category management

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UNIVERSITÀ POLITECNICA DELLE MARCHE
FACOLTÀ DI ECONOMIA “GIORGIO FUÀ”
_______________________________________________________________
Dottorato in Economia aziendale
CATEGORY MANAGEMENT:
IL VALORE DELLA RELAZIONE NELLA
SUPPLY CHAIN
Relatore: Chiar.mo
Tesi di Dottorato di:
Prof. Gian Luca Gregori
Eleonora Fiori
Scuola di Dottorato
X ciclo
INDICE
Introduzione ..................................................................................................................................... 1
CAPITOLO I DAL MARKETING MIX AL RELATIONSHIP MARKETING ............................................. 7
I.1.
La Traditional Marketing Theory ........................................................................................ 7
I.2.
Gli elementi di crisi della Traditional Marketing Theory ................................................... 10
I.2.1.
Il cambiamento delle dinamiche competitive ......................................................... 11
I.2.2.
La rigidità del marketing mix ................................................................................... 14
I.2.3.
La visione limitata del marketing tradizionale ........................................................ 18
I.2.4.
La stagnazione del marketing come area di studio ................................................. 21
I.3.
Lo sviluppo del Relationship Marketing ............................................................................ 25
I.4.
Il valore aggiunto della relazione ..................................................................................... 32
I.4.1.
Meeting customer requirements ............................................................................ 33
I.4.2.
Trust and belonging ................................................................................................ 39
I.4.2.1.
I.4.3.
L’approccio interattivo .................................................................................. 44
The human touch .................................................................................................... 50
I.5.
Modelli e approcci al relationship marketing ................................................................... 58
I.6.
Un vero salto paradigmatico? .......................................................................................... 66
I
CAPITOLO II L’EVOLUZIONE RELAZIONALE NELLA SUPPLY CHAIN ............................................. 73
II.1.
Il contesto di applicazione del marketing relazionale ............................................. 73
II.2.
L’importanza della relazione nell’economia dell’ipercompetizione ........................ 77
II.3.
L’analisi relazionale della domanda finale .............................................................. 86
II.3.1.
Il profilo del nuovo consumatore ............................................................................ 88
II.3.2.
Nuovi scenari di consumo ....................................................................................... 91
II.3.2.1.
La de-materializzazione del consumo ........................................................... 92
II.3.2.2.
L’infedeltà alla marca e “sindrome di Stendhal” ........................................... 95
II.3.2.3.
L’individualismo, l’edonismo e il narcisismo ............................................... 100
II.3.2.4.
Il polisensualismo ........................................................................................ 105
II.3.3.
L’evoluzione della relazione con il consumatore .................................................. 109
II.3.4.
Rifondare la relazione con il consumatore: la gestione delle relazioni ................. 116
II.4.
L’analisi relazionale della domanda intermedia: i canali distributivi .................... 126
II.4.1.
I cambiamenti interni ed esterni al settore distributivo ....................................... 128
II.4.2.
Relazioni di collaborazione nei rapporti distribuzione-industria .......................... 135
II.4.3.
L’analisi dinamica delle relazioni distributive ....................................................... 142
II.5.
Il nuovo ruolo della funzione marketing................................................................ 148
CAPITOLO III IL CATEGORY MANAGEMENT: FORME INNOVATIVE DI PARTNERSHIP NELLA
SUPPLY CHAIN ........................................................................................................................ 159
III.1.
III.1.1.
II
Il category management ....................................................................................... 159
Verso un “customer-based” category management ........................................ 162
III.1.2.
Il consumatore come fattore aggregante ........................................................ 167
III.1.3.
Gli effetti del category management ............................................................... 172
III.2.
Metodologia .......................................................................................................... 175
III.3.
I risultati della ricerca empirica ............................................................................. 177
III.3.1.
La centralità del consumatore nel processo di category management ........... 180
III.3.2.
La definizione della categoria in ottica customer based .................................. 182
III.3.3.
I ruoli strategici di categoria ............................................................................. 188
III.3.4.
L’assegnazione degli obiettivi di marketing di categoria.................................. 191
III.3.5.
Il piano strategico di categoria e il retailing mix .............................................. 192
III.3.6.
Risultati e prime considerazioni conclusive ..................................................... 197
III.4.
Il panorama internazionale: intervista al category manager di Unilever Uk ........ 199
III.4.1.
Il ruolo del category management in Unilever UK ........................................... 200
III.4.2.
L’importanza della relazione ............................................................................ 207
III.4.3.
Il cliente come terzo partner nella relazione industria-distribuzione .............. 216
III.4.4.
La definizione della categoria ........................................................................... 222
III.4.5.
Le politiche assorti mentali .............................................................................. 223
III.4.6.
La leva promozionale ....................................................................................... 227
III.4.7.
La relazione tra category e sales ...................................................................... 229
III.5.
Considerazioni conclusive...................................................................................... 232
Bibliografia .................................................................................................................................... 239
III
Introduzione
La tecnologia, l’integrazione socio-culturale e negli stili di vita, i processi di deregolamentazione e la stessa attività di marketing delle imprese stanno
modificando significantemente i fattori critici per operare con successo nelle arene
competitive.
L’allargamento dei confini di mercato continua a generare un forte incremento
dell’intensità competitiva, sia perché aumenta il numero complessivo dei
competitors, sia perché i ritmi incalzanti della competizione impegnano le imprese
ad uno sforzo di previsione, adattamento e innovazione continua. Questi elementi
si traducono in una continua crescita e variabilità delle risorse necessarie al
sostegno del processo competitivo che spingono le imprese a ricercare livelli
sempre più alti di un mix combinato di efficacia e efficienza (Ferrero, 1992).
Il ricorso ad una logica product-for-money può rivelarsi fortemente inadeguato
rispetto all’obiettivo di sostenere il processo competitivo.
Tutto questo fa emergere un concetto chiave per comprendere le logiche vincenti
di gestione del rapporto impresa-mercato: la relazione.
La logica relazionale rappresenta uno dei nuovi e più proficui paradigmi del
marketing management: nella letteratura, il relationship marketing é stato spesso
1
definito come ”new marketing paradigm” (Kotler, 1992; Grönroos, 1994;
Gummesson, 1999) o come “paradigm shift” (Sheth & Parvatiyar, 1993; Morgan
& Hunt, 1994; Gummesson, 1997; Buttle, 1997).
Si impone, infatti, il passaggio da transazioni unilaterali e istantanee a relazioni di
lungo periodo di tipo reticolari, in cui la propensione a interfacciarsi con altri
soggetti diventa un elemento fondamentale ai fini del conseguimento del
vantaggio competitivo di impresa (Morgan & Hunt, 1999).
La capacità di connettersi con il mercato finale e, più in generale, con tutti i
soggetti economici che contribuiscono alla formazione della base di risorse e di
conoscenze (Rullani, 2004) necessarie per l’innescarsi di processi di generazione
di valore risulta determinante per lo sviluppo aziendale.
In questo modo, viene a crearsi non solo una connessione relazionale tra un set di
imprese che contribuiscono alla soddisfazione dello stesso “grappolo di bisogni”
(Busacca, 1994), ma si riduce anche la distanza cognitiva tra l’impresa e la
domanda, che diviene anche essa co-produttrice della base di conoscenza
reticolare.
La capacità di connettersi con la domanda finale e con tutti i soggetti economici
che contribuiscono alla formazione della base di risorse necessarie per un
efficiente funzionamento dei processi di generazione di valore risulta
determinante per lo sviluppo aziendale (Castaldo, 2002).
2
Il concetto di cliente, infatti, deve essere inteso in senso ampio: può riferirsi a
imprese fornitori del prodotto, distributori, consumatori finali, acquirenti, ma
anche influenzatori e altri soggetti in grado d’intervenire nel processo di acquisto.
Nella nuova economia della connessione, la complessità ambientale e scientifica
si trasforma in articolazione relazionale, accrescendo il fabbisogni di elementi,
come la fiducia e il commitment, in grado di governare questa nuova dimensione
della complessità.
Per comprendere come la relazione si traduca effettivamente in elemento di
coordinamento e in ultima istanza in valore economico, sono state approfondite le
modalità di collaborazione all’interno della filiera dei consumer goods, prendendo
in considerazione tre soggetti fondamentali: l’impresa industriale, l’impresa
commerciale e il consumatore finale. L’obiettivo conoscitivo è di dimostrare che
tutte le forme di relazione siano strumentali allo sviluppo e consolidamento delle
relazioni con la domanda.
L’importanza dell’orientamento al cliente nella collaborazione industriadistribuzione è stata messa in evidenza analizzando il tema del category
management. Il category management è stato definito come una nuova filosofia
gestionale che individua le categorie di prodotti quali fondamentali Aree
Strategiche di Affari (Harris, 1993). L’adozione del nuovo approccio manageriale
prevede una riprogettazione dei processi aziendali e di quelli organizzativi in
ottica custumer-based, trovando proprio nella categoria un codice di linguaggio
3
comune alle imprese commerciali e a quelle industriali. In questo modo, il
category management tende a superare i confini della singola impresa per
diventare un nuovo modo di intendere la relazione di canale in chiave
collaborativa.
La ricerca ha permesso di portare avanti, oltre ad una riflessione teorica e
speculativa sulla prospettiva del marketing relazionale e delle relazioni industriadistributore-consumatore, una indagine empirica che ha rappresentato il supporto
di verifica di ipotesi relative al funzionamento del category management quale
strumento relazionale.
Nel primo capitolo, si sono sintetizzate le riflessioni sviluppate dalla ricerca in
tema di marketing relazionale, partendo da una analisi del concetto di relationship
marketing come portatore di una nuova idea di gestione del rapporto impresamercato. Inoltre, si è cercato di analizzare la relazione come sistema
multidimensionale, descrivibile ed interpretabile attraverso un complesso di
variabili di natura non solo economica.
Nel secondo capitolo, il sistema di relazioni è stato calato all’interno della supply
chain, individuando l’impresa produttrice come focal firm e la relazione con la
domanda come unità di analisi, dove per “domanda” si intendono la relazioni sia
la domanda finale (il consumatore) sia con la domanda intermedia (il distributore).
In particolare, viene analizzato il ruolo della funzione marketing nella gestione
strategica ed operativa della singola relazione e del sistema di relazioni.
4
Nel terzo capitolo, vengono esaminati due casi di studio1 relativi a due progetti di
category management, con l’obiettivo di analizzare dal punto di vista empirico le
ripercussioni che la nuova modalità gestionale ha nelle relazioni all’interno della
supply chain. Infine, viene presentata un’intervista in profondità con Joe
Chomiskey, category manager di Unilever UK, effettuata durante il periodo di
ricerca alla Kingston University London - Kingston Business School.
La tesi che si vuole sostenere nella ricerca è che soltanto una profonda
comprensione della domanda e una reale partnership tra industria e distribuzione
possono creare le vere basi per un vantaggio competitivo sostenibile e di lungo
periodo.
1
Yin R. (1994), Case Study Research, Design and methods. Thousand Oaks, CA: Sage
Publications
5
6
CAPITOLO I
DAL MARKETING MIX AL RELATIONSHIP MARKETING
I.1.
La Traditional Marketing Theory
Il paradigma del marketing management è una teoria relativamente recente: con
qualche eccezione, lo sviluppo della letteratura risale circa a 50 anni fa. Eppure in
questi ultimi 50 anni, il concetto di marketing si è profondamente evoluto. Nelle
prime teorizzazioni, il focus consisteva principalmente nel soddisfare i
bisogni/desideri dei consumatori attraverso le leve del marketing mix.
Nella prima edizione del libro Marketing Management, Philip Kotler (1967)
coglie l’essenza del concetto tradizionale di marketing definendolo come: “the
analysing, organising, planning and controlling of the firm’s customer-impinging
resources, policies, and activities with a view to satisfying the needs and wants of
chosen customer groups at a profit.”.
La definizione di Kotler è perfettamente coerente con un mercato in crescita come
quello degli anni 60-70, in cui l’obiettivo era semplicemente quello di conquistare
la quota di mercato più ampia nel più breve tempo possibile. Questa visione può
7
essere definita come “concetto tradizionale di marketing” o anche come
“approccio transazionale al marketing”.
La premessa di fondo che sottende alla teoria tradizionale del marketing pone al
centro dell’attenzione le singole transazioni poste in essere dall’azienda con la
clientela. Il comportamento delle parti coinvolte nello scambio è visto in funzione
di alcuni parametri che caratterizzano la transazione stessa, che sono tipicamente
identificabili in termini di prodotto/prestazione e di prezzo. Tali parametri
vengono gestiti unilateralmente dal venditore, che rappresenta l’unico soggetto
attivo dello scambio. Il problema di marketing per quest’ultimo si identifica nella
definizione della migliore combinazione dei parametri dell’offerta, al fine di
suscitare una risposta positiva nella controparte (Varaldo & Stanton, 1987).
Inoltre, il tradizionale concetto di marketing tende a essere orientato al breve
termine e più centrato sul suo ruolo da un punto di vista funzionale nel
coordinamento e nella gestione delle 4P per promuovere l’offerta dell’impresa
(Lambin, 2004).
Il paradigma di marketing transazionale individua uno strumento semplice ed
1
immediato per la gestione dei parametri dell’offerta: il marketing mix (Borden,
1964).
1
In realtà, il marketing mix ipotizzato da Borden (1964) era composto da 12 elementi: product
planning, pricing, branding, channel of distribution, personal selling, advertising, promotions,
packaging, display, servicing, physical handling, fact finding and analysis. Borden sostiene: “I
liked his idea of calling a marketing executive a ‘mixer of ingredients’, one who is constantly
engaged in fashioning creatively a mix of marketing procedures and policies in his efforts to
8
Le 4P del marketing mix diventano il framework predominante sia nella ricerca
accademica sia nella pratica aziendale, la cui validità risultava a quel tempo
indubitabile2 (Grönroos, 1989, 1990; Kent, 1986).
Queste caratteristiche hanno favorito l’adozione di questo strumento da parte della
generalità delle imprese, evidenziandone al contempo alcuni rilevanti limiti. In
particolare al marketing management viene riconosciuta una autonomia
funzionale che non rende possibile l’individuazione e lo sviluppo delle sinergie
derivanti da un orientamento strategico maggiormente integrato. Questo approccio
si caratterizza, inoltre, per una scarsa attenzione al contesto internazionale e per
un orientamento adattivo nei confronti dell’ambiente. I cambiamenti strutturali
che hanno interessato, a partire dagli anni settanta, il contesto competitivo in cui
le imprese sono chiamate ad operare hanno reso i limiti dell’approccio di
marketing tradizionale maggiormente evidenti3.
Negli ultimi 10-15 anni, un approccio alternativo ha preso campo nell’area del
marketing: il relationship marketing, ovvero l’insieme delle strategie di marketing
produce a profitable enterprise.”. Fu poi McCarthy (1978) a sintetizzare il mix of ingredients di
Borden nelle classiche 4P del marketing mix (Product, Price, Place, Promotions).
2
Kent (1986) descrive le 4P del marketing mix come “the holy quadruple…of the marketing
faith…written in tablets of stone”.
3
Brady e Davis (1993), Doyle (1995), Kashani (1996) parlano di declino o addirittura di morte del
marketing come disciplina. Al di là di affermazioni forse esageratamente melodrammatiche, si
evidenzia sempre con più forza la necessità di una rivisitazione della tradizionale teoria di
marketing. The Chartered Institute of Marketing ammette: “the old ways of marketing have
become increasingly expensive, wasteful and inefficient.”
9
volte a costruire, mantenere e sviluppare relazioni stabili nel tempo con i clienti e
gli altri stakeholders (Godson, 2009).
Il dibattito che si è sviluppato tra gli studiosi sui limiti e le possibilità del
paradigma di marketing relazionale si è tradotto in due differenti correnti di
pensiero: alcuni autori individuano una sostanziale compatibilità con gli assunti
base della teoria tradizionale del marketing, evidenziandone solo una parziale
revisione, ma non un vero e proprio superamento del marketing concept; altri
invece reputano questo approccio su posizioni opposte ed inconciliabili con il
marketing management, considerando il paradigma tradizionale incompatibile con
il nuovo ambiente competitivo.
I.2.
Gli elementi di crisi della Traditional Marketing Theory
Il marketing mix é stato il modello domaninante per oltre 40 anni, anche per il suo
“seductive sense of semplicity” (Christopher, Payne, & Ballantyne, 1991) che
nonostante le sue virtù pedagogiche ha portato ad una stasi negli approcci di
marketing nel mondo accademico e manageriale (Grönroos, 1990)
10
Infatti, il “toolbox approach” (Grönroos, 1994) ha sminuito le potenzialità della
relazione nei vari livelli di interscambio e ha oscurato il ruolo della relazione nel
marketing4 (Harris, O'Malley, & Patterson, 2003).
Alla fine degli anni ’70 il paradigma del marketing concept inizia ad essere
sottoposto a forti critiche. I fattori di crisi possono essere sintetizzati
essenzialmente in quattro elementi:
1. il cambiamento delle dinamiche competitive;
2. la rigidità del marketing mix;
3. la visione limitata del marketing tradizionale;
4. la stagnazione del marketing come area di studio.
I.2.1. Il cambiamento delle dinamiche competitive
La nascita delle prime teorie di marketing si riscontrano proprio nelle logiche
della produzione di massa e del consumo di massa tipiche dell’economia
americana degli anni ’60. In un mercato dove la domanda era in continua crescita
e dove le industrie producevano in grandi quantità al fine di raggiungere i
4
Brown afferma (1995) “the fundamental issue to which we should address ourselves is not
marketing myopia but me myopia of marketing.”. Il concetto di marketing myopia fu introdotto da
(Levitt, 1960). In questo articolo pioneristico, Levitt si sofferma sulla necessità che hanno le
imprese di definire con precisione il mercato in cui operano, applicando una visione più ampia di
quella che guida di solito le scelte dei dirigenti aziendali, orientate in genere più ai prodotti che
vendono (production orientation) piuttosto che alle esigenze del consumatore (marketing
orientation).
11
vantaggi di costo delle economie di scala. L’obiettivo principale consisteva
essenzialmente nel trovare nuovi mercati dove poi vendere maggiori quantità di
beni possibili, in modo da ridurre al minimo le stock dei prodotti in magazzino. E’
in questo contesto che nel marketing assumono maggiore rilevanza i concetti di
distribuzione e promozione, ovvero quegli strumenti che facilitassero il
collocamento (nel tempo e nello spazio)5 e la richiesta di beni e servizi.
Le azioni di marketing venivano considerate efficaci solo se risultavano in un
aumento delle vendite e delle quote di mercato. L’orientamento era
principalmente di breve periodo. Le strategie di marketing non venivano costruite
intorno al consumatore: come sostiene Baker (2000), l’approccio transazionale
vedeva i consumatori come “people to whom something is done, as opposed to
people for whom something is done”. In questa ottica, il marketing mix
rappresenta un concetto del marketing molto più production-oriented che non
market-oriented o customer-oriented. (Grönroos, 1989)
Con la saturazione dei mercati, si assiste ad una serie di drastici cambiamenti. Si
inizia a comprendere l’importanza della ripetizione degli acquisti, della brand
loyalty e della brand differentiation. Secondo Sheth e Parvatiyar (1995), cambia
anche la visione del distributore da parte dell’industria: “Brand marketing that
5
I primi teorici nel campo del marketing, come E. D. James, Simon Lifman e James Hagerty,
hanno infatti concentrato i loro studi nel campo della distribuzione. Sempre nello stesso periodo,
iniziano a prendere forma anche le prime pratiche moderni di vendita, promozione e advertising,
con l’obiettivo di creare nuova domanda e assorbire quindi l’eccesso di offerta. Ralph Butler fu tra
i primi autori ad articolare le prime teorie di marketing riguardo il promotional concept (Barrels,
1965).
12
grew during this period supported the philosophy that the retailer was not the
salesman for the manufacturer but rather the buyer for the consumer”.
Inoltre, la segmentazione dei mercati inizia a diventare lo strumento fondamentale
per la pianificazione di marketing. Per differenziarsi dai competitor, le aziende si
focalizzano su specifici gruppi di consumatori verso cui costruire strategie di
marketing su misura.
Il branding, considerato una delle colonne portanti delle 4P e in particolare ella
politica di prodotto, sembra perdere la sua componente fiduciaria6 (Busacca &
Troilo, 1992) fino a diventare un semplice strumento per facilitare la
segmentazione del mercato e non per portare effettivi benefici al consumatore
(Egan, 2004).
I consumatori iniziano a diventare molto più sofisticati e la semplice leva della
promozione non sembra essere più efficace: non più parte della massa
6
Le componenti costitutive della marca e le sue funzioni possono essere classificate in tre
tipologie (Busacca & Troilo, 1992):
- identificativa;
- valutativa;
- fiduciaria.
La componente identificativa è costituita dai segni di riconoscimento della marca (ad esempio, il
nome, i simboli, i colori, il jingle, lo slogan, il logo), ossia tutti gli elementi che consentono
l’identificazione distintiva della marca; essa comprende anche i valori imprenditoriali che ne
giustificano l’esistenza. La componente valutativa è l’insieme delle valenze denotative (connesse
ai benefici tecnico-funzionali) e connotative (direttamente connesse ai benefici psico-sociali) che il
consumatore attribuisce alla marca; è, quindi, l’insieme dei significati che, se correttamente
percepiti dai consumatori, sono stabilmente associati alla marca. La componente fiduciaria
consiste nelle strutture e nei processi organizzativi che consentono all’impresa o
all’organizzazione di generare soddisfazione e fiducia in coloro i quali sperimentano l’acquisto o il
consumo dei prodotti recanti una determinata marca; si tratta di un meta-significato, relativo alla
dinamica esperienza-apprendimento, che finisce per rendere intensa e radicata la componente
valutativa, grazie alla percezione di affidabilità cumulata nel tempo.
13
indifferenziata a cui rivolgersi con una comunicazione uni-direzionale, ora i
consumatori si aspettano di essere ascoltati come individui. In questo contesto, i
parametri con cui valutare un’azienda di successo non sono più vendite e quota di
mercato, ma la capacità di instaurare una relazione con il cliente che permetta di
aggiungere valore alla transazione, creando un prodotto/servizio coerente con un
stile di vita in continua evoluzione.
Nell’era delle connessioni one-to-one, non conta più la singola transazione o il
singolo acquisto, l’obiettivo è ora di costruire una relazione tra le parti e di
prolungarla nel tempo.
In conclusione, a partire dagli anni settanta, i cambiamenti strutturali che hanno
interessato il contesto competitivo in cui le imprese sono chiamate ad operare
hanno reso i limiti dell’approccio transazionale maggiormente evidenti. La teoria
tradizionale del marketing, teorizzata sulla base delle caratteristiche dell’economia
americana degli anni ’60, non può essere applicata indistintamente ad altri scenari
competitivi (Grönroos, 2007).
I.2.2. La rigidità del marketing mix
La seconda critica rivolta alla teoria tradizionale riguarda l’estrema rigidità del
modello: si fa riferimento, in particolare, alla scarsa flessibilità del tool-box
14
approach (Grönroos, 2007), ovvero alla possibilità di poter sviluppare le strategie
di marketing in ogni organizzazione semplicemente adattando le quattro variabili
base, le 4P. Idea sicuramente molto chiara, facile da applicare e di facile
memorizzazione.
L’approccio inizia presto ad essere messo in discussione: in primo luogo, viene
sottolineata la mancanza di interazioni tra le quattro variabili del marketing mix.
Nonostante McCarthy (1978) riconosca la necessità di un collegamento tra le 4P,
il modello di per sé non include alcuna interazione né viene descritta la natura e lo
scopo di tali interazioni.
Un secondo elemento di critica ha preso avvio dai tentativi di ampliamento degli
ambiti applicativi dell’approccio tradizionale. Il modello delle 4P dimostra spesso
un carattere troppo prescrittivo: alcuni autori hanno quindi tentato di aggiornare e
ampliare il modello, ma sostanzialmente senza portare drastici cambiamenti agli
standard del classico tablet of faith (Grönroos, 1994).
Tra gli adattamenti più noti nella letteratura, Booms e Bitner (1981) teorizzano il
modello delle 7P, sottolineando l’importanza di tre nuove variabili: People,
Physical Evidence e Process. Baumgartner (1991), invece, propone un modello
con 15P. Nel modello del megamarketing, Kotler (1986) afferma la necessità, per
imprese che vogliono entrare in mercati protetti da alte barriere all’ingresso, di
ampliare la classica lista delle 4P aggiungendo altre due variabili, Public
Relations e Politics, riferite rispettivamente a strategie di pressione e di attrazione
15
verso le persone e i gruppi che dispongono di capacità di influenza sulle scelte che
vengono attuate in quei mercati. Christopher et al. (1991), invece, adottano il
modello delle 7P, ma evolvendolo e aggiungendo il Customer Service, come
elemento centrale.
Kotler et al. (1999) propongono un approccio differente: gli autori sottolineano
come le tradizionali 4P rappresentino il punto di vista dell’azienda che produce e
vende i suoi prodotti nel mercato. Sarebbe auspicabile, invece, adottare una reale
prospettiva customer-oriented: le 4P si trasformano così nelle 4C (Lauterborn,
1990), dove la ricerca del valore per il consumatore si sostituisce alla pura vendita
del prodotto da parte dell’impresa (Figura I.2.2-1).
Figura I.2.2-1. Alcuni adattamenti al modello delle 4Ps
6Ps
7Ps
15Ps
4Cs
Product, Price, Promotion, Place, Public Relations, Politics.
Product, Price, Promotion, Place, People, Physical Evidence, Process.
Product/Service, Price, Promotion, Place, People, Politics, Public
Relations, Probe, Partition, Prioritize, Position, Profit, Plan,
Performance, Positive Implementations.
Custumer needs and wants; Cost to the user, Communication,
Convenince.
Fonte: elaborazione propria
Secondo Grönroos (1996), il tradizionale marketing mix potrebbe essere ancora
utilizzato, ma altri elementi, che spesso non sono considerati attività caratteristica
16
della funzione marketing, andrebbero presi in considerazione: ad esempio,
logistica, installazione, sostituzione o riparazione, assistenza, reclami, formazione
rivolta al cliente. Anche Gummesson (1994) sostiene che il classico marketing
mix sia ancora necessario, ma sta diventando sempre più marginale rispetto alla
gestione delle relazioni che l’azienda crea con i suoi stakeholders7.
In ogni caso, nonostante il tentativo di molti autori di evolvere il modello delle 4P,
il marketing management si è tradotto nella semplice gestione della quattro
variabili principali, senza prendere in considerazione il vero significato e le
possibili conseguenze che una vera applicazione del marketing concept può
portare (Grönroos, 1994).
Nel tool-box approach manca totalmente la visione dell’elemento relazionale, il
fattore umano che spesso guida i rapporti di business.
7
Altri autori sono stati molto più radicali nelle critiche al tradizionale marketing mix. In un
articolo recente, pubblicato dal Journal of Marketing, van Waterschoot e Van den Bulte (1992)
sotengono che il problema è in realtà di natura teoretica. Gli autori scrivono: “To our knowledge,
the classification property or rationale for distinguishing four categories labelled ‘product’,
‘price’, ‘place’ and ‘promotion’ have never been explicated…Though casual observation of
practitioners, students, and textbooks suggest a general consensus to classify marketing mix
elements in the same categories, the lack of any formal and precise specification of the properties
or characteristics according to which marketing mix elements should be classified is a major
flaw”. Gli autori identificano poi tre principali punti di debolezza del modello delle 4P: “The
properties or characteristics that are the basis for classification have never been identified. The
categories are not mutually exclusive. There is a catch-all subcategory that is continually
growing.”
17
I.2.3. La visione limitata del marketing tradizionale
La terza critica è fortemente legata alla precedente. Innanzitutto, viene negato il
valore oggettivo e universale delle conoscenze e dei modelli interpretativi
originati dagli studi di marketing8. Il tradizionale marketing mix non si adatta
perfettamente ad altri campi del marketing come il service marketing e
l’industrial marketing, dove le relazioni personali giocano spesso un ruolo
decisivo.
In realtà, il modello delle 4P sembra essere spesso inappropriato anche nel
contesto del business to consumer (B2C) (Gummesson, 2002): infatti, molte
aziende che operano nel settore del B2C si trovano spesso a instaurare relazioni di
business anche con altri soggetti. Ad esempio, molte aziende industriali tipiche
del mercato al consumo, prima di arrivare ai loro consumatori finali, devono
prima vendere ai vari distributori: grande distribuzione, ma anche ristoranti,
mense, ospedali. Questo significa che una azienda si può trovare ad operare
8
L’abbandono dell’empirismo logico come fondamento del metodo scientifico a favore di criteri
epistemologici di tipo relativistico apre la strada alla nascita di paradigmi alternativi a quello
dominante, superando una impostazione che fino ad allora aveva teso a ricondurre in un quadro
organico unitario tutti i diversi approcci, comprimendone le peculiari potenzialità (Ferrero, 1992).
L’empirismo logico, infatti, afferma che la scienza è epistemologicamente unica, in quanto
esistono regole universali per accertare la validità delle teorie proposte; che il sapere scientifico è
assoluto e cumulativo; che la scienza progredisce attraverso l’acquisizione, mediante verifiche
empiriche, di molteplici conferme alle ipotesi dedotte dalle teorie elaborate. Le teorie
relativistiche-costruzionalistiche, invece, sostengono che è possibile un pluralismo epistemologico
in quanto possono essere elaborati criteri diversi per valutare la validità delle teorie; che lo
sviluppo del sapere scientifico è solo in parte cumulativo.
18
contemporaneamente sia nel settore B2C sia nel B2B; e nel mercato odierno
questo fenomeno è sempre più frequente se non la normalità.
Figura I.2.3-1. Dalla singola transazione alla costellazione di relazioni
Supplier
Customer
Transazione lineare supplier-customer
Suppliers
Competitors
Customers
Company
Employees
Influencers
Distributors
Costellazione di relazioni
Fonte: adattamento da Godson (2009)
Questa potenziali dualità di approccio richiede un sistema flessibile che il modello
prescrittivo delle 4P da solo non può assicurare. Affermare l’esistenza di differenti
tipologie di clienti è invece un concetto fondamentale in prospettiva relazionale:
19
ogni cliente ha le proprie caratteristiche e deve essere gestito con strumenti ad hoc
(Figura I.2.3-1).
Questa visione espande considerevolmente la semplice relazione lineare suppliercustomer fino a trasformarsi in una costellazione di relazioni tra l’azienda e i vari
soggetti con cui entra in contatto (Godson, 2009).
In aggiunta, molte aziende manifatturiere sono ora coinvolte anche nell’ambito del
service marketing, spesso sotto forma di formazione, servizi finanziari, assistenza
al cliente pre e post-vendita. Nell’attuale contesto competitivo, questi servizi
accessori stanno diventando cruciali per la vendita del prodotto, soprattutto in
funzione di un acquisto ripetuto in futuro. Eppure quest’area è stata spesso
sottovalutata dal teoria transazionale del marketing (Gummesson, 2002).
Un altro aspetto trascurato dal paradigma tradizionale è la proiezione nel futuro
della relazione: una volta venduto il prodotto, al miglior prezzo, con la
promozione più efficace nel canale desiderato, la transazione si può considerare
terminata. E ad ogni transazione successiva il processo prende avvio di nuovo
dall’inizio; non viene fatta alcuna distinzione tra una transazione reiterata nel
tempo e una nuova transazione: entrambe hanno lo stesso valore.
Evolvendo invece in ottica relazionale, il vero obiettivo diventa invece il
mantenimento e lo sviluppo del rapporto con i clienti consolidati, piuttosto che a
quello dell'acquisizione di clienti nuovi. Questo comporta la necessità di una
prospettiva temporale più ampia e capace di includere da un lato l'apprendimento,
20
dall'altro le aspettative. In tale visione, ogni scambio non può essere considerato
come un'entità a sé stante, ma assume un preciso significato in funzione della sua
interconnessione con episodi passati e futuri.
I.2.4. La stagnazione del marketing come area di studio
L’ultimo filone di critica al paradigma tradizionale di marketing riguarda la sua
scarsa evoluzione (Gummesson, 1987). Molti Autori hanno semplicemente
aggiunto nuovi strumenti al classico tool-box delle 4P (evolvendo in 7P, 15P, 4C,
ecc…), ma senza portare reali innovazioni al concetto di marketing.
Al contrario, altre aree come l’operations management o il financial management
hanno fatto dei grandi passi avanti: basti pensare alla teorie del just in time (JIT),
del total quality management (TQM),dell’activity based costing (ABC), del
business process re-engineering9 (BPRE).
La ricerca nell’area del marketing sembra avere invece orizzonti limitati,
sembrando in alcuni casi quasi “miope”10 (Arndt, 1980), concentrandosi spesso
più su questioni metodologiche che su problemi sostanziali.
9 Doyle (1995) sostiene che mentre nelle altre aree le nuove teorie si sono concentrate sui core
processes, “marketing has just tinkered around with the components”.
10 Arndt (1980) scrive “Research in marketing gives the impression of being based on a
conceptually sterile and unimaginative positivism…The consequence is that most of the resources
are directed toward less significant issues, overexplaining what we already know, and toward
supporting and legitimizing the status quo”.
21
Una ricerca svolta Denison e McDonald (1995) ha inoltre messo in luce alcuni
aspetti problematici della funzione marketing all’interno di molte organizzazioni:
secondo gli Autori, il marketing sembra avere una scarsa reputazione, spesso
autoreferenzialità e un basso livello di integrazione con le altre funzioni
organizzative. L’immagine dell’ufficio marketing sembra essere particolarmente
negativa soprattutto quando viene vista come “una funzione di supporto alle
vendite”.
L’approccio organizzativo inerente al marketing mix management paradigm non
aiuta a risolvere questo problema (Grönroos, 1990; Pierce, 1992). Sia nella
letteratura di marketing sia nella pratica aziendale, l’espressione “marketing
department”, in riferimento all’unità organizzativa, viene spesso usato
erroneamente come sinonimo di “marketing function”, che invece rappresenta
quel processo che mira a soddisfare i bisogni e desideri del cliente.
Secondo Denison e McDonald (1995), si è venuta a creare una scissione
culturale11 tra il marketing e le altre aree aziendali. Questa distacco rappresenta un
grave errore a livello strategico, soprattutto in un’era di consumatori esperti,
intensa competizione e rapido sviluppo tecnologico: in questi contesti, sarebbe
11
Grönroos (1982) sostiene: “The psychological effect on the rest of the organization of a separate
marketing department is, in the long run, often devastating to the development of a customer
orientation or market orientation in a firm. A marketing orientation with, for example, high-budget
advertising campaigns may be developed, but this does not necessarily have much to do with true
market orientation and a real appreciation for the needs and desires of the customers. The
existence or introduction of such a department may be a trigger that makes everybody else lose
whatever little interest in the customers they may have had.”.
22
auspicabile al contrario raggiungere il massimo grado di integrazione12 tra la
funzione marketing e le altre aree organizzative, e in particolare tra la funzione
marketing e l’area commerciale. Avere una “funzione di marketing integrata”
significa essere capaci di fornire a tutte le altre funzioni aziendali quelle
informazioni market-related di cui l’azienda ha bisogno per essere realmente
market-oriented e raggiungere lo stadio di co-ordinated marketing (Piercy, 1992).
Inoltre, secondo l’approccio relazionale, la funzione marketing ha un ruolo più
ampio e di natura diversa nella gestione dei rapporti impresa e ambiente. Il
marketing non deve perseguire il fine di ridurre la complessità dell’ambiente, ma
quella di creare le condizioni per accrescere la capacità dell’impresa di
comprendere, gestire e valorizzare la complessità (Cozzi, 1988).
Le relazioni con i clienti devono essere indirizzate da un lato a favorire una
migliore comprensione della varietà e variabilità della domanda, dall’altro a
sviluppare processi di adattamento e di apprendimento nel produttore e
nell’utilizzatore dei prodotti, che consentano una piena valorizzazione delle
risorse da essi possedute e un ampliamento delle potenziali soluzioni adottate per
risolvere eventuali problemi.
La funzione marketing ha il ruolo di favorire una più efficace integrazione tra
l’impresa e l’ambiente operando in diverse direzioni:
12
Procter&Gamble, ad esempio, ha ridotto il personale della funzione marketing centrale, creando
invece delle piccole business units nelle diverse aree aziendali, in modo da diffondere la cultura di
marketing in tutta l’azienda. In ogni caso, il marketing sembra essere necessariamente costretto ad
un cambiamento (Kashani, 1996).
23
1. ampliando le risorse attivabili dall’impresa, grazie alle relazioni instaurate
con gli altri attori e riducendo i vincoli che ne condizionano le possibilità
di azione;
2. favorendo la personalizzazione delle prestazioni offerte e la partecipazione
degli utilizzatori alla loro progettazione; ciò deve avvenire accrescendo le
capacità di autospecificazione delle aspettative da parte degli utilizzatori,
sia rendendoli consapevoli delle possibilità offerte dalla tecnologia, sia
attribuendo loro un ruolo attivo nei processi di ricerca volti a dilatare tali
possibilità;
3. creando le condizioni di sviluppo di forme di efficace collaborazione tra
produttore e utilizzatori, funzionali alla ricerca di percorsi di sviluppo
convergenti, che possano rendere compatibili i sistemi di vincoli ed
obiettivi che orientano i loro comportamenti.
Ciò richiede linguaggi comuni, obiettivi condivisi, fiducia reciproca, strutture
organizzative e sistemi tecnici compatibili. E’ il marketing che deve costruire
queste fondamenta sulle quali sviluppare le relazioni e fondare poi la forza
competitiva dell’impresa.
24
I.3.
Lo sviluppo del Relationship Marketing
A seguito delle riflessioni che hanno interessato il paradigma tradizionale di
marketing si sviluppa un approccio innovativo: il relationship marketing. La
prospettiva relazionale (relationship perspective) viene a sostituire la prospettiva
transazionale (exchange perspective) quale fenomeno principale all’interno della
disciplina del marketing.
Berry (1983) fu uno tra i primi Autori ad introdurre il termine di relationship
marketing come moderno concetto di marketing. Nei suoi primi tentativi
definitori, l’Autore lo definì come “un approccio di marketing volto a cominciare,
mantenere e migliorare le relazioni con i clienti”. Il contributo di Berry va
valutato soprattutto con riferimento all’impegno esercitato nel tentativo di
costituire una vera e propria teoria di marketing relazionale, indipendente dagli
approcci precedenti13.
Inoltre, questa prima definizione attribuisce la stessa enfasi all’attività di attrarre e
mantenere relazioni con il consumatore, mentre l’obiettivo prioritario del
marketing tradizionale era semplicemente quello di conquistare nuovi clienti
attraverso la leva della comunicazione e promozione.
13
Su questo punto, un punto di svolta è l’articolo di Berry e Parasuraman del 1993 in cui viene
proposta l’autonomia teorica del marketing relazionale: “Building a New Accademic Field – The
Case of Services Marketing”, in Journal of Retailing, vol. 60, Spring.
25
Questo concetto viene esplicitato molto chiaramente nella definizione proposta da
Christopher et al. (1991): “relationship marketing has as its concern the dual
focus of getting and keeping customers”.
Molte definizioni si sono susseguite nel tempo, ognuna delle quali volta ad
esaltare differenti aspetti della relazione. Grönroos (1990) sottolinea l’importanza
della visione di lungo periodo: “relationship marketing relates marketing to the
development of long-term relationships with customers and other parties”.
Gummesson (1994), invece, dà maggiore enfasi al concetto di rete e di
interazione: “relationship marketing is marketing seen as relationships, networks
and interaction”.
In termini più generali, Grönroos (1991) sostiene che il relationship marketing
può essere definito all’interno di un concetto di marketing allargato: “Marketing is
to manage the firm’s market relationship.”. La definizione implica una visione del
marketing strettamente connessa alle relazioni che l’azienda intrattiene con il suo
ambiente. L’Autore sostiene che il marketing deve prevedere necessariamente
tutti le azioni volte alla creazione e alla gestione delle relazioni che l’azienda
instaura con i suoi stakeholders: clienti, distributori, fornitori, partners,
competitors, etc.
26
Nel 1994, Grönroos fornisce la definizione di marketing relazionale più completa
ed esaustiva14, sostenendo che il principale obiettivo del relationship marketing è
di ”identify and establish, maintain and enhance and, when necessary, terminate
relationships with customers and other stakeholders, at a profit so that the
objectives of all parties involved are met; and this is done by mutual exchange
and fulfillment promises”.
Dalla definizione emergono quattro principi chiave (Gummesson, 1997):
1. Il concetto di marketing management viene inteso in senso piú ampio
come
marketing-oriented
company
management:
il
marketing
management richiede un orientamento al marketing di tutte le aree
aziendali e non solo della specifica funzione marketing. Per descrivere in
modo efficace questo concetto, Gummesson individua due tipologie di
soggetti: i full-time marketers (FTMs) e i part-time marketers (PTMs).
L’obiettivo é quello di evidenziare come tutti all’interno dell’azienda,
indipendentemente dalla loro funzione di appartenenza, possano
influenzare la relazione con il cliente.
2. Collaborazione stabile e duratura nel tempo e approccio win-win. La
relazione crea un valore per tutti i soggetti coinvolti15. In questa ottica il
14
Harker (1999) scrive: “of all the definitions collated it can be argued that the definition
presented by Grönroos (1994) is the ‘best’ in terms of its coverage of the underlying
conceptualizations of relationship marketing and its acceptability throughout the RM community”.
15
Baker (1976) definisce il marketing come “mutually satisfying exchange relationships”. Questa
visione é supportata da una definizione piú recente proposta da Lusch & Vargo (2006) secondo cui
27
relationalship marketing adotta un approccio win-win, piuttosto che winlose. La relazione é un plus sum game, in cui ogni partner crea e acquisisce
valore, e non gioco a somma zero (zero sum game), in cui il guadagno di
un soggetto è perfettamente bilanciato da una perdita dell’altro soggetto.
Inoltre, estendere la durata della relazione diventa il principale obiettivo
del marketing: troppo spesso l’enfasi viene concentrata sull’acquisizione
di nuovi clienti, prestando poca attenzione alla clientela attuale. Il
relationship marketing invece enfatizza in primo luogo il ruolo della
customer retention, attivitá primaria rispetto all’acquisizione di nuovi
clienti (marketing attraction).
3. Tutte le parti sono attive e assumono responsabilitá. Contrariamente a
quanto stabilito dalle teorie tradizionali del marketing, il fornitore non é
necessariamente l’unica parte attiva nello scambio. Nel settore BtoB, ad
esempio, é il cliente spesso a chiedere nuovi prodotti/servizi o a spingerlo
verso un maggiore livello di innovazione. Un altro esempio nel settore
CtoC é invece rappresentato dall’irrefrenabile sviluppo del web (chat,
social network, ecc...), il quale permette di raggiungere i propri clienti in
tempo reale e a costo zero. In questo modo, non solo si espande il grado di
interazione customer-to-customer, ma anche le aziende possono ora avere
“marketing is the process in society and organisations that facilitates voluntary exchange through
collaborative relationships that create reciprocal value through the application of complementary
resources”.
28
a disposizione un elevato numero di informazioni, cu cui poi costruire le
proprie politiche di marketing. La relazione, infatti, non è rivolto solo allo
scambio di risorse già esistenti e con un valore pre-definito, ma genera
processi di apprendimento e di adattamento, che contribuiscono ad
accrescere il valore delle risorse direttamente controllate dai soggetti
coinvolti, specializzandole in funzione dei loro utilizzi (Snehota, 1992) e
creando le condizioni affinchè possano essere sfruttate le sinergie
ottenibili da un loro uso congiunto.
4. Relazione e servizio invece di legami burocratici-contrattuali. Il
relationship marketing richiede dei valori fondati sulla relazione e sul
servizio, dove ogni cliente è un mercato a sé e viene riconosciuto per le
sue singole peculiarità ed esigenze. Si afferma un modello cooperativo di
gestione del rapporto organizzazione-mercato che si affianca e talvolta
prevale rispetto ad una visione di tipo competitivo, che vede l’impresa
inserita in un sistema di concorrenza allargata regolato da rapporti di forza
contrattuale. Quindi, un’organizzazione che compete come singola entità,
seppur inserita in una catena del valore di fornitori e clienti (Porter, 1984).
I clienti, inoltre, non sono più entità anonime ed omogenee, ma soggetti
con caratteristiche specifiche e differenziate. Il cliente é la vera fonte del
valore; comprenderlo e soddisfare i suoi bisogni/desideri gli unici
strumenti per creare profitto.
29
