Adamo ed Eva sono veramente esistiti ? Creazionismo o evoluzionismo? Da http://www.cosediscienza.it/bio/08_uomo.htm 2. Circa il paradiso terrestre e Adamo ed Eva il Catechismo della Chiesa Cattolica dice: “La Chiesa, interpretando autenticamente il simbolismo del linguaggio biblico alla luce del Nuovo Testamento e della Tradizione, insegna che i nostri progenitori Adamo ed Eva sono stati costituiti in uno stato «di santità e di giustizia originali» [Concilio di Trento, DS 1511]. La grazia della santità originale era una «partecipazione alla vita divina» [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 2]” (CCC 375). 3. Poco prima aveva detto: “Il primo uomo non solo è stato creato buono, ma è stato anche costituito in una tale amicizia con il suo Creatore e in una tale armonia con se stesso e con la creazione, che saranno superate soltanto dalla gloria della nuova creazione in Cristo” (CCC 374). Come vedi il Catechismo parla di una triplice armonia: col Creatore, con se stesso e con la creazione. 4.Ulteriormente il Catechismo della Chiesa Cattolica precisa: “Finché fosse rimasto nell'intimità divina, l'uomo non avrebbe dovuto né morire, (Gn 2,17; Gn 3,19) né soffrire (Gn 3,16). L'armonia interiore della persona umana, l'armonia tra l'uomo e la donna (Gn 2,25), infine l'armonia tra la prima coppia e tutta la creazione costituiva la condizione detta «giustizia originale»” (CCC 376). Come vedi, il Catechismo della Chiesa Cattolica parla di prima coppia. La prima coppia (Adamo ed Eva) non è linguaggio simbolico. 5.5. Questo lo si capisce ancor meglio da quanto segue: “Il racconto della caduta (Gn 3) utilizza un linguaggio di immagini, ma espone un avvenimento primordiale, un fatto che è accaduto all'inizio della storia dell'uomo [Cf Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 13]. La Rivelazione ci dà la certezza di fede che tutta la storia umana è segnata dalla colpa originaleliberamente commessa dai nostri progenitori” (CCC 390). 6.6. Immagini sono: l’albero, il serpente, il frutto buono a vedersi, il fatto che Eva l’abbia presentato ad Adamo, che l’abbiano assaggiato, il serpente... Ma al di là delle immagini vi è “un fatto che è accaduto all'inizio della storia dell'uomo”. Su questo non si discute. 7.7. Ma in che cosa è precisamente è consistito il peccato originale? Ti rispondo con le parole del Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica: “L'uomo, tentato dal diavolo, ha lasciato spegnere nel suo cuore la fiducia nei confronti del suo Creatore e, disobbedendoGli, ha voluto diventare «come Dio» senza Dio, e non secondo Dio (Gn 3,5). Così Adamo ed Eva hanno perduto immediatamente, per sé e per tutti i loro discendenti, la grazia originale della santità e della giustizia” (Compendio CCC 375). 8. E ancora: “Tutti gli uomini sono coinvolti nel peccato di Adamo. San Paolo lo afferma: «Per la disobbedienza di uno solo, tutti sono stati costituiti peccatori» (Rm 5,19); «Come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato. . . » (Rm 5,12)” (CCC 402). 9. “Si tratta di un peccato che sarà trasmesso per propagazione a tutta l'umanità, cioè con la trasmissione di una natura umana privata della santità e della giustizia originali. Per questo il peccato originale è chiamato «peccato» in modo analogico: è un peccato «contratto» e non «commesso», uno stato e non un atto” (CCC 404). L'armonia nella quale essi erano posti, grazie alla giustizia originale, è distrutta; la padronanza delle facoltà spirituali dell'anima sul corpo è infranta (Gn 3,7); l'unione dell'uomo e della donna è sottoposta a tensioni (Gn 3,11-13); i loro rapporti saranno segnati dalla concupiscenza e dalla tendenza all'asservimento (Gn 3,16). L'armonia con la creazione è spezzata: la creazione visibile è diventata aliena e ostile all'uomo (Gn 3,17; Gn 3,19). A causa dell'uomo, la creazione è «sottomessa alla caducità» (Rm 8,20). Infine, la conseguenza esplicitamente annunziata nell'ipotesi della disobbedienza (Gn 2,17) si realizzerà: l'uomo tornerà in polvere, quella polvere dalla quale è stato tratto (Gn 3,19). La morte entra nella storia dell'umanità (Rm 5,12) (CCC 400). Il primo peccato dell'uomo 397 L'uomo, tentato dal diavolo, ha lasciato spegnere nel suo cuore la fiducia nei confronti del suo Creatore 516 e, abusando della propria libertà, ha disobbedito al comandamento di Dio. In ciò è consistito il primo peccato dell'uomo. 517 In seguito, ogni peccato sarà una disobbedienza a Dio e una mancanza di fiducia nella sua bontà. Con questo peccato, l'uomo ha preferito se stesso a Dio, e, perciò, ha disprezzato Dio: ha fatto la scelta di se stesso contro Dio, contro le esigenze della propria condizione di creatura e conseguentemente contro il suo proprio bene. Costituito in uno stato di santità, l'uomo era destinato ad essere pienamente « divinizzato » da Dio nella gloria. Sedotto dal diavolo, ha voluto diventare « come Dio » (Gn 3,5), ma « senza Dio e anteponendosi a Dio, non secondo Dio ». 518 Tutti gli uomini sono coinvolti nel peccato di Adamo. San Paolo lo afferma: « Per la disobbedienza di uno solo, tutti sono stati costituiti peccatori » (Rm 5,19); « Come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato... » (Rm 5,12). All'universalità del peccato e della morte l'Apostolo contrappone l'universalità della salvezza in Cristo: « Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l'opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita » (Rm 5,18) Evoluzionismo e Chiesa cattolica Sin dalla pubblicazione de L'origine delle specie di Charles Darwin nel 1859, le gerarchie dellaChiesa cattolica hanno lentamente definito e rifinito la loro posizione sull'evoluzione, evitando inizialmente di prendere una posizione ufficiale, contrariamente a quanto fecero le chiese protestanti, che, maggiormente legate ad una interpretazione letterale della Bibbia, immediatamente avversarono il pensiero darwiniano[2]. Fino ai primi anni del XX secolo, nel mondo cattolico si riscontrava una generale ostilità all'evoluzionismo; tuttavia, in quel periodo la Chiesa non prese mai una posizione ufficiale sulla questione. Nel corso del Novecento alcune alte gerarchie ecclesiastiche con pubbliche affermazioni e documenti ufficiali hanno affermato che la fede cattolica e l'evoluzionismo, in particolare riguardo all'origine dell'uomo, non sono in conflitto; diversi papi si sono esplicitamente espressi favorevolmente riguardo alla conciliabilità dell'evoluzionismo con la fede cattolica. Soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, la teologia cattolica, confrontandosi con la teoria dell'evoluzione, ha fatto importanti progressi ed ha definito alcune fondamentali questioni di fede relative all'origine dell'uomo, all'azione di Dio nel mondo ed alla dottrina sul peccato originale. Piccola storia: Dopo il 1861, anno dell'unità d'Italia, dello Stato Pontificio rimaneva soltanto la città di Roma difesa dai francesi di Napoleone III; il 20 settembre 1870 l'esercito italiano entrò nella città: il potere temporale dei papi era finito e si apriva un periodo di forti contrasti tra la Chiesa e lo Stato italiano. Dal mondo scientifico arrivavano inoltre dure critiche alla religione cattolica, descritta spesso come causa di ignoranza, arretratezza e freno del progresso. La teoria dell'evoluzione veniva ampiamente utilizzata, affermando l'inattendibilità e la falsità delle Sacre Scritture, per criticare i fondamenti della dottrina cattolica; le teorie di Darwin, che per spiegare l'evoluzione facevano appello soltanto a cause naturali e contingenti, permettevano di sostenere filosofie atee ematerialiste. Il darwinismo nel mondo cattolico fu quindi accolto, inizialmente, con profonda ostilità e disprezzo Per i teologi Dio aveva sempre fatto parte dell'interpretazione scientifica del mondo; per la teologia naturale la scoperta dell'ordine del mondo che si otteneva dallo studio delle scienze naturali forniva la prova dell'esistenza di Dio e della sua azione provvidenziale. Le teorie di Darwin inferivano un duro colpo a questa concezione. In questa situazione è facile comprendere l'esistenza, nel mondo cattolico, di un generale clima di sospetto o di opposizione nei confronti dell'evoluzionismo. Ma nonostante queste condizioni, la Chiesa non prese mai alcuna posizione sull'evoluzionismo, né decise in generale di prendere provvedimenti verso quegli intellettuali cattolici che accettavano le nuove teorie e ne sostenevano la conciliabilità con la dottrina cattolica. La graduale accettazione dell'evoluzionismo nel pensiero cattolico: 1900 - 1950 Alle fine del XIX secolo e nella prima parte del XX la generale ostilità del mondo cattolico all'evoluzionismo cominciò ad allentarsi. Non che ci fosse un consenso generalizzato, tutt'altro; molti rimanevano i teologi che si opponevano a queste nuove teorie, né ci furono pronunciamenti ufficiali da parte della Santa Sede, per i quali si dovrà attendere il 1950 con l'enciclica Humani generis di Papa Pio XII. Molari[ riporta la testimonianza di Carlo Colombo, che affermava ci fossero state forti pressioni su Pio XI affinché questi condannasse l'evoluzionismo; tuttavia egli avrebbe rifiutato dicendo che «di casi Galileo nella storia della chiesa ne basta uno solo.» La Chiesa ammette l'evoluzionismo Nel 1948, il teologo della Pontificia Università Gregoriana Maurizio Flick riassumeva il dibattito teologico successivo al discorso del Papa[82]. In primo luogo spiegava che era ormai ammissibile affermare che, nella creazione del corpo dell'uomo, Dio