale non è pensabile di edificare neppure le fondamenta. Questo vale, naturalmente, sia per l’Italia che per la Germania, anche separatamente, perché il nostro Paese ha le sue responsabilità quanto meno per quanto riguarda la nota vicenda del cosiddetto “armadio della vergogna”, ma fino ad oggi non se l’ è pienamente assunta, in modo esplicito e formale. Quanto alla Germania, si ha l’ impressione che a fronte di una disponibilità a riconoscimenti formali, pur importanti (tutti abbiamo apprezzato la presa di posizione del Presidente Raub a Marzabotto e del Presidente Schultz a Sant’Anna di Stazzema), resta ancora molto cammino da percorrere per quanto riguarda gli aspetti sostanziali della responsabilità e della riparazione. Eppure, i precedenti non mancano, a livello mondiale: basti pensare alla legge approvata in Canada nel 2010 ed al sistema adottato in Sudafrica al termine del lungo periodo dell’apartheid, entrambi fondati, prima di tutto, su un’assunzione vera ed aperta di responsabilità. Devo dire che dalla lettura delle “Raccomandazioni” si ricava l’ impressione di un certo squilibrio, tra ciò che si è disposti ad ammettere, anche attraverso forme reali di riparazione, per gli IMI e ciò che invece riguarda le stragi (che non vengono mai nominate) e gli altri atti di violenza e di barbarie. In realtà, sulla prima parte (IMI) si può discutere ancora e certo spetterà all’Associazione rappresentativa di quella “categoria” indicare soluzioni e formulare proposte eventualmente più soddisfacenti. Sulla seconda, devo dire francamente che mi sembra che si continui a restare ancora troppo nel generico, anche solo a voler mettere momentaneamente da parte il tema dei risarcimenti, per addentrarsi in quello delle riparazioni. Si esprime la volontà di contribuire alla ricostruzione complessiva di quanto accaduto tra il 1943 e il 1945, in Italia, ma poi non è chiaro in quale modo si pensi di farlo; eppure, basterebbe prendere atto che c’ è già un lavoro fortemente avviato anche col contributo di autorevoli membri della Commissione e vi è, soprattutto, un’ intesa tra l’ANPI nazionale e l’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, per completare quel lavoro e realizzare un mappa, ossia un atlante complessivo delle stragi. Basterebbe semplicemente dichiarare la disponibilità concreta a contribuire al finanziamento di questo lavoro, che – oltre tutto – non comporta, a quanto risulta, oneri rilevanti. Altrettanto generica mi sembra l’ indicazione della possibilità di costituire una Fondazione italotedesca, che dovrebbe essere centro di studi e di incontri; ma per gestire poi che cosa e per dare in 3 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 concreto quale contributo all’ansiosa ricerca di verità che è presente non solo nelle comunità più colpite, ma anche nell’opinione pubblica più avveduta ed attenta del nostro Paese. Ma ancora: esistono forme di riparazione che si possono realizzare finanziando opere pubbliche, nei Comuni particolarmente colpiti (e sono molti di più di quelli cui di solito si fa riferimento), intendendo per opere pubbliche non solo monumenti, ma anche qualcosa di più ampio e significativo sul piano della pubblica utilità, oltreché del consolidamento della memoria. Non ho il tempo per entrare in ulteriori dettagli, ma è mia convinzione fermissima che se non c’ è un apporto reale anche sul piano dell’attuazione della giustizia, non è possibile parlare di riparazioni. La Corte dell’Aja si è pronunciata sull’ intangibilità degli Stati (e in particolare della Germania) da parte dell’attività giurisdizionale di altri Paesi. Ma il senso comune dovrebbe assicurare, quanto meno, la garanzia del rispetto delle pronunce giudiziarie del nostro Paese, nella parte in cui non riguardano lo Stato Federale della Germania, ma dei soggetti singoli. Ma non solo questo rispetto non sempre c’ è stato (basti pensare al provvedimento di archiviazione della Magistratura di Stoccarda su tematiche delle quali si era occupata l’Autorità giudiziaria italiana, in tutti i gradi del giudizio, affermando responsabilità singole e irrogando pene severe), ma quel che rileva è che non conosciamo casi in cui sia stata assicurata l’esecuzione di sentenze irrevocabili pronunciate dalla Magistratura italiana, né sul piano penale, né su quello civilistico. Su questo terreno, sembra essere mancata qualsiasi forma di collaborazione fra i due Stati; e questo pesa come un macigno sulla possibilità di realizzare l’obiettivo complessivo di cui si è detto. Un ostacolo che occorre assolutamente rimuovere, con ragionevolezza, se si vuole realmente proseguire il dialogo e portare avanti il lavoro avviato. Infine, poiché vedo che in più occasioni – anche nella relazione – si parla della necessità di rimuovere pregiudizi e stereotipi, devo dire che ce n’ è uno che mi pare di particolare rilievo: quello secondo il quale molte stragi sarebbero in sostanza dovute a reazioni o rappresaglie contro atti compiuti dai partigiani. Ebbene, gli studi storici di cui disponiamo ci dicono, con ragionevole approssimazione, che la percentuale di azioni di ritorsione è stata inferiore al 20% del totale, mentre per il restante 80% si deve parlare di atti di barbarie gratuita, quelli che nella stessa Relazione, in almeno due occasioni, vengono indicati come atti di “guerra ai civili”. Anche questo chiarimento è essenziale per favorire, nella chiarezza, l’auspicabile dialogo ed individuare meglio, ed a ragion veduta, le più concrete e soddisfacenti forme di riparazione. Insomma, e per concludere, mentre concordo con gli obiettivi finali ed apprezzo le finalità perseguite, credo che sia necessario passare ad una maggiore e più tempestiva concretezza. Bisogna riconoscere che si è impiegato quasi un anno, dopo la sentenza della Corte dell’Aja, per arrivare a questo, che è giusto definire come un punto di partenza piuttosto che come un punto di arrivo: un po’ troppo lungo – questo periodo – per essere accettabile e per non indurci a chiedere che venga ora – finalmente – il momento della concretezza, dell’assunzione delle responsabilità e dell’adozione delle necessarie misure riparatorie». Nelle foto della copertina: Partigiani sfilano, nel giorno della Liberazione, per le strade di Modena. Nazisti in parata nello stadio di Norimberga. PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 4 Documenti Premessa I l 18 novembre 2008, in una dichiarazione congiunta rilasciata a Trieste in seguito alla visita al museo del campo di concentramento nazista della Risiera di San Sabba, i Ministri degli Affari Esteri italiano e tedesco ribadirono la condivisione degli «ideali di riconciliazione, solidarietà e integrazione che sono alla base del processo di costituzione dell’Europa». Essi annunciarono l’istituzione di una commissione di storici investita del compito di occuparsi del passato di guerra italo-tedesco ed in particolare del destino degli internati militari italiani deportati in Germania, al fine di contribuire alla creazione di una cultura della memoria comune ai due paesi. La Commissione, il cui mandato fu stabilito per la durata di tre anni, fu ufficialmente nominata nel marzo 2009 dai Ministri degli Affari Esteri dei due paesi. Ne hanno fatto parte cinque membri tedeschi (la dott.ssa Gabriele Hammermann, il dott. Lutz Klinkhammer, il prof. dott. Wolfgang Schieder, il libero docente dott. Thomas Schlemmer e il dott. Hans Woller) e cinque italiani (il prof. dott. Mariano Gabriele, il dott. Carlo Gentile, il prof. dott. Paolo Pezzino, la dott.ssa Valeria Silvestri e il prof. dott. Aldo Venturelli) ed è stata diretta dal professor Mariano Gabriele e dal professor Wolfgang Schieder. All’interno di questa cornice ufficiale la Commissione ha potuto svolgere il proprio lavoro in modo completamente indipendente e definire autonomamente il proprio modo di procedere. A causa del breve tempo a sua disposizione, la Commissione ha rimandato fin dall’inizio all’idea di affrontare la problematica generale delle relazioni italo-tedesche durante la seconda guerra mondiale; relazioni che, comunque, potrebbero essere analizzate solamente all’interno di un più ampio contesto europeo. D’altra parte, però, sarebbe risultato insoddisfacente per la Commissione limitarsi ad un semplice riassunto del vasto e variegato spettro dei risultati ottenuti finora dalla ricerca storica. Secondo l’opinione della Commissione sono infatti necessari nuovi impulsi storiografici per permettere alla memoria nazionale tedesca e a quella italiana di trovare almeno alcune prospettive comuni. A questo proposito la Commissione ritiene molto promettente analizzare la storia italo-tedesca durante la seconda guerra mondiale dal punto di vista della storia delle esperienze, cioè attraverso l’esperienza di chi ha vissuto di persona gli avvenimenti di quell’epoca. Quest’impostazione metodologica, che tiene conto delle interpretazioni che i singoli individui diedero degli eventi storici vissuti in prima persona, non vuole condurre ad una rilettura di questi: non si tratta né di giungere ad una revisione di interpretazioni storiche comunemente accettate, né, tanto meno, ad una relativizzazione dei crimini di guerra commessi in Italia da parte tedesca, bensì di inaugurare una prospettiva nuova, soprattutto per quel che riguarda le vittime. La Commissione è infatti del parere che, osservando gli eventi alla luce del rapporto tra condizionamento storico strutturale ed esperienza individuale, si sviluppi una prospettiva nuova, che permetta di guardare diversamente alla storia, sotto molti aspetti connessa, di italiani e tedeschi al tempo della dittatura e della guerra, a partire dalla proclamazione dell’Asse RomaBerlino da parte di Mussolini il 1° novembre 1936 fino alla capitolazione della Wehrmacht in Italia il 2 maggio 1945. U n approccio nella prospettiva della storia delle esperienze necessita di fonti particolari, il cui spoglio è uno degli scopi che la Commissione si è prefissa. Nello specifico si tratta soprattutto di fonti autobiografiche come diari, lettere, appunti databili al dopoguerra o memorie, ma anche di trascrizioni di interrogatori o dichiarazioni rilasciate dalle vittime alla polizia, come tante se ne trovano depositate in archivi e biblioteche o in possesso di privati. La Commissione non ha potuto fare lo spoglio completo di tutto questo materiale, che in Italia come in Germania è disseminato su tutto il territorio ed in parte di difficile accesso; tuttavia, essa ha ritenuto parte del suo compito verificare, sul campione di materiale preso in visione, quali documenti si prestino ad un’analisi che si avvalga dell’approccio proprio della storia delle esperienze. I risultati di queste ricerche hanno infatti mostrato che sono moltissime le testimonianze autobiografiche sulle opposte esperienze di guerra di italiani e tedeschi che giustificano un’indagine di questo tipo. Si tratta di fonti riguardanti sia le diverse esperienze di guerra dei soldati tedeschi in Italia, sia l’esperienza della violenza vissuta dalla popolazione civile italiana sotto l’occupazione tedesca. Sono documentati anche i punti di vista individuali, fra di loro opposti, dei sostenitori della Repubblica Sociale 5 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Documenti Italiana e dei membri della Resistenza. Particolarmente ricca è infine la base documentaria riguardante le dolorose esperienze sofferte dagli internati militari italiani in Germania. È evidente che la Commissione non avrebbe potuto svolgere da sola tutte queste impegnative ricerche nelle biblioteche e negli archivi italiani e tedeschi. Fortunatamente essa ha potuto avvalersi di collaboratrici e collaboratori scientifici che, sotto la responsabilità di singoli membri della Commissione, hanno svolto ricerche mirate in Germania e in Italia. Per la Germania il dott. Patrick Bernhard, Moritz Buchner (Magister Artium), il dott. Rene Del Fabbro, il dott. Tobias Hof, il dott. Kay Kufeke, la dott.ssa Kerstin von Lingen, Sonja Schilcher (Magister Artium) e il prof. dott. Rolf Wörsdörfer. Per l’Italia il dott. Paolo Formicone, la dott.ssa Francesca Gori, la dott.ssa. Daniela Martino, il dott. Amedeo Osti Guerrazzi, la dott.ssa. Michela Ponzani e la dott.ssa Antonella Tiburzi. Per il lavoro svolto, da portare a termine spesso in tempi molto brevi, la Commissione rivolge loro un sentito ringraziamento. Senza il loro impegno e la loro affidabilità la Commissione non avrebbe potuto raggiungere i suoi obiettivi. ta per tutti i membri un’interlocutrice preziosa. Il rapporto sull’attività della Commissione è stato scritto esclusivamente dai membri della stessa, i quali si assumono anche la piena responsabilità del suo contenuto, nonostante ci siano state divergenze d’opinione nell’interpretazione di alcuni materiali. La Commissione ha basato il testo della relazione conclusiva sugli studi preparatori forniti da Mariano Gabriele e Wolfgang Schieder (Tedeschi e italiani tra il 1943 e il 1945), Carlo Gentile, Thomas Schlemmer e Hans Woller (La prospettiva dei soldati tedeschi), Carlo Gentile, Lutz Klinkhammer e Paolo Pezzino (Le esperienze della popolazione italiana con le forze d’occupazione tedesche), Gabriele Hammermann e Valeria Silvestri (Le esperienze degli internati militari italiani) così come Lutz Klinkhammer, Wolfgang Schieder e Aldo Venturelli (Proposte della Commissione). Nel caso in cui i collaboratori scientifici abbiano contribuito alla stesura del rapporto viene riportato il loro nome: Paolo Formiconi, Daniela Martino e René Del Fabbro per l’inventario dei documenti d’archivio sulla storia degli internati militari italiani, Michela Ponzani e René Del Fabbro per l’antologia di testi autobiografici degli internati militari italiani, Francesca Gori per la banca dati riguardante le violenze compiute dalle forze armate tedesche in Italia durante la guerra. Al termine del rapporto la Commissione formula una serie di suggerimenti, la cui realizzazione esula dalle sue competenze. Perciò essa si appella esplicitamente ai responsabili politici d’Italia e Germania affinché essi prendano in seria considerazione queste proposte e si adoperino per realizzarle nel più breve tempo possibile. Ciò vale soprattutto per la costruzione, a Berlino, di un memoriale per gli oltre 600.000 internati militari italiani deportati in Germania dopo l’8 settembre 1943, il cui triste destino collettivo è stato fino ad oggi ampiamente dimenticato. P er l’estrema disponibilità a ospitare nei loro istituti le riunioni della Commissione un grazie particolare va al prof. dott. Gregor Vogt-Spira, ex segretario generale di Villa Vigoni, al prof. dott. Michael Matheus, direttore dell’Istituto Storico Germanico di Roma, al prof. dott. Horst Möller, ex direttore dell’Istituto di Storia Contemporanea di Monaco e al suo successore, il prof. dott. Andreas Wirsching, così come al prof. dott. Luca Giuliani, rettore del Collegio Scientifico di Berlino. Un grazie di cuore va infine alla dott.ssa Christiane Liermann, collaboratrice scientifica di Villa Vigoni, che ha svolto le mansioni del segretariato scientifico per la Commissione ed è sta- Mariano Gabriele Wolfgang Schieder Presidenti della Commissione storica italo-tedesca. PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 6 Documenti Italiani e tedeschi tra il 1943 e il 1945 Culture della memoria in Germania e Italia P er quanto possa sembrare strano, i rapporti italo-tedeschi durante il periodo dell’Asse Roma-Berlino – la cui nascita fu annunciata da Mussolini a Milano il 1° novembre 1936 e la cui durata in Italia, pur nel mutare delle circostanze, si protrasse fino alla fine della guerra il 2 maggio 1945 – non sono stati ancora studiati in modo sistematico. Pur essendoci infatti una serie di studi in cui vengono esaminati alcuni aspetti importanti del tema, come i rapporti nell’ambito della politica sociale, dello sport e della cultura così come, soprattutto, l’organizzazione dell’occupazione tedesca in Italia fra il 1943 e il 1945 e la deportazione forzata in Germania di soldati disarmati del Regio Esercito Italiano, manca tuttavia un’esauriente trattazione generale dell’argomento. Soprattutto manca, sorprendentemente, un’analisi degli eventi bellici svoltisi in Italia nel periodo compreso tra lo sbarco degli Alleati in Sicilia il 9-10 luglio 1943 e la capitolazione dell’armata tedesca impegnata in Italia il 2 maggio 1945. Certo, vista da una prospettiva globale, l’Italia non fui che un teatro di guerra secondario, sia per gli Alleati che per la Wehrmacht; tuttavia, si trattò pur sempre di una guerra lunga e difficile, che causò molte perdite e lasciò traumi di lunga durata soprattutto nella popolazione civile, che ne fu gradualmente travolta da sud a nord. Non potendo fare suo a causa del poco tempo a disposizione il compito di analizzare questo scenario di guerra, la Commissione si appella insistentemente agli storici di entrambi i paesi, affinché il tema venga raccolto e approfondito. Alla Commissione è stato affidato il compito di occuparsi del passato italo-tedesco nella seconda guerra mondiale e del peso durevole che questo passato ha avuto sui rapporti tra Italia e Germania, al fine di contribuire alla creazione di una comune cultura della memoria. Compito in cui, secondo la Commissione, non rientrava l’analisi di questi complessi processi politici relativi alla cultura della memoria. Essa ritiene dubbio il fatto che da culture di memoria nazionali, quali da decenni si stanno costituendo in Italia e in Germania, possano nascere in breve tempo affinità storico-politiche. L’essenziale è piuttosto che ognuna delle due nazioni mantenga sempre uno sguardo aperto sull’altra, senza assolutizzare il proprio punto di vista. Se si può affermare senza riserve che la storiografia abbia fatto dei grossi passi avanti, dal momento che oggi non esistono più differenze significative nel giudizio che gli storici tedeschi e italiani esprimono sul comune passato di guerra nel periodo dal 1939 al 1945, al di fuori della comunità scientifica continuano invece a sussistere divergenze considerevoli nel modo di ricordare la seconda guerra mondiale. Tale ricordo è ancora oggi sia in Italia che in Germania influenzato da visioni che non lasciano spazio a punti di vista differenziati. T anto più la storia italiana e quella tedesca si intrecciarono l’una con l’altra durante la seconda guerra mondiale, quanto più divergente è stato il successivo sviluppo delle rispettive memorie storiche. Si potrebbe quasi credere che in Italia e in Germania ci si ricordi di due passati completamente diversi. In entrambi i Paesi presero a diffondersi diversi miti: nonostante ciò si verificasse un po’ ovunque durante la seconda guerra mondiale, in Germania e in Italia questa ‘mitologia’ assunse tuttavia un carattere particolarmente antagonistico. Infatti, sebbene tra l’8 settembre 1943 e il 2 maggio 1945 fossero presenti sul suolo italiano, oltre a centinaia di migliaia di soldati tedeschi, numerosi burocrati, funzionari di polizia e dei servizi segreti così come quadri dell’economia e del partito, questo massiccio dispiegamento di forze venne ampiamente dimenticato nella Germania del dopoguerra. Più che mai si preferirono dimenticare i numerosi massacri di civili italiani compiuti tra il 1943 e il 1945 da unità delle Waffen-SS e della Wehrmacht. Nelle memorie dei dirigenti nazisti in Italia – dal maresciallo Albert Kesselring a Rudolf Rahn, plenipotenziario di Hitler presso la RSI – si trova il giudizio unanime che la conduzione della guerra in Italia da parte dei tedeschi, la lotta armata al movimento di resistenza italiano e il trattamento riservato alla popolazione civile avrebbero rispettato le norme del diritto 7 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Documenti internazionale. Al contrario, la guerra partigiana contro gli occupanti tedeschi venne dipinta come ingiustificata e subdola; qualsiasi mezzo utilizzato per combatterla fu considerato legittimo, e questo anche retrospettivamente. Era questa una variante del mito postbellico tedesco della ‘Wehrmacht pulita’, credibile proprio rispetto all’Italia, dove non era possibile metterlo in questione ricorrendo all’argomento del coinvolgimento della Wehrmacht nello sterminio degli ebrei d’Europa. I n Germania non fu celebrato praticamente alcun processo contro gli atti di violenza e i crimini di guerra commessi in Italia; anche i processi che si svolsero in Italia ebbero luogo soltanto nei primi anni del dopoguerra, con una successiva ripresa negli anni ’80. Nel frattempo, per motivi di ragion di Stato o per il timore di scoprire crimini di guerra commessi dagli italiani, la maggior parte degli atti d’inchiesta era scomparsa in un armadio, dal quale riemersero solamente nel 1994 per entrare nella discussione pubblica sotto la denominazione metaforica di ‘armadio della vergogna’. Soltanto Walter Reder, responsabile della strage di Monte Sole nel comune di Marzabotto, e Herbert Kappler, responsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine nei pressi di Roma, furono condannati all’ergastolo nel corso di processi che destarono molto scalpore. Trattandosi in entrambi i casi di membri delle SS, la loro condanna contribuì a radicare nella memoria collettiva della Repubblica Federale di Germania la tendenza a riversare esclusivamente sulle SS la colpa di tutti i crimini di guerra tedeschi compiuti in Italia, deresponsabilizzando così completamente la Wehrmacht. La reclusione pluridecennale dei due criminali di guerra nel carcere di Gaeta non pregiudicò, ma anzi apparentemente rafforzò la credibilità del mito della ‘Wehrmacht pulita’. Se nel dibattito pubblico interno alla Repubblica Federale Tedesca era diffusa la tendenza a minimizzare il ruolo dell’occupazione nazista in Italia e della massiccia politica repressiva da essa messa in atto, fino a farne praticamente perdere la memoria, questi temi furono invece per lungo tempo predominanti nella memoria collettiva degli italiani. Dopo la definitiva caduta del regime fascista in Italia, ci fu certamente una fase in cui si vollero fare i conti col fascismo dal punto di vista politico, personale e giudiziario; tuttavia questa fase fini già con l’amnistia generale del 22 giugno 1946. Da allora la memoria collettiva si concentrò per decenni sul ruolo storico della Resistenza nella lotta contro l’occupazione tedesca. Sebbene il movimento di resistenza non sia stato militarmente in grado di prendere il sopravvento sulle forze d’occupazione tedesche, esso ebbe comunque un’importanza storica fonPATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 damentale dal punto di vista sia morale che politico. Quando nel 1947, nel clima della nascente guerra fredda, i socialisti e i comunisti furono estromessi dal Governo di Unità Antifascista di Alcide De Gasperi con l’accusa di inaffidabilità, il richiamo alla Resistenza servì loro come arma nel quadro della politica della memoria. Con la formazione di un ‘arco costituzionale’, la memoria della Resistenza fu trasformata per subordinarla all’idea dell’unità di tutti gli antifascisti contro là repressiva occupazione tedesca. Gli anni dell’intensa collaborazione tra l’Italia fascista e la Germania nazista, alleate nell’Asse, non rientravano nell’immagine che il governo italiano voleva dare di sé e furono dunque per lungo tempo ampiamente rimossi. Tanto la diffusione del mito della ‘Wehrmacht pulita’, quanto l’idealizzazione della Resistenza contribuirono alla nascita e alla circolazione di cliché negativi che, nei fatti, non corrispondevano per nulla al rapporto di amicizia che sui piani più svariati andava instaurandosi tra i due popoli nel dopoguerra. Ciò divenne particolarmente evidente nella riattualizzazione di stereotipi sorti quasi tutti durante la prima guerra mondiale e riportati in vita nella fase finale del secondo conflitto mondiale. Se da un lato è vero che sia la propaganda politica sia la censura militare avevano fortemente contribuito, da entrambe le parti, alla creazione di topoi della memoria collettiva, è anche vero, dall’altro, che ciò fu possibile solo in quanto esse poterono attingere a una riserva di strutture mentali preesistenti e ben radicate. In particolare l’addebito rivolto agli italiani, considerati come ‘traditori’ a causa del loro ingresso in guerra nel 1915 al fianco delle potenze dell’Intesa, fu riutilizzato con così gran successo dalla propaganda nazionalsocialista dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 che esso resistette a lungo nella Repubblica Federale Tedesca anche dopo il 1945. Lo stesso vale, se possibile in misura ancora maggiore, per la disgustosa definizione degli italiani come Spaghettifresser [divoratori di spaghetti], dietro cui si nasconde una generale mancanza di comprensione per gli usi e i costumi di un altro popolo. D a parte italiana venne invece riportato in uso al tempo della dominazione tedesca l’espressione offensiva ‘crucchi’ [mangiatori di pane], le cui origini anche in questo caso risalivano alla propaganda di guerra del primo conflitto mondiale. