Anno 8 - n. 2 - Aprile 2005
RIVISTA BIMESTRALE D’INFORMAZIONE SCIENTIFICA
a cura dell’Osservatorio Epidemiologico Veterinario della Regione Lombardia
Regione Lombardia
Direzione Generale Sanità - Servizio Veterinario
Istituto Zooprofilattico Sperimentale
della Lombardia e dell’Emilia Romagna
Osservatorio Epidemiologico Veterinario Regionale - Via Bianchi, 9 - 25124 Brescia
S
ommario
Anno 8 - n. 2 - Aprile 2005
RIVISTA BIMESTRALE D’INFORMAZIONE SCIENTIFICA
POSTE ITALIANE - SPEDIZIONE IN A.P. - 70% - BRESCIA
a cura dell’Osservatorio Epidemiologico Veterinario della Regione Lombardia
3
Editoriale
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La Peste Suina Classica nel cinghiale in Italia:
cronistoria degli eventi infettivi
Regione Lombardia
Direzione Generale Sanità - Servizio Veterinario
Istituto Zooprofilattico Sperimentale
della Lombardia e dell’Emilia Romagna
Osservatorio Epidemiologico Veterinario Regionale - Via Bianchi, 9 - 25124 Brescia
G.M. De Mia
Diarrea Bovina Virale - Malattia delle Mucose:
stato dell’arte - 2ª parte
9
Direttore responsabile
Cesare Bonacina
C. Nassuato
Direttore scientifico
Ezio Lodetti
Redattore
Giorgio Zanardi
Responsabile comitato redazione
Giorgio Zanardi
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Comunicazione e formazione
16
Notizie da Internet
Comitato di redazione
M. Astuti, P. Cordioli,
M. Domenichini, P. Antoniolli,
L. Gemma, C. Genchi,
G. Gridavilla, A. Lavazza,
A. Palma, V.M. Tranquillo
Hanno collaborato a questo
numero
G.M. De Mia, C. Nassuato
Segreteria di redazione
M. Guerini
L. Marella
Fotocomposizione e Stampa
Editrice Vannini - Gussago (BS)
Editore
Istituto Zooprofilattico
Sperimentale della Lombardia
ed Emilia Romagna
“Bruno Ubertini”
Via Bianchi, 9 - 25124 Brescia
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Tutti coloro che vogliono scriverci, devono indirizzare le lettere al
seguente indirizzo:
“L’OSSERVATORIO” rubrica “La posta dei lettori”,
via Bianchi, 9 - 25124 Brescia - tel. 030 2290259-235;
oppure utilizzare la posta elettronica: [email protected]
L’Osservatorio e i numeri del precedente Bollettino Epidemiologico
possono essere consultati anche sul sito web http:\\www.oevr.org
Editoriale
Lo scorso gennaio si è svolto a Brescia il Corso di Formazione su “La gestione delle emergenze
epidemiche con particolare riferimento alle Pesti Suine e alle Malattie Vescicolari”, organizzato in
collaborazione dall' IZS di Umbria e Marche e IZS di Lombardia ed Emilia Romagna e finanziato dal
Ministero della Salute.
Lo spunto del primo articolo di questo numero, nasce proprio dalla disponibilità del responsabile del
Centro di Referenza Nazionale delle Pesti Suine a riassumere in un unico articolo la cronistoria
nazionale degli eventi infettivi relativi alla Peste Suina Classica nel cinghiale. L'argomento è di per sé
interessante dal punto di vista epidemiologico e utile, se si rammenta l'epidemia di peste suina nei
selvatici del 1997, verificatasi nella provincia di Varese e in cui il cinghiale aveva svolto un ruolo
preminente nell'insorgenza di focolai nei suini domestici, cronologicamente gli ultimi a essersi verificati
in Lombardia.
