Adamo ed Eva e peccato originale

Adamo ed Eva sono veramente esistiti ?
Creazionismo o evoluzionismo?
Da http://www.cosediscienza.it/bio/08_uomo.htm
2. Circa il paradiso terrestre e Adamo ed Eva il Catechismo della Chiesa Cattolica dice:
“La Chiesa, interpretando autenticamente il simbolismo del linguaggio biblico alla luce del Nuovo
Testamento e della Tradizione, insegna che i nostri progenitori Adamo ed Eva sono stati costituiti in
uno stato «di santità e di giustizia originali» [Concilio di Trento, DS 1511]. La grazia della santità
originale era una «partecipazione alla vita divina» [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 2]” (CCC 375).
3. Poco prima aveva detto: “Il primo uomo non solo è stato creato buono, ma è stato
anche costituito in una tale amicizia con il suo Creatore e in una tale armonia con se stesso e
con la creazione, che saranno superate soltanto dalla gloria della nuova creazione in Cristo” (CCC
374).
Come vedi il Catechismo parla di una triplice armonia: col Creatore, con se stesso e con la creazione.
4.Ulteriormente il Catechismo della Chiesa Cattolica precisa:
“Finché fosse rimasto nell'intimità divina, l'uomo non avrebbe dovuto né morire, (Gn 2,17; Gn
3,19) né soffrire (Gn 3,16).
L'armonia interiore della persona umana, l'armonia tra l'uomo e la donna (Gn 2,25), infine l'armonia tra
la prima coppia e tutta la creazione costituiva la condizione detta «giustizia originale»” (CCC 376).
Come vedi, il Catechismo della Chiesa Cattolica parla di prima coppia.
La prima coppia (Adamo ed Eva) non è linguaggio simbolico.
5.5. Questo lo si capisce ancor meglio da quanto segue: “Il racconto della caduta (Gn 3) utilizza un
linguaggio di immagini, ma espone un avvenimento primordiale, un fatto che è accaduto
all'inizio della storia dell'uomo [Cf Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 13].
La Rivelazione ci dà la certezza di fede che tutta la storia umana è segnata dalla colpa
originaleliberamente commessa dai nostri progenitori” (CCC 390).
6.6. Immagini sono: l’albero, il serpente, il frutto buono a vedersi, il fatto che Eva l’abbia presentato ad
Adamo, che l’abbiano assaggiato, il serpente...
Ma al di là delle immagini vi è “un fatto che è accaduto all'inizio della storia dell'uomo”.
Su questo non si discute.
7.7. Ma in che cosa è precisamente è consistito il peccato originale?
Ti rispondo con le parole del Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica: “L'uomo,
tentato dal diavolo, ha lasciato spegnere nel suo cuore la fiducia nei confronti del suo Creatore
e, disobbedendoGli, ha voluto diventare «come Dio» senza Dio, e non secondo Dio (Gn 3,5).
Così Adamo ed Eva hanno perduto immediatamente, per sé e per tutti i loro discendenti, la grazia
originale della santità e della giustizia” (Compendio CCC 375).
8. E ancora: “Tutti gli uomini sono coinvolti nel peccato di Adamo. San Paolo lo afferma: «Per la
disobbedienza di uno solo, tutti sono stati costituiti peccatori» (Rm 5,19); «Come a causa di un solo
uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto
tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato. . . » (Rm 5,12)” (CCC 402).
9. “Si tratta di un peccato che sarà trasmesso per propagazione a tutta l'umanità, cioè con la
trasmissione di una natura umana privata della santità e della giustizia originali. Per questo il
peccato originale è chiamato «peccato» in modo analogico: è un peccato «contratto» e non
«commesso», uno stato e non un atto” (CCC 404).
L'armonia nella quale essi erano posti, grazie alla giustizia originale, è distrutta;
la padronanza delle facoltà spirituali dell'anima sul corpo è infranta (Gn 3,7);
l'unione dell'uomo e della donna è sottoposta a tensioni (Gn 3,11-13);
i loro rapporti saranno segnati dalla concupiscenza e dalla tendenza all'asservimento (Gn 3,16).
L'armonia con la creazione è spezzata: la creazione visibile è diventata aliena e ostile all'uomo (Gn
3,17; Gn 3,19). A causa dell'uomo, la creazione è «sottomessa alla caducità» (Rm 8,20).
Infine, la conseguenza esplicitamente annunziata nell'ipotesi della disobbedienza (Gn 2,17) si
realizzerà: l'uomo tornerà in polvere, quella polvere dalla quale è stato tratto (Gn 3,19). La morte entra
nella storia dell'umanità (Rm 5,12) (CCC 400).
Il primo peccato dell'uomo
397 L'uomo, tentato dal diavolo, ha lasciato spegnere nel suo cuore la fiducia nei confronti del suo
Creatore 516 e, abusando della propria libertà, ha disobbedito al comandamento di Dio. In ciò è
consistito il primo peccato dell'uomo. 517 In seguito, ogni peccato sarà una disobbedienza a Dio e una
mancanza di fiducia nella sua bontà.
Con questo peccato, l'uomo ha preferito se stesso a Dio, e, perciò, ha disprezzato Dio: ha fatto la
scelta di se stesso contro Dio, contro le esigenze della propria condizione di creatura e
conseguentemente contro il suo proprio bene. Costituito in uno stato di santità, l'uomo era destinato ad
essere pienamente « divinizzato » da Dio nella gloria. Sedotto dal diavolo, ha voluto diventare « come
Dio » (Gn 3,5), ma « senza Dio e anteponendosi a Dio, non secondo Dio ». 518
Tutti gli uomini sono coinvolti nel peccato di Adamo. San Paolo lo afferma: « Per la disobbedienza di
uno solo, tutti sono stati costituiti peccatori » (Rm 5,19); « Come a causa di un solo uomo il
peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini,
perché tutti hanno peccato... » (Rm 5,12).
All'universalità del peccato e della morte l'Apostolo contrappone l'universalità della salvezza in Cristo: «
Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per
l'opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita » (Rm 5,18)
Evoluzionismo e Chiesa cattolica
Sin dalla pubblicazione de L'origine delle specie di Charles Darwin nel 1859, le gerarchie dellaChiesa
cattolica hanno lentamente definito e rifinito la loro posizione sull'evoluzione, evitando inizialmente di
prendere una posizione ufficiale, contrariamente a quanto fecero le chiese protestanti, che,
maggiormente legate ad una interpretazione letterale della Bibbia, immediatamente avversarono
il pensiero darwiniano[2].
Fino ai primi anni del XX secolo, nel mondo cattolico si riscontrava una generale ostilità
all'evoluzionismo; tuttavia, in quel periodo la Chiesa non prese mai una posizione ufficiale sulla
questione.
Nel corso del Novecento alcune alte gerarchie ecclesiastiche con pubbliche affermazioni e
documenti ufficiali hanno affermato che la fede cattolica e l'evoluzionismo, in particolare
riguardo all'origine dell'uomo, non sono in conflitto; diversi papi si sono esplicitamente espressi
favorevolmente riguardo alla conciliabilità dell'evoluzionismo con la fede cattolica.
Soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, la teologia cattolica, confrontandosi con la teoria
dell'evoluzione, ha fatto importanti progressi ed ha definito alcune fondamentali questioni di fede
relative all'origine dell'uomo, all'azione di Dio nel mondo ed alla dottrina sul peccato originale.
Piccola storia:
Dopo il 1861, anno dell'unità d'Italia, dello Stato Pontificio rimaneva soltanto la città di Roma difesa dai
francesi di Napoleone III; il 20 settembre 1870 l'esercito italiano entrò nella città: il potere temporale dei
papi era finito e si apriva un periodo di forti contrasti tra la Chiesa e lo Stato italiano.
Dal mondo scientifico arrivavano inoltre dure critiche alla religione cattolica, descritta spesso come
causa di ignoranza, arretratezza e freno del progresso. La teoria dell'evoluzione veniva ampiamente
utilizzata, affermando l'inattendibilità e la falsità delle Sacre Scritture, per criticare i fondamenti
della dottrina cattolica; le teorie di Darwin, che per spiegare l'evoluzione facevano appello
soltanto a cause naturali e contingenti, permettevano di sostenere filosofie atee ematerialiste.
Il darwinismo nel mondo cattolico fu quindi accolto, inizialmente, con profonda ostilità e
disprezzo Per i teologi Dio aveva sempre fatto parte dell'interpretazione scientifica del mondo; per
la teologia naturale la scoperta dell'ordine del mondo che si otteneva dallo studio delle scienze naturali
forniva la prova dell'esistenza di Dio e della sua azione provvidenziale. Le teorie di Darwin inferivano
un duro colpo a questa concezione.
In questa situazione è facile comprendere l'esistenza, nel mondo cattolico, di un generale clima
di sospetto o di opposizione nei confronti dell'evoluzionismo. Ma nonostante queste condizioni,
la Chiesa non prese mai alcuna posizione sull'evoluzionismo, né decise in generale di prendere
provvedimenti verso quegli intellettuali cattolici che accettavano le nuove teorie e ne
sostenevano la conciliabilità con la dottrina cattolica.
La graduale accettazione dell'evoluzionismo nel pensiero cattolico: 1900 - 1950
Alle fine del XIX secolo e nella prima parte del XX la generale ostilità del mondo cattolico
all'evoluzionismo cominciò ad allentarsi.
Non che ci fosse un consenso generalizzato, tutt'altro; molti rimanevano i teologi che si opponevano a
queste nuove teorie, né ci furono pronunciamenti ufficiali da parte della Santa Sede, per i quali si dovrà
attendere il 1950 con l'enciclica Humani generis di Papa Pio XII. Molari[ riporta la testimonianza
di Carlo Colombo, che affermava ci fossero state forti pressioni su Pio XI affinché questi condannasse
l'evoluzionismo; tuttavia egli avrebbe rifiutato dicendo che «di casi Galileo nella storia della chiesa
ne basta uno solo.»