Il posizionamento strategico e lo sviluppo di competenze distintive non dipendono
più dalla capacità di adattamento all’ambiente e dall’efficacia nel combinare i
fattori di produzione direttamente controllabili, ma dalle capacità relazionali
dell’impresa, dal complesso di risorse che, attraverso le relazioni, essa riesce a
mobilitare, dalla crescita delle conoscenze e dalla valorizzazione delle risorse
possedute conseguibili attraverso i processi di interazione tra imprese (Ferrero,
1992).
Come suggerisce Bagozzi (1975), sebbene la maggior parte degli scambi si basa
su una transazione di mercato, il valore creato in uno scambio va al di là della
componente economica ed è da ricercare nel contenuto sociale e psicologico che
caratterizza l’esperienza di ciascuno dei partecipanti16. In tal senso vale anche
ricordare l’osservazione di Vaccà (1986), secondo il quale la focalizzazione sulla
transazione, in quanto tale, finisce per far perdere di vista la natura complessa dei
rapporti tra i soggetti economici, i quali non sono mai isolabili, ma trovano
significato economico solo in un coordinamento complessivo con tutte le altre
relazioni che l’impresa stringe con l’esterno.
Elemento innovativo di tale approccio è, dunque, la centralità e l’interattività dei
rapporti che si sviluppano tra le parti: entrambi gli attori coinvolti ricoprono,
infatti, un ruolo attivo nelle transazioni poste in essere. Il modello di scambio
16
Sulla stessa linea di pensiero, Wilson (1972), concependo la struttura del mercato come il
risultato di relazioni di lungo periodo tra fornitori e acquirenti, sostiene che l’analisi dei fattori
sottostanti a simili relazioni non possa essere affrontata attraverso i tradizionali strumenti del
marketing management.
30
preso a riferimento si caratterizza per la bi-direzionalità, ed assume caratteristiche
di maggiore complessità, in quanto non riguarda più solamente beni e denaro, ma
anche informazioni e rapporti di natura sociale. Ulteriore elemento distintivo è
l’evoluzione dell’orizzonte temporale di riferimento che in questo ambito si
individua nel medio-lungo periodo, in quanto le relazioni richiedono tempo per
essere analizzate, costruite e mantenute.
La tabella sottostante (Figura I.3-1) riassume le determinanti che caratterizzano le
due diverse tipologie di marketing: transazionale e relazionale.
Figura I.3-1. Marketing transazionale e relazionale a confronto
Focus
Enfasi
Orizzonte temporale
Customer service
Customer contact
Concetto di qualitá
Transaction marketing
Singola transazione e
volume d’affari.
Caratteristiche del
prodotto.
Breve periodo
Bassa importanza.
Basso livello.
Qualitá del prodotto.
Relationship marketing
Customer retention e
customer loyalty.
Customer value.
Lungo periodo.
Alta importanza.
Alto livello.
Qualita della relazione.
Fonte: adattamento Christopher, Payne e Ballantyne (1991)
31
I.4.
Il valore aggiunto della relazione
Il processo di creazione del valore per il consumatore è diverso nella prospettiva
relazionale rispetto alla prospettiva transazionale (Sheth & Parvatiyar, 1995).
Nel modello tradizionale di marketing, il valore per il cliente viene creato
unicamente dall’azienda e incorporato nel prodotto/servizio che poi viene
distribuito/erogato al consumatore. Questo significa che l’azienda si occupa
principalmente di distribuire il valore (distribution of value). Il focus del
marketing in questo caso è quello di gestire l’outcome del processo di produzione
e “the exchange of value for money”, oltre ad effettuare adeguate ricerche di
mercato per creare quel valore che il cliente si aspetta.
Nella prospettiva relazionale, il valore non è predeterminato dall’azienda e
inglobato nel prodotto. Al contrario, il valore è creato tramite la relazione
instaurata con il consumatore e spesso anche tramite le interazioni con il
distributore e gli altri soggetti che entrano in gioco nella relazione. Si può
affermare che il valore è co-creato17 dai soggetti in relazione (Prahalad &
Ramaswamy, 2004).
La relazione può aggiungere valore in tre diversi modi (Figura I.4-1):
1. meeting customer requirements;
17
Prahalad & Ramaswamy (2004) sostengono che il futuro della competizione risiede in un nuovo
approccio alla creazione del valore basato su un “individual-centered co-creation of value” tra
l’azienda e il consumatore. Il concetto di co-creazione di valore con il si basa sulla capacità delle
imprese di costruire e gestire “lo spazio competitivo che si forma intorno ad esperienze
personalizzate del cliente, attraverso interazioni attive tra il consumatore e l’impresa”.
32
2. trust and belonging;
3. the personal trust.
Figura I.4-1. The value added by relationship
Meeting customer
requirements
VALUE ADDED BY
RELATIONSHIP
Mass customization
Customized comunication
Personal and social networks
Trust and belonging
Business network
Customer interaction
The personal touch
Personal service
Fonte: Godson (2009)
I.4.1. Meeting customer requirements
La customizzazione è una strategia quasi obbligata per creare il vantaggio
competitivo nei mercato globali. I consumatori chiedono prodotti ad hoc e le
aziende devono saper generare offerte adatte in condizioni di alta efficienza,
secondo una schema che ha portato all’affermazione del micro marketing, del
33
marketing individuale o anche alla one-to-one relationship, strategia fortemente
potenziata dallo sviluppo di internet.
La mass customization (“personalizzazione di massa”) viene definita come un
approccio di business che consente di fornire prodotti o servizi personalizzati a
consumatori individuali o segmenti di nicchia su larga scala e con tecnologie
flessibili, senza la perdita dei benifici della produzione di massa (efficienza,
produttività, qualità, contenimento dei costi e velocità di risposta). Questo impone
all’azienda orientata al cliente un diverso approccio gestionale, che deve passare
da un modello MTS (make to stock, produrre per il magazzino) al più evoluto
BTO (build to order, produrre su commessa)18.
La flessibilità del sistema di produzione risulta così importante: non significa solo
produrre nuovi prodotti, ma avere anche la capacità di adeguarsi alla domanda in
termini qualitativi, quantitativi e in tempi di risposta.
Anche se la tecnologia ne ha ridotto notevolmente i costi, la customizzazione
richiede un alto grado di flessibilità organizzativa, forti capacità di relazione con
la domanda, abilità di progettazione, programmazione e riorganizzazione dei
processi aziendali. Per molte aziende, la customizzazione si associa ad un
incremento della complessità e ad una riduzione dei tempi dei cicli di
progettazione-produzione-consegna, che diviene importante fattore critico di
18
Pine (1997) sottolinea l’importanza del modello di mass customization: “Le imprese orientate
alla produzione di massa non sono in grado di servire il mercato così come si configura oggi: il
processo di frammentazione che ha, rende inadeguate le economie di scala e i sistemi rigidi e
dedicati su cui si basa la produzione di massa”.
34
successo nella considerazione che può essere molto difficile prevedere quello che
il mercato potrà chiedere.
In ogni modo, il potenziale espresso della mass customization si traduce in
notevole fonte di vantaggio competitivo19, in quanto è il cliente stesso che
attribuisce valore all’offerta attraverso una forte mediazione del marketing
interattivo.
Il rapporto è proficuo per entrambe le parti: l’azienda ottiene in modo semplice
informazioni utili per riuscire a soddisfare le esigenze del cliente (e il costo
marginale della singola transazione diminuisce); il cliente, invece, si sente
pienamente soddisfatto e ha fiducia nell’azienda. Il valore per un’impresa non è in
funzione del prodotto, ma in funzione del cliente.
Esistono quattro forme principali di mass customization:
1. combination of options (modularità): il tradizionale processo di sviluppo
di nuovi prodotti viene lentamente ad essere sostituito da piattaforme di
personalizzazione di massa che consentono ai clienti di progettare prodotti
19
I benefici che si ricavano sono sono molteplici:
- possibilità di sottoporre al cliente più alternative di acquisto;
- riduzione/eliminazione dell’obsolescenza commerciale;
- riduzione del gap di sacrificio per il cliente tramite l’identificazione delle common
uniqueness (ovvero delle differenze nelle preferenze manifestate dai clienti di un
prodotto/servizio);
- possibilità di ottenere prezzi più elevati;
- possibilità di differenziare e personalizzare il prezzo, riducendo la possibilità di
adattamento da parte dei competitor;
- miglioramento anche dei prodotti standard attraverso verifica continua delle esigenze e
preferenze del mercato;
- possibilità di assumere un ruolo importante nel portafoglio fornitori del retailer.
35
e servizi; la personalizzazione è realizzata attraverso la combinazione di
diverse configurazioni, ottenibili dalla scelta di molteplici componenti
modulari; in questo modo, il cliente si sente padrone delle proprie scelte e
possessore di un prodotto unico e inimitabile;
2. postponement: si basa sull’idea di progettare i prodotti usando piattaforme
comuni, componenti o moduli, grazie ai quali la personalizzazione avviene
solo durante l’assemblaggio finale, quando le richieste del cliente sono
note20;
3. personalization (personalizzazione): il prodotto stesso incorpora al proprio
interno un potenziale di varietà: è un singolo attributo che offrendo una
varietà di soluzioni permette di personalizzare il prodotto21;
4. bespoke products: sono prodotti o servizi che vengono creati interamente
secondo le richieste del cliente (ad esempio, gli abiti da sposa o i vestiti su
miura); di solito sono molto costosi, ma rappresentano il massimo della
personalizzazione, in quanto la relazione strettamente one-to-one è la base
per la creazione di un prodotto/servizio impossibile da imitare.
20
I vantaggi di questa strategia sono molteplici: riduzione del magazzino prodotti finiti; i
sottoinsiemi possono essere combinati in modi diversi consentendo una notevole profondità della
gamma prodotti; le previsioni sono più semplici a livelli di sottoinsieme che a livello di prodotto
finito (Van Hoek, 1998).
21
Gilmore & Pine (1997) definiscono questo fenomeno come “cosmetic customization” e
spiegano: “Cosmetic customizers present a standard product differently to different customers.
The cosmetic approach is appropriate when customers use a product the same way and differ only
in how they want it presented. For example, the product is displayed differently, its attributes and
benefits are advertised in different ways, the customer’s name is placed on each item, or
promotional programs are designed and communicated differently”.
36
La mass customization non si ferma solo a livello di prodotto. La comunicazione,
e in particolare la mass comunication, rappresenta il principale veicolo con cui
instaurare l’interazione tra azienda e cliente. Tradizionalmente, il promotion mix
di una azienda orientata alla produzione per il mercato di massa era incentrata sui
media più diffusi, come la televisione, la stampa, le affissioni: Gordon (1998)
definisce questa strategia come “broadcasting”, in quanto esclusivamente
unidirezionale e diretta a un pubblico vasto e indifferenziato. In questo caso, non
esiste la volontà di instaurare una relazione con il cliente né di aggiungere valore
alla relazione.
Oggi, le imprese vogliono “avvicinarsi” al più possibile al consumatore, al fine di
costruire una comunicazione di tipo bi-direzionale, personalizzando gli strumenti
e i contenuti della comunicazione secondo le caratteristiche del singolo ricevente.
La linea evolutiva dei sistemi di comunicazione è chiaramente segnata in
direzione dell’ipermedialità22 (Giulivi, 2004). Per le imprese, la comunicazione
impermediale è una risorsa notevole nella misura in cui facilita l’acquisizione e la
circolazione delle informazioni, moltiplica le opportunità di contatto, personalizza
le modalità di contatto, agevola la ricerca di clienti potenziali, favorisce la logica
del micro-marketing (Figura I.4.1-1).
22
La comunicazione multimediale è caratterizzata dall'uso integrato di tecnologie
dell'informazione e della comunicazione che utilizzano media diversi, linguaggi diversi, strategie
comunicative diverse. Il sapere ipermediale è stratificato (non necessariamente in modo
gerarchico), ogni dato è affastellato su un altro, non basta voltare pagina e proseguire il
ragionamento, bisogna scegliere, “saltare” e proseguire. Bisogna confrontarsi con l’intera struttura
che è costituita da “spazi di sapere” che, collegati fra loro, danno vita ad una rete.
37
Figura I.4.1-1. From broadcasting to individual, two-way communication
Company
Customers
Customer
Customer
Company
Customer
Customer
Fonte: Gordon (2004)
La tecnologia informatica ed elettronica23 ha consentito alle aziende di ampliare
notevolmente la propria gamma di offerta superandone il trade-off costodifferenziazione;
ha
permesso
alle
imprese
più
capaci
di
abbattere
significatamente i costi di produzione e ha consentito la creazione dell’azienda
flessibile (Cuneo, 1993). Ha praticamente eliminato i problemi di comunicazione
attraverso lo sviluppo di internet e delle reti interne; ha ridotto i tempi di quasi
23
La tecnologia è forse la variabile che ha modificato in modo più incisivo la realtà di tutti i
mercati e che oggi, con il commercio elettronico, si ripropone come veicolo primario di
cambiamento. La tecnologia impegna le imprese in uno sforzo di adeguamento dei processi
aziendali, implica investimenti di potenziamento e riprogettazione della struttura, attività di
riqualificazione delle risorse umane, nella consapevolezza che lo sforzo dovrà essere continuo e
incrementale.
38
tutti i processi aziendali ed ha favorito incrementi notevoli sulla produttività delle
risorse umane.
I.4.2. Trust and belonging
Nel paragrafo precedente è stato analizzato come la personalizzazione di massa
può aggiungere valore alla relazione. Un’altra tipologia di processi che creano
valore sono di natura interpersonale: tale aspetto si riflette anche nel sottolineare
come le relazioni tra organizzazioni siano di fatto relazioni tra individui, dove alla
dimensione non-task si affianca a quella più operativa e è suscettibile di
condizionare la qualità complessiva della relazione. Un numero crescente di autori
hanno enfatizzato come i legami di natura sociale possano fortemente influenzare
processi e risultati (Uzzi, 1996).
Il ruolo che la fiducia assolve nell’amplificare la performance relazionale
discende infatti da ulteriori elementi che possono incidere sulla configurazione
della partnership: il riferimento è alla propensione al rischio che gli attori
manifestano rispetto alle azioni eventualmente promosse dalla controparte e al dar
vita all’aggregazione stessa, nonché l’incertezza percepita circa le condizioni che
caratterizzano l’ambiente economico e al il comportamento dei suoi operatori.
39
Un altro modo per creare valore aggiunto è infatti attraverso la creazione di un
legame fiduciario. Il concetto di fiducia è riconosciuto come la variabile
fondamentale nel processo di nascita e sviluppo di una relazione24.
Secondo Dwyer, Schurr e Oh (1987) la fiducia è l’elemento fondamentale per
instaurare una relazione, ponendo le basi per la cooperazione e per un rapporto
interattivo. Wilson (1995) sostiene che la fiducia influenza profondamente il
rapporto tra buyer e account e sull’intera attività di negoziazione: il legame
fiduciario e personale sono gli “ideal outcomes” della relazione. Al contrario, se
non si ottiene l’instaurarsi di questa situazione ideale fallisce, la relazione è
destinata a fallire a causa di “lack of personal trust” o “incompatible personal
chemistry”25.
La definizione di fiducia si presenta piuttosto controversa, soprattutto per il fatto
che la fiducia può essere di fatto considerata sia un input sia un output, in quanto
“trust leads to increased trust” (Anderson & Narus, 1984).
24
Gli studi cui si fa riferimento riscontrano nella fiducia uno degli elementi chiave del successo
relazionale. Infatti, De Jong e Woolthuis (2004) scrivono: “trust increases commitment and the
willingness to accept control by other parties; trust promotes openness and increases the
efficiency of relationships; trust reduces the need for monitoring, and vertical quasi-integration;
trust decreases ex ante and ex post transaction costs.”. La circoscrizione che gli autori fanno del
concetto di fiducia è conclusiva di un processo di analisi di altri studi che pongono al centro delle
relazioni il comportamento collaborativo tra gli attori.
25
Wilson (1995) continua: “At this stage the relationship needs to reach a business friendship
level. Due to the apparent absence of common culture and understanding, scope and goal
definition are critical decisions for the relationship partners. In the second phase norms, that
dictate standards of conduct, are adopted. In effect regulations of exchange are created and
become ‘ground rules’ for future exchanges. These generalised expectations guide perceptions of
social exchange and accordingly exert powerful influences upon behaviour”.
40
Secondo Anderson e Narus (1990), la fiducia26 può essere definita come lo stato
psicologico di un individuo o di un gruppo verso un altro individuo o gruppo,
basato sull’esperienza e l’informazione, che denota l’aspettativa da parte del
primo che il secondo:
1. agirà a favore e non contro di lui;
2. sia affidabile;
3. terrà fede ai proprio impegni.
La fiducia si sviluppa quando si potenziano le attività di comunicazione e cresce il
livello di cooperazione (Anderson & Narus, 1990) ed è fondamentale per
accrescere le aspettative di stabilità di relazione (Ganesan, 1994).
La forza dei legami sociali può determinare spesso l’accesso a informazioni
critiche (Hamfelt & Lindberg, 1987), sfruttando i vantaggi dell’accesso alla
conoscenza condivisa con altri “nodi” della rete sociale rispetto all’appropriabilità
esclusiva
dell’informazione,
che
preclude
l’attivazione
di
rapporti
di
complementarità.
26
Molti autori hanno fornito diverse definizioni del concetto di fiducia. Secondo Hurley (2006)
“Trust is a measure of the quality of a relationship – between two people, between groups of
people, or between a person and an organization. In totally predictable situations the question of
trust doesn’t arise: when you know exactly what to expect, there’s no need to make a judgement
call”. Secondo Costabile (2000) invece “la fiducia si qualifica come pregiudizio, generato da una
sequenza di conferme o disconferme delle attese di comportamento (performance) che in forma di
estrema razionalità si concretizza in una probabilità assegnata al verificarsi di un dato
comportamento (una performance) di una definita controparte (un’impresa).”.
41
Lo sviluppo di rapporti interpersonali inoltre favorisce il superamento di problemi
legati al tempo, alla distanza, al linguaggio, alla cultura27 (Witkowski &
Thibodeau, 1999) e riduce il livello di rischio percepito favorendo la formazione
di un clima di fiducia, caratterizzato da un maggior livello di informalità
(Cunningham & Turnbull, 1982).
Esiste poi un certo numero di autori che afferma che la fiducia riflette la
credibilità di un partner, la quale aumenta la predisposizione del cliente al
mantenimento della relazione, riducendone l’incertezza e diminuendo il rischio di
comportamenti opportunistici della controparte (Grönroos, 1994; Ganesan, 1994;
Sheth & Parvatiyar, 1995).
Quest’ultima definizione rende labile il confine tra il concetto di fiducia e
commitment, ritenendo quest’ultimo un elemento antecedente della fiducia.
Morgan e Hunt (1994), infatti, ritengono che se una parte si fida dell’altra è
altamente probabile che essa sviluppi un atteggiamento positivo nei suoi
confronti, che lo porterà a desiderare di continuare la relazione. Il commitment,
dunque, può essere considerato come la propensione del cliente ad intrattenere
una relazione di lungo periodo con il fornitore (Dwyer, Schurr, & Oh, 1987;
Anderson & Weitz, 1992; Scheer & Stern, 1992; Morgan & Hunt, 1994; Young &
27
In un recente studio, Witkowski & Thibodeau (1999) evidenziano la reputazione personale, la
presenza di aspettative comuni, la conoscenza di un comune linguaggio e i legami etnici come
precondizioni per la formazione di legami interpersonali, i quali poi si manifestano
prevalentemente nelle forme di comunicazione a distanza e di visita, potendo generare fiducia e
amicizia.
42
Denize, 1995; Kumar, Scheer, & Steenkamp, 1995). Tale propensione può essere
di due tipi: affettiva, derivante dalla fiducia nel partner, e cognitiva, derivante
dalla convinzione che essa porterà benefici maggiori rispetto al caso in cui si
decidesse di interromperla.
Morgan e Hunt (1994), inoltre, identificato le determinanti principali che incidono
nella volontà di mantenere una particolare relazione: la congruenza dei valori (il
grado in cui il cliente e l’azienda condividono alcuni valori di fondo), la
congruenza degli obiettivi (il livello delle mete condivise nell’ambito della
relazione), i benefici derivanti dalla relazione rispetto ai costi determinati da una
pura transizione.
La fiducia e l’impegno si sono dimostrate essere variabili correlate positivamente
(Ganesan, 1994); in effetti, lo sviluppo di un clima di fiducia reciproca genera una
aspettativa di impegno, e viceversa. Inoltre, lo sviluppo della fiducia e
dell’impegno hanno la funzionale fondamentale di ridurre la percezione di rischio
di comportamenti opportunistici.
Se i concetti di trust e commitment erano impliciti nella tipologia di scambi
cliente-artigiano precedenti alla rivoluzione industriale, con il passaggio alla
produzione di massa viene a perdersi quel contatto diretto che era alla base del
legame fiduciario. Nell’era industriale, i prodotti vengono prodotti in modo
standardizzato nelle fabbriche e venduti tramite intermediari, perdendo così il
legame diretto cliente-produttore. La situazione è rimasta inalterata fino ad oggi.
43
I produttori che non possono raggiungere il consumatore in modo diretto, sono
dovuti ricorrere a metodi indiretti di creazione e sviluppo della fiducia e
dell’appartenenza, principalmente attraverso lo strumento del branding28.
In ogni modo, ci sono numerosi esempi nel B2C, B2B e nel marketing dei servizi
che dimostrano come l’importanza di un legame personale o di una rete sociale
possa accrescere di molto la propensione ad attivare una relazione di business.
I.4.2.1.
L’approccio interattivo
L’importanza dell’interazioni tra imprese era già stata stabilita prima della nascita
della filosofia del relationship marketing.
Nella seconda metà degli anni Ottanta, l’Industrial Marketing and Purchansing
Group (IMP) costituito nel 1976 da un gruppo di ricercatori29 delle università di
Uppsala, Bath, Munich, UMIST, ESC Lyon inizia a sviluppare schemi
interpretativi adatti a descrivere la realtà dei mercati industriali, concentrando
sull’analisi delle relazioni diadiche che si instaurano fra specifiche coppie di
28
Secondo Palmer (1996), i consumatori non hanno più bisogno di avere fiducia della marca o,
direttamente, nei produttori, in quanto “their increased confidence has reduced their need for risk
reduction”.
29
Questo gruppo di lavoro nasce in Svezia, avendo come centro di riferimento principalmente
l’Università di Uppsala, con l’obiettivo di condurre una ricerca empirica sugli approcci di
marketing seguiti dalle imprese nel settore dei beni industriali. L’IMP era inizialmente formato da
studiosi europei di varia provenienza: J.P. Valla e M. Perrin, francesi; M. Kitschker, tedesco; I.
Snehota, italiano; J. Johanson, svedese; M. Cunningham, P. Turnbull, D. Ford e E. Homse,
britannici.
44
fornitori ed acquirenti di beni industriali. In particolare, si tenta di verificare se i
rapporti commerciali che si sviluppano in questo particolare settore presentino
caratteristiche riconducibili a quelle dei beni di largo consumo, oppure proprie
specificità.
Le ricerche condotte dall’IMP portano alla nascita del cosiddetto interaction
approach, il quale afferma che il rapporto diadico non si caratterizza per un
insieme di azioni e reazioni, bensì per un sistema di interazioni, sia fra le singole
organizzazioni, sia fra gli individui appartenenti alle stesse.
In tale approccio la relazione diadica è definita come l’interazione socioeconomica tra due imprese, non finalizzata solo allo scambio di beni, servizi e
denaro, ma anche alla nascita di relazioni sociali30.
Ben presto, però, ci si accorge che l’approccio interattivo ha un limite principale:
quello di isolare la relazione, trascurando gli effetti dell’ambiente sulla relazione
stessa. Ci si rende conto che ogni impresa è inserita in un’insieme di relazioni, le
quali, non solo si influenzano a vicenda, ma congiuntamente influenzano
l’impresa. Si afferma un altro tipo di approccio: il network (Thorelli, 1986).
L’approccio network rappresenta un ampliamento ed evoluzione dell’approccio
interattivo; l’analisi si concentra, in questo caso, sulle relazioni multipolari che
coinvolgono le imprese31.
30
Come sostiene Hakansson (1995), il mercato è sempre stato descritto come qualcosa di
impersonale, un concetto esterno su cui poi calere tutte le relazioni; in realtà, il mercato è
composto da venditori e acquirenti con la propria individualità e soprattutto con una specifica
personalità.
45
L’ipotesi di fondo è che le relazioni che si possono sviluppare tra due soggetti
siano condizionate da quelle che questi già intrattengono con terze parti. Per
considerare quindi le possibilità di sviluppo e gestione delle relazioni, è necessario
prendere in considerazione l’intero network in cui le imprese si trovano inserite.
Proprio la posizione ed il ruolo che gli operatori detengono all’interno di queste
strutture complesse ed organizzate determinano la qualità e quantità delle risorse e
competenze che possono mobilitare (Hakansson, 1987).
L’organizzazione ed il coordinamento necessari a consentire la sopravvivenza del
network non vengono realizzati né per via gerarchica né mediante il meccanismo
dei prezzi, ma attraverso le interazioni cooperative che si sviluppano tra gli
operatori coinvolti, ciascuno dotato di una propria autonomia decisionale. In
questo contesto l’impresa perde parte della sua connotazione di unità
autosufficiente per divenire un’entità i cui confini sono destinati a modificarsi
proprio in funzione delle relazioni poste in essere e le cui potenzialità di azione
sono determinate dallo sviluppo del suo patrimonio relazionale.
È in questo contesto che lo scambio viene considerato sotto un’altra luce,
rivalutandone, in particolare, la sua componente psicologica e sociale,
31
Lo sviluppo dell’approccio è sostanzialmente il prodotto del lavoro congiunto di due gruppi di
ricerca: il primo dell’Università di Uppsala in cui emerge il lavoro di Hakansson e Johansson che
privilegia gli aspetti processuali che caratterizzano le relazioni all’interno dei network; il secondo
della Stockholm School of Economics in cui emerge il lavoro di Mattsson che privilegia, invece,
l’analisi degli aspetti strutturali dei network.
46
l’importanza degli attori in esso coinvolti e il sistema più ampio di relazioni
complesse e durature nel tempo.
La relazione sociale può essere definita operativamente come il fascio dei
differenti legami che intercorrono tra coppie di soggetti i cui percorsi di azione
sono reciprocamente orientati (Chiesi, 1999). Il passaggio dal concetto di legame
a quello più complessivo di relazione appare in definitiva semplice: una relazione
si compone di più legami. Inoltre una relazione può essere caratterizzata dalla
prevalenza di un legame o dal compresenza di diversi tipi di legami tra loro
congruenti, oppure comportare un certo grado di ambivalenza specie laddove i
legami contraddittori coesistono internamente alla stessa relazione.
Esistono principalmente due tipi di reti interpersonali: le relazioni sociali che si
instaurano al di fuori del contesto aziendale e le relazioni puramente di business.
Spesso molti rapporti di business prendono avvio da un precedente legame
sociale; le reti sociali possono essere:
-
formali, come club o gruppi, a cui si può partecipare solo su invito;
-
informali, ad esempio la famiglia, gli amici, i vicini di casa, i colleghi;
-
culturali, di solito definiti nei confini del luogo di nascita o dalla religione.
Il ruolo dei contatti interpersonali, ovvero del contatto face-to-face, si dimostra
ancora più fondamentale nelle reti di business vere e proprie: la reti di relazioni tra
imprese è di carattere estensivo e non riguarda semplicemente al relazione diadica
buyer-sellers, ma un’ampia gamma di relazioni all’interno l’impresa e tra imprese.
47
Le reti interpersonali garantiscono un flusso più diffuso di informazioni, che
spesso viene richiesto in modo attivo, senza aspettare di riceverle in modo
passivo.
Il ruolo dell’interazione personale è dunque essenziale per la creazione di
relazioni durature; in letteratura, si possono individuare sei diversi ruoli
dell’interazione (Turnbull, 1979; Turnbull, Ford, & Cunningham, 1996):
a) the information exchange role: le informazioni soft si trasferiscono solo
grazie al contatto e sono complementari alle informazioni “hard”, come ad
esempio prezzi, specifiche tecniche, termini del contratto, etc; lo scambio
di informazioni riduce il livello di rischio percepito tra le parti e aumenta
la fiducia e il rispetto reciproco (Cunningham & Turnbull, 1982);
b) the assessment role: se l’interazione tra potenziali clienti e fornitori
avviene in maniera sia formale sia informale, questo può innescare una
valutazione sia di tipo oggettivo basata sulle rispettive competenze sia di
tipo soggettivo in base allo scambio di pareri e giudizi in ambito
lavorativo;
c) the negotiation and adaptation role: qualsiasi tipo di relazione comporta
un processo di negoziazione e adattamento; il livello di negoziazione è
solitamente limitata in riferimento a prodotti standardizzati e più
complessa per prodotti complessi: può prendere in considerazione diversi
48
elementi tra cui il prezzo, i termini di pagamento, poste contrattuali che
devono spesso essere discusse a più livelli organizzativi;
d) the crisis insurance role: alcuni contatti interpersonali sembrano formarsi
senza nessuna motivazione apparente; eppure, ad un analisi più
approfondita, si evidenzia come molti legami siano invece creati sotto
forma di “assicurazione sul rischio”: questi contatti sono utilizzati in caso
di gravi problemi e spesso in sinergia con i canali di comunicazione
tradizionali;
e) the social role: la maggior parte dei contatti che si instaurano hanno un
ruolo prettamente organizzativo, ma esistono anche dei legami
interpersonali che nascono semplicemente per una affinità personale e
quindi con l’unico scopo di creare un legame sociale;
f) the ego-enhancement role: l’ego enhancement avviene quando un
individuo instaura una relazione con un senior manager con l’idea che
questa situazione possa migliorare
la sua
posizione all’interno
dell’organizzazione.
L’effetto congiunto di questi ruoli può portare considerevoli effetti positivi sia
tangibili sia intangibili. Per quanto riguarda i benefici tangibili, le relazioni
interpersonali si sono dimostrate essere un ottimo volano per aumentare le
performance di vendita (Ahearne, Gruen, & Jarvis, 1999) e per innescare processi
innovativi (Walter, 1999). In termini di effetti intangibili, invece, si riduce il
49
rischio percepito da parte del buyer e aumenta la credibilità del fornitore
(Cunningham & Turnbull, 1982). Infine, il contatto face-to-face si è dimostrato
cruciale nell’instaurare un legame fiduciario e di lungo periodo (Hakansson
1982).
I.4.3. The human touch
L’ultimo fattore determinante per la creazione di valore attraverso la relazione è
strettamente collegato all’erogazione di servizi, siano esse aziende B2B o B2C.
Il marketing relazionale ha sperimentato un importante sviluppo nell’ambito dei
servizi. Questo è stato favorito dalla particolare dinamicità ed attenzione alle
soluzioni più innovative del settore dei servizi, in quanto ambito di applicazione
nuovo per il marketing. Inoltre, le caratteristiche strutturali32 di questo settore
rendono maggiormente evidenti i vantaggi che questo approccio può portare.
32
Le cinque dimensioni fondamentali del servizio sono:
- gli elementi tangibili: aspetto delle strutture fisiche, delle attrezzature e del personale;
- l’affidabilità: capacità di erogare il servizio promesso in modo affidabile e preciso;
- la capacità di risposta: volontà di aiutare i clienti e di fornire il servizio con prontezza;
- la sicurezza: competenza e cortesia degli impiegati e loro capacità di ispirare fiducia e
sicurezza;
- l’empatia: assistenza premurosa e individualizzata che l’azienda riserva ai suoi clienti.
50
Le specificità del settore dei servizi si riferiscono particolarmente alle
caratteristiche33
del
processo
di
erogazione/acquisto
del
servizio,
alla
bidirezionalità dei flussi informativi ed all’interdipendenza dei comportamenti
degli operatori.
Nell’erogazione di un servizio si assiste spesso alla sovrapposizione delle fasi di
produzione, distribuzione (fisica) e consumo; il grado di complessità cresce
esponenzialmente quando il servizio è inglobato nel prodotto “fisico” acquistato.
Il riconoscimento della centralità del processo di erogazione del servizio rende
determinante l’efficace gestione della relazione con i clienti durante tutte le fasi
che caratterizzano l’evolversi del ciclo di vita del rapporto, sancendo la criticità
del marketing interattivo e la crucialità dei part time marketers (coinvolti nei
momenti della verità) accanto ai full time marketers (esperti di marketing).
Kotler e Armstrong (1991) propongono una schema di riferimento (Figura I.4.31), definito “services marketing triangle”, per illustrare le ripercussioni di una
relazione tra l’azienda, i suoi dipendenti e i clienti. Lo schema propone l’analisi di
tre diversi tipi di attività di marketing, ognuno delle quali è considerata essenziale
per il successo nell’erogare un servizio.
33
Nella maggior parte dei casi il potenziale cliente non è in grado di definire con esattezza la
prestazione che ha richiesto fino a quando non gli viene concretamente erogata. Questo aspetto
pare meno evidente nel caso in cui tra cliente ed erogatore non sussista un sostanziale divario di
potere contrattuale, ed il servizio sia percepito come particolarmente critico dall’utente. La
capacità di un servizio di soddisfare le esigenze del consumatore può essere quindi valutata
solamente a posteriori.
51
Figura I.4.3-1. The services marketing triangle
Company
Internal
marketing
Service
delivery
points
External
marketing
Customers
Interactive
marketing
Fonte: adattamento da Kotler e Armstrong (1991)
Il primo tipo, l’external marketing, riguarda molte delle tradizionali attività di
marketing che sono rivolte al cliente (per esempio: promozione, distribuzione,
branding).
Il secondo tipo, l’internal marketing34, riguarda invece la relazione tra l’impresa e
i suoi dipendenti. Il marketing interno pone l’accento su come sviluppare nel
personale dipendente e nella direzione l’attenzione al cliente. Il presupposto è che
il primo mercato delle organizzazioni sia rappresentato dal personale e che il
requisito critico per la soddisfazione della clientela esterna sia la soddisfazione dei
34
Berry (1984) definisce il concetto di internal marketing come: “Viewing employees as internal
customers, viewing jobs as internal products, and then endeavouring to offer internal products
that satisfy the needs and wants of these internal customers while addressing the objectives of the
organization”.
52
dipendenti (clienti interni). Gli strumenti per raggiungere questo obiettivo possono
essere
molteplici:
remunerazione,
formazione,
comunicazione
interna,
comunicazione esterna, ecc… Il personale deve essere preparato, informato e
motivato35.
Il terzo tipo, l’interactive marketing, è descritto da Grönroos (1985) come
l’interazione tra gli impiegati dell’azienda stessa e i suoi clienti l’azienda stessa,
descritto anche come “the moment of truth” da Calzon (1987), poiché influenza in
modo critico la qualità percepita dal cliente.
Il fattore critico ai fini della creazione del valore e della soddisfazione della
clientela è dunque rappresentato dal personale36. Gli addetti al front line, in
particolare, personificano l’impresa agli occhi del cliente, costituendo uno degli
elementi di maggiore differenziazione del servizio. Dalla competenza, dalle
capacità relazionali e dall’orientamento al cliente dei dipendenti dipende gran
parte della qualità complessiva del servizio offerto (qualità tecnica e qualità
funzionale37).
35
Calzon (1987) sostiene: “only committed ad informed people performed.” Grönroos ribadisce
l’importanza dell’internal marketing scrivendo che “the internal marketthe internal market of
employees is best motivated for service mindedness and customer oriented performance by an
active, marketing-like approach, where a variety of activities are used internally in an active,
marketinglike and coordinated way”.
36
Lewis e Entwistle (1990) scrivono: “if these internal encounters are unsatisfactory, then the
(external) customer may end up dissatisfied, complain, and see the fault as lying with the
customer-contact employee”.
37
La qualità di un servizio è ciò che il cliente percepisce in esso. La qualità percepita (e quindi
sperimentata) si sviluppa lungo due dimensioni: la qualità tecnica, o del risultato; la qualità
funzionale, o del processo. La qualità totale percepita non dipende solo da quella sperimentata, ma
piuttosto dal divario tra la qualità attesa e quella sperimentata.
53
Solo attraverso l’utilizzo congiunto e integrato delle tre tipologie di marketing si
può instaurare la migliore relazione con il cliente e garantire il più alto livello di
qualità possibile:
-
il marketing esterno permette la creazione delle aspettative: in questo
momento viene fatta una promessa ai clienti;
-
il marketing interno è fondamentale per la creazione e il mantenimento
della cultura del servizio e dell’orientamento al cliente fra i membri
dell’organizzazione: questo passaggio rappresenta il presupposto per
mantenere le promesse;
-
il marketing relazionale garantisce la gestione delle interazioni fra
personale di contatto e i clienti e lo sviluppo di una relazione durevole: le
aspettative vengono colmate e le promesse esaudite.
In quest’ottica diventa cruciale per l’erogatore riuscire ad ottenere la
collaborazione del consumatore ed attivare con lui un vero e proprio scambio di
informazioni in modo da garantirne la soddisfazione aumentando la qualità di
servizio percepita.
Per il consumatore, infatti, la valutazione del servizio può risultare
particolarmente onerosa e richiedere competenze non in suo possesso. Spesso,
54
inoltre, il consumatore tende a contribuire spontaneamente alla realizzazione del
prodotto fisico38.
Per ovviare a questa situazione il cliente è portato a ricercare una relazione stabile
con un unico erogatore, basata su un rapporto di fiducia, soprattutto per quei
servizi che vengono percepiti come particolarmente critici, quali ad esempio quelli
finanziari e sanitari. Il rapporto di lungo periodo riduce infatti, per il consumatore,
il rischio di comportamenti opportunistici da parte dell’erogatore di servizi ed i
costi di negoziazione (Morgan & Hunt, 1994).
Si rende indispensabile una focalizzazione della funzione marketing sulle azioni
volte a garantire la relativa stabilità della base di clientela. Una clientela fedele
garantisce profitti più elevati e per un orizzonte temporale più lungo in quanto il
costo dell’attivazione e del mantenimento di relazioni stabili con i propri clienti è
minore di quello per acquisirne di nuovi39.
Gummesson (2002) descrive quattro aree critiche in cui avviene l’interazione
cliente e l’azienda che eroga il servizio, che il marketing dovrebbe supervisionare
costantemente:
1. l’interazione cliente-personale;
38
Il grado di partecipazione fisica, emozionale ed intellettuale del cliente al servizio dipende dalle
scelte manageriali delle organizzazioni a livello di informazione, formazione e coinvolgimento
della clientela.
39
Un’analisi empirica condotta su un campione di cento imprese negli anni ottanta ha dimostrato
come si possano incrementare i profitti del 25% a fronte di una riduzione del tasso di perdita dei
clienti del solo 5% (Reicheld & Sasser, 1990).
55
2. l’interazione cliente-processo dell’aziende erogatrice del servizio (ad
esempio: on line banking, help line telefonica, ecc…);
3. l’interazione tra il cliente e l’ambiente fisico dell’azienda40;
4. l’interazione tra diversi clienti.
Accanto a questa interazione esiste una componente strettamente personale che
Groonros (2000) definisce “non-billable services”, contrapposta alla componente
“billable”. I billable services rappresentano gli elementi centrali nell’offerta di un
servizio, come la consegna, l’installazione, l’assistenza post-vendita: questi
elementi sono percepiti dal cliente come costo e rappresentano il profitto per
l’azienda. I non-billable services includono invece tutte le modalità di gestione
della relazione, come ad esempio la gentilezza del personale, la velocità di
rispondere al telefono, la maniera con cui vengono gestite le lamentele, in altre
parole il risvolto umano dell’organizzazione. Anche se l’organizzazione non
percepisce la componente economica di questi servizi, questi sono fondamentali
per aggiungere valore al servizio erogato e creare un vantaggio competitivo.
Spesso l’azienda compie un grave errore strategico non riconoscendo il loro reale
valore solo perché non vengono considerati dei core services.
40
Peter e Austin (1985) hanno coniato il termine “coffee stain management” per indicare quei
momenti in cui un piccolo problema può generare una percezione fortemente negativa di tutta
l’organizzazione nella mente del cliente. Questo concetto nasce dall’osservazione che molti
passeggeri in viaggio su diverse compagnie aeree, i quali notando una macchia di caffè sul loro
tavolinetto, si chiedano poi se la compagnia aerea usi la stessa cura nelle pulizie nella
manutenzione dei motori.
56
Negli ultimi anni, il settore dei servizi sta sperimentando una forte dinamicità
dovuta
principalmente
alla
tendenza
verso
una
sempre
maggiore
deregolamentazione.
Lo sviluppo dell’approccio relazionale al settore dei servizi ha subito una forte
accelerazione grazie allo sviluppo ed alla diffusione di nuovi strumenti
informativi. I primi tentativi di applicazione del nuovo approccio relazionale
avevano evidenziato gli elevati costi di raccolta ed elaborazione delle
informazioni necessarie per l’analisi della clientela e per la gestione delle
relazioni. L’evoluzione sperimentata dalle tecnologie informative ha consentito di
ridurre in maniera significativa questi costi oltre a sviluppare nuove opportunità
per una gestione ancora più personalizzata della clientela.
Guardando al futuro, il concetto di servizio deve rappresentare una prospettiva in
ottica di creazione del valore, non una semplice categoria di offerta del mercato
(Edvardsson, Gustafsson, & Roos, 2005). Il servizio deve necessariamente
diventare un modo di pensare, una logica. Un altro modo di vedere il servizio è
considerare “what a service should do for the customer”, in altre parole il servizio
come una logica di marketing (Grönroos, 2006).
Tradizionalmente nella letteratura il valore è sempre stato visto come value-inexchange, ovvero il valore veniva visto come “embedded” nel prodotto che poi
viene scambiato sul mercato. Secondo la letteratura più recente, invece, il valore
57
viene creato quando prodotti e servizi sono usati dal cliente. Questo concetto
viene invece definito come “value-in-use”41 (Woodruff & Gardial, 1996).
Secondo la value-in-use view, le aziende e i service providers non creano valore
nel pianificare i loro processi di produzione. Sono i clienti a proporre il loro
value-creating process e il valore è creato grazie alla relazione con il
consumatore. Il focus non è sul prodotto, ma sul processo di creazione di valore
per il consumatore e insieme al consumatore42 (Grönroos, 2000): tramite il
processo di interazione suppliers e customers collaborano attivamente nel
processo di co-creazione del valore (Prahalad & Ramaswamy, 2004; Wikström, 1996).
I.5.
Modelli e approcci al relationship marketing
Una volta dimostrata l’importanza della relazione nei nuovi mercati competitivi, è
opportuno comprendere a quali contesti applicare questo nuovo approccio
gestionale e come i vari stakeholders entrino in relazione con l’azienda.
41
Anche se l’espressione value-in-use non è stata usata spesso nella letteratura di marketing,
questa nozione di creazione del valore sembra diventare ora la versione dominante. Per
approfondire il concetto, si possono leggere i contributi di: Grönroos, 2000; Gummesson, 2002;
Jüttner e Wehrli, 1994; Normann, 2001; Normann e Ramirez, 1993; Ravald e Grönroos, 1996;
Storbacka e Lehtinen, 2001; Vandermerwe, 1996; Wikström, 1996; Woodruff e Gardial, 1996.
42
Questa visione è supportata da Vargo e Lusch (2004): “A service-centered dominant logic
implies that value is defined by and cocreated with the consumer rather than embedded in the
product”.
58
Molti autori hanno cercato di analizzare le diverse relazioni all’interno di modelli
teorici. Il punto di partenza è il “manifesto di sfida” di Gummesson al marketing
tradizionale (Tabella I.5-1).
Tabella I.5-1. Gummesson’s challenge to Traditional Marketing
1. ‘The many headed customer and the many headed seller’ acknowledged the
complicated networks of relationships made up of individuals within both the selling
organization and the buying organization interacting with one another.
2. ‘The real customer does not always appear in the market place’ recognized that
sometimes the permission or approval of an external party is required before a sale
can take place, e.g. governments or shareholders.
3. ‘The customer as co-producer ’ reinforces the concept of a two-way, interactive
relationship between customer and supplier and the part that the customer must play
in order to effect a successful transaction.
4. ‘Market mechanisms are controlled externally’ acknowledges that traditional
marketing efforts can often be distorted or undone by existing webs of relationships
such as friendships, nepotism, club memberships, etc.
5. ‘Market mechanisms are brought inside the company’ raises the issue of internal
buyers and sellers within an organization, where one department buys from another.
6. ‘Interfunctional dependency and the part-time marketer’—the idea that everyone in
the company, not just sales and marketing personnel, plays a part in ensuring overall
customer satisfaction.
7. ‘Process management and the internal customer’ extends the idea of the customerfocused organization by suggesting that everyone inside the organization should treat
each other as suppliers or customers within an overall process that leads to ultimate
customer satisfaction.
8. ‘Internal marketing’ suggests that the organization’s marketing efforts should be
directed not only to the external market, but internally to employees too.
9. ‘Relationship quality’ reflects how the skilled handling of relationships between the
buyer and the seller enhances the customer’s perception of quality.
Fonte: Gummesson (1986)
59
Nel 1987, l’Autore individua nove concetti chiave che dimostrano quanto la
gestione dell’attuale contesto competitivo sia ormai difficile attraverso l’utilizzo
degli strumenti del marketing tradizionale.
Il manifesto di Gummesson non è un vero e proprio modello, ma rappresenta il
primo tentativo di sintesi della varie critiche dirette al marketing tradizionale,
nonché il punto di partenza per la teorizzazione dei successivi modelli. In sintesi,
le osservazioni proposte dall’Autore implicano che:
-
il concetto di rete e le varie interazioni devono essere fortemente prese in
considerazione nelle strategie di marketing;
-
la gestione delle relazioni interne ad un’azienda sono ugualmente
importanti tanto quanto le relazioni con l’esterno;
-
l’intera organizzazione deve essere customer-oriented;
-
la natura e l’ampiezza delle relazioni con i clienti devono essere studiate e
gestite con attenzione.
Il pensiero di Gummesson venne sviluppato in seguito da Morgan & Hunt (1994)
e Doyle (1995), i quali tentarono di schematizzare le quattro partnership principali
all’interno di un unico modello.
Il modello prende in considerazione le “costellazioni” di partnership presenti nel
mercato, in particolare: la partnership con il consumatore, la partnership con il
fornitore, le partnership interne e le partnership esterne. Ognuna di queste
60
relazioni incide sull’efficacia delle strategie di marketing e della gestione
d’impresa in generale (Figura I.5-2).
Figura I.5-2. Four partnerships approach to relationship marketing
Supplier partnerships:

Goods suppliers

Service suppliers
Internal partnerships:

Employees

Funcional
deparments

Internal Businsess
units
FIRM
External partnerships:

Competitors

Alliances

Governments
Customer partnerships:

Intermediate
customers

Final customers
Fonte: adattamento da Morgan e Hunt (1994) e Doyle (1995).
Il modello mette in evidenza come l’impresa non tenda a sviluppare unicamente
una semplice relazione lineare, ma molteplici relazioni a seconda dei diversi
stakeholders.
Un orientamento simile viene proposto da Christopher et al. (1991): a differenza
del Four Partnerships Approach, gli Autori non parlano di partnership, ma
61
utilizzano il termine “markets”, suggerendo che la visione di marketing
dell’azienda deve necessariamente aprirsi a diversi mercati, su cui realizzare poi
specifiche strategie (Figura I.5-3).
Figura I.5-3. The six markets model
Internal
markets
Supplier
markets
CUSTOMERS
MARKETS
Staff
recruit
markets
Referral
markets
Influence
markets
Fonte: Christopher, Payne, & Ballantyne (1991)
Il “customer market” è l’elemento centrale del modello: i consumatori devono
rimanere il focus primario di tutte le attività di marketing e i referenti principali
delle strategie di marketing relazionale.
Un elemento di novità nel Six Market Framework è il “referral market”: questo
mercato è formato da tutti quei soggetti (persone o organizzazioni) che danno un
62
parere positivo sull’operato dell’ente in questione. La presenza del referral market
è volta a riconoscere l’importanza del ruolo che la customer satisfaction e il word
of mouth possono svolgere a vantaggio dell’azienda; diverse tipologie di soggetti
possono fornire “raccomandazioni”: clienti soddisfatti, amici, conoscenti,
intermediari, partner commerciali, etc. Spesso queste tipologie di azioni vengono
erroneamente sottovalutate dell’impresa, la quale non percepisce il possibile
ritorno nell’investire in questo tipo di relazioni.
Le relazioni con i “supplier markers” sono notevolmente cambiate negli ultimi
anni. Il concetto di cliente-fornitore come due antagonisti, che agiscono in modo
opportunistico per ottenere il proprio esclusivo vantaggio, ha ormai lasciato
spazio ad un approccio molto più collaborativo43. Le basi della cooperazione
vengono stabilite spesso fin dall’inizio della loro relazione commerciale, ad
esempio, con dichiarazioni esplicite di determinati target di qualità e di servizio,
di impegno ad una produzione flessibile, ecc… .
I “recruitment markets” si riferiscono, invece, all’abilità dell’azienda di ricercare,
attrarre e mantenere uno staff con le caratteristiche ricercate. Competenza e
motivazione del personale sono due elementi essenziali per il vantaggio
competitivo dell’azienda: avere personale qualificato e motivato è vitale,
soprattutto nella prospettiva di marketing interno.
43
Questa nuova relazione collaborativa è stata descritta utilizzando diverse espressioni. In Usa
viene spesso definita “reverse marketing”, in Philips Europe viene chiamata “co-marketing”, in
AT&T viene descritta come “vendorship marketing”.
63
Gli “influence markets” sono molto simili alle external partnerships illustrate nel
modello di Morgan&Hunt e Doyle. Questa tipologia di mercati possono includere
soggetti come i media, i gruppi di consumatori, le istituzioni governative, gli enti
finanziari; in questo caso, tutte le attività di pubbliche relazioni giocano un ruolo
determinante.
Le relazioni instaurate con gli “internal markets” sottolineano l’importanza di due
aspetti fondamentali: il primo riguarda la gestione coordinata della catena del
valore interna cliente-fornitore, in modo da assicurare che le operazioni interne
siano svolte in modo ottimale grazie ad un eccellente livello di servizio e rapidità
dei flussi di comunicazione tra clienti-fornitori interni dell’organizzazione. Per
quanto riguarda il secondo aspetto, occorre controllare costantemente che l’intero
staff stia lavorando insieme rispettando gli indirizzi stabiliti nella mission, nella
strategia e negli obiettivi aziendali (Payne, 1993).
Infine, in una teorizzazione più recente, Gummesson (2002) riprende la sua teoria
iniziale e la trasforma in una lista di 30 relazioni identificabili nel mercato, che
l’Autore definisce “the 30 Rs” (Tabella I.5-4).
Gummesson divide le 30 relazioni in quattro categorie di base:
1. le relazioni classiche di mercato;
2. le relazioni speciali di mercato;
3. le mega relazioni;
4. le nano relazioni.
64
Tabella I.5-4. Gummesson’s 30 Rs
Relazioni classiche di mercato
1. La diade classica: relazione cliente – fornitore
2. La triade classica: il triangolo cliente – fornitore – concorrente
3. Il network classico: relazioni lungo i canali di distribuzione
Relazioni speciali di mercato
4. Relazioni tramite full time marketers and part time marketers
5. La relazione interattiva tra clienti e fornitori di servizi nei momenti della verità
6. La relazione tra responsabili dell’impresa fornitrice e dell’impresa cliente (marketing
industriale)
7. La relazione con il cliente del cliente
8. La relazione vicina vs la relazione lontana
9. La relazione con il cliente insoddisfatto
10. La relazione monopolistica: il cliente o il fornitore come prigionieri
11. Il cliente come membro
12. La e-relationship
13. Le relazioni simboliche
14. La relazione non commerciale (settore pubblico, volontariato, famiglia)
15. La relazione verde (o ambientale)
16. La relazione basata sulla legge
17. La rete criminale
Mega relazioni
18. Network personali e sociali
19. Mega marketing (governi, legislatori, influenzatori, opinione pubblica)
20. La relazione cooperativa (alleanze tra imprese, franchising, JV, co-marketing)
21. La relazione di conoscenza (impresa come sistema cognitivo)
22. Le mega alleanze (UE libera mobilità per professionisti, Nafta)
23. La relazione con i mass media (RP)
Nano Relazioni
24. Meccanismi di mercato dentro l’organizzazione
25. La relazione con il cliente interno (programmi TQM)
26. La relazione tra gestione operativa e marketing
27. Le relazioni con il mercato dei dipendenti: il marketing interno
28. La relazione bidimensionale nell’organizzazione a matrice
29. La relazione con i fornitori esterni dei servizi di marketing
30. La relazione con proprietari e finanziatori
Fonte: Gummesson (2002)
65
I.6.
Un vero salto paradigmatico?
Con il crescere della letteratura in tema di relationship marketing, tale approccio si
sta affermando come nuovo paradigma di riferimento del marketing. Si ritiene
infatti che il nuovo approccio permetta, meglio di quello tradizionale, di gestire i
processi di scambio tipici dei mercati industriali e dei servizi, ponendosi come
obiettivo quello di iniziare, negoziare e gestire le relazioni di scambio con gruppi
chiave di interesse al fine di perseguire vantaggi competitivi sostenibili, sulla base
di accordi di lungo termine con clienti e fornitori. Secondo questa impostazione il
marketing andrebbe inteso come management delle relazioni e dovrebbe essere
rivolto a creare, mantenere e gestire un network di rapporti di lungo periodo.
Il marketing relazionale deve ancora trovare una precisa collocazione
epistemologica e un chiaro status all’interno della ricerca.
Iacobucci (1994) sostiene che il marketing relazionale rappresenta più che altro il
marketing tradizionale con “nuovi vestiti”, un enfatizzare idee e concetti già
presenti nel pensiero e nella pratica del marketing; in effetti il concetto di
interazione, di interscambio, di doppio legame sono già presenti nella teoria
classica del marketing (Bagozzi, 1995).
Mattsson (1997) suggerisce che in ultima istanza serviva una teoria che fornisse il
contesto di base in cui calare le varie tipologie di transazioni di marketing, tra cui
quelle inerenti a prodotti, servizi, persone. Questo punto di vista é supportato da
66
Sheth e Parvatiyar (2000), i quali sostengono che il filone del relationship
marketing potrebbe comprendere tutte le sub-discipline del marketing, tra le quali
il business-to-business marketing, channels marketing, services marketing,
marketing research, customer behaviour, marketing communications, marketing
strategy e international marketing.
Figura I.6-1. L’evoluzione del marketing
1950
1960
1970
1980
1990
2000
The future of
marketing?
Relationship
marketing
Services
marketing
Non profit
marketing
Industrial
marketing
Consumer
marketing
Fonte: Christopher, Payne e Ballantyne (1991)
Spesso si sostiene che il relationship marketing sia il primo grande cambiamento
nel marketing per molti anni. In realtà, a partire dalla nascita del marketing fino ad
67
oggi, ci sono stati diverse fasi del marketing, ognuna delle quali associata a una
corrente di pensiero prevalente (Figura I.6-1). Secondo Christopher et al., (1991)
questa evoluzione ha inizio negli anni ’50 con la nascita del consumer marketing
fino ad arrivare agli anni ’90 con il progressivo diffondersi del relationalship
marketing. Ognuno di questi step ha comportato un’evoluzione all’interno del
marketing in termini sia di nascita e sviluppo di nuove aree di ricerca sia di
diffusione della disciplina nel mondo manageriale.
Occorre sottolineare che ognuno di questi passaggi non rimane a sé stante ma
rappresenta l’evoluzione della teoria precedente e la base per le teorie future. E’
per questo motivo che il relationship marketing subisce le influenze di tutte le
correnti di pensiero che l’hanno preceduto44, includendo anche concetti inerenti
alle teorie del distribution management, total quality management e knowledge
management (Gummesson, 1999).
Tale interpretazione testimonia il carattere articolato e multi-disciplinare della
prospettica
relazionale,
ma
introduce
anche
elementi
di
difficoltà
di
sistematizzazione della teoria.
Secondo Palmer (1996), il relationship marketing può essere analizzato secondo
tre diverse prospettive:
44
E’ per questo motivo che il relationship management é stato analizzato e approfondito da diversi
punti di vista. Grönroos e Strandvik (1997) individuano molteplici prospettive tra cui: “the Nordic
School of service management, the network approach to industrial (or business-to-business)
marketing, the Anglo-Australian approach to integrating quality, customer service and marketing,
strategic alliances and partnerships research and, more generally, investigation into the nature of
relationships in marketing”.
68
-
come tattica, dove il concetto di relazione rappresenta solo uno strumento
promozionale (come, ad esempio, i programmi fedeltá);
-
come strategia, in cui vengono instaurate con il cliente relazioni di lungo
termine: “detention rather than retention” in cui vengono create delle vere
e proprie “barriers to exit”;
-
come filosofia, in cui il relationship marketing viene visto come cuore
pulsante del marketing, rifocalizzando le azioni di marketing verso una
prospettiva non più orientata al prodotto e al suo ciclo di vita, ma al cliente
e al suo ciclo di vita della relazione.
L’osservazione di Palmer mira a sottolineare quanto spesso il relationship
marketing sia solo apparentemente sposato come filosofia, quando in realtà ne
vengono applicati solo gli aspetti più tattici, ricadendo ancora una volta nei
tradizionali schemi della logica transazionale.
Grönroos (1996), invece, afferma che il relationship marketing rappresenta il più
grande cambiamento in 50 anni di marketing, ma che alla fine quello che é
avvenuto é stato semplicemente un ritorno del marketing alle sue origini.
In sintesi, Pels (1999) individua tre principali posizioni all’interno del dibattito
epistemologico riguardo il marketing relazionale:
1. chi ritiene che l’approccio relazionale debba essere considerato parte
integrante del paradigma tradizionale del marketing, in grado di tenere
conto e risolvere alcune delle anomalie che negli anni recenti erano state
69
evidenziate dalla letteratura. Tali studiosi si concentrano sulla customer
satisfaction e sulla customer retention, ritenuti i principali obiettivi del
marketing (Palmer, 1996; Mattsson, 1997; Costabile, 2000);
2. chi ritiene che l’approccio relazionale debba essere considerato un
paradigma alternativo a quello tradizionale, poiché offre una spiegazione
più completa di alcuni fenomeni tipici dei mercati moderni. Secondo
questa visione, lo scambio non è altro che un caso particolare di una
categoria più ampia e articolata che è la relazione di mercato (Hakansson,
1982; Turnbull, 1979; Grönroos, 1991, 1996; Hakansson & Snehota, 1995;
Brodie, Coviello, Brookes, & Little, 1997);
3. un terzo gruppo, pur riconoscendo la diversità dei due paradigmi, ritiene
che essi possano coesistere lungo un continuum che va dal semplice
scambio (istantaneo) alla relazione (di lungo periodo), a seconda del tipo
di prodotto/servizio o di mercato preso in considerazione (Dwyer, Schurr
& Oh 1987; Webster, 1992; Evans & Laskin, 1994; Grönroos, 1994;
Wilson 1995; Lindgreen & Pels, 2002); il continuum relazionale è stato
analizzato in dettaglio nella Figura I.6-2.
Sicuramente, l’approccio relazionale sembra offrire una visione più ampia e
realistica dell’organizzazione di imprese e mercati negli attuali contesti
competitivi, anche se, di fatto, le imprese si trovano a gestire una molteplicità di
relazioni diverse in riferimento sia all’eterogeneità dei soggetti sia alla loro
70
numerosità sia infine alla forza e stabilità della relazione. Queste considerazioni
danno forza ai sostenitori del continuum di relazioni di mercato.
I.6-2. The marketing continuum: some implications
The strategy continuum
Transaction
marketing
Relationship
marketing
Time perspective
Short-term focus
Long-term focus
Dominating marketing
function
Marketing mix
Interactive marketing
(supported by marketing
mix activities)
Price elasticity
Customers tend to be more
sensitive to price
Customers tend to be less
sensitive to price
Dominating quality dimension
Quality of output (technical
quality dimension) is
dominating
Quality of interactions
(functional quality
dimension) grows in
importance and may
become dominating
Measurement of customer
satisfaction
Monitoring market share
(indirect approach)
Managing the customer
base (direct approach)
Customer information
system
Ad hoc customer
satisfaction surveys
Real-time customer
feedback system
Interdependency between
marketing, operations and
personnel
Interface of no or limited
strategic importance
Interface of substantial
strategic importance
The role of internal
marketing
The product continuum
Internal marketing of no or
limited importance to
success
Internal marketing of
substantial strategic
important to success
Consumer →← Consumers →← Industrial →← Services
pack.goods
durables
goods
Fonte: Grönroos (1994)
71
E’ fuori dubbio, però, che il paradigma relazionale rappresenti un modello più
completo e realistico delle modalità e delle forme di interazione delle imprese in
mercato sempre più complessi e turbolenti.
Emerge con chiarezza la pervasività del paradigma e la sua estrema duttilità
concettuale ed applicativa, dimostrata anche dal fatto che discipline che si
occupano di settori differenti della gestione d’impresa ne abbiano accettato la
modalità di lettura dei comportamenti d’impresa, adattando la sua applicazione
agli specifici contesti organizzativi.
72
CAPITOLO II
L’EVOLUZIONE RELAZIONALE NELLA SUPPLY CHAIN
II.1.
Il contesto di applicazione del marketing relazionale
Sancita l’importanza dell’approccio relazionale al marketing, la fase attuale,
quella di sviluppo, si caratterizza per il dibattito riguardante i differenti contesti di
applicazione e cioè, da un lato, la possibilità di applicare tale approccio soprattutto
nella gestione dei rapporti tra l’impresa e i consumatori finali, dall’altro, di
considerare l’importanza, in ottica di marketing, delle relazioni con tutti gli
stakeholder.
Nella pratica manageriale, risulta evidente come l’approccio relazionale sia destinato
a crescere e a svilupparsi come approccio gestionale ad ogni livello della catena del
valore, grazie soprattutto all’aumentata capacità dei produttori e dei distributori di
entrare in relazione direttamente con il consumatore, individuandone i bisogni
specifici e di offrire prodotti e servizi altamente personalizzati.
Anche nella ricerca scientifica, i contributi di tipo sia teorico sia empirico sono
numerosi. A tal proposito si segnalano due visioni opposte: chi sostiene che sia
impossibile applicare l’approccio relazionale ai rapporti B2C (Moller e Halinen,
73
1998; O’Malley e Tynan, 1998; Hibbard e Iacobucci, 1998), chi, al contrario,
conclude che le relazioni di lungo periodo tra cliente e fornitore nel mercato dei
beni di consumo esistono, ma dipenderebbero dalla tipologia di prodotto: Palmer
(1995), ad esempio, sostiene che il paradigma relazionale mal si applica a prodotti
generici o fortemente correlati a valutazioni di prezzo; Christy et al. (1996)
ritengono che esistano una serie di prodotti relationship-friendly per cui sia più
alta la propensione ad attivare un legame fiduciario.
Quest’ultimo punto sembra essere la questione principale attorno alla quale si
colloca i dubbi di applicabilità dell’approccio relazionale alla domanda finale.
Sebbene l’instaurarsi di una qualsiasi relazione richieda la volontà di entrambi i
partner, nel mercato dei beni di consumo, più frequentemente che in quello dei
beni industriali o dei servizi, si prospetta la situazione in cui il cliente non
condivide l’idea del fornitore di mantenere una relazione stabile. Esistono casi,
cioè, in cui il cliente ha un orientamento alla singola transazione e cerca in
qualsiasi modo di non fidelizzarsi ad un unico fornitore1.
1
Le motivazioni di tale atteggiamento di resistenza alla relazione da parte del cliente possono
essere varie, ma si ritiene che la più rilevante sia connessa con la mancanza di benefici ottenibili
dalla relazione da parte del cliente. Una nota classificazione delle motivazioni che spingono ad
intrattenere una relazione con il fornitore è quella che distingue tra i vantaggi legati alla
transazione riferita al singolo prodotto/servizio acquistato e i vantaggi legati ad una relazione di
lungo periodo. Due dei più completi studi su tale argomento sono quelli di Gwinner et al. (1998) e
di Hennig-Thurau et al. (2002). I primi propongono alcune categorie di benefici ricavabili da una
transazione: benefici di tipo sociale, soprattutto tra il cliente ed un impiegato dell’impresa
fornitrice; benefici di tipo psicologico, determinati dalla necessità di ridurre l’incertezza; benefici
di tipo economico, con riferimento a minori costi in termini di denaro o tempo; benefici legati alla
personalizzazione dell’offerta, derivanti dalla predisposizione di prodotti su misura o di trattamenti
74
In letteratura, questo concetto è stata definito come propensione del cliente alla
relazione (Christy et al., 1996). Il successo di una relazione, soprattutto nel
mercato dei beni di consumo, non dipenderebbe soltanto dalle strategie e dalle
politiche messe in atto dal venditore, o da convenienze di tipo economico, ma
anche dalla presenza di un cliente psicologicamente disponibile ad attivare una
relazione2.
Dunque, le imprese che volessero efficacemente porre in essere politiche volte a
creare e mantenere relazioni di lungo periodo, dovrebbero cercare quei clienti che
siano sensibili nei confronti delle stesse3.
Con riferimento ai rapporti con gli stakeholder, studi recenti hanno iniziato ad
analizzare la possibilità di applicare l’approccio relazionale a qualunque tipologia
di cliente (Sheth & Parvatiyar, 1995; Palmer, 1995; Buttle, 1997; Christy et al.,
1996; Rowe & Barnes, 1998; Gwinner et al. 1998).
Nasce la consapevolezza che una conoscenza più approfondita di tutti i portatori
di interessi e l’applicazione, anche nei loro confronti, di un approccio relazionale
potrebbe garantire all’impresa performance migliori (Gummesson, 2006).
individuali da parte del fornitore. I secondi misurano empiricamente l’effettivo ruolo ricoperto da
tali benefici nello sviluppo di una relazione tra cliente e fornitore.
2
De Wulf et al. (2003), in particolare, hanno studiato empiricamente tale concetto, concludendo
che gli sforzi del fornitore nell’instaurare una relazione, in assenza di una propensione del cliente,
sarebbero del tutto inutili. Più precisamente, la propensione alla relazione del cliente
influenzerebbe la percezione che lo stesso ha delle politiche di fidelizzazione messe a punto dal
fornitore.
3
A ben vedere, potrebbe essere un’ulteriore variabile di segmentazione della domanda.
75
A tal proposito, prendendo come punto di riferimento il four partnerships
approach al relationship marketing di Morgan & Hunt (1994) e Doyle (1995), nel
corso di questo capitolo verranno approfondite le relazioni che si instaurano
all’interno delle “customer partnerships”.
Impresa industriale
Figura II.1-1. L’orientamento alla domanda
Orientamento al
cliente finale
Orientamento al
cliente intermedio
Fonte: elaborazione propria
L’analisi verrà condotta utilizzando l’ottica dell’industria, ovvero considerando
l’impresa industriale come focal firm, adottando allo stesso tempo un ottica
essenzialmente market-driven. A tal fine verranno prese in considerazione i
rapporti che l’impresa istituisce con la domanda sia finale (consumatori) sia
intermedia (distribuzione), con l’intenzione di dimostrare che tutte le relazioni
siano funzionali allo sviluppo e al consolidamento con la domanda finale. E’ il
76
consumatore che determina il valore dell’impresa, sia industriale sia commerciale,
e per questa ragione entrambe devono fondare la propria relazione su un forte e
reale orientamento alla domanda. Il consumatore può diventare, cioè, la base su
cui costruire una relazione stabile e duratura tra le imprese all’interno della filiera
e, in ultima istanza, la vera fonte di vantaggio competitivo.
All’interno del capitolo, inoltre, molta attenzione è stata posta sull’evoluzione
delle relazioni tra impresa e domanda (intermedia e finale) e sul processo
sottostante la loro creazione e il mantenimento di quelle più proficue.
II.2.
L’importanza
della
relazione
nell’economia
dell’ipercompetizione
L’importanza degli investimenti in capitale relazione presenta caratteri sempre più
accentuati in contesti di mercato che si contraddistinguono per una competizione
serrata, rapida obsolescenza tecnologica e forti politiche di differenziazione
dell’offerta.
Questi cambiamenti stanno influenzando l’evoluzione di molti stati concorrenziali
in un numero sempre maggiore di mercati (D’Aveni, 1994; Valdani, 1997),
determinando la necessità per le imprese di accrescere le proprio risorse
77
relazionali con consumatori, fornitori, intermediari e persino concorrenti (Lanza,
2000).
L’accresciuto interesse verso la prospettiva relazionale deriva dall’evidenza che la
complessità concorrenziale e tecnologica è ormai un fenomeno diffuso, che rende
più difficile la gestione delle strategie di mercato. Il valore del capitale relazionale
cresce quindi all’aumentare della complessità della domanda e della concorrenza,
sintetizzabile con il termine di ipercompetizione (D’Aveni, 1994; Valdani, 1995).
Figura II.2-1. Dinamica dell’ipercompetizione e valore delle relazioni
Complessità
della
tecnologia
Gestione strategica
delle relazioni
Complessità
della
concorrenza
Complessità
della domanda
Fonte: elaborazione propria
Il concetto di ipercompetizione presenta manifestazioni e cause molteplici. Nello
specifico, estendendo il concetto nella sua accezione originale, è possibile
78
ricomprendere nel suo dominio una varietà e variabilità4 diverse forme di (Figura
II.2-1):
1. concorrenza;
2. evoluzioni tecnologiche;
3. cambiamenti della domanda.
Analizzando l’evoluzione della domanda, Busacca et al. (1999) sostengono che
gran parte dei fenomeni riscontrati nelle economie più avanzate erano già evidenti
da diversi decenni e solo negli ultimi anni hanno raggiunto il loro apice estremo.
Tra i più grandi cambiamenti gli Autori evidenziano:
-
la frammentazione sociale e l’individualismo, negli stili di vita e quindi anche
nei gusti, ormai anche nei bambini (Mauri, 1996);
-
l’aumento del reddito discrezionale per un numero sempre più ampio di
categorie di prodotti e la crescente attenzione verso il contenuto simbolico dei
prodotti e verso il ruolo di emozioni ed esperienze nei processi di consumo5;
4
Peraltro, l’evoluzione della domanda e della concorrenza sono strettamente correlate a fenomeni
di innovazione tecnologica. La tecnologia modifica la flessibilità e rapidità delle piattaforme e dei
processi produttivi, distributivi e di consumo, provocando di contro un’eccessiva incertezza sulle
opzioni di sviluppo più efficaci sotto il profilo tecnico, operativo e commerciale.
5
La maggiore sensibilità verso il contenuto simbolico ed esperienziale del valore ha un significa
sia contestuale sia epistemologico. Sotto il primo profilo, è possibile rilevare come il benessere
diffuso, il crescente flusso di informazioni e la maggiore frammentazione sociale, determinano
fabbisogni di posizionamento sociale multidimensionale dovuti dalla tendenza sempre più marcata
all’individualismo e alla customizzazione. Tutti elementi che hanno inciso sulla percezione del
valore del consumatore e sul suo comportamento di consumo. Il profilo prevalente (almeno nei
mercati più sviluppati) è quello di un consumatore completamente “appagato” (Galbraith, 1992)
dalle funzionalità tecniche dei prodotti e “disincantato” (Ritzer, 1999) anche grazie alla continua
sperimentazione di innovazioni.
79
-
le aspettative di benessere crescenti, giustificate da oltre mezzo secolo di
sviluppo economico (Kanhneman & Tversky, 1979) e al maggior livello di
istruzione e di cultura che rendi i consumatori più consapevoli e informati.
-
i comportamenti di consumo sempre più spesso caratterizzati da obiettivi
connessi all’accrescimento delle propria gratificazione psicologica e del
patrimonio delle relazioni sociali, all’interno delle quali i prodotti trovano
senso e significato (Busacca, Grandinetti, & Troilo, 1999);
-
la crescente variabilità dei gusti e delle preferenze che si dimostra in termini
sia diacronici sia sincronici dando luogo a fenomeni di camaleontismo6 nei
comportamenti di consumo e quindi alla difficoltà di definire segmenti di
domanda rappresentativi realmente di profili omogenei di consumatori
(Varaldo & Legrenzi, 1992);
-
al crescente sovraccarico di informazioni su prodotti e alternative di acquisto
che porta il consumatore a ricercare forme di integrazione di offerta, in modo
da esercitare estensioni della fiducia e realizzare economie di relazione7
6
Alcuni studiosi hanno utilizzato il termine “camaleontismo” (Dubois, 1991; Cova, 1997). Il
comportamento d’acquisto e di consumo camaleontico è per certi versi “schizofrenico”, nella
misura in cui si dimostra privo di coerenza interna. Di conseguenza, in presenza di soggettività
così mutevoli risulta assai difficoltosa, se non impossibile, l’individuazione di validi elementi di
omogeneità, ad esempio, sotto il profilo socio-demografico, comportamentale e degli stili di vita
(Holt, 1997).
7
Tale fenomeno caratterizzante il rapporto domanda-offerta si manifesta nella formazione di
grappoli di bisogni interconnessi, ossia nella tendenza della clientela a rivolgersi ad un unico
fornitore per la soddisfazione di un insieme integrato di esigenze (Vicari, 1989). Tendenza
ricollegabile, oltre che alla crescente complessità dei prodotti/servizi, alla sempre maggiore
rilevanza assunta dalle componenti immateriali dell’offerta e dagli aspetti relazionali e fiduciari
nei rapporti di scambio.
80
(Busacca, 1994); è facilmente intuibile come questi fenomeni di integrazione
di offerta enfatizzino la criticità della customer satisfaction sul piano analitico
e strategico: infatti, se da un lato questa tendenza si traduce in consistenti
opportunità di estensione del territorio competitivo verso campi di attività
complementari a quelli tradizionali, dall’altro lato è necessario sottolineare
come tali opportunità siano strettamente legate ad un notevole incremento dei
rischi connessi alla disattesa delle aspettative palesate dalla domanda;
-
l’elevata penetrazione che molti prodotti raggiungono in tempi molto più
brevi rispetto al passato8.
In secondo luogo, la complessità del contesto è acuita ancora di più dal susseguirsi
delle innovazioni tecnologiche.
La tecnologia informatica ed elettronica ha consentito alle aziende di ampliare
notevolmente la propria gamma di offerta superando il trade-off costodifferenziazione. I vantaggi sulla gestione sono diversi: innanzitutto, ha permesso
alle imprese più innovative di abbattere i costi di produzione; ha praticamente
eliminato i problemi di comunicazione attraverso lo sviluppo di Internet e delle
reti interne; ha ridotti i tempi di quasi tutti i processi aziendali; ha favorito
8
Secondo Bona e Costabile (2000), la telefonia cellulare ha raggiunto in Italia una penetrazione
maggiore del 60% della popolazione in meno di un decennio. Inoltre, secondo una ricerca della
Morgan Stanley Dean Witter, comparando gli intervalli di tempo che si sono resi necessari
affinché un prodotto elettronico raggiungesse i 50 milioni di utilizzatori negli Stati Uniti, emerge
che: la radio ha impiegato 38 anni, la televisione 13, Internet 5.
81
incrementi notevoli nella produttività delle risorse umane; ha consentito la
creazione dell’azienda flessibile (Cuneo, 1993).
Le innovazioni tecnologhe coinvolgono tutte le aree aziendali in uno sforzo
migliorativo congiunto, nella consapevolezza che tale impegno dovrà essere
continuo, per quanto incrementale: può implicare investimenti in potenziamento e
riprogettazione della struttura, adeguamento dei processi aziendali e attività di
riqualificazione delle risorse umane.
La tecnologia è la variabile che ha influenzato in modo più decisivo la realtà dei
mercati e che oggi, con lo sviluppo di Internet e il commercio elettronico, si
ripropone come veicolo primario di cambiamento.
Nuovi intermediari virtuali sono fonte di informazione per domanda e offerta,
cadono molte delle barriere d’entrata, si riducono le asimmetrie informative,
cambiano i modelli organizzativi e le skills delle risorse umane: non a caso di
parla di vera e propria rivoluzione digitale9, in quanto vengono a crearsi nuovi
9
Già nel 1999 Philip Kotler illustrava ne “Il Marketing secondo Kotler”, l’evoluzione del
marketing e i cambiamenti che la rivoluzione digitale avrebbe apportato nel decennio a venire.
Internet e la rivoluzione digitale hanno modificato radicalmente i nostri concetti di spazio e di
tempo e hanno modificato di conseguenza l’approccio marketing alla nuova era digitale. La nascita
del cyberspazio ha consentito lo sviluppo di operazioni d’acquisto e di vendita sempre più
automatizzate e convenienti. Internet consente il fluire delle informazioni in modo immediato e
praticamente senza costi, consentendo alle imprese di essere collegate tra loro tramite una rete
virtuale. La rivoluzione digitale ha dischiuso la porta d’accesso al mercato globale alle imprese,
anche a quelle di media e piccola dimensione e di nicchia. Ma una rivoluzione è avvenuta anche
nei processi interni alle aziende, in particolar modo nei processi decisionali ed interpretativi
dell’attività aziendale, coinvolgendo tutto il ciclo aziendale: dall’acquisto dei prodotti, fino alla
commercializzazione e alla consegna.
82
linguaggi, nuovi codici interpretativi, nuovi strumenti di interazione continua con
il mondo esterno e con i clienti.
Per quanto riguarda il valore delle relazioni con i clienti, il cambiamento appare
più evoluzionario che rivoluzionario. I caratteri distintivi della conoscenza e
dell’interazione in ambienti digitali sembrano creare condizioni di ulteriore
rafforzamento della centralità delle relazioni con i clienti, piuttosto che
cambiamenti radicali nelle logiche che governano lo scambio economico
(Costabile, 1999; Verona & Sabbaghian, 2000; Busacca & Costabile, 2000;
Reichheld & Schefter, 2000).
Le caratteristiche di funzionamento dei mercati virtuali impongono, quindi, un
ripensamento evolutivo delle logiche di gestione del rapporto impresa-domanda,
ad esempio attraverso lo sviluppo di strategie di marketing one-to-one, di
personalizzazione dell’offerta, di nuove logiche di analisi e monitoraggio del
cliente, che recupera in questo modo potere nei confronti del seller.
Infine,
esaminando
l’ipercompetizione
nella
prospettiva
dell’analisi
concorrenziale, le criticità e le potenzialità insite nel concetto di complessità
possono essere esplicitate attraverso i tre elementi che la costituiscono (Di
Bernardo & Rullani, 1990; Rullani, 2004): varietà, variabilità e indeterminazione.
La complessità di un fenomeno è infatti determinata dalla quantità e diversità di
possibili varianti del problema e dei suoi attributi; questa varietà tende inoltre ad
incrementare nel tempo, a seguito dell’emersione e comprensione di nuovi
83
elementi, fenomeni, informazioni e relazioni che riducono, e spesso annullano, gli
sforzi di comprensione e specificazione del fenomeno osservato. Infine
l’indeterminazione identifica non solo l’impatto che l’incertezza dello scenario e
delle dinamiche evolutive hanno sulla complessità, ma anche le variabili di
amplificazione connesse alla non linearità di manifestazione dei fenomeni di
contorno.
Questa dinamicità accentua l’importanza relativa assunta dalle discontinuità, dalle
forze latenti e dai fenomeni emergenti che ridefiniscono il panorama competitivo,
spesso annullando i tentativi di applicazione del tradizionale rapporto causaeffetto: l’impresa è dunque chiamata a confrontarsi con un ambiente turbolento,
quasi imprevedibile, nel quale il successo pare proprio essere assicurato dallo
sfruttamento del non-equilibrio e dell’innovazione, generato da questi segnali
deboli.
Inoltre, un ulteriore elemento di criticità relativo alla complessità riguarda la sua
capacità di autopoiesi (Vicari, 1998). La complessità non dipende infatti solo da
fattori esogeni, ma è essa stessa in gran parte derivata da fenomeni evolutivi
dell’impresa e delle sue caratteristiche: la reazione ad un problema, ad uno
stimolo esterno, la generazione di nuova conoscenza genera infatti una risposta
articolata che, in un ciclo di autogenerazione, incrementa a sua volta i livelli di
complessità indotti sul contesto operativo d’impresa.
84
Tale complessità diventa, quindi, sempre più difficile da prevedere e gestire,
quantomeno a livello di una singola impresa (Valdani, 1997; Dyer & Singh, 1998;
Lanza, 2000).
La fungibilità di tecnologie e prodotti nella prospettiva della domanda e la
convergenza di settori e imprese (Ancarani, 1999; Valdani, 2000) rendono ormai
normali le forme di concorrenza intersettoriale e trasversale (Vicari, 1989; Hamel
& Prahalad, 1994; Yoffie, 1997; Wind & Mahajan, 2002), ponendo in evidenza
come i tradizionali confini tra industrie e tra imprese stiano rapidamente
dissolvendosi.
Dopo una prima fase nella quale l’attenzione degli studiosi si è incentrata
principalmente sulle cause di natura tecnologica (Yoffie, 1997) e di natura
competitiva (Hamel & Prahalad, 1996; Hamel, 1996) che generano convergenza,
alcuni contributi più recenti hanno invece sottolineato il ruolo giocato dalla
domanda nella creazione di fenomeni di questo tipo (Wind & Mahajan, 2002): per
rispondere a questa incalzante richiesta di value proposition complesse che
travalicano i confini tradizionali tra comparti distinti, le imprese sono chiamate ad
offrire bundle of benefits, combinando risorse tangibili e intangibili e dando vita a
nuovi aggregati transettoriali, come l’edutainment o la nutriceutica10 (Ancarani &
Costabile, 2005).
10
Oltre alla classica convergenza tra telecomunicazioni, informatica e entertainment, Valdani
(2000) descrive il caso dell’edutainment su cui convergono elettronica di consumo,
85
La convergenza infatti può essere guidata da contenuti simbolici o esperenziali di
consumi, oppure dalla prossimità e dalla complementarietà nell’uso o
nell’acquisto da parte dei clienti che integrando “grappoli di bisogni” (Busacca,
1994) realizzano economie di scopo, sui costi di transazione e di relazione. Alcuni
Autori (Valdani, 2000; Ancarani, 1999) hanno definito “metamercati” le nuove
arene competitive che nascono dall’intersezione di più settori.
La complessità competitiva, interagendo con quella generata dal lato della
domanda e della tecnologia, determina un tale grado di incertezza da rendere
sempre più difficile concentrarsi su singole unità del sistema. E’ invece molto più
efficace investire nell’analisi e gestione delle relazioni (Rullani & Vicari, 1999),
concentrandosi su quelle più rilevanti per la realizzazione del vantaggio
competitivo e la creazione di valore.
II.3.
L’analisi relazionale della domanda finale
La complessità, con le implicazioni analizzate nel paragrafo precedente, nel
sistema tradizionale era però vista come una grave minaccia alla stabilità del
sistema, un’area di vulnerabilità per l’impresa.
telecomunicazioni, informatica, formazione e altri settori ancora. L’Autore individua inoltre il
metamercato del life extention, su cui convergono il settore farmaceutico, sanitario, cosmetico,
termale, alimentare e così via.
86
Nella nuova società postmoderna11, complessità e turbolenza rappresentano le due
dimensioni di fondo (Fabris, 1995). La sfida è accettarle, convivere con questi
fattori costitutivi, superare l’intrinseca intelligibilità e l’imprevedibilità di queste
dimensioni. Il rischio è di lasciarle fuori allo spettro della conoscenza, quali fattori
di disturbo, non parte della realtà; non occorre risolvere la complessità né
tantomeno ridurla: al contrario, è necessario imparare a conviverci e a gestirla a
proprio favore.
Nel nuovo contesto, l’incertezza legata alla comprensione e gestione dei fenomeni
emergenti diventa un elemento di stimolo, una risorsa capace di esplorare il nuovo
spazio, le nuove possibilità di interpretare le dinamiche evolutive che si aprono di
fronte alle imprese. L’atteggiamento esplorativo nei confronti della complessità è
in grado di trasformare il pericolo di indeterminazione in risorse potenziali, in
grado di determinare effetti moltiplicativi sul business aziendale.
Questo atteggiamento esplorativo deve ovviamente avere come riferimento
principale il consumatore e il ruolo giocato da quest’ultimo nella definizione di
nuovi modelli di business.
11
La scienza postmoderna osserva Brown (1995) “si fonda sul rifiuto della visione del mondo
meccanicistica, deterministica, statica e particolaristica della scienza moderna a favore di un nuovo
paradigma basato sui principi dell’incertezza, del caos, dell’evoluzione e dell’olismo. Oltre alla
enfasi sulla complessità anziché sulla semplicità, sul cambiamento anziché della stasi e su una
prospettiva epistemologica di tipo partecipativo anziché spettatoriale”.
87
II.3.1. Il profilo del nuovo consumatore
La società di massa relativamente semplice da decifrare si è trasformata oggi in un
mosaico di tessere sociali e segmenti/nicchie di consumatori diversissime tra loro,
differenze che invece di attenuarsi si moltiplicano nel tempo.
Al valore della razionalità di matrice positivista, la cultura post-moderna
sostituisce il valore della diversità, dell’unicità dei contesti e dell’irripetibilità
delle contingenze (Rullani, 2004). Ciascuno ha un’identità diversa dalle altre, è
una persona che vuole essere riconosciuta e intrattenere con l’azienda un rapporto
umanizzato e dignitoso. Come sostiene Katona (1964) occorre riferirsi all’uomoconsumatore e guardare ai procedimenti economici come manifestazioni del
comportamento umano.
La riscoperta della centralità della persona, non solo come individualità ma anche
come soggetto immerso in un contesto di consumo e in luoghi dove si formano
comunità e identità collettive, diventa l’elemento caratterizzante nei modelli di
acquisto e di consumo (Maffesoli, 1993; Cova, 2002; Raimondi, 2005).
Quello che opera nella società attuale è un nuovo consumatore, esigente, scaltro,
selettivo, che sta radicalmente riscrivendo il nostro sapere sul consumo; un
consumatore in cerca di esperienze più che di prodotti, di emozioni e sensazioni
più che valori d’uso, che genera modelli di consumo inediti, eclettici, complessi.
88
Fabris (2003) individua una serie di importanti cambiamenti che hanno
influenzato il consumatore negli ultimi anni, diventando sempre più:
-
autonomo: è divenuto più critico, rivendicando maggiore discrezionalità di
scelta; autonomo non significa antagonista, bensì dialettico, chiedendo
all’azienda l’instaurarsi di una effettiva relazione, un dialogo e non un
monologo;
-
competente: ha acquisito molte più informazioni sulle sue scelte di consumo e
ormai ha sviluppato un bagaglio di conoscenze e di sensibilità merceologiche:
sulla provenienza dei prodotti, l’ingredientistica, il rapporto qualità/prezzo, le
varie componenti della qualità;
-
esigente: richiede sempre di più ad entrambe le imprese di produzione e di
distribuzione, non in termini di quantità, ma di qualità, di servizio, di
attenzione delle proprie esigenze;
-
selettivo: si muove con sicurezza nei confronti dell’iper-offerta del mercato;
non è più fedele alla marca a priori, ma seleziona e sperimenta diverse marche
tra cui poi scegliere in base a ciò che l’alternativa prescelta ha più da offrire
in un determinato momento;
-
orientato in senso olistico: la scelta coinvolge tutte le dimensioni in gioco,
tangibili e intangibili, vale a dire prendendo in considerazione sia
determinanti strutturali sia valori simbolici e significati sociali;
89
-
disincantato: cresce il pragmatismo12 e il realismo con cui il consumatore
effettua le sue scelte, manifestando spesso un certo distacco.
L’individuo-consumatore è, quindi, un’unità complessa, dinamica e poliedrica,
che pone in essere attività di consumo volte alla produzione di valori
idiosincratici e compositi (fisici, economici, sociali, psicologici) contestualizzati
alle diverse dimensioni situazionali ed esistenziali, alle quali di volta in volta egli
partecipa.
L’elemento centrale nella descrizione del nuovo consumatore è l’idea della “vita
come gioco” (Bauman, 1999), perché il timore predominante per l’individuo
postmoderno è quello dell’indissolubilità. Se nell’epoca moderna si trattava di
costruire un’identità e mantenerla stabile nel tempo, nel postmoderno il problema
dell’identità consiste nell’evitare ogni tipo di fissazione e nel lasciare aperte tutte
le possibilità.
Indicazioni significative a questo proposito provengono anche da Qualizza (2006),
secondo cui i nuovi consumatori si caratterizzano soprattutto per l’attitudine
all’erranza, al nomadismo e allo spostamento. Nell’era postmoderna, l’importante
è attraversare mondi problematici e universi di senso, essere dentro il flusso
continuo delle informazioni, sentirsi qui e altrove in ogni istante, essere sempre
pronti a partire e a cambiare: una condizione di permanente mobilità che si
12
Queste caratteristiche sono particolarmente evidenti nell’e-consumer che, secondo Fabris (2003)
può essere considerato a tutti gli effetti “il ritratto parlante dell’idealtipo di consumatore che
diverrà egemone a scadenze ormai ravvicinate”.
90
trasferisce anche alla vita di ogni giorno e che si esprime nella nascita di nuovi
scenari di consumo.
II.3.2. Nuovi scenari di consumo
Nello sforzo, operato dagli studiosi di marketing, di ampliare il campo della
propria ricerca, centrale è stata la ridefinizione del ruolo ricoperto dal consumo,
sempre più raramente considerato come variabile trascurabile della realtà del
singolo individuo e sempre più spesso considerato come insieme di fenomeni
diversi, complessi e culturalmente significativi.
Vale la pena richiamare brevemente le principali caratteristiche del nuovo
scenario perché è a partire dalla loro conoscenza che nascono le più attuali tattiche
di marketing relazionale.
Le principali tendenze in atto nei valori sociali, negli stili di vita e nei modelli di
consumo emergenti possono essere così schematizzate:
1. la de-materializzazione del consumo;
2. l’infedeltà alla marca e “sindrome di Stendhal”;
3. l’individualismo, l’edonismo e il narcisismo;
4. il polisensualismo.
91
II.3.2.1. La de-materializzazione del consumo
Quando si parla di società postmoderna, secondo Fabris (2003), bisogna
innanzitutto considerare un importante spostamento di prospettiva: il valore di
scambio (scambio economico derivante da transazione economica) tende ad essere
progressivamente oscurato dal valore simbolico del bene, una nuova struttura
concettuale che è costituito dall’intrinseca capacità del bene di informare e
comunicare. In altre parole, il valore di scambio si trasforma in scambio sociale,
inteso come scambio di significato in cui il valore del bene è essenzialmente
valore semantico e valoriale con cui ci esprimiamo e comunichiamo con gli altri13.
Nelle società moderne, i beni si vanno dematerializzando: in primo luogo, è in
atto un processo di miniaturizzazione dei prodotti, sempre più leggeri e ridotti
come dimensioni (si pensi, ad esempio, ai traguardi della microelettronica); in
secondo luogo, si sta assistendo ad una transizione verso un’economia dei
servizi14, in cui quello che si scambia nel mercato sono solo apparentemente
prodotti materiali. In realtà, sono segni15, immagini, messaggi (Codeluppi, 1989).
13
Come scrive Maffesoli (1996), gli oggetti postmoderni sono “vettori di comunicazione” che
attingono ad un comune idem sentire, ad un sistema di codici condiviso.
14
Nella nuova prospettiva, non è più possibile distinguere nettamente tra beni e servizi: in questo
contesto nuovi modelli di business ibridi sono quelli che meglio riescono a mettere a frutto gli
elementi vincenti derivanti sia dall’industria che dai servizi. Il contesto competitivo ed il mercato
sono dunque ricostruiti intorno a nuove soluzioni e value proposition che producono convergenza
ed ibridizzazione tra materiale ed immateriale, tra le logiche tipiche industriali e terziarie.
15
Trasformando i beni allo stato di segni e di simboli, secondo il processo di riduzione segnica di
cui parla Secondulfo (1994): “gli oggetti divengono socialmente importanti, assurgono a vita
sociale, sempre meno per le loro caratteristiche materiali o funzionali e sempre più per le loro
caratteristiche segniche o simboliche che ad essi vengono attribuite man mano che all’interno del
92
Mercato diventa, così, il sociale che tra le tante manifestazioni ed i suoi
sottoinsiemi, include anche quello del consumo. Mercato è l’universo semiotico16;
non un locus dove si scambiano merci, ma un’area dove avvengono scambi
sociali.
Figura II.3.2.1-1. I prodotti diventano segni e linguaggio
Prodotto
Segno
Significato
Linguaggio
Comunicazione
Fonte: elaborazione propria
Il linguaggio delle merci e i significati che queste sottendono costituiscono un
universo semiotico costantemente mutevole e di grande spessore. Il consumatore è
sedotto da questi significati, li fa propri adottandoli, li elabora con il passare del
tempo e li riflette più o meno consapevolmente (Figura II.3.2.1-1).
Il comportamento di ciascun individuo che si estrinseca nell’esperienza di
acquisto e, soprattutto, di utilizzo è ravvisabile come un’attività di consumo di
segni e simboli (Baudrillard, 1972) per la produzione di nuovi significati
sistema sociale si sviluppano codici e linguaggi atti a utilizzarne il supporto materiale per i propri
processi di significazione e di circolazione”.
16
Non è un caso che i maggiori contributi nello studio del consumo siano proprio venuti
recentemente dalla semiotica.
93
individuali e sociali, attraverso processi “autotelici” e “strumentali”17 (Holt,
1995). Quindi, si evidenzia una capacità di generazione di senso attraverso il
consumo che assume rilevanza sia nella costruzione ed estensione del sé in un
dato contesto (Belk, 1988), sia nella costruzione e conservazione di rapporti
sociali18.
Questa concezione del consumo ha consentito il superamento dell’idea
tradizionale per cui ogni bene è qualcosa a sé stante. Il consumo si allarga, diviene
poliformico, capace di riscoprire tutte le valenze simboliche del bene, la fruizione
delle cose diviene strumentale alla formazione dell’identità del consumatore, una
categoria fondante dell’io.
Il rapporto con l’oggetto permette la costituzione di un insieme di significati, di un
linguaggio sociale19, che consente di scambiare informazioni e di dare ordine e
senso all’ambiente socio-culturale (Paltrinieri, 1997).
17
I processi di consumo autotelici e strumentali rappresentano due differenti modalità di creazione
di valore mediante l’attività di utilizzo di un bene/servizio. I primi producono valore in sé (ad
esempio, l’ascolto di un programma radiofonico, l’impiego di un condizionatore, ecc.), i secondi
producono valore funzionalmente al raggiungimento di obiettivi sociali (come la partecipazione
all’inaugurazione di un locale alla moda, l’utilizzo di prodotti cosmetici, ecc.).
18
Douglas e Isherwood (1979) giungono ad affermare: “il consumo è un processo rituale la cui
funzione primaria è di dare un senso al flusso indistinto degli eventi […] l’obiettivo più generale