si fosse servito anche di cause seconde; secondariamente, pur seguendo la lezione del Papa e quindi non ammettendo la generazione in senso proprio dell'uomo da un bruto, si poteva concedere che il regno animale avesse contribuito alla formazione del corpo umano attraverso l'evoluzione; fermo restando il fatto che l'uomo era da considerarsi superiore a tutti gli altri animali per via della sua anima creata immediatamente da Dio. L'intervento di Dio era quindi da considerarsi necessario pur ammettendo i meccanismi evolutivi per il corpo dell'uomo. Risultava quindi inammissibile una dottrina evoluzionista che sostenga la spontanea trasformazione delle specie viventi inferiori in superiori, senza ricorso ad uno speciale intervento divino, Dopo queste considerazioni generali, viene esplicitamente accettato l'evoluzionismo applicato al corpo dell'uomo, invocando comunque prudenza nel trattare tale questione: Pio XII e l'enciclica Humani Generis « Per queste ragioni il Magistero della Chiesa non proibisce che in conformità dell'attuale stato delle scienze e della teologia, sia oggetto di ricerche e di discussioni, da parte dei competenti in tutti e due i campi, la dottrina dell'evoluzionismo, in quanto cioè essa fa ricerche sull'origine del corpo umano, che proverrebbe da materia organica preesistente (la fede cattolica ci obbliga a ritenere che le anime sono state create immediatamente sia Dio). Però questo deve essere fatto in tale modo che le ragioni delle due opinioni, cioè di quella favorevole e di quella contraria all'evoluzionismo, siano ponderate e giudicate con la necessaria serietà, moderazione e misura e purché tutti siano pronti a sottostare al giudizio della Chiesa, alla quale Cristo ha affidato l'ufficio di interpretare autenticamente la Sacra Scrittura e di difendere i dogmi della fede. Però alcuni oltrepassano questa libertà di discussione, agendo in modo come fosse già dimostrata con totale certezza la stessa origine del corpo umano dalla materia organica preesistente, valendosi di dati indiziali finora raccolti e di ragionamenti basati sui medesimi indizi; e ciò come se nelle fonti della divina Rivelazione non vi fosse nulla che esiga in questa materia la più grande moderazione e cautela. » Nuovi sviluppi della teologia negli anni '60 e '70 Il peccato originale Dopo il Concilio Vaticano II, la questione più importante ad essere discussa dai teologi fu la dottrina sul peccato originale. I problemi in campo erano essenzialmente due: 1)stabilire se fosse davvero necessario ammettere uno specifico evento originario (ovvero il peccato di Adamo ed Evanarrato in Genesi 3); 2)stabilire se la dottrina sul peccato originale definita dogmaticamente dal Concilio di Trento fosse compatibile con il poligenismo. Secondo la dottrina tradizionale, il peccato sarebbe entrato nel mondo attraverso la disobbedienza di Adamo ed Eva a Dio, e si sarebbe poi propagato a tutta l'umanità per via della comune discendenza da questa singola coppia primitiva. Ma questa lezione cominciò a cambiare negli anni '60, ed infine, negli anni '70, la posizione più comune tra i teologi divenne la seguente: l'attuale situazione di male e di peccato dell'intera umanità non è originaria, ma dipende da una serie di errori che si sono susseguiti e moltiplicati nel corso della storia; tale serie di errori deve certamente aver avuto un inizio, che però non può essere individuato in alcun modo Il poligenismo è una teoria, detta anche polifiletismo, che afferma la pluralità delle origini dei vari tipi umani sia del passato che attuali. In contrapposizione a questa concezione il monogenismosostiene che tutta l'umanità ha un'unica ascendenza identificata in una coppia originaria In ambito cattolico, il poligenismo fu ufficialmente condannato prima dal Concilio di Trento e poi dapapa Pio XII nell'enciclica Humani generis. Anche per il problema del poligenismo fu determinante il contributo di Karl Rahner. In uno suo importante articolo del 1954[128], egli mostrò che le definizioni dogmatiche sul peccato originale formulate nel Concilio di Trento non implicavano necessariamente il monogenismo, e che pertanto la teologia avesse la possibilità di trovare il modo di conciliare il poligenismo con la dottrina sul peccato originale. Infatti Rahner notava che il Concilio di Trento non definiva esplicitamente il monogenismo come dogma, e che, quando parlava del peccato di Adamo, si limitasse semplicemente a riportare il racconto biblico. L'analisi di Rahner in generale convinse i teologi Proprio durante il simposio di Nemi del 1966 nel cui discorso iniziale Paolo VI ancora ricordava le difficoltà connesse con il poligenismo, maturò il convincimento che esso potesse esser conciliato con la dottrina sul peccato originale Mentre nella tradizione l'unità del genere umano veniva ricondotta ad una coppia iniziale, con la diffusione della teoria evoluzionista questa unità cominciò ad esser considerata una chiamata piuttosto che uno stato; diventò sufficiente parlare di un unico destino cui un unico creatore, attraverso un unico Salvatore, chiama il genere umano In questo modo l'unità del genere umano non ha più bisogno di esser basata sulla comune discendenza da Adamo, ma piuttosto sulla dignità di immagine di Dio conferita all'uomo dal suo creatore e sull'unione spirituale verso la quale gli uomini sono chiamati attraverso Cristo. Già nel 1964l'Hulsbosch scriveva. « Nell'ordine salvifico cristiano, così come si realizza sulla terra, l'unità è basata su un principio più alto Non contano più né razza né sesso: decisiva è l'appartenenza a Cristo. Questo nuovo principio di unità ha potuto realizzarsi perché l'uomo vi era già disposto per natura La dignità di immagine di Dio viene conferita ad ogni uomo dal suo creatore e non dal suo progenitore, e la reciproca unione spirituale tra gli uomini, che ne risulta, supera di gran lunga l'unità che deriva dalla comune discendenza. » In questa prospettiva il peccato originale cominciò ad esser visto come un impedimento alla realizzazione del progetto salvifico di Dio. I teologi iniziarono anche a rifiutare l'espressione peccato originale, in quanto esso non poteva più essere legato ad un evento specifico; esso poteva invece essere definito come un'imperfezione ricevuta all'inizio della vita che porta l'uomo a rifiutare Dio e a tendere al male, come spiegavano Flick e Alszeghy[133 « Per evitare malintesi, pensiamo che non sarebbe controindicato designare il peccato originale originato, anche nella catechetica e nella predicazione, talvolta con altri termini, come appartenenza al regno del peccato e della morte, alienazione da Dio, incapacità di orientare l'esistenza verso Dio ecc., che esprimono la malizia fondamentale del cuore umano, introdotta dall'uomo, sanata solamente da Cristo. » Accettata questa posizione, il problema del poligenismo o del monogenismo diventava irrilevante e non riguardava più direttamente la sostanza della fedegià citato documento della Commissione Teologica Internazionale, il poligenismo viene di fatto ammesso « Ogni singolo essere umano, come pure la comunità umana nel suo insieme, è creato a immagine di Dio. Nella sua unità originaria — di cui è simbolo Adamo — l’umanità è fatta a immagine della divina Trinità. Voluta da Dio, procede attraverso le vicissitudini della storia dell’uomo verso una comunione perfetta, anch’essa voluta da Dio, ma che deve ancora essere realizzata. In questo senso, gli esseri umani partecipano alla solidarietà di un’unità che al tempo stesso già esiste e deve ancora essere raggiunta. Condividendo una natura umana creata e confessando il Dio uno e trino che dimora in mezzo a noi, siamo tuttavia divisi dal peccato e aspettiamo la venuta vittoriosa di Cristo che ristabilirà e ricreerà l’unità voluta da Dio in una redenzione finale della creazione. » Pronunciamenti di Giovanni Paolo II Il 26 aprile 1985, Giovanni Paolo II introdusse i lavori del Simposio internazionale “Fede cristiana e teoria dell'evoluzione” che fu tenuto a Roma Nel suo discorso egli notava come l'evoluzione costituisse ormai un paradigma accettato ed imprescindibile, e che l'immagine evoluzionistica del mondo cui si era giunti fosse molto diversa dalla vecchia concezione materialistica Continuava poi, dopo aver ricordato l'enciclica Humani Generis di Pio XII, che un'evoluzione rettamente intesa non può costituire un pericolo per la fede: « l'evoluzione infatti presuppone la creazione; la creazione si pone nella luce dell'evoluzione come un avvenimento che si estende nel tempo - come una “creatio continua” - in cui Dio diventa visibile agli occhi del credente come Creatore del Cielo e della terra. » La Commissione Teologica Internazionale ha pubblicato, dopo gli anni 2000, un documento sottoscritto da Ratzinger nel quale affronta in modo specifico la questione; in esso troviamo quanto segue: [...]Secondo la tesi scientifica più accreditata, 15 miliardi di anni fa l'universo ha conosciuto un'esplosione che va sotto il nome di Big Bang, e da allora continua a espandersi e raffreddarsi. Successivamente sono andate verificandosi le condizione necessarie per la formazione degli atomi e, in epoca ancora successiva, si è avuta la condensazione delle galassie e delle stelle, seguita circa 10 miliardi di anni più tardi dalla formazione dei pianeti. Nel nostro sistema solare e sulla Terra (formatasi circa 4,5 miliardi di anni fa) si sono create le condizioni favorevoli all'apparizione della vita. Se, da un lato, gli scienziati sono divisi sulla spiegazione