La Chiesa ammette l'evoluzionismo
Nel 1948, il teologo della Pontificia Università Gregoriana Maurizio Flick riassumeva il dibattito
teologico successivo al discorso del Papa[82]. In primo luogo spiegava che era ormai ammissibile
affermare che, nella creazione del corpo dell'uomo, Dio si fosse servito anche di cause seconde;
secondariamente, pur seguendo la lezione del Papa e quindi non ammettendo la generazione in senso
proprio dell'uomo da un bruto, si poteva concedere che il regno animale avesse contribuito alla
formazione del corpo umano attraverso l'evoluzione; fermo restando il fatto che l'uomo era da
considerarsi superiore a tutti gli altri animali per via della sua anima creata immediatamente da
Dio.
L'intervento di Dio era quindi da considerarsi necessario pur ammettendo i meccanismi
evolutivi per il corpo dell'uomo.
Risultava quindi inammissibile una dottrina evoluzionista che sostenga la spontanea trasformazione
delle specie viventi inferiori in superiori, senza ricorso ad uno speciale intervento divino,
Dopo queste considerazioni generali, viene esplicitamente accettato l'evoluzionismo applicato al corpo
dell'uomo, invocando comunque prudenza nel trattare tale questione:
Pio XII e l'enciclica Humani Generis
« Per queste ragioni il Magistero della Chiesa non proibisce che in conformità dell'attuale stato
delle scienze e della teologia, sia oggetto di ricerche e di discussioni, da parte dei competenti in
tutti e due i campi, la dottrina dell'evoluzionismo, in quanto cioè essa fa ricerche sull'origine del
corpo umano, che proverrebbe da materia organica preesistente (la fede cattolica ci obbliga a ritenere
che le anime sono state create immediatamente sia Dio).
Però questo deve essere fatto in tale modo che le ragioni delle due opinioni, cioè di quella favorevole e
di quella contraria all'evoluzionismo, siano ponderate e giudicate con la necessaria serietà,
moderazione e misura e purché tutti siano pronti a sottostare al giudizio della Chiesa, alla quale Cristo
ha affidato l'ufficio di interpretare autenticamente la Sacra Scrittura e di difendere i dogmi della fede.
Però alcuni oltrepassano questa libertà di discussione, agendo in modo come fosse già dimostrata con
totale certezza la stessa origine del corpo umano dalla materia organica preesistente, valendosi di dati
indiziali finora raccolti e di ragionamenti basati sui medesimi indizi; e ciò come se nelle fonti della
divina Rivelazione non vi fosse nulla che esiga in questa materia la più grande moderazione e
cautela. »
Nuovi sviluppi della teologia negli anni '60 e '70
Il peccato originale
Dopo il Concilio Vaticano II, la questione più importante ad essere discussa dai teologi fu la dottrina
sul peccato originale.
I problemi in campo erano essenzialmente due:
1)stabilire se fosse davvero necessario ammettere uno specifico evento originario (ovvero il peccato
di Adamo ed Evanarrato in Genesi 3);
2)stabilire se la dottrina sul peccato originale definita dogmaticamente dal Concilio di Trento fosse
compatibile con il poligenismo.
Secondo la dottrina tradizionale, il peccato sarebbe entrato nel mondo attraverso la disobbedienza di
Adamo ed Eva a Dio, e si sarebbe poi propagato a tutta l'umanità per via della comune discendenza da
questa singola coppia primitiva.
Ma questa lezione cominciò a cambiare negli anni '60, ed infine, negli anni '70, la posizione più
comune tra i teologi divenne la seguente:
l'attuale situazione di male e di peccato dell'intera umanità non è originaria, ma dipende da una
serie di errori che si sono susseguiti e moltiplicati nel corso della storia; tale serie di errori deve
certamente aver avuto un inizio, che però non può essere individuato in alcun modo
Il poligenismo
è una teoria, detta anche polifiletismo, che afferma la pluralità delle origini dei vari tipi umani sia del
passato che attuali. In contrapposizione a questa concezione il monogenismosostiene che tutta
l'umanità ha un'unica ascendenza identificata in una coppia originaria
In ambito cattolico, il poligenismo fu ufficialmente condannato prima dal Concilio di Trento e poi
dapapa Pio XII nell'enciclica Humani generis.
Anche per il problema del poligenismo fu determinante il contributo di Karl Rahner. In uno suo
importante articolo del 1954[128], egli mostrò che le definizioni dogmatiche sul peccato originale
formulate nel Concilio di Trento non implicavano necessariamente il monogenismo, e che pertanto la
teologia avesse la possibilità di trovare il modo di conciliare il poligenismo con la dottrina sul peccato
originale.
Infatti Rahner notava che il Concilio di Trento non definiva esplicitamente il monogenismo come
dogma, e che, quando parlava del peccato di Adamo, si limitasse semplicemente a riportare il
racconto biblico. L'analisi di Rahner in generale convinse i teologi
Proprio durante il simposio di Nemi del 1966 nel cui discorso iniziale Paolo VI ancora ricordava le
difficoltà connesse con il poligenismo, maturò il convincimento che esso potesse esser conciliato con
la dottrina sul peccato originale
Mentre nella tradizione l'unità del genere umano veniva ricondotta ad una coppia iniziale, con la
diffusione della teoria evoluzionista questa unità cominciò ad esser considerata una chiamata piuttosto
che uno stato; diventò sufficiente parlare di un unico destino cui un unico creatore, attraverso un
unico Salvatore, chiama il genere umano
In questo modo l'unità del genere umano non ha più bisogno di esser basata sulla comune
discendenza da Adamo, ma piuttosto sulla dignità di immagine di Dio conferita all'uomo dal suo
creatore e sull'unione spirituale verso la quale gli uomini sono chiamati attraverso Cristo. Già
nel 1964l'Hulsbosch scriveva.
« Nell'ordine salvifico cristiano, così come si realizza sulla terra, l'unità è basata su un principio più alto
Non contano più né razza né sesso: decisiva è l'appartenenza a Cristo. Questo nuovo principio di unità
ha potuto realizzarsi perché l'uomo vi era già disposto per natura
La dignità di immagine di Dio viene conferita ad ogni uomo dal suo creatore e non dal suo
progenitore, e la reciproca unione spirituale tra gli uomini, che ne risulta, supera di gran lunga
l'unità che deriva dalla comune discendenza. »
In questa prospettiva il peccato originale cominciò ad esser visto come un impedimento alla
realizzazione del progetto salvifico di Dio. I teologi iniziarono anche a rifiutare l'espressione peccato
originale, in quanto esso non poteva più essere legato ad un evento specifico; esso poteva invece
essere definito come un'imperfezione ricevuta all'inizio della vita che porta l'uomo a rifiutare Dio
e a tendere al male, come spiegavano Flick e Alszeghy[133
« Per evitare malintesi, pensiamo che non sarebbe controindicato designare il peccato originale
originato, anche nella catechetica e nella predicazione, talvolta con altri termini, come appartenenza al
regno del peccato e della morte, alienazione da Dio, incapacità di orientare l'esistenza verso Dio ecc.,
che esprimono la malizia fondamentale del cuore umano, introdotta dall'uomo, sanata solamente da
Cristo. »
Accettata questa posizione, il problema del poligenismo o del monogenismo diventava irrilevante e non
riguardava più direttamente la sostanza della fedegià citato documento della Commissione Teologica
Internazionale, il poligenismo viene di fatto ammesso
« Ogni singolo essere umano, come pure la comunità umana nel suo insieme, è creato a immagine di
Dio.
Nella sua unità originaria — di cui è simbolo Adamo — l’umanità è fatta a immagine della divina
Trinità. Voluta da Dio, procede attraverso le vicissitudini della storia dell’uomo verso una comunione
perfetta, anch’essa voluta da Dio, ma che deve ancora essere realizzata. In questo senso, gli esseri
umani partecipano alla solidarietà di un’unità che al tempo stesso già esiste e deve ancora essere
raggiunta. Condividendo una natura umana creata e confessando il Dio uno e trino che dimora in
mezzo a noi, siamo tuttavia divisi dal peccato e aspettiamo la venuta vittoriosa di Cristo che ristabilirà e
ricreerà l’unità voluta da Dio in una redenzione finale della creazione. »
Pronunciamenti di Giovanni Paolo II
Il 26 aprile 1985, Giovanni Paolo II introdusse i lavori del Simposio internazionale “Fede cristiana e
teoria dell'evoluzione” che fu tenuto a Roma Nel suo discorso egli notava come l'evoluzione
costituisse ormai un paradigma accettato ed imprescindibile, e che l'immagine evoluzionistica
del mondo cui si era giunti fosse molto diversa dalla vecchia concezione materialistica
Continuava poi, dopo aver ricordato l'enciclica Humani Generis di Pio XII, che un'evoluzione
rettamente intesa non può costituire un pericolo per la fede:
« l'evoluzione infatti presuppone la creazione; la creazione si pone nella luce dell'evoluzione come
un avvenimento che si estende nel tempo - come una “creatio continua” - in cui Dio diventa visibile agli
occhi del credente come Creatore del Cielo e della terra. »
La Commissione Teologica Internazionale
ha pubblicato, dopo gli anni 2000, un documento sottoscritto da Ratzinger nel quale affronta in modo
specifico la questione; in esso troviamo quanto segue:
[...]Secondo la tesi scientifica più accreditata, 15 miliardi di anni fa l'universo ha conosciuto
un'esplosione che va sotto il nome di Big Bang, e da allora continua a espandersi e raffreddarsi.
Successivamente sono andate verificandosi le condizione necessarie per la formazione degli atomi e,
in epoca ancora successiva, si è avuta la condensazione delle galassie e delle stelle, seguita circa 10
miliardi di anni più tardi dalla formazione dei pianeti.
Nel nostro sistema solare e sulla Terra (formatasi circa 4,5 miliardi di anni fa) si sono create le
condizioni favorevoli all'apparizione della vita.