del consumatore può consistere unicamente nel costruire un universo intelligibile con i beni che si
sceglie”.
19
Nella società attuale, non è più possibile considerare l’agire di consumo né un semplice agire
razionale del consumatore volto alla soddisfazione dei propri bisogni, né un agire simbolico volto
esclusivamente alla definizione della propria appartenenza ad un certo strato della società. Per
questo motivo, la metafora del linguaggio sembra essere la chiave del percorso interpretativo del
consumo: una volta liberatosi dalla sovra determinazione della produzione e dall’unidirezionalità
della riproduzione di status, si può finalmente cogliere la sua multidimensionalità (Paltrinieri,
1998).
94
Al consumo va infatti attribuita una funzione comunicativa, intesa come modo in
cui gli individui dichiarano, caratterizzano, confermano la loro presenza nel
mondo e la loro appartenenza sociale. Il consumo diventa quindi un linguaggio, i
cui parlanti saranno i consumatori.
I diversi significati del consumo non possono essere compresi se non tenendo
conto della natura esplicitamente sociale del processo dal quale si originano.
Questo significa che ciascun prodotto porta inscritta al suo interno la sua storia, la
quale viene messa costantemente in gioco in tutte le possibili relazioni. Nell’atto
di comunicare, i prodotti, compiono azioni che interagiscono con le pratiche
interindividuali e contribuiscono alla costituzione e alla trasformazione dei
significati socialmente condivisi.
La merce si fa veicolo di una molteplicità di messaggi, ma ognuno di questi
messaggi deve entrare in relazione con gli altri messaggi del sistema di consumo
per poter comunicare20.
II.3.2.2. L’infedeltà alla marca e “sindrome di Stendhal”
Il
comportamento
del
consumatore
postmoderno
appare
sempre
più
imprevedibile. La proliferazione dei prodotti da un lato, quella dei format e
20
Così, come nel linguaggio parlato le parole si strutturano in frasi e le frasi in discorsi, nello
stesso modo i beni si strutturano in sistemi composti a loro volta da sub sistemi (Di Nallo, 1994).
95
concepts distributivi dall’altro, si sono incontrate a formare innumerevoli
combinazioni che si offrono a consumatori in un circolo di causa-effetto che si
rinforza vicendevolmente: l’iper-offerta con cui si devono costantemente
confrontare nei mercati “allena” il consumatore, che diviene sempre più
smaliziato e volubile.
Come è stato analizzato nel precedente paragrafo, il consumo è ormai diventato un
veicolo importantissimo di comunicazione e una forma di linguaggio,
trasformandosi in vettore di significato. I beni che si possiedono diventano il più
duttile strumento per comunicare la molteplicità delle identità21: identità aperte e
diverse che generano, a seconda del tipo di ruolo prevalente al momento, diverse
scelte e modalità d consumo (Parmigiani, 1997).
L’identità personale non è più fedeltà definitiva a se stessi, ma qualcosa da
rimodellare costantemente in un processo quotidiano di ricerca e sperimentazione.
Tutto ciò, però, non rappresenta il trionfo dell’infedeltà e dello spirito di
avventura in senso assoluto, ma piuttosto il passaggio a un atteggiamento che si
può definire “poligamo” (Fabris, 2001): il consumatore identifica quattro o cinque
marche che diventano presenze stabili, una costellazione ristretta di alternative tra
le quali fare la scelta d’acquisto.
21
Scrive Venturi (1985): “preferisco il sia…sia al o…o, il bianco e nero, e talvolta il grigio al
bianco o nero. Sono a favore della ricchezza di significati piuttosto che alla limpidezza degli stessi;
della funzione implicita così come quella esplicita. Preferisco una vitalità disordinata. Ammetto
l’inconsistenza logica e esalto la dualità.”.
96
La crescente infedeltà alla marca riflette un atteggiamento di maggiore criticità e
distacco nei confronti delle marche, conseguenza di un comportamento più
selettivo, più competente, più autonomo. In questo nuovo contesto, la fedeltà
storica alla marca lascia spazio ad una fedeltà multi-brand, considerate sostituibili
nella soddisfazione di un determinato bisogno (Vicari, 1995).
A dispetto di questa complessità, il comportamento di consumo, tuttavia,
mantiene una logica interna che è possibile individuare e analizzare con specifici
strumenti di indagine: il consumatore infatti non fa delle scelte casuali, ma
acquista un “cluster di prodotti fortemente interconnessi l’uno all’altro” (Fabris
2003), per cui il singolo atto di acquisto si innesta quasi sempre in un quadro di
rimandi.
Attraverso il singolo prodotto, in altre parole, il consumatore guadagna l’accesso a
una costellazione di oggetti e significati strettamente collegati tra di loro: da un
lato, si stabiliscono relazioni all’interno di un sistema di oggetti (prendendo ad
esempio come punto di partenza un papillon, i consumatori costruiscono un
sistema funzionale che comprende giacche eleganti, camicie di taglio classico,
scarpe scure, mentre esclude altri prodotti); dall’altro si stabiliscono rapporti tra
più sistemi di oggetti, regolati da somiglianze e opposizioni (ad esempio lo
97
smoking richiama la cena a lume di candela ed esclude la bicicletta, mentre la
palestra richiama una tuta, la bicicletta, un’alimentazione salutista)22.
Occorre anche sottolineare che l’ampiezza della gamma dei beni con cui potersi
esprimere può anche generare un improvviso disorientamento: il “dizionario di
merci” e il corrispettivo “catalogo di identità” possono diventare così voluminosi
da risultare inconsultabili.
L’iperscelta a disposizione del consumatore da elemento che valorizza il suo ruolo
ed accresce la sua autostima si trasforma in disinformazione. Nasce un paradosso
in cui la ricchezza dell’offerta degrada invece in entropia: Fabris (1995) la
definisce “sindrome di Stendhal”23.
22
Secondo Qualizza (2006) le relazioni di complementarietà e di sostituibilità tra beni e servizi
diversi andrebbero valorizzate all’interno del punto vendita privilegiando una logica di tipo crossselling, ossia proponendo pacchetti di valore capaci di soddisfare “grappoli di bisogni”
complementari, connessi a situazioni di consumo complesse. Un esempio è dato da Blockbuster,
catena che ha compreso la possibilità di soddisfare un grappolo di bisogni riferiti a una particolare
occasione di consumo (trascorrere una serata piacevole in casa). Meglio dunque suggerire
ambientazioni, proporre costellazioni di segni organizzati in modo coerente piuttosto che offrire un
assortimento di tipo “enciclopedico”. Dal punto di vista organizzativo si parla a questo proposito
di “category management”, un approccio costumer based che ha l’obiettivo di coordinare obiettivi,
decisioni e impegni relativamente non più a una singola marca o a una singola linea di prodotti ma
a un’intera “coalizione” di beni interdipendenti. Ulteriori indicazioni si possono trovare in Di
Nallo (1994) e Codeluppi (2002). Il tema verrà approfondito nel capitolo 3.
23
La “sindrome di Stendhal” è un fenomeno che colpisce alcuni spettatori quando si trovano di
fronte ad opere d’arte o d’ingegno particolarmente affascinanti; l’intensità della visione è talmente
forte che la derivante ebbrezza produce un senso di malore o dei mancamenti. Le cronache
raccontano che Stendhal in visita a Firenze fosse colto, in Santa Croce, da una sorta di
mancamento da eccesso di bellezze artistiche: la quantità di opere d’arte da cui si sentiva attorniato
aveva provocato un effetto di stordimento destinato a durare per più giorni. Una versione
postmoderna della sindrome di Stendhal può essere indicata nel disorientamento che provano
alcuni consumatori all’interno dei centri commerciali. Attratti dai colori e dalle offerte scintillanti
vagano tra i banchi dell’esercizio commerciale senza domare la loro indecisione, con il frustrante
risultato di non riuscire a conquistare l’ambito premio della giornata di shopping: l’acquisto.
98
Si moltiplicano le marche, aumentano le alternative di prodotto spesso con
impercettibili cambiamenti rispetto all’originale, la segmentazione d’offerta
eccede spesso le richieste di mercato; gli stessi tratti distintivi di un prodotto
innovativo finiscono per passare inosservati a causa dell’affollamento del
mercato.
Recentemente, l’istanza di maggiore autonomia ha indotto il consumatore ad
aggirarsi anche al di fuori del paniere delle grandi marche. La gamma delle
alternative si amplia a dismisura ed entrano a farne parte private labels, generics,
primi prezzi, marchi di fantasia.
La missione d’acquisto diventa quindi più complessa e time consuming. Nasce
l’impressione che l’universo delle merci sia sempre più difficile da padroneggiare.
Le indagini segnalano infatti, in molti mercati, una crescente dissonanza cognitiva
post acquisto24 (Fabris, 1995).
24
Secondo la “teoria della dissonanza cognitiva” di Festinger (1973), le persone sono motivate al
mantenimento e alla ricerca della coerenza fra le proprie conoscenze, opinioni, credenze e i propri
comportamenti. L’eventuale dissonanza (o incoerenza) fra ciò che si pensa e ciò che si fa crea uno
stato di disagio che deve essere in qualche modo eliminato: per farlo occorre modificare o il
proprio comportamento o l’opinione dissonante.
99
II.3.2.3. L’individualismo, l’edonismo e il narcisismo
Il fenomeno del consumo sembra essere dominato da locuzioni come consumo di
massa, mercati globali, consumatore di massa, modelli di consumo omologati,
primato delle mode e dell’eterodirezione.
In realtà, il mainstream dell’ultimo decennio è da individuarsi nella crescente
presa di distanza dall’area del sociale per approdare nell’area presidiata dal
massimo interesse per le dimensione del privato, ovvero dell’individualismo25.
L’autonomia dell’individuo si manifesta prevalentemente attraverso il processo di
secolarizzazione e destituzione di valore in riferimento ad aspetti rituali e
comunitari, imponendo al contrario una forte enfasi sull’emancipazione e
affermazione della propria forza individuale.
L’istanza di libertà è espressa nel consumo come istanza di scelta in autonomia,
prendendo le distanze da soggezioni e condizionamenti, soprattutto manifestando
la richiesta di prodotti personalizzati, di maggiore servizio, di una crescente
infedeltà alla marca.
La tendenza all’individualismo si esprime soprattutto in alcune aree di consumo,
come quella dei beni di lusso (in tutti settori merceologici, dall’automobilistico a
quello alimentare, dall’abbigliamento alla gioielleria) o quella di tutti quei
25
L’individualismo, come nota Riesman (1959), è sostanzialmente “other directed”. Centrato
egoisticamente sul proprio interesse e benessere personale, sul culto ipertrofico della personalità,
dove la massimizzazione del proprio vantaggio è spesso contrapposta all’interesse collettivo e che
trova nei consumi e nella centralità del corpo il più significativo ubi consistam.
100
prodotti/servizi miranti al benessere fisico e alla valorizzazione della corporeità
(dall’abbigliamento ai cosmetici, dalla chirurgia estetica ai beauty center, dai
farmaci al cibo).
La tendenza all’individualismo trova la sua più fedele espressione nella ricerca del
piacere, nell’orientamento al carpe diem, nella forte propensione all’edonismo e al
narcisismo.
Fino ad alcuni anni fa, l’edonismo era caratterizzato da una connotazione negativa
e da un senso di condanna26: i valori eticamente predominanti erano quelli del
sacrificio, del dovere, della sopportazione, della rinuncia, mentre tutto ciò che
procurava piacere era colpito da “interdizione morale” (Fabris, 2003). Oggi,
invece, si è arrivati a una legittimazione sociale del piacere e del consumismo:
segmenti sempre più ampi della popolazione aspirano a soddisfare pienamente i
propri bisogni e desideri, inseguendo una felicità secolarizzata e laica, fatta di
piccoli piaceri quotidiani.
L’edonismo, ricorda Fabris, non è un prodotto dell’età moderna, perché già nel
passato è stato al centro delle riflessioni di importanti scuole filosofiche; la
differenza è che ora è una “pratica”, un obiettivo di massa, non più una
suggestione filosofica di carattere selettivo o elitario. Prende corpo, quindi, una
26
Secondo Weber (1965), La censura del piacere è stata funzionale ai fenomeni di morigeratezza e
di risparmio che consentono quei processi di accumulazione primitiva che daranno vita al
capitalismo moderno. E’ la società del duro lavoro, del per aspera ad astra, del considerare il
piacere e il consumo come peccato qualora ecceda le necessità più elementari.
101
sorta di “epicureismo di massa”, in cui l’individuo si pone obiettivi di interesse
personale, di benessere e di soddisfacimento immediato dei propri desideri.
Inoltre, mentre l’edonismo tradizionale era legato alla soddisfazione di bisogni
specifici come il mangiare o il dormire, il nuovo edonismo è rivolto alla ricerca
del piacere in tutte le circostanze della vita e riserva un ruolo di primo piano
all’immaginazione, invece che alla fisicità del piacere: la capacità dei prodotti di
far sognare diventa così una componente fondamentale nelle scelte di consumo e
il conseguimento del piacere una delle motivazioni più addotte per giustificare gli
acquisti.
Il nuovo edonismo è quindi multidimensionale27 e spesso i desideri a sfondo
emotivo prevalgono su quelli utilitaristici della scelta dei prodotti. L’esperienza di
consumo è così considerata come il locus privilegiato in cui si esplica, si focalizza
e si soddisfa l’edonismo del consumo, in quanto include le esperienze
psicologiche che fanno seguito all’acquisto e uso di un prodotto. E’ nel sensation
seeking (Zuckerman, 1979) che deve ravvisarsi una delle modalità di espressione
dell’edonismo, anche se subordinata al piacere emotion seeking del postmoderno.
27
In quest’ottica, il consumo edonista designa quelle sfaccettature del comportamento di consumo
che riguardano gli aspetti polisensoriali, immaginavi ed emotivi dell’esperienza di consumo di
ciascuno di noi con i prodotti (Hirschmam & Holbrrook, 1982).
102
Oltre all’edonismo, l’altro grande trend che qualifica l’attuale
filone
dell’individualismo è il narcisismo28, inteso come rivendicazione del corpo e delle
connessioni estetiche legate alla riscoperta della corporeità.
Il narcisismo va interpretato come riappropriazione di una parte importante della
condizione umana: l’amore e il rispetto per se stessi.
Per il consumatore narcisista, il mondo degli oggetti costituisce un potente ed
efficace sistema di comunicazione: gli oggetti funzionano da amplificatori della
personalità individuale, sottolineandone gli aspetti privati, decifrabili unicamente
dalla persona che in essa si rispecchia o da una ristrettissima cerchia di partner
(Secondulfo, 1990).
Nel campo dei consumi, il narcisismo si esprime con un’attenzione inedita alla
cura del corpo, all’estetica, al sé; si tratta di un trend, dunque, che va ad
alimentare la domanda di tutti quei prodotti legati all’esaltazione del fisico, della
bellezza, ma anche del benessere interiore. È il caso, ad esempio,
dell’abbigliamento, dei centri benessere, della cosmesi29. La pubblicità,
soprattutto nella versione stampa, riflette molto l’orientamento al narcisismo,
mostrando protagonisti attenti a proteggere la propria bellezza, a mantenere
28
Weil (1990) scrive: “l’oggetto privilegiato di cui Narciso prende cura è se stesso. L’oggetto
ultimo da gestire, modellare, trasformare, produrre, consumare è lui stesso, il suo corpo, il suo
spirito”.
29
Un aspetto significativo è l’attenzione, del tutto nuova, da parte dell’uomo verso l’aspetto
estetico e il benessere psicofisico, verso l’uso di prodotti cosmetici, di gioielli e prodotti
precedentemente riservati a un target femminile. Fabris (2003) parla in proposito di
“femminilizzazione della società”.
103
inalterate nel tempo alcune caratteristiche fisiche, a mettere al primo posto la
propria persona in varie circostanze della vita quotidiana.
In ogni modo, diventano centrali l’attenzione, la deferenza, il rispetto da provare
per il nuovo consumatore narcisista, che pretende di venire viziato, valorizzato e
valutato per ciò che è.
La rilevanza assunta dall’individualismo non implica però la rarefazione dei
legami con il sociale. La società postmoderna, infatti, vede coesistere
manifestazioni individualistiche e nuove forme di socialità, che spesso assumono
la forma della tribù30 (Maffesoli, 1988).
In questo modo, proprio mentre l’individualismo acquista una nuova legittimità
sociale, si diffonde il desiderio di stare insieme per condividere atmosfere,
scambiare emozioni: nascono, dunque, forme di socialità inedite, diverse da quelle
più tradizionali basate sulle appartenenze di ceto e di classe, perché il tribalismo,
prima di essere politico, economico o sociale, è un fenomeno culturale.
Partendo da quanto scritto da Maffesoli, Fabris (2003) evidenzia come le tribù
riguardino anche il mondo del consumo: qui il desiderio di appartenenza e di
interazione riesce a creare un legame che diventa persino più importante di quello
30
Maffesoli definisce queste forme di socialità comunità emozionali, basate su un provare e un
sentire in comune; secondo l’autore, infatti, “si può dire che assistiamo alla tendenziale
sostituzione di un sociale razionalizzato con una socialità a dominanza empatica” in cui “la
socialità si esprime in una successione di ambiances, di atmosfere, di sentimenti, d’emozioni”.
104
con il bene che ha in origine generato l’incontro; il consumo in questo senso
diventa il collante delle nuove forme di socialità31.
II.3.2.4. Il polisensualismo
Il nuovo vissuto del corpo, la centralità dell’io, il nuovo modo di esprimersi
attraverso l’edonismo e il narcisismo, ha generato anche il recupero di aspetti
della fisicità32 che si erano persi nel tempo e che invece ora vanno configurandosi
come nuovi referenti per il consumo. Sta cambiando infatti il modo di rapportarsi
fisicamente ai prodotti, di percepirne le caratteristiche oggettive, strutturali, di
valutarne la qualità.
Un tempo le percezioni si basavano essenzialmente sull’uso di un solo senso: il
cibo era valutato con il gusto, l’abito dalla vista, il tessuto dal tatto, una canzone
31
La tribù può nascere intorno a una marca, a un prodotto, a un punto vendita o a un personaggio
ed è costituita, ad esempio, dai possessori di una Harley-Davidson o di un’auto d’epoca, ma anche
dal cosiddetto mondo gay, dagli skateboarders, dai fan club di un divo e dagli utenti Internet (che
danno luogo alle comunità virtuali): in ognuno di questi casi il senso di appartenenza ha una
coloritura emotiva che influenza profondamente il modo di vivere e di consumare dei membri.
32
Sempre con riferimento al fenomeno del consumo, più recentemente Codeluppi (2007) ha
parlato di progressiva “vetrinizzazione” della vita quotidiana: a partire dal Settecento la
vetrinizzazione ha riguardato ogni aspetto della vita sociale, dalla percezione del sé nel rapporto
con il proprio corpo (ad esempio nell’attenzione, a volte ossessiva, per la forma fisica e la cura
estetica), all’ostentazione della vita privata (pensiamo ai reality show), fino alla costruzione di città
vetrina come (ad esempio, Celebration di Disney in California), per arrivare al modo di
relazionarsi con la morte (vissuta come “ultima vetrina” e in quanto tale spettacolo da consumare o
evento da costruire e pianificare nei dettagli). La vetrinizzazione può essere collegata quindi al
progressivo spettacolarizzarsi della vita quotidiana, che prende avvio a partire dalle tecniche di
promozione e messa in vendita delle merci.
105
dall’udito, un profumo dall’olfatto La valutazione sensoriale era comunque
sempre subordinata al giudizio razionale. Ora, invece, sembra prendere il
sopravvento una cultura che mobilita il ricorso ai sensi nella loro totalità33 ai fini
di comprendere in modo completo e autentico il mondo che ci circonda.
Sono i recettori sensoriali che ci consentono di rapportarci con l’esterno, di
trasformare le qualità sensibili di un oggetto trasmesso al cervello in informazioni
e emozioni: ogni senso interroga il mondo con cui viene a contatto, ricavandone le
informazioni e poi mediandole con quelle percepite dagli altri sensi.
Fabris (2003) definisce questa nuova importanza dedicata ai sensi come
“polisensualismo”: esso si esplicita con un’acuita attenzione ai proprio sensi34 e
con una fruizione delle merci diversa dalla mera valenza funzionale. Il
polisensualismo diviene una modalità di approccio sensitivo alla realtà,
complementare all’approccio razionale.
La mobilitazione dei sensi si sviluppa contestualmente alla valorizzazione dei
sentimenti, all’irrompere del ruolo delle emozioni nella cultura e nei mercati.
La prevalenza della dimensione intangibile, valoriale e simbolica dei prodotti è
legata al fatto che sono soprattutto i desideri a guidare gli individui nelle loro
33
Occorre enfatizzare il rilievo dei sensi nella loro globalità, non solo della vista, che è stata da
sempre l’organo privilegiato su tutti, la dimensione della sensorialità sin quasi a detenerne un
monopolio.
34
Il ricorso ai sensi contente una sorta di penetrazione di congiunzione a distanza con l’oggetto
annullandone i confini. Greimas (1998) sostiene che “il tatto è qualcosa in più di ciò che l’estetica
classica gli riconosce (capacità di esplorazione dello spazio e apprensione dei volumi): esso di
situa tra gli ordini sensoriali più profondi, esprime prossemicamente l’intimità ottimale e
manifesta, sul piano cognitivo, la volontà di una congiunzione totale.”.
106
scelte di consumo: nella società contemporanea i bisogni sono già stati in larga
misura soddisfatti, mentre lo stesso desiderio, svincolato da un bisogno specifico,
può essere soddisfatto in molti modi diversi35 (Fabris 2003).
I desideri sono strettamente collegati alle emozioni, che assumono una rilevanza
crescente nelle scelte d’acquisto. La ricerca di emozioni da parte del consumatore
ha portato numerose marche a valorizzare la componente “soft” nel loro mix di
comunicazione, ora proponendo spot pubblicitari dove sono i sentimenti e le
sensazioni a orientare la narrazione e gli effetti comunicativi, ora creando
atmosfere sul punto vendita o sul sito web, ora puntando sull’emotional design. Si
tenta di dialogare con il lato meno razionale del consumatore perché si riscontra
nel vivere sociale un inedito protagonismo delle emozioni (Fabris 2003), nel senso
che “sempre più ci affidiamo alle emozioni nelle relazioni con gli altri, per
valutare quello che abbiamo intorno, per indirizzare i nostri comportamenti”
(Fabris & Minestroni 2004); per questo nelle strategie di branding si mira a
coinvolgere il target puntando sull’immaginazione, sulle esperienze, sulle passioni
e sulla sensorialità.
35
Può capitare così che la competizione tra prodotti esuli dallo specifico ambito merceologico in
cui era inizialmente confinata: una scatola di cioccolatini, se il desiderio è quello di concedersi un
piccolo premio, può competere non solo con le altre marche di cioccolatini in commercio, ma
anche con una cravatta, con un CD, con un massaggio o con una vacanza. Alla necessità di
soddisfare il prima possibile un bisogno subentra così la differibilità dei desideri: il bisogno, in
genere legato alla materialità, deve essere soddisfatto, mentre il desiderio, legato all’immaterialità,
al sogno, può anche non esserlo, ma è fondamentale nel determinare la scelta.
107
Si afferma quindi una nuova concezione di marketing, definito come marketing
aesthetics36, con la quale si intende una nuova concezione che sottende una
costante interazione di fantasie, emozioni, sensorialità, racchiusi in un’unica
visione esperienziale.
Schmitt e Simonson (1997) intendono per marketing estetico “il marketing delle
esperienze sensoriali nella attività di corporate o brand che contribuiscano a
formare l’identità di una organizzazione o di una marca”. Centrale nel marketing
estetico è il riferimento alla globalità dell’esperienza sensoriale ed emozionale.
Il richiamo al mondo delle sensazioni tattili, del suono, dell’odore e della globalità
delle percezioni sensoriali è evidente anche nella comunicazione pubblicitaria,
dove spesso si cerca di stimolare i sensi nella loro totalità: basti pensare al settore
dei profumi dove l’odorato, senso principalmente coinvolto nella fruizione di
questo tipo di prodotto, si accompagna alla vista, alla tattilità; ma anche ad alcuni
prodotti alimentari, dove il gusto, l’olfatto, la vista entrano in gioco in maniera
paritaria per dialogare con il consumatore.
36
Nel dispiegarsi della storia, Morra (1992) individua il susseguirsi di quattro tipi antropologici.
Tutto è iniziato dall’homo sapiens, seguito poi all’homo religious, che coniuga la vita terrena con
quella trascendente, e dall’homo faber, improntato ad una razionalità strumentale e alla
rivendicazione dell’autonomia dell’agire. Si giunti infine all’ultimo stadio dell’evoluzione
antropologica con l’emergere dell’homo ludens (Huinzinga, 1946) che caratterizza la
postmodernità. Secondo Maffesoli (1985) invece dopo l’homo politicus e l’homo oeconomicus, ora
sarebbe l’era dell’homo aestheticus.
108
II.3.3. L’evoluzione della relazione con il consumatore
Come è stato ampiamente analizzato nel paragrafo precedente, quella descritta da
Fabris (2003), è una realtà fluida, nella quale i prodotti si dematerializzano, i
desideri prendono il sopravvento sui bisogni, la sfera emotiva e il polisensoriale
diventano le modalità più significative di approccio con il mondo esterno. Una
realtà totalmente dematerializzata e mediatizzata con il conseguente primato dello
stile da parte di un soggetto debole e narcisistico, che si serve del consumo come
mezzo estetizzante per esprimere il proprio io.
Nella complessa società postmoderna, le sfide tra i prodotti lasciano il posto alle
sfide tra i significati, i messaggi, le percezioni intorno ai prodotti (Semprini, 2003)
ed entra in gioco il concetto di “esperienza”, che assume una rilevanza particolare
sia dal punto di vista dell’impresa, soprattutto dell’uomo di marketing che pensa a
delle strategie per ottenere consensi in ambito economico commerciale, sia da
quello dell’analista che cerca strumenti efficaci per comprendere i comportamenti
di consumo.
Il passaggio che sposta l’attenzione dal prodotto materiale e funzionale alla
condivisione di conoscenza, trasforma il consumo in un processo anch’esso
immateriale, dove la trasmissione di significati simbolici esercita un ruolo
determinante rispetto al bene o servizio in sé (Holbrook, 1999; Pine & Gilmore,
1999; Schmitt, 1999): il valore dello scambio all’interno della filiera viene a
109
dipendere dall’esperienza che il processo di acquisto e di consumo aiuta a
realizzare (Addis & Hoolbrook, 2001; Addis, 2005).
La gestione della complessità che ne discende al fine di elaborare nuove
proposizioni di valore per l’impresa deve quindi consentire di valorizzare
l’esperienza individuale e immergere ciascuno in un circuito di nuovi significati,
idee, emozioni e valenze immateriali (Barile, Busacca, & Costabile, 2001; Addis,
2005): è quindi sul terreno della differenziazione simbolica del sistema di offerta
dei prodotti e servizi che si gioca oggi, in molti casi, la sostenibilità del vantaggio
competitivo d’impresa (Prahalad & Ramaswamy, 2003).
Il nodo teorico alla base di tale possibile ampliamento delle prospettive del
marketing è il riconoscimento della natura semiotica37 della “merce”.
Alla luce di tale prospettiva, il marketing non può concepire correttamente
consumatore come mero destinatario e punto d’arrivo (the end user); al contrario,
compito del marketing è instaurare relazioni stabili e collaborative, attivando un
ciclo continuo e interattivo, che coinvolge domanda e offerta, di produzione e riproduzione di significati e valori. E anziché la comprensione a priori del
consumatore, sembra cruciale la costruzione congiunta di significati di modo che
il marketing deve riorganizzarsi all’interno delle aziende così da divenire “un co-
37
Nell’analogia evidenziata consumo/sistema complesso di significazione emerge la pertinenza
della semiotica per il marketing e per la comprensione dei significati simbolici del consumo e delle
connesse dinamiche comportamentali.
110
gestore dei processi evolutivi, liberi e dotati di una propria dinamica, dei
consumatori” (Gerken, 1990).
Il consumatore diventa co-creatore, co-produttore del sistema d’offerta di cui è
egli stesso fruitore (Prahalad & Ramanswamy, 2000; Bendapudi & Leone, 2003;
Vargo & Lush, 2004): la ricerca di benefici di tipo emotivo, simbolico ed
esperenziale, infatti, configura nuove modalità di fruizione dell’offerta che non
riguardano più prodotti e/o servizi, ma la costruzione di esperienze contestuali che
definiscono il valore creato per il cliente (Pine & Gilmore, 1999; Day, 2003). Tale
dimensione del valore si realizza con la personalizzazione dell’esperienza di cocreazione del valore da parte delle imprese (Prahalad & Ramanswamy, 2004) in
tutte le occasioni di interazione (touch point) tra le parti.
La passività e la subordinazione al mondo della produzione viene sostituita,
infatti, dalla richiesta di un ruolo più dialettico, di maggiore autonomia, di
dialogo. Di un’interattività reale di un rapporto che accanto al tradizionale topdown preveda anche flussi bottom-up e continui feedback ed una circolarità del
rapporto.
Infatti, ciò che il consumatore rifiuta oggi è il ruolo di passività nel flusso
comunicativo con l’impresa: tradizionalmente, il cliente era mero destinatario di
una vasta attività di marketing da parte delle aziende e costantemente
impossibilitato ad intavolare qualsiasi forma di dialogo. Sempre comunque
oggetto della comunicazione, mai soggetto. Impotente nei confronti di una
111
produzione che fabbrica i suoi prodotti cercando di interpretare le sue esigenze,
ma in realtà imponendo la propria interpretazione dei suoi bisogni e desideri.
Di fatto, quindi, il rapporto tra azienda e consumatore è sempre stato
sostanzialmente autoritario, di certo non simmetrico o dialettico. Le ragioni di
questo approccio si possono semplicemente trovare nell’inefficacia e inefficienza
dei canali del feedback, spesso lenti, costosi e non diffusi su larga scala.
In questo contesto, le nuove tecnologie hanno svolto un ruolo cruciale: in termini
potenziali, hanno ribaltato il rapporto impersonale tra azienda e cliente
trasformandolo in una vera e propria relazione biunivoca. La comunicazione con
il consumatore fa ora riferimento alla sua vera definizione, ovvero ad un processo
di circolarità che prevede feedback continui e la possibilità di una risposta reale.
In questo senso, il rapporto tra consumatore e azienda tende ad assomigliare a
quello che si registra nel settore business-to-business, dove la relazione è
tendenzialmente simmetrica, gli attori si conoscono e impostano la relazione sulla
fiducia reciproca.
Il consumatore diviene dunque soggetto di una relazione da instaurare e coltivare:
è possibile conoscere i suoi bisogni, preferenze, interessi, stili di vita ed adattare a
questi un flusso di informazioni e di servizio, così da instaurare una relazione
personalizzata orientata a trasformare una transazione occasionale in una relazione
di lunga durata. In altre parole, si vengono a creare i presupposti per
112
un’intelligente operazione di fidelizzazione, che in mercati tendenzialmente saturi
rappresenta il più importante fattore di successo.
L’obiettivo dell’impresa diventa quello di massimizzare l’attenzione al cliente,
confezionando un servizio globale, un bundle of benefits che esalta la
personalizzazione, struttura offerte ampie e flessibili, privilegia il rapporto diretto
tra azienda e cliente secondo una logica di partnership e consulenza costante
(Rullani, 2006).
In conclusione, il passaggio logico descritto da una prospettiva relazionale
domanda/offerta incentrata sull’impresa alla prospettiva esperenziale basata sul
cliente si basa su alcuni importanti assunti di fondo (Prahalad & Ramanswamy,
2004):
1. l’interazione consumatore-impresa è l’ambiente specifico in cui si crea il
valore;
2. l’esperienza di co-creazione individuale è la principale base del valore
presente in impresa;
3. i canali multipli o punti di interazione impresa-cliente sono le vie
d’accesso all’esperienza;
4. l’infrastruttura dell’impresa deve saper sostenere la co-creazione di
esperienze eterogenee;
113
5. la rete estesa, che comprende l’intera comunità di consumatori con cui
interagisce l’impresa, è la sede dove si formano le competenze distintive
correlate alla gestione delle relazioni con i clienti (Day, 2003).
La tabella sottostante (Tabella II.3.3-1) riassume i cambiamenti avvenuti a livello
di consumatore e le ripercussioni a livello manageriale.
114
115
Fonte: Prahalad & Ramaswamy, 2000.
Database marketing;
two-way connection.
Relationship marketing;
two-way communication
and access.
Active dialogue with customers to shape
expectations and create buzz. Multilevel
access and communication.
Customers are codevelopers of personalized
experiences. Companies and lead customers
have joint roles in education, shaping
expectations and cocreating market
acceptance for products and services.
Gain access to and target
predetermined groups of
buyers. One-way
communication.
Providing for customers
trough observation of
users; identify solutions
from lead users and
reconfigure products and
services based on deep
understanding of
customers.
Shift from a selling to
helping customers via
help desks, call centers
and customer service
programs; identify
problems from
customers, then redesign
products and services
based on the feedback.
Purpose and flow
of communication
Company’s
interaction with
customers, and
development of
products and
services
The customer is not only an individual but
also part of an emergent social and cultural
fabric.
The customer is a
person; cultivate trust
and relationships.
The costumer is an
average statistic; groups of
buyers are predetermined
by the company.
Traditional market
research and inquiries;
products and services are
created without much
feedback.
Managerial mindset
The customer is an
individual statistic in a
transaction.
Customers are part of the enhanced
network; they cocreate and extract business
value. They are collaborators, codevelopers
and competitors.
Customers are seen as passive with a predetermined role of consumption.
Beyond 2000
Nature of business
exchange and role
of customer
1990s
Late 1980s and early
1990s
Customers as cocreators of value
1970s, early 1980s
Lifetime bonds with
individual customers
Transacting with
individual buyers
CUSTOMER AS A ACTIVE PALYERS
Time frame
Persuading
predetermined group of
buyer
CUSTOMER AS A PASSIVE AUDIENCE
Tabella II.3.3-1. The evolution and transformation of customers
II.3.4. Rifondare la relazione con il consumatore: la gestione delle
relazioni
La crescente complessità emergente dal lato della domanda e la conseguente
evoluzione dei rapporti con il consumatore in ottica relazionale mettono sempre
più spesso in evidenza l’inadeguatezza dei consueti modelli di impostazione
positivista di cui è espressione il tradizionale processo di marketing management,
che vede il consumatore, da una parte “sovrano”38, ma dall’altra, “oggetto”
dell’azione di mercato dell’impresa pressoché passivo, sostanzialmente stabile
poiché dotato di una forte coerenza interna, quindi conoscibile a priori.
Le tendenze contestuali descritte in precedenza, e dunque la ricerca estremizzata
di simboli, identità, emozioni ed esperienze da parte del consumatore, sta
determinando la transizione da una definizione paradigmatica delle categorie di
prodotto a una di tipo sintagmatico, propedeutica alla definizione di una
differenziazione che consideri i rituali e le stringhe di consumo, quali elementi
cardine nella generazione dell’offerta (Castaldo & Bertozzi, 2000). Tale
trasversalità dei contenuti simbolici associati ai prodotti sfocia nel tentativo di
proporre veri e propri “sistemi di consumo”, connotati da forti valenze emozionali
ed esperienziali, individuali e sociali (Cova, 2002; Golinelli, 2002); le imprese, in
tal modo, possono generare un’offerta unica oltre che personalizzata, il cui valore
38
“There is one valid definition of business purpose: to create a satisfied customer” (Drucker,
1954).
116
totale è superiore alla somma dei singoli componenti, proprio in virtù delle
valenze contestuali ed emotive.
A fronte di tale tendenza, le imprese hanno colto le potenzialità delle Information
& Communication Technology prima, e degli ambienti digitali poi, per rendere
progressivamente più flessibili sia i processi produttivi (Valdani & Dosi, 1995;
Pine, 1993; Womack, Jones & Ross, 1990) sia quelli comunicativi (Wind &
Rangaswamy, 2000), ponendo le basi per la personalizzazione dinamica
dell’offerta.
L’estrema soggettività che caratterizza i comportamenti di consumo rende non più
conveniente procedere seguendo percorsi convenzionali di analisi della domanda,
e, di conseguenza, progettazione dell’offerta. E’ più efficace interagire con i
clienti mediante sperimentazioni e sistematiche inversioni nel processo di
produzione del valore d’uso, limitandosi a governare al meglio la relazione e
percezione del valore di scambio.
In questi mercati, risulta fondamentale riuscire a mettere in atto le cosiddette
“strategie duali”, ovvia la contemporanea attenzione alla gestione del presente e
della predisposizione allo sviluppo futuro. L’impresa dovrebbe infatti concentrare
i propri sforzi di marketing sui clienti attuali e fedeli per catturare il maggior
potenziale generativo di conoscenze e innovazioni39, così da costruire una fonte di
39
A tal proposito risultano particolarmente utili gli studi che si sono focalizzati sul ruolo e le
caratteristiche degli utenti innovatori, nonché sui modelli utilizzabili per la loro identificazione e
117
conoscenza specialistica da integrare nel processo di sviluppo dei nuovi prodotti,
in grado di contribuire a generare nuove idee circa gli attributi di prodotto o il suo
design. Mediante la collaborazioni con i propri consumatori è possibile cogliere il
nascere di desideri ancora latenti sia nei segmenti di mercati più ampi, sia nei
segmenti ritardatari nel processo di adozione delle innovazioni. Grazie alle
conoscenze così generate, l’impresa può affrontare la competizione nei mercati
futuri, anticipandone e guidandone l’evoluzione in una logica market driven
(Valdani, 1995).
Lo sviluppo di relazione solide e leali con i clienti e il potenziamento delle
capacità di gestione del portafoglio relazioni si impongono come le uniche scelte
in grado di attivare processi di apprendimento esplicito e implicito, percorsi di
crescita della competitività e del valore delle opzioni di sviluppo di impresa.
Il potenziale di apprendimento, in particolare, deriva dalle relazioni che mediante
condivisione di conoscenze consentono di attivare flussi informativi sulle
preferenze dei clienti e di incidere sulle competenze organizzative (Selnes &
Sallis, 1999; Ostillio & Troilo, 2000).
selezione. In particolare, Von Hippel (1986) ha portato all’introduzione e al successivo
affinamento del costrutto di lead user. Il lead user è quel cliente (utilizzatore industriale, utente o
consumatore) che, in ragione dell’esperienza pratica nell’uso del prodotto e della capacità di
analisi prospettica, riesce a dare rappresentazione al bisogno esplicito di un prodotto innovativo in
anticipo rispetto al resto del mercato. L’Autore sostiene: “I define lead users of a novel or
enhanced product, process or service as those who display two characteristics with respect to it:
- lead users face needs that will be general in a market place - but face them months or years
before the bulk of that marketplace encounters them;
- lead users are positioned to benefit significantly by obtaining a solution to those needs”.
118
L’apprendimento relazionale è guidato dalla volontà combinata, sia del cliente sia
dell’impresa, di condividere informazioni e darne loro un senso (Troilo, 2000).
Anderson e Narus (1990) hanno individuato un ciclo di apprendimento nella
relazione; il modello prevede diverse fasi: dall’acquisizione all’interpretazione,
all’integrazione di linguaggi e significati, al conseguente cambiamento di
atteggiamenti e comportamenti quale output ed evidenza dell’avvenuto
apprendimento. Già in precedenza, Levitt e March (1988) avevano evidenziato
che più lunga è la relazione, più è elevata la probabilità che catene cognitive e
processi di categorizzazione siano simili compatibili, rendendo più efficace e più
efficiente l’apprendimento relazionale. Gli stessi autori hanno sostenuto che
fiducia e mutualità, di comportamenti e obiettivi, costituiscono variabili di
influenza dei processi di apprendimento40.
In particolare, Prandelli e von Krogh (1999) hanno sottolineato il valore
fondamentale della conoscenza tacita dei clienti. Basandosi sulla nota
classificazione della conoscenza di Polanyi (1968) e Nonaka (1991), i due Autori
sostengono che il vantaggio competitivo si fonderà sempre più sulla capacità di
convertire la conoscenza tacita in esplicita e sulle opportunità di socializzazione
della conoscenza tra cliente-cliente e tra cliente-impresa: sia la conversione sia la
40
Nuova enfasi sul ruolo dell’apprendimento dai clienti, come fonte di vantaggio competitivo, è
stata di recente posta dalla letteratura sulle comunità virtuali di consumo (Micelli, 1997; Sawhney
& Prandelli, 2000).
119
socializzazione richiedono la presenza di relazione collaborative e di lungo
periodo.
Al fine di accumulare tali conoscenze, diviene fondamentale lo studio della
domanda e in particolare di modelli che consentano di descrivere, interpretare e
gestire la relazione con i clienti nelle sue dimensioni cognitive e comportamentali.
L’importanza attribuita ai processi di gestione delle relazioni è testimoniata dai
crescenti investimenti in ricerche a sostegno del customer relationship
management41.
Nel corso degli anni, il budget dedicato a ricerche sui clienti (customer
satisfaction survey, analisi pre-lancio del prodotto, post-consumption research e
così via) ha superato ampiamente il 30% del totale degli investimenti delle
imprese in ricerche di mercato (Oliver, 1999). Allo stesso tempo, sono sempre di
più le imprese che stanno aumentando i loro investimenti di marketing su obiettivi
di consolidamento e di sviluppo della relazione con la customer base, invece che
sui convenzionali target di aumento del portafoglio clienti42.
41
Kumar and Reinartz (2006) definiscono il CRM (customer relationship management) come
segue: “CRM is the strategic process of selecting the customers a firm can most profitably serve
and of shaping the interactions between a company and these customers. The goal is to optimize
the current and future value of the customers for the company.”. E’ importante sottolineare che il
CRM non indica solo le soluzioni informatiche a supporto delle politiche di customer care, ma al
contrario individuano un complesso sistema di competenze, specialiste e architetturali, che
consentono di dispiegare le capacità relazionali dell’impresa.
42
Già da tempo, le imprese si sono poste il problema di valutare separatamente gli investimenti per
l’acquisizione e quelli per il consolidamento della base clienti. In particolare emerge con forza il
concetto di valore del cliente, presente in letteratura nelle sue varie forme e declinazioni (value of
the customer, Lifetime value-LTV, customer value o customer equity). Si fa riferimento alla
capacità dell’impresa di definire e monitorare il valore economico della base dei propri clienti nel
120
Con il passaggio dall’orientamento transazionale alla strategia relazionale, le
finalità del marketing e i modelli di analisi della domanda devono anch’essi
adottare una prospettiva relazionale, spostando la focalizzazione dal consumatore
al cliente.
Nonostante i segnali forti verso una svolta relazionale, nella letteratura in tema di
analisi della domanda manca una chiara sistematizzazione che consenta di guidare
e sostenere le scelte relazionali delle imprese43. Molti modelli di customer
behaviour, ad esempio, non approfondiscono le complesse dinamiche del
comportamento del cliente nel corso del ciclo di vita della sua relazione con
l’impresa, ma si limita a descrivere il sistema valutativo post-acquisto come
l’insieme delle percezioni da cui ha origine il flusso di retroazione sul sistema
motivante e su quello percettivo, interpretando il processo di feedback
esclusivamente sulla base del costrutto “soddisfazione/insoddisfazione” per
l’esperienza d’uso del prodotto (Costabile, 1996).
ciclo di vita della relazione, attraverso la configurazione di specifici indici di misurazione. Per
Rust, Zeithaml e Lemon (2004), ad esempio, la definizione e il monitoraggio del valore della vita
utile dei propri clienti (Lifetime value of the customer) deriva dall’analisi sistemica dei seguenti
fattori: 1. il periodo temporale di riferimento dell’analisi; 2. il tasso di attualizzazione (o costo del
capitale) applicato agli investimenti dell’impresa; 3. la frequenza d’acquisto dei consumatori in
ogni periodo considerato, con riferimento alla/e categoria/e di prodotto/i analizzata/e; 4. il tasso di
contribuzione medio legato agli acquisti di ogni categoria di prodotto; 5. le preferenze di marca più
recenti espresse dai consumatori clienti dell’impresa; 6. la stima della probabilità di scelta di
ciascun brand in caso di riacquisto effettuato da parte dei clienti dell’impresa.
43
La carenza di modelli teorici condivisi sul comportamento del cliente viene evidenziata da
Iacobucci et al. (1992); questa carenza permane nonostante i consistenti sviluppi d’indagine sulle
determinanti della customer satisfaction e del comportamento post acquisto a partire dalla seconda
metà degli anni settanta e nonostante le numerose ricerche registrate a partire dai primi anni ottanta
e proseguite poi per tutto il decennio successivo.
121
Nel filone di studio sul customer behaviour sono presenti numerosi costrutti e
relazioni tra i diversi costrutti. I principali riferimenti teorici e empirici possono
essere classificati nel seguente modo (Costabile, 2001):
-
i risultati degli studi sulla customer satisfaction, sulle sue determintnati e sulle
sue conseguenze (Iacobucci, Grayson, & Omstrom, 1992; Oliver, 1999);
-
i modelli sulla fiducia e le verifiche che ne hanno accertato la dimensione
cognitiva definita dall’affidabilità percepita, nonché dagli studi che hanno
determinato il suo legame con la propensione al riacquisto e al
consolidamento della relazione (Bitner, 1995);
-
gli studi del ciclo di vita della relazione e delle sue diverse forme di fedeltà,
che nella sua configurazione di base si presenta come semplice ripetizione
d’acquisto, ma che qualora sia basata su atteggiamenti favorevoli all’impresa
diviene vera fedeltà, ovvero fedeltà sia mentale sia comportamentale
(Busacca & Castaldo, 1996);
-
gli studi sull’equità, soprattutto quelli che hanno collegato l’equità percepita e
la reciprocità con la disponibilità a collaborare (Ganesan, 1994);
-
le sperimentazioni sulla sensibilità verso la maggiore o minore correttezza
delle ragioni di scambio e quindi sulla percezione di equità che determina la
soddisfazione, in funzione della maggiore o minor frequenza di rapporti del
cliente con l’impresa (Huppertz, Arenson, & Evans, 1978).
122
In una prospettiva dinamica, un possibile modello concettuale dei processi di
gestione delle relazioni con i clienti e finalizzati alla massimizzazione del valore
delle stesse è descritto nella figura II.3.4-1 (Cantone, 1996). Nel modello si
sviluppa lungo due dimensioni:
1.
le fasi evolutive delle relazioni con i clienti: identification, acquisition,
retention, development;
2.
le determinanti del valore della relazioni con i clienti: knowledge, experience,
satisfaction, loyalty.
Figura II.3.4-1. Un modello di analisi del valore delle relazioni con i clienti
Fonte: Catone (1996)
123
La prima fase evolutiva considerata nel modello è quella dell’identificazione del
cliente. In questo stadio della relazione, l’obiettivo primario dell’impresa è la
conoscenza profonda dell’identità del singolo consumatore, accumulando,
integrando ed analizzando tutte le informazioni raccolte nelle varie occasioni di
contatto che egli ha con l’impresa44.
La
seconda
fase
evolutiva
delle
relazioni
impresa-cliente
è
quella
dell’acquisizione del cliente. L’obiettivo dell’impresa in tale fase dovrà essere da
un lato la realizzazione di proposte di valore differenziate, in base alle differenti
caratteristiche di diversi consumatori, dall’altro la minimizzazione dei costi di
acquisizione di ogni cliente (Wayland & Cole, 1997). Il fine di tale processo,
naturalmente, è la massimizzazione del ritorno sugli investimenti effettuati nella
costruzione delle relazioni con i clienti. È questo il primo stadio in cui si presenta
uno scambio di valore tra i due soggetti, misurato in base al vissuto esperienziale,
ovvero dalla complessiva customer experience lungo l’intero processo di acquisto
e consumo.