da dare all'origine di questa prima vita microscopica, la maggior parte di essi è invece concorde nell'asserire che il primo organismo ha abitato questo pianeta circa 3,5-4 miliardi di anni fa. Poiché è stato dimostrato che tutti gli organismi viventi della Terra sono geneticamente connessi tra loro, è praticamente certo che essi discendono tutti da questo primo organismo. [...] ma l'antropologia fisica e la biologia molecolare fanno entrambe ritenere che l'origine della specie umana vada ricercata in Africa circa 150.000 anni fa in una popolazione umanoide di comune ascendenza genetica. Qualunque ne sia la spiegazione, il fattore decisivo nelle origini dell'uomo è stato il continuo sviluppo del cervello umano, la natura e la velocità dell'evoluzione sono state alterate per sempre: con l'introduzione di fattori unicamente umani quali la coscienza, l'intenzionalità, la libertà e la creatività. L'evoluzione biologica ha assunto la nuova veste di un'evoluzione di tipo sociale e culturale. Papa Francesco I L'evoluzione della natura non contrasta con la creazione, poiché l'evoluzione presuppone la creazione di esseri che si evolvono" Creazione, Dio non è contro Darwin Tra evoluzione, come teoria scientifica, e creazione, come verità teologica, se si prendono nei contenuti propri di ciascuna, non dovrebbero esserci contrapposizioni. Stephen Gould (1992) ha osservato che esse appartengono a due ordini di conoscenza diversi, a due magisteri non sovrapponibili e quindi non possono entrare in conflitto tra loro. La verità della creazione non implica che la realtà, così come noi la vediamo, provenga direttamente da Dio, da un cenno della sua volontà, dalla sua parola Variazioni negli esseri viventi e vicende ambientali complesse fanno apparire il mondo della natura come una realtà dinamica e non statica, che ha portato al popolamento degli spazi acquatici e terrestri con i milioni di specie che oggi si contano. Vi sono stati eventi casuali ed eventi di tipo deterministico dovuti alle leggi della natura. Tutto si è succeduto in diverse centinaia di milioni di anni. Sarebbe illusorio riferire la storia della vita a un progettista o un operatore, come se tutto, in ogni particolare, fosse stato progettato in vista di uno scopo. Nello stesso tempo il mondo della natura ci appare ordinato e armonico nel suo insieme. È un sistema che funziona. La teologia, sulla linea del pensiero di san Tommaso, vede Dio come «causa prima» che fa esistere le cose, cioè gli elementi della natura, come «cause seconde», Nel loro inizio e nei cambiamenti che le caratterizzano. I fattori della natura vengono considerati come «cause seconde». Si può dire che nella evoluzione si prolunga la creazione. Questo modo di agire di Dio corrisponde a un’economia che lascia autonomia e spazio alle «cause seconde», cioè ai diversi fattori, anche casuali, che agiscono nella natura. Dio non fa le cose, fa in modo che si facciano, diceva Teilhard de Chardin. Il Catechismo della Chiesa cattolica così si esprime: «Dio e la causa prima che opera nelle e per mezzo delle cause seconde» (n. 308). Dunque una creazione che si manifesta nel tempo attraverso le trasformazioni della natura creata da Dio. E chi potrebbe dubitare della bontà intrinseca degli elementi della natura? In realtà un mondo che si è formato per una serie infinita di trasformazioni ed è passato attraverso varie tappe di organizzazione dei viventi, un mondo che ha conosciuto cataclismi, terremoti, estinzioni di specie non può essere un mondo perfetto. Lo rileva il Catechismo che, pur non usando il termine di evoluzione, osserva che il mondo non è stato creato come noi lo vediamo, ma «in stato di via verso la perfezione ultima» Tra i Mammiferi le scimmie sono quelli meno lontani dalla forma umana. Ma quale parentela abbiamo con loro? Una parentela diretta, per discendenza, con le scimmie antropomorfe, nonostante si cerchino le somiglianze con l’uomo, non viene sostenuta da nessuno. Allora una parentela collaterale? È quello che oggi si ritiene in base alle ricerche della paleoantropologia e della biologia molecolare: viene ammesso 6,7 milioni di anni fa un ceppo comune per le Antropomorfe e per gli Ominidi, tra i quali si svilupperà la linea umana. L’accettazione di queste umili origini dell’uomo può presentare qualche problema, soprattutto per la precomprensione che possiamo avere dalla descrizione della prima coppia umana fornitaci dalla Bibbia e dalle rappresentazioni di Michelangelo. Occorre una volontà superiore, il concorso di Dio Creatore. Quando e come ciò sia avvenuto è impossibile dirlo o immaginarlo. Non possiamo avere la pretesa di entrare nei pensieri del Creatore. D’altra parte, la comparsa di un essere intelligente e libero, che è cosciente e dà coscienza alle cose e riesce a contrastare la selezione naturale, non fa pensare che dietro tutte le vicende ci sia qualcosa che sfugge alle considerazioni di una mente umana? Origine dell'uomo la teoria evoluzionistica http://www.cosediscienza.it/bio/08_uomo.htm 4.L'”invenzione” di Dio” 5.Non riuscendo in modo coerente e logico a giustificare l'enorme varietà degli organismi viventi, l'uomo non seppe far di meglio, in passato, che ricorrere al concetto di creazione. Secondo questo punto di vista sarebbe esistito un dio, ovvero un'entità trascendente e dalle possibilità infinite, il quale avrebbe popolato la Terra di ogni sorta di esseri viventi e assegnato all'uomo un ruolo preminente. Come tutti sanno, non esiste un unico mito della creazione: ogni cultura ne ha elaborato uno proprio, esclusivo e originale nei dettagli. Tutti questi miti, tuttavia, proprio per la loro stessa natura, non sono delle teorie scientifiche. Non sono teorie scientifiche non solo perché da essi non è possibile trarre previsioni, ma anche per il fatto che non si possono confutare: non è possibile, cioè, dimostrare in alcun modo né che sono veri né che sono falsi. A tutti questi miti, in altre parole, mancano le prerogative tipiche delle teorie scientifiche: essi sono atti di fede e come tali non hanno né, per la verità, pretendono di avere, un fondamento logico. Essendo un atto di fede, non è possibile ad esempio convincere un credente dell'inconsistenza del mito biblico della creazione, né è intendimento degli scienziati farlo: ognuno è libero di credere a ciò che vuole. Allo stesso tempo però la comunità scientifica pretende che chi apprezza la logica e il rigore del metodo scientifico, cioè della ricerca della verità attraverso l'osservazione e la sperimentazione, sia libero da anatemi e da imposizioni di qualsiasi tipo. I creazionisti spesso, con l'intento di sminuire la teoria evoluzionistica di Darwin, dicono che in fondo si tratta "solo di una teoria" e pertanto è assurdo pretendere che da essa possa scaturire la verità. Chi parla in questi termini non sa cosa sia una teoria scientifica. Cerchiamo allora di spiegarlo in poche parole. Una teoria scientifica non è altro che un'ipotesi, cioè un'idea che si forma nella mente dell'uomo, dopo che questi ha osservato attentamente e scrupolosamente i fenomeni naturali e gli esperimenti di laboratorio. Essa perciò non è la realtà ma una congettura, attraverso la quale è possibile giustificare i fenomeni naturali in modo logico e coerente. Una buona teoria non solo deve rendere ragione dei fenomeni dai quali essa stessa ha tratto origine, ma deve essere anche in grado di prevederne di nuovi da verificare in futuro Una teoria inoltre non è qualche cosa di fisso ed immutabile, valido una volta per sempre, ma uno strumento concettuale da sottoporre continuamente a verifica. Una teoria viene definitivamente abbandonata quando non è più in grado di spiegare in modo chiaro e coerente i fatti osservati. Normalmente però quando una teoria in seguito all'interpretazione di qualche nuovo fenomeno, entra in contraddizione con i concetti che essa esprime, invece che scartata definitivamente, viene opportunamente corretta e modificata. Una teoria scientifica se è "solo una teoria", come dicono i creazionisti, è semplicemente tutto quello che deve essere. La teoria evoluzionistica di Darwin, come tutte le grandi teorie, è molto semplice e si basa su tre presupposti fondamentali. Primo: gli organismi viventi, animali o piante che siano, fanno molti figli: molti di più di quelli che servirebbero per rimanere in equilibrio stabile con il cibo e con lo spazio che l'ambiente mette loro a disposizione. Secondo: gli organismi della stessa specie non sono tutti identici fra di loro; ve ne sono di più grandi e di più piccoli, di più lenti e di più veloci, di più chiari e di più scuri, e così via. Terzo: esiste fra organismi di specie diversa, e anche fra organismi della stessa specie, una lotta continua per la sopravvivenza. In questa lotta prevalgono gli individui più forti, ovvero quelli meglio attrezzati per accedere alle risorse che la natura mette loro a disposizione, ottenendo un vantaggio riproduttivo sugli individui più deboli. L'uomo di Neanderthal doveva essere un individuo tarchiato, alto circa un metro e mezzo, con un cranio di spessore abnorme, lungo e stretto, ma con una capacità notevole (oltre 1.500 cm³), perfino superiore alla media dell'uomo attuale; esso presentava inoltre la fronte sfuggente, le arcate sopraorbitarie molto prominenti e il foro occipitale non perfettamente parallelo al terreno. Tutte queste caratteristiche portarono ad immaginare gli uomini di Neanderthal come esseri con l'aspetto da bruti che abitavano le caverne e che procedevano con