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia nel 1940, gli italiani stessi, per distinguersi dal ‘cattivo tedesco’, presero a definire se stessi come ‘brava gente’ – stereotipo a tutt’oggi non ancora del tutto scomparso. Una tale definizione doveva servire a caratterizzare gli italiani come popolo pacifico, sollevandoli così da qualsiasi re- 8 Documenti che hanno vissuto gli eventi presi in considerazione, per quanto limitata potesse spesso essere la loro percezione. Un approccio di questo tipo, che potremmo chiamare di storia delle esperienze, è in grado di aprire una prospettiva aggiuntiva di indagine, pur senza operare una revisione sostanziale delle interpretazioni storiche esistenti. La Commissione parte dalla constatazione che soltanto alcuni eventi entrano a far parte della memoria storica ufficiale di una nazione, per subire poi spesso un processo quasi automatico di generalizzazione. Solo così si spiega il fatto che modelli esplicativi così semplificatoci quali il mito tedesco della ‘Wehrmacht pulita’ o l’immagine italiana della Resistenza abbiano saputo imporsi e siano sopravvissuti per così lungo tempo. Ciò che apparentemente non rientrava nel modello interpretativo politicamente dominante – oggi denominato comunemente ‘narrazione’ – venne occultato, rimosso, semplificato, reinterpretato o semplicemente dimenticato. La Commissione, al contrario, vuole mettere in evidenza la pluralità e il carattere ambivalente delle esperienze di incontro fra italiani e tedeschi durante la seconda guerra mondiale, intendendo così espressamente il proprio lavoro come correttivo dei molteplici meccanismi di reinterpretazione e rimozione del dopoguerra, rispondenti più a esigenze politiche che a un chiarimento storico. La storia delle esperienze, così com’è intesa dalla Commissione, non deve tuttavia esaurirsi nella storia della vita quotidiana, bensì correlarsi con la storia delle strutture storiche e dei processi di mutamento. Sono questi infatti a determinare le esperienze dei singoli individui e, al contempo, a rif letterle. Esperienza individuale e condizionamento storico strutturale stanno dunque l’una rispetto all’altro in un rapporto continuamente conf littuale e reciproco, che deve venire ogni volta determinato nella sua specificità con il mutare delle circostanze. Di norma, le esperienze storiche primarie non possono essere raggiunte dagli storici in modo diretto, ma possono comunque essere riportate alla luce attraverso testimonianze autobiografiche di vario tipo. Con ciò si pone per la storia delle esperienze il problema della trasmissione delle fonti, sia per quanto riguarda la loro autenticità storica, sia per quanto concerne invece la loro rappresentatività come resoconti soggettivi degli eventi vissuti. La stragrande maggioranza delle esperienze di vita individuali viene tramandata di solito oralmente e ne veniamo a conoscenza tramite i resoconti – spesso di dubbia attendibilità – di testimoni oculari o per puro sentito dire. Possiamo avvicinarci maggiormente all’imme- sponsabilità per ogni tipo di crimine di guerra. La Commissione non s’illude di poter cancellare con un colpo di spugna tutti gli stereotipi esistenti: essa è consapevole del fatto che i miti della storia possono essere decostruiti solo attraverso un processo graduale di ricostruzione storica; tuttavia, è certo che un primo passo nella lotta alla diffusione di tali stereotipi si compia già nel momento in cui si cominci a chiamarli col loro nome e venga riconosciuto il contesto storico del loro sorgere. Così come oggi non può sopravvivere in Germania il mito del corretto comportamento della Wehrmacht sul suolo italiano, altrettanto inaccettabile è la sopravvivenza del mito degli italiani ‘brava gente’ in riferimento alla seconda guerra mondiale. Ciò che secondo la Commissione è di vitale importanza è che entrambe le parti siano pronte ad ammettere il proprio coinvolgimento e ad assumersi le proprie responsabilità storiche. Da parte tedesca è necessario contrastare l’indifferenza diffusa nei confronti delle sofferenze patite dagli italiani durante la fase finale della guerra; ad essa appartiene in primo luogo la percezione della terribile sorte subita dagli ebrei italiani e dai deportati nei campi di concentramento tedeschi, ma anche quella dei soldati, italiani del Regio Esercito, colluso col fascismo, che vennero deportati in Germania col nome di internati militari. L’Italia, da parte sua, deve riconoscere pubblicamente la stretta collaborazione fra i regimi dittatoriali di Mussolini e di Hitler sotto il segno dell’Asse a partire dal 1936, la comune partecipazione alla guerra in Francia, in Grecia, in Jugoslavia, nel Nord Africa e nell’Unione Sovietica dal 1940 in poi e il coinvolgimento di entrambe le dittature nelle più efferate forme di repressione nella RSI. Detto in altri termini, i tedeschi devono riconoscere che gli italiani non sono stati soltanto collaboratori, ma anche vittime; e gli italiani, da parte loro, devono accettare di non essere stati soltanto vittime, bensì anche, in certa misura, complici e collaboratori. Questo non significa naturalmente che una parte debba presentare all’altra il conto dei crimini commessi o fare sì che essi si compensino a vicenda: compito della ricerca storica è, secondo la Commissione, decostruire le semplificazioni e i pregiudizi diffusi, mettendo in luce le complesse connessioni storiche che ne sono all’origine. Il concetto di storia delle esperienze S econdo la Commissione un approccio promettente per raggiungere questo obiettivo consiste nell’analisi scientifica delle esperienze individuali degli uomini e delle donne 9 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Documenti diata dimensione delle esperienze per mezzo di testimonianze autobiografiche scritte come diari, lettere o appunti redatti più tardi, anche se bisogna tener conto del fatto che l’attendibilità storica di questi scritti diminuisce con l’aumentare della distanza temporale che li divide dagli eventi raccontati. Si pone quindi la questione di quanto rappresentative possano essere nel caso specifico le esperienze storiche vissute da singoli. Per quante testimonianze autobiografiche si possano avere a disposizione, non è dalla semplice addizione di singole esperienze che può risultare una generalizzazione dell’esperienza. La memoria individuale è tuttavia determinata socialmente, culturalmente, religiosamente o politicamente ed in questo modo almeno parzialmente collegata alla memoria di altri soggetti. Esperienze individuali apparentemente uniche vengono spesso vissute in modo simile anche da altre persone che vengano a trovarsi in situazioni storiche analoghe. Per questo motivo si parla anche di una ‘memoria comunicativa’, che costituisce dei gruppi fra persone in contatto fra loro. Queste, dialogando tra di loro, scrivendosi o comunicando con altri mezzi, oppure ancora attraverso descrizioni storiche, danno vita ad una memoria collettiva di gruppo, senza esserne per questo necessariamente consapevoli. Di conseguenza, la storia delle esperienze si concentra sul collegamento delle esperienze individuali con le esperienze di gruppi più o meno grandi. L’incontro tra tedeschi e italiani tra il 1943 e il 1945 S e si vuole applicare l’approccio qui descritto alle esperienze che tedeschi e italiani fecero gli uni con gli altri durante la seconda guerra mondiale, bisogna per prima cosa prestare attenzione alle circostanze storiche in cui tali esperienze ebbero luogo. A partire dalla proclamazione dell’Asse, i due popoli furono innanzitutto legati l’uno all’altro da un destino politico oltremodo infelice: entrambi erano rappresentati politicamente da dittature fasciste, la cui coesione interna dipendeva in modo particolare dalla loro violenta espansione imperialista. Adolf Hitler e Benito Mussolini consolidarono le loro dittature trascinando i propri popoli da un conf litto all’altro fino a che, a partire dalla fine del 1941, affiancati anche dal Giappone, si trovarono a condurre una guerra contro quasi tutto il mondo, nella quale tutti e tre i regimi soccombettero. La storia delle esperienze di tedeschi e italiani al tempo dell’Asse si presenta dunque in primo luogo come storia di esperienze di guerra e di occupazione. PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 In secondo luogo occorre sottolineare che, sebbene i due dittatori non avessero mai progettato nessuna guerra in comune, nel 1940/41 essi fecero comunque campagne di guerra comuni in Francia, in Jugoslavia e in Grecia, portandole vittoriosamente a termine; nel 1942/43, invece, le due dittature andarono insieme incontro alla sconfitta. In tutti questi teatri di guerra tedeschi e italiani combatterono gli uni al fianco degli altri: l’esperienza di una fratellanza d’armi imposta si dall’alto, ma poi concretamente vissuta alla base in milioni di singoli casi, fu dunque per i soldati italiani e tedeschi un’esperienza primaria. In terzo luogo non bisogna dimenticare che questa coalizione militare fini d’un colpo l’8 settembre 1943, con l’entrata in vigore dell’armistizio voluto dal governo del maresciallo Badoglio di comune accordo con gli Alleati. Da un giorno all’altro non solo i governi e i quadri militari, ma anche i soldati tedeschi e italiani divennero da fratelli d’armi a nemici in guerra: una rottura che, nel modo in cui si verificò, non ebbe eguali nel secondo conflitto mondiale. All’esperienza della solidarietà del periodo fascista subentrò all’improvviso un rapporto di ostilità. In quarto luogo è necessario mettere in evidenza la varietà dei contesti in cui ebbero luogo le esperienze vissute dagli italiani e dai tedeschi. A partire dall’8 settembre 1943 non è più possibile parlare di un ambiente omogeneo, per quanto diversamente articolato, in cui avvenivano queste esperienze; da allora l’Italia fu infatti un paese diviso con una monarchia sotto il controllo degli Alleati al sud e una repubblica ‘fascistissima’ al nord, guidata da Mussolini e posta sotto il controllo delle forze d’occupazione tedesche. Seguendo lo slittamento della linea del fronte il confine tra i due Stati italiani si spostava sempre di più verso nord. Si può parlare dunque di spazi di esperienza situazionali, in cui tedeschi e italiani si confrontarono in circostanze di volta in volta differenti. In Sicilia, quello che rimase impresso nella memoria dei soldati tedeschi e della popolazione fu soprattutto la resistenza comune contro le truppe alleate sbarcate sull’isola. Nel resto del Sud Italia furono invece i sanguinosi combattimenti con le unità della Wehrmacht in ritirata a lasciare il segno nella popolazione. Per quanto riguarda l’Italia settentrionale e centrale è necessario procedere ad una differenziazione dei contesti in cui poteva avvenire il faccia a faccia tra italiani e tedeschi: era infatti diverso se questi si trovavano gli uni di fronte agli altri nelle immediate vicinanze del fronte, nell’entroterra del territorio della RSI, solo nominalmente indipendente, o nelle cosiddette zone di operazione, oppure durante azioni militari dirette contro i partigiani, oppure ancora nel contesto non mili- 10 Documenti tare della vita quotidiana durante l’occupazione. Si deve tener conto in quinto luogo del fatto che la mutevolezza delle esperienze dipendeva naturalmente anche dal momento in cui i soldati ed i civili tedeschi venivano a contatto con i militari italiani, con i funzionari della RSI e, soprattutto, con la popolazione civile. Per entrambe le parti si apriva, a seconda della fase storica, una diversa dimensione dell’esperienza. Con ciò non s’intende soltanto la cesura tra la fase dell’Asse prima dell’8 settembre 1943 e la successiva fase di occupazione, ma anche il fatto che, all’interno di questa seconda fase, le forze d’occupazione tedesche in Italia subirono un continuo processo di radicalizzazione. Queste risposero infatti alla forza crescente della Resistenza con una repressione sempre più spietata, anche nei confronti dei più civili. Quanto più la guerra si protraeva, tanto più ostili divenivano i rapporti tra tedeschi e italiani e tanto più negativamente dovevano imprimersi queste esperienze nella memoria individuale. Se si tiene conto di queste condizioni storiche, le diverse esperienze vissute da tedeschi ed italiani dovranno essere valutate ricorrendo a criteri differenti. Pertanto è bene non parlare mai in modo generico di ‘italiani’ e di ‘tedeschi’, ma piuttosto essere consapevoli che si tratta di esperienze specifiche di singoli individui o di interi gruppi. Per quanto riguarda gli italiani, per esempio, è fondamentale distinguere tra coloro che opponevano una resistenza attiva agli occupanti tedeschi, coloro che invece collaboravano con gli occupanti, o, ancora, coloro che cercavano di evitare qualsiasi coinvolgimento. Nonostante l’importanza di una tale differenziazione, queste diverse esperienze di gruppo non sono state analizzate finora che in modo assai lacunoso. L’unico punto su cui oggi la ricerca concorda pienamente è che coloro che resistevano militarmente alle forze di occupazione tedesche o che con esse cooperavano fossero in entrambi i casi una minoranza. La maggior parte della popolazione era infatti occupata dalla continua lotta per la sopravvivenza, la quale però non escludeva frequenti atti di disobbedienza civile o di contestazione della disciplina imposta dalle forze d’occupazione. Esperienze di guerra vissute dagli italiani a contatto coi tedeschi L’ argomento di gran lunga più studiato è il movimento di resistenza contro l’occupazione tedesca. Per gli antifascisti impegnati nella lotta, i tedeschi e i loro complici fascisti incarnavano comprensibilmente la negatività assoluta. Come dimostrano molte testimonianze autobiografiche, questa conno- tazione di negatività rimase viva anche dopo la guerra. Alle forme ed alle dimensioni della lotta contro la dominazione tedesca non è stata dedicata, in Germania, praticamente alcuna attenzione; in Italia invece il suo innegabile significato storico è stato per lungo tempo enfatizzato. Da entrambe le parti questo portò ad una percezione deficitaria del fenomeno, che ostacolarono un riconoscimento storico realistico del valore della Resistenza. La sollevazione contro le forze d’occupazione si svolse in due grandi teatri d’azione: da una parte le grandi città e dall’altra le impervie regioni montane. Nelle città vi fu soprattutto una resistenza politica, nelle montagne tale resistenza fu condotta anche nelle forme della guerra partigiana. La direzione della Resistenza fu assunta dai Comitati di Liberazione Nazionale (CLN) che cominciarono a operare in clandestinità già dall’8 settembre 1943. La resistenza consisteva soprattutto in azioni di propaganda, ma anche in atti di ostruzionismo mirato e di sabotaggio di vario tipo. L’azione politica più significativa fu rappresentata senza dubbio dagli scioperi di massa che ebbero luogo nelle città industriali dell’Italia settentrionale nella prima settimana di marzo del 1944 e a cui parteciparono almeno 350.000 operai. Si trattò dello sciopero con la partecipazione di gran lunga più massiccia che abbia mai avuto luogo in un paese europeo occupato dai nazisti. Nella prospettiva della storia delle esperienze, tuttavia, sulle conseguenze di quest’azione, che devono essere state notevoli, sappiamo finora molto poco. Le azioni più spettacolari di resistenza cittadina furono invece gli attentati politici. Pianificati da gruppi di. guerriglia antifascista come i Gruppi di Azione Patriottica (GAP), essi avevano anche lo scopo di scuotere la maggioranza della popolazione civile dallo stato di attesa passiva in cui versava. L’attentato più noto è quello di via Rasella a Roma, durante il quale morirono 33 membri di un battaglione della polizia di ordinanza tedesca [Ordnungspolizei] e a cui seguì una barbara azione di rappresaglia delle SS, culminata nell’uccisione di 335 ostaggi italiani alle Fosse Ardeatine. Le reazioni in cui i gruppi di resistenza avevano sperato tuttavia non arrivarono. Al contrario, da lettere e petizioni emerge addirittura che a volte il risentimento della popolazione si dirigeva piuttosto contro coloro che coni loro attentati provocavano le rappresaglie tedesche, anziché contro gli autori delle rappresaglie stesse. Anche a Roma, in alcuni settori della popolazione la deprecazione nei confronti dell’attentato sopravanzò l’avversione prodotta dalle esecuzioni. La resistenza militare era condotta da gruppi 11 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Documenti di partigiani dal credo politico differente, ma uniti nella lotta armata, che si formarono in regioni di montagna difficilmente accessibili. Il potenziale bellico dei partigiani non consentiva successi militari di grande entità, ma era comunque sufficiente per creare crescenti problemi alle forze d’occupazione: dissuadeva infatti i civili a cooperare con gli invasori e gettava in un permanente ‘panico da partigiani’ i soldati giovani e perlopiù inesperti della Wehrmacht. L’approccio alla Resistenza nella prospettiva della storia delle esperienze non toglie nulla alle responsabilità storiche che pesano su alcune unità delle Waffen-SS e della Wehrmacht per i massacri di civili e le uccisioni di ostaggi, compiuti nella piena violazione delle norme del diritto internazionale. Un tale approccio mette invece in luce il fatto che le reazioni della popolazione civile italiana alle azioni del movimento di resistenza furono molto più sfaccettate e complesse dell’immagine che si è costituita nella memoria successiva: esse spaziavano infatti dall’approvazione e dal sostegno nascosti fino all’indifferenza, per giungere infine ad una chiara disapprovazione e ad una aperta ostilità. Alquanto meno studiato della Resistenza è il collaborazionismo degli italiani con le forze di occupazione tedesche nella RSI. La Commissione individua in questo caso una grande lacuna nella ricerca. La cooperazione italo-tedesca nella Repubblica Sociale si sviluppò su diversi livelli, pur essendo sempre caratterizzata da un certo disequilibrio nei rapporti, in quanto la libertà d’azione dei rappresentanti della RSI rimase limitata rispetto a quella delle autorità tedesche. La collaborazione degli italiani con i tedeschi aveva il suo fulcro nella cooperazione dei quadri del partito fascista e dei funzionari statali con le autorità civili degli occupanti. La polizia fascista collaborava in modo particolarmente stretto con gli organismi tedeschi incaricati della persecuzione, in particolar modo nella ricerca di ebrei. Importante fu anche il sostegno militare che i tedeschi riuscirono ad ottenere dagli italiani nella lotta contro la resistenza armata all’occupazione. Inoltre pure gli imprenditori e i lavoratori dovettero ‘ ‘scendere a patti col regime d’occupazione tedesco, anche se spesso si trattava nel loro caso di una collaborazione solo di facciata, dietro alla quale poteva addirittura celarsi un’attività clandestina a sostegno della Resistenza. Sappiamo inoltre relativamente poco del comportamento della Chiesa cattolica nei confronti degli occupanti. Non sussiste tuttavia alcun dubbio che la maggioranza del basso clero si oppose al reclutamento di lavoratori coatti e alla deportazione degli ebrei, in molti casi anche a costo della prigionia e della vita. PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 La vita quotidiana a contatto con i tedeschi, così come le diverse forme di resistenza indiretta, non sono ancora state studiate in modo soddisfacente. Si può tuttavia partire dal presupposto che fosse la violenza quotidiana l’esperienza fondamentale con cui la maggior parte della popolazione delle zone occupate dovette convivere a partire dall’8 settembre 1943, anche se non tutte le regioni d’Italia furono colpite in egual misura dalla guerra e dalla persecuzione. Fra gli uomini giovani era particolarmente viva la paura del reclutamento forzato, fosse esso destinato al lavoro coatto in Germania, all’Organizzazione Todt per la costruzione di opere difensive della Wehrmacht, o al servizio nelle unità militari di Mussolini. Anche se non si hanno ancora a disposizione testimonianze precise, è logico pensare che i più si trovassero a dover escogitare costantemente delle strategie per sottrarsi a queste minacce. Dall’autunno del 1944 molti di loro si unirono ai partigiani, i quali divennero in questo modo sensibilmente più forti. A nche il ruolo delle donne sotto l’occupazione tedesca potrà essere approfondito dalla prospettiva della storia delle esperienze. Al tempo della Repubblica Sociale, a causa dell’assenza della maggioranza degli uomini, le donne ebbero molti oneri da sostenere e dovettero spesso assolvere più compiti: da un lato, la cura quotidiana della famiglia e, dall’altro, l’impegno pubblico a sostegno del fascismo repubblichino o l’attività segreta per la Resistenza. Un campo che deve essere ulteriormente approfondito è infine quello costituito dalle esperienze dei soldati e degli ufficiali del Regio Esercito Italiano che la Wehrmacht, dopo l’armistizio, disarmò con la violenza, fece prigionieri o addirittura uccise. Non pochi riuscirono a darsi alla clandestinità, a fuggire nell’Italia meridionale, a nascondersi o a passare dalla parte dei partigiani. Poco si sa, tuttavia, della loro esperienza in clandestinità. Siamo invece più informati sul destino di quei soldati che furono deportati in Germania col nome di internati militari e, con l’eccezione degli ufficiali, obbligati al lavoro coatto. La Commissione stessa non è riuscita a risalire al loro numero esatto, ma le stime fatte parlano di un minimo di 600.000 internati militari. Compito della ricerca futura dovrà essere quello di precisare questi dati e di chiarire fino a che punto ed in che modo gli internati militari abbiano combattuto una ‘Resistenza senz’armi’, nonché quale importanza militare abbiano avuto i circa 200.000 alleati volontari ed optanti. Un risultato sorprendente dei lavori della Commissione a questo riguardo è il ritro- 12 Documenti vamento di molte testimonianze autobiografiche finora sconosciute, a conferma del fatto che, prendendo in considerazione anche le fonti già note, una ricerca sugli internati militari dal punto di vista del loro destino collettivo sarà possibile in futuro anche nella prospettiva della storia delle esperienze. In questo modo la Commissione si aspetta che venga resa giustizia storica alla sorte dei militari internati che, dopo la guerra, non è stata quasi mai oggetto di pubblica discussione. S e confrontata con la varietà di comportamenti degli italiani nei confronti dei tedeschi, l’esperienza collettiva dei tedeschi in Italia durante la seconda guerra mondiale può sembrare a prima vista più omogenea. In realtà, la struttura organizzativa e gerarchica della Wehrmacht, fortemente unitaria, trasmette in questo caso un’impressione sbagliata. Il comportamento dei soldati tedeschi nei confronti della popolazione civile italiana infatti non fu per nulla omogeneo e subì inoltre nel corso della guerra notevoli mutamenti. Fino al settembre 1943, nello spirito dell’Asse, era di grande importanza per gli alti comandi della Wehrmacht che le unità di stanza in Italia vivessero nel maggior accordo possibile con la popolazione del loro alleato più stretto. Per fare un esempio, al fine di avvicinare i membri della Wehrmacht alla cultura e allo stile di vita degli italiani, fu dato l’incarico a due intellettuali legati all’Italia – lo storico dell’arte Wilhelm Waetzoldt (1942) e l’archeologo Ludwig Curtius (1943) – di illustrare in una forma concisa le conquiste culturali del regime fascista. Si trattava naturalmente di un’immagine edulcorata e dal chiaro scopo propagandistico. Evidentemente si ritenne necessario intervenire propagandisticamente per arginare il crollo di stima verso l’alleato italiano. Ai soldati tedeschi fu raccomandato di instaurare uno spirito ‘cameratesco’ coi loro fratelli d’armi italiani e di rispettare i loro stili di vita e le loro tradizioni. Ufficiali tedeschi trovarono spesso ospitalità presso famiglie italiane e molti di loro cominciarono a impararne la lingua. Questo tipo di rapporti quotidiani restò vivo anche quando le debolezze degli italiani sul piano militare cominciarono a destare nei tedeschi dubbi sempre maggiori sulla stabilità dell’Asse. Anche se sono necessarie ulteriori verifiche, ci sono addirittura buoni motivi per pensare che, nonostante l’inf luenza negativa esercitata dalla propaganda nazionalsocialista, la buona disposizione dei soldati tedeschi nei confronti dei civili italiani non andò del tutto persa nemmeno dopo l’8 settembre. Fu solo nel corso del 1944 che si affermarono defini- tivamente quegli stereotipi negativi che già da tempo si trovavano in circolazione. Anche in questo caso tuttavia fu decisivo il contesto in cui si formò di volta in volta l’esperienza dei soldati tedeschi sul suolo italiano: al fronte, nelle zone militarizzate dell’interno, durante la lotta ai partigiani o nella Repubblica Sociale amministrata da civili. Dunque quel confronto tra membri della Wehrmacht e la popolazione civile italiana, che ad un primo sguardo appariva privo di sostanziali differenze, si dimostra invece assai complesso se guardato dal punto di vista della storia delle esperienze. Un altro elemento di cui bisogna tenere conto è che l’esperienza dei soldati in Italia fu determinata anche dalle loro esperienze pregresse in altri teatri di guerra. Più si avvicinava la fine della guerra e sempre più unità della Wehrmacht consistevano o di soldati giovanissimi, spesso provenienti direttamente dalla Gioventù hitleriana, oppure reclute di altri paesi integrate nelle Waffen-SS. Se ne può quindi dedurre che, a partire dal 1944, la maggior parte dei soldati tedeschi stanziati in Italia si trovasse al fronte per la prima volta. La loro inesperienza militare e il confronto con la guerra partigiana li rendeva particolarmente ricettivi alla propaganda nazionalsocialista. Inoltre giocava un ruolo significativo il fatto che in certe unità delle Waffen-SS e della Wehrmacht stanziate in Italia, soprattutto nella 16ª divisione dei Panzergrenadier “Reichsführer SS” e nella divisione “Hermann Göring”, i ranghi intermedi fossero composti da ufficiali che avevano precedentemente prestato servizio nella guerra contro l’Unione Sovietica o addirittura come personale di guardia nei campi di concentramento. Questi applicarono senza scrupoli i metodi disumani della guerra di annientamento ‘antibolscevica’ non solo alla lotta contro i partigiani, ma anche contro i civili e coinvolsero spesso in brutali massacri i giovani soldati a loro sottoposti. Questo però significa anche che non tutte le divisioni tedesche in Italia furono pervase da tale mentalità distruttiva. La Commissione richiama l’attenzione sulla tendenza che sta emergendo nella ricerca storica e che mette in evidenza una pluralità di comportamenti dei soldati tedeschi nei confronti sia della popolazione civile italiana che del movimento di resistenza. Se è dunque possibile sotto molti aspetti sollevare una parte delle unità della Wehrmacht dall’accusa di crimini di guerra, tanto più diviene necessario ritenerne altre ancora più responsabili. Inoltre non si deve dimenticare il gruppo dei disertori tedeschi e di origine austriaca – non di rado passati poi dalla parte dei partigiani, 13 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Documenti con i quali combatterono lealmente – che, sebbene numericamente piuttosto modesto, è per la storia delle esperienze di importanza non marginale. Nella misura in cui è possibile esprimersi su un argomento così poco studiato, si può dire che le loro esperienze con gli italiani furono ovviamente di natura molto diversa da quelle delle truppe che continuarono a combattere. Questa osservazione vale anche per il numero sempre maggiore di soldati tedeschi che, verso la fine della guerra, furono presi prigionieri dagli inglesi o dagli americani. Quali esperienze abbiano fatto durante la prigionia con i sorveglianti alleati o con le autorità civili nell’Italia liberata, è un terreno sotto molti aspetti ancora inesplorato e che necessita di un’analisi approfondita, perché potrebbe trattarsi per alcuni soldati della prima volta in cui essi furono messi a confronto con la realtà della sconfitta militare. La Commissione non ha svolto nessuna ricerca mirata né sui disertori, né sui prigionieri di guerra, ma concorda sulla necessità che vengano intraprese entrambe. P articolare attenzione merita il fatto che nel periodo dell’occupazione anche numerosi civili tedeschi vennero a contatto con la popolazione italiana. Tra questi anche diplomatici e alti funzionari, primo fra tutti Rudolf Rahn, nominato da Hitler plenipotenziario del Reich presso Mussolini. Sono da sottoporre ad analisi anche l’immagine che si erano fatta del nemico gli organi della persecuzione tedesca, ai quali appartenevano anche membri delle SS come Herbert Kappler o Erich Priebke. Inoltre numerosi rappresentanti di varie istituzioni statali in Italia erano in concorrenza tra loro, come i funzionari del Ministero degli Armamenti di Albert Speer, gli uffici di Fritz Sauckel, plenipotenziario generale per il lavoro, o le autorità preposte all’organizzazione del piano quadriennale. In generale, i delegati di queste autorità formavano un apparato burocratico considerevole, che venne più volte a contatto diretto con la popolazione civile. Se si prescinde dalle descrizioni lasciate dai rappresentanti del regime nazista nelle memorie piuttosto inverosimili scritte dopo la guerra, non sappiamo quasi nulla delle esperienze reali di questi burocrati con i civili italiani. C’è da supporre comunque che la loro immagine dell’Italia fosse assai inf luenzata dal rapporto coi collaborazionisti della RSI. In conclusione, non si deve dimenticare che l’Italia fu per molti emigranti provenienti dalla Germania nazista, soprattutto ebrei, innanzitutto un paese in cui essi avevano trovato un rifugio che poteva essere revocato. Dopo l’armistizio, coloro che non erano riusciti a PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 fuggire prima furono presi di mira dagli apparati di repressione dei tedeschi e dei fascisti della RSI e vennero a trovarsi costantemente in pericolo di morte. Molti di loro furono aiutati da organizzazioni ebraiche, da istituzioni cattoliche o dall’iniziativa di privati cittadini; altri, invece, furono denunciati e si ritrovarono vittime dell’ingranaggio distruttivo nazista. Tre ambiti di ricerca L a Commissione sa di presentare solamente le linee principali di una ricerca scientifica che potrà essere completata solo gradualmente. Nel breve tempo e coi mezzi limitati che aveva a disposizione, alla Commissione non è stato possibile eseguire ricerche esaustive. Le diverse circostanze in cui tedeschi e italiani si trovarono gli uni di fronte agli altri durante la seconda guerra mondiale, le differenti esperienze vissute e tutte le nuove domande che queste problematiche portano con sé richiedono infatti ricerche di lunga durata che prendano le mosse, prima di tutto, da uno spoglio sistematico delle fonti autobiografiche. Tuttavia, per rendere comprensibile almeno la varietà delle esperienze storiche fatte da tedeschi e italiani nel secondo conf litto mondiale, la Commissione ha effettuato alcune ricerche preparatorie in archivi e biblioteche. Questi primi passi per sondare il terreno non possono naturalmente sostituire ricerche di più ampio respiro, ma dimostrano che sarà possibile rinvenire testimonianze autobiografiche che certo non ribalteranno completamente il giudizio sui rapporti italo-tedeschi nella seconda guerra mondiale, ma che ad ogni modo potranno gettare una nuova luce su alcuni aspetti centrali relativi a questa problematica. Questo potrebbe contribuire alla formazione sia in Italia che in Germania di una visione diversa della storia, che prenda le distanze da reciproche percezioni stereotipate ereditate dal passato. Anche se da ciò alla fine non risulterà una comune cultura della memoria italo-tedesca, si raggiungerebbe però già di per sé un risultato molto positivo se in entrambi i paesi interpretazioni autoassolutorie del passato lasciassero il posto a un crescente processo di autocritica. Ciò non ha nulla a che fare col relativismo storico, bensì con una visione del passato rispondente allo spirito di una limpida ricostruzione storica. Un primo ambito di ricerca sondato è quello riguardante i soldati tedeschi in Italia e le loro esperienze individuali a contatto con la popolazione civile italiana. Si tratta delle esperienze di più di un milione di soldati tedeschi che si trovarono di stanza in Italia dal 1943 al 1945. 