La terza fase evolutiva delle relazioni è quella del mantenimento del cliente. Le
strategie di mantenimento del cliente fanno riferimento alla capacità dell’impresa
44 Tale processo di customer knowledge management permette l’innescarsi del processo di
apprendimento e di adattamento reciproco esistente nell’ambito di una relazione impresa-cliente.
L’apprendimento non è tanto costituito dalla memorizzazione ma dalla costruzione e dall’utilizzo
di conoscenza su di esso da parte dell’organizzazione: un’organizzazione tesa a generare valore
(Valdani & Busacca, 1999).
124
di sviluppare e guidare i comportamenti di riacquisto dell’offerta, attraverso lo
sviluppo della soddisfazione del cliente.
Infine, la quarta fase evolutiva delle relazioni impresa-cliente è quella dello
sviluppo: in questo stadio il cliente assume una connotazione di enorme
importanza strategica per l’impresa. L’accumulazione di fiducia del cliente nei
confronti dell’impresa ha manifestato il suo valore mediante: la partecipazione del
cliente all’esperienza di scelta, di acquisto e consumo dell’offerta; un livello di
soddisfazione percepita tale da guidare lo stesso cliente al riacquisto consapevole
dell’offerta, tipico di comportamenti fedeli e leali (Costabile, 2001).
La sviluppo temporale delle relazioni con i clienti non deve essere considerata
nella sua specifica sequenzialità: naturalmente è possibile che alcune relazioni
seguano percorsi diversi o che alcune fasi possono ripetersi anche in momenti
successive e/o precedenti.
La potenzialità del modello è invece nell’analisi sistemica delle relazioni con i
clienti che consente di definire il concetto di valore delle relazioni nella sua
dimensione longitudinale e, ancor più importante, di utilizzare approcci manageriali
differenti in ogni fase della relazione.
125
II.4.
L’analisi relazionale della domanda intermedia: i canali
distributivi
L’impresa industriale, per collocare sul mercato i propri prodotti ed assicurarsi
così un adeguato livello di redditività, deve ottenere il favore dei consumatori,
orientando le scelte degli users attuali e potenziali del prodotto e cercando di
mantenere alti livelli di customer satisfaction. Nel far questo, però, oltre a
competere con i propri concorrenti, l’impresa industriale deve misurarsi con
alcuni caratteri strutturali dei mercati di sbocco.
Nella maggior parte dei mercati, la lontananza fisica e/o psicologica tra produttori
e consumatori rende necessario il ricorso ad intermediari per permettere un
incontro efficiente tra domanda e offerta e colmare questa distanza45 spaziale e
temporale.
Ciò provoca, in definitiva, il sorgere nell’ambito dei mercati di sbocco di una
seconda categoria di relazioni, accanto a quelle con i consumatori finali: si tratta
delle relazioni con i distributori, i quali nella maggior parte dei casi si pongono
come interlocutori diretti del produttore nella realizzazione di transazioni
45
“Questa distanza si è ampliata nel tempo, in relazione al divenire delle scelte organizzative delle
imprese industriali e delle esigenze avvertite dai clienti finali. Da una parte, infatti, l’impresa
industriale ha percorso le vie della specializzazione produttiva e della riduzione della varietà dei
prodotti, dall’altra, il consumatore ha allargato il proprio ventaglio di richieste in relazione al
progredire dei processi di crescita economica”. (Baccarini, 1997)
126
commerciali46. Infatti, un canale di distribuzione può essere individuato come
un’insieme di imprese che svolgono il complesso di attività necessarie per
trasferire il prodotto (bene fisico o servizio) e il relativo titolo di proprietà dal
produttore al consumatore, generando un flusso fisico, di titolo, di pagamento, di
informazioni e promozionale.
In un questo quadro, il rapporto dell’impresa industriale con il consumatore è
tutt’altro che diretto, richiedendo anzi consistenti sforzi per essere prima creato e
poi mantenuto. Dunque, la capacità dell’impresa industriale di influenzare la
domanda viene sempre, in qualche misura, influenzata dalle scelte e dall’agire
delle imprese della distribuzione, che ormai da tempo anche in Italia non sono più
un fattore neutrale rispetto alle politiche dell’industria. Anzi, Il distribuzione si
trasforma in intermediario attivo in grado di perseguire sviluppare strategie
autonome per acquisire e conservare la propria clientela anche tramite strumenti,
come la marca, di tradizionale appannaggio delle imprese industriali. La quasi
totalità delle imprese della grande distribuzione, infatti, hanno sviluppato
sofisticate politiche di marca e gestiscono portafogli di private label che
46
In diversi casi la situazione è ancora più complessa: spesso il consumatore non è nemmeno
l’interlocutore commerciale diretto del distributore, perché la divisione dei ruoli all’interno della
famiglia individua uno o più responsabili d’acquisto, che sono coloro che effettuano la scelta di
punto vendita (dove acquistare) e in alcuni casi anche di prodotto (cosa acquistare). Un ulteriore
fattore di complessità che riguarda il processo di acquisto del consumatore è il concetto di
influenzatore, intendendo con ciò riferirsi a soggetti che possono in qualche modo intervenire nella
fase di raccolta delle informazioni o di valutazione delle alternative.
127
continuano ad acquisire spazio sugli scaffali e quote di mercato, anche a discapito
delle marche industriali leader.
Inoltre, non sono da sottovalutare i tentativi compiuti dalle più dinamiche imprese
commerciali per valorizzare appieno la loro vicinanza con l’acquirenteconsumatore, facendosi carico dell’interpretazione dei bisogni del mercato e
riservando all’industria un ruolo di mero produttore (Pellegrini, 1998).
In sintesi, la complessità delle relazioni con i mercati di sbocco deriva sia
dall’agire di numerosi soggetti, portatori di logiche e priorità diverse sia dal loro
essere in continua evoluzione, il che continuamente modifica le posizioni di forza
(Rullani, 1989).
Al fine di valutare tali prospettive evolutive, può diventare utile approfondire
anche le determinanti del cambiamento ambientale che hanno reso obsoleto
l’approccio transazionale utilizzato per descrivere i rapporti industriadistribuzione.
II.4.1. I cambiamenti interni ed esterni al settore distributivo
Il rinnovamento del settore distributivo deriva anche da cambiamenti avvenuti
nell’ambiente interno ed esterno che portano all’evoluzione delle relazioni nel
settore distributivo. Le relazioni tra produttori e distributori non sono statiche nel
128
tempo, ma estremamente dinamiche: in particolare, si assiste alla modifica dei
rapporti di forza tra industria-distribuzione, sempre più a favore della
distribuzione.
Nelle economie più avanzate, il ruolo dei distributori è evoluto profondamente
passando da una mera intermediazione passiva ad una posizione imprenditoriale
attiva, che hanno determinato radicali innovazioni nelle politiche di impresa.
L’evoluzione del ruolo del distributore è essenzialmente funzione delle condizioni
competitive preesistenti nel mercato (Carlisle & Parker, 1989): nelle situazioni di
mercato in cui la domanda è quantitativamente superiore all’offerta (economie di
scarsità) il ruolo dei distributori è passivo, in quanto la capacità produttiva è
mantenuta al di sotto della domanda totale; al contrario, in situazioni competitive
contraddistinte da un sostanziale equilibrio tra la domanda e l’offerta, la
distribuzione mostra una certa apertura verso il cliente, assumendo un ruolo
attivo; in condizioni competitive di domanda quantitativamente inferiore
all’offerta (economia di eccesso), si determina un ruolo competitivo dei
distributori nei confronti dei produttori e dei distributori (Gnecchi, 2002).
In questa ultima fase, nelle relazioni tra industria e distribuzione vengono
integrate alcune attività dei produttori con quelle dei distributori e viceversa. Il
distributore aumenta il proprio potere a scapito del produttore, esercitando talvolta
funzioni di produzione. Il rapporto industria-distribuzione diventa così
concorrenziale.
129
Sheth (1983) individua in alcuni cambiamenti dell’ambiente esterno, come i
fattori scatenanti per il rinnovamento del settore distributivo: queste cause, seppur
identificate nel 1983, possono essere riadattate alla situazione attuale, ma
soprattutto possono essere ricondotti ai cambiamenti generali avvenuti nel sistema
economico generale e calati nelle specificità del sistema distributivo. I
cambiamenti ambientali si riferiscono principalmente a tre ordini di fattori:
-
le caratteristiche dei consumatori: in particolare si fa riferimento alla
volatilità dei consumi e all’instabilità della domanda; i gusti cambiano ad
un ritmo molto elevato, i consumatori sono sempre più poliedrici, cercano
benefici più elevati, esigono prodotti che soddisfano un gruppo di bisogni,
si orientano verso nuove funzioni d’uso, sono soggetti attivi ed informati e
seguono schemi di non-fedeltà47; il richiesta fondamentale è, infine, la
ricerca di una risposta da parte dei distributori ai nuovi stili di vita48;
47
“Il concetto di non-fedeltà evidenzia lo stato di acquirenti che di fatto non ripetono i propri
acquisti senza peraltro una specifica avversione alla ripetizione stessa ed è tipico dei mercati in
eccesso d’offerta. Il cliente non fedele è chi si trova ad effettuare acquisti non ripetuti soltanto
perché condizioni contingenti lo inducono a modificare il comportamento di acquisto.
L’acquirente non fedele non ha necessariamente l’esigenza di provare nuove proposte o scoprire
nuovi punti di vendita, quanto piuttosto di soddisfare un bisogno, magari con vincoli di tempo e di
risorse economiche: tende allora ad acquistare un prodotto in promozione, a limitare la scelta
presso il punto vendita più comodo sul suo percorso quando ha tempo, e così via.” (Corniani,
2004).
48
Gli stili di vita vengono declinati in una miriade di variazioni personali in continua evoluzione:
persino all’interno dello stesso individuo si riscontrano tante diverse identità che danno luogo a
scelte e tipologie di consumo diverse. Purtroppo, in Italia la complessità del consumare non
sembra ancora essere stata valorizzata come risorsa. La prassi attuale è quella di ricorrere alla leva
del prezzo nella speranza di incoraggiare una domanda sempre più debole. Si tratta di una reazione
del tutto comprensibile nel breve periodo, ma sicuramente difficile da sostenere nel lungo periodo:
la facilità e la rapidità con cui queste manovre possono essere imitate vanificano la loro efficacia
130
-
la tecnologia: l’avvento di internet ha imposto ai distributori necessarie
modifiche al loro sistema informatico: innanzitutto, si sono introdotte
nuove tecnologie per permettere ai consumatori, ad esempio, di effettuare
gli acquisti online direttamente da casa o di controllare il loro status di
cliente (punti collezionati, sconti accumulati e così via); inoltre si sono
apportati notevoli cambiamenti in alcuni sistemi logistici che hanno
portato ad una maggior efficacia della distribuzione (OSA - Optimal Shelf
Availability, Fast Perfect Order, ecc.); infine, si sono creati nuove
procedure informatiche in grado di raccogliere ed analizzare tutte le
informazioni sui propri clienti;
-
la concorrenza: nei mercati globali si configura uno spazio multidimensionale, per cui un determinato ambito geografico può comportare la
concomitante presenza di diversi competitor; inoltre, le condotte di
concorrenza si sono ulteriormente inasprite a causa della saturazione dei
mercati e in condizioni di competizione basata sul tempo, in cui l’obiettivo
della customer satisfaction si tramuta in una ricerca ossessiva di incroci
innovativi tra vuoti d’offerta e bisogni non soddisfatti della clientela.
Porter (1976), invece, si focalizza prevalentemente sulla struttura e la performance
del settore manifatturiero e sull’influenza del settore distributivo sulle
nel lungo termine e, in ogni modo, in periodi di congiuntura economica negativa non è pensabile
sostenere i consumi solo attraverso una riduzione del prezzo (Lugli, 2005).
131
performance delle imprese industriali. L’analisi di Porter evidenzia che la
concentrazione relativa49 del settore distributivo e, soprattutto, la capacità della
distribuzione di influenzare la differenziazione del prodotto sono le principali
variabili esogene che influenzano le performance dell’industria.
Per quanto riguarda la concentrazione della distribuzione, maggiore è la
concentrazione relativa di un settore, maggiore diventa il suo potere contrattuale.
Secondo Adelman (1959), l’abilità delle imprese distributive di ottenere
concessioni di prezzo dalle imprese manifatturiere dipende dalla struttura del
settore manifatturiero: se il prezzo è superiore al costo marginale allora c’è spazio
per ottenere sconti.
Il potere contrattuale del distributore diventa reale quando si è in presenza di uno
spazio di esposizione limitato negli scaffali. Questa minaccia è asimmetrica: è
molto più potente della corrispondente minaccia dell’impresa manifatturiera di
non fornire il prodotto in quanto il distributore ha a disposizione molte varianti di
prodotto e molte marche per ognuna, il che vuol dire diversi fornitori. Ovviamente
questo rischio diminuisce se l’impresa manifatturiera attua una strategia multicanale, ma questa eventualità sembra perdere peso con l’aumentare del grado di
concentrazione del sistema distributivo (Lago, 2002).
49
Porter (1976) scrive: “per un dato settore manifatturiero, il modello della concentrazione degli
acquirenti suggerisce che quanto più sono grandi e quanto più sono pochi gli acquirenti
commerciali del settore manifatturiero, tanto più grande è il loro potere contrattuale nei confronti
delle imprese manifatturiere”.
132
Per quanto importante, la concentrazione relativa non è l’elemento più importante
dello studio sulla relazione industria-distribuzione. Una fonte di cambiamento più
significativa deriva dalla modernizzazione della distribuzione, ovvero nella
capacità
dell’impresa
di
porre
in
atto
strategie
di
differenziazione
dell’assortimento al fine di mantenere margini più elevati.
La modernizzazione della distribuzione è il processo che muove dallo stadio di
pura distribuzione fisica e controllo dello spazio di vendita allo stadio in cui le
imprese distributive decidono le loro strategie e promuovono la propria marca
(Pellegrini, 1990).
La possibilità del distributore di influenzare la differenziazione del prodotto è una
conseguenza della capacità di raccogliere informazioni riguardanti le preferenze
assortimentali del consumatore finale all’interno del punto vendita. Inoltre, il
distributore può anche esercitare una considerevole influenza nella scelta della
marca da acquistare utilizzando la leva del display e del merchandising.
Un ulteriore elemento di problematicità per l’industria nasce quando le strategie di
marketing della distribuzione non sono in linea con quelle dell’industria,
soprattutto nell’attuale scenario competitivo dove si assiste all’adozione da parte
della grande distribuzione di strategie di segmentazione sempre più raffinate
(consumatore verde, consumatore sensibile ad istanze sociali, ecc…).
Infine, secondo Porter (1976), la struttura del settore distributivo (concentrazione)
e l’abilità di influenzare la differenziazione del prodotto (modernizzazione) hanno
133
un impatto diverso sulle imprese manifatturiere a seconda del tipo di beni che esse
producono.
Il distributore gioca un ruolo più importante nella vendita di prodotti non
convenience50: il suo contributo nella differenziazione di questa categoria di
prodotti è fondamentale, in quanto il consumatore prima di comprare confronta
prezzi, qualità e stile in diversi negozi. Per i prodotti convenience, invece, la
pubblicità è lo strumento principale per affermare il brand: il distributore ha un
ruolo limitato e vi è un’assistenza minima o nulla da parte del personale di
vendita.
In conclusione, l’evoluzione che ha segnato i rapporti industria-distribuzione ha
ridotto drasticamente la distanza che separa le organizzazioni, rendendo più
difficile la possibilità di tracciare confini tra i due sistemi aziendali.
Iniziano a insorgere interdipendenze sempre più forti tra partner commerciali,
dove la dimensione concorrenziale e quella collaborativa tendono a coesistere,
alimentandosi a vicenda e rendendo sempre più complessa l’analisi dei rapporti
all’interno della supply chain.
50
Kotler (1972) definisce i convenience goods come: “those consumers´goods which the customer
usually purchases frequently, immediately and with a minimum of effort in comparison and buying
(examples. Tobacco products, soap, newspapers)”. I non convenience (shopping) goods sono
descritti invece come: “those consumers´goods which the customer, in the process of selection and
purchase, characteristically compares on such bases as suitability, quality, price and style
(examples: furniture, dress goods, used automobiles and major appliances)”.
134
II.4.2. Relazioni di collaborazione nei rapporti distribuzioneindustria
Anche per interpretare le relazioni tra imprese industriali e commerciali la logica
puramente transazionale si manifesta alquanto riduzionista. I modelli tradizionali
del channel marketing, di matrice economica e comportamentistica, non
permettono di cogliere compiutamente la dimensione collaborativa delle relazione
distributive.
Il mercato è costituito in realtà da una fitta rete di relazioni interaziendali, che non
possono essere ricondotte semplicemente a scambi tra flussi di merci e rispettivi
mezzi monetari. Diventa quindi necessario non limitare il campo di analisi al
concetto di scambio, seppure riconoscendo la centralità analitica proposta
nell’ambito delle costruzioni teoriche in campo economico-aziendale, ma di
ampliare i confini dell’analisi, facendo emergere la centralità delle relazioni
interaziendali e le connessioni che si manifestano tra diadi di soggetti
economici51.
Tra industria e distribuzione si determinano, infatti, delle relazioni di lungo
periodo che si caratterizzano per alti livelli di fiducia e di stabilità nel tempo.
51
Airoldi, Brunetti e Coda (1989) sottolineano come lo scambio sia solo una parte elementare del
sistema più articolato di relazioni, che ne determinano l’unitarietà; gli Autori
scrivono:”l’assimilazione, più o meno cosciente, di tutte le relazioni economiche interaziendali a
forme di scambio e l’assunzione dello scambio come indicatore unico dello svolgimento
dell’attività economica portano a nascondere o ad interpretare scorrettamente fenomeni di
grandissima rilevanza. […] Le singole operazioni di scambio sono di regola parte di una relazione
aziendale che le condiziona (le suscita, le vincola) e le compone ad unità relativa.”.
135
La relazione di canale, infatti, si connota in primis come individuale, ovvero tra
distributore e fornitore. I fattori che determinano questa tipologia di relazione
sono molteplici: la dimensione dei clienti, la loro ridotta numerosità (accresciuta
in seguita all’intensificarsi del processo di concentrazione del settore
commerciale), la necessità di fornire supporti di marketing su misura, l’esigenza
sempre più frequente di offrire prodotti personalizzati in base alle esigenze del
singolo intermediario fino alla creazione della propria marca commerciale.
La relazione diventa poi sempre più interattiva (Tabella II.4.2-1): la distribuzione
infatti non solo riceve prodotti, servizi e informazioni dalle imprese a monte, ma
per via della prossimità con i mercati finali è in grado di sviluppare una propria
customer knowledge che una volta a disposizione dei fornitori industriali consente
di migliorare l’offerta e di accrescere il valore per la domanda (Pilotti, Rosolin, &
Rullani, 1986; Pilotti, 1991; Lugli, 1996, 1999; Zanimotto, 1998).
L’intermediario si propone così non solo come canale per veicolare a valle i
contenuti innovativi sviluppati a monte, ma anche quale co-ideatore dell’offerta
industriale, facendo leva proprio sulla sua specifica customer knowledge
(Pellegrini & Zanderighi, 1990).
136
137
Collaborate with partner companies
and with active customers.
Collaborate with partner
companies.
Autonomous
Business-unit autonomy versus
leveraging core competencies.
Value creation
Sources of managerial tension
Fonte: Prahalad & Ramaswamy, 2000.
Harness customer competence,
manage personalized experiences
and shape customer expectations.
Manage collaborative partnership.
Nurture and build competencies
Value added of managers
Customer is both collaborator and
competitor for value.
Infrastructure for active ongoing
dialogue with diverse customers.
Privileged access to companies
within the network.
Internal company-specific process
Basis of access to competence
Partner is both collaborator and
competitor for value.
Access to other companies’
competencies and investments, as
well as customers’ competencies
and investments of time and effort.
Access to other companies’
competencies and investments.
What is available within the
company
Resources
The whole system – the company,
its suppliers, its partners and its
customers.
The extended enterprise – the
company, its suppliers and its
partners.
The company
Enhanced network
Family/network of companies
Unit of analysis
The company
Tabella II.4.2-1. The shifting locus of core competencies
L’interattività si gioca quindi anche su un altro piano, ovvero quello delle
relazioni con i mercati finali. L’intermediario, mediante il proprio potere di
condizionamento della domanda, è in grado di decidere sul sistema delle
preferenze espresso dalla clientela e i suoi comportamenti di acquisto. A fronte di
tale evoluzione l’impresa industriale si trova a dipendere dalla collaborazione del
distributore e dalla fiducia che questo ha sviluppato sui mercati a valle.
L’analisi delle relazioni è senza dubbio complessa in quanto sempre più
frequentemente iniziano a manifestarsi interdipendenze in cui la dimensione
competitiva e cooperativo coesistono. Il fenomeno della co-opetition evidenzia
come sia possibile gestire dinamiche cooperative, nonostante di base la relazione
si basi su interdipendenze concorrenziali (Hamel, Doz, & Prahalad, 1989).
Nelle relazioni distributive, tipicamente caratterizzate da aspetti sia competitivi sia
collaborativi, risulta praticamente impossibile prevedere tutti i possibili
comportamenti ed eventi all’interno del contratto formale: è per questo motivo
che la fiducia assume un ruolo centrale quale meccanismo di integrazione di tipo
informale e self-enforcing52.
In particolare si è dimostrato come l’antecedente e la precondizione essenziale per
attivare una working partnership di canale sia proprio costituita dalla fiducia
esistente tra i soggetti coinvolti nella relazione.
52
Dwyer & Oh (1987) pongono in evidenza il ruolo svolto dalla fiducia ai fini del coordinamento
tra le parti sostenendo che essa si riferisce alle attese che la controparte, cui si desidera conseguire
un coordinamento di comportamento, manterrà fede e fornirà il proprio contributo alla relazione.
138
Il ricorso alla fiducia assume ancora più rilevanza a causa del crescente grado di
incertezza53 che permea le relazione tra industria e distribuzione. Tale incertezza
richiede un bilanciamento tramite la costruzione di strutture relazioni più certe,
che si realizzano attraverso una più elevata fiducia reciproca tra i soggetti in
relazione.
Morgan e Hunt (1994) sono stati tra i primi verificare empiricamente la centralità
della fiducia e della collaborazione tra le imprese nella supply chain (Figura
II.4.2-2). Gli Autori approfondiscono le caratteristiche del costrutto calandolo
nell’ambito del relationship marketing , cercando di comprendere la relazione tra
variabili chiave come la fiducia e il commitment. Nel modello teorizzato, the key
mediating variable model of relationship marketing, viene verificata la rilevanza
delle due variabili all’interno del modello delle relazioni di mercato; allo stesso
tempo, vengono definite anche le principali determinanti (valori condivisi,
comunicazione, assenza di opportunismo) e conseguenze (collaborazione,
conflitto funzionale, riduzione di incertezza).
La ricerca ha dimostrato la correlazione positiva tra molte delle variabili ipotizzate
e ha visto inoltre l’emergere di due variabili non inizialmente presenti nel progetto
di indagine: la dimensione coercitiva del potere e il conflitto, concetti
53
L’elevato grado di incertezza è riconducibile principalmente al livello di eterogeneità e di
variabilità dell’ambiente. Tale incertezza è esterna alla relazione e dipende dalla complessità e
dalla velocità dei mutamenti dell’ambiente (Dwyer & Welsh, 1985; Achrol & Stern, 1988).
139
fondamentali nell’ambito del tradizionale modello comportamentistico dei canali
(El-Ansary & Stern, 1972).
Figura II.4.2-2. The KMV model of relationship marketing
Fonte: Morgan e Hunt (1994)
Anche Vicari (1995) approfondisce il tema della fiducia: secondo l’Autore,
l’accrescimento delle risorse di fiducia determina un accumulo di risorse
immateriali attraverso una duplice modalità: in primo luogo, aumentando il
patrimonio di risorse fiduciarie; in secondo luogo, creando le condizione
necessarie per un miglioramento delle risorse di competenza.
140
Attraverso l’accumulo delle risorse fiduciarie, l’impresa riesce ad attivare
relazioni esclusive con il mercato: in questo modo, i clienti sono indotti a
perpetuare la propria scelta avendo a garanzia la fiducia riposta nell’impresa,
rinforzando a sua volta le proprie convinzioni sull’affidabilità dell’impresa e
rendendo sempre meno probabile la sostituzione del partner. In altre parole, la
fiducia nei rapporti acquirente-venditore rappresenta un’efficace barriera d’entrata
di tipo cognitivo di nuovi concorrenti nella relazione: in questo modo, l’impresa
riesce a stabilizzare le relazioni con i soggetti inclusi del network e a far cadere
possibili attacchi da parte dei concorrenti.
Attraverso l’accumulo di risorse di competenza, invece, diventa più facile e meno
incerto il trasferimento di conoscenza da parte dei propri partner commerciali
medianti meccanismi di apprendimento relazionale e apprendimento da
cooperazione fondato anche sull’avvio di sperimentazioni congiunte (Troilo,
2001). La fiducia diventa quindi un facilitatore in grado di facilitare il livello
qualitativo e la frequenza delle connessioni che rendono possibili il trasferimento
di know-how, incidendo così indirettamente sul patrimonio di risorse di
competenza dell’impresa.
Tra le risorse le risorse di competenza e quelle di fiducia si instaurano quindi
strette correlazioni reciproche: alla crescita di conoscenza è necessaria l’esistenza
della fiducia e la conoscenza a sua volta alimenta la fiducia (Vicari, 1992).
141
II.4.3. L’analisi dinamica delle relazioni distributive
Le relazioni interorganizzative sono fenomeni estremamente complessi,
condizionate da un numero elevato di fattori stesso interrelati e suscettibili di
cambiamenti nel tempo.
La ragione principale che spingono le imprese ad innescare processi relazionali
sono sintetizzabili nel concetto di “gap di risorse”: nasce, quindi, dal
riconoscimento della necessità di dotarsi e di disporre nel tempo di una quantità
varia e articolata di risorse, al fine di colmare il gap iniziale.
Il processo di creazione della relazione può essere dunque letto, come anticipato
nel paragrafo precedente, come processo di riduzione del rischio e dell’incertezza
(Ford, 1982), attraverso la condivisione di risorse con il partner, processo che
rende fruibile nuove risorse funzionali al sostegno del processo competitivo.
La variabile che regola i processi di ricerca del partner viene individuata
principalmente nel concetto di “compatibilità” (Ford, 1984): maggiore è il livello
di compatibilità, maggiore la possibilità che prenda avvio una relazione e che poi
segua il suo percorso evolutivo. Esistono tre tipologie basilari di compatibilità: la
compatibilità delle risorse54 possedute da ciascun parte; la compatibilità negli
54
La compatibilità delle risorse rappresenta una condizione imprescindibile di avvio della
relazione e assume una connotazione di massima rilevanza strategica. Le parti possono consolidare
nel tempo le attività di verifica delle risorse, come effetto di una progressiva integrazione e, in
ultima istanza, come risultato della modifica della natura della relazione da transazionale a
relazionale (Wilson, 1990).
142
obiettivi che le parti intendono perseguire attraverso il rapporto; la compatibilità
culturale55.
Inoltre, l’avvio della relazione richiede una reciproca disponibilità e capacità a
collaborare (mutual orientation) da parte dei partner (Johanson & Mattsson,
1987). La disponibilità a collaborare può derivare (Easton, 1992):
-
dai vantaggi che possono conseguire per l’acquisizione delle risorse e per
l’incremento delle vendite;
-
dalla possibilità che essa può offrire, mediante processi di adattamento e
scambio di informazioni, accresce l’efficienza dei processi produttivi,
ridurre i costi dei materiali, migliorare le caratteristiche dei prodotti
offerti;
-
dal maggior gradi di controllo che consente nei confronti del partner, con
una conseguente riduzione dell’incertezza da fronteggiare;
-
dalle possibilità che può offrire di entrare in rapporto con terze parti
nell’ambito di un network.
La disponibilità a creare le condizioni per una efficace collaborazione può, quindi,
derivare sia dalla valutazione dei vantaggi acquisibili in funzione dello scambio di
beni ed informazioni, sia dalla riduzione dei costi di transazione, determinata dalla
continuità dei rapporti e dai legami che si instaurano con al controparte, sia,
55
La compatibilità culturale identifica una consonanza in termini di modalità di conduzione della
relazione e si esplicita nella condivisione di determinati valori (Ford, 1984).
143
infine, dall’influenza che ogni rapporto può avere sulla posizione dell’impresa nel
network.
Il passaggio dalle tradizionali forme di scambio conflittuali56 ad aspetti volti
all’integrazione determina la necessità di
sviluppare nuove forme di
coordinamento dell’attività, difficilmente conseguibili
medianti
soluzioni
gerarchiche o di libero mercato. Nasce, quindi, l’esigenza di considerare i rapporti
di canale in una prospettiva relazionale, sollecitando la formazione di meccanismi
di coordinamento non formali, basati sulla fiducia e sulla cooperazione.
Il risultato finale del processo di creazione della rete come sistema di relazioni è
assimilabile ad una sorta di nuovo modello di impresa, un sistema ibrido nella
definizione di Boris e Jemison (1989), che di fatto può beneficiare sia dei vantaggi
della specializzazione attraverso la focalizzazione su date competenze distintive o
di specifiche fasi, sia di quelli dell’integrazione attraverso una sorta di
organizzazione integrata verticalmente e orizzontalmente, ma altamente flessibile
e modificabile.
56
Il conflitto è riconducibile prevalentemente agli elementi di sharing del margine e delle funzioni.
Secondo Varaldo (1971), questa tipologia di conflitto fa riferimento al fenomeno invasivo della
integrazione verticale. Infatti, il conflitto è causato principalmente dall’assunzione di nuove attività
da parte dell’industria e questo viene recepito come una sorta di espansione dell’azienda
produttrice oltre le sue tipiche funzioni (invasione nell’area di specifica competenza delle aziende
commerciali). Tale fenomeno ha caratterizzato anche le imprese al dettaglio che tendono ad
assumere funzioni nel campo produttivo.
144
Il network si fonda su forme di potere non coercitive che si basano su vere e
proprie relazione cooperative: il mercato, coordinato dal prezzo e dall’autorità57,
non funziona più come forma di governo per transazioni che appaiono sempre più
assistite dalla fiducia. La forma ibrida58 del network è la struttura di governo che
supporta le relazioni collaborative e permette di mantenere le transazioni sul
mercato assistendole con relazioni sociali che trascendono dal mero rapporto di
business. In questo caso, la differenza rispetto al coordinamento ottenuto con
l’esercizio del potere (struttura gerarchica) è che nella forma ibrida le parti
decidono consensualmente di cercare un maggior coordinamento e si impegnano
attivamente per conseguirlo: il coordinamento non è imposto da una delle due
parti e subito passivamente dall’altra, ma è proposto in modo congiunto da
entrambe le parti.
57
La gerarchia in questo caso è una forma di governo subottimale, che Williamson (1994) descrive
come “the organizational form of the last resort”: questa tipologia di governo, infatti, non
permette di sfruttare economie di scala e di specializzazione, richiede rilevanti investimenti in
capitale fisso, riduce la flessibilità operativa dell’impresa. Le imprese che vi fanno ricorso sono
appesantite da costi che le pongono in situazioni di svantaggio competitivo rispetto ai concorrenti.
58
Jarillo (1988) classifica le forme ibride (reti di impresa) come una struttura mista tra mercato e
gerarchia. Le reti di impresa hanno la maggior parte delle caratteristiche di una relazione
gerarchica e tuttavia le parti rimangono organizzazioni indipendenti con pochi o addirittura nessun
punto di contatto lungo diverse dimensioni. Le strategie di rete sono assai più "leggere" e selettive,
di specializzazione sul core business, che mobilitano le energie di una rete di alleanze con imprese
complementari o anche concorrenti, nella ricerca, nell'uso delle conoscenze, nella fornitura dei
componenti e nelle lavorazioni, nella scoperta di nuovi usi e nella penetrazione commerciale sui
mercati. Le imprese cercano, attraverso le reti, di economizzare le proprie risorse presidiando solo
alcune funzioni specifiche della filiera, in raggiungere livelli di eccellenza a scala mondiale, e
ricorrendo a forme di outsourcing organizzato per tutto il resto (Rullani, 2004).
145
Figura II.4.3-1. Modalità di relazione di canale
Base della relazione
Forme di governo e
meccanismi di
coordinamento
Potere
Mercato
(prezzo e autorità)
Relazione
conflittuale/cooperativa
Mutuo vantaggio
Relazioni sociali
Network
(fiducia)
Partnership
Forma di relazione
Fonte :Lago (2002)
La selezione del partner diventa quindi un processo critico, al quale sia l’impresa
della distribuzione sia quella dell’industria devono prestare grande attenzione e
cura. Le relazioni con i partner richiedono coordinamento, una prospettiva
comune orientata al lungo periodo e predisposizione al lungo periodo (Lorenzoni
& Baden-Fuller, 1995).
Come nell’analisi rivolta al consumatore nel paragrafo precedente, assume una
notevole importanza non solo la fase di scelta del partner, ma il suo ciclo
evolutivo nel tempo, soprattutto in relazione alle implicazioni manageriali che
esso suscita in ogni stadio.
146
Ford (1980), studioso appartenente all’IMP Group, è tra i primi a proporre un
modello di analisi dell’evoluzione della relazione. Il modello si articola
fondamentalmente su cinque fasi:
1. pre-relationship stage: include tutte le considerazioni iniziali che posso
indurre il fornitore o l’acquirente a cambiare le modalità di relazioni
attuali;
2. early stage: considera i primi contatti e le prime sperimentazioni
relazionali, ma è ancora significativa la distanza tra i due possibili partner;
3. developing stage: la relazione si sviluppa, si accresce il livello di
interdipendenza tra le parti e il fabbisogno di fiducia reciproca;
4. stable stage: cresce la reciproca consapevolezza della rilevanza del
rapporto, caratterizzata da un’elevata soddisfazione reciproca e si riduce
significativamente l’incertezza percepita;
5. final stage: conduce alla fase di istituzionalizzazione della partnership.
Dwyer, Schurr e Oh (1987), alla stregua di Ford (1980), propongono un modello
evolutivo molto simile, ma a differenza del modello appena analizzato, considera
anche una fase finale di dissoluzione della relazione, spesso determinata da
comportamenti unilaterali, che determinano la conclusione dell’esperienza
relazionale.
I modelli evolutivi della relazione hanno messo in evidenza l’esigenza di
analizzare ogni tipologia di relazione in base alla sua fase temporale. A tal
147
riguardo, Blatterberge, Gezt e Thomas (2001) individuano cinque stadi della
dinamica relazionale, a cui corrispondono altrettanti cluster di clienti:
1. prospects: i clienti potenziali da attivare per la prima volta;
2. first-time buyers: potenziali futuri clienti;
3. early repeat buyers: acquirenti ancora alla ricerca di conferme;
4. core customers: clienti ormai convinti della validità dell’offerta e della
fiducia e meno sensibili alle offerte della concorrenza;
5. core defectors: coloro che hanno deciso di valutare altre opportunità di
offerta.
Tali
segmenti
richiedono
naturalmente
approcci
relazionali
specifici,
manifestando un diverso livello nei costrutti relazionali che li caratterizzano.
II.5.
Il nuovo ruolo della funzione marketing
Il mutato contesto competitivo ha reso necessari cambiamenti negli orientamenti
strategici degli operatori e negli strumenti operativi a disposizione. Il fattore
tempo è diventato un elemento cruciale per il successo delle imprese; il ciclo di
vita dei prodotti è sempre più schiacciato e la capacità innovativa deve far
riferimento ad orizzonti sempre più brevi.
148
Diventa essenziale percepire tempestivamente i segnali di cambiamento in atto e
riuscire a sfruttare sinergicamente tutte le risorse e competenze cui l’impresa può
accedere, sia mediante il controllo diretto che tramite le relazioni poste in essere.
La flessibilità necessaria ad operare nel mutato contesto globale richiede una
capacità di adattamento che può essere realizzata tramite l’interazione e la
cooperazione con i membri del network di riferimento.
I limiti evidenziati dell’eccessiva focalizzazione sugli aspetti operativi
caratteristici del marketing management hanno determinato un superamento della
rigida divisione funzionale del marketing che caratterizzava le imprese fino a tutti
gli anni ottanta. Gli sviluppi più recenti testimoniano, infatti, come il marketing
venga oggi inteso come parte integrante della strategia aziendale e non solamente
come leva operativa.
In questo senso, il marketing relazionale non si pone come portatore di nuovi
modelli normativi, adattati al mutato contesto competitivo in cui le imprese sono
chiamate ad operare, quanto piuttosto come una nuova filosofia di gestione del
rapporto all’interno dell’intera supply chain.
Riprendendo lo schema di analisi proposto nel paragrafo 1 del presente capitolo,
l’impresa industriale si trova a dover affrontare un duplice orientamento al cliente:
il cliente finale e il cliente intermedio. Per ogni tipologia di cliente, è necessario
implementare le più efficaci strategie di marketing: politiche di consumer
149
marketing rivolte al consumatore finale e di trade marketing indirizzate al
distributore.
Impresa industriale
Figura II.5-1. Modalità di relazione di canale
Consumer
marketing
Trade
marketing
Orientamento al
cliente finale
Orientamento al
cliente intermedio
Fonte: elaborazione propria
A livello di cliente finale, è stato approfondito come il consumatore stia
cambiando profondamente le dinamiche della competizione. Il mercato ora sta
diventando come un “forum” nella quale il consumatore recita un ruolo da
protagnista nella creazione del valore.
Il tratto fondamentale di questo cambiamento é che il consumatore sia diventato
un soggetto attivo e nuova fonte di competenze59 (Hamel & Prahalad, 1990) per
59
Il modello core competencies descritto da Prahalad e Hamel (1990) si basa su un approccio
dall’interno verso l’esterno con un processo strategico che inizia con la definizione dei punti di
forza chiave dell’azienda. Al contrario, un esempio di approccio dall’esterno verso l’interno é il
modello di Porter sulle 5 forze, il quale vede il mercato, la concorrenza e il consumatore come
150
l’azienda. Le competenze apportate dal consumatore sono in funzione della
conoscenza che egli possiede, dalla sua capacitá di imparare e sperimentare nuovi
orizzonti, dalla disponibilitá ad attivare un dialogo attivo e continuo.
L’azienda viene quindi concepita come un insieme di competenze non piú come
un portafoglio di business units. In questo modo, manager and imprenditori
possono trovare nuovi modi per ampliare il capitale intellettuale dell’azienda e
grazie a queste nuove fonti di conoscenza, individuare nuove e inesplorate
opportunitá di business.
A fronte di questo scenario, è fuori dubbio che un uso intelligente e strategico
delle ricerche di mercato e delle indagini di customer satisfaction debbano entrare
a far parte delle prassi consolidate con cui l’impresa si rapporta al mercato.
Questo aspetto assume maggiore importanza in relazione alla rapida evoluzione
dei comportamenti del consumatore che si sono riflessi nella sperimentazione di
evoluti e multi-variabili criteri di segmentazione (Lambin, 2004). Col passare del
tempo, i criteri socio-demografici sono andati perdendo capacità previsionale,
ovvero capacità di prevedere diversità di comportamenti/preferenze, e sono
input del processo strategico. Secondo gli autori, le principali fonti di vantaggio competitivo sono
il risultato della capacità del management di consolidare tecnologie a livello aziendale e know how
produttivo in competenze che consentono all’impresa di adattarsi velocemente ai cambiamenti del
contesto macro ambientale.
Prahalad e Hamel ritengono che la prospettiva del portafoglio sia un approccio strategico
anacronistico e non sostenibile. Gli studiosi infatti ritengono che l’azienda debba svilupparsi
intorno ad un nucleo di competenze condivise. Una core competence può essere definita tale se
risponde a ai seguenti tre requisiti: attraverso essa si accede ad un’ampia varietà di mercati;
contribuisce sostanzialmente al valore del prodotto/servizio percepito dal consumatore/utente
finale; é difficilmente imitabile dalla concorrenza.
151
apparsi altri approcci come la segmentazione in base ai vantaggi ricercati o quella
per stili di vita, nonostante presentino note difficoltà e costi di misurazione.
La conoscenza che l’impresa acquisisce dal mercato, infatti, ha alcune
caratteristiche che ne rendono particolarmente complessa e difficile la gestione
(Troilo, 2001). É spesso equivoca nei significati, poichè incompleta, erratica,
ambigua60 (Simonin, 1999).
In tal senso, è possibile affermare che sotto il profilo epistemologico gli studi e le
ricerche hanno reso progressivamente più efficaci tanto i modelli interpretativi
sottostanti alla segmentazione (ad esempio, la teoria della catena mezzi-fini di
Reynolds e Gutman61) quanto quelli normativi o comunque di più immediato
60
L’ambiguità si genera in quanto la conoscenza di mercato è sovente scambiata tra soggetti tra
loro dissimili, che portano a difficoltà interpretative (Sinkula, 1994) tanto maggiori quanto più la
conoscenza è tacita e radicata nel contesto in cui si è originata (Zollo & Winter, 2002). La
conoscenza di mercato è poi conoscenza dispersa tra una pluralità di consumatori, immersi in reti
vaste, sia sul piano della numerosità dei nodi che della distanza geografica che li separa tra loro e
dall’impresa (Nardin, Marchi, & Martinelli, 2007). Inoltre, è conoscenza il cui valore varia al
variare del tempo e delle caratteristiche temporali dei processi di gestione, specialmente nei
contesti competitivi caratterizzati da incessanti cambiamenti tecnologici e della domanda
(Sampler, 1998).
61
Nella maggior parte dei casi, i consumatori non sono consapevoli del proprio processo
decisionale, né sono capaci di rendere esplicito il legame tra prodotto e convinzioni personali. Per
questo è necessario utilizzare una tecnica d’intervista in profondità, denominata laddering, capace
di indurre il rispondente a ragionare sulle relazioni attributi/conseguenze/valori (Reynolds &
Gutman, 1988). Questo metodo prevede che all’intervistato vengano poste, in sequenza, domande
del tipo: “perché questo, attributo/conseguenza/valore, è importante, per te/secondo lei?” (le
cosiddette “why questions”). Le risposte date dagli intervistati vengono registrate e
successivamente codificate. Questo metodo consente di ripercorrere a ritroso il percorso delle
ladder combinando gli elementi tra loro collegati tesi a generare la catena mezzi-fini. In altre
parole, l’intervista laddering consente di costruire quella rete di collegamenti che spiega il
comportamento e la percezione dei consumatori nei confronti del tema in esame.
152
utilizzo manageriale (si pensi al modello di Levitt62 sui livelli del prodotto, o a
quello sulla gestione delle relazioni one-to-one di Peppers e Rogers63).
In realtá, si inizia a prendere coscienza che l’azienda puó attrarre competenze non
solo dal consumatore, ma dall’intera supply chain: fornitori, distributori, partners,
investitori, ecc… L’unitá di analisi si é quindi evoluta passando dalla singola
impresa, al network di imprese e fino ad arrivare al concetto di “impresa estesa”,
ovvero ad una costellazione di imprese.
In questa ultima fase, le competenze non sono altro che una funzione della
conoscenza presente nell’intero sistema64. Come affermano Prahalad &
Ramaswamy (2000): “now the scene has changed, and business competition
seems more like the experimental theater of the 1960s and 1970s; everyone and
anyone can be a part of the action”.
62
Il concetto di product augmentation, proposto da Theodore Levitt (1980), propone di scomporre
il prodotto in quattro dimensioni: prodotto generico, prodotto atteso, prodotto aumentato, prodotto
potenziale. Con l’espressione prodotto generico si intende l’insieme delle caratteristiche minimali
necessarie per definire un prodotto. Se a tale configurazione si aggiunge quell’insieme di
condizioni che gli acquirenti si aspettano si ottiene il prodotto atteso. Spesso, però, l’impresa non
limita la propria offerta a tali condizioni ma aggiunge ulteriori attributi (tangibili o intangibili)
rispetto a quelli attesi dando vita alla configurazione denominata prodotto aumentato. Infine, se si
considera altresì tutto ciò che può incrementare l’attrattività del prodotto per il cliente, si giunge
alla configurazione massima di prodotto potenziale.
63
Secondo Pepper e Rogers (2001), il marketing one-to-one o marketing 1:1 rappresenta il
necessario completamento della mass customization e può essere definito come: “in luogo di
vendere un solo prodotto alla volta, al maggior numero possibile di clienti in una particolare
stagione di vendita, chi applica il marketing one to one sfrutta il potenziale del database clienti e
della comunicazione interattiva per vendere a un solo cliente alla volta il maggior numero
possibile di beni e servizi per l’intera durata della relazione di clintela. Per attuare questo tipo do
strategia è necessario che l’azienda non si limiti a gestire i prodotti, i canali di vendita e i
programmi, ma che adotti una visione personalizzata del rapporto con i singoli clienti”.
64
Se con-petere vuol dire “fare insieme”, allora in questa situazione è valida l’affermazione di
Johannson (2009) “The retailers need the manufactures as much as they need the retailers”.
153
Il
ruolo
del
marketing
tende
ad
essere
quindi
diffuso
all’interno
dell’organizzazione ed a fungere da collante tra diverse organizzazioni. Anche le
abilità relazionali
diventano importanti ad ogni livello organizzativo e
interorganizzativo: la prossimità al mercato si sostanzia in entrambi i mercati,
intermedio e finale, attraverso un dato sistema di relazioni che può funzionare
come strumento di intelligence.
La gestione della dimensione relazionale si sostanzia in processi dinamici di
selezioni di partner con cui sviluppare relazioni caratterizzate da intensità e durata
progressivamente più elevate tanto più le risorse oggetto di interscambio
diventano critiche per le parti, mentre l’impresa è interamente impegnata nello
sviluppo delle proprie core-competencies. La ricerca della qualità, dell’efficienza
e della flessibilità guidano i processi di ricerca di interlocutori validi non solo dal
punto di vista economico, ma anche dal punto di vista fiduciario, in grado di
garantire la reciprocità del rapporto e un mutuo vantaggio.
La fiducia che caratterizza poi lo sviluppo della relazione tra produttore e
distributore e che induce, ad esempio, le parti ad attivare progetti condivisi di
category management, è il frutto di esperienze passate soddisfacenti, dove le parti
hanno posto in essere iniziative comuni, fondate su intestimenti relation-specific.
Il maggiore investimento relazionale comportano forti implicazioni manageriali
sia nell’impresa industriale sia in quella commerciale. Il venditore vede evolvere
il suo approccio alla vendita, passando da una semplice transazione economica
154
alla gestione relazionale del cliente; il buyer, d’altra parte, vede ampliare le sue
funzioni in ottica di categoria piuttosto che di singolo prodotto, evolvendo da
semplice buyer a category manager65.
Figura II.5-2. Implicazioni manageriali
Alto
Approccio
problema:
Investimento relazionale del fornitore
Trade marketing
Category
manager