un'andatura curva in avanti, simile a quella delle attuali scimmie antropomorfe. Oggi sappiamo invece che l'uomo di Neanderthal non era affatto un essere bestiale, ma che aveva un'intelligenza e svolgeva un'attività molto simile alla nostra (conosceva ad esempio il fuoco e seppelliva i morti, dimostrando di possedere rispetto per i defunti). Egli visse in un'epoca molto recente (dai 130.000 ai 35.000 anni fa) e viene attualmente considerato una sottospecie dell' Homo sapiens a cui è stato assegnato il nome scientifico di "Homo sapiens neanderthalensis", mentre noi siamo "Homo sapiens sapiens". Egli quindi non è un nostro antenato, ma piuttosto una specie di uomo che ha avuto un iter evolutivo divergente rispetto al nostro, iter evolutivo che lo ha portato all'estinzione. I nostri veri antenati hanno invece abitato l'Africa almeno 3,5 milioni di anni fa. Come abbiamo visto, con Darwin la comunità scientifica prese coscienza che anche l'uomo, come qualsiasi altra specie vivente, doveva aver avuto una propria storia evolutiva e si mise alla ricerca delle tracce della sua origine. Nacque in questo modo la paleoantropologia, cioè la scienza che si occupa della ricerca e della catalogazione dei reperti fossili del genere umano. Fra i fossili umani vengono compresi, oltre alle ossa, anche gli utensili che l'uomo stesso fabbricò e utilizzò, e le tracce della sua attività, come i resti dei fuochi che accese per riscaldarsi e tenere lontani gli animali feroci, e i dipinti che realizzò sulle pareti delle caverne in cui visse. Tutti i ritrovamenti fossili riguardanti la specie umana sono stati rinvenuti praticamente nel secolo scorso e provengono in prevalenza dall'Africa, ma alcuni reperti importanti sono stati trovati anche in Asia e in Europa. Le scoperte di questi ultimi vent'anni hanno rimandato molto indietro nel tempo la data dell'origine della nostra specie, che prima si collocava intorno ai 500.000 anni. Queste ultime scoperte hanno anche chiarito definitivamente che il genere umano ha avuto le sue origini in Africa e non in Europa, come per lungo tempo si era creduto. In realtà il convincimento che l'Europa fosse stata la culla dell'umanità non aveva alcun fondamento scientifico, ma si basava esclusivamente sulla presunzione che la civiltà europea fosse la più evoluta di tutte. Per questo motivo, resti di Ominidi, rinvenuti a Giava e in Cina alla fine dell'altro secolo e all'inizio di questo, vennero interpretati come resti di scimmie e non come nostri reali antenati. Con il termine di Ominide oggi si indicano collettivamente tutti i tipi ancestrali della specie umana contraddistinti dall'andatura eretta. L'unica specie di Ominide che alla fine sopravvivrà alla selezione naturale sarà la nostra, quella che abbiamo chiamato Homo sapiens sapiens. Due milioni di anni fa vivevano contemporaneamente, in Africa, due tipi diversi di Ominidi: gli Australopiteci e quelli del genere Homo. Gli Australopiteci, il cui termine letteralmente significa "scimmie australi" (cioè scimmie del sud), in realtà non erano scimmie, ma uomini primitivi che si sono estinti senza lasciare discendenti. Gli altri, gli Ominidi del genere Homo, sono i nostri più diretti antenati e si sono evoluti fino a pervenire alla nostra specie. Le scoperte più sensazionali di questi ultimi anni sono rappresentate dalla famosissima Lucy e dalle tracce dei passi che tre individui lasciarono sulla cenere ancora calda di un vulcano dell'Africa più di tre milioni e mezzo di anni fa. Si tratta, in entrambi i casi, di Australopiteci che vivevano nella savana e che avevano già acquisito un eccellente adattamento all'andatura eretta. LA STAZIONE ERETTA DELL'UOMO La caratteristica più singolare e in un certo senso più sorprendente dell'uomo è la posizione che il suo corpo assume nello spazio. La nostra specie è l'unica, fra tutti i mammiferi, a camminare in posizione eretta. La conquista della stazione e della deambulazione eretta, da un punto di vista evolutivo, dicono gli esperti, è di difficile acquisizione ed è molto più improbabile dello stesso sviluppo del cervello. Un tempo si riteneva che la stazione eretta, lo sviluppo del cervello e l'uso degli utensili fossero stati acquisiti, dall'uomo primitivo, contemporaneamente; oggi invece i paleoantropologi la pensano in modo diverso. Ad esempio Owen Lovejoy, un biologo esperto di locomozione animale, è convinto che gli Ominidi acquisirono la stazione eretta quando ancora vivevano nella foresta e che poi questa particolare posizione del corpo si rivelò vantaggiosa quando gli stessi furono costretti ad abitare nella savana. Ma che cosa spinse l'evoluzione degli Ominidi in questa direzione? Quali vantaggi evolutivi può aver comportato il camminare permanentemente su due soli arti, rispetto all'andatura su quattro zampe tipica di tutti gli altri mammiferi? Mutazione in funzione dell'adattamento all'ambiente Come tutti (o quasi) sanno, l'evoluzione si realizza attraverso piccole variazioni casuali della struttura del DNA che si chiamano mutazioni e che si ripercuotono in altrettante lievi modifiche dell'organismo entro il quale tale DNA è contenuto. Le mutazioni, in sé, non sono né vantaggiose né svantaggiose per l'individuo che le subisce: tutto dipende dal modo in cui questo individuo reagirà alla prova dell'ambiente. Sarà l'ambiente, in altre parole, a consolidare o a cancellare le variazioni che compaiono sull'individuo mutato. L'andatura su quattro arti è indubbiamente più comoda rispetto a quella bipede ed è anche quella che richiede minore dispendio di energia. L'acquisizione dell'andatura bipede deve essere quindi interpretata come un avvenimento straordinario e niente affatto conveniente. La posizione eretta richiede infatti una ristrutturazione radicale della nostra anatomia, al confronto della quale lo sviluppo notevole dell'encefalo rappresenta un fenomeno di secondaria importanza. Le mutazioni del DNA e i cambiamenti che, conseguentemente, queste mutazioni producono sull'organismo, non possono avvenire in previsione di un ambiente in cui questi organismi non vivono ancora: la selezione naturale non ha né coscienza né preveggenza. L'acquisizione della stazione eretta, da parte dell'uomo primitivo, non avvenne per consentirgli di vedere meglio in lontananza, ma per garantirgli il mantenimento del tradizionale modo di vita in un ambiente che stava mutando, cioè nella foresta nella quale quell'organismo ancora si trovava. La natura, come abbiamo detto, non può prevedere gli ambienti che devono ancora venire e le specie non si possono pre-adattare ad un ambiente che non c'è e che chissà se mai ci sarà. La possibilità di vedere meglio in lontananza, per l'Ominide che aveva acquisito la stazione eretta, non fu quindi la causa dell'innovazione, ma piuttosto l'effetto della sua esistenza. Per concludere, poiché l'evoluzione non ha né scopo, né direzione, dobbiamo ritenere che l'acquisizione della stazione eretta da parte di scimmie primitive che abitavano la foresta sia avvenuta per caso ed abbia posto quegli animali in condizioni più favorevoli rispetto agli altri, perché ha consentito loro di mantenere il tradizionale modo di vita in un ambiente che stava mutando. LA NEOTENIA Oggi si ritiene che l'uomo sia fondamentalmente il risultato di un fenomeno biologico che prende il nome di neotenia. Con questo termine, che etimologicamente significa "prolungamento della gioventù", si indica la tendenza delle specie viventi a conservare, nell'età adulta, alcune caratteristiche fisiche embrionali. ANDATURA BIPEDE E RAPPORTI FAMILIARI Ora, facendo riferimento all'andatura bipede, si è osservato che essa richiede un ingrandimento degli arti inferiori ed uno sviluppo notevole dei muscoli. Le gambe di un bambino però sono piccole e gracili: l'andatura bipede non dovrebbe quindi essere il risultato di una modificazione neotenica. Le modificazioni che non sono di natura neotenica sono da considerarsi non naturali e quindi di più difficile acquisizione. Abbiamo detto che la stazione eretta non è affatto una posizione naturale (e tanto meno comoda) come superficialmente si potrebbe credere: essa è una sfida alle leggi della gravità perché eleva il baricentro del corpo e lo colloca in una posizione di perenne instabilità. La stazione eretta richiede quindi, da parte dell'individuo che la possiede, una notevole spesa energetica per la ricerca continua della posizione di equilibrio. Inoltre essa implica anche una serie di rischi come ad esempio l'immobilità, o quasi, in caso di ferite o di fratture di un arto e una serie di disturbi, anche gravi, come lo schiacciamento delle vertebre, le sciatiche, le vene varicose, ecc. E allora quali sarebbero stati i benefici derivanti da questa mutazione in grado di compensare gli inconvenienti fisiologici che devono aver tormentato l'uomo primitivo e che affliggono ancora oggi l'uomo moderno? Il vero beneficio, secondo l'anatomista americano O. Lovejoy, già menzionato in precedenza, sarebbe rappresentato dalla possibilità di utilizzare gli arti superiori come strumenti di presa e di trasporto di oggetti di varia natura e nello stesso tempo di acquisire, grazie alla maggiore altezza, un migliore controllo del territorio. Lovejoy ha elaborato una teoria che spiegherebbe il migliore adattamento all'ambiente che la posizione eretta avrebbe rappresentato per i progenitori della specie umana quando questi si trovarono nella savana a dover competere con le scimmie più prolifiche. Si sa che gli organismi viventi hanno tanto più successo, nella