14 Documenti Anche se è difficile trarre delle conclusioni generali, non per ultimo a causa dell’alto numero di soggetti coinvolti, questa ricerca pionieristica mostra che le esperienze dei soldati tedeschi sul territorio italiano furono decisamente più sfaccettate, maggiormente dipendenti dal contesto e, spesso, meno brutali dell’immagine che si è imposta successivamente nella memoria collettiva. La Commissione ha trovato in numerosi archivi e biblioteche una quantità di materiale autobiografico finora sconosciuto, che ben si presta a diventare oggetto di studi nella prospettiva della storia delle esperienze. Senza poter presentare dei risultati definitivi, la Commissione vede qui un vasto campo di ricerca in cui la prospettiva della storia delle esperienze può rivelarsi particolarmente proficua. Un secondo ambito di ricerca sondato dalla Commissione è quello delle esperienze della popolazione italiana a contatto con le forze d’occupazione tedesche. I risultati dell’indagine mostrano come i resoconti di esperienze individuali non si lascino chiarire tramite il semplice ricorso a modelli esplicativi sommari. Anche se dal 1943 al 1945 l’esperienza della violenza fu dominante nella quotidianità dei civili italiani, il rapporto coi tedeschi aveva conosciuto prima anche altri aspetti. Lo stesso vale anche per la problematica particolarmente delicata del collaborazionismo degli italiani con le forze d’occupazione tedesche al tempo della Repubblica Sociale. Nonostante in questo caso si abbia a che fare quasi esclusivamente con fonti apologetiche, emerge tuttavia che la collaborazione dei ‘repubblichini’ con le autorità tedesche non fu dettata, di norma, da puro opportunismo, ma anche da motivi ideologici. Questo vale soprattutto per le unità militari della RSI, in cui si arruolarono prevalentemente quei volontari che ancora credevano alla vittoria finale dell’Asse. Un terzo ambito su cui gli interessi della Commissione si sono concentrati particolarmente è la situazione degli internati militari italiani prigionieri dei tedeschi. La Commissione ha lavorato con successo alla raccolta di nuove fonti, attraverso le quali è possibile fornire una interpretazione del singolare destino degli internati militari nella chiave interpretativa della storia delle esperienze. La Commissione ritiene che il riservare al loro destino un posto particolare nella cultura e nella politica della memoria di Italia e Germania sia un gesto che avrebbe dovuto essere compiuto già da molto tempo. Gli internati militari non possono scomparire più a lungo dalla storia per finire nella zona grigia della memoria italiana e di quella tedesca; piuttosto il ricordo del loro incolpevole destino dovrebbe unire simbolicamente tedeschi e italiani. Materiali di lavoro per la ricerca futura A ffinché il proposito di analizzare la storia italo-tedesca durante la seconda guerra mondiale dal punto di vista della storia delle esperienze possa essere concretizzato, la Commissione presenta alcuni materiali di lavoro che dovranno servire da strumenti per la ricerca futura. Ad essi appartiene innanzitutto un inventario dettagliato delle fonti archivistiche sul destino collettivo degli internati militari che la Commissione ha rinvenuto in Italia e in Germania e grazie alle quali la ricerca sulla tragica sorte degli internati potrà essere fondata su una base nuova e molto più ampia di testimonianze. In secondo luogo la Commissione presenta un’antologia dei resoconti scritti dagli internati militari dopo la loro liberazione. Per rendere possibile la loro ricezione anche nei paesi di lingua tedesca, dove, al di fuori della cerchia degli storici, il destino di questi soldati è pressoché sconosciuto, i resoconti redatti in lingua italiana verranno pubblicati in traduzione tedesca. Infine, la Commissione renderà accessibile online una banca dati contenente informazioni su più di 5.000 atti di violenza compiuti da membri delle forze armate tedesche e denunciati ai Carabinieri dalle vittime stesse o dai loro congiunti alla fine della guerra. Anche se questi dati necessitano ancora di una interpretazione più articolata, essi documentano già in questa prima elaborazione l’enorme violenza della repressione e nello stesso tempo anche i diversi aspetti che l’occupazione nazista presentò nelle diverse regioni d’Italia. A tal proposito la Commissione segnala anche una banca dati online dell’Istituto Storico Germanico di Roma, nella quale sono elencate tutte le unità tedesche della Wehrmacht e delle Waffen-SS che hanno combattuto in Italia e i loro rispettivi teatri di operazione. G li strumenti di lavoro presentati dalla Commissione non possono ovviamente sostituire le analisi storiche, ma possono tuttavia facilitare notevolmente l’accesso a quelle fonti di storia delle esperienze senza le quali nessuna analisi storica è possibile. La Commissione riterrà dunque di aver raggiunto i propri obiettivi nel momento in cui in futuro avrà stimolato l’avvio di ricerche compiute a partire da una nuova prospettiva. Nuovi metodi storiografici sono infatti a suo parere una delle condizioni necessarie al lungo processo di formazione di una comune cultura della memoria italo-tedesca. 15 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Documenti La prospettiva dei soldati tedeschi P Le forze armate tedesche in Italia N onostante il Patto d’Acciaio stipulato nel 1939, l’inizio della guerra e l’inizio di una comune esperienza bellica in Italia e in Germania non coincisero. Quando la Wehrmacht invase la Polonia il 1° settembre 1939, l’Italia si limitò a dichiararsi potenza non belligerante e solo il 10 giugno 1940, quando la vittoria tedesca sulla Francia era ormai pressoché certa, Benito Mussolini annunciò l’entrata in guerra del regime fascista a fianco del Reich tedesco. I primi a entrare in stretto contatto con le forze armate italiane non furono certamente i soldati semplici, bensì gli alti ufficiali degli Stati Maggiori di collegamento, che erano stati istituiti dai rispettivi Comandi Supremi per garantire uno scambio di informazioni e un coordinamento più efficienti. Pur non contando molti membri, gli Stati Maggiori di collegamento costituivano i punti di raccordo operativi nella direzione della guerra di coalizione e si ritrovarono così ad occupare un ruolo centrale nello svolgersi degli eventi. A causa della situazione bellica sopra descritta, le truppe combattenti tedesche vennero a contatto solo relativamente tardi con lo scenario italiano. Nel 1940/41 furono infatti soprattutto gli appartenenti al X Fliegerkorps inviato in Sicilia, i marinai inviati con i loro sottomarini nel Mediterraneo e i membri dell’Afrikakorps inviati a combattere nel deserto africano, che attraversarono l’Italia. Tra il 1941 e il 1942, inoltre, il II Fliegerkorps fu ritirato dal fronte orientale per essere impiegato fino all’estate del 1943 nelle basi della Sicilia e del Sud Italia contro gli obiettivi nel Mediterraneo – particolarmente in vista dell’invasione di Malta, già pianificata. Fu solo dopo la capitolazione delle forze italo-tedesche in Africa nel maggio 1943, quando il Comando Supremo della Wehrmacht (OK W) cominciò a temere uno sbarco imminente degli Alleati in Sicilia, che divisioni di terra più consistenti furono trasferite dalla Germania e dalla Francia nella penisola italiana. Quando, nel luglio 1943, ebbe effettivamente inizio l’attacco, circa 45.000 soldati tedeschi erano di stanza sull’isola. PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 er poter difendere il Nord Italia da uno sbarco alleato e controllare rapidamente il paese in caso di un cambiamento di fronte, Hitler mobilitò altre divisioni dopo la caduta di Mussolini. Nell’agosto del 1943 erano presenti sul suolo italiano 15 divisioni, alcune delle quali ritirate dal fronte orientale. Quando, l’8 settembre 1943, l’armistizio tra l’Italia e gli Alleati fu reso pubblico, le truppe tedesche occuparono l’Italia fino a Napoli compresa, mentre più a sud gli Alleati avevano già stabilito delle teste di ponte. I soldati italiani furono disarmati con la violenza e, nel disprezzo del diritto internazionale vigente, dichiarati poco più tardi ‘internati militari’. Il 2 maggio 1945, quando le truppe tedesche in Italia deposero le armi, erano di stanza sulla Penisola ancora 24 divisioni, sei in meno rispetto all’agosto 1944, quando le divisioni della Wehrmacht dislocate in Italia raggiunsero con 30 divisioni la concentrazione più alta. Quanti soldati tedeschi abbiano combattuto in Italia tra il 1943 e il 1945 è, ora come allora, difficile da stabilire esattamente. All’inizio dell’aprile 1944 prestavano servizio al comando del feldmaresciallo Albert Kesselring circa 600.000 uomini, 160.000 dei quali erano italiani. Oltre ai 440.000 soldati tedeschi ancora presenti sul territorio italiano alla fine della guerra si devono contare i circa 110.000 caduti, i prigionieri di guerra catturati fino a quel momento, un numero incerto di feriti e dispersi e, infine, i soldati delle 15 divisioni precedentemente ritirate dall’Italia. Tenendo conto di questi numeri si può parlare ragionevolmente di un milione di soldati tedeschi che si avvicendarono nei combattimenti sul suolo italiano fra il 1943 e il 1945. Oltre a questi si deve tener conto di un gruppo difficilmente quantificabile di civili tedeschi residenti in Italia anche da tempo (commercianti, albergatori, studiosi, giornalisti, artisti), così come di un numero non precisamente definibile di emigranti perseguitati – tra cui numerosi ebrei – che negli anni ’30 avevano trovato in Italia un rifugio inizialmente sicuro, ma che alla fine furono trascinati anch’essi negli ingranaggi della persecuzione nazifascista. 16 Documenti La memoria collettiva N ella Germania Ovest la memoria collettiva della guerra in Italia fu da principio fortemente influenzata dalle memorie pubblicate da ex diplomatici, generali o esponenti delle SS. Nel contesto del dibattito sul riarmo, il loro scopo era quello di delineare un’immagine positiva delle operazioni militari sul fronte meridionale per difendere il buon nome della Wehrmacht. Dal punto di vista militare la Repubblica Federale Tedesca doveva apparire insomma come un alleato tanto onesto quanto fidato. Paradossale è il fatto che anche i processi svoltisi nel dopoguerra tendessero in questa direzione. Ciò vale in particolare per il processo ad Albert Kesselring, tenutosi davanti ad un tribunale militare britannico nel 1947. Inizialmente condannato a morte, il feldmaresciallo vide poi commutata la pena nel carcere a vita e, successivamente, ridotta a 21 anni di prigione; nel 1952 era già a piede libero. In tal modo, ciò che rimase nella memoria dell’opinione pubblica tedesca non fu l’accusa per la fucilazione di ostaggi o per gli ordini disumani impartiti nella lotta alla Resistenza, bensì la strategia difensiva di Kesselring davanti al tribunale, che riuscì a far apparire cavalleresca la guerra in Italia, e il comandante in capo un ‘gentleman’. L’ intento primario di dipingere la Wehrmacht come un esercito professionale e corretto ebbe inoltre l’effetto di danneggiare l’immagine dell’alleato italiano. Per presentare sotto una luce positiva l’operato dei tedeschi, i soldati e gli ufficiali italiani dovevano essere descritti come il loro pendant negativo. Stereotipi profondamente radicati nel passato come quelli della ‘pigrizia’, della ‘viltà’ o della ‘imperizia militare’ tornarono in uso, mentre sembrava essere stata dimenticata la stretta cooperazione negli anni dell’Asse. Nemmeno una parola fu spesa sulla fratellanza d’armi cui s’inneggiava un tempo, il silenzio calò sulla componente ideologico-propagandistica dell’alleanza e si cercò di far credere che gli sforzi dei due regimi per rafforzare l’alleanza imperialistica ben oltre la sfera militare non ci fossero mai stati. Gli immancabili stereotipi, presenti in molte memorie, appartenevano al bagaglio mentale dei soldati tedeschi già al tempo in cui misero piede per la prima volta in Italia: agendo col potere di una lente deformante, essi riuscirono ad alterare la percezione della realtà, ad entrare in concorrenza con gli eventi concreti e, dopo la guerra, a funzionare da catalizzatori del complesso processo di trasformazione dell’esperienza di guerra in memoria di guerra. L’accusa che pesò maggiormente fu senza dubbio quella di tradimento; il fatto che gli italiani fossero dei ‘traditori’ sembrò ai tedeschi trovare una conferma indiscutibile nell’armistizio del settembre 1943 e nella dichiarazione di guerra dell’ottobre dello stesso anno. Mentre nei libri di memorie questa stigmatizzazione occupò un ruolo di primo piano, non fu dato invece quasi alcun rilievo al paese e alla sua gente, e anche i delitti della Wehrmacht non trovarono posto in questa narrazione: ruberie, violenza e uccisioni furono passate sotto silenzio. Nel caso si fosse dato spazio alla trattazione della guerra dietro la linea del fronte, questa veniva interpretata come legittima difesa contro nemici terribili, i partigiani, che combattevano in modo subdolo e con mezzi illegali. Le testimonianze autobiografiche redatte dopo il 1945, così si potrebbe riassumere, sono certamente fonti importanti, anche se talvolta queste gettano luce più sulla politica tedesca del dopoguerra e sui tentativi di imporre modelli interpretativi apologetici che sulla conduzione tedesca della guerra in Italia. Sia storici tedeschi che italiani hanno già ampiamente trattato le caratteristiche più importanti della guerra e della memoria collettiva che ne è rimasta, sottolineando anche il fatto che questa memoria non coincide necessariamente con l’esperienza vissuta dai soldati tedeschi in Italia tra il 1943 e il 1945. L’esperienza individuale e collettiva della guerra fatta dai soldati tedeschi è dunque ancora in attesa di essere approfondita: da questa premessa prendono avvio le riflessioni della Commissione di storici italo-tedesca. La Commissione nelle sue analisi parte dall’ipotesi che la guerra in Italia non fu certo una guerra ‘pulita’, ma nemmeno in primo luogo una guerra di sterminio diretta contro la popolazione civile dietro il pretesto della guerra partigiana. È senza dubbio più corretto affermare che si trattò della sovrapposizione di tre conflitti militari a dare alla guerra sulla penisola italiana la sua impronta particolare: - innanzitutto la guerra delle forze armate tedesche contro gli eserciti degli Alleati, che, casi eccezionali a parte, fu condotta in conformità al diritto internazionale vigente; - in secondo luogo la guerra contro i partigiani, condotta da unità della Wehrmacht, delle Waffen-SS e della polizia d’ordinanza – non di rado affiancate dalle milizie fasciste – con particolare durezza e scarso rispetto del diritto internazionale; - in terzo luogo il conflitto fra le truppe tedesche d’occupazione e la popolazione civile, che in momenti e regioni determinate degenerò in una vera e propria guerra contro la popolazione civile, condotta con mezzi criminali. 17 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Documenti Spazi di esperienza L e basi su cui possono fondarsi le nuove ricerche sulla guerra tedesca in Italia sono relativamente ridotte. Mentre la guerra contro l’Unione Sovietica è stata ripetutamente oggetto di vasti progetti di ricerca, per la storiografia il teatro di guerra italiano è sempre rimasto in secondo piano. Non disponiamo infatti né di un’esaustiva trattazione generale in lingua tedesca sulle operazioni militari, né di informazioni sufficienti sulla storia sociale e quotidiana delle truppe tedesche in Italia, sulla loro origine, la loro composizione sociale e le loro precedenti esperienze di guerra; sono tutti temi affrontati solo negli ultimi anni. Poco sappiamo anche a riguardo delle rappresentazioni dell’Italia come esse erano state formulate negli ordini del giorno, nei manuali di istruzioni per soldati [Tornisterschriften] o nei giornali del fronte, con cui la Wehrmacht e le Waffen-SS inviavano le loro truppe oltre il Brennero e sul modo in cui poteva agire la propaganda su un esercito i cui soldati, nonostante portassero la stessa uniforme, differivano enormemente tra loro per età, provenienza sociale, formazione ed esperienze politiche. In ogni caso è sicuro che questo esercito combatté per più di un anno e mezzo in Italia. Ai soldati, che spesso prestavano servizio per mesi interi, non mancò dunque la possibilità di conoscere l’ambiente in cui vivevano, i camerati italiani dell’esercito della RSI o anche i civili. Questi contatti potevano essere fugaci o duraturi, venire presto dimenticati o lasciare impressioni più profonde, mantenersi su un piano civile e quasi pacifico o degenerare in episodi di violenza. Quanto al lato oscuro e criminale della condotta tedesca durante la guerra in Italia, disponiamo ora di informazioni più precise: il numero dei crimini di guerra è ampiamente noto, così come la loro distribuzione regionale e le fasi della guerra in cui essi si concentrarono. Anche per quanto concerne la questione delle responsabilità non si brancola più nel buio. Ricerche recenti dimostrano che l’appartenenza a determinate formazioni era un fattore spesso decisivo per il compiersi di razzie, rappresaglie mortali e massacri; soprattutto le cosiddette truppe di élite e le formazioni delle Waffen-SS giocavano in tale contesto un ruolo particolarmente nefasto. A queste formazioni erano peculiari sia il radicalismo di ufficiali e sottoufficiali, che spesso avevano già prestato servizio nella campagna contro l’Unione Sovietica e durante la quale si erano impadroniti di maniere particolarmente brutali nel condurre le azioni di guerra, sia l’inesperienza e l’indottrinamento ideologico delle giovani reclute, provenienti quasi nella PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 loro totalità dalla Gioventù Hitleriana e portati a seguire volontariamente e a volte persino con ammirazione i loro spregiudicati superiori, soprattutto quando si aveva a che fare con i partigiani. Questi – così si diceva allora e così sembra essersi impresso nella memoria dei soldati – violavano le convenzioni internazionali, combattevano in modo ‘disonorevole’ ed erano infettati dal virus del bolscevismo. Detto concisamente, i partigiani erano ritenuti piuttosto perfidi ed insidiosi, non per ultimo perché si rite-neva che essi non si facessero scrupoli ad impiegare anche donne e bambini nel raggiungimento dei loro obiettivi. Così nella lotta contro le bande partigiane ogni mezzo diveniva legittimo, anche quando erano persone innocenti a farne le spese. Nella visione della direzione della Wehrmacht, improntata dalla intenzione di discolparsi da ogni addebito, le vittime dovevano attribuire la colpa delle loro sciagure a se stessi e soprattutto alla Resistenza, allorché venivano a trovarsi intrappolati negli ingranaggi spesso mortali della repressione e della violenza. M entre questi aspetti criminali della guerra condotta dai tedeschi in Italia sono stati nel frattempo dovutamente indagati, non sappiamo quasi nulla sulla convivenza quotidiana dì tedeschi e italiani. I soldati tedeschi venivano spesso acquartierati in piccoli paesi, intrecciavano nuove conoscenze, venivano a contatto per ragioni di servizio con i collaboratori italiani, visitavano luoghi antichi e chiese famose; per non parlare dei contatti con la parte femminile della popolazione, che si trattasse di abusi sessuali commessi dai soldati occupanti, o di avvicinamenti cercati dalle donne italiane per opportunistiche strategie di sopravvivenza, o, a volte, addirittura per affetto. Queste esperienze si lasciano difficilmente classificare e tanto meno generalizzare, non da ultimo perché le fonti ad esse relative sono sparse sul territorio e non sempre particolarmente illuminanti. Inoltre, aspetti come la violenza contro i civili e la lotta alla Resistenza vengono spesso omessi o solo marginalmente accennati. È tuttavia necessario aggiungere che, fra le rare volte in cui questi aspetti vengono tematizzati, le testimonianze risalenti al periodo della guerra sono molto meno inclini, rispetto a quelle scritte dopo il 1945, a minimizzare o edulcorare i fatti, distaccandosi così, tramite le loro descrizioni realistiche della guerra partigiana, da quella memoria collettiva che comincerà a formarsi solo dopo il 1945. La Commissione ha dedicato un’attenzione particolare a tali fonti soggettive ed ha avviato ricerche in tutti gli archivi rilevanti della Repubblica Federale di Germania. Inoltre essa ha rintracciato una quantità notevole di materiali 18 Documenti in possesso di privati e ne ha assicurato l’accessibilità a scopi di ricerca. Si tratta soprattutto di posta militare, diari, memorie scritte e fotografie. Sulla scorta di tali documenti e di altri ancora si possono formulare alcune ipotesi, orientate alla cronologia, che devono essere ancora corroborate da uno studio approfondito delle fonti. Le testimonianze raccolte lasciano trasparire che, prima della caduta di Mussolini e del cambio di fronte dell’Italia, i rapporti tra i soldati delle potenze dell’Asse erano molto meno tesi rispetto a quanto venne fatto credere dopo il 1945. I pochi membri delle Forze Armate tedesche di stanza in Italia fino all’estate del 1943 avevano in realtà ben poco di cui lamentarsi. Verso la fine della guerra, per esempio, un vecchio funzionario calabrese ricorda come i primi soldati tedeschi fossero stati accolti nel suo paese con fiori e regali. L’Asse, così si potrebbe sintetizzare, funzionò nonostante i suoi deficit strutturali e fu addirittura capace di successi militari. Fu solo quando questi successi cominciarono a ridursi e la situazione militare si complicò che i rapporti tra i due alleati entrarono veramente in crisi, come d’altra parte rispecchiano anche le testimonianze autobiografiche. C on lo sbarco degli Alleati in Sicilia all’inizio del luglio 1943, quando agli occhi dei propri alleati le truppe del Regio Esercito non si batterono con il dovuto valore ed ebbero inizio le ostilità tra tedeschi e italiani, con la destituzione di Mussolini poco dopo e infine con la proclamazione dell’armistizio nel settembre del 1943, l’immagine che molti soldati tedeschi avevano dell’Italia cambiò radicalmente. Da questo momento in poi nelle loro lettere e nei loro diari questi ricorsero non di rado a citazioni tratte quasi letteralmente da discorsi radiofonici tedeschi traboccanti d’odio. Scrivevano per esempio del «popolo di maiali e di straccioni» e riferivano di atti di vendetta personale contro gli «italiani traditori». Per loro, gli «italiani erano spregevoli quasi come gli ebrei». La propaganda ufficiale sembrò dunque aver effetto e neutralizzare in un sol colpo la retorica dell’Asse degli anni precedenti. Questo non può certo sorprendere, se si pensa che all’epoca non doveva esserci quasi nessun soldato tedesco che ignorasse la storia del presunto tradimento dell’Italia nei confronti della Triplice Alleanza nel 1915. Effettivamente fu proprio il motivo del ‘tradimento’ a dominare nei discorsi e negli scritti riguardanti l’Italia che circolavano nell’estate e nell’autunno del 1943: su questo fatto le memorie dell’epoca, così come quelle dell’immediato dopoguerra, non lasciano sorgere alcun dubbio. In ogni caso emerge una differenza, perché lo sgomento, l’indignazione e la rabbia vengono posti più chiaramente in luce nei diari e nelle lettere di posta militare piuttosto che nei ricordi del dopoguerra, spesso attenuati. Il rancore personale per il ‘comportamento degli italiani’ – le motivazioni per la scelta dell’armistizio non erano o non volevano essere comprese – poteva sfociare addirittura in fosche previsioni per l’Italia e il popolo italiano tutto: un popolo che, col suo ‘tradimento’, aveva dimostrato di non essere destinato a grandi imprese. A ccanto a questi slogan predominanti si trovavano anche singole lettere in cui emergeva una riflessione sull’accaduto che andava al di là della propaganda. Alcuni soldati non riuscivano a capire il voltafaccia degli italiani e inizialmente non volevano credere che l’alleato di un tempo fosse ‘passato al nemico’. Per questi sostenitori dell’Asse fu dunque un segnale positivo che alla fine di settembre del 1943 Mussolini si fosse messo a capo della RSI. In questo atto essi vedevano un primo passo verso la normalizzazione della situazione e diedero per scontato che il duce avrebbe riunificato il popolo italiano e l’avrebbe guidato nella lotta agli invasori angloamericani. Ai rivolgimenti dell’estate del 1943 segui più di un anno di violenti scontri armati. In questi mesi, si cristallizzò da parte tedesca un’immagine dell’Italia decisamente più sfaccettata di quella propagandistica e stereotipata che circolava nei mesi intercorsi tra la caduta di Mussolini e la dichiarazione di guerra del Regno d’Italia al Reich tedesco. A questo proposito bisogna distinguere quattro spazi di esperienza, che possono essere così denominati: fronte, retrovie, lotta antipartigiana, campi di prigionia. L e esperienze e le memorie dei soldati tedeschi al fronte sono segnate soprattutto da operazioni militari, combattimenti, fatiche, ferite e paura della morte, così come dalla convivenza con i compagni. Sia nelle lettere e nei diari che nei resoconti redatti dopo il 1945, l’attenzione si rivolge soprattutto alle grandi e piccole operazioni militari condotte contro gli Alleati; anche i frequenti spostamenti di truppe e i trasferimenti vengono regolarmente menzionati. Queste descrizioni, che a causa della ricostruzione a volte molto dettagliata dello svolgimento delle battaglie e dei movimenti delle truppe possono certo essere di grande interesse per la storia militare in senso stretto, sono tuttavia solo parzialmente utilizzabili per gli obiettivi che si pone la storia della vita quotidiana e dei rapporti sociali. Nelle descrizioni provenienti dalle retrovie si trova un’immagine assai sfaccettata dell’Italia. Materiali d’archivio finora sconosciuti danno un’idea della vita quotidiana dei soldati, i quali 19 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Documenti spesso intrattenevano stretti rapporti con la popolazione civile. Oggetto delle descrizioni erano sia il territorio e la gente che la vita all’interno delle proprie truppe. I soldati tedeschi si dimostrarono particolarmente impressionati dalla cultura italiana, si trattasse di musei, chiese, monumenti o spettacoli teatrali. Spedivano a casa foto e cartoline e corredavano i loro diari e le loro lettere con piccoli disegni, a volte accompagnati da osservazioni stupite sull’incapacità del popolo italiano di valorizzare sufficientemente il proprio patrimonio culturale. Nel maggio del 1944 un caporale scriveva: «Chi non è stato a Roma, non ha la minima idea del mondo. […] È tutto così imponente ciò che è italiano. Mi affascina l’architettura di questa città, da un lato così moderna e dall’altro così intrisa di storia. Ma i suoi abitanti non si rendono conto della particolarità della città in cui vivono». Soprattutto in alcune zone dell’Italia settentrionale, dove per circa un anno la guerra fu quasi impercettibile e la presenza dei soldati tedeschi assai esigua, sembrò risorgere tra l’autunno del 1943 e l’estate del 1944 la solidarietà dei giorni precedenti la rottura dell’Asse. Nei loro diari, alcuni soldati appuntavano annotazioni positive sulla popolazione civile: ci sono addirittura testimonianze in cui si parla quasi di una sorta di familiarità, capace di far dimenticare il contesto politico-militare, addirittura di un angolo di patria in terra straniera, anche se non si accenna alla possibilità che l’ospitalità italiana fosse dovuta soprattutto alla paura e alla confusione causate dalla particolare coesistenza di guerra e guerra civile. Non è tuttavia da escludere