La seconda parte della monografia sulla Diarrea Virale del Bovino - Malattia delle Mucose (BVD MD)
completa quello che vuole essere un quadro aggiornato di una patologia verso la quale, dopo la
Rinotracheite Infettiva del bovino, i nostri partner europei hanno approntato e stanno applicando piani
di controllo.
Le province autonome di Trento e Bolzano si stanno attivando e, come sempre, rappresentano la spia di
quello che avviene oltre frontiera e dei temi sanitari che, volenti o nolenti, ci attendono per essere prima o
poi affrontati a livello commerciale.
Pertanto, in questo numero sono trattate due tipi di malattie: le pesti suine, che fanno parte delle malattie
infettive altamente contagiose, in grado di provocare emergenze epidemiche a forte impatto sanitario e
socio-economico e che richiedono una costante attività di aggiornamento e formazione; la BVD MD,
malattia d'importanza eminentemente economico-zootecnica, che viene affrontata con piani di
monitoraggio e di controllo, al fine di raggiungere riconoscimenti sanitari da utilizzare negli scambi
commerciali come garanzie sanitarie addizionali da chiedere ai Paese esportatori e per conquistare
quote di mercato con animali di qualità sanitaria superiore.
Lo scopo della monografia sulla BVD MD è semplicemente quello di aggiornarci sulle più recenti
conoscenze circa la trasmissione ed epidemiologia della malattia e sulle esperienze maturate o in corso
in altri Paesi circa i piani di controllo.
G. Zanardi
L’OSSERVATORIO
3
La Peste Suina Classica dei cinghiali in Italia:
cronistoria degli eventi infettivi
G.M. De Mia1
almeno localmente, un miglioramento delle
condizioni ambientali necessarie alla specie. Anche lo
spopolamento generalizzato di vaste fasce dell'Italia
appenninica e la conseguente diminuzione della
persecuzione da parte dell'uomo ne hanno in qualche
modo condizionato la crescita. In Italia tuttavia, più
che in altri paesi, un ruolo fondamentale è stato svolto
dall'introduzione di vasti contingenti di animali
importati dall'estero (soprattutto da paesi est-europei)
che hanno avuto modo di incrociarsi con i residui
nuclei di cinghiali autoctoni e con le locali popolazioni
di maiali bradi. Questa attività di immissione è stata
condotta in maniera non programmata e senza tenere
in minimo conto sia i più elementari principi di
Premessa
La peste suina classica (PSC) rappresenta una delle
malattie infettive ad eziologia virale economicamente
più importanti del suino domestico. E' pertanto
oggetto, a livello internazionale, di norme di polizia
sanitaria particolarmente stringenti. La malattia
colpisce in condizioni naturali anche il cinghiale e ciò
ha determinato difficoltà notevoli soprattutto nella
implementazione di sistemi di controllo efficaci, con
la conseguenza che la PSC è stata a lungo presente nel
cinghiale in diversi Paesi della UE (Austria, Francia,
Germania, Italia, Lussemburgo, Svizzera) e in molti
Paesi dell'Europa centro-orientale. Il ruolo del
cinghiale come possibile sorgente d'infezione per il
suino domestico è ben conosciuta e le correlazioni
epidemiologiche tra presenza di malattia nel selvatico
e trasmissione nel domestico sono state confermate da
più parti nel corso degli anni. Si è stimato che in alcuni
Paesi della UE, la presenza del virus della PSC nelle
popolazioni di cinghiali si sia resa responsabile del
47% dei focolai di malattia nel domestico. Talvolta, in
alcune metapopolazioni di cinghiali, la malattia ha
avuto un carattere auto-limitante, talvolta invece il
virus è circolato per lungo tempo. A questo proposito, a
seguito dell'isolamento e della successiva
caratterizzazione molecolare dei ceppi di virus
circolanti, è stato dimostrato che la malattia in molte
popolazioni di cinghiali europei si è mantenuta per
anni. In base a quanto detto, è chiaro che la
prevenzione e il controllo della malattia nei selvatici
assume una importanza particolare ai fini di un
controllo parallelo dell'infezione nel suino domestico.