lotta per la sopravvivenza, quanto più sono in grado di lasciare una discendenza: non si tratterebbe quindi di produrre gran numero di figli, quanto piuttosto di far in modo che ne rimanga in vita il maggior numero possibile di quelli nati e per il tempo necessario perché sia prodotta a sua volta altra prole. Ebbene l'uomo, a differenza di tutti gli altri mammiferi, e quindi anche delle scimmie, non ha l'estro. Con questo termine si indica quel periodo di fecondità in cui gli animali manifestano, attraverso segni esteriori evidenti, un desiderio irrefrenabile all'accoppiamento. Tutti hanno potuto osservare i cani e i gatti nel periodo dell'estro, cioè quando, come si usa dire, sono "in calore". L'estro è una garanzia di prolificità in quanto ogni accoppiamento che avvenisse nel periodo di tempo stabilito dalla natura si concluderebbe inevitabilmente con la fecondazione delle uova e quindi con la nascita di uno o più figli. Ma nell'uomo non è così: esso, come tutti sanno, può avere rapporti sessuali senza che questi portino necessariamente alla nascita di un figlio. Che cosa c'entra tutto ciò con la posizione eretta? Lovejoy immagina che fra gli Ominidi che abitavano la foresta alcuni acquisirono la posizione eretta attraverso una mutazione, dopo che furono costretti a discendere dagli alberi indotti, come vedremo meglio in seguito, da una necessità dettata da cambiamenti climatici. In questi individui, appena scesi a terra, la stazione eretta era presumibilmente molto malsicura, ma andò lentamente migliorando. A questa evoluzione contribuirono alcune mutazioni fra cui, secondo Lovejoy, la comparsa di un individuo privo dell'estro. La prima femmina senza l'estro non avrebbe dunque presentato quelle modificazioni di comportamento, tipiche degli animali "in calore", capaci di richiamare l'attenzione del maschio dominante il quale è colui che, all'interno del gruppo, feconda tutte le femmine. Questo comportamento è molto diffuso tra i mammiferi ed è la regola, ad esempio, fra i gorilla e i babbuini. Agli altri maschi del gruppo è in genere precluso l'accoppiamento, anche se, in realtà, ad alcuni di essi la cosa è consentita ma solo in periodi non fertili. Così è stato osservato ad esempio fra i babbuini. Il fatto di non possedere l'estro dovrebbe rappresentare uno svantaggio evolutivo: la teoria evoluzionistica insegna però che un carattere può apparire svantaggioso se considerato a sé stante, ma vantaggioso se valutato insieme ad altri con i quali interagisce. Immaginiamo allora che all'interno di un gruppo di pre-Ominidi che abitavano la foresta e che vivevano sugli alberi, ma che erano anche in grado di camminare al suolo in posizione eretta (o quasi), sia comparsa una femmina senza l'estro. Questa femmina avrebbe potuto accoppiarsi con un giovane del gruppo senza incontrare ostacoli da parte del maschio dominante in quanto quest'ultimo non si sarebbe accorto di lei proprio perché priva dell'estro. Da questi rapporti, apparentemente sterili, sarebbe potuta nascere una discendenza, e quindi altre femmine di quel tipo, cioè senza l'estro. Una femmina però che si fosse trovata sola a provvedere all'allevamento del piccolo, avrebbe incontrato enormi difficoltà e forse non ce l'avrebbe fatta a far sopravvivere il figlio e sé stessa. In precedenza, all'interno del gruppo, non vi erano stati di questi problemi, perché, come succede anche attualmente negli animali che vivono in comunità, tutti i componenti del gruppo erano chiamati a collaborare per l'interesse comune. A causa della situazione che si era venuta a creare dovette svilupparsi un nuovo tipo di rapporto fra i singoli componenti del gruppo; si dovette cioè instaurare, fra individui di sesso diverso, un legame personalizzato, di tipo monogamo, in cui il maschio, forse ricattato psicologicamente attraverso richiami affettivi sconosciuti in precedenza, si sarebbe legato ad un'unica femmina, e precisamente a quella dalla quale aveva avuto il figlio. Forse in questo modo è nato quello che chiamiamo "amore", cioè un rapporto di coppia stabile fondato su attrazioni di tipo diverso da quei comportamenti stereotipati riscontrabili negli animali che conducono vita comunitaria. In questa particolare situazione la stazione eretta sarebbe stata di grande utilità perché avrebbe consentito al maschio, mentre la femmina accudiva ai piccoli, di andare in cerca di cibo e di portarlo, usando gli arti superiori, ai propri figli e alla loro madre. La liberazione delle mani dalla schiavitù della locomozione avrebbe consentito il trasporto del cibo e pertanto il bipedismo e la stazione eretta si sarebbero rivelati, alla fine, un vantaggio nella lotta per l'esistenza, perché avrebbero consentito il perfezionamento delle cure parentali e quindi in definitiva una migliore garanzia di sopravvivenza. LO SVILUPPO DEL CERVELLO La maggiore potenzialità del cervello dell'uomo non sta tuttavia soltanto nella quantità (la massa celebrale dell'uomo è più che doppia, ad esempio, di quella delle scimmie antropomorfe), ma anche nella qualità. Il cervello dell'uomo si presenta, cioè, maggiormente sviluppato soprattutto in alcune zone come in corrispondenza dei lobi temporali che sono la parte che controlla la parola e dei lobi frontali che sono la sede del pensiero logico. Questo sviluppo sbilanciato del cervello ha permesso all'uomo di comunicare con i suoi simili, ma soprattutto di pianificare il futuro. L'uomo, infatti, è l'unico animale in grado di prevedere a quali conseguenze porterà una determinata azione. Ciò rende attuabile una programmazione, cioè la possibilità, ad esempio, di costruire strumenti di non immediato impiego, ma che potrebbero risultare utili in futuro. Il linguaggio articolato deve avere allora rappresentato lo strumento fondamentale per tale attività in quanto avrebbe consentito di coordinare i progetti insieme con gli altri componenti del gruppo. IL REGIME ALIMENTARE L'uomo si distingue infine dalle scimmie antropomorfe, cioè dagli animali che più gli assomigliano, anche per il regime alimentare. Mentre le scimmie si nutrono di frutti, foglie e bacche, l'uomo mangia anche la carne. Il regime alimentare è legato strettamente alle caratteristiche dell'apparato digerente e in particolare ai denti. I denti dell'uomo sono tutti più o meno della stessa grandezza e disposti su un'arcata dentaria di forma parabolica. I denti delle scimmie antropomorfe sono invece di dimensioni maggiori (soprattutto i canini) e l'arcata dentaria ha la forma di una U, cioè con canini, premolari e molari disposti su due file parallele. Nelle scimmie antropomorfe, inoltre, è ancora presente il diastema, uno spazio fra incisivi e canini che consente l'incastro delle arcate dentarie. Nell'uomo questo spazio non esiste proprio perché i denti, e soprattutto i canini, si sono ridotti di dimensioni. Se ora andiamo a vedere le caratteristiche dei denti degli Ominidi del passato notiamo che negli Australopiteci il diastema si è a mano a mano ridotto senza mai scomparire completamente, mentre nessun Ominide del genere Homo presenta il diastema. Ciò testimonia del fatto che i nostri antenati diretti avevano un regime alimentare più vario rispetto a quello degli Australopiteci, con i quali, per lungo tempo, hanno convissuto. I denti, tuttavia, oltre che per mangiare, servono anche come difesa; se i canini dei nostri antenati, ad esempio, si fossero ridotti di dimensioni prima che questi avessero imparato a fabbricare utensili per combattere, essi si sarebbero trovati privi di un valido aiuto per la difesa e molto probabilmente si sarebbero estinti. L'EVOLUZIONE DEGLI OMINIDI Ritorniamo ora all'evoluzione degli Ominidi. L'Ominide più antico che sia stato fino ad oggi rinvenuto fossile è l'Australopithecus afarensis: esso comparve quasi 4 milioni di anni fa e i suoi resti ci consentono di ricostruirne l'aspetto. L'Australopithecus afarensis era un individuo di bassa statura, tarchiato e con un marcato dimorfismo sessuale: le femmine, cioè, erano molto più piccole dei maschi. Nella specie umana la differenza di statura fra maschi e femmine non è così evidente, mentre essa è ancora riscontrabile nei gorilla. Non è questo tuttavia l'unico carattere di tipo scimmiesco presente in questo antico Ominide: la faccia aveva un muso prominente, proprio degli animali, e il cervello (400 cc) non era più grande di quello di un attuale scimpanzé. La posizione del corpo era invece decisamente eretta. E' innegabile, pertanto, che l'Australopiteco dell'Afar avesse un corpo da uomo e una testa da scimmia, ma in realtà esso era diverso sia dall'uomo moderno sia dalle attuali scimmie antropomorfe. La dentatura di questi Ominidi presenta il diastema, come si nota attualmente nelle scimmie antropomorfe, mentre i molari, al contrario di quello che si riscontra nelle scimmie più evolute, si presentano più voluminosi dei denti anteriori (incisivi e canini). Questa osservazione fa ritenere che l'alimentazione degli Australopiteci dell'Afar fosse costituita da prodotti duri, come ad esempio noci e granaglie, che necessitano di essere masticati a lungo prima di venire deglutiti. Ecco dunque un'ulteriore prova che l'Australopiteco non viveva più nella foresta, dove vivono tuttora scimpanzé e gorilla e dove si mangiano frutti e vegetali molli, ma nella savana dove si trovano alimenti più duri. Motivi nel passaggio dalla foresta alla savana Il motivo per il quale l'uomo primitivo si sarebbe allontanato dalla foresta per andare ad abitare nella savana oggi viene spiegato