che una descrizione volutamente marcata di tali episodi rappresenti un contrappeso alle esperienze di crimine e violenza. Così scriveva nel maggio 1944 ai suoi genitori Hermann L., soldato semplice appartenente al reggimento di artiglieria della famigerata divisione “Hermann Göring” di stanza nella provincia di Pisa: «Ho conosciuto qui una famiglia di italiani molto gentili, che mi mettono a disposizione molte cose: mi danno frutta, mi fanno il bucato... Insomma, me la passo bene. Con gli italiani riesco a capirmi bene e alcuni mi hanno addirittura chiesto se fossi italiano, ma non siamo ancora a questo punto». Da questo incontro, Hermann L. sembra esser stato profondamente toccato. Ancora decenni dopo scriveva: «Per tutta la vita ricorderò con estrema riconoscenza l’ospitalità di questa famiglia italiana. Mamma Luisetta [...] mi aveva preparato un banchetto. Loro stessi non possedevano sicuramente tanto. Ma erano stati macellati dei conigli apposta per me. La mamma aveva cucinato più portate, e anche il budino al cioccolato. Tutta la famiglia, compresi i parenti più prossimi, presero parte al pranzo. In quanto ospite d’onore, mi fePATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 cero sedere a capotavola. Gli onori e le cure che questa famiglia [...] riservò a me, soldato straniero di un popolo straniero, non li dimenticherò mai». In certe fonti si trovano anche racconti di relazioni amorose, fidanzamenti, matrimoni, a volte ricordati con nostalgia, a volte infarciti di stereotipi e cliché. Il lato femminile della guerra maschile non si esaurisce soltanto in questi aspetti. Insieme alle truppe combattenti della Wehrmacht infatti si trasferirono in Italia anche molte donne che prestavano servizio negli uffici degli Stati Maggiori, erano addette alle comunicazioni e al controllo degli spazi aerei o curavano malati e feriti negli ospedali militari. Finora però si sa ben poco della loro storia e ancora meno delle loro specifiche esperienze individuali. Le poche testimonianze autobiografiche che possediamo rivelano un ampio spettro di esperienze, impressioni e punti di vista che vanno dalla fede nell’Asse ad un autentico amore per la terra e per la gente, fino alla diffidenza e alla rabbia ideologizzata per il venir meno della volontà di combattere da parte degli italiani, anzi per il loro ‘tradimento’ degli alleati tedeschi. C ontatti più stretti tra i membri delle forze armate tedesche e gli italiani, civili o militari che fossero, furono spesso resi difficili da problemi linguistici. Non per questo, però, mancano negli appunti dei soldati riferimenti alla «voglia di vivere» degli italiani che, se calata nel contesto della guerra e della guerra civile, suona grottesca, ma che non veniva certo riferita unicamente per tranquillizzare i propri cari in patria. Così scrive ad esempio Karl K., caporale di una divisione di fanteria, alla fine del febbraio 1945: «Del resto io osservo qui, nelle osterie e nei ristoranti di Verona, una vita che sembra davvero scorrere serena. Gli italiani, ma anche i soldati acquartierati qui traboccano di una palpabile voglia di vivere. E non è la prima volta che vedo come una città, minacciata nella sua esistenza, aumenti di 20 volte la propria voglia di vivere grazie alla condotta di vita dei suoi abitanti». Quando nel corso della guerra il confine tra il fronte e le retrovie cominciò a farsi meno netto, i racconti dei soldati divennero sempre più foschi. Essi notavano soprattut to come la situazione degli approvvigionamenti, che all’inizio, se paragonata con altri teatri di guerra, poteva essere definita addirittura prospera, fosse diventata molto precaria – sebbene sul mercato fossero sempre disponibili in abbondanza beni di lusso come stoviglie, profumo o cioccolata, certo solo per coloro che disponevano di denaro. A scioccare in particolar modo i soldati tedeschi fu la miseria degli abitanti, e questo soprattutto laddove 20 Documenti essi avevano fatto in precedenza esperienze così positive, come per esempio a Roma, con le sue boutiques e i suoi monumenti antichi. La popolazione affamata non rientrava infatti nell’immagine dell’Italia quale ‘ricca terra di cultura’ e paese agricolo. Fenomeni di questo tipo venivano più facilmente associati alle regioni povere dell’Est Europa, che molti soldati conoscevano per avervi prestato servizio precedentemente. Pietà per i civili italiani e incredulità di fronte agli effetti della guerra si possono leggere in testimonianze come la seguente: «Roma è adesso una città senza pane e presto sarà una città che patirà veramente la fame. Ad un incrocio, nel giro di dieci minuti, sono stato avvicinato da svariati adulti e da almeno una mezza dozzina di bambini in cerca di pane. [...] Una cosa del genere sarebbe molto meno sorprendente e meno straziante in un qualsiasi altro luogo colpito dagli effetti immediati della guerra – un villaggio russo, una località distrutta – che qui, nell’elegante centro della capitale italiana». A lle annotazioni dalle retrovie, che spesso suggeriscono l’idea di rapporti quasi idilliaci, si contrappongono i drastici e drammatici racconti sulle esperienze della guerra contro la Resistenza. Proprio da queste descrizioni del movimento di resistenza italiano emerge un’immagine tanto interessante quanto ambivalente dell’Italia. Da un lato, i soldati tedeschi si sentivano traditi poiché sembrava loro di combattere non solo per gli interessi del Reich tedesco, ma anche, se non addirittura soprattutto, per quelli dell’Italia. Che il Paese fosse diviso e che il ‘Regno del Sud’ sotto Vittorio Emanuele III e Pietro Badoglio avesse cambiato fronte e si fosse schierato con gli Alleati rimaneva da questo punto di vista un fatto trascurabile, visto che per la propaganda e la politica tedesche la RSI di Mussolini non era solamente un alleato, ma anche l’unico governo legittimo d’Italia. Delusione, rabbia e rinascita di un risentimento antico nei confronti dell’Italia sfociarono in azioni brutali contro partigiani o presunti tali, anche se molti massacri, nel frattempo ampiamente studiati, non hanno lasciato quasi nessuna traccia nella memoria della generazione del tempo di guerra. Bisognava procedere senza scrupolo contro quella «gentaglia assassina» e quelle «bande», e i «villaggi interi dovevano essere disinfestati con il fuoco». Ripetutamente si rimarcavano le analogie con la ‘guerriglia’ in Unione Sovietica, cosa che rendeva i soldati dolorosamente consapevoli del fatto di star conducendo una «lotta ai partigiani in un paese alleato». Dall’altro lato però i soldati tedeschi si sforzavano di non applicare alla totalità degli italiani l’immagine che avevano dei partigiani e non vo- levano dimenticare, per esempio, «la contadina italiana [...] che ci portava pane e latte». Per alcuni soldati tedeschi un grande problema era costituito dai rastrellamenti compiuti nelle zone controllate dai partigiani. Particolarmente delicata era la questione delle rappresaglie compiute contro i civili in risposta alle azioni della Resistenza: oltre ad essere ingiustificate, esse avrebbero potuto infatti condurre direttamente nelle braccia del movimento partigiano quella parte di popolazione che tentava di tenersi fuori dal conflitto o che stava addirittura dalla parte dei tedeschi. N ella lotta ai partigiani i reparti tedeschi lavoravano spesso a stretto contatto con le milizie fasciste, che non riservavano alcuna pietà ai loro connazionali antifascisti. Nonostante molti fatti siano noti, quest’ultimo sanguinoso capitolo della storia dell’Asse non è stato ancora scritto dal punto di vista della storia delle esperienze. Lo stesso vale, cum grano salis, anche per la persecuzione e la deportazione di ebrei italiani e stranieri, a cui presero parte, osservando una sorta di divisione dei ruoli, italiani e tedeschi: i fascisti italiani fungevano da delatori e collaboratori volontari, mentre la deportazione nei campi di sterminio restò in mano ai tedeschi. Il fatto che ci siano parecchie lacune riguardo a questo argomento è dovuto non da ultimo alla mancanza di fonti significative: le testimonianze tedesche al riguardo sono pressoché inesistenti e inoltre, nell’affrontare questo tema, si va a toccare un tabù che sopravvive ancora oggi, come dimostrano alcune interviste a ex soldati della Wehrmacht condotte su iniziativa della Commissione in questi ultimi mesi. Strettamente collegato alla lotta armata della Resistenza contro la Wehrmacht e le Waffen-SS è un altro capitolo della storia delle esperienze della guerra tedesca in Italia: la storia dei disertori tedeschi e di origine austriaca entrati nelle file del movimento di resistenza. A nord come a sud del Brennero il tema era scomodo. Nella Germania Ovest, parlarne era addirittura tabù; in Italia, nonostante alcuni comandanti della Resistenza non avessero dimenticato i disertori che si erano trovati sotto il loro comando e Roberto Battaglia, uno dei fondatori della ricerca sulla Resistenza, avesse fin da subito sottolineato il ruolo dei «partigiani tedeschi», il ricordo dei disertori con l’uniforme della Wehrmacht si perse spesso dietro cliché comunemente accettati. Anche se non furono molto numerosi, i partigiani tedeschi costituiscono un filone estremamente interessante dal punto di vista della storia delle esperienze, in quanto avvicinano due mondi altrimenti estranei l’uno all’altro ed offrono una visione diversa della guerra tedesca in Italia. 21 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Documenti A partire dall’estate del 1944, dopo lo sbarco degli Alleati in Normandia e il fallito attentato a Hitler, cominciano a trovarsi nelle annotazioni dei soldati tedeschi elementi decisamente nuovi. Alcuni di loro ora notavano la compassione, percepita da molti soldati come umiliazione, se non addirittura l’odio e la derisione con cui gli italiani si ponevano o perlomeno parevano porsi nei loro confronti. Il mutato atteggiamento della popolazione era palpabile nelle zone di guerra come nelle retrovie e molti soldati tedeschi non solo si chiedevano perché dovessero difendere un popolo «che nutriva odio nei nostri confronti», ma mettevano in dubbio anche il senso della guerra in Italia in generale. «Non si è mai parlato così apertamente come adesso di disfatta e di crollo. Le speranze si sono ridotte al minimo. La fine della guerra è prevista con certezza per i prossimi mesi. Il rapporto con gli italiani diventa sempre più difficile: ci si fanno incontro con espressioni derisorie o, nel migliore dei casi, compassionevoli. Agli occhi di tutti noi siamo coloro che perderanno la guerra». Furono in particolare le notizie ricorrenti sui massicci bombardamenti che colpivano le città tedesche e sulle vittorie dell’Armata rossa sul fronte orientale ad alimentare la preoccupazione delle truppe combattenti per i propri famigliari e congiunti in patria, che talvolta venivano addirittura incoraggiati a trasferirsi nelle regioni occidentali del Reich per non cadere nelle mani del nemico russo. Quanto più si avvicinava la fine della guerra, tanto più diveniva rilevante per i soldati tedeschi un quarto spazio di esperienza: i campi per prigionieri di guerra, in cui si costituirono strutture discorsive che si riveleranno estremamente significative per la memoria della guerra. I resoconti sulla prigionia ruotavano soprattutto intorno alla sconfitta e al modo in cui ci si era arrivati. In queste riflessioni, i soldati si avvalevano continuamente di un motivo ben noto, che già nell’estate. del 1943 aveva avuto grande fortuna: il tradimento. Dopo lo shock della capitolazione dell’esercito tedesco in Italia, si fece ricorso ancora una volta a tutto il repertorio di stereotipi antiitaliani e nella misura in cui si bollavano gli italiani come traditori e capri espiatori si potevano eludere più facilmente questioni di autocritica. Si legga, in tal senso, l’appunto di Walter S., infermiere in un reggimento di fanteria e fatto prigioniero già nel settembre del 1944: «2 maggio 1945: il giorno peggiore della prigionia: gli eserciti tedeschi presenti in Italia hanno capitolato. La guerra in Italia è finita, l’abbiamo persa!!! Non ci posso credere, non può essere stato che tradimento. Non mi vergogno delle lacrime che oggi ho versato, molti compagni hanno fatto lo stesso. Profondo odio e rabbia amara riempiono i nostri cuori». PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 «Tradimento», «odio» e «rabbia amara» sembrano essere state spesso le ultime reazioni dei soldati tedeschi nei confronti dell’Italia e degli italiani. Ciò che prevalse in seguito negli scritti autobiografici furono invece le crescenti preoccupazioni per il proprio futuro, per il destino dei famigliari e la situazione degli approvvigionamenti. Più importanti dei rapporti con gli italiani divennero ora i contatti coi vincitori, soprattutto col personale di guardia dei campi. Furono non da ultime queste nuove priorità che contribuirono a far sì che alle complesse e a volte contraddittorie esperienze individuali di guerra si sovrapponesse negli anni ’50 una memoria collettiva comoda dal punto di vista biografico e gradita da quello politico: cercando di lavare le colpe della Wehrmacht e addossando alla Resistenza la responsabilità dell’escalation della violenza dell’ultimo periodo di guerra, essa ha rimosso sistematicamente gli aspetti criminali della conduzione tedesca della guerra in Italia. Prospettive U n primo confronto tra i modelli interpretativi propagandistici e spesso apologetici della guerra nella penisola italiana e le immagini dell’Italia che emergono dalle testimonianze scritte prima del 1945 mette in luce un’evidente discrepanza tra esperienza (individuale) e memoria (collettiva). In altre parole, memoria e esperienza coincidono solo parzialmente e talvolta si trovano addirittura in aperto contrasto. Le fonti soggettive risalenti al dopoguerra devono essere lette sullo sfondo di queste considerazioni e messe in relazione con documenti coevi, quali lettere di posta militare e diari. Queste testimonianze, com’è ovvio, non riportano solo il punto di vista soggettivo dell’autore, ma permettono anche di trarre delle conclusioni sulle strutture mentali e sulle impostazioni ideologiche della società di cui quelle testimonianze sono figlie. La memoria individuale si basa su quelle esperienze o quei contesti di esperienza che, di norma frammentati, decontestualizzati e politicamente connotati, nel corso degli anni entrano a far parte della memoria collettiva di una società, influenzando così a loro volta gli individui. Non tutte le esperienze dei soldati tedeschi hanno avuto accesso alla memoria collettiva. Trattandosi di una ricerca ancora agli inizi, è troppo presto per trarre delle conclusioni in merito alla completezza ed alla rappresentatività dei modelli di esperienza sopra descritti. A troppe questioni rilevanti le fonti attualmente a disposizione non riescono ancora a dare una risposta o, perlomeno, una risposta esauriente: quanto fu efficace la propaganda tedesca, oscillante tra fedeltà ideologica 22 Documenti nei confronti dell’alleato e campagna denigratoria antiitaliana? Come si strutturò tra il 1943 e il 1945 la cooperazione tra tedeschi e italiani nel segno del ‘nuovo Asse’? Cosa pensavano le truppe tedesche del fascismo e del suo duce? Come fu vissuta dai soldati cattolici la guerra in un paese cattolico? Come si rapportarono i soldati alla violenza da essi stessi esercitata e a quella subita? Ci fu una specifica esperienza di guerra condizionata dal genere sessuale di appartenenza e, in caso di risposta affermativa, che caratteristiche aveva? E infine: per quali motivi soldati tedeschi e di origine austriaca decisero di unirsi alla Resistenza? Che esperienze fecero questi uomini di confine e cosa ne fu di loro dopo il 1945? Per raggiungere risultati scientificamente fondati le ricerche di fonti autobiografiche dovrebbero essere ampliate e sistematizzate. In una seconda fase, questo materiale deve essere messo in relazione con le altre fonti scritte ufficiali provenienti dalle postazioni e dalle formazioni militari, dagli uffici pubblici e dalle autorità giudiziarie e conservate negli archivi tedeschi ed italiani. Solo partendo da questa base più ampia è infatti possibile ricostruire in modo adeguato l’esperienza dei soldati tedeschi sul suolo italiano e far luce tanto sul rapporto sfaccettato e spesso conflittuale instaurato con la popolazione civile, quanto sullo scontro violento coi partigiani e sulla ‘fratellanza d’armi’, al limite tra cooperazione e obbedienza, tra le forze armate tedesche e i fascisti della Repubblica Sociale. Solo in questo modo si potrà osservare più da vicino una fase dei rapporti italo-tedeschi ancor oggi vissuta come dolorosa, caratterizzata al contempo da collaborazione e violenza e contrassegnata in entrambi i paesi da opposti codici di politica della memoria. È perciò necessario un progetto di ricerca di ampia portata sulla guerra in Italia, che prenda in considerazione oltre alla prospettiva tedesca anche quella italiana. Un progetto di ricerca con tali caratteristiche può essere solamente il frutto di un’iniziativa bilaterale. Le esperienze della popolazione italiana con le forze d’occupazione tedesche Il regime d’occupazione tedesco e la RSI: repressione e collaborazione N onostante i vertici del regime nazionalsocialista avessero messo in conto la capitolazione italiana, quando l’8 settembre 1943 l’uscita dell’Italia dalla guerra fu resa nota, la maggior parte dei soldati e della popolazione tedesca rimase sorpresa e costernata. La macchina propagandistica nazionalsocialista sfruttò con successo la situazione, accusando gli italiani di ‘tradimento’ – un’accusa facilitata dalle ambigue modalità con cui si era giunti all’armistizio con gli Alleati, tenuto fra l’altro nascosto ai tedeschi. Dopo l’8 settembre vi furono alcuni scontri armati fra truppe te- desche – che, non essendo la Germania disposta a tollerare la rottura dell’alleanza, agivano senza scrupoli – e unità delle forze armate italiane che tuttavia, soprattutto in Italia, si andavano rapidamente dissolvendo. Dopo una fase turbolenta durata poche settimane, nelle quali la Wehrmacht si impose con brutalità in tutti i territori occupati dell’Italia, dall’ottobre 1943 la popolazione italiana si trovò esposta alla quotidianità di un regime di occupazione. Con la nascita della Repubblica Sociale Italiana fu creato uno Stato fascista alleato della Germania, di fatto sotto il controllo tedesco. Anche se in Italia la maggioranza delle deportazioni, soprattutto quelle degli ebrei, fu messa in opera dalle organizzazioni nazionalsocialiste (SS e polizia), la collaborazione delle questure italiane ha ricoperto un ruolo importante sul 23 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Documenti piano logistico e amministrativo. Senza una cooperazione italiana sul piano sia istituzionale sia individuale, le sole forze di occupazione del regime nazionalsocialista non sarebbero state in grado di esercitare un controllo delle città capillare ed efficiente. L’apparato italiano fedele a Mussolini non era composto solo dai funzionari amministrativi della Repubblica Sociale, ma anche dalle migliaia di collaborazionisti ideologicamente convinti e divenuti ancora più radicali dopo il passaggio dei poteri nell’estate 1943 e l’uscita dalla guerra l’8 settembre, che vedevano ora in tanti connazionali il nemico interno da combattere con brutalità e violenza. Quasi nessuno fu in grado di sottrarsi alla conseguente polarizzazione della società fra amico e nemico. La collaborazione estremamente ideologizzata offerta alle forze d’occupazione allo scopo di opprimere la popolazione italiana è stata presa in considerazione solo parzialmente dalla ricerca storica. Tuttavia il ritratto che questi collaboratori davano di sé viene chiaramente alla luce sia sulla stampa dell’epoca sia nelle fonti autobiografiche di singoli membri delle unità di combattimento fasciste. Le fonti più significative sono tuttavia costituite dagli atti dei processi svoltisi subito dopo la guerra contro membri di questi gruppi. Le attività delle diverse unità di combattimento della RSI, in particolare delle “Brigate Nere”, si sono imposte solo negli ultimi anni all’attenzione della ricerca scientifica. Dei fascisti ideologicamente convinti faceva parte anche un piccolo gruppo di forze di polizia della RSI che era solito rintracciare, arrestare e torturare autonomamente antifascisti e membri della Resistenza, per poi consegnarli in un secondo tempo alla polizia tedesca. La violenza sanguinaria di questo gruppo di convinti fascisti repubblicani ha indotto alcuni partigiani e antifascisti, verso la fine della guerra, a rispondere con una violenza spesso incontrollata, che portò a numerose e mortali rese dei conti. La presenza di consistenti gruppi di popolazione favorevole all’alleanza ‘nazi-fascista’ – per diversi motivi: ideologici, di continuità degli apparati statali, di quieto vivere, di fiducia nella futura vittoria definitiva della Germania – non può oscurare la fondamentale asimmetria di potere fra gli occupanti e gli occupati. Da parte tedesca, la situazione è stata descritta in modo incompleto, semplificato e caratterizzato spesso da una venatura critica nei confronti dell’Italia; allo stesso modo, nei resoconti italiani risalenti al periodo postbellico le forze d’occupazione appaiono spesso come una massa monolitica di nemici rifiutata decisamente dalla popolazione e gli alleati fascisti repubblicani come un riPATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 dotto manipolo di traditori della patria, privo di qualsiasi sostegno fra la popolazione. T uttavia, come emerge da un’analisi in chiave della storia delle esperienze, gli incontri della maggioranza della popolazione italiana con le forze d’occupazione tedesche furono più differenziati e ambivalenti rispetto a quanto la narrazione antifascista prevalente nel dopoguerra non abbia sostenuto. Ciò dipese, non da ultimo, dal fatto – negato per lungo tempo dalle forze antifasciste – che il conf litto aveva assunto anche le forme di una guerra civile, dal momento che la popolazione italiana si trovò obbligata a prendere posizione pro o contro il nuovo regime di Mussolini, e la Resistenza armata combatteva non solo contro gli occupanti tedeschi, ma anche contro i fascisti di Salò e i loro corpi armati. Indubbiamente gli italiani che parteciparono alla resistenza attiva o, sull’altro versante, si arruolarono nei vari corpi armati della RSI, collaborando attivamente con gli occupanti tedeschi, furono delle minoranze, ma il sostegno che essi ricevettero dalla popolazione non fu equamente ripartito: mentre i fascisti italiani dovevano fare i conti con il passare dei mesi con una crescente ostilità e l’isolamento da parte della popolazione, gli antifascisti e i membri della Resistenza godettero invece dell’appoggio, o quanto meno della benevola neutralità, di un numero sempre crescente di italiani. Tuttavia l’esistenza di un regime fascista, alleato con i tedeschi, che cercava di mobilitare la popolazione del Nord e del Centro Italia a favore dell’alleanza, indusse in alcuni osservatori tedeschi l’erronea percezione che la maggioranza degli italiani fosse disposta a collaborare con le forze di occupazione. Così, per esempio, l’ambasciata del regime nazionalsocialista a Fasano aveva creato una rete efficiente di plenipotenziari con la funzione di addetti culturali, delegati responsabili della propaganda, incaricati tedeschi negli Uffici di collegamento e presso i ministeri italiani. Nel territorio occupato, che si stava progressivamente riducendo, gli Stati Maggiori del comando militare tedesco controllavano una molteplicità di città e di località maggiori. Vari inviati dell’amministrazione straordinaria [Sonderverwaltung ] nazionalsocialista, rappresentanti dell’Organizzazione Todt e del Plenipotenziario del Lavoro [Generalbevollmächtigter für den Arbeitseinsatz], erano – per lo meno per una parte dell’élite fascista della RSI attiva in ambito amministrativo – importanti figure di riferimento con cui mantenere un contatto costante per il comune lavoro da svolgere. Anche nell’ambito della cultura ci furono mol- 24 Documenti teplici contatti fra italiani e tedeschi. Studiosi di materie umanistiche e di scienze sociali furono inviati in Italia dai vertici del regime nazionalsocialista per prendere contatto con i colleghi italiani, divulgare, con il loro aiuto, l’ideologia nazionalsocialista e sostenere il proseguimento della guerra. Allo stesso scopo servivano le misure messe in atto dai tedeschi per controllare la radio e i giornali. Anche la difesa delle principali opere d’arte italiane, così come quella di biblioteche e archivi, non fu fine a se stessa, ma venne sfruttata soprattutto per motivi propagandistici. Un ulteriore elemento che poteva contribuire a suscitare l’impressione di una continuità nelle relazioni italo-tedesche era rappresentato dal livello costante della produzione industriale, che sotto l’occupazione tedesca prosegui quasi indisturbata nell’Italia settentrionale: poiché il numero degli attacchi aerei da parte degli Alleati in Italia fu sensibilmente inferiore rispetto a quelli effettuati sulle zone fortemente industrializzate della Germania, dall’inizio del 1944 molti ordinativi militari furono trasferiti dalle fabbriche del Reich a quelle italiane. Poco si sa dei numerosi incontri che in campo industriale – soprattutto nel settore chimico – ebbero luogo tra le autorità preposte alle questioni economiche, i dirigenti delle aziende, i direttori di stabilimento e i rappresentanti delle forze d’occupazione; tuttavia possiamo affermare che molti italiani furono integrati in modo funzionale nel sistema d’occupazione tedesco attraverso la produzione di beni fondamentali in tempo di guerra, e, in tal modo, conobbero i tedeschi soprattutto in qualità di tecnocrati rappresentanti del sistema di controllo amministrativo delle forze d’occupazione, non certo numeroso dal punto di vista del personale e tuttavia ramificato e produttivo. La repressione nelle città A mpi strati della popolazione italiana urbana, tra cui soprattutto quegli operai che seguivano controvoglia le direttive tedesche e fasciste, percepivano tuttavia le forze d’occupazione per lo più come una minaccia in uniforme, la cui presenza suscitava soprattutto paura: il timore che le strutture industriali venissero smantellate, le maestranze trasferite o addirittura deportate nella ‘Grande Germania’ [Großdeutsches Reich] era sin troppo fondato nell’Europa occupata dai nazionalsocialisti. Una relazione del 30 luglio 1944 del commissario della Polizia di Stato di Genova spiega la «fobia» popolare antitedesca nel modo che segue: «Tali sentimenti trovano origine soprattutto nelle deportazioni di massa di persone in Germania, portate via con modi brutali e nella sistematica diuturna distruzione del porto, che rappresenta il giusto orgoglio di ogni genovese e la fonte prima di benessere, goduto prima da tutta la città. Moltissimi si lagnano di persecuzioni, soprusi, prepotenze e forse peggio, che i tedeschi in questa città commettono senza distinzione di persone o di cose... la classe operaia constata che ciò che non è distrutto dai tedeschi, è asportato in Germania». È proprio nelle città e nelle zone a maggiore concentrazione industriale che parte della popolazione fece inoltre esperienze dolorose con uno degli organi fondamentali di repressione delle forze di occupazione, cioè la polizia di sicurezza [Sicherheitspolizei] nazionalsocialista. Questa struttura fu impiegata soprattutto per tenere a bada i lavoratori, impedire le ondate di scioperi e soffocare sul nascere ogni opposizione di carattere politico, soprattutto nelle zone industriali gravitanti attorno a Genova, Torino e Milano, fondamentali per l’economia di guerra. Decine di migliaia di italiani sospettati di antifascismo o di appartenere alla Resistenza finirono nelle mani di membri dell’apparato delle SS e della polizia tedesca, il principale responsabile della deportazione di circa 24.000 oppositori politici italiani nei campi di concentramento tedeschi, e di circa 7.000 ebrei italiani nei campi di sterminio, dove furono uccisi per lo più nelle camere a gas. Anche un’alta percentuale di deportati nei campi di concentramento morì nei lager. Dopo la guerra, le loro esperienze estreme sono entrate nella memoria collettiva degli italiani grazie a famigliari, amici, vicini, compagni di lotta