stabile
discontinua
sporadica
Distribuzione storico-geografica del cinghiale
Il cinghiale è andato incontro a partire dagli anni '50 ad
una spettacolare esplosione demografica che ha
coinvolto le popolazioni di tutta Europa. Anche in
Italia, sin dal secondo dopoguerra ha avuto inizio una
crescita delle popolazioni con conseguente aumento
dell'areale. Diversi fattori sono stati chiamati in causa
per spiegare tale fenomeno. In primo luogo i
cambiamenti socio-economici, come ad esempio
l'abbandono delle campagne che ha determinato,
Sanità animale
assente
Figura 1. Presenza del cinghiale nelle province
Italiane
4
L’OSSERVATORIO
- controlli virologici e sierologici dei cinghiali abbattuti
o trovati morti
- sequestro delle carcasse fino all'esito degli esami di
laboratorio
- definizione di una zona infetta e di una zona di
protezione
- rivaccinazione in tutti gli allevamenti suini compresi
in dette zone
Bisogna a questo proposito osservare che le misure
intraprese (era di fatto la prima volta che si
fronteggiava una situazione del genere) ricalcavano
pedissequamente i dettami di legge senza che fossero
modulate verso un approccio di tipo ecologico. In
pratica, si trattò di un mero trasferimento delle misure
da domestico a selvatico e il diradamento costituì, di
fatto, la principale azione di lotta intrapresa. Tuttavia,
nonostante il rilevante numero di cinghiali abbattuti
(4.789 nella sola stagione venatoria 1986/87) la PSC si
diffuse in direzione sud nelle province limitrofe di
Pisa, Grosseto e Siena.
Una delle ragioni del fallimento fu senza dubbio
rappresentata dal mancato raggiungimento del livello
di densità soglia al di sotto del quale la trasmissione
dell'infezione non si realizza. La caccia pertanto, non
solo fallì in questo obiettivo, ma contribuì, con ogni
probabilità, ad aumentare l'home range del cinghiale e
quindi l'estensione, di fatto, dell'area infetta. Un altro
fattore critico fu determinato dalle modalità attraverso
le quali venivano effettuati i campionamenti per il
monitoraggio dei cinghiali abbattuti. Infatti, nella
impossibilità di controlli di laboratorio a tappeto, si
decise di controllarne un 10% (e talvolta anche meno),
senza perciò alcun fondamento di tipo statistico
relativamente alla prevalenza attesa, con il risultato di
non poter disporre di dati utili alla determinazione
della zona infetta e con il rischio (elevato) di dichiarare
indenni zone che in realtà non lo erano.
Alla fine della epizoozia nel 1990, l'area coinvolta era
di circa 3.800 kmq (corrispondente al 17% dell'intera
Toscana). I casi virologicamente positivi diagnosticati
furono 183, ma è verosimile che tale numero non
rappresentasse che l'epifenomeno della malattia. In
aggiunta, vennero registrati 5 focolai nel suino
domestico (per complessivi 110 capi) ed altri 5 focolai
in allevamenti misti suino/cinghiale.
gestione faunistica, sia le prescritte norme di profilassi
sanitaria. Tra i numerosi risultati di tale dissennato
comportamento, si deve purtroppo registrare anche
l'introduzione di alcune malattie in grado, sia di
provocare rilevanti episodi di mortalità nelle
popolazioni di cinghiali, sia di determinare uno stato
di grave rischio sanitario per il suino domestico.
Infatti, la diversa recettività delle popolazioni
selvatiche agli agenti patogeni si basa spesso su
equilibri locali stabilitisi, in tempi molto lunghi, fra
ospite, agente patogeno e contesto ecologico in cui
entrambi si sono evoluti. Tale equilibrio viene spesso
compromesso dalle immissioni di capi allevati o
catturati in altre località, sia a causa del c.d.