soluzione
al
Piani di marketing specifici.
Relazioni di lungo periodo.
Conoscenza del mercato.
Approccio soddisfazione
dei bisogni:
Key account
Buyer evoluto


Capacità di ascolto.
Raccolta di informazioni.
Approccio
problema:
Venditore
Buyer



soluzione
al
Rapporto commerciale.
Vendere nel breve periodo.
Persuasione.
Basso
Basso
Investimento relazionale del distributore
Alto
Fonte: elaborazione propria
65
Questa tematica verrà approfondita nel capitolo successivo.
155
Il momento dell'interazione fra impresa produttrice e impresa commerciale è stato
prevalentemente indagato negli studi riconducibili al filone del trade marketing,
che inizialmente hanno puntato a individuare gli strumenti utili al miglioramento
del processo di distribuzione dei beni; in seguito, il trade marketing si è
dimostrato lo strumento di marketing principale nel sistema relazionale industriadistribuzione e in grado di fornire vantaggi competitivi per entrambi i partner
commerciali. In particolare, per trade marketing si intendono specifiche attività di
marketing rivolta dalle imprese verso gli intermediari volte a sviluppare relazioni
solide e durature.
L’incremento della pressione competitiva ha sancito l’elevazione del trade
marketing alla stregua del consumer marketing, tanto da assumere una posizione
importante anche nell’organigramma delle imprese produttrici. E’ anche vero che
consumer marketing e trade marketing non possono essere viste come strategie
separate. Infatti, se è vero che gli approvvigionamenti dipendono dalla domanda
dei consumatori è anche vero il contrario, e cioè che la domanda risulta
influenzata dall'offerta di prodotti che sono proposti nelle strutture di vendita. Il
condizionamento è quindi reciproco, con la conseguente necessità di considerare
l’attività di vendita strettamente legata a quella di acquisto e infine di
pianificazione della domanda.
L'interazione fra acquisto e vendita si sviluppa in modo continuo, con una ciclicità
articolata in diverse fasi, mirate alla soddisfazione della clientela: analisi e
156
valutazione della domanda; ricerca dei prodotti secondo le esigenze individuate
della domanda; attivazione delle campagne di vendita nei canali distributivi;
sviluppo di iniziative risolve alla distribuzione per far inserire il prodotto in
assortimento; attivazione di iniziative rivolte ai consumatori per motivarli
all’acquisto dei prodotti in assortimento.
“Market orientation is an important, influential force on channel relationships”,
questo significa che nello studio delle relazioni distributore-produttore
l’orientamento al mercato non può essere tralasciato (Siguaw, Simpson, & Baker,
1998).
Nell’orientamento
al
mercato,
distributori
e
produttori
sono
coinvolti
congiuntamente alla creazione di un valore superiore per il consumatore finale. La
vicinanza del distributore al mercato è il punto di forza su cui distributori e
produttori collaborano per garantire ai consumatori finali un maggior valore
rispetto ai concorrenti.
Se un produttore è market oriented e lavora con l’obiettivo di soddisfare, oltre alle
esigenze dei consumatori finali, anche le richieste del distributore, allora il
distributore aumenterà il suo livello di fiducia nelle relazioni di collaborazione ed
inoltre riconoscerà che il produttore coinvolto nella partnership sta operando per
raggiungere gli stessi outcomes competitivi.
Se il distributore è anch’esso market oriented e ha attivato una relazione di
collaborazione con il produttore, è consapevole che la raccolta e la condivisione
157
delle informazioni sui consumatori deve avvenir nel minor tempo possibile, così
da creare e lanciare sul mercato un’offerta più vicina alla clientela, prima e meglio
dei concorrenti.
In conclusione, l’orientamento al mercato può essere considerato il nodo cruciale
per la costruzione di un rapporto collaborativo tra distributori e produttori, fondato
sulla creazione di valore per il cliente all’interno dell’intera supply chain.
158
CAPITOLO III
IL CATEGORY MANAGEMENT: FORME INNOVATIVE DI
PARTNERSHIP NELLA SUPPLY CHAIN
III.1. Il category management
Le imprese industriali e quelle commerciali si trovano attualmente a fronteggiare
un livello di pressione competitiva sempre crescente, che le spinge a una
inevitabile riprogettazione dei processi aziendali e a una ridefinizione degli assetti
relazionali, in modo da conseguire una maggiore efficienza nelle attività della
supply chain e da rinvenire nuove fonti “congiunte” di creazione di valore.
I motivi a cui è possibile ricondurre tale esigenza sono molteplici, ma
riconducibili essenzialmente ad un triplice ordine di fattori:
-
la tendenza generalizzata alla deregulation dei mercati e all’eliminazione
dei monopoli spaziali (Bertozzi, 1996);
-
la crescente complessità e l’evoluzione dei processi valutativi che sono
verificati sul fronte della domanda finale (Fornari, 1995), costituita da
consumatori sempre più value sensitive (Fabris, 1995);
159
-
l’ampliamento degli ambiti competitivi che interessa tutti gli stadi dei
canali distributivi e che si manifesta seguendo due traiettorie
fondamentali: il vettore geografico, che determina una concorrenza su
scala sempre più globale (Pellegrini, 1991; Dawson, 2001), e il vettore
intersettoriale, che sancisce il definitivo emergere di meccanismi
competitivi trasversali (Vicari, 1989), che travalicano i tradizionali confini
dei mercati e che portano spesso a convergere verso la realizzazione di
“metamercati” (Valdani, 1997).
Per quanto riguarda le imprese industriali, la necessità di sviluppare in
continuazione really new product ha generato una proliferazione delle varianti di
prodotti che spesso, per la difficoltà di creare prodotti a reale contenuto
innovativo, si qualificano solo come innovazioni marginali, versioni migliorative
di prodotti già esistenti (second but better) o prodotti meramente imitativi (me
too) per cui l’unico elemento di novità è la marca (Pellegrini, 1995). Tutto ciò non
solo non riesce a conseguire un accrescimento della soddisfazione del cliente tale
da modificare il suo sistema di preferenze, ma genera inoltre un affollamento
all’interno dei canali e un’azione di preselezione sempre più severa da parte della
distribuzione.
Per quanto riguarda le imprese della distribuzione, emerge ormai con evidenza
come il livello di sviluppo delle reti abbia condotto le imprese a confrontarsi non
solo con altre formule caratterizzate da diversi livelli di servizio, ma soprattutto
160
con concorrenti all’interno della stessa formula (intratype competition),
determinando un’esigenza non più rinviabile di differenziazione sul piano
competitivo rispetto alle imprese concorrenti.
Per governare questi contesti di mercato ipercompetitivi1 (Valdani, 1997;
D'Aveni, 1994), le imprese industriali e commerciali non possono più prescindere
dallo sviluppo e dal consolidamento di reali determinanti del vantaggio
competitivo, fondate sulla capacità dell’impresa di sviluppare il proprio
patrimonio di risorse immateriali (Rullani, 1994; Rullani & Romano, 1998) e, in
particolare, quelle risorse customer based fondate sulla soddisfazione del cliente
(Valdani & Busacca, 1992) e sulla fiducia riposta nell’impresa (Vicari, 1995). Per
questo motivo, diventa necessario, da un lato, migliorare l’efficienza della
gestione e, dall’altro, accrescere l’orientamento al cliente e il potenziale di
differenziazione della propria offerta.
Il category management rappresenta la risposta a tali esigenze poiché la congiunta
considerazione delle preferenze del consumatore e dell’attrattività della categoria
merceologica amplia i rapporti fra industria e distribuzione, traslando verso livelli
1
L’ampliamento degli ambiti competitivi non si limita ai confini del canale distributivo inteso nel
senso tradizionale, ma coinvolge anche nuovi attori esterni al canale. Per esempio, l’introduzione
di nuove forme di pagamento (rese possibili dalla diffusione dei sistemi di trasferimento
elettronico di fondi e della moneta elettronica) determina un’evoluzione nei rapporti tra istituti di
credito e intermediari commerciali. Questo riguarda soprattutto quelle imprese di distribuzione
che, avendo lanciato la fidelity card anche come mezzo di pagamento, si trovano a dover
competere con le istituzioni finanziarie per la gestione dei mezzi di pagamento. Per
approfondimenti sul tema si rinvia, tra gli altri, a Lugli e Invernizzi (1987) e Castaldo, Fallarino e
Zanasi (1997).
161
superiori di sinergia le preesistenti modalità di partnership di canale. In questo
modo tende a delinearsi una concetto di value chain allargata, assimilabile ad un
complesso sistema-azienda (Brondoni, 2004).
III.1.1. Verso un “customer-based” category management
Il category management rappresenta certamente una nuova frontiera del marketing
di canale (Lugli, 1997; Pellegrini, 1997). Le definizioni di category management
presenti in letteratura sono numerose; tra le definizioni più significative possono
essere riportate:

“Category management is a process that involves managing product
categories as business units and customizing them on a store-by-store basis
to satisfy customer needs.” (Nielsen, 1992).

“A flexible, organizational approach that focuses supplier/distributor and
wholesaler/retailer attention on the impact every product has on a category’s
overall profit picture. All functions that affect the category’s profit and loss
(i.e. space, price, promotion, cost, etc.) are placed under the control of a
single manager.” (IDDA, 1993).
162

“More specifically for a retailer, category management means determining
pricing, merchandising, promotions and product mix based on category
goals, the competitive environment and consumer behavior.” (FMI, 1995).

“Category management is a distributor/supplier process of managing
categories as strategic business units, producing enhanced business results
by focusing on delivering consumer value.” (Joint Industry Report on
Efficient Consumer Response, 1995).