o di prigionia, che hanno saputo mantenerle vive. Dal punto di vista della storia delle esperienze, dunque, in Italia le terribili conseguenze della politica di occupazione nazionalsocialista lasciarono le tracce più durature, mentre in Germania le esperienze degli italiani sono state per lo più ignorate. La Commissione, quindi, considera parte integrante del proprio compito richiamare un’attenzione particolare sui crimini commessi dal regime nazionalsocialista in Italia. S Contatti con i tedeschi. Esperienze di violenza dietro il fronte e nelle città il controllo tedesco veniva esercitato dai militari e dalle SS e la popolazione associava ai tedeschi soprattutto i rappresentanti visibili di questo apparato di occupazione, gli abitanti dei paesi, delle città 25 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Documenti più piccole dell’entroterra, delle regioni alpine e appenniniche vennero in contatto con altri esponenti delle forze d’occupazione: i membri delle unità della Wehrmacht impegnate al fronte e i membri delle Waffen-SS. Una parte della popolazione italiana fu vittima di azioni violente compiute dai tedeschi durante la lotta ai partigiani o operazioni di sfollamento, più frequentemente durante la fase di ritirata. L’ aspetto più rilevante di questa spirale di violenze è costituito da stragi, uccisioni indiscriminate di popolazione civile, definite di solito genericamente ‘rappresaglie’ per una qualche azione partigiana, anche se spesso non erano una risposta a specifiche azioni di formazioni partigiane, ma operazioni di ripulitura del territorio, volte a terrorizzare la popolazione civile per impedirne qualsiasi sostegno alla lotta armata. La violenza contro i civili non si è manifestata tuttavia soltanto in occasione della lotta ai partigiani, ma anche nel corso della guerra al fronte. Assegnando un’importanza particolare a queste esperienze di violenza, la Commissione ha deciso di raccogliere in una banca dati (allegata a questa relazione) le denunce di violenza registrate dalle autorità immediatamente dopo la guerra – violenze che vanno dall’omicidio al furto di beni, bestiame, cibo. Si tratta di un complesso omogeneo di carte che consiste principalmente negli specchi riepilogativi sulle violenze, definite ‘nazifasciste’, sui civili italiani nel periodo dell’occupazione, inviati dai Comandi dei Carabinieri delle diverse province italiane prevalentemente nel periodo compreso fra la Liberazione e l’estate del 1946 allo Stato Maggiore dell’Esercito, al Ministero della Guerra, al Ministero degli Affari Esteri, e alla Procura Generale della Repubblica di Roma. Va precisato che in nessun modo le informative dei Carabinieri costituiscono un censimento completo delle violenze sui civili: i militari dell’arma si sono limitati a raccogliere denunce di privati, o ad assumere informazioni, ma spesso senza pretesa di completezza e senza verificare l’esattezza delle denunce. Così alcune delle violenze più gravi commesse nel territorio italiano (Sant’Anna di Stazzema, Monte Sole) non sono presenti in questa fonte, per motivi ancora da chiarire, e non sono state ritrovate le informative relative ad alcune province. Pur con queste limitazioni, che implicano conseguentemente una notevole sottostima del numero delle vittime in queste fonti e la necessità di verifiche su altri documenti dei singoli casi segnalati, le informative dei carabinieri rappresentano una fonte diffusa sull’intero territorio nazionale, costruita con criteri omogenei, e co- PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 stituiscono quindi un’utile base di partenza, da integrare in futuro con documentazione d’altro tipo per quel censimento completo delle violenze sui civili nell’Italia occupata che ancora manca. È, da sottolineare, ad esempio, che la precisione con la quale sono descritti gli episodi a livello sia geografico (località) sia temporale (giorno e ora), può consentire l’incrocio con altri dati, eventualmente già disponibili, sulla dislocazione delle truppe tedesche in Italia (si veda ad esempio la banca dati dell’Istituto storico germanico di Roma su “La presenza militare tedesca in Italia 1943-1945”), per arrivare anche ad una plausibile identificazione dei reparti responsabili delle violenze. P er un’analisi più dettagliata della fonte si rinvia all’allegato III a questa relazione. Qui presentiamo i primi esiti dell’analisi della banca dati. Gli episodi di violenza registrati risultano 3.888, ed hanno coinvolto 11.220 persone. Di queste, 7.322 sono state uccise. Per avere un’idea della sotto-stima di questo dato, possiamo prendere ad esempio la Toscana, la regione per la quale disponiamo dei risultati storiografici più accurati, che hanno censito 3.778 civili uccisi in episodi di violenza con almeno 2 vittime (escluse cioè le uccisioni singole): la nostra fonte registra 2.320 morti (comprese le uccisioni singole), solo il 60% circa del più preciso dato sopra indicato. Inoltre, a livello nazionale, le stime recenti più attendibili delle vittime civili (escludendo cioè i partigiani) uccise in azioni violente condotte dall’esercito tedesco, a volte con la partecipazione di truppe della RSI o collaborazionisti italiani, ammontano a circa 10.000-15.000. Le regioni in cui gli episodi di violenza denunciati sono più numerosi sono la Toscana, l’Emilia-Romagna, il Veneto, la Campania, il Lazio, le Marche, la Lombardia, l’Umbria. È evidente l’incidenza sul tasso di violenza delle operazioni belliche, in particolare di una permanenza prolungata o di un rapido passaggio del fronte durante la graduale ritirata dei tedeschi verso nord, nonché della presenza di un movimento partigiano forte e consolidato, come in Piemonte ed in Veneto. In ogni modo si può osservare come spesso gli atti di violenza collegati alle operazioni militari si unissero a quelli da mettersi in relazione alla presenza di partigiani. Su un totale di 7.322 morti (per 761 dei qual i la fonte non specifica il sesso), gli uomini uccisi sono risultati 5.849, di cui 4.081 uomini adulti fra 17 e 55 anni: non dando notizie dei più gravi massacri indiscriminati fra la popolazione, la nostra fonte – le relazioni dei Comandi dei carabinieri – sottostima particolarmente le ucci- 26 Documenti sioni di donne e bambini. La maggior parte delle vittime, anche per la stessa natura della fonte, che ha l’obbiettivo di elencare le violenze commesse a danno di civili, è rappresentata da civili (9.630), di cui 5.891 risultano uccisi. I partigiani coinvolti sono invece 761, di cui 740 uccisi. A nalizzando il totale del numero di episodi per tipologia, non stupisce che le tipologie di violenza maggiormente diffuse fossero i furti e i saccheggi, presenti praticamente in ogni provincia. Numerose furono le uccisioni senza apparente motivo, spesso di singole persone colpite durante momenti di vita quotidiana; a queste tipologie di episodi vanno aggiunti quelli avvenuti durante la ritirata dalle zone occupate. È poi da considerarsi la violenza sessuale, denunciata da 103 donne, concentrate soprattutto in Toscana e Campania, per la quale è lecito supporre che la fonte sottostimi, più che per altre tipologie di episodi, la reale portata del fenomeno. Troviamo quindi violenze commesse perché le vittime erano accusate di essere partigiani o di dare loro sostegno, categoria in cui vengono compresi anche massacri di interi paesi, come Vallucciole, in provincia di Arezzo. Anche le azioni definite come rappresaglia nelle fonti italiane e quelle avvenute durante o in seguito alle cosiddette azioni di rastrellamento sono numerose e vengono compiute praticamente in tutte le regioni, pur se tendono ad addensarsi in quelle a più intensa presenza partigiana. Sulla base della data di ogni episodio, è stato possibile raggrupparli individuando alcune fasi della violenza. Rimandando all’allegato III per una descrizione analitica delle varie fasi, ci si limita a sottolineare come già nella prima fase della guerra, fino alla liberazione di Napoli e all’attestarsi del fronte sulla Linea Gustav, la condotta delle truppe tedesche sia stata particolarmente violenta nei confronti della popolazione civile. Responsabile di molti atti di violenza indiscriminata si rese la Divisione “Hermann Göring”, che in seguito si sarebbe distinta in azioni contro i civili anche in altre parti d’Italia. Nel breve periodo dell’occupazione tedesca in Campania si sovrapposero occupazione militare, approntamento di fortificazioni, combattimenti, ritirata strategica e rappresaglie, rastrellamenti, deportazioni di uomini, distruzioni di abitati, furto di risorse alimentari, saccheggi, fino a giungere a massacri indiscriminati. La risposta della popolazione si concretizzò in atti di disobbedienza diffusa e opposizione alle razzie, che a volte assunsero il carattere di vere e proprie insurrezioni spontanee, come a Napoli ed Acerra. Tuttavia è indubbiamente con il giugno 1944, dopo la liberazione di Roma, che si aprì il periodo più drammatico per la popolazione civile: la ritirata tedesca, nei primi giorni affannosa e disorganizzata, l’intensificazione dell’attività partigiana, in parte causata anche dai proclami del comandante delle forze alleate in Italia Harold Alexander, i ritardi nell’approntamento della “Linea Verde” anche a causa dei sabotaggi partigiani, gli ordini draconiani emanati da Kesselring fra giugno e luglio per combattere la Resistenza, il protagonismo di formazioni tedesche altamente ideologizzate che si specializzarono in operazioni di ripulitura del territorio a carattere terroristico verso i civili, tutto ciò contribuì a fare dell’estate del 1944 e dei primi giorni di autunno il periodo di occupazione più sanguinoso per i civili, soprattutto in Italia centrale, tanto che in relazione a tale periodo la storiografia ha parlato di ‘guerra ai civili’. In questa fase anche l’attività partigiana lontano dal fronte fu repressa con durezza, in Veneto, Piemonte e Lombardia. Con l’esaurirsi ed il sostanziale fallimento dell’offensiva alleata contro la “Linea Verde” e la stabilizzazione del fronte per l’inverno, il tasso di violenza sui civili tende a ridursi. Tuttavia anche nell’autunnoinverno del 1944-’45 e nell’ultimo periodo di guerra, dal 1° aprile alla cessazione delle ostilità, si conta un numero consistente di azioni contro i civili (la regione in cui si concentra il maggior numero di violenze di questa fase cronologica è il Veneto): si tratta di episodi commessi in azioni di rastrellamento di partigiani, o di eccidi compiuti nel momento appena precedente alla ritirata, motivati, in una situazione militare di estrema confusione, dalla risposta ad attacchi partigiani alle colonne in ritirata, da frustrazione e volontà punitiva nei confronti della popolazione che impru¬dentemente aveva festeggiato la ritirata – non ancora totale – delle truppe tedesche e la fine della guerra. Le direttive per la lotta alle bande D opo l’8 settembre 1943 furono applicate all’Italia le direttive fondamentali di lotta alle formazioni partigiane emanate dall’OKW (Oberkommando der Wehrmacht), fra novembre e dicembre del 1942 nell’ambito della guerra condotta nei paesi dell’Europa Orientale, mantenendole anche quando per altri teatri di guerra erano state sostituite da ordini meno radicali. Nei primi mesi dell’occupazione la situazione organizzativa della lotta alle formazioni partigiane era poco chiara, con vari comandi militari regionali che agivano con grande autonomia. Dal maggio 1944 in poi la guida di questa lotta fu attribuita a Kesselring, comandante in capo 27 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Documenti militare del fronte Sud-Ovest; al di fuori della zona d’operazioni dell’esercito la responsabilità operativa spettava al comandante supremo delle SS e della polizia, Wolff, ma questi rimaneva comunque sottoposto al comandante in capo e alle sue direttive. Il 17 giugno 1944 Kesselring emanò un ordine per la lotta alle formazioni partigiane, che incitava i comandanti tedeschi ad azioni energiche e pretendeva che questi mettessero da parte ogni scrupolo di carattere umanitario. Il 1° luglio indicò, fra le misure draconiane da adottare, l’arresto di una percentuale di popolazione maschile nelle zone di presenza partigiana, la fucilazione di questi ostaggi in caso di atti di violenza, l’incendio di abitazioni e villaggi. Nuovi ordini furono emanati da Kesselring, mitigando quelli precedenti, il 21 agosto 1944, il 24 settembre 1944 e l’8 febbraio 1945. È da rilevare peraltro che la strage di Vinca, nelle Alpi Apuane, è del 2428 agosto 1944, solo tre giorni dopo il primo invito alla moderazione, e che le operazioni di Monte Sole, nel corso delle quali si compì il più grande massacro di civili nell’Europa Occidentale occupata dai tedeschi, con 770 vittime, in maggior parte bambini, donne e anziani, ebbero inizio pochi giorni dopo il secondo degli ordini suddetti. Non sembra insomma che gli inviti alla moderazione avessero un potere vincolante per i comandanti subordinati oppure che il comandante in capo del fronte Sud-Ovest si curasse di verificare che tali inviti fossero effettivamente messi in pratica. C on riferimento alla violenza contro civili e partigiani, la politica d’occupazione tedesca in Italia si radicalizzò nel corso dell’anno 1944, a partire soprattutto dalla tarda primavera. Le disposizioni emanate dai vertici militari giustificarono anche le misure più crudeli per mantenere la sicurezza nelle retrovie e potevano tradursi in una vera e propria ‘guerra ai civili’, soprattutto in determinate circostanze (vicinanza del fronte, territori diventati strategicamente importanti per la difesa tedesca, combattimenti, etc.). È rilevabile tuttavia una varietà di comportamenti delle unità operative in fasi diverse della guerra ed una differenziazione fra le truppe tedesche, sia nella propensione a mettere effettivamente in pratica gli ordini draconiani, sia nelle modalità con cui questi vennero applicati, quando lo furono. L’applicazione sistematica di quegli ordini venne attuata soprattutto da uomini che avevano già sperimentato sul fronte orientale l’imbarbarimento della guerra: le stragi più efferate, che portarono all’annientamento di intere comunità, furono commesse prevalentemente (anche se non esclusivamente) da reparti PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 caratterizzati da un forte coinvolgimento nell’ideologia nazionalsocialista quali la XVI Panzergrenadierdivision della Waffen-SS “ReichsführerSS”, e la “Hermann Göring”, che durante la campagna d’Italia andò radicalizzando l’utilizzazione della violenza nei confronti dei civili. Gli occupanti tedeschi poterono inoltre fare spesso ricorso a un numero consistente di fascisti italiani pronti a combattere al loro fianco: si trattava in gran parte di unità di partito o di milizie mobili che fiancheggiavano le unità di combattimento tedesche nelle azioni sempre più sanguinose della cosiddetta ‘lotta alle bande’. La banca dati raccolta dalla Commissione registra 233 atti di violenza compiuti insieme dagli occupanti tedeschi e dai fascisti italiani, nei quali persero la vita 750 persone. Altri 189 atti di violenza furono compiuti da unità segnalate genericamente come composte da ‘nazifascisti’, un’espressione che probabilmente indica una partecipazione di entrambi i gruppi. Altri 595 casi di atti violenti sono stati perpetrati solo da fascisti italiani, e hanno portato alla morte di 693 persone. A volte, come a Vinca, reparti delle Brigate Nere e uomini della Guardia Nazionale Repubblicana parteciparono direttamente al massacro di donne, bambini e anziani; altre volte si limitarono ad una finzione di supporto logistico, ad esempio, contribuendo a chiudere il cerchio attorno alla zona da rastrellare. In alcuni casi si trattava anche di reparti con personale italiano, ma sotto comando tedesco, come le unità di “SS italiane” o i “battaglioni volontari di polizia”. La memoria dell’orrore dei massacri L e descrizioni di sopravvissuti o testimoni di stragi sono impregnate dell’orrore di quanto avvenuto: il sacerdote don Giuseppe Vangelisti si recò a Sant’Anna di Stazzema, in provincia di Lucca, il giorno dopo la strage, commessa il 12 agosto 1944 dal II battaglione del SS-Panzergrenadierregiment 35 della XVI Panzergrenadierdivision della Waffen-SS “Reichsführer-SS”, e ci ha lasciato una descrizione terrificante di quello che vide: «La scena che maggiormente dava sgomento era quella della piazza della chiesa: una, massa di cadaveri al centro, con la carne quasi ancora friggente; da una parte il corpo di un bimbo sui tre anni, tutto enfiato e screpolato dal fuoco, con le braccia irrigidite e sollevate come per chiedere aiuto, ed, intorno lo scenario delle case che mandavano ancora nell’aria bagliori e scoppiettii, la chiesa con la porta spalancata, lasciava vedere un grande braciere 28 Documenti al di dentro, fatto con le panche e i mobili, e nell’aria il solito fetore di carne arrostita che levava quasi il respiro e che si espandeva a tutta la vallata. La sepoltura di queste salme fu fatta il giorno 14 e vi presero parte una trentina di volontari venuti dalla Culla. Fu un lavoro abbastanza difficile e rischioso, specialmente per i grandi nuvoli di mo¬sche, le cui punture avrebbero potuto causare infezioni mortali. Non avevamo maschere, non avevamo disinfettanti. Avevamo solo una piccola bottiglia di alcool e un po’ di cotone per tamponarci il naso. Anche qui un episodio che ci commosse tutti: fra quei cadaveri c’era una famiglia numerosa, quella di Antonio Tucci, un ufficiale di marina oriundo di Foligno, ma di stanza a Spezia, che con vari sfollamenti si era ritrovato quassù. La sua famiglia era composta da 8 figli (con età da pochi mesi fino a 15 anni) e la moglie. Mentre si stava apprestando la fossa, ecco arrivare il Tucci correndo e gridando come un forsennato, per buttarsi tra quel groviglio di cadaveri: “Anch’io con loro!” urlava. Bisognò immobilizzarlo finché non si fu calmato. Rimase per qualche giorno come semipazzo». U n altro religioso, Padre Lino delle Piane, del convento francescano di Soliera, ci racconta lo spettacolo delle vittime civili di una rappresaglia a Bardine di San Terenzo, in provincia di Massa-Carrara: «Appena passato il ponte del Bardine potemmo vedere i rastrellati uccisi lungo la strada. Sotto il Cimitero, vidi i primi due degli impiccati. Il fetore [...] era terribile. Più avanzavo peggio era: più forte il fetore più fitti gli impiccati. Abbordai la curva che conduce al fiume e mi vidi a pochi metri da un camion bruciato che mi sbarrava la strada. Ai parafanghi di esso come quattro fanali, legati con un filo di ferro (come del resto tutti gli altri cadaveri) erano sospesi quattro uccisi». A Cerpiano, una delle località di Monte Sole, vicino a Bologna, il 29 settembre 1944 gli uomini di Walter Reder del Reparto blindato di ricognizione [Panzeraufklärungsabteilung] 16 avevano rinchiuso decine di persone nell’oratorio: una sopravvissuta al massacro ricorda che le porte si aprirono, e sulle soglie comparvero soldati con bombe a mano: «Allora gridai: gente, dite l’atto di dolore perché ci ammazzano tutti! Non avevo ancora finito di pronunciare queste parole che cominciarono a buttar dentro bombe da ambo le porte e dalla finestra [...] Lo schianto delle bombe, le ferite riportate, gli urli disperati delle vittime mi avevano fatto perdere i sensi; quando rinvenni mi resi conto della catastrofe. I superstiti si chiamavano a vicenda, ognuno chiamava i suoi cari molti dei quali non rispondevano più perché morti». Circa 20 persone sopravvissero a quel primo lancio di bombe. Più di 24 ore durò l’agonia dei superstiti: nel pomeriggio del giorno successivo i tedeschi rientrarono nell’oratorio e annunciarono che dopo venti minuti sarebbero tutti morti. Quindi si sentirono i fucili che venivano ricaricati e cominciò una breve sparatoria, dopo la quale i soldati passarono a depredare i morti degli oggetti di un qualche valore. Nel 2002 Albert Meier, all’epoca dei fatti milite della Waffen- SS, responsabile degli uomini che agirono a Cerpiano, incriminato dalla Procura militare della Spezia nell’ambito dell’ultima mandata di indagini, rilasciò sul letto di morte un’intervista ad una televisione tedesca nella quale ribadì che a Monte Sole si erano limitati ad eliminare dei «sinistri bacilli», cioè di sinistra, che attaccavano a tradimento i soldati tedeschi. I membri delle comunità investite dalla violenza indiscriminata ritenevano che la strage fosse inspiegabile, una sorta di catastrofe naturale, unica e incommensurabile, e tale la avvertono ancora oggi coloro che ne serbano la memoria. I soldati tedeschi sono per lo più considerati, nella memoria dei superstiti, ‘belve’, la cui ‘ferocia’ è un dato antropologico: in tal modo, in passato essi sono stati paradossalmente posti sullo sfondo del proscenio dai racconti dei superstiti, anche per la mancanza di una giustizia che li chiamasse a rendere conto di simili episodi criminosi, mentre la prima fila è stata occupata da altri soggetti, soprattutto dai partigiani. Spesso la memoria dei sopravvissuti si è divisa fra coloro che incolpavano i partigiani di avere provocato, con il loro comportamento irresponsabile, la strage e chi, difendendoli, accusava i portatori di quelle accuse di svalutare il ruolo della Resistenza e dell’antifascismo, alle cui file venivano senz’altro attribuite, senza distinzioni, tutte le vittime civili delle stragi. I l meccanismo che ha attivato a livello locale tali memorie antipartigiane dei sopravvissuti è stato quello di elaborare il lutto dopo il massacro, facendosene una ragione, nello sforzo di comprendere le cause di quanto successo. Coloro che avevano vissuto quei tragici momenti in comunità isolate non erano in grado di ricercarle nella strategia militare o nella guerra condotta da tedeschi che si poteva trasformare in una ‘guerra ai civili’. Era probabile che venisse individuato un capro espiatorio a livello locale, che tutti conoscessero e potesse perciò essere indicato alla comunità come responsabile, se non altro morale, di quanto successo. Questo meccanismo ha consentito di trovare una ‘causa’ semplice della violen- 29 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Documenti za subita, immediatamente percepibile dalla gente comune, costruendo in altre parole un ‘discorso’ sulla strage che le facesse acquisire ‘senso’ per chi l’aveva subita. Il capro espiatorio venne spesso individuato nei partigiani. ‘M emorie divise’ sono state rintracciate dagli storici a Civitella Val di Chiana come a Guardistallo, a Sant’Anna di Stazzema come a Niccioleta, a Bardine di San Terenzo e Vinca come a Monte Sole, per non parlare delle stragi dell’ultima ora, come quelle di Pedescala, in provincia di Vicenza, e Stramentizzo e Molina di Fiemme, nel Trentino. Queste memorie non si sono configurate ovunque nello stesso modo, sono state più o meno virulente nell’addebitare ai partigiani la responsabilità morale dei vari episodi, più o meno attutite dal tempo passato, e sulla loro conformazione attuale hanno inf luito vari fattori: il comportamento dei partigiani prima e dopo la strage, l’andamento della lotta politica locale, la presenza o meno e la varia efficacia di strategie di ricomposizione da parte delle istituzioni statali (Comuni, Province e Regioni). Tuttavia la loro presenza è un dato di fatto, da prendere in considerazione e da interpretare storiograficamente. Contatti violenti tra occupanti e occupati I l contatto con le unità combattenti tedesche non si limitò solo a conf litti risoltesi con tragiche uccisioni: gli abitanti di numerosi paesi degli Appennini emiliani, infatti, furono vittime di rastrellamenti a opera di unità della Wehrmacht, in seguito ai quali vennero trasferiti in campi di raccolta e deportati come manodopera per lavorare al consolidamento del fronte o in Germania. Anche le loro esperienze dolorose sono state dimenticate sia in Italia che in Germania dopo la guerra. È evidente che questi incontri con gli aguzzini tedeschi avevano luogo in un clima di paura e intimidazione, non di rado legato all’incomprensione linguistica e culturale. Per gli italiani, i soldati d’occupazione rimasero così per lo più una massa senza nome di uomini in uniforme e armati, ricordati come ‘i tedeschi’; ciò non esclude che qualche italiano si ricordasse di aver incontrato un soldato tedesco corretto e gentile, rimasto impresso nella memoria come ‘Hans’ o ‘Franz’. Impressi nella memoria della popolazione civile sono rimasti inoltre non solo gli omicidi, le stragi e le deportazioni, ma anche i saccheggi, i furti, gli stupri, la distruzione di case. Di questi delitti si trova notizia non solo nelle denunPATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 ce presentate dagli italiani ai carabinieri, ma qualche volta anche in altri documenti. Il 20 maggio 1944, un funzionario della prefettura di Ascoli Piceno annotò in termini drastici: «Qui a Villa è pieno di tedeschi e slovacchi che stanno a rovinare tutto e tutti, a chi rubano una cosa, a chi un’altra e poi vogliono mangiare e dobbiamo levarlo dalla bocca nostra e dei nostri figli per darlo a loro altrimenti è peggio...». E in una lettera censurata spedita dalla zona di Mantova nel settembre 1944 si scrive: «Sapesti mia cara Gina in quale situazione mi trovo! Paure e sempre paure, più di una volta al giorno si subisce bombardamenti mentre ti scrivo i così detti liberatori stanno martoriando la mia città... siamo in una pena mortale i tedeschi nel fare la ritirata vanno nelle case e fanno man bassa di ogni cosa che trovano, vestiti, biancheria, materassi, oro, mobilio e via di seguito. Lasciano le case nude...». U na conferma di tali comportamenti si trova anche nelle fonti tedesche del periodo post-bellico: i soldati tedeschi riferiscono nei loro ricordi di «allievi ufficiali sadici» o di sottufficiali che «ancora una volta [si comportano] come pazzi con gli italiani». In relazione ad abusi di carattere sessuale commessi da soldati tedeschi, per esempio, si giunse ripetutamente ad azioni violente e omicide, soprattutto quando i familiari o i vicini intervenivano per impedire lo stupro. In un rapporto della Prefettura di Firenze risalente al maggio 1944 si riassume in modo laconico: «Numerose le notizie di violenze a danno di giovani donne da parte delle truppe germaniche che bussano di notte in case dove sanno esserci ragazze; asportazioni di ogni genere». Un caso di tentato stupro particolarmente grave a causa delle sue conseguenze accadde a Bellona in Campania: qui furono giustiziate 54 persone perché la popolazione aveva cercato di opporre resistenza a questo sopruso. I violentatori erano prevalentemente soldati semplici e sottufficiali. In alcuni casi intervenivano gli ufficiali, ma fonti italiane dimostrano che nel caso di proteste e denunce delle vittime e dei loro familiari gli ufficiali difesero ripetutamente i propri soldati. Spesso, la popolazione vessata era così alla mercé dei soldati, soprattutto delle truppe al fronte: piccoli gruppi di combattenti si sottraevano facilmente al controllo dei superiori ed abusavano a propria discrezione della popolazione, seminando il panico, facendo irruzione nelle case alla ricerca di cibo, alcool o altro bottino, assalendo singole fattorie o piccoli paesi. Casi di soldati ubriachi che minacciavano o maltrattavano i civili si trovano spesso nelle denunce fatte ai 30 Documenti Carabinieri, ma sono attestati anche nei rapporti dei prefetti e dei questori della RSI analizzati dalla Commissione. Sebbene la polizia segreta militare tedesca [Geheime Feldpolizei] e la gendarmeria [Feldgendarmerie] avessero il dovere di intervenire in caso di soprusi, il loro numero limitato consentiva loro di occuparsi al massimo di casi isolati. Le forze di polizia italiane non erano quasi presenti, dato che – come quasi tutto l’apparato amministrativo della RSI – fuggivano verso nord con l’avvicinarsi del fronte. La Resistenza D i fronte a una violenza nazionalsocialista di tali dimensioni, non sorprende che anche in Italia, come in tutti gli Stati europei occupati dai tedeschi, minoranze politicamente impegnate abbiano intrapreso la strada delle resistenza armata, che elementi militari alla macchia avevano incominciato a battere subito dopo l’armistizio. Più ampio inoltre fu il numero di coloro che reagirono all’occupazione tedesca con azioni propagandistiche o politiche, ostruzionismo, sabotaggi, rifiuto di collaborare con le forze di occupazione. Dopo la guerra, le