“inquinamento genetico”, sia per problemi sanitari. In
figura 1 è rappresentata l'attuale presenza del cinghiale
in Italia.
La situazione in Italia
In Italia la PSC nei cinghiali si è ripetutamente
presentata nell'ultimo ventennio in aree
geograficamente distinte e con modalità di volta in
volta diverse, coinvolgendo, non di rado, anche il
suino domestico. Volendo schematizzare, potremmo
ricondurre le epizoozie di PSC verificatesi nel
cinghiale, a quattro diversi modelli che differiscono
tra di loro sia per l'ampiezza della superficie
geografica coinvolta, sia per la diversa evoluzione
assunta dall'infezione.
La PSC in Toscana (1986-1990)
Rappresenta l'epizoozia più lontana, in ordine di
tempo, tra quelle registrate nell'Italia peninsulare nei
selvatici. In Toscana, fino alla fine degli anni '60, non
esistevano che poche migliaia di cinghiali di razza
maremmana. Dal 1970, ripetute introduzioni del
cinghiale centro-europeo a scopo di ripopolamento,
hanno ben presto determinato una sovrapopolazione
stimata, attorno agli anni '90, in oltre 80.000 capi.
Il primo caso di PSC si verificò nell'ottobre 1985, nella
località di Castagneto Carducci (LI), in un
allevamento di circa 300 cinghiali. Le cronache
dell'epoca riferiscono che il proprietario faceva uso di
residui di mensa provenienti da un vicino campeggio
internazionale. Si ritenne pertanto che a tale pratica,
potesse essere ricondotta l'origine dell'infezione. Solo
diversi mesi dopo, esattamente nel giugno 1986, iniziò
una moria nei cinghiali in libertà delle zone limitrofe,
da cui l'infezione dilagò fino ad interessare il territorio
di 17 comuni diversi in meno di un anno. Durante
questo periodo furono diagnosticati 63 casi di PSC nel
cinghiale, ma si calcola in diverse centinaia il numero
di soggetti venuti a morte, senza contare le molte
segnalazioni di rinvenimento di soggetti malati.
Nelle zone infette furono adottate le seguenti misure:
- diradamento (prelievo venatorio) per tre mesi
all'anno
L’OSSERVATORIO
LA PSC IN TOSCANA (‘86-‘90)
5
Superficie
3.800 kmq
Popolazione stimata
8.000 capi
Presenza del virus
5 anni
Presenza di anticorpi
8 anni
Sanità animale
diradamento. Per la verità, non fu tanto per una scelta
precisa, piuttosto per la mancata disponibilità dei
cacciatori ad attuarla a causa del prescritto obbligo di
distruzione delle carcasse (Direttiva EEC 91/625).
Una intensa attività venatoria ebbe luogo solo alcuni
mesi dopo il riscontro dell'ultimo caso positivo, più
precisamente durante la stagione venatoria 1992/93.
Un nuovo episodio di malattia nei selvatici, per molti
aspetti simile a quello appena descritto, si verificò tre
anni dopo in provincia di Piacenza. Risale al settembre
'95 la prima positività virologica riscontrata in
cinghiali di un agriturismo. Successivamente furono
rinvenuti nell'area circostante 12 altri soggetti
virologicamente positivi (su un totale di circa 200
animali esaminati). L'ultimo caso si registrò nel
gennaio '96. In questa zona, e sulla scorta della
esperienza in Lunigiana, fu attuato per la prima volta e
deliberatamente il blocco totale della caccia, inclusa
quella da postazione e da penna. Nel resto della
provincia, con una popolazione di cinghiali stimata
intorno ai 1600 capi, vennero abbattuti 480 cinghiali
secondo procedure di tipo centripeto. Tutti i capi
risultarono virologicamente negativi. L'ultimo capo
negativo fu rinvenuto nel gennaio 1996. La
sieroprevalenza riscontrata tra i capi abbattuti nel
corso della stagione venatoria 1996/97 fu del 4,5%
mentre in quella 1997/98 del 1,9%. Per entrambe le
situazioni descritte, l'origine dell'infezione rimase
oscura.