Se, da un lato, gli scienziati sono divisi sulla spiegazione da dare all'origine di questa prima vita
microscopica, la maggior parte di essi è invece concorde nell'asserire che il primo organismo ha
abitato questo pianeta circa 3,5-4 miliardi di anni fa.
Poiché è stato dimostrato che tutti gli organismi viventi della Terra sono geneticamente connessi tra
loro, è praticamente certo che essi discendono tutti da questo primo organismo. [...] ma l'antropologia
fisica e la biologia molecolare fanno entrambe ritenere che l'origine della specie umana vada ricercata
in Africa circa 150.000 anni fa in una popolazione umanoide di comune ascendenza genetica.
Qualunque ne sia la spiegazione,
il fattore decisivo nelle origini dell'uomo è stato il continuo sviluppo del cervello umano, la natura e la
velocità dell'evoluzione sono state alterate per sempre: con l'introduzione di fattori unicamente umani
quali la coscienza, l'intenzionalità, la libertà e la creatività. L'evoluzione biologica ha assunto la nuova
veste di un'evoluzione di tipo sociale e culturale.
Papa Francesco I
L'evoluzione della natura non contrasta con la creazione, poiché l'evoluzione presuppone la creazione
di esseri che si evolvono"
Creazione, Dio non è contro Darwin
Tra evoluzione, come teoria scientifica, e creazione, come verità teologica, se si prendono nei
contenuti propri di ciascuna, non dovrebbero esserci contrapposizioni.
Stephen Gould (1992) ha osservato che esse appartengono a due ordini di conoscenza diversi, a due
magisteri non sovrapponibili e quindi non possono entrare in conflitto tra loro. La verità della
creazione non implica che la realtà, così come noi la vediamo, provenga direttamente da Dio, da
un cenno della sua volontà, dalla sua parola
Variazioni negli esseri viventi e vicende ambientali complesse fanno apparire il mondo della natura
come una realtà dinamica e non statica, che ha portato al popolamento degli spazi acquatici e terrestri
con i milioni di specie che oggi si contano.
Vi sono stati eventi casuali ed eventi di tipo deterministico dovuti alle leggi della natura. Tutto si
è succeduto in diverse centinaia di milioni di anni.
Sarebbe illusorio riferire la storia della vita a un progettista o un operatore, come se tutto, in ogni
particolare, fosse stato progettato in vista di uno scopo.
Nello stesso tempo il mondo della natura ci appare ordinato e armonico nel suo insieme. È un
sistema che funziona.
La teologia, sulla linea del pensiero di san Tommaso, vede Dio come «causa prima» che fa esistere
le cose, cioè gli elementi della natura, come «cause seconde»,
Nel loro inizio e nei cambiamenti che le caratterizzano.
I fattori della natura vengono considerati come «cause seconde».
Si può dire che nella evoluzione si prolunga la creazione.
Questo modo di agire di Dio corrisponde a un’economia che lascia autonomia e spazio alle «cause
seconde», cioè ai diversi fattori, anche casuali, che agiscono nella natura. Dio non fa le cose, fa
in modo che si facciano, diceva Teilhard de Chardin.
Il Catechismo della Chiesa cattolica così si esprime: «Dio e la causa prima che opera nelle e per
mezzo delle cause seconde» (n. 308). Dunque una creazione che si manifesta nel tempo attraverso
le trasformazioni della natura creata da Dio.
E chi potrebbe dubitare della bontà intrinseca degli elementi della natura?
In realtà un mondo che si è formato per una serie infinita di trasformazioni ed è passato attraverso
varie tappe di organizzazione dei viventi, un mondo che ha conosciuto cataclismi, terremoti, estinzioni
di specie non può essere un mondo perfetto. Lo rileva il Catechismo che, pur non usando il termine
di evoluzione, osserva che il mondo non è stato creato come noi lo vediamo, ma «in stato di via
verso la perfezione ultima»
Tra i Mammiferi le scimmie sono quelli meno lontani dalla forma umana.
Ma quale parentela abbiamo con loro? Una parentela diretta, per discendenza, con le scimmie
antropomorfe, nonostante si cerchino le somiglianze con l’uomo, non viene sostenuta da nessuno.
Allora una parentela collaterale? È quello che oggi si ritiene in base alle ricerche della
paleoantropologia e della biologia molecolare: viene ammesso 6,7 milioni di anni fa un ceppo comune
per le Antropomorfe e per gli Ominidi, tra i quali si svilupperà la linea umana.
L’accettazione di queste umili origini dell’uomo può presentare qualche problema, soprattutto per la
precomprensione che possiamo avere dalla descrizione della prima coppia umana fornitaci dalla
Bibbia e dalle rappresentazioni di Michelangelo.
Occorre una volontà superiore, il concorso di Dio Creatore. Quando e come ciò sia avvenuto è
impossibile dirlo o immaginarlo. Non possiamo avere la pretesa di entrare nei pensieri del Creatore.
D’altra parte, la comparsa di un essere intelligente e libero, che è cosciente e dà coscienza alle cose e
riesce a contrastare la selezione naturale, non fa pensare che dietro tutte le vicende ci sia qualcosa
che sfugge alle considerazioni di una mente umana?
Origine dell'uomo la teoria evoluzionistica
http://www.cosediscienza.it/bio/08_uomo.htm
4.L'”invenzione” di Dio”
5.Non riuscendo in modo coerente e logico a giustificare l'enorme varietà degli organismi viventi,
l'uomo non seppe far di meglio, in passato, che ricorrere al concetto di creazione.
Secondo questo punto di vista sarebbe esistito un dio, ovvero un'entità trascendente e dalle possibilità
infinite, il quale avrebbe popolato la Terra di ogni sorta di esseri viventi e assegnato all'uomo un ruolo
preminente.
Come tutti sanno, non esiste un unico mito della creazione: ogni cultura ne ha elaborato uno proprio,
esclusivo e originale nei dettagli. Tutti questi miti, tuttavia, proprio per la loro stessa natura, non sono
delle teorie scientifiche.
Non sono teorie scientifiche non solo perché da essi non è possibile trarre previsioni, ma anche per il
fatto che non si possono confutare: non è possibile, cioè, dimostrare in alcun modo né che sono veri
né che sono falsi.
A tutti questi miti, in altre parole, mancano le prerogative tipiche delle teorie scientifiche: essi sono atti
di fede e come tali non hanno né, per la verità, pretendono di avere, un fondamento logico.
Essendo un atto di fede, non è possibile ad esempio convincere un credente dell'inconsistenza
del mito biblico della creazione, né è intendimento degli scienziati farlo: ognuno è libero di
credere a ciò che vuole. Allo stesso tempo però la comunità scientifica pretende che chi apprezza la
logica e il rigore del metodo scientifico, cioè della ricerca della verità attraverso l'osservazione e la
sperimentazione, sia libero da anatemi e da imposizioni di qualsiasi tipo.
I creazionisti spesso, con l'intento di sminuire la teoria evoluzionistica di Darwin, dicono che in fondo si
tratta "solo di una teoria" e pertanto è assurdo pretendere che da essa possa scaturire la verità. Chi
parla in questi termini non sa cosa sia una teoria scientifica. Cerchiamo allora di spiegarlo in poche
parole.
Una teoria scientifica non è altro che un'ipotesi, cioè un'idea che si forma nella mente
dell'uomo, dopo che questi ha osservato attentamente e scrupolosamente i fenomeni naturali e
gli esperimenti di laboratorio.
Essa perciò non è la realtà ma una congettura, attraverso la quale è possibile giustificare i
fenomeni naturali in modo logico e coerente. Una buona teoria non solo deve rendere ragione dei
fenomeni dai quali essa stessa ha tratto origine, ma deve essere anche in grado di prevederne di nuovi
da verificare in futuro
Una teoria inoltre non è qualche cosa di fisso ed immutabile, valido una volta per sempre, ma uno
strumento concettuale da sottoporre continuamente a verifica.
Una teoria viene definitivamente abbandonata quando non è più in grado di spiegare in modo chiaro e
coerente i fatti osservati.
Normalmente però quando una teoria in seguito all'interpretazione di qualche nuovo fenomeno, entra
in contraddizione con i concetti che essa esprime, invece che scartata definitivamente, viene
opportunamente corretta e modificata. Una teoria scientifica se è "solo una teoria", come dicono i
creazionisti, è semplicemente tutto quello che deve essere.
La teoria evoluzionistica di Darwin, come tutte le grandi teorie, è molto semplice e si basa su tre
presupposti fondamentali.
Primo: gli organismi viventi, animali o piante che siano, fanno molti figli: molti di più di quelli che
servirebbero per rimanere in equilibrio stabile con il cibo e con lo spazio che l'ambiente mette loro a
disposizione.
Secondo: gli organismi della stessa specie non sono tutti identici fra di loro; ve ne sono di più grandi e
di più piccoli, di più lenti e di più veloci, di più chiari e di più scuri, e così via.
Terzo: esiste fra organismi di specie diversa, e anche fra organismi della stessa specie, una lotta
continua per la sopravvivenza. In questa lotta prevalgono gli individui più forti, ovvero quelli
meglio attrezzati per accedere alle risorse che la natura mette loro a disposizione, ottenendo un
vantaggio riproduttivo sugli individui più deboli.
L'uomo di Neanderthal doveva essere un individuo tarchiato, alto circa un metro e mezzo, con un
cranio di spessore abnorme, lungo e stretto, ma con una capacità notevole (oltre 1.500 cm³), perfino
superiore alla media dell'uomo attuale; esso presentava inoltre la fronte sfuggente, le arcate
sopraorbitarie molto prominenti e il foro occipitale non perfettamente parallelo al terreno. Tutte queste
caratteristiche portarono ad immaginare gli uomini di Neanderthal come esseri con l'aspetto da bruti
che abitavano le caverne e che procedevano con un'andatura curva in avanti, simile a quella delle
attuali scimmie antropomorfe.