facendo ricorso ad una serie di eventi naturali che si sarebbero verificati fra la fine del Miocene e l'inizio del Pliocene, cioè all'incirca fra i 6 e i 4 milioni di anni or sono. Gli eventi di cui si parla sarebbero a loro volta la conseguenza di un fenomeno geologico di più vaste proporzioni che ha coinvolto tutta la superficie terrestre e che prende il nome di "deriva dei continenti". Duecento milioni di anni fa, all'inizio del Mesozoico, le terre emerse erano riunite tutte insieme in un unico continente che i geologi chiamano Pangea. La Pangea successivamente si spezzò in due blocchi, uno a nord detto "continente di Laurasia" ed uno a sud detto "continente di Gondwana". Fra i due blocchi continentali si insinuò un mare di enormi dimensioni chiamato Tetide o mare mesogeo. Successivamente anche i due grandi continenti si smembrarono a loro volta in "zolle" più piccole che andarono alla deriva, viaggiando sul mantello fluido sottostante. Questi blocchi continentali vennero poi a collidere fra loro (e ancora oggi lo fanno), provocando fenomeni sismici e vulcanici oltre all'accavallamento dei loro bordi con formazione di catene montuose. In conseguenza di questi scontri, alcune zolle si fratturarono ulteriormente. Nel suo lento e persistente movimento verso nord la "zolla africana" finì per andare a scontrarsi con quella europea. A seguito dell'urto, si chiuse il grande oceano primordiale della Tetide, lasciando delle piccole cicatrici rappresentate dal Mediterraneo, dal mar Nero e dal Caspio. Successivamente il Mediterraneo si prosciugò, molto probabilmente a causa di una forte evaporazione e della contemporanea provvisoria chiusura dello stretto di Gibilterra, che impedì il rifornimento delle acque atlantiche. La zona del bacino del Mediterraneo si trasformò quindi in un grande deserto, interrotto qua e là da laghi salati, e il clima di tutta la regione si modificò radicalmente. Dall'Europa del nord, fino all'Africa settentrionale, il clima si fece più freddo e soprattutto molto più asciutto. A quel punto, la foresta equatoriale, che in precedenza si estendeva su di un vastissimo territorio, cominciò ad arretrare lasciando lo spazio alla formazione di immense savane. Anche l'Africa orientale, che nel frattempo si era staccata dal resto del continente, per il formarsi di una profonda frattura tettonica chiamata Rift Valley, si sollevò e cambiò decisamente il suo clima. Le piante e gli animali che non riuscirono ad adattarsi alle nuove condizioni ambientali scomparvero mentre altri organismi, provenienti da zone limitrofe, vi trovarono un habitat adatto al loro stile di vita. La fauna e la flora in quella zona si modificarono quindi profondamente. Da quelle parti vivevano anche i nostri più lontani antenati che nel frattempo la faglia del Rift aveva separato in due gruppi: quelli che rimasero ad ovest, dove persistette l'ambiente di foresta equatoriale, si sarebbero poi differenziati nelle attuali scimmie antropomorfe, mentre quelli che si trovarono ad est, in ambiente di savana, dettero origine agli Australopiteci, cioè a quel gruppo di organismi che si sarebbe separato definitivamente dal mondo animale. Questa ipotesi è stata chiamata scherzosamente dal paleoantropologo francese Yves Coppens "East Side Story" (La storia del lato est). Secondo Coppens quindi non fu l'Ominide ad uscire dalla foresta per dirigersi verso la savana, ma fu piuttosto la foresta stessa a scomparire sotto i suoi piedi. I luoghi sudafricani che fornirono materiale sufficiente per stabilire definitivamente la natura ominide dell'Australopiteco furono Sterkfontein, Makapansgat, Swartkrans e Kromdraai. Da qui uscirono non solo molti fossili ascrivibili al genere Australopithecus africanus, ma anche una forma di Australopiteco alquanto diversa a cui fu assegnato il nome di Australopithecus robustus. L'Australopithecus africanus comparve circa 3 milioni di anni fa e si estinse circa 2 milioni di anni fa. La valutazione di un milione di anni che Dart dette al suo reperto oggi viene considerata una datazione per difetto, mentre a quel tempo si stentava a credere che un milione di anni fa potesse già essere presente un individuo con caratteristiche umane. L'Australopiteco africano si estinse, come abbiamo detto, due milioni di anni fa forse perché battuto dalla concorrenza con i babbuini che abitavano insieme a lui la savana e che sfruttavano le sue stesse risorse alimentari, o forse a seguito di una profonda modificazione del clima che rese quei luoghi più asciutti e di conseguenza più poveri di cibo. Abbiamo la prova che poco più di due milioni di anni fa il clima in Africa si fece generalmente più asciutto e questo nuovo habitat dovette favorire lo sviluppo di forme di Australopiteci di dimensioni maggiori e adatte ad una dieta più grossolana. E in effetti, come abbiamo visto, in diverse località dell'Africa meridionale ed orientale, vennero ritrovati fossili di Australopiteci più robusti e più grandi dell'Australopithecus africanus. Ad essi, come si ricorderà, fu dato il nome rispettivamente di Australopithecus robustus e Australopithecus boisei. Queste erano due specie di Australopiteci molto adatte alle condizioni di vita della savana arida e povera di risorse alimentari in quanto, oltre ad essere più massicce dei predecessori, presentavano anche dei muscoli masticatori molto potenti tanto da richiedere un supporto supplementare per attaccarsi al cranio. UMANI ALL'UNO PER CENTO Studi recenti, condotti sulle proteine e sugli acidi nucleici, hanno dimostrato che lo scimpanzé e il gorilla assomigliano molto di più all'uomo che all'orangutan o al gibbone. Questa scoperta ha sconvolto quella che era la tradizionale suddivisione degli Ominidi attuali in due famiglie: da una parte l'uomo (unica specie del genere Homo sopravvissuta alla selezione naturale) e dall'altra le scimmie antropomorfe (scimpanzé, gorilla, orangutan e gibbone). Tale schema si fermava in realtà alla semplice analogia morfologica d'insieme, cioè all'aspetto esteriore, mentre oggi è possibile compiere studi molto appro fonditi sulle molecole organiche che sono alla base delle differenze anatomiche degli organismi viventi e quindi procedere ad una classifi cazione di questi più rigorosa e dettagliata. I lavori di biologia molecolare iniziarono già nel 1967, quando due giovani biochimici di nome Vincent Sarich e Allan Wilson dell'Università di Berkeley in California, avendo confrontato le proteine presenti nel sangue delle scimmie antropomorfe con quelle dell'uomo, conclusero che gorilla, scimpanzé e uomo erano molto simili fra loro, mentre si notavano differenze più marcate con orangutan e gibbone. Essi, inoltre, sulla base delle loro misurazioni, riuscirono anche a stabilire che l'uomo si sarebbe staccato dagli altri primati soltanto cinque milioni di anni fa. Pertanto, stando agli studi dei due scienziati americani, l'uomo e le due scimmie antropomorfe africane avrebbero dovuto avere ancora un progenitore in comune in tempi molto recenti. Per i paleontologi, questa affermazione era un assurdo perché tutte le testimonianze fossili e geologiche indicavano che la separazione fra le due linee evolutive era avvenuta una ventina di milioni di anni fa, e non solo cinque come asserivano Sarich e Wilson. Il lavoro dei due ricercatori americani si basava su di una premessa molto semplice e cioè sul fatto che le differenze riscontrabili all'interno di una determinata molecola proteica, presente in organismi di specie diverse, avrebbero dovuto essere tanto maggiori quanto più lontano fosse stato il tempo del distacco di una specie dall'altra. E questo perché i cambiamenti sulle proteine, dovuti alle mutazioni del patrimonio genetico, si dovrebbero accumulare nel tempo ad un ritmo costante. Ma come si sarebbe potuto determinare con precisione il momento del distacco fra due specie diverse? Più precisamente, come hanno fatto Sarich e Wilson a stabilire che le scimmie antropomorfe africane si sono separate dall'uomo solo 5 milioni di anni fa? Il suggerimento sul modo di procedere venne da Linus Pauling, uno dei più grandi scienziati del nostro secolo vincitore di due premi Nobel (il primo nel 1954 per la chimica e il secondo nel 1962 per la pace) e morto di recente all'età di novantatré anni. Egli iniziò la sua lunga carriera scientifica come fisico atomico ma poi si occupò di svariati argomenti e alla fine anche di biochimica, interessandosi in particolare all'emoglobina e alle proteine del sangue. Insieme al biochimico Emile Zuckerkandl studiò le correlazioni esistenti fra DNA e strutture proteiche e intuì che il DNA avrebbe potuto costituire una specie di orologio molecolare in quanto le mutazioni che si verificano su di esso, essendo eventi casuali (come quelli che avvengono nelle sostanze radioattive), avrebbero dovuto accumularsi con regolarità. Nelle sostanze radioattive gli atomi si trasformano ad un ritmo costante in atomi non radioattivi, ed una volta nota la velocità di decadimento, che viene normalmente espressa attraverso il cosiddetto "periodo di dimezzamento" (o di semitrasformazione), è possibile stimare il trascorrere del tempo misurando la quantità di sostanza radioattiva residua in un determinato campione. L'orologio molecolare non misura una diminuzione, come avviene nelle sostanze radioattive, ma un accumulo. Il difficile, in questo caso, era calibrare l'orologio stesso, ossia stabilire il ritmo al quale batteva il tempo. Sarich e Wilson dopo lunghe ricerche riuscirono a determinare la velocità con