La PSC in Lunigiana (1992) e in provincia di Piacenza
(1995)
Queste epizoozie di PSC, pur se avvenute in tempi
diversi, hanno rappresentato per certi aspetti un
modello unico ed è per questo che vengono descritte
assieme. In particolare, ci sono alcune caratteristiche
che le accomunano e che possono essere così
sintetizzate:
- zone infette di modeste dimensioni
- durata limitata nel tempo
- strategie di eradicazione simili
La Lunigiana è quella parte del territorio della
provincia di Massa Carrara che si trova in alta Toscana
al confine con Liguria ed Emilia. Il primo caso
d'infezione nel cinghiale in quest'area risale all'aprile
'92, l'ultimo caso è stato registrato nell'agosto dello
stesso anno. Nessun tipo di correlazione
epidemiologica è stata evidenziata con l'altra
epizoozia toscana. Tra l'altro, tra le due aree esistono
importanti barriere sia artificiali che naturali. In totale
si sono registrati 17 casi di positività virologica, tutti in
soggetti giovani. La sieroprevalenza riscontrata nel
periodo 1992/93 è stata del 41,5% su un totale di 609
animali esaminati. I risultati delle indagini di
laboratorio condotte su 196 cinghiali abbattuti nel
corso della stagione venatoria 1993/94 ha rivelato una
sieroprevalenza del 12,2% mentre nella stagione
1994/95 una sola femmina adulta è risultata
sieropositiva (0,4%). Nessun focolaio è stato
segnalato tra i suini domestici allevati nei numerosi
allevamenti a carattere familiare presenti nella zona.
Le misure di controllo applicate in questo caso sono
state:
- distruzione di tutti gli animali trovati morti
- controlli di laboratorio di tutti i cinghiali cacciati
durante le stagioni venatorie che si sono susseguite
dopo l'epidemia
- attività di sorveglianza negli allevamenti di suini
presenti nell'area
Appare evidente come, a differenza della precedente
epizoozia, non venne applicata la strategia del
LA PSC IN LUNIGIANA (’92) E PIACENZA
(’95)
Lunigiana 309 kmq; Piacenza
Superficie
75 kmq
Popolazione
Lunigiana circa 1.000 ca pi;
stimata
Piacenza circa 300
Lunigiana 5 mesi; Piacenza 4
Presenza del virus
mesi
Presenza di
Lunigiana 3 anni; Piace nza 3
anticorpi
anni
La PSC in provincia di Varese (1997-2000)
In Italia, l'epidemia di PSC più recente si è presentata
in Lombardia, in provincia di Varese. Anche in questo
caso, il focolaio primario è stato registrato in un
allevamento misto di suini e cinghiali di tipo familiare.
Immediatamente dopo, l'infezione si è estesa alle
popolazioni di cinghiali presenti nei territori
circostanti. L'area interessata dall'epizoozia, a nord
della provincia di Varese, ha una estensione di 370
Kmq e per una lunghezza di 52 Km costituisce linea di
confine con la Svizzera. L'intero territorio comprende
quattro ambiti di caccia (ATC 1, 2, 3 e 4). Nel 1996 si
stimava l'esistenza di 1200 cinghiali in tale area. Il
Sanità animale
6
L’OSSERVATORIO
primo cinghiale positivo virologicamente fu rinvenuto
nell'ATC 2 nel maggio del 1997, in periodo di riposo
venatorio. Nel corso della prima fase epidemica
(maggio 97-aprile 98) furono rinvenuti 42 cinghiali
virologicamente positivi e l'infezione si estese anche
agli ATC 3 e 4. La malattia si propagò anche alla
popolazione di suini domestici con 5 focolai. Dato
l'esiguo numero di allevamenti di suini presenti
nell'area (n=173), fu deciso lo stamping out di tutti i
soggetti (n=993). Il piano di controllo della malattia
aveva come obiettivo principale quello di rimuovere la
possibilità di movimentazione e di dispersione del
cinghiale al di fuori del territorio infetto attraverso il
divieto della caccia. Fu comunque permessa la caccia
ad altre specie con l'ausilio del cane.