Oggi sappiamo invece che l'uomo di Neanderthal non era affatto un essere bestiale, ma che aveva
un'intelligenza e svolgeva un'attività molto simile alla nostra (conosceva ad esempio il fuoco e
seppelliva i morti, dimostrando di possedere rispetto per i defunti). Egli visse in un'epoca molto recente
(dai 130.000 ai 35.000 anni fa) e viene attualmente considerato una sottospecie dell' Homo sapiens a
cui è stato assegnato il nome scientifico di "Homo sapiens neanderthalensis", mentre noi siamo
"Homo sapiens sapiens".
Egli quindi non è un nostro antenato, ma piuttosto una specie di uomo che ha avuto un iter evolutivo
divergente rispetto al nostro, iter evolutivo che lo ha portato all'estinzione. I nostri veri antenati hanno
invece abitato l'Africa almeno 3,5 milioni di anni fa.
Come abbiamo visto, con Darwin la comunità scientifica prese coscienza che anche l'uomo, come
qualsiasi altra specie vivente, doveva aver avuto una propria storia evolutiva e si mise alla ricerca delle
tracce della sua origine.
Nacque in questo modo la paleoantropologia, cioè la scienza che si occupa della ricerca e della
catalogazione dei reperti fossili del genere umano.
Fra i fossili umani vengono compresi, oltre alle ossa, anche gli utensili che l'uomo stesso fabbricò e
utilizzò, e le tracce della sua attività, come i resti dei fuochi che accese per riscaldarsi e tenere lontani
gli animali feroci, e i dipinti che realizzò sulle pareti delle caverne in cui visse.
Tutti i ritrovamenti fossili riguardanti la specie umana sono stati rinvenuti praticamente nel secolo
scorso e provengono in prevalenza dall'Africa, ma alcuni reperti importanti sono stati trovati anche in
Asia e in Europa.
Le scoperte di questi ultimi vent'anni hanno rimandato molto indietro nel tempo la data dell'origine
della nostra specie, che prima si collocava intorno ai 500.000 anni.
Queste ultime scoperte hanno anche chiarito definitivamente che il genere umano ha avuto le
sue origini in Africa e non in Europa, come per lungo tempo si era creduto. In realtà il convincimento
che l'Europa fosse stata la culla dell'umanità non aveva alcun fondamento scientifico, ma si basava
esclusivamente sulla presunzione che la civiltà europea fosse la più evoluta di tutte. Per questo motivo,
resti di Ominidi, rinvenuti a Giava e in Cina alla fine dell'altro secolo e all'inizio di questo, vennero
interpretati come resti di scimmie e non come nostri reali antenati.
Con il termine di Ominide oggi si indicano collettivamente tutti i tipi ancestrali della specie umana
contraddistinti dall'andatura eretta. L'unica specie di Ominide che alla fine sopravvivrà alla
selezione naturale sarà la nostra, quella che abbiamo chiamato Homo sapiens sapiens.
Due milioni di anni fa vivevano contemporaneamente, in Africa, due tipi diversi di Ominidi:
gli Australopiteci e quelli del genere Homo. Gli Australopiteci, il cui termine letteralmente significa
"scimmie australi" (cioè scimmie del sud), in realtà non erano scimmie, ma uomini primitivi che si sono
estinti senza lasciare discendenti.
Gli altri, gli Ominidi del genere Homo, sono i nostri più diretti antenati e si sono evoluti fino a
pervenire alla nostra specie.
Le scoperte più sensazionali di questi ultimi anni sono rappresentate dalla famosissima Lucy e dalle
tracce dei passi che tre individui lasciarono sulla cenere ancora calda di un vulcano dell'Africa più di tre
milioni e mezzo di anni fa. Si tratta, in entrambi i casi, di Australopiteci che vivevano nella savana e che
avevano già acquisito un eccellente adattamento all'andatura eretta.
LA STAZIONE ERETTA DELL'UOMO
La caratteristica più singolare e in un certo senso più sorprendente dell'uomo è la posizione che il suo
corpo assume nello spazio. La nostra specie è l'unica, fra tutti i mammiferi, a camminare in
posizione eretta. La conquista della stazione e della deambulazione eretta, da un punto di vista
evolutivo, dicono gli esperti, è di difficile acquisizione ed è molto più improbabile dello stesso sviluppo
del cervello.
Un tempo si riteneva che la stazione eretta, lo sviluppo del cervello e l'uso degli utensili fossero stati
acquisiti, dall'uomo primitivo, contemporaneamente; oggi invece i paleoantropologi la pensano in modo
diverso. Ad esempio Owen Lovejoy, un biologo esperto di locomozione animale, è convinto che gli
Ominidi acquisirono la stazione eretta quando ancora vivevano nella foresta e che poi questa
particolare posizione del corpo si rivelò vantaggiosa quando gli stessi furono costretti ad abitare nella
savana. Ma che cosa spinse l'evoluzione degli Ominidi in questa direzione? Quali vantaggi evolutivi
può aver comportato il camminare permanentemente su due soli arti, rispetto all'andatura su quattro
zampe tipica di tutti gli altri mammiferi?
Mutazione in funzione dell'adattamento all'ambiente
Come tutti (o quasi) sanno, l'evoluzione si realizza attraverso piccole variazioni casuali della
struttura del DNA che si chiamano mutazioni e che si ripercuotono in altrettante lievi modifiche
dell'organismo entro il quale tale DNA è contenuto. Le mutazioni, in sé, non sono né vantaggiose né
svantaggiose per l'individuo che le subisce: tutto dipende dal modo in cui questo individuo reagirà alla
prova dell'ambiente. Sarà l'ambiente, in altre parole, a consolidare o a cancellare le variazioni che
compaiono sull'individuo mutato.
L'andatura su quattro arti è indubbiamente più comoda rispetto a quella bipede ed è anche
quella che richiede minore dispendio di energia. L'acquisizione dell'andatura bipede deve essere
quindi interpretata come un avvenimento straordinario e niente affatto conveniente. La posizione
eretta richiede infatti una ristrutturazione radicale della nostra anatomia, al confronto della quale lo
sviluppo notevole dell'encefalo rappresenta un fenomeno di secondaria importanza.
Le mutazioni del DNA e i cambiamenti che, conseguentemente, queste mutazioni producono
sull'organismo, non possono avvenire in previsione di un ambiente in cui questi organismi non vivono
ancora: la selezione naturale non ha né coscienza né preveggenza. L'acquisizione della stazione
eretta, da parte dell'uomo primitivo, non avvenne per consentirgli di vedere meglio in lontananza, ma
per garantirgli il mantenimento del tradizionale modo di vita in un ambiente che stava mutando, cioè
nella foresta nella quale quell'organismo ancora si trovava.
La natura, come abbiamo detto, non può prevedere gli ambienti che devono ancora venire e le specie
non si possono pre-adattare ad un ambiente che non c'è e che chissà se mai ci sarà. La possibilità di
vedere meglio in lontananza, per l'Ominide che aveva acquisito la stazione eretta, non fu quindi la
causa dell'innovazione, ma piuttosto l'effetto della sua esistenza.
Per concludere, poiché l'evoluzione non ha né scopo, né direzione, dobbiamo ritenere che
l'acquisizione della stazione eretta da parte di scimmie primitive che abitavano la foresta sia avvenuta
per caso ed abbia posto quegli animali in condizioni più favorevoli rispetto agli altri, perché ha
consentito loro di mantenere il tradizionale modo di vita in un ambiente che stava mutando.
LA NEOTENIA
Oggi si ritiene che l'uomo sia fondamentalmente il risultato di un fenomeno biologico che
prende il nome di neotenia. Con questo termine, che etimologicamente significa "prolungamento
della gioventù", si indica la tendenza delle specie viventi a conservare, nell'età adulta, alcune
caratteristiche fisiche embrionali.
ANDATURA BIPEDE E RAPPORTI FAMILIARI
Ora, facendo riferimento all'andatura bipede, si è osservato che essa richiede un ingrandimento
degli arti inferiori ed uno sviluppo notevole dei muscoli. Le gambe di un bambino però sono
piccole e gracili: l'andatura bipede non dovrebbe quindi essere il risultato di una modificazione
neotenica. Le modificazioni che non sono di natura neotenica sono da considerarsi non naturali e
quindi di più difficile acquisizione.
Abbiamo detto che la stazione eretta non è affatto una posizione naturale (e tanto meno
comoda) come superficialmente si potrebbe credere: essa è una sfida alle leggi della gravità
perché eleva il baricentro del corpo e lo colloca in una posizione di perenne instabilità. La
stazione eretta richiede quindi, da parte dell'individuo che la possiede, una notevole spesa energetica
per la ricerca continua della posizione di equilibrio. Inoltre essa implica anche una serie di rischi come
ad esempio l'immobilità, o quasi, in caso di ferite o di fratture di un arto e una serie di disturbi, anche
gravi, come lo schiacciamento delle vertebre, le sciatiche, le vene varicose, ecc. E allora quali
sarebbero stati i benefici derivanti da questa mutazione in grado di compensare gli inconvenienti
fisiologici che devono aver tormentato l'uomo primitivo e che affliggono ancora oggi l'uomo moderno?
Il vero beneficio, secondo l'anatomista americano O. Lovejoy, già menzionato in precedenza, sarebbe
rappresentato dalla possibilità di utilizzare gli arti superiori come strumenti di presa e di
trasporto di oggetti di varia natura e nello stesso tempo di acquisire, grazie alla maggiore altezza,
un migliore controllo del territorio.
Lovejoy ha elaborato una teoria che spiegherebbe il migliore adattamento all'ambiente che la posizione
eretta avrebbe rappresentato per i progenitori della specie umana quando questi si trovarono nella
savana a dover competere con le scimmie più prolifiche.