la quale si accumulavano le differenze sulle diverse proteine. Essi ad esempio poterono stabilire che il citocromo c (una particolare proteina che svolge un ruolo essenziale nel processo di respirazione cellulare) modifica l'un per cento della sua molecola ogni venti milioni di anni, mentre l'emoglobina fa altrettanto in solo sei milioni di anni. A questo punto non rimaneva che mettere in moto l'orologio, ossia scegliere il momento da cui farlo partire. Questo doveva corrispondere alla data di una biforcazione dell'albero genealogico nota con buona sicurezza sulla base delle tecniche convenzionali. Si decise quindi di iniziare a contare il tempo da trenta milioni di anni fa, cioè dall'epoca in cui secondo i paleontologi le scimmie antropomorfe si sarebbero separate dalle altre scimmie. Ora ammettiamo, per semplificare il ragionamento, che in questi trenta milioni di anni che, come abbiamo detto sopra, ci separano dall'epoca in cui scimmie antropomorfe e scimmie comuni avevano ancora un progenitore in comune, siano cambiati trenta amminoacidi lungo una determinata proteina. Se così fosse, essendo costante la scansione temporale, i cambiamenti si sarebbero susseguiti al ritmo di uno ogni milione di anni. Stabilito ciò, qualora si riscontrasse che su quella stessa proteina, presente in scimmie antropomorfe africane e uomo, vi fossero solo cinque amminoacidi diversi sarebbe chiaro che cinque milioni di anni dovrebbero separare uomo e scimmie antropomorfe africane dall'antenato comune. Gli studi di antropologia molecolare si sono concentrati recentemente sulle strutture del DNA. Ora, come tutti sanno, ogni specie vivente ha un proprio DNA che la caratterizza e due specie diverse hanno i rispettivi DNA tanto più dissimili fra loro quanto più queste specie sono lontane nella scala evolutiva. Ad esempio, fra cavallo ed asino, che sono due animali molto simili, anche nell'aspetto esteriore, e che pertanto dovrebbero essersi differenziati molto di recente da un antenato comune, le rispettive molecole del DNA si discostano effettivamente di molto poco. Invece quegli animali che presentassero un codice genetico molto diverso dovrebbero essersi differenziati, dall'antenato comune, in tempi molto lontani. Oggi la tecnica usata per confrontare i DNA di due specie diverse si chiama "ibridazione" e, ad esempio, nel caso di uomo e gorilla, consiste nel riscaldare la doppia elica del DNA di questi due organismi fino ad ottenere la separazione dei filamenti che la formano. Un singolo filamento del DNA dell'uomo viene quindi legato con un singolo filamento del DNA del gorilla e da questa operazione si ottiene una doppia elica ibrida, ossia metà umana e metà scimmiesca. I due filamenti, a freddo, si riavvolgono abbastanza bene ma non in modo perfetto, perché vi sono alcuni nucleotidi che non combaciano e quindi non si legano. Riscaldando questo DNA ibrido si nota che la temperatura necessaria alla separazione dei due filamenti è un po' inferiore a quella che era servita per separare i filamenti di un'elica pura, in quanto ora è minore il numero dei legami che tengono unite le due catene nucleotidiche. Si ottengono, in questo modo, una serie di temperature di rottura dei legami di DNA ibridi che ci informano di quanto le due specie su cui si sperimenta sono strettamente imparentate. Anche da queste ricerche appare evidente che uomo scimpanzé e gorilla sono diversi solo per l'aspetto esteriore, mentre la differenza è minima nel DNA. Ora viene da chiedersi come possa sussistere una così piccola differenza nel DNA ed una così vistosa nell'aspetto esterno di questi organismi. Secondo gli antropologi molecolari, l'uomo e le scimmie antropomorfe discenderebbero da un brachiatore vissuto una ventina di milioni di anni fa, cioè nel Miocene. Da esso sarebbe derivato, dieci milioni di anni fa, il gibbone. Successivamente si sarebbe differenziato l'orangutan e finalmente, circa quattro milioni e mezzo di anni fa, uomo, scimpanzé e gorilla. Oggi il candidato più accreditato al ruolo di antenato comune di scimpanzé, gorilla e Australopiteci è il Kenyapiteco, un Ominoide che visse in Africa circa sei o sette milioni di anni fa (questo è il valore temporale su cui anche i paleoantropologi molecolari oggi concordano come data di separazione fra le scimmie antropomorfe africane e l’uomo) e che, come abbiamo già ricordato, si trovò improvvisamente separato in due gruppi dallo sprofondamento della Rift Valley. L'EVOLUZIONE DEL GENERE HOMO Nel 1961, nella gola dell'Olduvai, all'interno dello stesso sito in cui un paio di anni prima era stato trovato lo Zinjantropo, uno dei figli di Louis Leakey, Jonathan, rinvenne due frammenti di cranio e una mandibola incompleta di un Ominide apparentemente più evoluto dell'Australopiteco. La sottigliezza delle ossa, i molari di piccole dimensioni e il volume della scatola cranica decisamente superiore a quello di analoghi reperti trovati in precedenza, lasciavano immaginare che dovesse trattarsi di un individuo di costituzione un po' meno robusta di qualsiasi australopiteco noto. Altri resti di Homo habilis vennero ritrovati negli anni successivi sia in Africa orientale sia in Sudafrica: fra questi un cranio, molto ben conservato, scoperto in Kenia nel 1972 dall'altro dei figli dei Leakey, Richard. Al fossile venne attribuita un'età di quasi due milioni di anni. Come abbiamo già accennato in precedenza, il ritrovamento di ossa di Ominidi più progrediti degli Australopiteci faceva ritenere che intorno a due milioni di anni or sono vivessero sullo stesso territorio due tipi di individui, entrambi con caratteristiche umane, ma un po' diversi nei particolari: gli uni avevano encefalo piccolo e molari grossi, ed erano gli Australopiteci, gli altri avevano encefalo grande e molari piccoli, ed erano gli Ominidi del genere Homo. I primi si sarebbero estinti entro un milione di anni, i secondi si sarebbero invece evoluti fino a diventare gli uomini attuali. Circa due milioni e mezzo di anni fa in Africa cambiò il clima per l'ennesima volta e la savana si fece più arida e di conseguenza più povera di alimenti teneri che erano il cibo preferito dagli Australopiteci di tipo africano. Nelle nuove condizioni ambientali mentre l'Australopithecus boisei (cioè la forma robusta di Australopiteco) che si nutriva con una dieta fatta preferibilmente di vegetali e di semi duri, era attrezzato per cavarsela rispetto alle sopraggiunte difficoltà, l'Australopithecus africanus si trovò invece in piena crisi. Come fare per sopravvivere? La risposta è sempre la stessa: mutando. Le mutazioni, come si ricorderà, sono quei cambiamenti improvvisi e imprevedibili del patrimonio genetico che si realizzano di continuo nel DNA e che poi si riflettono sulle strutture fisiche dei singoli individui. Normalmente questi cambiamenti producono soggetti meno adatti all'ambiente, ma se questo è in via di trasformazione, le nuove forme potrebbero trovarsi particolarmente a loro agio proprio grazie ai nuovi requisiti fisici forniti loro dalle mutazioni. Così potrebbe essere avvenuto nel caso dell'Australopithecus africanus il quale inaspettatamente si era venuto a trovare in difficoltà in un ambiente arido e povero di cibo tenero. Egli quindi, secondo il parere di alcuni illustri paleoantropologi, attraverso alcune mutazioni, si sarebbe trasformato in Homo habilis. Le mutazioni che si susseguirono sull'Australopithecus africanus indubbiamente furono svariate ma una fu decisiva su tutte le altre: l'ingrandimento del cervello. Questo aumentò, nell'Homo habilis, del 50% rispetto a quello del suo predecessore. Uno sviluppo così spropositato dell'encefalo, che mai si era realizzato in alcun altro animale e che mai si realizzerà in seguito, consentirà di risolvere con efficacia i problemi che la nuova situazione ambientale stava producendo. Questi, fondamentalmente, erano problemi legati alla ricerca del cibo. Cibi teneri di origine vegetale non ve n'erano più; vi era tuttavia abbondanza di carne. La savana si trovò infatti improvvisamente abitata da mandrie sterminate di erbivori che approfittavano di un ambiente a loro favorevole per moltiplicarsi. Molto probabilmente non era necessario che l'Homo habilis per procurarsi il cibo cacciasse gli animali, come in un primo tempo si era pensato: il terreno doveva essere già pieno delle carcasse di quelli morti per cause naturali o uccisi dai carnivori e poi abbandonati prima di venire completamente spolpati. L'Homo habilis per procurarsi la carne forse doveva semplicemente contenderla a iene ed avvoltoi che, com'è noto, si nutrono di carogne. Vi era tuttavia un problema da risolvere e non di poco conto. Come fare per accedere alle carni dei grossi mammiferi coperte da una pelle spessa e resistente che tagliare con i denti o con le unghie era pressoché impossibile? L'Australopiteco africano non era certo dotato di artigli adatti a penetrare nei tessuti e i canini, piccoli e deboli, non erano in grado di lacerare la pelle e strappare le carni dalle ossa degli animali. Non rimaneva che usare il cervello che nel frattempo si era fatto molto grande. Fu così che l'Australopiteco africano, divenuto ormai “uomo abile”, si mise a fabbricare utensili di pietra, che facilitavano l'accesso alle carni degli animali morti. E mentre l'Australopiteco africano si trasformava in Homo habilis, il boisei continuava a masticare noci e granaglie dure, divenendo intanto preda del leopardo e degli altri carnivori della savana. In questo modo finirà per estinguersi completamente