esperienze e la percezione della resistenza armata e dello scontro con le forze di occupazione naziste e il fascismo di Salò si trasferirono nel discorso pubblico in modo molto più profondo di tutte le altre forme di contatto avute con gli occupanti, anche per l’elevato significato politico che la Resistenza ebbe per la legittimazione della democrazia italiana postbellica, con l’effetto collaterale, fra l’altro, di sottolinearne quasi esclusivamente i caratteri di lotta di liberazione nazionale, a scapito di quelli di guerra civile e di lotta di classe. Nell’opinione pubblica tedesca, invece, a questa resistenza, ammesso che venisse percepita, venne per lo più negato ogni valore politico e morale. Questo portò a deficit percettivi reciproci che hanno a lungo ostacolato una realistica valutazione storica della Resistenza. La strategia del terrore adottata da alcune unità tedesche ha spesso avuto successo nel far sì che chiunque propugnasse una qualche forma di solidarietà civile, o di resistenza, con o senza armi che fosse, rappresentasse un potenziale ‘problema’ per i propri vicini, sfiancati da anni di guerra. I rapporti fra i partigiani e le popolazioni erano effettivamente delicati, alla ricerca di un equilibrio tra la determinazione dei primi nel portare avanti la lotta armata e quella delle seconde di perseguire la propria sicurezza. La Resistenza non fu né onnipre- sente, né venne continuamente sostenuta dalla popolazione civile; con essa il potenziale di conf litto era infatti elevato e poteva esplodere nel tentativo di accaparrarsi le scarse risorse di cibo o a causa del pericolo di eventuali rappresaglie naziste o fasciste per la presenza e le attività dei partigiani. Un compromesso fra partigiani e popolazione fu comunque raggiunto, dato che è indubbiamente vero quanto hanno sempre ripetuto i reduci della lotta armata, cioè che essa, senza l’appoggio (o la neutralità) della popolazione, sarebbe stata impossibile; tale equilibrio fu però raggiunto a fatica e non fu mai esente da una precarietà di fondo. I noltre i confini fra movimento partigiano e sostenitori indecisi della Repubblica di Salò furono a lungo permeabili e permisero scambi in entrambe le direzioni. Le amnistie fasciste dell’anno 1944 cercarono volutamente di incrinare il fronte della Resistenza e di ricondurre una parte dei giovani che avevano raggiunto i partigiani alla RSI. Anche se i programmi di amnistia ebbero senz’altro un successo almeno parziale, non se ne può tuttavia dedurre alcun reale consenso per la RSI e gli stessi fascisti della Repubblica di Salò erano perfettamente consapevoli dell’atteggiamento ostile o indifferente al fascismo che regnava in molti settori della popolazione. Non solo i rapporti giornalieri dei questori segnalavano attentamente tutte le attività antifasciste, ma in vari luoghi le autorità annotavano anche un atteggiamento di indifferenza, come riporta il seguente rapporto del 17 giugno 1944 dalla Toscana: «Indifferentismo, attendismo, antifascismo d’ogni risma, disfattismo di ogni colore signoreggiano perché trovano debole contrasto nella opinione pubblica; tale e tanta è la stanchezza di questa guerra. Stampa, radio, manifesti, sembra predichino nel deserto. Solo gli argomenti che si riferiscono al sollecito termine della guerra interessano la massa del popolo [...] Le più assurde dicerie antigermaniche circolano e si moltiplicano senza tregua». L’attività di vera e propria resistenza politica, coordinata in maniera crescente dai CLN che agivano in clandestinità nell’Italia occupata, consisteva nella distribuzione di volantini e manifesti, nella diffusione di stampa illegale, ma anche nell’ostruzionismo amministrativo e in decine di migliaia di atti di sabotaggio di ogni genere. La sua forza divenne particolarmente visibile nella più grande sfida mai lanciata alle pretese di controllo delle forze di occupazione, ovvero lo sciopero generale nelle città industriali del Nord nella prima settimana di marzo del 1944. Gli scioperi, ai quali presero parte per lo meno 350.000 lavoratori, 31 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Documenti ebbero anche uno scopo chiaramente politico, e furono percepiti come una ribellione degli operai delle fabbriche contro le forze di occupazione tedesche e i loro alleati fascisti. Si trattò dello sciopero di gran lunga più consistente che si fosse mai verificato in un Paese europeo occupato dal regime nazionalsocialista. L a ricerca storica ha dimostrato quale significato abbia avuto questo sciopero generale per le forze di occupazione. Al contrario, è ancora poco noto quale impressione esso abbia lasciato su quella parte della popolazione civile che non era legata in qualche modo agli scioperanti. Quello che emerge indiscutibilmente da numerose fonti coeve è la paura dei civili italiani di essere arrestati e deportati come manodopera in Germania. A causa di questo costante stato di paura, la popolazione provò affannosamente ad impedire qualsiasi evento che potesse incrinare il dominio delle forze d’occupazione o intensificarne le misure repressive. Le azioni più spettacolari nelle città furono rappresentate dagli attentati organizzati dai gruppi di guerriglia antifascista (Gruppi di Azione Patriottica e Squadre di Azione Patriottica) allo scopo di dimostrare la forza della Resistenza e di mobilitare strati sempre più ampi della popolazione contro il regime d’occupazione. Tra queste azioni, la più gravida di conseguenze fu l’attentato dinamitardo contro una compagnia di polizia d’ordinanza del reggimento “Bozen” in via Rosella a Roma, mediante il quale si voleva soprattutto contrastare il dominio dei tedeschi sulla capitale italiana, dove, nell’ottobre del 1943 erano stati rastrellati più di mille ebrei destinati alla deportazione. Gli occupanti tedeschi, senza esitare, ricorsero allora a una ‘misura punitiva’ brutale: sotto il comando del tenente colonnello delle SS [Obersturmbannführer] Herbert Kappler, 335 civili e militari vennero presi come ‘ostaggi’ (nella dicitura nazionalsocialista) e uccisi alle Fosse Ardeatine. Roberto Battaglia, rif lettendo subito dopo la guerra sulle cause della mancata insurrezione a Roma e con riferimento alle esperienze vissute dai romani durante l’occupazione, riteneva si dovesse ammettere «con sincerità» che la causa «forse più importante di tutt[e]» fosse che la gran massa degli abitanti della capitale «nutriva soltanto una ansietà di pace e d’ordine, troppi dolori e troppi pericoli s’erano passati per accrescerli ancora una volta di propria volontà all’ultimo momento». Il fatto che gli attentati della Resistenza incontrassero le critiche di parte delle popolazione emerge dalle fonti coeve come anche da una discussione PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 pubblica pluridecennale proprio sulla valutazione dell’attentato di via Rasella. T uttavia l’avversione e il malumore nei confronti dei tedeschi che tenevano occupata l’Italia e venivano considerati i responsabili del perdurare della guerra e della paura perdurante, determinarono l’atteggiamento nei loro confronti di gran parte della popolazione italiana – ad eccezione, naturalmente, della minoranza di convinti fascisti attivi al loro fianco. Anche dai rapporti delle prefetture e delle autorità di polizia della RSI emerge diffusamente che la grande maggioranza della popolazione – da Littoria ad Aosta, da Terni a Cuneo, da Roma a Fiume – non aveva un orientamento neutro nei confronti delle forze di occupazione e non era disposta a fornire collaborazione dando informazioni su membri della Resistenza e sugli oppositori del regime. Peraltro non si può negare che truppe e militari tedeschi abbiano offerto motivi sufficienti a provocare tale avversione. Persino dove non vennero registrati soprusi, come nel quartier generale di Kesselring a Sant’Oreste al Soratte, c’erano «paure e angosce» e la sensazione sgradevole che i tedeschi si comportassero da «padroni». Molti italiani, pur non partecipando alla resistenza attiva, provavano ostilità nei confronti delle forze di occupazione, continuavano a sentirsi inoltre cittadini del Regno d’Italia, che si trovava in guerra con la Germania nazionalsocialista e, nel sud del paese, combatteva contro la Wehrmacht. Di conseguenza, i tedeschi furono visti da questa parte della popolazione come invasori e nemici dell’ordine legale, anche se non si erano resi personalmente colpevoli di soprusi. Il 25 aprile 1945 inasprì la visione già negativa dei nemici tedeschi. Il movimento di resistenza liberò molte fra le principali città dell’Italia settentrionale dagli occupanti. Nonostante la ritirata tedesca fosse stata provocata dalle truppe alleate in avanzata, l’impressione che si diffuse fu che almeno una parte dell’Italia si fosse liberata con le proprie forze. Soldati tedeschi divennero prigionieri di guerra, mentre gli italiani erano convinti di condividere la posizione dei vincitori. Spazi d’incontro D opo la guerra le violenze tedesche all’epoca dell’occupazione hanno plasmato la memoria collettiva della maggioranza degli italiani e in parte suscitano ancora oggi nelle persone coinvolte forti reazioni emotive. Sono invece state destinate all’oblio esperienze 32 Documenti d’altro tipo, anche positive, fatte con esponenti delle forze di occupazione; a livello individuale vi furono infatti numerose esperienze positive. La ricostruzione storica di queste esperienze, alle quali la Commissione non ha potuto dedicare ricerche approfondite, potrebbe aiutare a ricostruire un quadro differenziato degli incontri fra le forze di occupazione tedesche e la popolazione italiana. Talvolta gli italiani si resero conto che l’apparato militare tedesco non era un blocco monolitico – la fama di cui godevano la Wehrmacht e le SS era infatti di diversa natura – e che non necessariamente gli attentati dei partigiani erano seguiti da rappresaglie tedesche. La popolazione certo temeva in egual modo tutti i soldati tedeschi, ma distingueva tra le unità presenti sul posto come truppe d’occupazione e i soldati in fuga dalla linea principale del fronte, che credeva di poter riconoscere facilmente dalle uniformi sudice. Inoltre la popolazione era certamente a conoscenza della complessa composizione nazionale della Wehrmacht, come testimonia il seguente estratto di una lettera dal Piemonte: «Qui caro papà se ne vedono di ogni colore... ci sono fascisti, tedeschi, russi, georgiani, bruciano case, che facce! Lo Stanco, quello che ci tagliava i capelli, è stato ucciso con una raffica di mitraglia, perché ha tentato di fuggire...». Inoltre un’immagine più differenziata dei tedeschi poteva crearsi quando si venne a sapere della presenza di disertori fra le file della Wehrmacht, il cui numero crebbe soprattutto nell’estate del 1944. Solo per la provincia di Parma si poterono rintracciare i nomi di più di 300 disertori, che in parte si mescolarono con la popolazione. Fra di loro, tuttavia, solo un numero limitato di uomini era di madrelingua tedesca; il gruppo più numeroso di disertori proveniva dall’Unione Sovietica. E si possono trovare anche resoconti da cui emerge che le guarnigioni tedesche che si trattennero più a lungo in una certa località godettero, anche dopo l’8 settembre, di simpatia da parte della popolazione, soprattutto nelle regioni lontane dal fronte. S conosciuto è il numero di rapporti d’amicizia o d’amore fra militari tedeschi e donne italiane, ma da una prima sommaria analisi delle lettere scritte dopo la fine del conf litto, aventi spesso come oggetto il ricongiungimento di coppie separate dagli avvenimenti dell’ultima fase di guerra, emerge chiaramente che le relazioni instaurate non erano state solo sporadiche. La questione dell’esistenza di figli nati da tali relazioni è ancora in gran parte da affrontare, e le lettere scritte da donne diventate madri nell’immediato dopoguerra rappre- sentano una prima fonte per analizzare questo fenomeno. Se l’elaborazione dal punto di vista della storia delle esperienze di questi molteplici incontri fra tedeschi e italiani non può certamente sovvertire l’immagine prevalentemente negativa che la popolazione italiana si fece dei soldati tedeschi, essa può tuttavia renderla più complessa e differenziata, come mostrano singoli episodi che lasciano emergere ancora più nettamente la responsabilità personale dei soldati coinvolti in atti di violenza. D’altra parte agli abitanti divenne chiaro che molti rappresentanti delle forze di occupazione non vedevano gli italiani come una massa omogenea, e che, ad esempio, a quella parte della popolazione che veniva considerata ben disposta verso i tedeschi era riservato un trattamento più benevolo. Un fattore di notevole importanza fu che nelle fila degli Stati Maggiori ci fossero tedeschi che avevano conosciuto l’Italia prima della guerra e potevano quindi agire da mediatori. Anche se da parte tedesca la necessità di un intervento duro contro i partigiani era indiscussa, alcuni ufficiali erano però contrari all’uso del terrore indiscriminato nei confronti della popolazione civile estranea ai fatti, ritenuto insensato e controproducente. Queste differenze negli atteggiamenti degli occupanti – che gli italiani talvolta colsero, ma che non furono però in grado di interpretare – conf luirono nei racconti del dopoguerra nei quali, accanto alla massa di violenti, compare ogni tanto anche un soldato tedesco ‘buono’, spesso identificato come austriaco, alsaziano o ceco, il quale al momento decisivo avrebbe sparato in aria o lasciato libera una persona già destinata al massacro. Una memoria complessa N onostante la difficoltà di presentare dati certi, la ricerca scientifica è attualmente concorde nell’affermare che il numero di partigiani morti durante le azioni militari con le truppe tedesche e fasciste si aggira sui 30.000; circa lo stesso numero di italiani perse la vita dalla parte fascista. Si aggiungano, inoltre, circa 10.000-15.000 civili uccisi nei massacri e nelle esecuzioni di ostaggi, prevalentemente per mano di soldati tedeschi. Anche migliaia di soldati tedeschi – il loro numero preciso attende di essere stabilito – morirono nella lotta contro la Resistenza italiana. La guerra partigiana in Italia, in cui rimasero vittime fra le 70.000 e le 80.000 persone, può essere quindi considerata una delle più sanguinose dell’Europa occidentale, non da ultimo 33 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Documenti perché si sovrappose a una guerra civile interna all’Italia. Non deve quindi stupire che queste terribili esperienze siano confluite nella memoria post bellica e siano presenti ancor oggi in gran parte della società italiana, tramandate di generazione in generazione attraverso la memoria familiare, pur con notevoli differenze a seconda delle esperienze individuali e dell’orientamento politico delle persone coinvolte. Le ferite della guerra civile italiana continuano inoltre a suppurare nella memoria collettiva, proprio perché la resistenza degli italiani contro il fascismo e il nazismo fu tanto reale quanto l’alleanza fra Repubblica Sociale e regime nazionalsocialista. In Italia guerra, guerra di liberazione e guerra civile hanno aperto fossati che ancor oggi dividono la società. In Germania la complessità di questa situazione è nel migliore dei casi solo parzialmente nota, e la Commissione è perciò concorde sulla necessità che a questo tema si debba riservare un’attenzione particolare, dato che il numero delle vittime italiane di misure di persecuzione nazionalsocialista va ben oltre la cerchia dei deportati nei campi di concentramento. La sofferenza delle vittime sopravvissute ai massacri della Wehrmacht e delle SS e dei loro familiari è stata dimenticata per decenni. Solo a partire dal processo a Erich Priebke del 1996/97 ha comin- ciato a delinearsi un mutamento nell’opinione pubblica. Con le visite del Presidente Federale Johannes Rau a Marzabotto e del Ministro degli Interni Otto Schily a Sant’Anna di Stazzema, anche la politica e la diplomazia tedesche hanno ricordato queste vittime. Proprio il massacro nella zona di Marzabotto (Monte Sole), infatti, è stato spesso negato dall’opinione pubblica tedesca fino agli anni ’90; per questo la Commissione ritiene che sia giusto creare le condizioni durevoli per far sì che l’esperienza dei sopravvissuti e delle comunità dei paesi colpiti trovi in futuro adeguate possibilità di espressione. Quando, nel giugno 1961, fu stipulato l’accordo di indennizzo italo-tedesco, i crimini di guerra tedeschi in Italia non erano ancora noti nella loro interezza. Molti politici non erano ancora sufficientemente consapevoli della responsabilità tedesca in molti massacri compiuti fra la popolazione italiana. Con la coscienza di queste lacune nella percezione dei danni e del dolore arrecati agli italiani dall’occupazione nazionalsocialista, la Commissione ha dedicato attenzione anche al destino delle vittime dei massacri della Wehrmacht e delle SS. Esse, infatti, vanno annoverate fra le vittime dimenticate dei crimini nazionalsocialisti tanto quanto gli internati militari italiani e quei civili deportati dall’Italia per essere inviati ai lavori forzati nel territorio all’epoca incluso nel Reich. Le esperienze degli internati militari italiani Una categoria di vittime dimenticate? S ebbene gli internati militari italiani siano stati particolarmente colpiti dal regime nazionalsocialista e dal complesso passato di guerra italo-tedesco, dopo il 1945 il loro destino è stato completamente dimenticato. In Italia essi sono stati per lungo tempo messi in secondo piano dalla memoria della Resistenza. Nella Repubblica Federale Tedesca la leggenda della ‘Wehrmacht pulita’ portò a negare i crimini di cui essa si rese colpevole nei confronti della popolazione civile italiana e della minoranza ebraica, così come dei prigionieri dei campi di concentramento e degli internati militari italiani. Sulla storia degli internati militari sono circoPATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 late per decenni esclusivamente testimonianze autobiografiche, scritte per lo più da ex ufficiali nel contesto di accesi dibattiti politici in merito all’interpretazione delle vicende belliche e nel segno della concorrenza fra varie categorie di vittime per un riconoscimento da parte dello Stato, della legge e della società. Solo gradual-mente agli internati militari riuscì l’accesso alla memoria collettiva. L’accento posto sulla ‘Resistenza senz’armi’ prestata nei campi di prigionia costituì un ponte verso la narrazione sulla Resistenza nella fase fra il 1943 e il 1945 allora dominante. Fu soltanto a partire dagli anni ’80 che in Italia e in Germania la storiografia cominciò a occuparsi di questo problema. Nonostante il ritardo con cui la ricerca è cominciata, molti aspetti centrali di questa tematica – il disarmo e l’arre- 34 Documenti sto degli internati militari italiani, i tentativi di reclutamento nelle formazioni tedesche così come nell’esercito fascista della Repubblica Sociale Italiana e le loro condizioni di vita e di lavoro durante la prigionia tedesca – possono considerarsi oggi adeguatamente studiati. L’approccio della storia delle esperienze schiude una nuova prospettiva anche sull’ampio spettro delle condizioni di vita degli internati militari italiani, indica nuovi modelli di spiegazione oltre le narrazioni irrigidite in Italia e in Germania e contribuisce all’indagine di aspetti fino a questo momento trascurati. A ltri aspetti con cui la ricerca si è già confrontata rimangono tuttora problematici. Per fare un esempio, a causa di dati contraddittori trasmessi dalle fonti non sappiamo ancora esattamente quanti furono gli appartenenti alle forze armate italiane che, nell’autunno del 1943, vennero disarmati, imprigionati e deportati nel ‘Terzo Reich’. Queste incertezze statistiche rif lettono la situazione di confusione diffusa che regnava nel periodo successivo all’armistizio, quando decine di migliaia di soldati fuggirono per non cadere nelle mani dei tedeschi, aiutati soprattutto nell’Italia settentrionale dalla popolazione locale. Analogamente alle azioni di reclutamento che la Wehrmacht e le SS compirono nei campi di raccolta immediatamente dopo il disarmo, anche questa fuga di massa ebbe come conseguenza la diminuzione costante del numero dei militari italiani sotto custodia tedesca. La diversità delle cifre riportate deriva non da ultimo anche dalla pratica di registrazione, ben poco omogenea, adottata dall’Alto Comando della Wehrmacht (OK W). Dopo l’8 settembre 1943 deposero le armi in totale 1.007.000 membri delle forze armate italiane. Il numero di soldati italiani che, in certi casi anche per breve tempo, furono prigionieri dei tedeschi si aggira intorno ai 725.000 secondo lo Stato Maggiore dell’esercito tedesco e intorno agli 810.000 secondo le stime, più affidabili, dello storico Gerhard Schreiber. Chi non riuscì a fuggire dovette decidere se restare fedele al giuramento fatto al re o se continuare a combattere a fianco delle potenze dell’Asse. Coloro che si rifiutarono di cambiare schieramento o che non erano riusciti a fuggire – si parla di circa 600/650.000 uomini – furono deportati dalla Wehrmacht nei campi di prigionia del ‘Terzo Reich’, dei Balcani, della Grecia, della Francia, del cosiddetto Governatorato Generale e dei territori sovietici occupati. Poiché nei campi proseguiva il reclutamento di volontari per la Wehrmacht e le SS, così come per un nuovo esercito sotto la guida di Mussolini, anche il numero degli internati militari presenti nei campi dell’esercito, della Luftwaffe e della marina subì consistenti oscillazioni. Furono così 186.000 secondo Gerhard Schreiber o 197.000 secondo Claudio Sommaruga gli ufficiali e i soldati che, fino al marzo 1944, decisero di continuare la guerra al fianco di Hitler e Mussolini. Il 1° febbraio 1944, quando il numero di prigionieri nei campi raggiunse il culmine, vi si contavano secondo le stime dell’Alto Comando della Wehrmacht 24.400 ufficiali, 23.002 sottufficiali e 546.600 soldati. A questi sono da aggiungere i circa 8.500 internati militari impiegati come forza lavoro sul fronte orientale. Incerto è anche il numero dei soldati, dei sottufficiali e degli ufficiali italiani che persero la vita dopo l’8 settembre 1943, sia durante il disarmo, sia durante la prigionia tedesca. Il numero dei morti ammonta a circa 50.000, quello dei dispersi a più di 10.000. In conseguenza del brutale modo di procedere della Wehrmacht, durante le operazioni di disarmo morirono tra i 25.000 e i 26.000 soldati italiani, per lo più nell’ex Jugoslavia e in Grecia: 6.500 persero la vita in battaglia, 6.000/6.500 furono uccisi perché cercarono di opporre resistenza e più di 13.000 annegarono su navi colate a picco a causa dei bombardamenti o del sovraffollamento; a circa 5.200 ammontano i dispersi. Fino a 25.000 internati militari persero la vita nei campi di prigionia a causa delle privazioni, della malnutrizione e delle dure condizioni di lavoro; il maggior numero di morti si ebbe nei grandi centri del Reich e dei Balcani addetti alla produzione di armamenti. Sconosciuto è il destino di altri 5.000 internati militari, le cui tracce si perdono nei lager. Prigionieri di guerra, internati militari e lavoratori civili A ncor prima che l’Italia uscisse dalla guerra, a Berlino si era già deciso come procedere nei confronti dei soldati italiani in caso di armistizio separato. I vertici politico-militari del Reich avevano infatti già previsto di impiegare nell’industria tedesca degli armamenti il maggior numero possibile di soldati e sottufficiali del Regio Esercito immediatamente dopo il loro disarmo, per supplire così all’enorme mancanza di forza lavoro e poter destinare al fronte i lavoratori tedeschi. Invece, né Hitler, né l’Alto Comando della Wehrmacht presero mai in considerazione l’opzione di un 35 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Documenti reclutamento su vasta scala dei prigionieri italiani per la costituzione di un nuovo esercito fascista nella RSI. Tutti i soldati italiani caduti nelle mani dei tedeschi dopo l’8 settembre 1943 furono così definiti in un primo tempo ‘prigionieri di guerra’. Poiché con l’instaurarsi del nuovo governo fascista questi non potevano più essere trattenuti a lungo come prigionieri di guerra, cioè come prigionieri di uno stato nemico, il regime nazista, nel disprezzo delle norme del diritto internazionale, modificò il loro status. La definizione di prigionieri di guerra avrebbe infatti reso troppo evidente la posizione subalterna del nascente governo di Mussolini e avrebbe danneggiato anche il raggiungimento degli obiettivi dell’occupazione tedesca in Italia. Il 20 settembre 1943, poco prima della proclamazione del nuovo regime fascista, un’ordinanza del Führer decretò così che i soldati italiani fatti prigionieri vedessero mutare la loro denominazione in ‘internati militari’. Il concetto di ‘internati militari’ dette l’impressione che gli italiani si fossero trovati in una posizione giuridica più favorevole rispetto ai prigionieri di guerra di altre nazioni. La definizione di questo status era per Hitler particolarmente importante, sia per la politica di occupazione che nei confronti della popolazione italiana. L’obiettivo rimaneva infatti lo sfruttamento economico del paese occupato ed il reclutamento sia di forza lavoro che di soldati volontari italiani. Per gli internati militari italiani questa scelta ebbe in ogni caso conseguenze molto rilevanti: come tali, essi non avevano più diritto né alla consegna di alimenti e medicine, né alle visite di controllo delle delegazioni del Comitato Internazionale della Croce Rossa, come invece era previsto per i prigionieri di guerra. Ben presto divenne chiaro che questa decisione comportava tuttavia molti problemi, sia in relazione all’impiego degli ex soldati del Regio Esercito come forza lavoro, sia in ordine alle relazioni interne all’Asse Berlino-Salò. A causa delle cattive condizioni alimentari (le razioni di cibo dipendevano dalle prestazioni lavorative), del trattamento umiliante, dei compiti spesso assegnati senza tener conto delle competenze dei lavoratori, delle istruzioni insufficienti e della mancanza di motivazione, la produttività degli internati militari si rivelò molto inferiore alle aspettative. Inoltre la detenzione dietro il filo spinato e le pessime condizioni di lavoro mettevano quotidianamente in discussione la continuità dell’alleanza italotedesca propagandata da Hitler e Mussolini. Soprattutto nell’industria pesante o nelle miniere il numero degli ammalati divenne spaventosamente elevato. Ciò nonostante si doPATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 vette aspettare fino all’estate del 1944 prima che fossero prese delle contromisure. Solo il 20 luglio infatti Hitler emanò l’ordine di cambiare lo status degli ex soldati italiani da ‘internati militari’ a ‘lavoratori civili’, al fine di migliorarne le condizioni di vita e, di conseguenza, le prestazioni lavorative. Questo cambiamento era stato caldeggiato a lungo dal governo di Salò, dal plenipotenziario del lavoro [Generalbevollmächtigte für den Arbeitseinsazt] e Ministro degli Armamenti [Rüstungsminister] Albert Speer. Esso fu reso noto nel quadro degli ordinamenti per la ‘mobilitazione totale alla guerra’ [totaler Kriegseinsatz], l’ultima grande operazione di politica degli armamenti del ‘Terzo Reich’. Nel settembre del 1944, quindi, una parte consistente dei militari italiani internati fu sottratta alla sfera di competenza della Wehrmacht e trasferita nei cosiddetti ‘lager comunitari’ [Gemeinschaftslager] del Fronte Tedesco del Lavoro (DAF). Come tutti gli altri lavoratori civili, anche gli italiani vennero registrati alla polizia, alla previdenza sociale, alla mutua e all’anagrafe. M olti internati si opposero al passaggio dallo stato militare a quello civile: essi temevano di infatti di venire reclutati come conseguenza del loro consenso al servizio militare, di perdere il diritto al soldo o di mettere in pericolo i loro congiunti nell’Italia centrale e meridionale occupata dagli Alleati. A ciò si aggiungevano i mesi di oltraggiosi trattamenti riservati loro dai tedeschi, la fame e le pessime condizioni igieniche. Tuttavia per molti internati il cambio di stato significò in un primo tempo un miglioramento delle condizioni di vita. I controlli da parte delle guardie diminuirono e al contempo fu concesso loro di muoversi più liberamente. Poiché il pagamento avveniva ora in marchi del Reich, gli