Si sa che gli organismi viventi hanno tanto più successo, nella lotta per la sopravvivenza, quanto più
sono in grado di lasciare una discendenza: non si tratterebbe quindi di produrre gran numero di
figli, quanto piuttosto di far in modo che ne rimanga in vita il maggior numero possibile di quelli
nati e per il tempo necessario perché sia prodotta a sua volta altra prole.
Ebbene l'uomo, a differenza di tutti gli altri mammiferi, e quindi anche delle scimmie, non ha
l'estro.
Con questo termine si indica quel periodo di fecondità in cui gli animali manifestano, attraverso segni
esteriori evidenti, un desiderio irrefrenabile all'accoppiamento. Tutti hanno potuto osservare i cani e i
gatti nel periodo dell'estro, cioè quando, come si usa dire, sono "in calore".
L'estro è una garanzia di prolificità in quanto ogni accoppiamento che avvenisse nel periodo di
tempo stabilito dalla natura si concluderebbe inevitabilmente con la fecondazione delle uova e
quindi con la nascita di uno o più figli.
Ma nell'uomo non è così: esso, come tutti sanno, può avere rapporti sessuali senza che questi
portino necessariamente alla nascita di un figlio.
Che cosa c'entra tutto ciò con la posizione eretta? Lovejoy immagina che fra gli Ominidi che abitavano
la foresta alcuni acquisirono la posizione eretta attraverso una mutazione, dopo che furono costretti a
discendere dagli alberi indotti, come vedremo meglio in seguito, da una necessità dettata da
cambiamenti climatici. In questi individui, appena scesi a terra, la stazione eretta era presumibilmente
molto malsicura, ma andò lentamente migliorando. A questa evoluzione contribuirono alcune mutazioni
fra cui, secondo Lovejoy, la comparsa di un individuo privo dell'estro.
La prima femmina senza l'estro non avrebbe dunque presentato quelle modificazioni di
comportamento, tipiche degli animali "in calore", capaci di richiamare l'attenzione del maschio
dominante il quale è colui che, all'interno del gruppo, feconda tutte le femmine.
Questo comportamento è molto diffuso tra i mammiferi ed è la regola, ad esempio, fra i gorilla e
i babbuini. Agli altri maschi del gruppo è in genere precluso l'accoppiamento, anche se, in realtà, ad
alcuni di essi la cosa è consentita ma solo in periodi non fertili. Così è stato osservato ad esempio fra i
babbuini.
Il fatto di non possedere l'estro dovrebbe rappresentare uno svantaggio evolutivo: la teoria
evoluzionistica insegna però che un carattere può apparire svantaggioso se considerato a sé stante,
ma vantaggioso se valutato insieme ad altri con i quali interagisce.
Immaginiamo allora che all'interno di un gruppo di pre-Ominidi che abitavano la foresta e che vivevano
sugli alberi, ma che erano anche in grado di camminare al suolo in posizione eretta (o quasi), sia
comparsa una femmina senza l'estro. Questa femmina avrebbe potuto accoppiarsi con un giovane
del gruppo senza incontrare ostacoli da parte del maschio dominante in quanto quest'ultimo
non si sarebbe accorto di lei proprio perché priva dell'estro. Da questi rapporti, apparentemente
sterili, sarebbe potuta nascere una discendenza, e quindi altre femmine di quel tipo, cioè senza l'estro.
Una femmina però che si fosse trovata sola a provvedere all'allevamento del piccolo, avrebbe
incontrato enormi difficoltà e forse non ce l'avrebbe fatta a far sopravvivere il figlio e sé stessa. In
precedenza, all'interno del gruppo, non vi erano stati di questi problemi, perché, come succede anche
attualmente negli animali che vivono in comunità, tutti i componenti del gruppo erano chiamati a
collaborare per l'interesse comune.
A causa della situazione che si era venuta a creare dovette svilupparsi un nuovo tipo di
rapporto fra i singoli componenti del gruppo; si dovette cioè instaurare, fra individui di sesso
diverso, un legame personalizzato, di tipo monogamo, in cui il maschio, forse ricattato
psicologicamente attraverso richiami affettivi sconosciuti in precedenza, si sarebbe legato ad
un'unica femmina, e precisamente a quella dalla quale aveva avuto il figlio.
Forse in questo modo è nato quello che chiamiamo "amore", cioè un rapporto di coppia stabile fondato
su attrazioni di tipo diverso da quei comportamenti stereotipati riscontrabili negli animali che
conducono vita comunitaria.
In questa particolare situazione la stazione eretta sarebbe stata di grande utilità perché avrebbe
consentito al maschio, mentre la femmina accudiva ai piccoli, di andare in cerca di cibo e di
portarlo, usando gli arti superiori, ai propri figli e alla loro madre.
La liberazione delle mani dalla schiavitù della locomozione avrebbe consentito il trasporto del
cibo e pertanto il bipedismo e la stazione eretta si sarebbero rivelati, alla fine, un vantaggio
nella lotta per l'esistenza, perché avrebbero consentito il perfezionamento delle cure parentali e
quindi in definitiva una migliore garanzia di sopravvivenza.
LO SVILUPPO DEL CERVELLO
La maggiore potenzialità del cervello dell'uomo non sta tuttavia soltanto nella quantità (la massa
celebrale dell'uomo è più che doppia, ad esempio, di quella delle scimmie antropomorfe), ma anche
nella qualità. Il cervello dell'uomo si presenta, cioè, maggiormente sviluppato soprattutto in
alcune zone come in corrispondenza dei lobi temporali che sono la parte che controlla la parola e
dei lobi frontali che sono la sede del pensiero logico.
Questo sviluppo sbilanciato del cervello ha permesso all'uomo di comunicare con i suoi simili,
ma soprattutto di pianificare il futuro. L'uomo, infatti, è l'unico animale in grado di prevedere a
quali conseguenze porterà una determinata azione. Ciò rende attuabile una programmazione,
cioè la possibilità, ad esempio, di costruire strumenti di non immediato impiego, ma che
potrebbero risultare utili in futuro. Il linguaggio articolato deve avere allora rappresentato lo
strumento fondamentale per tale attività in quanto avrebbe consentito di coordinare i progetti insieme
con gli altri componenti del gruppo.
IL REGIME ALIMENTARE
L'uomo si distingue infine dalle scimmie antropomorfe, cioè dagli animali che più gli
assomigliano, anche per il regime alimentare.
Mentre le scimmie si nutrono di frutti, foglie e bacche, l'uomo mangia anche la carne.
Il regime alimentare è legato strettamente alle caratteristiche dell'apparato digerente e in particolare ai
denti. I denti dell'uomo sono tutti più o meno della stessa grandezza e disposti su un'arcata dentaria di
forma parabolica. I denti delle scimmie antropomorfe sono invece di dimensioni maggiori (soprattutto i
canini) e l'arcata dentaria ha la forma di una U, cioè con canini, premolari e molari disposti su due file
parallele.
Nelle scimmie antropomorfe, inoltre, è ancora presente il diastema, uno spazio fra incisivi e canini che
consente l'incastro delle arcate dentarie. Nell'uomo questo spazio non esiste proprio perché i denti, e
soprattutto i canini, si sono ridotti di dimensioni.
Se ora andiamo a vedere le caratteristiche dei denti degli Ominidi del passato notiamo che negli
Australopiteci il diastema si è a mano a mano ridotto senza mai scomparire completamente, mentre
nessun Ominide del genere Homo presenta il diastema.
Ciò testimonia del fatto che i nostri antenati diretti avevano un regime alimentare più vario rispetto a
quello degli Australopiteci, con i quali, per lungo tempo, hanno convissuto.
I denti, tuttavia, oltre che per mangiare, servono anche come difesa; se i canini dei nostri antenati, ad
esempio, si fossero ridotti di dimensioni prima che questi avessero imparato a fabbricare utensili per
combattere, essi si sarebbero trovati privi di un valido aiuto per la difesa e molto probabilmente si
sarebbero estinti.
L'EVOLUZIONE DEGLI OMINIDI
Ritorniamo ora all'evoluzione degli Ominidi. L'Ominide più antico che sia stato fino ad oggi rinvenuto
fossile è l'Australopithecus afarensis: esso comparve quasi 4 milioni di anni fa e i suoi resti ci
consentono di ricostruirne l'aspetto.
L'Australopithecus afarensis era un individuo di bassa statura, tarchiato e con un marcato
dimorfismo sessuale: le femmine, cioè, erano molto più piccole dei maschi. Nella specie umana la
differenza di statura fra maschi e femmine non è così evidente, mentre essa è ancora riscontrabile nei
gorilla.
Non è questo tuttavia l'unico carattere di tipo scimmiesco presente in questo antico Ominide: la faccia
aveva un muso prominente, proprio degli animali, e il cervello (400 cc) non era più grande di quello di
un attuale scimpanzé. La posizione del corpo era invece decisamente eretta. E' innegabile, pertanto,
che l'Australopiteco dell'Afar avesse un corpo da uomo e una testa da scimmia, ma in realtà esso era
diverso sia dall'uomo moderno sia dalle attuali scimmie antropomorfe.
La dentatura di questi Ominidi presenta il diastema, come si nota attualmente nelle scimmie
antropomorfe, mentre i molari, al contrario di quello che si riscontra nelle scimmie più evolute, si
presentano più voluminosi dei denti anteriori (incisivi e canini).
Questa osservazione fa ritenere che l'alimentazione degli Australopiteci dell'Afar fosse costituita da
prodotti duri, come ad esempio noci e granaglie, che necessitano di essere masticati a lungo prima di
venire deglutiti. Ecco dunque un'ulteriore prova che l'Australopiteco non viveva più nella foresta, dove
vivono tuttora scimpanzé e gorilla e dove si mangiano frutti e vegetali molli, ma nella savana dove si
trovano alimenti più duri.