“Category management is a method whereby vendor and retailer team up to
manage their mutual product categories on a store by store basis.” (Joseph,
1996).
Harris (1993) propone forse la definizione più completa ed esaustiva: il category
management viene, infatti, definito come una nuova filosofia gestionale che
riconosce le categorie di prodotti come strategic business units con l’obiettivo
fondamentale di soddisfare i bisogni del cliente e conseguire adeguati obiettivi
economici a livello di impresa.
La considerazione della categoria come Area Strategica d’Affari (Abell &
Hammond, 1979) implica la formulazione di specifici piani strategici di categoria,
volti ad accrescere le performance delle categorie di prodotto in una prospettiva di
beneficio comune tra le parti. Cresce la consapevolezza che ad ogni categoria
corrisponda un ambito competitivo differente, con differenti minacce/opportunità,
differenti opzioni di sviluppo e differenti relazioni inter-categoria.
163
La necessità di strategie concertate e mirate induce, quindi, gli operatori aziendali
ad abbandonare la tradizionale concezione atomistica e frammentaria delle
relazioni verticali in favore di iniziative di convergenza per razionalizzare
l’offerta e per cogliere nuove opportunità di mercato creando, al contempo, valore
per il consumatore.
La revisione dei processi di gestione comporta una naturale evoluzione delle
attività di interfaccia tra le imprese a monte e a valle del canale e la definizione di
un nuovo linguaggio inter-organizzativo, che trova proprio nella categoria un
codice comune (Lugli, 1997). A tal fine, si impone il passaggio da una razionalità
fondata sulla relazione unilaterale ad una logica basata sull’interattività e
l’interdipendenza dei soggetti in relazione, che dia luogo ad una codeterminazione dell’offerta (Di Bernardo & Rullani, 1990).
Il coordinamento delle attività svolte nei diversi stadi del canale e la
reingegnerizzazione delle relazioni distributive permettono, infatti, di ottimizzare i
processi di creazione del valore e di conseguire così nuove sinergie e un
significativo surplus di efficienza2 (Zaninotto, 1990).
2
Secondo Zaninotto (1990) mediante lo sviluppo di forme di coordinamento delle attività tra
industria e distribuzione si ha la possibilità di produrre una serie di vantaggi che contribuiscono
alla creazione di valore, che l’autore definisce come surplus organizzativo, che può derivare da:
- un surplus di efficienza, ovvero una gestione efficiente e coordinata delle funzioni di
commercializzazione (logistiche e informative) svolte all’interno del canale;
- un surplus di monopolio: un coordinamento verticale delle posizioni monopolistiche;
- un surplus progettuale: una costante ricerca di soluzione innovative svolte a riorganizzare
le funzioni commerciali e i processi di scambio all’interno del canale.
164
L’adozione di questo nuovo approccio manageriale richiede che la riprogettazione
dei processi aziendali ed inter-organizzativi avvenga in una logica customerbased, in quanto l’obiettivo finale è proprio il miglioramento della soddisfazione
del cliente che a sua volta rappresenta il presupposto per conseguire migliori
performance aziendali.
Si impone così l’esigenza di costruire un network, fondato sulla collaborazione
reciproca, in grado di produrre un potenziale di risorse adeguato per la
valorizzazione della risorsa “cliente”; infatti, sia il supplier sia il retailer
detengono una base di risorse di fiducia e di conoscenza che, interagendo,
permettono di creare un surplus di valore.
Costruire una relazione di partnership tra distributore e produttore non è semplice.
Volendo rappresentare la forza e la tipologia di una relazione lungo un continuum
(Grönroos, 1994; Webster, 1992), questa può variare tra due estremi opposti: da
un lato, una relazione di tipo meramente transazionale e, dall’altro, una relazione
di collaborazione di lungo termine. Solo se entrambi i partner decidono di adottare
un approccio di tipo collaborativo possono portare a termine con successo progetti
di category management (Campbell, 1985).
Fino a quando il focus strategico riguarda, rispettivamente, il prodotto per
l’industria e l’insegna per la distribuzione, si possono determinare solo
comportamenti conflittuali in quanto orientati alla massimizzazione del vantaggio
economico di negoziazione delle condizioni di scambio. Lo sviluppo di una
165
cultura di cooperazione, invece, tende a ridurre i costi della conflittualità con
l’obiettivo primario di creare valore riconosciuto dal mercato. Nel valore creato è
intrinseca una valenza strategica, mentre la ripartizione della rendita di canale ha
una solo una valenza tattica e di breve periodo.
La gestione di una politica gestionale orientata a rapporti di canale improntati alla
collaborazione ed all’instaurarsi di relazione durature nel tempo impone un’attenta
considerazione della catena del valore aziendale interna ed esterna.
La revisione dei processi aziendali è possibile solo attraverso la raccolta e
l’elaborazione delle informazioni. La presenza di un costante flusso di
informazioni permette, infatti, migliori condizioni di efficienza, riduzione dei
tempi di azione, incremento dell’efficacia per il consumatore (Bessen, 1993). Ciò
garantisce all’impresa, sia industriale sia commerciale, le risorse necessarie per
l’adeguamento della struttura organizzativa e del sistema informatico necessario
per l’individuazione di obiettivi atti a guidare il comportamento degli operatori
aziendali, per la verifica del grado di raggiungimento degli stessi e per l’adozione
di eventuali manovre correttive.
I flussi informativi, se opportunamente gestiti, diventano una risorsa intangibile
primaria della cultura aziendale e sono alla base di quell’orientamento al mercato
necessario per l’implementazione del category management.
166
III.1.2. Il consumatore come fattore aggregante
Uno dei limiti che si riscontrano più frequentemente a livello manageriale è
riconducibile alla carenza sul piano dell’analisi del consumatore a supporto delle
diverse fasi e in particolare di quelle che contribuiscono alle scelte strategiche
(Cristini, 1996).
Per questa ragione, il modello proposto sarà proprio customer based, ovvero un
modello di partnership allargata a livello di canale, inteso in senso ampio,
comprendendo il cliente quale soggetto attivo, insieme alle imprese commerciali e
a quelle industriali. Nel modello di category management customer based, il
consumatore non viene considerato unicamente come destinatario di modelli di
offerta precostituiti, bensì come coautore dei modelli stessi: infatti, alla base vi è
proprio lo studio della domanda, le sue preferenze e dei suoi processi decisionali,
che vengono interiorizzati dalle imprese di produzione e di distribuzione nel
progetto di offerta che intendono realizzare in termini di beni, assortimenti e
formule distributive (Bertozzi & Castaldo, 2000).
Il passaggio chiave che contraddistingue questo approccio deve essere individuato
proprio nell’interpretazione dello stesso concetto di category management e nella
conseguente definizione di categoria.
Per quanto riguarda il primo aspetto, ovvero la definizione di category
management, non si tratta solo di una questione terminologica. Inserire il
167
consumatore come fattore aggregante della partnership tra industria e
distribuzione significa determinare il grado e l’intensità di ristrutturazione dei
processi di business e della revisione delle relazioni inter e intra-organizzative.
Una visione più ristretta di category management si traduce in interventi limitati
alla sola fase operativa dell’intero processo, puntando solo allo sviluppo di mirate
politiche commerciali su determinate categorie obiettivo. Inserire un orientamento
al consumatore porta invece le imprese ad ampliare la loro visione, di solito
ristretta al livello operativo, arrivando a mettere in discussione le scelte
strategiche e le politiche commerciali in funzione del comportamento
dell’acquirente.
Nella tabella III.1.2-1 sono rappresentate le connessioni tra il classico processo di
category management (Harris, 1995) e lo studio del comportamento del
consumatore e in che modo questi due filoni teorici (category management e
consumer behaviour) possono dialogare e apportare nuove spunti alla ricerca. In
particolare, la seconda colonna rivela idealmente i fattori che influenzano l’intero
percorso che porta il consumatore all’acquisto di un prodotto, analizzando sia il
processo di consumo sia processo di acquisto del consumatore (prima, durante e
dopo l’ingresso in punto vendita).
168
Figura III.1.2-1. Il processo di category management: quali opportunità da un
orientamento al consumatore
Il processo di category management
Approccio al consumatore
1.
Studio del quadro competitivo:
analizzare il mercato di riferimento della
categoria.
Individuare i maggiori trend di mercato in
relazione alle categorie prese in esame e la
coerenza del posizionamento del produttore e
del distributore rispetto a questi macro-trend.
Identificare gli attuali/potenziali fattori critici di
successo appartenenti nelle due aziende partner.
2.
Definizione della categoria:
determinare le tipologie di prodotti che
appartengono alla categoria.
Individuare le abitudini del consumatore, dei
suoi bisogni, dei suoi desideri e applicarle alla
visione delle categorie e delle sue componenti:
formato, gusto, prezzo, ecc...
3.
Ruolo delle categorie:
assegnare alle categorie un ruolo in base
all’analisi congiunta del consumatore, dei
produttore, del distributore e del mercato.
Comprendere le occasioni e i momenti di
consumo dei consumatori, comprese le relazioni
intra e inter-categorie, frequenza d’acquisto,
scontrino medio, ecc…
4.
Analisi della domanda:
studiare il comportamento e le
motivazioni d’acquisto della domanda.
Analizzare il comportamento del consumatore
in tutti i suoi aspetti: fattori di scelta del punto
vendita, modello di acquisto, processo di
consumo, fattori di scelta del punto vendita,
posizionamento dell’insegna, posizionamento
della marca, ecc…
5.
Individuazione degli obiettivi:
stabilire gli obiettivi quantitativi e
qualitativi delle singole categorie
Indicatori
rilevanti
in
riferimento
al
consumatore:
satisfaction, % consumer
target/totale consumatori, market share,
transazioni medie, % margine per transazione,
traffico, ecc…
6.
Definizione della strategia di categoria:
sviluppare le strategie di marketing,
commerciali e logistiche necessarie
Trovare un punto di incontro tra prospettive
aziendali e la prospettiva del consumatore.
7.
Definizione delle tattiche di categoria:
implementare di un piano di categoria
Definire in che modo influenzare la percezione
e le reazioni del consumatore attraverso:
169
l’ampiezza e la profondità dell’assortimento, il
prezzo e la relazione con l’immagine di
convenienza dell’insegna, le promozioni e in
che modo possono impattare sui volumi, il
display e la sua estetizzazione.
8.
Implementazione e revisione:
mettere in pratica le azioni previste e
controllo costante delle performance
Verificare costantemente che il consumatore sia
soddisfatto dei cambiamenti messi in atto e che
essi facilitino il processo di acquisto in punto
vendita.
Fonte: elaborazione da “The category management report”, (CMR, 1995)
Strettamente connessa con la definizione di category management è la modalità di
definizione della categoria.
La clusterizzazione dell’assortimento ha importanti valenze strategiche sia per il
distributore sia per il produttore. Per il primo, la definizione dei confini tra le
categorie è fondamentale per la differenziazione dell’offerta e soprattutto
dell’innovazione commerciale. Per il secondo, la definizione della categoria
equivale ad individuare l’ambito competitivo, ovvero i competitor più vicini che si
contendono la domanda di un determinato segmento.
La tradizionale definizione di categoria segue generalmente una logica product
based, ovvero legata ai confini della famiglia merceologica3. La conseguenza
3
Lugli (1997) sottolinea infatti che la definizione dei confini delle categorie tende a seguire
percorsi differenti con riguardo all’industria e alla distribuzione. Per la produzione, infatti, la
definizione della categoria equivale all’individuazione dell’ambito competitivo, vale a dire dei
rivali più vicini che si contendono la domanda di uno stesso segmento di consumatori coincidendo
con il binomio prodotto mercato. Per la distribuzione, invece i confini della categoria sono molto
170
naturale di tale atteggiamento risulta essere la sostanziale uniformità dell’offerta
in termini di beni e soprattutto di formule distributive.
Un’altra definizione delle categorie basata sulle logiche dell’offerta è quella di
tipo supply based, vale a dire basata sulle uniformità di trattamento logistico delle
merci (Zenor, 1994; Harris 1993). In tutti i casi, si tratta di criteri definiti in
funzione delle logiche di efficienza dell’offerta industriale e distributiva. Tutto ciò
ovviamente non permette di conseguire quei vantaggi competitivi che una
revisione delle categorie in chiave customer based consente.
Secondo il FMI (1995), approfondendo una precedente definizione di Belk
(1975), adottando la prospettiva del consumatore una categoria potrebbe essere
definita come “a distinct, manageable group of products/services that consumers
perceive to be interrelated and/or substitutable in meeting a consumer need”.
In realtà, questa definizione da sola non conduce a un vero approccio custumerbased in quanto i processi di categorizzazione potrebbero essere indotti
dall’offerta perché vengono accumunati all’interno della stessa categoria prodotti
che i consumatori sono “abituati” a vedere insieme.
Questo limite può essere superato attraverso la reale comprensione delle esigenze
del consumatore a diversi livelli di astrazione e dei suoi processi di acquisto e di
consumo.
più ampi in quanto si tiene conto sia della sostituibilità che della complementarietà della funzione
d’uso dal momento che per l’azienda commerciale la categoria ha sempre una valenza espositiva.
171
Approfondire le conoscenze sulla domanda e sulle sue esigenze significa infatti
analizzare i comportamenti del consumatore e i processi cognitivi ad essi
sottostanti. Tale analisi permette di individuare modalità innovative di
aggregazioni dei beni, basate di una rappresentazione mentale dei gruppi di beni e
servizi percepiti in modo omogeneo.
In questo modo, si possono generare criteri di definizione delle categorie
realmente basati sulla domanda e non più sulle logiche dell’offerta.
III.1.3. Gli effetti del category management
Indagini recenti effettuate a livello manageriale dimostrano che la maggior parte
dei manager che hanno implementato progetti di category management hanno
ottenuti notevoli benefici a livello di rotazioni, profitti, market share, differenze
inventariali, relazioni con i partner di canale e conoscenza del consumatore.
Anche le ricerche empiriche intraprese dal mondo accademico hanno confermato
che l’adozione di un approccio orientato al category management comporta
notevoli effetti positivi sia per i distributori (in termini di redditività) sia per i
produttori (considerando le perfomance del proprio brand all’interno della
categoria) (Dewsnap & Hart, 2004).
172
Secondo altre ricerche, il category management assicura rilevanti benefici per tutti
i partner della supply chain, diminuendo i costi logistici, aumentando l’efficacia
degli investimenti di marketing e migliorando la customer satisfaction (Brockman
& Morgan, 1999; Dupre & Gruen, 2004; Svensson, 2002).
Nonostante questi riscontri estremamente positivi, alcuni autori hanno osservato
che la realizzazione di progetti di category management non necessariamente
induce reali benefici nel lungo periodo e solo in alcuni casi il category
management si è dimostrato un effettivo fattore di successo (Varley, 2001). A tal
proposito, Dussart (1998) afferma che molte politiche assortimentali all’interno
del retailing mix di categoria possono anche essere negative per il consumatore, in
quanto possono limitare la sua scelta verso prodotti a più alto margine, spesso non
avendo la possibilità di effettuare un confronto di prezzo con referenze simili.
Dupre e Gruen (2004) danno una visione ancora più pessimistica dei risultati del
category management, sostenendo che tale processo non riesce effettivamente a
mantenere tutte le promesse iniziali, in quanto a: l’incremento dei margini,
l’aumento della customer satisfaction, l’instaurarsi di una relazione di partnership
win-win, lo scambio di flussi informativi dettagliati e tempestivi.
In effetti, un’area ancora troppo sottovalutata nella prassi aziendale è la struttura
della relazione tra distribuzione e industria (Gruen & Shah, 2000) e su quali basi
poter costruire una relazione fiduciaria duratura nel tempo.
173
Occorre sottolineare, inoltre, che non tutti i progetti di category sono completi e
forniscono riscontri sull’intero processo gestionale di categoria. Alcuni progetti di
category non sono stati del tutto esaustivi, in quanto promossi senza un preciso
modello concettuale di riferimento. Solo un modesto numero di imprese ha deciso
di approcciare il category management secondo le logiche descritte in precedenza,
ovvero decidendo di considerare la categoria come unità strategica di business e
orientando l’intero processo al soddisfacimento della domanda.
Dall’osservazione dell’esperienza italiana in ambito category management,
emerge una maggiore attenzione verso il livello più pragmatico della
sperimentazione (Cristini, 1996), più affine alle consuete modalità d’azione della
pratica commerciale, che certamente porta buoni risultati a livello di
razionalizzazione dell’offerta e dell’utilizzo efficiente delle risorse (soprattutto a
livello espositivo), ma che in realtà non rivelano ampiamente le potenzialità che il
category management mette a disposizione (Gregory, 2001).
A tal proposito, Dawson (2000) sottolinea che nell’attuale contesto competitivo la
sfida fondamentale che il retail management deve superare è proprio quella di non
perdere mai il contatto con il consumatore, continuando a dare risposte immediate
174
ai suoi bisogni e ai suoi desideri4. Questo è ancora più vero nello sviluppo di
progetti di category management.
III.2. Metodologia
Al fine di comprendere in modo compiuto un fenomeno innovativo come il
category management, non si può prescindere dall’analisi di un caso di studio
(Yin, 1989) che sia in grado di cogliere l’impatto concreto che la nuova filosofia
di gestione produce nel sistema di relazioni di canale e approfondire i
cambiamenti a livello intra e inter-organizzativo emergenti in seguito
all’introduzione del category management nelle imprese commerciali e industriali.
Come afferma Metsämuuronen (2008), il caso di studio offre la possibilità di
descrivere la complessità e le interrelazioni proprie delle strutture sociali. E’ uno
strumento molto utile soprattutto nell’analisi di processi in atto o applicazioni
pratiche. Inoltre, essendo una descrizione della realtà, può permettere al lettore di
riflettere e individuare le proprie conclusioni sul caso.
4
Nel 1998, Marks & Spencer ha visto diminuire i suoi profitti di circa 300 milioni in 4 mesi a
causa della mancata offerta del corretto assortimento di prodotti ad un giusto livello di prezzo,
allontanandosi totalmente dalla prospettiva del consumatore.
175
Il metodo dei casi si basa, infatti, sull’uso e la triangolazione di molteplici fonti
informative (Bonoma, 1985), favorendo lo sviluppo di analisi di tipo descrittivo
ed induttivo che riguardano fenomeni spiegabili attraverso il ricorso a numerosi
fattori interagenti tra loro (Yin, 1981).
Secondo Eisanhardt (1989), i tentativi di riconciliare le prove che emergono tra i
vari casi di studio e tra i casi e la letteratura favoriscono quelle riflessioni utili per
creare una nuova visione teorica. Questo metodo, infatti “tende a liberare il
pensiero, così il processo ha il potenziale di generare teoria con una minore
influeza del ricercatore rispetto alla teoria costruita da studi incrementali o della
deduzione assiomatica da divano” (Eisanhardt, 1989).
Coniugando un approccio di tipo deduttivo con i risultati emersi dalla ricerca sul
campo5, è possibile così comprendere, da un lato, con che modalità e risultati le
imprese industriale e commerciali possono realizzare un progetto di category
management nel mercato italiano, dall’altro, le molteplici opportunità che
un’applicazione del customer based category management è in grado di
dischiudere per tutte le imprese che ne avviano il processo di implementazione.
La ricerca intende dimostrare che la massima valorizzazione di un qualsiasi
progetto di category management si ha solo attraverso una profonda comprensione
dell’analisi della domanda, che prende avvio dall’interiorizzazione delle esigenze
5
Va osservato che lo studio è stato realizzato adottando un approccio positivo/interpretativo,
ricorrendo anche al metodo induttivo (Silvestrelli, 1994).
176
della clientela e del suo processo di acquisto e di consumo. Inoltre, si vuole anche
analizzare come un approccio collaborativo sia il fattore chiave per il successo di
qualsiasi progetto di category management e, in ultima istanza, la base per creare
una relazione di lungo periodo.
In alcuni casi, infatti, l’attivazione di progetti di category management può essere
considerato come uno strumento sia per instaurare nuove di relazioni collaborative
tra industria e distribuzione sia per rinforzare legami preesistenti.
Infine, dalla lettura dei risultati ottenuti e della metodologia adottata dei progetti si
possano individuare in concreto alcuni applicazioni di natura strategica ed
organizzativa per l’industria e per la distribuzione.
III.3. I risultati della ricerca empirica
I primi progetti di category management sono stati avviati essenzialmente nel
settore food, il quale ancora oggi rimane il principale ambito di applicazione della
nuova filosofia di gestione6.
6
Nel mercato attuale, accanto al tradizionale ambito di applicazione, si stanno sviluppando diversi
progetti di category management anche in altri settori, tra cui il mercato del lusso, il settore
farmaceutico, l’high-tech e persino nei servizi (alcuni esempi si possono trovare nel mercato
turistico e nella scelta di prodotti finanziari).
177
I casi di studio analizzati nel seguente progetto di ricerca riguardano proprio due
best practices di category management realizzate nel settore alimentare, in
particolare nel settore delle carni bianche.
I due casi di studio descritti sono stati promossi dal Gruppo Fileni, terza azienda
nel mercato italiano delle carni bianche, in partnership con due gruppi della
distribuzione: Magazzini Gabrielli7 e Unicomm8.
Un progetto di category nel settore carni bianche assume ancora più importanza
considerando che:
-
nel caso del supermercato, le categorie dei prodotti “freschi” sono
determinanti per l’immagine e la fedeltà al pdv;
-
per oltre il 50% dei consumatori, la categoria “carni” risulta determinante
per la scelta del pdv (Castaldo & Costabile, 1996).
Proprio in relazione all’approccio customer-based del progetto, fondamentale è
stato lo studio della domanda, analizzata sia nel suoi aspetti qualitativi sia
quantitativi. Si è ritenuto, infatti, che solo la compresenza dei due metodi
avrebbero arricchito la conoscenza e la comprensione del problema di ricerca,
coniugando tendenze numeriche prese dai dati quantitativi e dettagli specifici
presi dai dati qualitativi.
7 Il primo progetto category è stato sviluppato in collaborazione con il Gruppo Gabrielli, gruppo
distributivo presente nelle regioni del centro Italia (Marche, Umbria, Abruzzo, Molise, Lazio) con
le insegne Oasi, Tigre e MaxiTigre.
8
Il secondo progetto category è stato svolto in partnership con il Gruppo Unicomm, presente
soprattutto nelle aree del nord-est con le seguenti insegne: Emisfero, Famila e A&O.
178
Nell’ambito dell’indagine qualitativa, sono stati effettuati 8 focus group volti ad
indagare la diversa articolazione del processo decisionale in riferimento alle
specifiche categorie di prodotti. In particolare, si è evidenziata l’esistenza di una
correlazione positiva tra il livello di coinvolgimento nella categoria e il grado di
approfondimento dei processi informativi e valutativi. Inoltre, i focus hanno
creato anche quella base di conoscenze sul consumatore necessaria per costruire
poi un modello di questionario da somministrare ai clienti e passare quindi alla
quantificazione delle preferenze di acquisto dei consumatori.
Il questionario ha preso in considerazione le seguenti aree tematiche: gli aspetti
socio-demografici del consumatore, il modello d’acquisto, la valutazione della
marca, l’atteggiamento del consumatore verso le principali leve di marketing
all’interno del pdv (promozione, esposizione, assortimento), il posizionamento
dell’insegna e principali competitor dell’insegna, in riferimento esclusivamente al
reparto carni bianche.
Il campione è stato individuato attraverso il metodo di campionamento casuale
semplice.
Attraverso l’analisi sistemica dei risultati, incrociando le variabili conoscitive
della domanda con i dati storici, si è proceduto alla segmentazione del mercato,
così da pianificare specifiche tattiche di marketing mirate ai singoli target.
179
III.3.1. La centralità del consumatore nel processo di category
management
Come descritto in precedenza nell’approfondimento del framework teorico, il
processo di implementazione del category management è strutturato in diverse
fasi, in continua interazione tra di loro.
Nei casi di studio analizzati, l’obiettivo primario era quello di fornire realmente
una lettura delle categorie nell’ottica del consumatore, come base per creare un
sistema di offerta vicino alla domanda e anche per evitare il sorgere di
atteggiamenti opportunistici da parte dei due partner. La mancanza di questo
fondamentale presupposto è spesso la causa principale del fallimento di numerosi
progetti di category management, in quanto ad una logica collaborativa prevale la
volontà di migliorare le proprie specifiche posizioni.
La fonte del vantaggio competitivo va invece individuata nella costruzione di una
partnership fondata sulla fiducia reciproca e nel rapporto continuativo con la
domanda finale.
Per questo motivo, l’analisi del consumatore è stata posta come la base di tutte le
diverse fasi del processo di category e in modo particolare di quelle che hanno
contribuito alla definizione delle strategie, ridefinendo in un certo senso il
tradizionale processo di category management.
180
Nello schema tradizionale, infatti, la prima fase che caratterizza l’intero processo
di category management è la definizione di categoria (Figura III.3.1-1); tale
momento ricopre valenze strategiche in quanto tende a delineare i confini
competitivi per l’azienda di produzione e la peculiarità dell’assortimento offerto
dall’impresa di distribuzione.
Figura III.3.1-1. Il processo di category management customer based
Processo tradizionale
Processo customer based
Fonte: elaborazione propria da Ecr (1995)
Un percorso definitorio corretto, però, non può svilupparsi da una posizione
unilaterale di una delle due aziende bensì richiede l’approfondimento del mercato
e della domanda, per poi individuare gli elementi comuni che permettano di
181
definire una categoria in cui le parti si riconoscano e che rappresenti una forma di
linguaggio condiviso. Questa visione comune è proprio la visione del
consumatore.
Di conseguenza, l’analisi del consumatore diventa la fonte di conoscenza su cui
costruire l’intero processo di category management: infatti, è solo da una profonda
comprensione della domanda che è possibile dare una definizione delle categorie9
realmente customer based.
III.3.2. La definizione della categoria in ottica customer based
Seguendo il nuovo processo di category management, si è quindi proceduto ad
individuare la macro-categoria di riferimento, intesa solo come mercato obiettivo
su cui poi articolare la clusterizzazione dei consumatori. Dopo aver definito
analizzato l’intero scenario di mercato individuando i macro trend del mercato,
l’analisi si è quindi concentrata a livello micro, ovvero sull’indagine sul
consumatore.
9
La categoria così definita diventa quindi un terreno comune di confronto, che va oltre il classico
riferimento al “portafoglio prodotti” del produttore e l’ “assortimento complessivo” che invece
costituisce l’elemento chiave per il distributore.
182
La domanda è stata analizzata sia nei suoi aspetti qualitativi sia quantitativi,
ritenendo che solo la compresenza dei due metodi avrebbe potuto offrire un
quadro completo e sufficientemente esaustivo del fenomeno.
In particolare, sono stati studiati:
-
il livello di coinvolgimento del consumatore nella categoria;
-
i criteri di categorizzazione dei consumatori attraverso l’analisi dei
benefici ricercati nella categoria;
-
le relazioni di complementarietà e sostituibilità tra le categorie.
Le indagini effettuate sul consumatore hanno dimostrato l’esistenza di una
correlazione positiva tra livello di coinvolgimento e il grado di approfondimento
dei processi informativi (Bertozzi & Castaldo, 2000). La figura III.3.2-1 mostra la
diversa articolazione del processo decisionale nelle situazioni caratterizzate da un
diverso livello di coinvolgimento e il grado di approfondimento dei processi
valutativi e informativi.
L’acquisto di categorie ad elevato coinvolgimento psicologico portano spesso ad
una maggiore raccolta di informazioni finalizzate alla valutazione del prodotto. In
questo contesto, il consumatore tende a fondare le proprie valutazioni su un
processo di apprendimento intenzionale, che può basarsi sul dialogo con il
personale del punto di vendita, nel caso della vendita assistita, oppure nella lettura
dell’etichetta, nel caso della vendita a scaffale.
183
Figura III.3.2-1. Gli stadi del processo di acquisto
Elevato coinvolgimento
psicologico
Percezione del
bisogno
Modesto coinvolgimento
psicologico
Percezione del
bisogno
Ricerca di
informazioni
Valutazione delle
alternative
Decisione
d’acquisto
Decisione
d’acquisto
Valutazione postacquisto
Valutazione postacquisto
Fonte: adattamento da Castaldo (2009)
Entrando più nel dettaglio, innanzitutto, c’è una forte attenzione verso la selezione
del prodotto, tale da evitare la nascita di dissonanze tra flusso informativi e qualità
percepita. Inoltre, cresce l’attenzione prestata alle caratteristiche differenziali delle
varie alternative di offerta: infatti, spesso si scelgono forme distributive
184
specializzate per l’acquisto di pezzi più particolari o più pregiati, mentre la grande
distribuzione viene invece preferita se si cercano maggiori livello di servizio.
Invece, per quanto riguarda i prodotti con bassi livelli di coinvolgimento, il
processo d’acquisto diventa più semplificato, quasi distratto; la principale fonte
informativa diventa la sperimentazione diretta o l’attività di comunicazione della
marca.
In ottica category, ciò enfatizza la criticità del contenuto informativo del display,
soprattutto con l’obiettivo di differenziazione rispetto alla concorrenza (Figura
III.3.2-2).
Le implicazioni manageriali connesse all’analisi del livello di coinvolgimento
della domanda nell’acquisto di un prodotto sono molto diverse. Per i prodotti ad
alto coinvolgimento, il cliente è particolarmente attento a servizi di tipo
informativo: qualità della preselezione, assistenza personale nelle fasi di scelta e
display articolato in modo coerente con i criteri valutativi della domanda. Questo
tipo di offerta corrisponde in genere al livello di servizio tipico delle forme
distributive specializzate.
I prodotti a basso coinvolgimento psicologico si prestano, invece, a modalità di
vendita più tipiche dei punti vendita de-specializzati. In questi casi, il cliente è più
attento al contenuto logistico dell’offerta commerciale: la velocità e la comodità
dell’acquisto, la facilità nell’individuazione della categoria all’interno del punto
185
vendita, prossimità del punto vendita, velocità del servizio (Busacca & Castaldo,
2000).
Tabella III.3.2-2. Le principali implicazioni manageriali per il category
management
Livello di coinvolgimento
psicologico nella categoria
Principali implicazioni manageriali per il category
management
Elevato
Elevato servizio di preselezione
dell’assortimento.
 Informazione diretta del personale di vendita.
 Display informativo.
 Prodotti garantiti
Ridotto




Facilità di reperimento del prodotto.
Display immediatamente leggibile.
Varietà gestita.
Fonte : elaborazione da Bertozzi e Castaldo (2000)
Per quanto riguarda invece il secondo punto, ovvero il processo di
categorizzazione, l’obiettivo è stato quello di ricercare i benefici e i valori
correlate alle attività di consumo. Le sequenze cognitive sono state individuate
attraverso la ricostruzione della “catena mezzi-fini” (Gutman, 1982). Queste
associazioni cognitive possono essere classificate sulla base del loro livello di
astrazione: ai livelli più bassi della catena ci sono gli attributi tangibili e
186
intangibili dell’offerta, a livello intermedio quelle con i benefici (funzionali,
esperienziali e simbolici), a un livello più alto di astrazione l’area dei valori
(strumentali e terminali).
I clienti attraverso la loro attività di shopping ricercano prodotti con certi attributi,
i quali sono legati da rapporti causali verso l’ottenimento di certi benefici, che a
loro volta sono strumentali all’attestazione di certi valori terminali.
Attraverso la comprensione di questi nessi causali, è stato possibile segmentare
l’offerta in base ai benefici ricercati e definire i diversi livelli di articolazione
dell’offerta. Costruire un albero delle categorie sulle esigenze del consumatore
può facilitare l’apprendimento e la scelta del cliente, accrescere la sua
soddisfazione in relazione al processo di acquisto e aumentare la sua fedeltà al
punto vendita.
Per quanto riguarda invece il nesso di complementarietà e sostituibilità tra le
categorie, questa relazione è stata indagata nell’ambito dei momenti di consumo,
riconoscendo che la scelta di determinate categorie di prodotti è strettamente in
relazione con l’occasione di utilizzo e quindi con tutte le componenti di contesto
che la compongono.
187
III.3.3. I ruoli strategici di categoria
Lo step successivo riguarda la definizione dei ruoli di categoria. Anche in questa
fase, è il consumatore che deve indirizzare gli investimenti e gli impieghi di
risorse nelle diverse categorie.
Il ruolo da assegnare alle categorie non deve essere frutto di una scelta autoritaria
del distributore, ma deve essere il risultato di un’analisi congiunta della domanda
e dei parametri di performance del distributore. A tal fine è necessario che si
inneschi un circolo virtuoso tra la prospettiva del distributore e la prospettiva del
consumatore.
Secondo questo approccio, i ruoli strategici che possono essere assegnati alla
categoria sono i seguenti10 (Bertozzi, 2000):
-
destination (destinazione): il distributore vuole essere riconosciuto come il
fornitore più qualificato in assoluto a soddisfarne le esigenze; allocazione
privilegiata e di risorse al fine di poter trasferire al consumatore un valore
di eccellenza,superiore rispetto alla concorrenza (varietà e qualità degli
assortimenti e dei servizi di vendita);
10
A tal fine possono essere individuate altre variabili di posizionamento. Ad esempio, facendo
riferimento alla reach-frequency roles matrix (FMI, 1995), le categorie possono essere classificate
in base al livello di penetrazione (definita come la percentuale delle famiglie che acquista un
prodotto della categoria in un anno) e di frequenza (definita come il numero medio di volte
all’anno in cui la categoria acquisita è acquistata). La classificazione si declina quindi in: staples,
niches, necessities, fill-ins.
In alternativa, utilizzando un approccio retailer-based, i ruoli delle categorie si possono
classificare in base al volume di vendita e del livello dei margini, individuando così sei tipologie di
categorie: flagship, core traffic, cash machine, under fire, maintain/grow, rehab.
188
-
routine o preferred (rilevante): le categorie di routine sono quelle sulle
quali l’impresa intende mantenersi altamente competitiva, ma dove non
c’è spazio per significative politiche di differenziazione; sono categorie ad
alti volumi, dalla frequenza di acquisto elevata e di una certa visibilità per
il consumatore; la logica di approvvigionamento prevale sulla logica
shopping: eccellenza sul piano logistico, ovvero riducendo al minimo il
rischio di rottura di stock;
-
seasonal o emotional (stagionale): categorie ad elevata stagionalità, a cui
viene attribuito un’importanza significativa solo in alcuni momenti
dell’anno; categorie coerenti con bisogni articolati dei consumatori (ad
esempio: pic-nic) e capaci di stimolare acquisti aggiuntivi (ad esempio:
estate);
-
convenience (comodità/servizio): categorie di “complemento”, legate alla
possibilità per il consumatore di concentrare gli acquisti in un’unica
spedizione o di usufruire di servizi a valore aggiunto.
Dalle considerazioni fatte in precedenza, è possibile posizionare idealmente i
quattro ruoli strategici all’interno di una matrice, dove le componenti principali
sono (vedi Figura III.3.3-1): l’importanza per il trade, ( in riferimento
all’incidenza sul fatturato e sui volumi, composizione del margine, crescita nel
tempo); l’importanza per il consumatore (analisi del comportamento d’acquisto,
189
livello di programmazione all’acquisto, scontrino medio, frequenza d’acquisto,
ecc..).
Figura III.3.3-1. I ruoli strategici della categoria
Fonte: elaborazione propria
Dalla lettura congiunta di queste due prospettive è possibile assegnare dei ruoli
non solo in base alla loro redditività per la distribuzione, ma anche e soprattutto in
base all’importanza riconosciuta dal consumatore.
190
III.3.4. L’assegnazione degli obiettivi di marketing di categoria
A fronte di un diverso ruolo strategico delle categorie, è emersa anche la necessità
di individuare quale possibile contributo può fornire ogni singola categoria alla
realizzazione delle strategie di marketing dell’insegna e al raggiungimento di
determinati obiettivi economici. L’assegnazione degli obiettivi di performance di
categoria è servita quindi a guidare la ripartizione delle risorse di marketing tre le
varie categorie, permettendo un’allocazione più efficace ed efficiente diffondendo
l’imprenditorialità anche a livello di categoria.
Gli obiettivi di marketing individuati nei casi di studio sono coerenti con quelli
individuati nella letteratura (Mauri, 1995) e possono essere classificati in:
-
traffic building: attirare il maggior numero possibile di consumatori;
-
transaction building: aumentare il valore della spesa dei consumatori,
attraverso l’acquisto di prodotti non programmati (acquisti ad impulso) o
di prodotti a maggior valore unitario;
-
margin contributing: aumentare il margine complessivo del distributore;
-
cash generating: aumentare il fatturato generato dalla categoria;
-
excitement creating: rendere piacevole e stimolante il processo di acquisto;
-
price image: comunicare al consumatore la convenienza di prezzo
attraverso politiche di price leadership;
191
-
variety image: comunicare al consumatore la qualità dell’assortimento in
termini di ampiezza e/o profondità;
-
turf protecting: difendere la base dei consumatori.
III.3.5. Il piano strategico di categoria e il retailing mix
Il tratto rilevante che emerge dai casi di studio si identifica proprio nella
costruzione del piano strategico di categoria, ovvero nel fatto che si possono
individuare specifiche strategie di marketing in riferimento alle singole categorie.
Infatti, il piano strategico di categoria prende avvio proprio dalla definizione dei
confini delle categorie, per poi individuare i ruoli che queste rivestono e gli
obiettivi e le strategie necessari per perseguirli.
In questo modo, le linee guida strategiche si ritrovano proprio nei risultati
dell’indagine sul consumatore: è da questa conoscenza che è alla base della
progettazione delle politiche di marketing di categoria e le rispettive leve di
retailing mix.
192
Figura III.3.5-1. Uno schema di riferimento per l’individuazione delle strategie di
marketing di categoria
Ruolo
Destinazione
Routine
Servizio
Emozionale
Categorie
Strategia
Retailing mix:

Politica assortimentale

Pricing

Attività promozionali

Merchandising e visual
merchandising
Fonte: elaborazione propria
In particolare, una delle principali leve del retailing mix è l’assortimento.
L’assortimento è una componente essenziale dell’immagine del punto di vendita e
ha una componente dinamica, ovvero si evolve nel corse del tempo. Il
cambiamento devo essere guidato dalla costante ricerca sul mercato obiettivo. A
tal fine, la proposta commerciale ha cercato di riflettere l’evoluzione dei bisogni e
delle esigenze del cliente, sempre facendo riferimento alle indicazioni emerse
dall’analisi.
193
Nei casi di studio emerge che sia il produttore sia il distributore guardano
all’orientamento al mercato come una fonte di innovazione determinante per la
loro differenziazione: per il distributore, rappresenta un’opportunità per
differenziare la propria proposta commerciale, soprattutto a livello intra-formula,
facendo leva su modalità innovative di interpretazione dei bisogni e
sull’eterogeneità dei benefici ricercati dalla domanda; per il produttore, l’ascolto
della clientela può fornire cruciali informazioni in termini di innovazione di
prodotto.
In questo senso, si è proceduto sia a razionalizzare l’offerta assortimentale,
riducendo le inefficienze (prodotti basso rotanti o sovraesposti), sia a sviluppare i
segmenti più innovativi e dinamici alla luce delle indicazioni provenienti
dall’analisi del consumatore e dei trend di mercato.
Nella pratica, nelle categorie merceologiche dominate dalle marche industriali, la
differenziazione dell’assortimento è stata perseguita con lo sviluppo di linee di
prodotto minori, che inseriscono la non sovrapposizione tra i criteri di
referenziamento dei prodotti. Invece, nelle categorie dove la marca è poco
presente, il distributore ha deciso di aggiungere valore attraverso la lavorazione
della materia prima direttamente in punto vendita, in modo da comunicare il
carattere di artigianalità dei prodotti. L’obiettivo della differenziazione d’offerta
rispetto ai competitor è di sviluppare la fedeltà della clientela attraverso la
specificità dell’assortimento.
194
Le innovazioni nella politica di assortimento si traducono direttamente in nuove
soluzione di merchandising e visual merchandising. Il visual merchandising
svolge un ruolo fondamentale nel comunicare la dimensione emozionale
dell’assortimento, richiamando nel sistema cognitivo individuale emozioni ed
esperienze collegate al consumo passato e futuro del prodotto, valorizzando così il
contenuto semantico dell’offerta commerciale (Soscia, 2001).
Il display è cruciale per le performance del retail principalmente perché: nella
maggior parte dei casi il consumatore sceglie la marca da acquistare in punto
vendita; il tempo che i consumatori utilizzando per effettuale le loro scelte è
estremamente limitato (Dickson & Sawyer, 1990).
Per questo motivo, i progetti di category management analizzati hanno avuto
quale manifestazione ultima “visibile” alla clientela proprio la riorganizzazione
della superficie espositiva tenendo conto di una nuova forma di aggregazione
delle categorie basata sul processo di consumo del consumatore e non più sulla
omogeneità merceologica.
Superato l’inevitabile disorientamento iniziale del pubblico, ormai abituato da
anni a punti di vendita organizzati secondo una logica omogenea di tipo
merceologico, il nuovo layout si è rivelato più funzionale al processo di ricerca
dei prodotti, minimizzando il tempo dedicato agli spostamenti nel punto vendita
senza però rinunciare bensì, al contrario, stimolando acquisti non programmati.
195
La nuova disposizione dell’assortimento è stata anche accompagnata dalla
creazione di una grafica espositiva che potesse comunicare visivamente i momenti
di consumo e far “pregustare” all’acquirente l’esperienza di consumo.
Il punto vendita si trasforma così in un efficace experience provider11 (Castaldo &
Mauri, 2008), in cui lo shopper è attratto dagli aspetti del punto vendita che
possono rendere l’attività di acquisto piacevole e divertente, apprezzando la
creatività e l’originalità dell’ambiente e dello store design, come hanno dimostrato
le analisi di customer satisfaction realizzate nella fase test dei due progetti di
category.
Infatti, nell’ottica delle imprese partner analizzate, è il punto vendita il luogo in
cui avviene il contatto decisivo con il cliente: facendo vivere al cliente
un’esperienza di shopping emozionante e coinvolgente, è possibile potenziare la
relazione con il cliente, determinando così un’ulteriore fonte di generazione di
valore per la domanda.
11
Dalle ricerche svolte con riferimento alla shopping orientation degli acquirenti emerge
l’esistenza di differenti motivazioni alla base dei processi di shopping, evidenziando il
riduzionismo dell’ipotesi che considera l’individuo, durante l’attività di shopping, teso solo ed
esclusivamente a minimizzare i costi di approvvigionamento. A tale riguardo è stata riscontrata
l’esistenza di due tipologie di atteggiamento rispetto all’attività di acquisto: un atteggiamento
funzionale e uno ricreativo. Nel primo caso lo shopping viene considerato un’attività meramente
strumentale all’approvvigionamento di veni; nel secondo, l’individuo assegna a tale attività una
valenza autonoma rispetto all’acquisto, interpretandola come uno strumento di svago e di
intrattenimento.
Per ulteriori approfondimenti sulla creazione di esperienze emozionali nel punto vendita si fa
riferimento a Forseter (2000), Mahler (2000), Shaw and Ivens (2002), Smith and Wheeler (2002).
Altre ricerche fanno riferimento al concetto di “experiential retailing’’ (Kim, 2001), o
‘‘entertaining experiences’’ (Jones, 1999; Ibrahim & Ng, 2002) o infine ‘‘entertailing and
shoppertainment’’ (Buzz, 1997).
196
III.3.6. Risultati e prime considerazioni conclusive
Nell’attuale mercato competitivo, le imprese mirano a soddisfare in modo più
compiuto le esigenze della domanda, proponendosi come soggetti attivi in grado
di rispondere repentinamente ai bisogni specifici della domanda.
L’evoluzione dell’acquirente-consumatore sul piano comportamentale e dei
bisogni e la ricerca della sua fedeltà sollecitano l’avvio, da parte sia del
distributore sia del produttore, di un processo innovativo di marketing
distributivo, che esalti la componente immateriale della creazione del valore.
Questa esigenza trova espressione nell’adozione di una nuova modalità gestionale
all’interno del marketing distributivo: il category management.
Dall’analisi dei casi di studio, si evidenzia che in virtù della focalizzazione
dell’indirizzo comune sulla categoria merceologica, emergono aspetti e profili
nuovi di analisi delle aree di partnership emergenti tra industria e retailer.
La stessa realizzazione operativa del category dispiega la sua efficacia solo
attraverso un processo di gestione integrata delle risorse di marketing,
condividendo le risorse informative e conoscitive rispettivamente detenute e, se
necessario, investigando ancora più in profondità i processi di consumo e di
acquisto, coerenti con i segmenti di mercato a cui esse si rivolgono.
Uno degli aspetti più innovativi emersi dai casi di studio riguarda il processo di
costruzione dell’assortimento: infatti, l’albero delle categorie si è articolato
197
assolutamente in ottica customer base, segmentando l’offerta sulla base
dell’occasione d’uso e dei benefici ricercati della clientela, superando la
tradizionale suddivisione secondo le affinità merceologiche dei prodotti.
La segmentazione ha trovato poi riscontro nell’intera gestione del piano strategico
di categoria, a partire dall’assegnazione dei ruoli fino alla definizione del retailing
mix.
I vantaggi riscontrati dallo studio dei due casi sono molteplici. Innanzitutto,
emerge un miglioramento delle relazioni fiduciarie lungo tutta la supply chain:
produttore e distributore hanno collaborato attraverso l’interazione continua tra le
parti, instaurando un rapporto di cooperazione e fiducia reciproca, riducendo
l’incertezza della relazione e favorendone la continuità.
Il miglioramento della relazione ha riguardato anche i processi organizzativi
interni: si è riscontrato un maggior livello di integrazione organizzativa tra tutte le
funzioni aziendali, in particolare del marketing e delle vendite.
Anche i risultati economici dei progetti sono molto positivi: nei punti vendita test,
i parametri relativi al fatturato e volumi di vendita sono aumentati e in particolare
è cambiata la composizione del margine, a favore di prodotti più innovativi e in
crescita nel mercato.
Eccellenti risultati sono emersi anche dalle analisi di customer satisfaction
effettuate nella fase post test dei progetti: i consumatori sembrano approvare la
198
nuova modalità di lettura dell’assortimento, in quanto espressione dei loro
processi di consumo.
I clienti intervistati dichiarano di aver migliorato la fase di scelta dei prodotti in
punto vendita: la vicinanza dei prodotti in relazione ai benefici ricercati dal
consumatore evita la possibilità di disorientamento davanti allo scaffale. In questo
senso, il display diventa quasi un “consulente” nel processo di acquisto nel
consumatore.
Data la positività dei risultati emersi dai due casi di studio, è possibile affermare
che l’attivazione di working partnership tra industria e distribuzione in ambito
category management facilita la creazione di nuove fonti di valore per il cliente
finale e nuovi elementi di differenziazione rispetto alla concorrenza.
III.4. Il panorama internazionale: intervista al category manager
di Unilever Uk
Per completare la ricerca relativa al tema del category management, viene
proposta anche un’analisi comparativa tra la realtà italiana e le best practices nel
Regno Unito. A tal fine è stata svolta un’intervista face-to-face con Joe
199
Chomiskey, category manger di Unilever UK, responsabile della categoria degli
“spread”, comprendente le sub-categorie del burro e della margarina.
L’intervista è volta ad approfondire nella pratica aziendale le diverse aree teoriche
del category management, tra le quali:
1. il ruolo del category management in Unilever UK;
2. l’importanza della relazione;
3. il cliente come terzo partner nella relazione industria-distribuzione;
4. la definizione della categoria;
5. le politiche assortimentali;
6. la leva promozionale;
7. la relazione tra category e sales.
III.4.1. Il ruolo del category management in Unilever UK
Nella parte iniziale dell’intervista, si è voluto indagare quale sia l’importanza e il
ruolo del category management in una azienda multinazionale come Unilever e
quale siano le differenze interpretative rispetto al contesto italiano.
Category management is a very strange job for any business to have
because ultimately my job isn’t about growing our products but it is about
200
growing all the category. We are not the only people in this category: for
Unilever it is us and Arla, who has two brands called Lupark and Anchor,
and we are about 30% of the market share so we called joint leaders, then
there is a company called Dairy Crest and it has the 18% and a lot of small
suppliers.
Nel mercato inglese, Unilever e la controllata Arla hanno una quota di mercato del
30%. Il category manager pone immediatamente in evidenza il ruolo chiave di un
approccio gestionale orientato al category management: l’obiettivo, infatti, non è
di aumentare solo ed esclusivamente il proprio brand, ma di far crescere l’intera
categoria.
So first of all in Unilever category managers sit within our marketing
teams. So in some companies it sits in the sales team and you are a very
much part of the customer and you are an expert of the customer and you
help to grow a number of categories. The way Unilever works is I works
only on chilled across all of the customers. In term of the marketing side, I
sit with the marketing function and my job is to make sure that I influenced
the marketing team so that every activity or plan that we are doing help
growing the category.
201
In alcune aziende il category manager è parte della funzione commerciale ed è
essenzialmente responsabile di un piccolo gruppo di clienti della distribuzione e di
diverse categorie di prodotti. In Unilever, invece, il category manager è parte della
funzione marketing e si occupa specificamente della propria categoria in
riferimento a tutti i retailers: questo orientamento, sicuramente più market driven,
permette di essere più vicino alle strategie di marketing globali dell’azienda e di
avere sotto controllo l’intero panorama della distribuzione.
Il processo di marketing, nella sua dimensione oramai riconosciuta di filosofia
pervasiva, si ritiene essere il driver più idoneo a promuovere l’integrazione tra le
diverse attività aziendali, in quanto è in grado di orientare non più esclusivamente
all’efficienza e al prodotto, ma soprattutto al mercato, individuando il principale
asset nella creazione di valore per il cliente.
I think I could not work on a project basis because I need to build the
relationship and to work with them daily and focus on the retailer: I see
them, I give them advice and so on. Of course, then, it depends on the size
of the company because small size companies cannot afford a category
manager. It also varies by country because I think UK has a very good
category management approach.
202
In questa parte dell’intervista emerge un punto molto importante: l’approccio al
category management deve essere una filosofia di gestione per l’azienda e non
solo un “progetto” con orizzonti temporali di breve periodo. Ovviamente l’ottica
di progetto può essere determinante nel momento in cui si vogliano attivare delle
sperimentazioni o quando si voglia instaurare un primo rapporto con il cliente
della distribuzione.
In seguito, però, il rapporto deve necessariamente cambiare prospettiva temporale
e la relazione deve diventare continua: il category management deve essere una
filosofia gestionale che permea tutti i processi aziendali e non può basarsi su
logiche transazionali.
In the UK, the marketing department in retailers tends to be quite big, but
unpowerful because they only work across the total store, so you don’t tend
to get people that do a lot of marketing just on my category. For example,
Tesco or Asda, they always do advertising but always saying “we are the
cheapest”, “now we are the cheapest”, “we have a club card, do you have
a club card?”. They are not category experts; they don’t do advertising just
on spreads. And maybe let’s happen to be they have the best offer in store
is made by spreads and then maybe we can talk about, but otherwise not.
They ask for promotion, what promotion should I do, what is going to work,
what is the objective...do they want to bring shoppers in or they’re just
203
trying to get people they already have to buy more, so if you want to do
that, this is how you should promote.
Le imprese commerciali hanno acquisito una crescente autonomia in termini di
marketing. In passato, le ridotte dimensioni e le scarse conoscenze di marketing
rendevano le aziende della distribuzione passive rispetto alle imprese
dell’industria. Ora, invece, hanno potenziato le loro politiche di marketing al fine
di riprogettare e valorizzare la loro proposta di offerta, addirittura sviluppando
linee di prodotti proprie: le marche commerciali.
La capacità di marketing della distribuzione si estende poi anche alla possibilità di
gestire in modo personalizzato la relazione con il cliente, soprattutto grazie allo
sviluppo di carte fedeltà che, insieme allo sviluppo e alla diffusione di tecnologie
informatiche sempre più innovative, permettono alla distribuzione di ottenere
informazioni sulle abitudini d’acquisto della clientela. Questa massa di dati, se
adeguatamente sfruttata, permette di realizzare strategie attive da parte del
distributore, che in questo modo più sviluppare una relazione autonoma con i
clienti.
Come sostiene il category manager, il marketing della distribuzione tende a
supportare l’intera politica commerciale al fine di valorizzare l’immagine
dell’insegna e attirare più clienti nei loro punti vendita. Per questo motivo,
l’attenzione del marketing distributivo non può concentrarsi sulle singole
204
categorie, ma deve necessariamente avere una visione più olistica al fine di
migliorare le performance dell’intera azienda e non solo dei singoli comparti.
Lo strumento principalmente utilizzato sembra essere la leva promozionale: con la
promozione di prezzo l’azienda commerciale si propone di attirare nuovi
consumatori al punto vendita, di aumentare il traffico e di fidelizzare i
consumatori abituali, stimolando le vendite dei prodotti in offerta normale.
Per effetto della diffusione tra le insegne, inoltre, le politiche promozionali si
stanno integrando sempre di più con i programmi di fidelizzazione e di
micromarketing. L’attenzione alla fedeltà della clientela sposta le promozioni
dall’esterno all’interno del punto vendita, dai media di massa ai mezzi diretti, da
“una iniziativa per tutti” al cluster marketing, dal mero traffico alla share of wallet
dei clienti abituali (Ziliani & Belllini, 2004).
Also I have to work with the category managers from competitors, so the
other category managers, for examples if we go to a merchandising centre,
normally more than one of us will be present. Now there are a lot of legal
implications around having two competitors in the same room so all of the
conversations go through the buyer, not to each other, so it is a strange
kind of setter, but for legal reasons for competition reasons we have to
make sure that all the hypotheses that we made are objective, I have to
make a lot of notes in any meeting to make sure that everything is covered
205
and we all have a legal statement that said that not comfortable we would
leave, we could reject the meeting, but...You know, the customers want to
get an holistic view, so, generally no, they don’t just pick one supplier and
say “we work with you on category management”, they pick more than one
because they want to make sure, actually they want to see your view and
your view, which is strange but from that point of view quite clever because
obviously I always go there and say “these are the things that work for
Unilever and for you”, and Arla goes there and says “these are the things
that work for Arla and for you”, so at the end they can picking on them for
the whole strategy and cannot stop pulling them and working on.
Un altro soggetto con cui il category manager tende ad interfacciarsi è la
concorrenza. Anche nei confronti dei competitors sembra esserci un rapporto di
massima trasparenza, stabilita anche da rigide regole in termini di incontri
collettivi tra il retailer e i suoi fornitori. Il cliente della distribuzione vuole avere
un ampio e completo panorama del mercato e gli orientamenti strategici di ciascun
fornitore, in modo da poter prendere le proprie decisioni dopo valutazioni
comparate.
Emerge con evidenza quanto il ruolo del category manger sia trasversale sia
all’interno della sua azienda sia nei rapporti con altri stakeholders dell’azienda
stessa.
206
III.4.2. L’importanza della relazione
As well as that, I also work with the ongoing in terms of valuable contact
means, how say “Joe we have got this idea or we have got this problem,
what do you think about it, what do you think is the solution?” and the all
purpose of my job is that customer see me as completely impartial, they
don’t see me as Unilever. Haven’t said that, I work for Unilever and it is
obviously important to make it sure that we are doing things, I grow the all
category, but I try to do that in a way that also grows our brands as well.
You know ultimately Unilever invest in me, it is a help to grow their
business as well for the retailers. That is the challenge that sometimes can
be, finding what are the things that work, for the customer it is to grow the
category and also to grow our brands.
For Unilever there is a huge focus now and we talk about growing the all
pie, so the pie is worth 100 million pounds, let’s say, how can we make that
pie worth 120 million pounds and in doing that how can we get a bigger
piece of it, so the customers are happy and we are happy as well, and when
I say customer I mean kind of Tesco, Asda, etc…
Durante l’intervista, emerge con chiara evidenza importanza dell’atteggiamento
imparziale del category manager: l’equità rappresenta una delle basi per creare un
207
legame fiduciario tra le parti. E’ importante, dunque, instaurare legami chiari in
cui gli attori coinvolti credano fermamente nella capacità del partner di mantener
fede agli impegni presi e di non intraprendere azioni negative inaspettate nei
propri confronti.
Il rapporto distribuzione-industria è estremamente complesso in quanto è formato
da attività spesso complementari tra loro: la ripartizione della logistica, la
negoziazione sui costi per uscire ad un prezzo più basso e incidere in modo
positivo sul margine, la collaborazione tra il marketing per comunicare in modo
efficace con il cliente. Oltre a questa complessità si aggiunge la competizione sul
mercato del consumo, l’industria con i suoi prodotti di marca, mentre la
distribuzione con i prodotti a marca commerciale, di norma con un prezzo
inferiore del 10-20% rispetto alla marca industriale. Quindi, l’adozione di una
logica collaborativa, abbandonando la tipica prospettiva antagonistica che permea
molte rapporti di fornitura, non sembra essere uno switch semplice e automatico:
al contrario, necessita la presenza di un legame fiduciario che si basa su una serie
di precondizioni fondamentali, come la correttezza reciproca, la correttezza, la
trasparenza comunicativa, la condivisione dei valori.
In sintesi, per superare le criticità della relazione industria-distribuzione è
necessario creare un rapporto di vera partnership che passi da una logica di
convenienza ad una prospettiva win-win di collaborazione basata sulla fiducia
reciproca.
208
In term of relationship, I have a very good relationship with the buyers
because I’m not discussing prices with them or anything like this, they will
never have any questions to me about I don’t make enough cash on this; if
it is not my field, we don’t talk about it. And then we have commercial
situations, like if we have a price increase through or there are some
promotions they are not happy with, the buyers will often stop speaking to
the account managers or the sales team, they just stop answering the
phone, stop speaking, but because we have got this category relationship in
place, they still speak to me, we still keep that dialogue and that really
helps because in the way the retailers still need our advice.
Then you know, the thing I enjoy about sales was building that relationship,
but in sales often, no matter how you try, there might be commercial things
that stop that from being a good relationship.
Nei canali distributivi, spesso il conflitto nasce per il fatto che un membro del
canale si comporta in modo opportunistico sfruttando una situazione di
dipendenza e quindi utilizzando l’autorità come meccanismo di coordinamento. In
letteratura, il conflitto è stato definito come comportamento esplicito che deriva
da un processo nel quale un soggetto ricerca di portare avanti il proprio interesse
nella relazione con altri soggetti (Schmidt & Kochan, 1972).
Nei rapporti industria-distribuzione, la negoziazione è solitamente guidata
209
dall’obiettivo delle parti di ottenere il maggior vantaggi economico aziendale,
basandosi sul concetto di convenienza dell’acquisto. Il prezzo e lo sconto sono
tuttavia strumenti di breve periodo, che non consentono la costruzione di
relazioni, ma solo di rapporti transazionali che spesso sfociano in strategie di
influenza coercitive.
Con l’instaurarsi di un rapporto collaborativo, si superano queste logiche
opportunistiche per adottare invece un nuovo approccio basato sulla fiducia
reciproca, che va oltre le singole transazioni e i piccoli conflitti. Ring e Van de
Ven (1992) sostengono che fare affidamento sulla fiducia è possibile solo come
conseguenza di ripetute transazioni di mercato tra le parti, in cui entrambe hanno
osservato le norme di equità. La fiducia è rafforzata da un lungo periodo di
transazioni, che contribuiscono a sedimentare la relazione e ridurre l’incertezza
comportamentale, riducendo così il rischio di opportunismo.
They need to choose between me and Arla, because we are the biggest, but
ultimately also in term of people who are inside there. When I joint
category management two years ago and move towards a much strategic
role a year ago, the relationship was much better with Arla. So although
they spoke to both of us, Arla tended to be the one who they listened to, but
now there is more balance. I think that this was built through me over a
period of time, just in term of getting their trust. And kind of small things
210
like also being proactive rather than waiting for them contacting ma and
say “Joe what’s happen with this, why it is not doing this” This means to
be on top of what’s happening, look at what is happening in the market,
and be able to notice this is happening and this is why, so it is about to be
really forward-thinking.
La figura del category manager si evolve decisamente verso un profilo di
“relationship manager”. In un contesto sempre più volto alla collaborazione, le
imprese hanno compreso l’importanza della fiducia: è fondamentale che il
category manager sia in grado di conquistare e poi accrescere la fiducia del buyer
e, più in generale, dei soggetti che fungono da interfaccia presso l’impresa cliente.
Nel presente lavoro, infatti, è stato ampiamente dimostrato come il livello di
fiducia sia tra le variabili che più condizionano le decisioni dei responsabili
d’acquisto, la loro propensione alla collaborazione e l’orizzonte temporale della
relazione, manifestando un impatto economico non secondario sui risultati
economici dell’impresa.
In questo contesto, la componente interpersonale gioca un ruolo rilevante nella
costruzione della relazione, ovviamente insieme alla percezione della competenza
dei soggetti in relazione. La fiducia è un costrutto sociale; tuttavia, quando ci sono
in gioco interessi economici, essa è anche strettamente interrelata con la
performance economica. Per questo motivo, le basi per generare fiducia sembrano
211
essere essenzialmente due: in primo luogo, l’imparzialità e l’equità del category
manager; in secondo luogo, la condivisione e la corretta interpretazione delle
informazioni di mercato, al fine di fornire il giusto insight per il miglioramento
delle performance aziendali future.
So I think it comes down to the strength of the reasoning you put behind it,
so, you know, there are facts behind all this: these are the number, this is
the reason, this is the evidence, so you need just to come down to what the
buyers believe, which one has the strongest evidence.
Category has to be a rational choice. Occasionally I’d say “Look, we
haven’t got any data on this, but it feels like the right thing to do, shall we
try it?”. So let’s do it in a few stores, if it work brilliant, if not fine, we can
work on that. But if you want to do a big change you have to back them up.
Because the retails don’t want to do something unless they think I’m not
going to win from it. It is too competitive in the environment in the Uk for
them to make mistakes. So they won’t risk anything if they think it gonna be
kind of wrong.
La fiducia si basa quindi anche sulla forza e rilevanza delle valutazioni che il
category manager presenta al buyer, diventando quindi una delle principali fonti
informative dell’azienda. Più in generale, il ruolo di interfaccia è tanto più
212
importante quanto maggiore è la distanza cognitiva (gap cognitivo) tra fonte e
ricevente (Scarso, Bolisani, & Friso, 2004). La diversità dei dominii cognitivi non
riflette solo le distanze sociali, culturali e nei linguaggi tra i soggetti implicati nel
processo di trasferimento della conoscenza; riflette soprattutto le divergenze nei
frame cognitivi ed interpretativi degli attori. L’interfaccia opera, quindi, come un
intermediario e un traduttore di conoscenza: per potere svolgere il suo ruolo, deve
sviluppare un processo di socializzazione delle conoscenze tacite tanto verso la
fonte quanto verso il destinatario.
In questo caso, il category management facilita il fluire della conoscenza
all’interno dell’impresa creando linguaggi condivisi e spazi cognitivi comuni,
promuovendo comportamenti collaborativi nel network inter-organizzativo:
motivazione a condividere conoscenza di valore con gli altri membri,
superamento
dell’opportunismo,
massimizzazione
dell’efficienza
del
trasferimento della conoscenza tra i membri. In tali contesti, il ruolo della fiducia
come meccanismo facilitatore dell’apprendimento diventa centrale (Moorman,
1995).
It took a lot to built, there is a lot of trust there. They send me their
promotional plan, their planograms, they are very commercially sensitive
by telling me all the competitor promotions in there. I am not allowed to
share with anyone else Unilever or I have got to keep an advice based on
213
what I can say. But I can’t share the information anywhere.
Lo scambio di informazioni è fondamentale per la costruzione di partnership: le
informazioni riguardano diversi aspetti della relazione fornitore-distributore, dai
livelli qualitativi, alle politiche assortimentali.
Il flusso informativo deve provenire da entrambi le parti, al fine di creare fiducia
reciproca. Il distributori mettono i comune con i produttori informazioni che
riguardano le vendite e i gusti dei consumatori, dati che possono provenire dalla
lettura dei codici a barre alla cassa o dall’analisi delle tessere fedeltà. Inoltre, i
distributori possono condividere dati sulle previsioni di vendita e sulle rimanenze
in stock, in modo da poter pianificare la produzione e evitare eventuali rotture di
stock o eccedenze di magazzino.
Dall’altra parte, i produttori possono fornire informazioni sui trend di mercato e
sui principali filoni dell’innovazione di prodotto: lo scambio di questa conoscenza
è molto importante perché può portare alla ideazione congiunta di nuovi prodotti,
che poi possono essere commercializzati attraverso la marca industriale o privata.
Queste tipologie di collaborazioni hanno l’effetto di avvicinare le due parti nella
ricerca di un risultato comune; in aggiunta, fornisce ogni volta nuova motivazione
che porta al miglioramento continuo e all’evoluzione delle soluzioni proposte in
precedenza, attivando un processo di cooperazione di lungo periodo.
214
The one thing that buyer don’t have is time, so Unilever has a lot of
resources but think about everyone that work on spreads: we have got
someone who works in the customer marketing team, then we have got
someone in specific marketing within a customer on spreads, we have got
an account manager who does all the sales things, then we have got me
who deal with the category and we have got the supply chain and etc...
From the buyer side, it is not pretty much like this, they has the money for
the all process, they have no time, they need to come across a big number
of supplier, they rely on us to keep a lot of information, which is good
because there is a good relationship.
Il buyer spesso non ha a disposizione due risorse molto importanti: il tempo e un
budget adeguato alle sue aspettative. E’ per questo che adottare la filosofia
gestionale del category management diventa fondamentale: il category manager
diventa consulente del buyer e lo supporta offrendo non solo prodotti, ma
soluzioni.
Soluzione è un concetto che si afferma come risultato di un processo di
progressiva trasformazione dell’offerta delle imprese, nella ricerca di una sempre
più spinta capacità di generare valore per i clienti. Negli studi dedicati al B2B, si
trovano spesso riferimenti alle selling solutions o alle marketing solutions per
indicare offerte complesse, fatte di beni e servizi, destinate a rispondere a
215
complessi sistemi ricercati dalle organizzazioni. Il riferimento alle soluzioni sta ad
indicare il superamento di un ottica incentrata sui singoli prodotti a favore di un
offerta complementare di beni e servizi, finalizzati ad offrire una risposta ad un
problema del cliente della distribuzione.
III.4.3. Il cliente come terzo partner nella relazione industriadistribuzione
The main part of my role is fighting for the shopper, so all of my decisions
should be shopper driven, so what the shoppers want and what they are
looking for, if we get that right that should help everybody, if it works for
the shopper, then it is going to work for the customer and, hopefully, the
way I’ve done will work for us as well. So I kind of manage all, the thing I
always look for is a triple win so it has to be a win for me, it has to be a win
for me and Unilever, it has to be a win for our customer and it has to be a
win for the shopper. If there are not these three beets in there, it is not
going to work as a strategy, I’ve already been doing the strategy and I’ve
been currently working through, what is our strategy going to be for the
216
next three years.
Come sostiene il category manager di Unilever UK, il realtà la collaborazione non
si limita alla relazione industria-distribuzione, ma deve essere inevitabilmente
allargata ad un terzo partner: il consumatore. La maggiore pressione competitiva
accresce la necessità di presidiare il contatto con i cliente finale e di creare una
relazione il più possibile circolare. La relazione di fiducia con i clienti costituisce
il fondamento per sviluppare progetti di partnership verticali tra produttori e
distributori.
La pianificazione congiunta degli obiettivi a livello di consumatore rappresenta il
momento cruciale della relazione tra azienda di produzione e sistema distributivo:
in questa fase vengono individuati e segmentati i clienti al fine di definire per
ciascuno l’investimento commerciale adeguato in termini quantitativi e di mix (ad
esempio: promozioni, sconti, assistenza clienti, formazione, …). Il piano si
sviluppa su due livelli distinti, in modo da avere una visione trasversale del
consumatore: in primo luogo, analizzando le preferenze del consumatore nel
processo di scelta del prodotto e le modalità di consumo che seguono l’acquisto;
in secondo luogo, raggiungendo il consumatore all’interno dei punti di vendita
attraverso gli strumenti del retailing mix, con l’obiettivo di migliorare la customer
satisfaction e la fedeltà dello shopper.
217
And then I’m doing a lot of data analysis, the other part is looking through
what trend are happening, what’s happening in spreads, what’s happening
in food, what’s happening in total kind of consumer goods and try to work
out what are the area we can go after, where can we start to look for some
growth. And then what we need to do to get that. Unilever has a define
process in term of getting done, what we call a job to be done: who is your
target, very specifically who is it, what they are doing at the moment, what
do you want them to be doing, and what you need to do to get them into
change, so it is about how do you drive that consumer change, the
behavioural choice, that is the toughest part what can you really do to start
driving that behaviour change.
Uno dei compiti principali del category manager è quello di acquisire, stoccare ed
elaborare le informazioni di mercato: a conferma della forte market orientation,
anche a livello organizzativo, il category manager è parte della funzione
marketing, proprio a sottolineare la stretta connessione che esiste tra strategie di
category management e conoscenza del cliente.
Il marketing viene, quindi, individuato quale intermediario e traduttore cognitivo
della conoscenza di mercato, sia all’interno dell’organizzazione sia nella gestione
di relazioni con altre organizzazioni: quando il concetto di partnership si
sostituisce a quello della negoziazione, si affievoliscono i confini organizzativi
218
tradizionalmente assegnati alle attività di marketing a favore di una loro
dispersione inter-funzionale e interorganizzativa. Le informazioni, infatti, devono
essere condivise a tutti i livelli organizzativi, soprattutto tra i principali attori nel
processo di category management: la funzione marketing e vendite. E non solo:
devono circolare tra tutte le funzioni delle due aziende partner.
Se la conoscenza è distribuita in una rete interorganizzativa e se fonti e riceventi
sono soggetti che presentano tra loro una significativa distanza cognitiva, come
generalmente accade tra due imprese differenti o tra due funzioni all’interno della
stessa impresa, la necessità di individuare operatori che si pongano quale
interfaccia nei processi di trasferimento della conoscenza appare in tutta la sua
rilevanza (Scarso, Bolisani, & Friso, 2004). In questo caso, il category manager
tende ad operare anche come interfaccia cognitiva a livello intra- ed interorganizzativo, assumendo il ruolo di gatekeeper (Allen, 1971) e “traduttore” della
conoscenza.
L’attivazione di relazioni con il cliente finale è solamente il primo step verso la
creazione di valore, in quanto le stesse per consolidarsi e svilupparsi nel tempo
hanno necessità di essere supportate da una reale integrazione tra il processo di
marketing intelligence con quello del category management, avendo come
obiettivo la condivisione e il coordinamento delle attività svolte nella supply
chain.
Da una rilettura in chiave sistemica emerge che la costruzione di una efficace e
219
consolidata interazione tra gli operatori della catena di fornitura dipende
soprattutto dalla capacità del marketing department delle imprese di acquisire ed
elaborare le informazioni relative alla dinamica del mercato di riferimento. Il
passaggio conclusivo, che è anche quello maggiormente in grado di creare valore
aggiunto, è riconducibile oltre che all’integrazione dei due processi, anche alla
capacità di rendere omogenee e condivisibili le informazioni tra i vari livelli interorganizzativi ed intersistemici della supply chain integrata.
If I have a new idea and few data, I can convinced them to go through it.
First of all Unilever is global, so chances are that this is happening
somewhere, so I can look at other countries as a start, but this is not
always going to work because, you know, countries are very different, what
is happening in Italy is very different from the Uk. But you can start like
that. Then if I haven’t got any data, I work with the smaller retailer and say
“we will pay you money to do this, we will pay to get it happen. Can we try
to see if it works? And if it works we got a case study or evidence and we
can use it to say this is our suggestion.
We create our own data, our case studies. Obviously, we don’t share data,
we do it anonymously and you just say, we did that and we saw that
growth.
220
Per raccogliere dati di mercato, Unilever UK utilizza sia dati primari che
secondari. Per quanto riguarda i dati secondari, oltre ai classici dati di mercato
forniti da agenzie di marketing come IRI e ACNielsen, vengono anche effettuate
ricerche ad hoc per analizzare determinati trend del mercato.
Inoltre è presente anche un’altra tecnica di raccolta dati, molto interessante
soprattutto in ottica category management: quando non esistono dati interni a
supporto di determinate idee, viene pianificata l’attuazione di casi di studio con
piccoli partner della distribuzione, in modo da testare l’idea prima che abbia un
impatto maggiore su grandi retailer. In questo modo, si viene a creare un insieme
di best practices che possono essere replicate su diversi clienti.
We collect also our own data, we have got a team called the CSI, consumer
marketing insights, so they do a lot of research, then we use IRI data
agency, so we use a lot of consumer behaviour data, we get sales data
trough IRI. So there is a lot of research in, that is the team that goes also in
bespoken research, to find shopper connections. So someone is going to a
store and following in, finding what is shopping, then ask some questions,
why are you doing that, why are you doing this. Then we do focus group, so
we do a lot of research and pay for a lot for studies as well. I don’t have
enough time to look all the data, but if I’m looking into something, I can
normally find it.
221
III.4.4. La definizione della categoria
Uno dei temi affrontati durante l’intervista riguarda la definizione della categoria.
Il category manager definisce la sua categoria come un insieme di “chilled, fatbased products that add taste to the meal”. Questa prima definizione riguarda la
descrizione della macro-struttura dell’assortimento, ovvero le coordinate entro le
quali muoversi per procedere alla sua costruzione.
Our definition of category is based on the shopper, in particular on the
substitution concept. There is also a practical element: everything must be
chilled. In Europe butter and margarine are two separate things. In the
UK, they are almost the same and, for example, you can grow the
margarine category by switching from the butter category. The retailer will
never approve it.
Our category definition is a chilled, fat-based product that add taste to the
meal. That is not very customer focus, if you asked the category definition
in a shop, they would ever say this. It is a kind of technical definition.
Then we have other kind of segmentation. We do a lot of research about it.
Is it a taste decision? Is it a healthy decision? So the category spits in two
sub-categories. And it tends to be: taste driven decision=butter, health
driven decision=margarine. And then, within health, maybe some people
222
like sunflower spread, like Flora, others like olive oil spread like Bertolli.
In butter it might be spreadable butter or block butter.
Vengono poi effettuate altre tipologie di segmentazioni, che possono essere
ricondotte essenzialmente al binomio salute-gusto. E’ fondamentale che si realizzi
un match cognitivo tra le macro-categorie e la rappresentazione mentale
dell’assortimento sviluppato dal cliente, al fine di evitare che l’offerta venga
percepita come poco chiara e confusionaria.
La segmentazione delle macro-categorie implica la necessità di identificare le
possibili situazioni d’uso e i benefici ricercati dal consumatore in ciascuna
situazione, per poi ricostruire le stringhe di consumo, ovvero l’insieme di prodotti
che il cliente utilizza per soddisfare un determinato bisogno (Busacca & Castaldo,
2000).
III.4.5. Le politiche assorti mentali
In term of the category management part with the customer, the biggest
thing I do there is a work on range reviews with them; maybe once a year
or maybe once every 2 years, let’s take everything off the shelf and decide
223
what to puts on and where to puts it, so I do a lot of analyses then for the
retailer to say these lines are selling well, these lines aren’t. This is not
these about what selling well also people going to the shelf there a lot of
decision they made. I came into butter and spreads and thought “people
just go and pick up one, doesn’t really matter what it is, there are all the
same”, but actually when you stop thinking about people decision…some
people and buy some olive spreads like Bertolli, some people come and buy
butter, so it is making sure not only you’ve got things that sell well but also
you’ve got enough product to fulfill what a shopper mission is.
La gestione dell’assortimento è un elemento cruciale per la distribuzione, in
quanto influenza il posizionamento della formula distributiva e l’immagine
percepita dalla clientela, oltre ad avere significative ripercussioni su tutte le altre
leve del retailing mix (Baccarini, 1997). La centralità dell’assortimento
nell’offerta dell’impresa commerciale è strettamente connessa al fatto che esso
rappresenta l’immagine visibile e tangibile della strategia di mercato del
distributore (Pellegrini & Zanderighi, 1990). La soddisfazione che la clientela
esprime relativamente all’assortimento proposto costituisce un indicatore della
capacità dell’impresa di agire come filtro dell’offerta industriale, fungendo da
agente di acquisto per la domanda finale (Castaldo, 2001). La soddisfazione della
clientela è funzione anche della modalità di svolgimento della funzione
224
informativa, che agevola la selezione delle singole varianti che compongono il
paniere di acquisto di ciascun cliente, e della funzione logistica che facilita il
reperimento dei prodotti sullo scaffale.
In questo scenario, l’attenzione nei confronti della domanda nella pianificazione
dell’assortimento diventa fondamentale: occorre analizzare il cliente in tutte le sue
componenti, nei processi di acquisto e in quelli di consumo. L’obiettivo è quello
di soddisfare i bisogni generici e specifici del consumatore, analizzando
l’eterogeneità e variabilità delle esigenze, per compiere precise scelte di
segmentazione della propria clientela.
Una volta selezionato il sistema di offerta, il distributore deve poi decidere con
quale modalità presentarlo alla clientela, in primo luogo, organizzando lo spazio
espositivo e, in seguito, individuare le scelte di merchandising (layout e display).
Le modalità di presentazione dell’assortimento sono estremamente critiche perché
il posizionamento perseguito venga percepito come coerente rispetto alle esigenze
specifiche dei diversi segmenti della clientela target.
In particolare, nel mercato inglese, emerge una forte attenzione all’aggiornamento
della composizione dell’assortimento e alle sue modalità espositive, tanto che
questa attività viene ripetuta ogni 1-2 anni, in modo da essere più che coerente
con il cambiamento delle preferenze del consumatore.
Le scelte assortimentali rappresentano quindi un’importante leva su cui agire per
perseguire una differenziazione dell’offerta complessiva del punto di vendita, in
225
modo da conquistare stabilmente le preferenze della domanda.
La varietà dell’offerta deve essere percepita e risultare facilmente gestibile dalla
domanda: il cliente deve essere in grado di leggere la varietà ed interpretarla, per
individuare rapidamente cosa sta cercando o cosa lo potrebbe interessare.
La modalità di presentazione dell’assortimento diventa cruciale soprattutto nelle
formule distributive caratterizzate dalla tecnica di vendita del libero servizio, dal
momento che il prodotto “si vende da sé” (Sabbatin, 1992), ma stanno diventando
sempre più importanti anche nel caso della vendita assistita, grazie alla rilevanza
assunta
dall’interazione
fisica
cliente-prodotto
nel
determinare
la
sua
soddisfazione post acquisto (Castaldo & Botti, 1999)
Then I work through planogram with them, so I said I don’t think this is not
a good decision, let’s try this and then I kind of build my reasoning on the
whys. Then I give them my planogram, this is what I do, this is my
reasoning behind it and Arla will do the same. And the buyer job is
ultimately to choose between them.
L’ultima scelta concerne l’allocazione dello spazio espositivo per ciascuna
referenza. Questo tipo di decisione è assunta generalmente in base alla valutazione
di alcuni elementi, tra cui i principali sono (Castaldo, 1995): la quantità di spazio
disponibile,
226
la
redditività
lorda
(margine
lordo/vendite),
la
rotazione
(vendite/scorte medie) dei singoli prodotti per unità di spazio occupata, la
frequenza con cui si rifornisce la struttura espositiva. Data l’elevata complessità di
queste valutazioni sono utilizzati appositi software che, in base ai dati dei singoli
prodotti, permettono di ottimizzare la space allocation, generando specifici
planogrammi, ovvero schemi dettagliati dello scaffale, che vengono poi riprodotti
nel punto vendita.
III.4.6. La leva promozionale
Le condizioni economiche difficoltose hanno costretto molte aziende a trascurare
strategie di crescita di lungo periodo per focalizzarsi su strategie di prezzo che
avessero un immediato effetto sulle vendite. La leva principalmente utilizzata è
stata quella delle promozioni di prezzo con la conseguente perdita di efficacia
delle stesse. Sebbene nell’emergenza della crisi globale le promozioni siano
servite a mantenere gli obiettivi nell’immediato, oggi bisogna rivedere le strategie
aziendali.
Le imprese sia della distribuzione sia dell’industria necessitano di un supporto
molto più completo di soluzioni analytics e di modelli previsionali per bilanciare
in modo profittevole le diverse leve del marketing mix.
227
Il category manager sembra essere un consulente anche sotto questo aspetto:
determina con quale mix promozionale è possibile raggiungere il giusto equilibrio
e massimizzare il ROI; propone diverse attività di marketing che non
necessariamente fanno leva solo sul prezzo, focalizzando l’attenzione del cliente
su altri parametri.
Ovviamente si tratta di un’attività molto complessa: misurare l’efficacia di una
promozione, infatti, è tutt’altro che scontato, se si vuole andare oltre al banale
conteggio delle unità vendute.
I am responsible for promotion effectiveness analysis. The problem is that
buyers have some target to achieve and if they need to do 10 promotions
they do it without thinking about long term effects. Everybody agrees that
there are too many promotions, it costs everybody a lot of money, but
nobody will stop doing it also because of the recession. This is also how the
retailers get people in the store. So the real problem now could be to
optimize what is happening now and to evaluate and compare different
promotions.
Con l’introduzione pressoché generalizzata dei programmi fedeltà si sono
sviluppate anche attività collaterali nel piano promozionale retail. Le imprese che
hanno intrapreso la via del micromarketing stanno inserendo nel calendario un
228
numero crescente di iniziative mirate, differenziate per segmento di clientela e
integrate alla promozione di continuità.
Molte di queste attività avvengono in punto vendita, ma recentemente sono state
facilitate dall’utilizzo dello shopping online. Il category manager parla infatti di
numerose attività di vendita cross-category avvenute online: questo fatto è dovuto
anche dalla particolarità di prodotti come il burro o la margarina, che essendo
refrigerati non possono essere venduti insieme ad altri prodotti non refrigerati
all’interno dello stesso scaffale. Internet ha semplificato molto le cose su questo
aspetto: ad esempio, con un semplice click si può abbinare l’acquisto di burro e
pane, inserendoli nell’esperienza di consumo della “prima colazione”.
We are looking at doing cross category promotion, but because we are a
chilled area it is very difficult to get it in the same place. The problem is:
how can we do it? Online is much easier because when you click butter and
at the same we can ask you “do you want bread as well? The best breakfast
you can have is with...this and that”.
III.4.7. La relazione tra category e sales
Dall’intervista risulta chiaro che uno dei fattori critici per una strategia di vendita
di successo è la stretta collaborazione tra funzione marketing e funzione vendite,
229
soprattutto in un clima di crescente competizione come quello attuale (Pierce,
2006).
Kotler, Rackham e Krishnaswamy (2006) individuano i prerequisiti necessari a
garantire un efficiente allineamento tra marketing e vendite, ovvero:
-
un’adeguata comunicazione tra i team realizzabile attraverso incontri
frequenti tra marketing e vendite;
-
lo sviluppo di processi precisi, in modo da definire ruoli e responsabilità
delle diverse aree e le attività che richiedono la verifica o il
coinvolgimento dell’altro gruppo;
-
la creazione di opportunità di collaborazione tra i due team, in modo da
incrementare la loro capacità di convivenza ed interazione;
-
un buon feedback dei venditori con gli addetti al marketing.
Fino a poco tempo fa, la prospettiva relazionale era vissuta dai sales managers
delle imprese in chiave difensiva, quasi come frutto di una scelta obbligata,
piuttosto che come un’opportunità di crescita fondata su una strategia
intenzionalmente perseguita.
Questa interpretazione denotava una sorta di miopia strategica da parte dei
responsabili commerciali, i quali evidentemente sottostimavano i vantaggi
potenzialmente conseguibili mediante l’instaurazione di una solida relazione con
la clientela: fra questi, pare opportuno sottolineare l’incremento della penetrazione
sul cliente, le opportunità di cross selling, la costruzione di meccanismi di
230
isolamento nei confronti di iniziative della concorrenza, lo sviluppo della
conoscenza del mercato mediante l’acquisizione di informazioni puntuali e
dettagliate sulla clientela, utili soprattutto per alimentare i processi innovativi.
Ora la situazione è molto cambiata: le vendite hanno compreso l’importanza
dell’approccio relazionale da applicare sia internamente, con la funzione
marketing, sia esternamente, con i clienti della distribuzione.
My relationship with the sales team is actually good. It is interesting
because I don’t think that all the sales understand deeply why the category
manager is so separate. So you need to build the trust with them as well
because they see me going to the retailer and talk with them and they don’t
know the details of our conversation. I cannot share a lot of information
with the sales team, but I can say I am going because there is this
opportunity and explain what it is. In the end, category management can
save them also a lot of money: if they need to launch a new product and get
it listed, if I can demonstrated that they need that product in the category,
the buyer is more willing to accept it without paying extra fee.
231
III.5. Considerazioni conclusive
Dall’analisi della letteratura emerge sempre con più forza il concetto di approccio
relazionale, che ridefinisce il concetto di marketing come un’attività volta a
stabilire, mantenere e potenziare le relazioni con i clienti e gli altri partner
dell’impresa, in modo che le parti coinvolte nella relazione riescano a conseguire i
propri obiettivi (Grönroos, 1994). La prospettiva relazionale si configura come un
approccio applicabile a qualsiasi tipologia di cliente; l’intensità e le modalità di
relazione, però, tendono a variare nel corso tempo e pertanto richiedono diversi
criteri di gestione e specifici investimenti relazionali e personali in funzione del
loro stato evolutivo.
L’ambito di studio si è poi concentrato nella diade impresa industriale - domanda
finale, per poi ampliarlo ad un set di relazioni più articolate, comprendendo anche
i canali distributivi e in particolare la grande distribuzione. Lo scopo di ampliare
la prospettiva di analisi alla triade, o più in generale ad una rete di soggetti tra loro
interconnessi, deriva dal fatto di voler analizzare come la relazione possa facilitare
la creazione di valore lungo l’intera supply chain.
Per comprendere coma la relazione si traduca effettivamente in valore economico
per l’impresa, sono stati analizzati due casi di studio riguardanti due progetti di
category management. Inoltre, per inquadrare concettualmente il nuovo approccio
232
gestionale anche in un panorama internazionale, è stata presentata l’analisi di un
intervista face-to-face, svoltasi con un category manager di Unilever UK.
Dall’analisi congiunta di questi studi empirici, i principali vantaggi relationshipbased derivabili dall’adozione del category management si evidenziano su diversi
livelli, che sono rappresentati:
1. dalle relazioni interne all’organizzazione;
2. dalle relazioni interorganizzative;
3. dalle relazioni con la domanda.
Relativamente alle relazioni interorganizzative, l’instaurarsi di una relazione
collaborativa tra l’impresa industriale e l’impresa commerciale ha determinato in
entrambi i contesti aziendali:
-
il miglioramento del coordinamento manageriale tra le diverse funzioni
aziendali, soprattutto tra marketing e commerciale, entrambi uniti al fine di
soddisfare le esigenze del cliente finale;
-
la creazione di un miglior clima aziendale, riducendo il livello di
conflittualità interfunzionale;
-
la pianificazione e l’implementazione efficace delle strategie aziendali e
dei piani di marketing a livello di singolo cliente o di target di clienti;
-
l’affievolirsi del comportamento difensivo e il monitoraggio control-based
(Das & Teng, 2001).
233
Con riferimento alle relazioni interorganizzative, lo sviluppo di un adeguato set di
risorse relazionali permette di:
-
contenere i costi di transazione soprattutto nelle situazioni organizzative in
cui si manifesta un elevato grado di incertezza;
-
facilitare la creazione di rapporti commerciali di lunga durata, riducendo le
situazioni di conflitto non funzionali rispetto agli obiettivi della
partnership;
-
stimolare la collaborazione con altre imprese, costituendo un importante
elemento per il successo delle alleanze strategiche (Gulati, 1995);
-
facilitare la creazione e il trasferimento di conoscenze e l’apprendimento
congiunto (Troilo, 2001);
-
in sintesi, permette alle due imprese di ottenere un vantaggio competitivo
di lungo periodo (Morgan & Hunt, 1999).
Tutto questo rende più efficace e meno costosa la collaborazione tra buyersupplier, sviluppando implicazioni positive sia sul fronte delle opportunità di
generazione di valore economico, sia sul versante del contenimento dei costi
annessi alle iniziative di tipo intraziendale e interaziendale.
Con riferimento, infine alle relazioni con la domanda, la costruzione di un legame
fiduciario con il cliente finale genera una serie rilevante di vantaggi tra cui:
234
-
un accrescimento del potenziale di differenziazione, di estensione, di
apprendimento annesso alla relazione, che permette di ricavarne un
premium price;
-
una maggiore propensione al consumo;
-
l’attivazione di un passaparola positivo che permette la diffusione di
opinioni favorevoli sull’impresa, riducendo gli investimenti di marketing;
-
la disponibilità al trading-up, ovvero all’acquisto di beni di maggiore
qualità nell’ambito della medesima linea di prodotti;
-
la disponibilità al cross-buying, ovvero all’acquisto di altri beni e/o servizi
offerti dall’impresa;
-
la disponibilità al knowledge-sharing, cioè all’attivazione di processi coevolutivi tra domanda e offerta, fondati sullo scambio e sull’integrazione
di conoscenze.
Questo ultimo punto sta diventando fondamentale, soprattutto in relazione alle
rapida evoluzione della domanda. Il bisogno di informazione delle aziende non
aumenta solo in termini quantitativi, ma anche in termini di frequenza:
l’informazione, infatti, diviene rapidamente obsoleta in condizioni di forte
dinamicità del mercato. Il management deve comprendere le esigenze, esplicite e
implicite, dei singoli soggetti o di specifici segmenti, mirare a soddisfarle nel
235
modo più compiuto possibile così da creare fiducia e stabilizzare nel tempo la
relazione tra l’impresa e i suoi clienti12.
La working partnership tra industria e distribuzione ha permesso, inoltre, di
introdurre forti elementi di innovazione, che si manifestano soprattutto a livello di
punto vendita, ma che cambiano anche la concezione di segmentazione
dell’offerta; l’innovazione si traduce essenzialmente in:
-
cambiamento dell’albero delle categorie, mediante la proposta di nuove
modalità di classificazione dell’assortimento complessivo;
-
ridefinizione delle modalità di organizzazione delle singole categorie
tramite nuove chiavi di lettura della varietà offerta all’interno della singola
category, basate su una approfondita analisi del consumatore;
-
utilizzo del visual merchandising quale strumento in grado di anticipare
l’esperienza di consumo all’interno del punto vendita, esaltando la
dimensione feeling dell’assortimento.
Quello che emerge, inoltre, dall’analisi dell’esperienza inglese in tema category
management è il chiaro e forte orientamento al lungo periodo: l’utilizzo di una
prospettiva temporale più limitata non permetterebbe infatti la creazione di una
relazione fiduciaria tra le parti.
12
La crescita continua di tale fabbisogno informativo è dovuta anche allo sviluppo delle reti di
consumatori, che si aggregano nei processi di produzione e diffusione di nuovi significati e valori.
Il consumo è sempre meno il frutto di scelte di individui isolati, ma espressioni di una struttura
reticolare di relazioni capaci di produrre nuovi significati.
236
I due casi di studio analizzati nel contesto italiano hanno messo in evidenza come
la sperimentazione e l’orientamento di breve periodo siano dominanti solo in una
fase preliminare. Parlare di “progetti” può essere utile in una prima fase, quando è
fondamentale instaurare una nuova relazione o modificare il rapporto preesistente;
diventa, però, controproducente nelle fasi successive, quando la relazione deve
necessariamente concretizzarsi e stabilizzarsi nel tempo. Affinché la relazione
produca veramente valore occorre necessariamente la volontà e la consapevolezza
di passare da un logica progettuale ad un “approccio gestionale al category
management”.
Solo su tale ipotesi si possono sviluppare relazioni intense con tutti i soggetti che
operano all’interno di una specifica catena del valore e creare efficaci sinergie.
237
Bibliografia
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