italiani potevano comprare alimenti e oggetti d’uso al mercato nero. Questi vantaggi furono tuttavia di breve durata. Tra il 1944 e il 1945 infatti la situazione degli ex internati tornò nuovamente ad aggravarsi. Dall’inizio del 1945, soprattutto nelle grandi città, le loro condizioni di vita generali e la situazione degli approvvigionamenti erano drammatiche. Disarmo e trasferimento nei lager Q uando, la sera dell’8 settembre del 1943, si diffuse la notizia della capitolazione italiana, i soldati reagirono immediatamente con gioia ed entusiasmo: essi credevano infatti che la guerra fosse finita. Secondo un rapporto del sottufficiale Giuseppe Nuvola, i superiori avevano difficoltà a mantenere la di- 36 Documenti sciplina: «Noi sottufficiali cercavamo di tranquillizzare le masse delle reclute, che erano troppo, giovani per poter capire e vedevano davanti a loro solo la fine della guerra e non i cannoni dei tedeschi puntati contro di noi a soli 30 metri di distanza». Gli ufficiali invece erano sgomenti di fronte alla proclamazione dell’armistizio e alla mancanza di direttive degli Alti Comandi dell’esercito italiano. L’aspirante ufficiale Lino Monchieri descrisse in un momento successivo l’umiliante azione di disarmo, nel corso della quale i tedeschi distribuirono volantini che recavano scritte le seguenti parole: «L’Italia è divisa in due. Voi, che siete nostri sottoposti, o accettate la nostra supremazia o subirete pesanti conseguenze per il vostro tradimento». Gli ordini vaghi e dati troppo tardi dai comandi dell’esercito italiano, le pesanti minacce dell’ex alleato e la sua superiorità militare spiegano la mancanza pressoché totale di estesi tentativi di resistenza. Molti dei soldati italiani, prestando fede alle mendaci promesse dei tedeschi, credettero che sarebbero stati trasportati inizialmente in campi di raccolta per poi essere lasciati liberi di tornare a casa. Questa speranza rivelò il suo carattere illusorio quando i prigionieri disarmati furono rinchiusi in caserme, campi sportivi e stadi di calcio che si trovavano nelle vicinanze di stazioni ferroviarie. Per molti il trasferimento sui treni merci rimase un ricordo traumatico: i vagoni merci erano sovraffollati, il cibo scarso e le condizioni igieniche precarie. I malati non ricevevano assistenza e i tentativi di fuga venivano severamente puniti. In alcuni resoconti si parla anche di morti, il numero esatto dei quali ancora dovrebbe ancora essere ricercato. Nei vagoni il morale generale divenne presto rassegnato o addirittura disperato. Molti prigionieri italiani raccontano di aver acquisito definitivamente la consapevolezza di essere stati ingannati dai tedeschi una volta arrivati al confine del Reich. Un internato militare scrive: «Durante il tragitto i finestrini del vagone erano rimasti chiusi [...] Eravamo come sardine senz’aria, non avevamo nulla da mangiare e non potevamo fare i nostri bisogni: tre moribondi e io con la febbre e la gamba dolorante per la ferita [...] Non sapevamo se fosse giorno o notte. Poi furono aperte le porte. Da un uomo che, in italiano, ci disse: “Non muovetevi o sparo”. [...] Vidi [un cartello] con la scritta ‘Monaco’. Li ci hanno fatto scendere e ci hanno dato del pane nero: una pagnotta su cui era stampata la data 1938 [sic!], non me lo dimenticherò mai». Appena arrivati nei campi di prigionia, i detenuti italiani percepirono subito l’atmosfera carica di tensione della popolazione tedesca. I senti- menti di vendetta nei confronti dei ‘traditori’ si esprimevano in rozzi insulti; addirittura i bambini gettavano pietre contro i prigionieri. G li internati appartenevano a una di quelle categorie che venivano particolarmente disprezzate dai tedeschi. Essi si trovavano in fondo alla gerarchia sociale della forza lavoro straniera, un gruppo che veniva definito in base a criteri politici, economici e razziali. Nel primo periodo la Wehrmacht, i responsabili degli armamenti così come del lavoro e le imprese trattavano gli internati militari italiani appena un poco meglio dei prigionieri di guerra sovietici e dei lavoratori provenienti dai territori occupati nell’est dell’Europa [Ostarbeiter]. Una campagna diffamatoria messa in piedi dal Ministero della Propaganda tedesco, che trovò grande risonanza tra la popolazione, stigmatizzava gli internati militari come ‘traditori’. Gli agitatori nazionalsocialisti facevano consapevolmente leva sulla data del 23 maggio 1915, ben presente nella memoria collettiva dei tedeschi: in questa data il Regno d’Italia aveva dichiarato guerra al suo alleato austro-ungarico. In tal modo, risentimenti accumulatisi nel corso di decenni vennero riattivati. Inoltre gli ordini contraddittori impartiti dalle autorità responsabili della distribuzione del lavoro, secondo le quali gli internati militari dovevano, da un lato, essere puniti e dall’altro, invece, essere integrati col massimo rendimento nel processo lavorativo, avevano conseguenze estremamente negative sulle loro condizioni di vita e di lavoro. Attraverso l’approccio proprio alla storia delle esperienze si potrebbe ugualmente differenziare la definizione degli internati come ‘schiavi’, prevalente soprattutto in Italia e tale da suggerire una analogia con la sorte dei detenuti nei campi di concentramento. “Cambio di fronte” e “Resistenza senz’armi” A i soldati in prigionia di guerra non resta normalmente nessuna scelta: in quanto appartenenti ad una potenza nemica, essi non possono che sperare in una rapida cessazione delle ostilità e nel conseguente ritorno a casa. Per quanto riguarda invece i soldati italiani, in un primo tempo disarmati e poi degradati a internati militari, le cose andarono diversamente. Questi ultimi, infatti, venivano ripetutamente posti di fronte a una scelta: continuare a combattere al fianco di Mussolini e Hitler o decidere di non cedere ai propagandistici tentativi di arruolamento anche di fronte alle minacce e restare in prigione. Chi si deci- 37 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Documenti deva per l’Asse e per la RSI non doveva necessariamente essere un fascista o un sostenitore del duce; considerazioni opportunistiche, la malnutrizione, la drammatica situazione degli alloggi, le condizioni climatiche, i maltrattamenti e il lavoro forzato potevano essere altrettanto determinanti. Molti volevano semplicemente ritornare in Italia dalle loro famiglie. Lo stesso vale per quegli ufficiali, sottufficiali e soldati che rifiutarono ogni tipo di collaborazione: anche in questo caso il rifiuto si poteva basare su una autentica convinzione politica antifascista, ma anche risultare da una generica stanchezza generata dalla guerra. Anche l’ostilità nei confronti dei tedeschi, così come il giuramento fatto al re, potevano essere motivi decisivi rifiutare una nuova collaborazione militare, specialmente fra gli alti ufficiali. Se le opzioni a disposizione degli internati militari erano, come si è visto, limitate, nondimeno il margine d’azione che essi avevano all’interno di questi limiti era considerevole e spaziava dalla resistenza attiva alla potenza detentrice tedesca e dal sabotaggio delle fabbriche di armamenti alla resistenza parziale, fino all’acquiescenza e alla collaborazione. G li storici sono comunque ampiamente d’accordo sul fatto che la stragrande maggioranza degli internati militari rifiutò di portare avanti la collaborazione militare col ‘Terzo Reich’ o con la Repubblica Sociale Italiana. Questo atteggiamento di dissenso, senz’altro coraggioso se si tiene conto delle pesanti sanzioni a cui si andava incontro, era diffuso più tra sottufficiali e soldati semplici che nei ranghi degli ufficiali. Se ci si basa sui dati raccolti da Claudio Sommaruga, 94.000 tra soldati, sottufficiali e ufficiali italiani si arruolarono nelle forze armate della RSI o si misero a disposizione della Wehrmacht, della Luftwaf fe o delle SS in qualità di ‘alleati volontari’ immediatamente dopo l’arresto; altri 103.000 presero invece questa decisione quando già si trovavano nei campi di prigionia. Mentre circa il 23% dei soldati e dei sottufficiali optò per un’ulteriore collaborazione militare nelle formazioni tedesche o italiane, tra gli ufficiali la percentuale degli ‘alleati volontari’ era assai più alta, con percentuali intorno al 46%. Molti ufficiali giustificarono il rifiuto di continuare a combattere al fianco dei tedeschi o nell’esercito di Mussolini con il giuramento fatto al re. Il rifiuto di ogni collaborazione poteva essere anche motivato dal trattamento brutale e umiliante riservato dai tedeschi agli italiani. L’ufficiale Aldo Gal descrive così la scissione interiore provata dopo una di queste PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 azioni di reclutamento: «Il 27 dicembre, ci fu la visita del Generale V., accompagnato dal sottotenente G., mio amico di sport all’Università a Padova (grande sorpresa!) e da tre ufficiali tedeschi. La propaganda di questo generale è vivace, aggressiva, e, nel suo intendere, anche commovente: si deve aderire per difender le madri, le spose e le fidanzate, oltre ai figli. [...] Le discussioni diventarono insopportabili, vivaci e continue, anche di notte». I soldati e i sottufficiali invece addussero spesso come causa del loro rifiuto una generica stanchezza generata dalla guerra. Tutte le speranze dei prigionieri italiani erano volte alla fine del conflitto e la loro disposizione nei confronti dei rappresentanti nazisti e fascisti era un misto di profonda avversione ed enorme diffidenza. Inoltre essi temevano che, una volta tornati in patria, sarebbero stati trascinati in una guerra fratricida. Sul posto di lavoro, sia da parte degli italiani che, in generale, da parte di tutti i lavoratori stranieri, solo raramente vennero organizzati tentativi di resistenza aperta: le pesanti sanzioni, la pessima situazione dei rifornimenti, la sorveglianza continua e l’indebolimento dei legami di gruppo erano tutti elementi che non favorirono certo l’azione collettiva. Un internato che dovette prestare servizio in una fabbrica di armamenti a Fürstenberg e a Lübben scrisse a questo proposito: «Un uomo privo di forze, non reagisce più. Non riesce nemmeno più a reggersi in piedi.. È come un malato..., com’è possibile reagire? Non provavamo nemmeno più rabbia». Centrale era quindi la lotta per la propria sopravvivenza. Il lager G li spazi di esperienza degli internati militari italiani si riducevano essenzialmente al lager e al posto di lavoro. L’arrivo nei campi di prigionia viene descritto da molti internati come un’esperienza traumatica: i primi giorni erano segnati da insicurezza, paura, spaesamento e molti cominciarono a rendersi conto solo allora di cosa significasse la prigionia. La descrizione delle sistemazioni precarie delle prime settimane, come esse risultano dalle fonti ufficiali, trovano conferma nelle testimonianze degli internati. In molte di queste si accenna alle baracche sovraffollate, spoglie e talvolta anche pesantemente danneggiate. Le condizioni di vita degli internati – alla cui definizione concorrono i seguenti fattori: ordinamento del lager, vitto, alloggio, condizioni igieniche, assistenza medica, abbigliamento, offerte culturali, organizzazione del tempo libero – mostravano tuttavia delle considerevoli 38 Documenti differenze. I campi per le truppe [Mannschaftsstammlager], chiamati anche Stalag, erano destinati ad accogliere i sottufficiali e i soldati, mentre gli Offizierslager erano per gli ufficiali. Nei territori del Reich e nel Governatorato Generale vi erano oltre 60 grandi Stammlager e 15 Offizierslager. Una gran parte dei soldati semplici e dei sottufficiali, dopo la registrazione delle generalità, veniva trasferita in lager separati [Teillager] sempre all’interno degli Stalag o in lager secondari [Zweiglager] di proprietà delle industrie. Gli ufficiali, invece, tra l’autunno del 1943 e la primavera del 1944 vennero spesso alloggiati nei lager del Governatorato Generale. La vita quotidiana degli internati dipendeva in primo luogo dal tipo di campo in cui si trovavano. I soldati e i sottufficiali trascorrevano solo poche ore al giorno nei lager e anche il loro tempo libero era così rigidamente regolamentato che non riuscivano quasi mai a sfruttarlo per riposarsi. Gli ufficiali invece, dal momento che fino all’inizio del 1945 non furono assegnati al lavoro, dovevano soffrire più della truppa e dei sottufficiali la monotonia e lo snervante isolamento, accompagnati dall’impossibilità di ritagliarsi uno spazio privato. Al di là degli orari stabiliti per la sveglia, l’appello, la razione di zuppa e la distribuzione della posta, gli ufficiali internati restavano abbandonati a se stessi. lonen]. Esse controllavano i detenuti ventiquattr’ore su ventiquattro: nel lager, mentre andavano al lavoro e spesso anche durante il lavoro. Molto differenti fra loro sono le descrizioni delle guardie fatte dagli internati. Se le guardie tedesche erano infatti sopportabili se non addirittura corrette quando agivano da sole, potevano mostrarsi violente se erano controllate dai colleghi o, peggio ancora, per ordine dei loro superiori: «Non tutte le guardie [...] sono cattive; la maggior parte è costretta ad esserlo per paura dei colleghi più fanatici che potrebbero controllare e fare la spia». I sorveglianti più anziani sono descritti in termini decisamente più positivi rispetto ai soldati delle giovani generazioni e le sentinelle di origine austriaca come più umane dei tedeschi del Reich. Al contrario, le guardie provenienti dall’Alto Adige pare si mostrassero in molti casi ancora più privi di scrupoli che i tedeschi. Anche quella parte del personale del campo che era composto da invalidi di guerra è descritto dagli italiani come altrettanto brutale e imprevedibile. Questi se la prendevano con la propria sorte. «Si trattava per lo più di gente violenta e incrudelita, forse perché erano tutti, in un modo o nell’altro, minorati: ad alcuni mancava un piede, ad altri un dito, ad altri ancora un braccio». O I ltre ai prigionieri di guerra e agli internati militari, i comandanti dei lager impartivano ordini anche alle guardie e ai loro ausiliari. Inoltre essi avevano il compito di valutare costantemente le prestazioni lavorative dei prigionieri, di controllare i ruolini di paga e di evitare che i detenuti venissero a contatto con la popolazione tedesca, soprattutto con le donne, al di fuori del posto di lavoro. Spesso il comportamento dei comandanti dei campi nei confronti degli italiani era determinato da esperienze personali precedenti. Erminio Canova, un uomo di fiducia italiano che lavorava a Rauenstein in Turingia, descrisse così in un momento successivo un comandante che maltrattava gli internati a causa di un’esperienza negativa avuta in precedenza: «Nella guerra del ’15-’18 egli aveva combattuto sul Piave e li fu fatto prigioniero. Nonostante fosse stato trattato umanamente, trovò che fosse una punizione dura e umiliante anche solo il fatto di avere la sensazione di non poter fare quello che avrebbe voluto. È da quel tempo che gli è rimasto l’odio per gli italiani ‘zingari’ e il desiderio di potersi finalmente rivalere». La sorveglianza e le punizioni erano di competenza delle guardie militari reclutate tra i battaglioni territoriali [Landesschützenbatail- ricordi degli internati militari nei lager si concentrano su esperienze che li hanno segnati particolarmente. Essi si focalizzano sui momenti più disumani della vita del campo, che però non rappresentavano ovunque la regola. In alcuni lager, per esempio, il personale di guardia costringeva i prigionieri radunatisi per l’appello mattutino a sottoporsi ad esercizi ginnici: una forma di addestramento militare che spesso, a causa della debole costituzione dei soldati italiani, rubava loro le ultime forze che avevano in corpo. Stando all’opinione dei detenuti, per i comandanti di alcuni campi la ginnastica, che poteva durare anche ore intere, non era solo un modo per mantenere la disciplina e aumentare le prestazioni lavorative, ma anche una pratica umiliante e punitiva. Per gli internati militari italiani tali pratiche ingiuste e oltraggiose, spesso accompagnate da insulti quali «figli di quel cane di Badoglio» o «siete ancora più porci di Badoglio», erano a volte tanto intollerabili quanto i maltrattamenti fisici. Anche le guardie avevano un margine di azione individuale non irrilevante. Alcuni soldati tedeschi esercitavano infatti un inf lusso positivo sulla situazione dei prigionieri, riuscendo per esempio a procurar loro di propria iniziativa una maggior quantità di cibo. Cosa che non era affatto esente da rischi: «Il vecchio che 39 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Documenti ci sorveglia ha pietà di noi. Mentre le guardie sono occupate con la minestra, lui ci porta scatolette di carne o verdure recuperate da qualche negozio distrutto. I gendarmi se ne accorgono e lo portano via». Il comportamento dei tedeschi mutava spesso. Soprattutto nei primi mesi, l’atteggiamento dei membri della Wehrmacht era contraddistinto da disprezzo e ripulsa: «I soldati ci scherniscono, ci offendono, ci sputano addosso, ci insultano e ci maledicono». Particolarmente spietate e violente si mostrarono le guardie tedesche dopo la liberazione di Roma da parte degli Alleati, dopo lo sbarco degli anglo-americani in Normandia e dopo l’attentato ad Hitler del 20 luglio 1944. Così descrive un testimone oculare l’atmosfera di quei giorni: «Non ho mai visto i tedeschi così torvi. Cercano sui nostri volti il minimo accenno di gioia per punirci». Se in certi campi negli ultimi mesi di guerra il nervosismo crescente dei tedeschi corrispose ad una sfrenata disposizione alla violenza nei confronti dei prigionieri, in altri i membri della Wehrmacht si mostrarono sensibilmente più umani verso gli italiani, a causa dell’approssimarsi della fine della guerra. T ra i prigionieri stessi si stabilirono relativamente presto gerarchie sociali. Ai vertici della piramide sociale del lager stavano quegli internati che lavoravano come uomini di fiducia e interpreti. Negli Stammlager e nei loro Zweiglager queste posizioni erano occupate soprattutto da sottufficiali. A seguire, vi erano coloro che lavoravano negli uffici, nelle cucine, come infermieri o operai. Spesso si formavano piccoli gruppi a carattere familiare, basati su rapporti di cameratismo o di amicizia preesistenti o sulla comune provenienza regionale. Un internato racconta di questo genere di famiglia sostitutiva: «Ogni membro, senza accorgersene, tacitamente, ha assunto la mansione per la quale era più adatto. Così c’è che tiene la casa in ordine, […] chi cucina; chi cuce e rammenda; chi fa gli scambi di roba con i compagni e i russi. È c’è il capo famiglia – nessuno l’ha eletto, ma tutti sanno chi è [...]». Forme di solidarietà e di autoaffermazione sembrano aver giocato un ruolo più significativo negli Offizierslager piuttosto che negli Stalag. Questo serviva a metter da parte molti dubbi individuali e a rafforzare il proprio atteggiamento morale. Contrariamente a quanto avveniva negli Stammlager, le attività culturali erano una parte fondamentale della vita che si svolgeva nei campi per ufficiali. L’organizzazione di conferenze, mostre e manifestazioni era assunta da quegli ufficiali che da civili erano stati attivi PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 in campo scientifico, pubblicistico e culturale. Le lezioni del professor Giuseppe Lazzati, docente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ebbero, per esempio, una particolare risonanza. In questo modo questi ufficiali riuscirono ad aiutare i propri compagni di prigionia a resistere e a rivolgere le loro speranze oltre la fine della guerra. A causa del ridotto tempo libero concesso ai lavoratori degli Stalag e degli Arbeitskommando [squadre di lavoro], la cultura non giocò, in quei lager, alcun ruolo. Tutt’al più, venivano improvvisate serate canore che, secondo quanto riportato, risvegliavano il ricordo dei tempi di pace e la nostalgia della patria. Questi momenti avevano un effetto positivo sull’animo dei prigionieri, ma anche sulla coesione degli Arbeitskommando. I l problema più grosso rimaneva in generale la situazione alimentare, che era catastrofica. Dal momento che al Comitato Internazionale della Croce Rossa era stato vietato di assistere gli internati con alimenti e medicine supplementari, questi potevano contare solo sulle scarse razioni distribuite nei lager della Wehrmacht. Capitava inoltre che i soldati e i sottufficiali fossero puniti con la cosiddetta Leistungsernährung, cioè con razioni di cibo proporzionali alla prestazione lavorativa offerta. Una misura punitiva che, originariamente usata solo con i lavoratori dell’est e i prigionieri di guerra sovietici, fu introdotta da alcune industrie anche per gli internati militari. Gli italiani erano già così indeboliti, che, a seguito di questa pratica, la loro produttività invece di aumentare diminuì considerevolmente e il numero dei malati, soprattutto tra coloro che lavoravano in miniera, nell’edilizia e nell’industria pesante, crebbe in continuazione. Tutto questo era ben noto a Hitler quando, nel 1944, ordinò di estendere questo provvedimento disciplinare a tutti gli internati poco produttivi. P roprio i morsi della fame e la malnutrizione sono descritti dagli internati militari come l’esperienza centrale della prigionia. La paura di perdere il controllo a causa dell’irrefrenabile impulso a procurarsi qualcosa di commestibile è un ricordo indelebile nella mente di molti detenuti: «Come non ricordare quelle tristi giornate in cui si andava a cercare le bucce o i resti di patate e di rape tra le immondizie e i rifiuti, o si preparavano i complotti rischiosi per rubarle dai magazzini? [...] Le gambe mi tremavano, mi vergogno di me stesso». Fatta eccezione per chi lavorava nell’agricoltura e nell’industria alimentare, quasi nessun internato riceveva la razione giornaliera ufficiale. 40 Documenti I resoconti delle esperienze degli internati militari italiani permettono di individuare fasi differenti: dall’autunno del 1943 alla primavera del 1944 gli internati percepirono le loro razioni come del tutto insufficienti; a partire dall’estate del 1944 e soprattutto dall’autunno, dopo il cambio di status da ‘internati militari’ a ‘lavoratori civili’, le quantità di cibo aumentarono fino alla fine dell’anno; la situazione alimentare si fece tuttavia nuovamente precaria dall’inizio del 1945 fino alla fine della guerra, soprattutto per quegli internati costretti a lavorare in regioni fortemente urbanizzate. Leggermente migliore si presentava la situazione negli Offizierslager. Anche l’abbigliamento, sporco e logoro, costituiva un grosso problema. Questo valeva soprattutto per quei prigionieri occupati all’aperto: «L’abbigliamento degli italiani non è adeguato alle condizioni dello Harz, tanto più che non ricevono nuovi vestiti al posto di quelli consunti. Il lavoro degli italiani nello Oberharz è già di per sé sufficientemente sconveniente a causa delle condizioni climatiche. Gli italiani non sono abituati al clima rigido di qui e soffrono particolarmente per la frequentissime precipitazioni». U n altro problema erano i frequenti bombardamenti degli alloggi dei sottufficiali e dei soldati. A causa della prossimità dei lager alle fabbriche i prigionieri si trovavano infatti nelle immediate vicinanza delle zone a rischio. Dopo i bombardamenti molti venivano costretti a rimuovere le macerie o a rendere nuovamente agibili vie di comunicazione e rotaie. Un internato descrive con queste parole la paura che accompagnava i bombardamenti: «La testa appoggiata alla terra dei fossati paraschegge, il cuore che correva all’impazzata, la bocca bruciata dalla polvere, dallo zolfo e dall’ossido di carbonio; così si aspettava, attimo dopo attimo, la bomba che sarebbe dovuta scoppiare e quasi si desiderava che scoppiasse, questo era il peggio». Gli allarmi aerei e i bombardamenti incidevano pesantemente sullo stato psichico degli internati militari italiani. Inoltre in situazioni del genere non erano garantite nemmeno le condizioni igieniche elementari e l’approvvigionamento minimo necessario alla sopravvivenza. Negli Offizierslager, che si trovavano per la maggior parte lontani dai grandi centri dell’industria bellica, il rischio di bombardamenti aerei era invece molto minore. Un’ulteriore condizione gravosa per gli internati era il funzionamento solo parziale del servizio postale tra gli internati militari e i congiunti in patria. A causa delle difficoltà di trasporto sempre maggiori, pacchi di vitale importanza arrivavano spesso a destinazione solo con grande ritardo o addirittura non arrivavano affatto. Mentre gli ufficiali provenienti dall’Italia settentrionale ricevevano ancora con una certa regolarità i pacchi di aiuti, i soldati dislocati negli Arbeitskommando ricevano solo sporadicamente aiuti da casa. Ciò valeva soprattutto per coloro che provenivano dalle regioni del Centro e del Sud Italia occupate dagli Alleati. Questa irregolarità nella distribuzione della posta si ripercosse negativamente sul morale e sulla salute dei prigionieri. Il posto di lavoro I soldati semplici e i sottufficiali erano assegnati ai lavori forzati: soprattutto in qualità di manovali, essi erano costretti a lavorare prevalentemente nell’industria degli armamenti, nell’industria pesante, nell’edilizia e in miniera. In questi settori le razioni alimentari non corrispondevano affatto al fabbisogno richiesto dal duro lavoro fisico giornaliero. Particolarmente gravosa era la loro posizione sociale nelle miniere, dove lavorava circa il 9% degli internati militari. Nel settore agricolo, in cui era occupato il 6% degli italiani, e nell’industria alimentare le condizioni di lavoro invece erano tollerabili. Resoconti di internati militari rinvenuti di recente rivelano uno spettro di condizioni di vita molto ampio e differenziato. Queste differenze non dipendevano solo dai diversi rami dell’industria in cui essi erano impiegati, ma anche dal luogo in cui vivevano, in campagna o in città, in zone agricole o urbanizzate. Contrariamente a quello che accadeva nelle grandi industrie, dov’era impiegata la maggior parte degli internati militari, le condizioni di lavoro nelle piccole aziende o nelle succursali erano sopportabili. Gli orari di lavoro sempre più lunghi peggioravano sensibilmente la qualità della vita degli internati, anche perché l’alimentazione non veniva adeguata alle crescenti esigenze fisiche dei lavoratori. La forza lavoro straniera, i prigionieri di guerra e gli internati militari, che si trovavano al livello più basso della gerarchia politico-razziale, venivano costretti ai lavori agricoli anche la domenica e nei giorni festivi. Se si tiene conto di questo, dei turni notturni e degli straordinari, si calcola che essi lavoravano più a lungo dei dipendenti aziendali tedeschi e dei lavoratori civili dell’Europa Occidentale. Il monte ore settimanale, stabilito in modo autonomo da ogni impresa, si aggirava tra le 50 e le 65 ore. Un controllo rigoroso delle prestazioni e un 41 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Documenti gran numero di prescrizioni restrittive scandivano la giornata di lavoro degli IMI, i quali divenivano vittime di maltrattamenti quando le loro prestazioni lavorative venivano considerate insufficienti. Ancor più che gli atti di violenza punitivi, i testimoni oculari documentano la paura degli imprevedibili scoppi di ira delle guardie tedesche. Temevano soprattutto la brutalità degli addetti al servizio di sicurezza aziendale [ Werksschutz], con le loro camicie gialle e la croce uncinata al braccio. Ufficialmente, i sorveglianti aziendali non avevano alcun diritto di intervenire contro i prigionieri di guerra e gli internati militari. La realtà però era del tutto diversa. Essi punivano la scarsa efficienza dei detenuti, la mancanza di puntualità, le assenze per malattia non autorizzate così come i tentativi di resistenza o sabotaggio. Molte aziende ritenevano che la violenza fosse un mezzo legittimo per incrementare il rendimento. In ogni momento le guardie potevano procedere a perquisizioni personali o al controllo dei documenti. Gli IMI vivevano spesso la punizione come un accesso di violenza irrazionale e incontrollata. In caso di scarso rendimento, essi venivano picchiati con attrezzi da lavoro, spranghe di ferro o pezzi di legno, cosa che conferma il carattere impulsivo della brutalità. Soprattutto se avevano danneggiato i macchinari