Motivi nel passaggio dalla foresta alla savana
Il motivo per il quale l'uomo primitivo si sarebbe allontanato dalla foresta per andare ad abitare nella
savana oggi viene spiegato facendo ricorso ad una serie di eventi naturali che si sarebbero verificati fra
la fine del Miocene e l'inizio del Pliocene, cioè all'incirca fra i 6 e i 4 milioni di anni or sono. Gli
eventi di cui si parla sarebbero a loro volta la conseguenza di un fenomeno geologico di più vaste
proporzioni che ha coinvolto tutta la superficie terrestre e che prende il nome di "deriva dei continenti".
Duecento milioni di anni fa, all'inizio del Mesozoico, le terre emerse erano riunite tutte insieme
in un unico continente che i geologi chiamano Pangea. La Pangea successivamente si spezzò in
due blocchi, uno a nord detto "continente di Laurasia" ed uno a sud detto "continente di Gondwana".
Fra i due blocchi continentali si insinuò un mare di enormi dimensioni chiamato Tetide o mare
mesogeo.
Successivamente anche i due grandi continenti si smembrarono a loro volta in "zolle" più piccole che
andarono alla deriva, viaggiando sul mantello fluido sottostante. Questi blocchi continentali vennero poi
a collidere fra loro (e ancora oggi lo fanno), provocando fenomeni sismici e vulcanici oltre
all'accavallamento dei loro bordi con formazione di catene montuose. In conseguenza di questi scontri,
alcune zolle si fratturarono ulteriormente.
Nel suo lento e persistente movimento verso nord la "zolla africana" finì per andare a scontrarsi con
quella europea. A seguito dell'urto, si chiuse il grande oceano primordiale della Tetide, lasciando delle
piccole cicatrici rappresentate dal Mediterraneo, dal mar Nero e dal Caspio. Successivamente il
Mediterraneo si prosciugò, molto probabilmente a causa di una forte evaporazione e della
contemporanea provvisoria chiusura dello stretto di Gibilterra, che impedì il rifornimento delle acque
atlantiche.
La zona del bacino del Mediterraneo si trasformò quindi in un grande deserto, interrotto qua e là da
laghi salati, e il clima di tutta la regione si modificò radicalmente. Dall'Europa del nord, fino all'Africa
settentrionale, il clima si fece più freddo e soprattutto molto più asciutto. A quel punto, la foresta
equatoriale, che in precedenza si estendeva su di un vastissimo territorio, cominciò ad arretrare
lasciando lo spazio alla formazione di immense savane.
Anche l'Africa orientale, che nel frattempo si era staccata dal resto del continente, per il formarsi di una
profonda frattura tettonica chiamata Rift Valley, si sollevò e cambiò decisamente il suo clima. Le piante
e gli animali che non riuscirono ad adattarsi alle nuove condizioni ambientali scomparvero mentre altri
organismi, provenienti da zone limitrofe, vi trovarono un habitat adatto al loro stile di vita. La fauna e la
flora in quella zona si modificarono quindi profondamente.
Da quelle parti vivevano anche i nostri più lontani antenati che nel frattempo la faglia del Rift aveva
separato in due gruppi: quelli che rimasero ad ovest, dove persistette l'ambiente di foresta equatoriale,
si sarebbero poi differenziati nelle attuali scimmie antropomorfe, mentre quelli che si trovarono ad est,
in ambiente di savana, dettero origine agli Australopiteci, cioè a quel gruppo di organismi che si
sarebbe separato definitivamente dal mondo animale.
Questa ipotesi è stata chiamata scherzosamente dal paleoantropologo francese Yves Coppens "East
Side Story" (La storia del lato est). Secondo Coppens quindi non fu l'Ominide ad uscire dalla foresta
per dirigersi verso la savana, ma fu piuttosto la foresta stessa a scomparire sotto i suoi piedi.
I luoghi sudafricani che fornirono materiale sufficiente per stabilire definitivamente la natura ominide
dell'Australopiteco furono Sterkfontein, Makapansgat, Swartkrans e Kromdraai. Da qui uscirono non
solo molti fossili ascrivibili al genere Australopithecus africanus, ma anche una forma di Australopiteco
alquanto diversa a cui fu assegnato il nome di Australopithecus robustus.
L'Australopithecus africanus comparve circa 3 milioni di anni fa e si estinse circa 2 milioni di
anni fa. La valutazione di un milione di anni che Dart dette al suo reperto oggi viene considerata una
datazione per difetto, mentre a quel tempo si stentava a credere che un milione di anni fa potesse già
essere presente un individuo con caratteristiche umane.
L'Australopiteco africano si estinse, come abbiamo detto, due milioni di anni fa forse perché battuto
dalla concorrenza con i babbuini che abitavano insieme a lui la savana e che sfruttavano le sue stesse
risorse alimentari, o forse a seguito di una profonda modificazione del clima che rese quei luoghi più
asciutti e di conseguenza più poveri di cibo.
Abbiamo la prova che poco più di due milioni di anni fa il clima in Africa si fece generalmente più
asciutto e questo nuovo habitat dovette favorire lo sviluppo di forme di Australopiteci di
dimensioni maggiori e adatte ad una dieta più grossolana. E in effetti, come abbiamo visto, in
diverse località dell'Africa meridionale ed orientale, vennero ritrovati fossili di Australopiteci più robusti
e più grandi dell'Australopithecus africanus. Ad essi, come si ricorderà, fu dato il nome rispettivamente
di Australopithecus robustus e Australopithecus boisei.
Queste erano due specie di Australopiteci molto adatte alle condizioni di vita della savana arida e
povera di risorse alimentari in quanto, oltre ad essere più massicce dei predecessori, presentavano
anche dei muscoli masticatori molto potenti tanto da richiedere un supporto supplementare per
attaccarsi al cranio.
UMANI ALL'UNO PER CENTO
Studi recenti, condotti sulle proteine e sugli acidi nucleici, hanno dimostrato che lo scimpanzé e
il gorilla assomigliano molto di più all'uomo che all'orangutan o al gibbone.
Questa scoperta ha sconvolto quella che era la tradizionale suddivisione degli Ominidi attuali in due
famiglie: da una parte l'uomo (unica specie del genere Homo sopravvissuta alla selezione naturale) e
dall'altra le scimmie antropomorfe (scimpanzé, gorilla, orangutan e gibbone).
Tale schema si fermava in realtà alla semplice analogia morfologica d'insieme, cioè all'aspetto
esteriore, mentre oggi è possibile compiere studi molto appro fonditi sulle molecole organiche che sono
alla base delle differenze anatomiche degli organismi viventi e quindi procedere ad una classifi cazione
di questi più rigorosa e dettagliata.
I lavori di biologia molecolare iniziarono già nel 1967, quando due giovani biochimici di nome Vincent
Sarich e Allan Wilson dell'Università di Berkeley in California, avendo confrontato le proteine presenti
nel sangue delle scimmie antropomorfe con quelle dell'uomo, conclusero che gorilla,
scimpanzé e uomo erano molto simili fra loro, mentre si notavano differenze più marcate con
orangutan e gibbone.
Essi, inoltre, sulla base delle loro misurazioni, riuscirono anche a stabilire che l'uomo si
sarebbe staccato dagli altri primati soltanto cinque milioni di anni fa. Pertanto, stando agli studi
dei due scienziati americani, l'uomo e le due scimmie antropomorfe africane avrebbero dovuto avere
ancora un progenitore in comune in tempi molto recenti.
Per i paleontologi, questa affermazione era un assurdo perché tutte le testimonianze fossili e
geologiche indicavano che la separazione fra le due linee evolutive era avvenuta una ventina di milioni
di anni fa, e non solo cinque come asserivano Sarich e Wilson.
Il lavoro dei due ricercatori americani si basava su di una premessa molto semplice e cioè sul fatto che
le differenze riscontrabili all'interno di una determinata molecola proteica, presente in organismi di
specie diverse, avrebbero dovuto essere tanto maggiori quanto più lontano fosse stato il tempo del
distacco di una specie dall'altra. E questo perché i cambiamenti sulle proteine, dovuti alle mutazioni del
patrimonio genetico, si dovrebbero accumulare nel tempo ad un ritmo costante.
Ma come si sarebbe potuto determinare con precisione il momento del distacco fra due specie
diverse? Più precisamente, come hanno fatto Sarich e Wilson a stabilire che le scimmie antropomorfe
africane si sono separate dall'uomo solo 5 milioni di anni fa?
Il suggerimento sul modo di procedere venne da Linus Pauling, uno dei più grandi scienziati del
nostro secolo vincitore di due premi Nobel (il primo nel 1954 per la chimica e il secondo nel 1962 per la
pace) e morto di recente all'età di novantatré anni. Egli iniziò la sua lunga carriera scientifica come
fisico atomico ma poi si occupò di svariati argomenti e alla fine anche di biochimica, interessandosi in
particolare all'emoglobina e alle proteine del sangue.
Insieme al biochimico Emile Zuckerkandl studiò le correlazioni esistenti fra DNA e strutture
proteiche e intuì che il DNA avrebbe potuto costituire una specie di orologio molecolare in
quanto le mutazioni che si verificano su di esso, essendo eventi casuali (come quelli che
avvengono nelle sostanze radioattive), avrebbero dovuto accumularsi con regolarità.
Nelle sostanze radioattive gli atomi si trasformano ad un ritmo costante in atomi non radioattivi, ed una
volta nota la velocità di decadimento, che viene normalmente espressa attraverso il cosiddetto "periodo
di dimezzamento" (o di semitrasformazione), è possibile stimare il trascorrere del tempo misurando la
quantità di sostanza radioattiva residua in un determinato campione.
L'orologio molecolare non misura una diminuzione, come avviene nelle sostanze radioattive,
ma un accumulo.
Il difficile, in questo caso, era calibrare l'orologio stesso, ossia stabilire il ritmo al quale batteva il tempo.
Sarich e Wilson dopo lunghe ricerche riuscirono a determinare la velocità con la quale si
accumulavano le differenze sulle diverse proteine.