Oggi i paleoantropologi hanno a disposizione reperti fossili sufficienti per ricostruire la struttura fisica dell’Homo habilis. Esso doveva essere un individuo alto un metro e mezzo e pesare una cinquantina di kilogrammi. Era quindi circa delle dimensioni dell'Australopithecus robustus, ma le sue ossa erano molto più leggere. Aveva un'andatura perfettamente eretta, la capacità cranica era intorno ai 700 cm³ e la faccia appariva molto meno prominente di quella dell'Australopiteco Con l'Homo habilis compare per la prima volta quella caratteristica che viene ritenuta una prerogativa fondamentale del genere umano, cioè la produzione di utensili. Fino ad oggi non si è raccolta alcuna prova che l'Australopiteco fosse stato in grado di fabbricare utensili di pietra scheggiata e così pure nessun animale vivente, nemmeno lo scimpanzé, che pure è capace di strappare rami dalle piante per inserirli nei termitai e catturare le formiche che poi mangia, è in grado di fabbricare volontariamente strumenti di alcun genere, né di conservare quelli che si sono dimostrati efficaci in determinate circostanze. Nessun animale, in altre parole, è in grado di prevedere il futuro come fa l'uomo Recenti scoperte hanno dimostrato che l'Homo habilis non solo fabbricava manufatti in pietra ma, molto probabilmente, che egli era anche in grado di costruire accampamenti. Ciò è stato dedotto dal ritrovamento ad Olduvai di un cerchio di pietre che rappresenterebbe i resti di una delle prime abitazioni costruite dall'uomo. IL LINGUAGGIO "Le parole - come dice anche Richard Leakey - purtroppo non si fossilizzano". Pertanto, non riusciremo mai a sapere con certezza quando si è originato il linguaggio verbale. Tuttavia abbiamo a disposizione alcune testimonianze indirette, rappresentate dai manufatti realizzati dai nostri antenati e dai cambiamenti nella loro struttura anatomica, che ci consentono di formulare alcune ipotesi sul modo in cui il linguaggio articolato avrebbe potuto nascere e svilupparsi. I primi utensili in pietra costruiti dall'uomo sono stati trovati, insieme con le sue ossa fossili, ad Olduvai, ed hanno un'età di due milioni di anni, ma in seguito ne furono rinvenuti anche di più antichi. Si tratta dei famosissimi "chopper" (parola inglese che significa accetta, mannaia di macellaio), ciottoli di lava intenzionalmente scheggiati per ricavare un margine tagliente. Queste pietre lavorate, molto probabilmente, venivano usate dall'Homo habilis per tagliare la pelle degli animali e per staccare la carne dalle loro ossa, ma forse anche per tagliare e appuntire i rami degli alberi. L'utensile, a differenza del semplice strumento, implica la presenza di un pensiero concettuale, cioè la necessità che nella mente dell'operatore si formi un'idea di ciò che si vuole realizzare. Questa idea diverrà quindi oggetto lavorato attraverso una serie ordinata di azioni successive. E' necessario saper parlare per compiere queste azioni? Forse sì. Per fabbricare un oggetto di pietra, ad esempio, occorre innanzitutto individuare un ciottolo di dimensioni e forma opportune e quindi cercare un percussore adatto per colpire il ciottolo. Inoltre bisogna operare in modo tale che i colpi vengano inferti sotto varie angolazioni e con un'energia adeguatamente calibrata. Infine è necessaria un'azione di controllo della forma che l'oggetto va assumendo per effetto delle scheggiature. Tutto ciò richiede un'attività intellettiva tutt'altro che semplice. L'attività manuale dell'Homo habilis non si esaurisce, tuttavia, con la costruzione di chopper. In siti di età più recente vennero infatti alla luce oggetti in pietra meglio rifiniti, come i "chopping-tools", ottenuti colpendo i ciottoli su entrambe le facce invece che su una sola. Successivamente, con l'Homo erectus, comparvero le raffinate "amigdale" oggetti in pietra sapientemente rifiniti su tutto il nucleo del ciottolo: per questo motivo l'amigdale viene anche definita "bifacciale". Non si è mai riusciti a capire bene a cosa potesse servire questo strano oggetto di pietra con il filo tagliente che gli gira tutt'intorno rendendolo difficile da tenere in mano senza farsi male. La tecnologia può anche aver avuto la sua importanza nell'origine del linguaggio verbale, ma senza una conformazione particolare della laringe mai l'uomo avrebbe potuto parlare. Scimpanzé e gorilla, ad esempio, sono in grado anch'essi di esprimere concetti semplici e manifestare emozioni, tuttavia non sono capaci di parlare perché la loro laringe è sistemata in modo tale da non consentire una perfetta modulazione dei suoni. La stessa cosa avviene nei neonati, i quali non sarebbero in grado di parlare nemmeno se le facoltà psichiche glielo consentissero. La fonazione infatti è possibile solo in seguito all'abbassamento della laringe che produce un allargamento della cavità faringea sovrastante con conseguente emissione di suoni. Nelle scimmie l'organo della fonazione è posto in posizione elevata e proprio in virtù di questa particolare collocazione della laringe esse riescono a bere e a respirare contemporaneamente. Lo stesso avviene nei bambini appena nati i quali, come tutti sanno, riescono a poppare e a respirare nello stesso tempo. I bambini possono cominciare a parlare, o per meglio dire, ad articolare correttamente le parole non prima dei due anni, cioè dall'età in cui la laringe tende a scendere verso il basso. Alcuni paleoantropologi sono del parere che il linguaggio verbale non si sia sviluppato attraverso una lenta e graduale evoluzione iniziatasi più di due milioni di anni fa, ma all'improvviso e molto di recente. Secondo questi studiosi il linguaggio avrebbe fatto la sua comparsa solo 35.000 anni fa quando l'uomo già possedeva forme di cultura simili a quelle che conosciamo oggi. L'HOMO ERECTUS Come abbiamo visto, all'Homo habilis succede l'Homo erectus. La denominazione di "erectus", riservata a questo Ominide, risale agli anni Cinquanta, quando si riteneva che gli Australopiteci non fossero ancora dei bipedi perfetti, ma che camminassero aiutandosi con gli arti superiori, come fanno attualmente le scimmie antropomorfe. L'Homo erectus aveva un cervello con un volume superiore a 1000 cm³, cioè di poco inferiore al nostro, e visse fra un milione e mezzo e 200.000 anni fa, età quest'ultima in cui comparve sulla scena l'Homo sapiens. Il primo fossile di Homo erectus venne trovato a Giava, da un medico olandese Per un colpo di fortuna veramente incredibile, trovò effettivamente nel 1891, lungo le sponde di un piccolo corso d'acqua, il fiume Solo, un cranio umano ed alcuni denti. L'anno successivo rinvenne, in una zona vicina e all'interno della stessa formazione rocciosa, un femore umano. Egli, a quel punto, credette di aver individuato proprio l'anello mancante e chiamò il nuovo Ominide Pitecanthropus erectus, nome che vuol dire "scimmia-uomo che sta ritta in piedi". Il nome Pitecanthropus sembrava perfettamente appropriato perché il cranio era troppo grande per essere quello di una scimmia e troppo piccolo per essere quello di un uomo. Altri resti fossili, simili a quelli del Pitecantropo di Dubois, furono trovati successivamente in diverse parti del mondo e ciascuno ricevette un proprio nome. Ai reperti trovati in Cina, ad esempio, fu assegnato il nome di "uomo di Pechino", o Sinantropo; in Germania, preso Heidelberg fu scoperta la famosa mandibola di Mauer, e in Africa furono rinvenuti i rappresentanti più antichi: nel deposito di Koobi Fora a est del lago Turkana fu rinvenuto un cranio a cui è stata attribuita l'età di 1.600.000 anni. Tutti questi Ominidi oggi vengono classificati come Homo erectus e non hanno nulla a che vedere con le scimmie. L'Homo erectus non solo era capace di scheggiare la pietra, cosa che faceva con maggiore maestria del suo predecessore habilis, ma imparò anche a servirsi sistematicamente del fuoco. L'uso del fuoco avvantaggiò notevolmente questo Ominide, perché gli consentì di spingersi alla conquista di luoghi freddi e anche perché gli permise di sfruttare e conservare meglio gli alimenti. Circa 200.000 anni fa l'Homo erectus venne definitivamente soppiantato dall'Homo sapiens con il quale si conclude la nostra storia. Tra i 400 e i 300 mila anni fa apparvero, in diverse regioni del pianeta, delle forme di Homo erectus di aspetto più moderno che i paleoantropologi non sanno ancora se considerare Homo sapiens o semplicemente forme più evolute di Homo erectus. L'Homo sapiens si differenziò, successivamente, in due sottospecie: Homo sapiens neanderthalensis, i cui resti fossili non hanno un'età anteriore ai 100.000 anni, e l'Homo sapiens sapiens comparso fra i 200 e i 140 mila anni fa in Africa. L'Africa è stata quindi per due volte la culla dell'uomo: una prima volta con gli Australopiteci, quando, soprattutto in considerazione della posizione eretta, questi Ominidi vennero considerati i nostri più prossimi antenati e, successivamente, con l'Homo sapiens, il nostro vero diretto antenato. La straordinaria intuizione di Darwin ha trovato, alla fine, la sua piena conferma. Nel 1871 egli scriveva: "In ogni grande regione del mondo i mammiferi esistenti sono strettamente imparentati con le specie estinte della stessa zona. E' quindi probabile che l'Africa fosse in passato abitata da scimmie ora estinte, strettamente affini al gorilla e allo scimpanzé e, dal momento che queste due specie sono attualmente i parenti più prossimi dell'uomo, è verosimile che i nostri antichi progenitori fossero vissuti nel continente africano piuttosto che altrove".