gli internati dovevano aspettarsi misure draconiane. I comandanti dei campi della Wehrmacht dovevano intervenire ripetutamente, poiché in teoria solo loro erano autorizzati a prendere provvedimenti disciplinari nei confronti degli internati. Tuttavia, la maggior parte dei dirigenti dei campi sembra non aver mai dato troppo peso a questo problema. Anzi, la dura critica dei dirigenti delle fabbriche alla Wehrmacht, ritenuta responsabile di una sorveglianza troppo lassista, portò a una radicalizzazione delle norme punitive e ad un peggioramento considerevole delle condizioni di vita e di lavoro proprio di quegli internati già malnutriti e di conseguenza meno efficienti. Le aziende guadagnarono un potere di intervento sempre maggiore sugli internati militari e sui prigionieri di guerra. A partire dall’agosto del 1944 queste poterono addirittura proporre le punizioni che venivano eseguite nel lager dopo la fine del turno di lavoro. Gli spazi di esperienza del posto di lavoro e del lager si condizionavano dunque reciprocamente. Così il personale della Wehrmacht non fungeva solo da istanza punitiva in caso di violazione delle regole o di mancato rispetto della disciplina del lager, ma interveniva in misura sempre maggiore anche in caso di scarsa PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 produttività o di disobbedienza sul posto di lavoro. L’elenco delle punizioni militari, originariamente previsto per castigare chi contravveniva all’ordine del campo, si trasformò in un mezzo di cui le aziende si potevano servire per punire prestazioni insufficienti. La combinazione di una direzione d’azienda fedele alla linea e di una rigida gestione del campo poteva avere conseguenze fatali per gli internati: «Paolo, il nostro compagno di Stube, denunciato dal Meister come lavoratore di scarso rendimento, e stato convocato al comando. I tedeschi l’hanno fatto spogliare e piegare sopra uno sgabello. Quattro soldati, fin che ebbero fiato, lo hanno battuto sul dorso, sulle spalle, sulle braccia, sulle gambe, riducendolo un cencio. Paolo urlava da impietrire! Noi, muti e impotenti, chiusi nella Stube, stavamo col cuore sospeso [...]». G li ufficiali invece, che fino all’inizio del 1945 non era obbligati a prestare alcun servizio lavorativo, erano sottoposti ad un altro tipo di mortificazioni, quali l’ispezione del vestiario e dei bagagli, accompagnata da atti di violenza, e l’appello giornaliero che spesso poteva protrarsi per ore. Alcuni internati militari furono uccisi dai soldati della Wehrmacht, per esempio per aver calpestato per sbaglio la striscia d’erba vicina al recinto del campo. Questi atti violenti, del tutto in contrasto con il diritto internazionale e con l’ordinamento disciplinare vigente, provocavano sgomento tra gli internati militari. L’immagine dei tedeschi N ei loro scritti autobiografici gli internati militari tratteggiano un’immagine molto sfaccettata dei tedeschi. Da quanto emerge da queste testimonianze, l’atteggiamento dei lavoratori tedeschi nei confronti degli internati era caratterizzato inizialmente da indifferenza e distacco. Particolarmente inf lessibili erano i capisquadra, i cui maltrattamenti erano i più duri da sopportare. Ciò valeva soprattutto in quei settori dell’industria tradizionalmente gestiti da uomini, come le miniere, le costruzioni, certi settori dell’industria pesante e l’Organizzazione Todt. Il comportamento nei confronti degli italiani differiva anche a seconda dell’età. I lavoratori più anziani si dimostravano decisamente più umani dei giovani verso gli internati: «Mi ricordo di un vecchio collega di lavoro nella fabbrica dei panzer, Erich Limmeroth. Questo Erich metteva da parte del cibo per darlo a me. Forse pensava ai suoi due figli caduti in Russia». Da quanto ugualmente 42 Documenti si legge nelle testimonianze autobiografiche, un’altra differenza significativa era quella di genere: le operaie donne mostravano infatti verso gli italiani molta più empatia rispetto a quanto facessero i loro colleghi uomini. Nella memoria di molti italiani è rimasto impresso il divieto intimidatorio di avvicinarsi alle donne tedesche. Dopo l’acquisizione dello status di lavoratori civili divenne tuttavia più facile per gli italiani entrare in contatto con le tedesche. Ma poiché, da un lato, essi si trovavano al fondo della gerarchia politico-razziale e, dall’altro, erano costantemente sotto sorveglianza, questi contatti si trasformarono solo raramente in relazioni amorose. Negli schedari della Gestapo di Düsseldorf e di Würzburg che sono stati presi in visione sono infatti molto pochi rispetto agli altri detenuti i prigionieri italiani accu¬sati di ‘delitti sessuali’. G li internati militari italiani riferiscono che l’atteggiamento dei tedeschi nei loro confronti durante i primi mesi della loro prigionia era estremamente ostile e irascibile, anche al di fuori del posto di lavoro. Si sentivano accusare costantemente di aver tradito la Germania. Questa atmosfera ostile, che gli italiani percepivano soprattutto mentre si recavano al lavoro, si esprimeva con insulti e anche con percosse. Tuttavia questi accessi d’ira si ridussero col passare del tempo, anche se rimase sempre un certo risentimento di fondo. Nelle memorie degli ex internati, che concordano fra loro su questo punto, si legge di una graduale tendenza al miglioramento dei rapporti coi tedeschi, che a loro avviso era dovuto a una migliore conoscenza della lingua tedesca e a una migliore integrazione nei processi di lavoro, ma anche a una situazione bellica sempre più disperata, che portava non pochi tedeschi a rivedere le proprie opinioni: «All’inizio venivamo derisi e maltrattati, soprattutto dai capi della fabbrica; poi, quando cominciarono ad accorgersi che anche la loro situazione stava peggiorando, presero a parlare più apertamente con noi». Nel settore agricolo, i tedeschi trattarono gli internati militari italiani in modo prevalentemente umano, contravvenendo così a quanto prescritto dagli uffici del partito e della propaganda. In molte aziende agricole, ad esempio, i divieti di contatto tra italiani e tedeschi non ebbero alcun seguito; troppo importante era la funzione economica della forza lavoro straniera, soprattutto in quelle fattorie che potevano ormai essere gestite solo da donne e da uomini anziani. In un ambiente come questo, un rapporto di tipo tradizionale col personale di servizio, le affinità confessionali e una certa familiarità nelle relazioni erano di grandissima importanza. Nelle campagne inoltre i controlli della Wehrmacht e della polizia non avvenivano che sporadicamente. Gli internati militari fecero esperienze prevalentemente positive anche con quei civili e contadini che si recavano nei lager durante il fine settimana alla ricerca di forza lavoro che li aiutasse nei lavori di casa, nelle riparazioni necessarie dopo un attacco aereo o durante il raccolto. Spesso si conoscevano già come ‘colleghi’ sul posto di lavoro. Il pagamento era in natura. Questi tedeschi si comportavano in modo abbastanza umano e con cautela cominciavano ad interessarsi alle condizioni di vita degli italiani. Ciò nonostante questi episodi non devono far dimenticare le frequenti reazioni negative dei tedeschi non appena questi vedevano i loro privilegi intaccati dagli stranieri. Molti internati ricordano per esempio la rabbia degli abitanti delle grandi città tedesche quando li pregavano di poter entrare nei rifugi antiaerei o di salire sui mezzi di trasporto. Fase finale e liberazione N egli ultimi mesi di guerra le condizioni di vita dei lavoratori italiani peggiorarono nuovamente ed in modo drammatico, soprattutto nelle zone urbanizzate. In certi luoghi il sistema di rifornimento andò completamente in tilt. Soprattutto dopo un bombardamento i prigionieri si aggiravano impotenti nelle città distrutte, cercando di mantenersi in vita chiedendo l’elemosina, commerciando al mercato nero o rubando. Gli italiani impiegati nelle zone in prossimità del fronte per la costruzione di fossati anticarro sentivano spesso di essere in pericolo di vita: a volte erano costretti a scavare fossati anche di notte, in tutta fretta, sotto la continua pressione delle guardie, soffrendo per le pessime condizioni igieniche e alimentari, per le marce estenuanti ed il vestiario inadatto. A causa dei bombardamenti e della celerità con cui questi lavori dovevano essere eseguiti cresceva anche la predisposizione alla violenza del personale di guardia. A questo si aggiunse la durezza dell’inverno 1944/1945. Il numero di morti e malati era alto. Non pochi furono uccisi perché scoperti a rubare del cibo. Le centrali della Gestapo furono infatti autorizzate a far giustiziare i lavoratori stranieri sorpresi a rubare o a compiere tentativi di fuga o sabotaggio. In tal modo le autorità regionali e locali godevano di una totale libertà d’azione, senza per questo dover essere sottoposte ad alcun controllo. Anche la popolazione civile tedesca prese parte a questi eccessi di violenza, dei quali caddero vittime, 43 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Documenti poco prima della fine della guerra, migliaia di stranieri, tra cui centinaia di internati militari. A causa dell’avvicinarsi del fronte gli internati furono trasferiti sempre più verso l’interno del Reich. Dal momento che non c’erano più mezzi di trasporto a disposizione, migliaia di internati militari, prigionieri di guerra e lavoratori civili stranieri furono costretti dai membri della Wehrmacht e dai Volkssturmverbände [unità della milizia popolare] a estenuanti marce a piedi. Questi sgomberi eseguiti nel caos terrorizzavano gli internati, che non sapevano se sarebbero sopravvissuti alle marce forzate. Molte delle impressioni suscitate da quest’esperienza hanno un carattere apocalittico e si sono impresse indelebilmente nella memoria dei prigionieri: villaggi in fiamme, vecchi e deboli moribondi, cadaveri al margine della strada. Coloro che sopravvivevano raggiungevano sfiniti i sovraffollati campi di prigionia. Quando gli Alleati liberarono i campi, si diffu se tra gli internati un sentimento irrefrenabile di sollievo e di gioia. Ciò si verificò soprattutto negli Of fizierslager: le migliaia di ufficiali rinchiusi fino all’ultimo in condizioni di assoluto isolamento non avevano infatti potuto percepire i primi segnali di cedimento, che invece negli Stammlager si erano cominciati ad avvertire già prima della liberazione. Alcuni ex internati si vendicarono di quelle guardie o di quei capi dei lager che si erano distinti per un comportamento particolarmente crudele. Altri furono spinti dalla rabbia generata dalla guerra e dalle crudeltà subite a distruggere i macchinari delle fabbriche. La fase dell’immediato dopoguerra fu descritta da alcuni come un periodo di relativa ‘ricchezza’. Il cibo restava in ogni caso la preoccupazione principale. Proprio l’improvvisa disponibilità di alimenti dopo mesi di malnutrizione fu per molti italiani causa di pesanti disturbi gastrointestinali, a volte con conseguenze mortali. Rimpatrio M olti internati militari italiani riuscirono a rientrare in Italia prima della fine della guerra, dove qua e là si combattevano ancora dure battaglie tra le truppe tedesche e quelle alleate o tra i partigiani e i militari della Repubblica Sociale. I partigiani abbandonavano le loro basi sulle montagne, molti civili erano in fuga e le unità della RSI, così come le formazioni tedesche, battevano in ritirata. Tra il maggio ed il novembre del 1945, le forze di occupazioPATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 ne alleate lasciarono che gli ex internati, in modo più o meno ordinato, fossero rimpatriati. Come la liberazione dei lager, così anche l’attraversamento del confine fu accompagnato da forti emozioni. Valentino Carrara scrive: «Non riesco a descrivere le scene di quando passammo il Brennero; ho visto il modo in cui tutti scendevano dai vagoni, dai vagoni merci, tutti malridotti. Siamo scesi tutti per abbracciarci, per piangere, perché dopo anni di prigionia e di guerra eravamo rientrati in Italia». I l ritorno a casa è ricordato come un momento di gioia, di commosso ricongiungimento, di festa. Ancora oggi la maggior parte degli ex internati ricorda la data esatta del proprio ritorno. Tuttavia molti di loro incontrarono delle difficoltà nel reinserimento nella società italiana. Il panorama politico e sociale era completamente mutato. Già sulla strada verso casa i più furono invasi da un senso di spaesamento: «Nessuno s’interessava di me. Tutti leggevano giornali i cui titoli io non avevo mai sentito nominare». Le difficoltà maggiori le ebbero i reduci di orientamento monarchico-conservatore: una volta tornati in patria, infatti, essi si resero conto che i valori che li avevano aiutati durante la prigionia, come per esempio la fedeltà al re, avevano perso qualsiasi significato. Mentre la Resistenza nella società italiana del dopoguerra godeva di una considerazione pari a quella riservata due decenni prima ai soldati della prima guerra mondiale e veniva festeggiata come la forza che aveva vinto sul ‘nazifascismo’, i prigionieri che rientravano dalla Germania incarnavano invece la disfatta dell’ 8 settembre, che dagli italiani non era stata ancora del tutto superata. Il tanto agognato ritorno in patria degli ex internati militari fu dunque percepito a volte come l’arrivo in un paese straniero. Le privazioni sofferte durante la detenzione sembrarono agli ex IMI ancora più insensate alla luce del degradamento sociale che erano ora costretti a sperimentare. La collera nei confronti dei connazionali, che non di rado mostravano verso il destino degli internati solo ignoranza, è talvolta ancor oggi avvertibile. Ciò che i reduci trovavano particolarmente offensivo erano lo scetticismo e il sospetto di collaborazionismo che spesso, benché sottaciuto, serpeggiava anche in ambito privato. Nelle lunghe discussioni riguardo alla retribuzione dei soldati, il Ministero delle Finanze si avvalse di questo sospetto generico per negare loro il pagamento del soldo che gli spettava. Gli ex internati reagirono con indignazione a questa discriminazione: l’impressione di essere ritornati dalla guerra come sconfitti, mentre altri potevano presentarsi come vincitori, era 44 Documenti spesso sconfortante e la sensazione di essersi schierati dalla parte sbagliata era per loro difficile da sopportare: «Mi è venuta incontro una persona. Credevo di conoscerla. Era uno di quelli che più disprezzavamo, uno di quelli che al campo avevano firmato la dichiarazione d’adesione alla RSI [...]. Mi raccontò: un anno d’addestramento in Germania. Ritorno in Italia. Qualche mese in montagna [coi partigiani]. Ora è un eroe. Iniziai a capire che le cose non andavano come avevo sperato. Un secondo incontro. Un compagno di scuola, un fannullone. Nella vita non aveva combinato niente [...]. Si è costruito la sua fortuna facendo sempre affari con tutti. Amici. Nemici. Ha anche sostenuto i partigiani. Rimpiange che la guerra sia finita. Mi chiede che novità ci sono. Gli racconto tutto. ‘Poverino” dice la sua bocca, “povero stupido” dicono i suoi occhi. Forse ha ragione». Il trattamento riservato dalla società del dopoguerra agli ex internati spinse molti di loro a passare sotto silenzio le esperienze vissute durante la prigionia. Questa fase della loro vita divenne un tabù anche in molte famiglie. Solo verso la fine degli anni ’80, quando le interpretazioni correnti sul periodo dell’occupazione tedesca e sulla Resistenza cominciarono a diventare in Italia oggetto di dibattito, crebbe anche l’interesse per quelle vittime di guerra che fino ad allora erano state dimenticate. Prospettive L e numerose fonti sugli internati militari italiani rintracciate su incarico della Commissione aprono nuove prospettive di ricerca. Con il supporto di oltre 200.000 documenti afferenti a singole persone presso il Ministero della Difesa italiano (Commissariato Generale Onoranze Caduti di Guerra) non sarà solamente possibile ricostruire la sorte collettiva degli internati militari durante la guerra, ma anche i loro percorsi individuali nei primi due decenni dopo la fine della guerra. Insieme ai fondi d’archivio nella Deutsche Dienststelle (WASt) a Berlino e i protocolli di interrogazione nei distretti militari italiani, le fonti rinvenute di recente si prestano particolarmente a studi prosopografici e di statistica sociale. Raccomandazioni della Commissione C onformemente al mandato ricevuto la Commissione ritiene di poter presentare, oltre alla proposta di una ricostruzione del passato bellico italo-tedesco elaborata sulla base della storia delle esperienze, alcune raccomandazioni per il futuro. Essa è consapevole che tali proposte possono venire concretizzate solo se in Italia e in Germania si affermerà la volontà politica di promuovere in uno spirito europeo l’avvicinamento delle culture della memoria esistenti nei due paesi. La Commissione si appella pertanto ai Governi di entrambi i paesi affinché divengano consapevoli della necessità di una tale politica della memoria. In particolare essa si rivolge al Governo della Repubblica Federale di Germania che, in base a una dichiarazione del suo Ministro degli Affari Esteri, si è dichiarato pronto ad un gesto di generosità. Ad avviso della Commissione, i finanziamenti a tal fine necessari non possono costituire per sé un ar- gomento contrario alla realizzazione di queste raccomandazioni; gli investimenti per giungere a una migliore comprensione del passato costituiscono proprio in questo caso un investimento per il futuro europeo. L a Commissione ritiene che per mantenere viva in modo duraturo la discussione tra italiani e tedeschi sul loro comune passato di guerra sia necessaria la creazione in Germania di un luogo della memoria per gli internati militari italiani, che ricordi il loro singolare destino. La commissione raccomanda inoltre che parallelamente a ciò siano creati e sostenuti analoghi luoghi della memoria in Italia. Ciò per altro corrisponde al pressante desiderio delle Associazioni degli internati militari, che da tempo hanno richiesto alla Repubblica Federale di Germania un riconoscimento almeno simbolico delle loro sofferenze. Ad avviso della Commissione, sulla base del- 45 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 Documenti le responsabilità storiche, un luogo adeguato per tale memoriale può essere identificato in primo luogo a Berlino, dal momento che proprio qui nel 1943 i detentori del potere nel ‘Terzo Reich’ decisero il disarmo e la deportazione dei soldati italiani, i quali nei territori sottoposti al potere tedesco hanno patito sofferenze come internati militari. Secondo la Commissione il campo di lavoro coatto sito a Berlino-Niederschöneweide, i cui edifici sono rimasti in gran parte intatti, rappresenta un luogo adatto allo scopo: in esso furono detenuti infatti anche internati militari italiani. La Commissione ha potuto constatare che sul luogo esiste già un piccolo memoriale in ricordo dei lavoratori coatti italiani, il quale potrebbe venire ampliato agli internati militari. Sempre a Berlino e in parallelo a questo memoriale potrebbe essere eretto nel cortile interno dell’Ambasciata della Repubblica Italiana, il cui edificio è denso di ricordi storici, un monumento in ricordo degli internati militari. Parallelamente a ciò, la Commissione ritiene opportuno sostenere in Italia iniziative analoghe, pur nella consapevolezza che esistono alcune differenze istituzionali fra esse e il memoriale di Berlin-Schöneweide. La Commissione considera ad esempio con particolare attenzione il museo dedicato al ricordo degli internati militari, creato a Padova per iniziativa dell’Associazione Nazionale degli Ex-internati. La Commissione inoltre auspica che il Governo italiano crei a Roma un adeguato luogo della memoria per ricordare le vicende degli internati militari italiani. I l memoriale centrale per gli internati militari a Berlin-Schöneweide deve adempiere a due funzioni. Per un verso esso deve essere un luogo della memoria, nel quale – in un luogo aperto al pubblico – il destino degli internati militari venga ricordato con un monumento creato da un artista. Per altro verso questo luogo della memoria deve adempiere in modo permanente a compiti di natura scientifica e storico-didattica. Come dimostrano le richieste sempre più frequenti rivolte ad archivi e memoriali non solo dai parenti delle vittime, ma anche da studiosi, da collaboratori a progetti commemorativi a carattere regionale e da studenti delle scuole superiori e delle università, si registra soprattutto in Italia un interesse crescente della società per il numero, i nomi, i luoghi di provenienza e le esperienze degli internati militari deceduti in Germania e nei territori controllati dal ‘Terzo Reich’. La Commissione raccomanda pertanto di predisporre un libro commemorativo dei defunti, PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013 nel quale vengano gradualmente registrati tutti gli internati militari che hanno perso la vita in Germania e nei territori controllati dal regime nazionalsocialista. Tale libro commemorativo deve possibilmente essere impostato come una banca dati (con accesso on-line). In una prospettiva di lungo periodo esso potrà essere ulteriormente ampliato per divenire alfine un lessico biografico, nel quale venga registrato il più alto numero possibile degli oltre 600.000 internati militari. È auspicabile che l’inventario delle più importanti fonti d’archivio relative al destino degli internati militari predisposto dalla Commissione possa servire da ausilio per queste ricerche a lungo termine di carattere biografico. La Commissione raccomanda espressamente l’utilizzo del materiale d’archivio da essa rinvenuto. A questo riguardo ritiene di particolare importanza i circa 240.000 fascicoli, attualmente raccolti a Roma presso l’Archivio del Ministero dell’Economia, che conserva le domande che furono presentate dopo l’accordo tra i due paesi del 1961 da coloro che intendevano richiedere il loro riconoscimento come internati militari, detenuti o forzati. I n secondo luogo si deve allestire in questo memoriale centrale un archivio fotograf ico, che documenti i luoghi, o almeno quelli di maggiore importanza, nei quali gli internati militari prestarono lavoro coatto. Al fine di dare un volto agli internati militari è necessario ricercare soprattutto fotografie risalenti al tempo di guerra, attraverso le quali divenga possibile identificarli. In terzo luogo nel memoriale centrale deve essere allestita una mostra permanente sulla storia degli internati militari, che possa offrire un quadro delle loro condizioni di vita e di lavoro. Tale mostra può essere integrata da altre mostre temporanee e da altre iniziative dirette a documentare singoli aspetti delle esperienze collettive degli internati militari e di altri lavoratori coatti italiani. In quarto luogo il memoriale centrale deve infine predisporre un servizio d’ informazione centralizzato per tutte le questioni riguardanti gli internati militari. In questo modo è inoltre possibile promuovere la collaborazione con le associazioni dei reduci della prigionia esistenti in Italia, senza le quali, d’altronde, tale memoriale centrale non potrebbe in alcun modo venir realizzato. Per promuovere in modo sistematico la ricerca scientifica sul rapporto tra italiani e tedeschi durante la seconda guerra mondiale e per assicurare in modo duraturo la diffusione didattica delle conoscenze scientifiche scaturite dal 46 Documenti lavoro di ricerca nelle opinioni pubbliche dei due paesi, la Commissione propone di istituire una Fondazione italo-tedesca di storia contemporanea, alla quale dovrebbero partecipare non soltanto alcune istituzioni dei due paesi, ma anche imprese e organizzazioni, che hanno a suo tempo impiegato gli internati militari in Germania. Essa dovrebbe poter disporre o di un capitale proprio o ricevere un finanziamento statale duraturo. Con il supporto di tale Fondazione possono essere promossi vari progetti scientifici e di didattica della storia, la cui selezione verrà decisa e valutata da un comitato scientifico italo-tedesco. A d avviso della Commissione, tale Fondazione italo-tedesca di storia contemporanea potrebbe promuovere i seguenti progetti: - Per dare ulteriore impulso alla ricerca sulla seconda guerra mondiale dalla prospettiva della storia delle esperienze risulta in primo luogo necessario ampliare in modo sistematico la base documentaria. Ciò riguarda sia i soldati tedeschi che si trovarono in Italia durante la seconda guerra mondiale, sia la popolazione civile italiana che ha vissuto il periodo dell’occupazione tedesca. In una seconda fase questo materiale autobiografico deve essere adeguatamente inserito e valutato all’interno del più vasto contesto storico e collegato al patrimonio di documenti conservato dalle diverse istituzioni pubbliche dei due paesi. La Commissione raccomanda di duplicare il materiale così raccolto e di renderlo disponibile al pubblico in entrambi i paesi; ciò richiede accordi a lungo termine tra la Fondazione e le competenti istituzioni italiane e tedesche, al fine di rendere disponibile in modo duraturo tale materiale. - Una particolare lacuna per il lavoro della Commissione è stata la mancanza di una rappresentazione complessiva degli eventi bellici in Italia tra il 1943 e il 1945. La Commissione ritiene pertanto urgente avviare un tale grande progetto, collocandone al centro il rapporto sempre carico di tensioni tra la storia complessiva degli eventi bellici e la storia delle singole esperienze individuali. - In stretta connessione con questo progetto appare necessario valorizzare in modo sistematico la banca dati predisposta dalla Commissione sugli atti di violenza compiuti in Italia dalle forze armate tedesche, al fine di svilupparla e di completarla predisponendo una Atlante della violenza, nel quale si potrà illustrare quali dimensioni abbia assunto in Italia la politica della violenza perseguita dal nazionalsocialismo e quali unità militari vi furono coinvolte più di altre. - Oltre a questi progetti di ricerca a lungo termine la Fondazione, ad avviso della Commissione, può inoltre promuovere una adeguata traduzione, a livello di didattica della storia, delle nuove conoscenze storiche acquisite in un ambito italo-tedesco. La Commissione stessa ha già discusso il progetto di una mostra itinerante sulla storia italo-tedesca durante il periodo dell’Asse Roma-Berlino, che potrebbe circolare in Italia attraverso i Goethe-Institute e in Germania attraverso gli Istituti Italiani di Cultura. - A parere della Commissione sono inoltre di particolare importanza l’assegnazione di borse di studio e l’organizzazione permanente di Summer School dedicate alla storia contemporanea italo-tedesca. Esse possono indurre studenti italiani e tedeschi a occuparsi sempre più adeguatamente della storia contemporanea dell’altro paese, così da contrastare in modo efficace il sempre più forte disinteresse verso la storia transnazionale in atto nei due paesi. - A fronte del regresso della conoscenza della lingua dell’altro paese risulta inoltre molto utile anche l’istituzione di un apposito fondo per le traduzioni, attraverso il quale potrebbe essere sostenuta la reciproca traduzione di pubblicazioni scientifiche dedicate alla storia contemporanea italo-tedesca. - In collaborazione con la Arbeitsgemeinschaft fiir die neueste Geschichte Italiens in Germania e con la Società Italiana per la Storia Contemporanea dell’Area di Lingua Tedesca in Italia, la Fondazione italo-tedesca di storia contemporanea potrebbe istituire un comune forum storico, nel quale gli storici contemporanei di entrambi i Paesi potrebbero comunicare regolarmente tra loro. Questo forum storico potrebbe analizzare quei problemi che tornano ad emergere nel discorso politico e che possono trovare una adeguata spiegazione solo attraverso un approfondito rapporto con la storia. A d avviso della Commissione l’insieme coordinato delle proposte qui avanzate rappresenta lo strumento migliore per il superamento di stereotipi consolidati in Italia e in Germania e per l’elaborazione delle incomprensioni e dei traumi provocati dalla guerra, dall’occupazione e dalle deportazioni. Italiani e tedeschi potrebbero così aprirsi a nuovi orizzonti di collaborazione nello spirito delle convinzioni europee, che i Ministri degli Esteri di entrambi i paesi hanno ricordato al momento di istituire la Commissione. 47 PATRIA INDIPENDENTE GENNAIO 2013