Essi ad esempio poterono stabilire che il citocromo c (una particolare proteina che svolge un ruolo
essenziale nel processo di respirazione cellulare) modifica l'un per cento della sua molecola ogni venti
milioni di anni, mentre l'emoglobina fa altrettanto in solo sei milioni di anni. A questo punto non
rimaneva che mettere in moto l'orologio, ossia scegliere il momento da cui farlo partire.
Questo doveva corrispondere alla data di una biforcazione dell'albero genealogico nota con buona
sicurezza sulla base delle tecniche convenzionali. Si decise quindi di iniziare a contare il tempo da
trenta milioni di anni fa, cioè dall'epoca in cui secondo i paleontologi le scimmie antropomorfe si
sarebbero separate dalle altre scimmie.
Ora ammettiamo, per semplificare il ragionamento, che in questi trenta milioni di anni che, come
abbiamo detto sopra, ci separano dall'epoca in cui scimmie antropomorfe e scimmie comuni avevano
ancora un progenitore in comune, siano cambiati trenta amminoacidi lungo una determinata proteina.
Se così fosse, essendo costante la scansione temporale, i cambiamenti si sarebbero susseguiti al
ritmo di uno ogni milione di anni. Stabilito ciò, qualora si riscontrasse che su quella stessa proteina,
presente in scimmie antropomorfe africane e uomo, vi fossero solo cinque amminoacidi diversi
sarebbe chiaro che cinque milioni di anni dovrebbero separare uomo e scimmie antropomorfe africane
dall'antenato comune.
Gli studi di antropologia molecolare si sono concentrati recentemente sulle strutture del DNA. Ora,
come tutti sanno, ogni specie vivente ha un proprio DNA che la caratterizza e due specie diverse
hanno i rispettivi DNA tanto più dissimili fra loro quanto più queste specie sono lontane nella scala
evolutiva.
Ad esempio, fra cavallo ed asino, che sono due animali molto simili, anche nell'aspetto esteriore, e che
pertanto dovrebbero essersi differenziati molto di recente da un antenato comune, le rispettive
molecole del DNA si discostano effettivamente di molto poco. Invece quegli animali che presentassero
un codice genetico molto diverso dovrebbero essersi differenziati, dall'antenato comune, in tempi molto
lontani.
Oggi la tecnica usata per confrontare i DNA di due specie diverse si chiama "ibridazione" e, ad
esempio, nel caso di uomo e gorilla, consiste nel riscaldare la doppia elica del DNA di questi due
organismi fino ad ottenere la separazione dei filamenti che la formano. Un singolo filamento del DNA
dell'uomo viene quindi legato con un singolo filamento del DNA del gorilla e da questa operazione si
ottiene una doppia elica ibrida, ossia metà umana e metà scimmiesca.
I due filamenti, a freddo, si riavvolgono abbastanza bene ma non in modo perfetto, perché vi sono
alcuni nucleotidi che non combaciano e quindi non si legano.
Riscaldando questo DNA ibrido si nota che la temperatura necessaria alla separazione dei due
filamenti è un po' inferiore a quella che era servita per separare i filamenti di un'elica pura, in quanto
ora è minore il numero dei legami che tengono unite le due catene nucleotidiche. Si ottengono, in
questo modo, una serie di temperature di rottura dei legami di DNA ibridi che ci informano di quanto le
due specie su cui si sperimenta sono strettamente imparentate.
Anche da queste ricerche appare evidente che uomo scimpanzé e gorilla sono diversi solo per
l'aspetto esteriore, mentre la differenza è minima nel DNA. Ora viene da chiedersi come possa
sussistere una così piccola differenza nel DNA ed una così vistosa nell'aspetto esterno di questi
organismi.
Secondo gli antropologi molecolari, l'uomo e le scimmie antropomorfe discenderebbero da un
brachiatore vissuto una ventina di milioni di anni fa, cioè nel Miocene. Da esso sarebbe derivato, dieci
milioni di anni fa, il gibbone. Successivamente si sarebbe differenziato l'orangutan e finalmente, circa
quattro milioni e mezzo di anni fa, uomo, scimpanzé e gorilla.
Oggi il candidato più accreditato al ruolo di antenato comune di scimpanzé, gorilla e Australopiteci è il
Kenyapiteco, un Ominoide che visse in Africa circa sei o sette milioni di anni fa (questo è il valore
temporale su cui anche i paleoantropologi molecolari oggi concordano come data di separazione fra le
scimmie antropomorfe africane e l’uomo) e che, come abbiamo già ricordato, si trovò improvvisamente
separato in due gruppi dallo sprofondamento della Rift Valley.
L'EVOLUZIONE DEL GENERE HOMO
Nel 1961, nella gola dell'Olduvai, all'interno dello stesso sito in cui un paio di anni prima era stato
trovato lo Zinjantropo, uno dei figli di Louis Leakey, Jonathan, rinvenne due frammenti di cranio e una
mandibola incompleta di un Ominide apparentemente più evoluto dell'Australopiteco. La sottigliezza
delle ossa, i molari di piccole dimensioni e il volume della scatola cranica decisamente superiore a
quello di analoghi reperti trovati in precedenza, lasciavano immaginare che dovesse trattarsi di un
individuo di costituzione un po' meno robusta di qualsiasi australopiteco noto.
Altri resti di Homo habilis vennero ritrovati negli anni successivi sia in Africa orientale sia in
Sudafrica: fra questi un cranio, molto ben conservato, scoperto in Kenia nel 1972 dall'altro dei figli dei
Leakey, Richard. Al fossile venne attribuita un'età di quasi due milioni di anni.
Come abbiamo già accennato in precedenza, il ritrovamento di ossa di Ominidi più progrediti degli
Australopiteci faceva ritenere che intorno a due milioni di anni or sono vivessero sullo stesso territorio
due tipi di individui, entrambi con caratteristiche umane, ma un po' diversi nei particolari: gli uni
avevano encefalo piccolo e molari grossi, ed erano gli Australopiteci, gli altri avevano encefalo grande
e molari piccoli, ed erano gli Ominidi del genere Homo. I primi si sarebbero estinti entro un milione di
anni, i secondi si sarebbero invece evoluti fino a diventare gli uomini attuali.
Circa due milioni e mezzo di anni fa in Africa cambiò il clima per l'ennesima volta e la savana si
fece più arida e di conseguenza più povera di alimenti teneri che erano il cibo preferito dagli
Australopiteci di tipo africano. Nelle nuove condizioni ambientali mentre l'Australopithecus boisei (cioè
la forma robusta di Australopiteco) che si nutriva con una dieta fatta preferibilmente di vegetali e di
semi duri, era attrezzato per cavarsela rispetto alle sopraggiunte difficoltà, l'Australopithecus
africanus si trovò invece in piena crisi. Come fare per sopravvivere?
La risposta è sempre la stessa: mutando. Le mutazioni, come si ricorderà, sono quei cambiamenti
improvvisi e imprevedibili del patrimonio genetico che si realizzano di continuo nel DNA e che poi si
riflettono sulle strutture fisiche dei singoli individui.
Normalmente questi cambiamenti producono soggetti meno adatti all'ambiente, ma se questo è in via
di trasformazione, le nuove forme potrebbero trovarsi particolarmente a loro agio proprio grazie ai
nuovi requisiti fisici forniti loro dalle mutazioni. Così potrebbe essere avvenuto nel caso
dell'Australopithecus africanus il quale inaspettatamente si era venuto a trovare in difficoltà in un
ambiente arido e povero di cibo tenero.
Egli quindi, secondo il parere di alcuni illustri paleoantropologi, attraverso alcune mutazioni, si
sarebbe trasformato in Homo habilis.
Le mutazioni che si susseguirono sull'Australopithecus africanus indubbiamente furono svariate ma
una fu decisiva su tutte le altre: l'ingrandimento del cervello. Questo aumentò, nell'Homo
habilis, del 50% rispetto a quello del suo predecessore.
Uno sviluppo così spropositato dell'encefalo, che mai si era realizzato in alcun altro animale e che mai
si realizzerà in seguito, consentirà di risolvere con efficacia i problemi che la nuova situazione
ambientale stava producendo.
Questi, fondamentalmente, erano problemi legati alla ricerca del cibo.
Cibi teneri di origine vegetale non ve n'erano più; vi era tuttavia abbondanza di carne. La savana
si trovò infatti improvvisamente abitata da mandrie sterminate di erbivori che approfittavano di un
ambiente a loro favorevole per moltiplicarsi.
Molto probabilmente non era necessario che l'Homo habilis per procurarsi il cibo cacciasse gli animali,
come in un primo tempo si era pensato: il terreno doveva essere già pieno delle carcasse di quelli
morti per cause naturali o uccisi dai carnivori e poi abbandonati prima di venire completamente
spolpati. L'Homo habilis per procurarsi la carne forse doveva semplicemente contenderla a iene
ed avvoltoi che, com'è noto, si nutrono di carogne.
Vi era tuttavia un problema da risolvere e non di poco conto.
Come fare per accedere alle carni dei grossi mammiferi coperte da una pelle spessa e resistente che
tagliare con i denti o con le unghie era pressoché impossibile? L'Australopiteco africano non era certo
dotato di artigli adatti a penetrare nei tessuti e i canini, piccoli e deboli, non erano in grado di lacerare
la pelle e strappare le carni dalle ossa degli animali. Non rimaneva che usare il cervello che nel
frattempo si era fatto molto grande.
Fu così che l'Australopiteco africano, divenuto ormai “uomo abile”, si mise a fabbricare utensili
di pietra, che facilitavano l'accesso alle carni degli animali morti. E mentre l'Australopiteco
africano si trasformava in Homo habilis, il boisei continuava a masticare noci e granaglie dure,
divenendo intanto preda del leopardo e degli altri carnivori della savana. In questo modo finirà
per estinguersi completamente
Oggi i paleoantropologi hanno a disposizione reperti fossili sufficienti per ricostruire la struttura fisica
dell’Homo habilis. Esso doveva essere un individuo alto un metro e mezzo e pesare una cinquantina di
kilogrammi. Era quindi circa delle dimensioni dell'Australopithecus robustus, ma le sue ossa erano
molto più leggere. Aveva un'andatura perfettamente eretta, la capacità cranica era intorno ai 700 cm³ e
la faccia appariva molto meno prominente di quella dell'Australopiteco
Con l'Homo habilis compare per la prima volta quella caratteristica che viene ritenuta una prerogativa
fondamentale del genere umano, cioè la produzione di utensili. Fino ad oggi non si è raccolta alcuna
prova che l'Australopiteco fosse stato in grado di fabbricare utensili di pietra scheggiata e così pure
nessun animale vivente, nemmeno lo scimpanzé, che pure è capace di strappare rami dalle piante
per inserirli nei termitai e catturare le formiche che poi mangia, è in grado di fabbricare
volontariamente strumenti di alcun genere, né di conservare quelli che si sono dimostrati
efficaci in determinate circostanze. Nessun animale, in altre parole, è in grado di prevedere il
futuro come fa l'uomo
Recenti scoperte hanno dimostrato che l'Homo habilis non solo fabbricava manufatti in pietra ma,
molto probabilmente, che egli era anche in grado di costruire accampamenti. Ciò è stato dedotto
dal ritrovamento ad Olduvai di un cerchio di pietre che rappresenterebbe i resti di una delle prime
abitazioni costruite dall'uomo.
IL LINGUAGGIO
"Le parole - come dice anche Richard Leakey - purtroppo non si fossilizzano". Pertanto, non riusciremo
mai a sapere con certezza quando si è originato il linguaggio verbale. Tuttavia abbiamo a disposizione
alcune testimonianze indirette, rappresentate dai manufatti realizzati dai nostri antenati e dai
cambiamenti nella loro struttura anatomica, che ci consentono di formulare alcune ipotesi sul modo in
cui il linguaggio articolato avrebbe potuto nascere e svilupparsi.
I primi utensili in pietra costruiti dall'uomo sono stati trovati, insieme con le sue ossa fossili, ad
Olduvai, ed hanno un'età di due milioni di anni, ma in seguito ne furono rinvenuti anche di più
antichi. Si tratta dei famosissimi "chopper" (parola inglese che significa accetta, mannaia di
macellaio), ciottoli di lava intenzionalmente scheggiati per ricavare un margine tagliente. Queste pietre
lavorate, molto probabilmente, venivano usate dall'Homo habilis per tagliare la pelle degli animali e per
staccare la carne dalle loro ossa, ma forse anche per tagliare e appuntire i rami degli alberi.
L'utensile, a differenza del semplice strumento, implica la presenza di un pensiero concettuale, cioè la
necessità che nella mente dell'operatore si formi un'idea di ciò che si vuole realizzare. Questa idea
diverrà quindi oggetto lavorato attraverso una serie ordinata di azioni successive. E' necessario saper
parlare per compiere queste azioni? Forse sì.
Per fabbricare un oggetto di pietra, ad esempio, occorre innanzitutto individuare un ciottolo di
dimensioni e forma opportune e quindi cercare un percussore adatto per colpire il ciottolo. Inoltre
bisogna operare in modo tale che i colpi vengano inferti sotto varie angolazioni e con un'energia
adeguatamente calibrata. Infine è necessaria un'azione di controllo della forma che l'oggetto va
assumendo per effetto delle scheggiature. Tutto ciò richiede un'attività intellettiva tutt'altro che
semplice.
L'attività manuale dell'Homo habilis non si esaurisce, tuttavia, con la costruzione di chopper. In siti di
età più recente vennero infatti alla luce oggetti in pietra meglio rifiniti, come i "chopping-tools", ottenuti
colpendo i ciottoli su entrambe le facce invece che su una sola.
Successivamente, con l'Homo erectus, comparvero le raffinate "amigdale" oggetti in pietra
sapientemente rifiniti su tutto il nucleo del ciottolo: per questo motivo l'amigdale viene anche
definita "bifacciale". Non si è mai riusciti a capire bene a cosa potesse servire questo strano oggetto
di pietra con il filo tagliente che gli gira tutt'intorno rendendolo difficile da tenere in mano senza farsi
male.
La tecnologia può anche aver avuto la sua importanza nell'origine del linguaggio verbale, ma senza
una conformazione particolare della laringe mai l'uomo avrebbe potuto parlare. Scimpanzé e
gorilla, ad esempio, sono in grado anch'essi di esprimere concetti semplici e manifestare
emozioni, tuttavia non sono capaci di parlare perché la loro laringe è sistemata in modo tale da
non consentire una perfetta modulazione dei suoni. La stessa cosa avviene nei neonati, i quali
non sarebbero in grado di parlare nemmeno se le facoltà psichiche glielo consentissero.
La fonazione infatti è possibile solo in seguito all'abbassamento della laringe che produce un
allargamento della cavità faringea sovrastante con conseguente emissione di suoni. Nelle
scimmie l'organo della fonazione è posto in posizione elevata e proprio in virtù di questa particolare
collocazione della laringe esse riescono a bere e a respirare contemporaneamente.
Lo stesso avviene nei bambini appena nati i quali, come tutti sanno, riescono a poppare e a respirare
nello stesso tempo.
I bambini possono cominciare a parlare, o per meglio dire, ad articolare correttamente le parole
non prima dei due anni, cioè dall'età in cui la laringe tende a scendere verso il basso.
Alcuni paleoantropologi sono del parere che il linguaggio verbale non si sia sviluppato attraverso una
lenta e graduale evoluzione iniziatasi più di due milioni di anni fa, ma all'improvviso e molto di recente.
Secondo questi studiosi il linguaggio avrebbe fatto la sua comparsa solo 35.000 anni fa quando l'uomo
già possedeva forme di cultura simili a quelle che conosciamo oggi.
L'HOMO ERECTUS
Come abbiamo visto, all'Homo habilis succede l'Homo erectus. La denominazione di "erectus",
riservata a questo Ominide, risale agli anni Cinquanta, quando si riteneva che gli Australopiteci non
fossero ancora dei bipedi perfetti, ma che camminassero aiutandosi con gli arti superiori, come fanno
attualmente le scimmie antropomorfe.
L'Homo erectus aveva un cervello con un volume superiore a 1000 cm³, cioè di poco inferiore al nostro,
e visse fra un milione e mezzo e 200.000 anni fa, età quest'ultima in cui comparve sulla scena
l'Homo sapiens.
Il primo fossile di Homo erectus venne trovato a Giava, da un medico olandese
Per un colpo di fortuna veramente incredibile, trovò effettivamente nel 1891, lungo le sponde di un
piccolo corso d'acqua, il fiume Solo, un cranio umano ed alcuni denti. L'anno successivo rinvenne, in
una zona vicina e all'interno della stessa formazione rocciosa, un femore umano. Egli, a quel punto,
credette di aver individuato proprio l'anello mancante e chiamò il nuovo Ominide Pitecanthropus
erectus, nome che vuol dire "scimmia-uomo che sta ritta in piedi". Il nome Pitecanthropus sembrava
perfettamente appropriato perché il cranio era troppo grande per essere quello di una scimmia e troppo
piccolo per essere quello di un uomo.
Altri resti fossili, simili a quelli del Pitecantropo di Dubois, furono trovati successivamente in diverse
parti del mondo e ciascuno ricevette un proprio nome. Ai reperti trovati in Cina, ad esempio, fu
assegnato il nome di "uomo di Pechino", o Sinantropo; in Germania, preso Heidelberg fu scoperta la
famosa mandibola di Mauer, e in Africa furono rinvenuti i rappresentanti più antichi: nel deposito di
Koobi Fora a est del lago Turkana fu rinvenuto un cranio a cui è stata attribuita l'età di 1.600.000 anni.
Tutti questi Ominidi oggi vengono classificati come Homo erectus e non hanno nulla a che
vedere con le scimmie.
L'Homo erectus non solo era capace di scheggiare la pietra, cosa che faceva con maggiore
maestria del suo predecessore habilis, ma imparò anche a servirsi sistematicamente del fuoco.
L'uso del fuoco avvantaggiò notevolmente questo Ominide, perché gli consentì di spingersi alla
conquista di luoghi freddi e anche perché gli permise di sfruttare e conservare meglio gli
alimenti.
Circa 200.000 anni fa l'Homo erectus venne definitivamente soppiantato dall'Homo sapiens con
il quale si conclude la nostra storia.
Tra i 400 e i 300 mila anni fa apparvero, in diverse regioni del pianeta, delle forme di Homo erectus di
aspetto più moderno che i paleoantropologi non sanno ancora se considerare Homo sapiens o semplicemente forme più evolute di Homo erectus.
L'Homo sapiens si differenziò, successivamente, in due sottospecie: Homo sapiens
neanderthalensis, i cui resti fossili non hanno un'età anteriore ai 100.000 anni, e l'Homo sapiens
sapiens comparso fra i 200 e i 140 mila anni fa in Africa.
L'Africa è stata quindi per due volte la culla dell'uomo: una prima volta con gli Australopiteci,
quando, soprattutto in considerazione della posizione eretta, questi Ominidi vennero
considerati i nostri più prossimi antenati e, successivamente, con l'Homo sapiens, il nostro
vero diretto antenato.
La straordinaria intuizione di Darwin ha trovato, alla fine, la sua piena conferma. Nel 1871 egli scriveva:
"In ogni grande regione del mondo i mammiferi esistenti sono strettamente imparentati con le specie
estinte della stessa zona. E' quindi probabile che l'Africa fosse in passato abitata da scimmie ora
estinte, strettamente affini al gorilla e allo scimpanzé e, dal momento che queste due specie sono attualmente i parenti più prossimi dell'uomo, è verosimile che i nostri antichi progenitori fossero vissuti
nel continente africano piuttosto che altrove".