Durante il 1998 la malattia si è estesa anche nell'ATC 1
ed in tutta l'area infetta furono ritrovati 27 cinghiali
morti virologicamente positivi.
La caccia fu consentita nuovamente a partire dal
dicembre 1998 nella intera zona infetta, con l'obiettivo
di monitorare la diffusione della infezione sia dal
punto di vista sierologico che virologico e per
abbattere in modo mirato i giovani cinghiali,
maggiormente suscettibili all'infezione. I risultati
riferiti alla stagione venatoria, accertarono la presenza
del virus in 90 dei 664 soggetti esaminati. La
sieroprevalenza osservata fu del 55%.
Nel seguente periodo di silenzio venatorio (marzonovembre 1999), nell'ambito della sorveglianza
eseguita dalle guardie forestali, su 136 cinghiali
abbattuti e/o trovati morti, 2 furono trovati
virologicamente positivi nell'ATC 2, mentre la
sieroprevalenza si attestava intorno al 50%.
Nella successiva stagione venatoria (novembre 1999febbraio 2000), 3 cinghiali al di sotto dell'anno di età
furono trovati virologicamente positivi su un totale di
751 esaminati; i soggetti positivi furono rinvenuti in
un area dell'ATC 2 corrispondente a quella da cui era
partita l'epizoozia nel 1997. La sieroprevalenza
globale diminuì al 43,7% con un 70% circa di
popolazione adulta immunologicamente coperta.
Nel periodo di silenzio venatorio (marzo-novembre
2000), di 244 cinghiali esaminati, 5 furono trovati
virologicamente positivi nell'ATC 2. La
sieroprevalenza globale diminuì al 24,8% con un 37%
di popolazione adulta immunologicamente coperta.
Negli anni successivi non vennero più rinvenuti
cinghiali virologicamente positivi e la sieroprevalenza
scese progressivamente fino ad azzerarsi nel 2003.
La PSC in Sardegna (1984-2001)
La PSC è riapparsa in Sardegna nel 1983 e da allora è
stata ininterrottamente presente in forma endemica
fino al 2003, anno in cui si è registrato l'ultimo focolaio
nel suino domestico. Nel cinghiale la prima positività
per PSC risale al 1984. Da allora un numero
imprecisato di casi è stato riscontrato ogni anno fino al
2001, e da tale data non ne vengono più segnalati. Si
rilevano invece modeste percentuali di sieropositività
con un trend decisamente in calo, se riferito agli ultimi
quattro anni (da 7,75% nella stagione 2000/01 a 2,41%
nella stagione 2003/04).
Attualmente è ancora presente la peste suina africana
(PSA) in forma endemica anche se, nei cinghiali, in
misura molto limitata rispetto al domestico. Si ritiene
infatti che il cinghiale giochi un ruolo meno
determinante nel mantenimento della PSA.
Per quanto riguarda le misure intraprese, il perdurare
nel corso degli anni di una situazione di endemicità per
PSC, ha indotto ad indirizzare la maggior parte degli
sforzi verso il suino domestico. Nei vari piani di
eradicazione per PSC che si sono susseguiti dal 1993,
non era contenuta, di fatto, nessuna misura vera e
propria che riguardasse i cinghiali se si eccettuano
azioni di sorveglianza basate esclusivamente sul
controllo sierologico e virologico dei soggetti cacciati.
E tuttavia, l'analisi della dinamica delle popolazioni e
le informazioni sull'andamento della sieroprevalenza
nel corso degli anni nei territori in cui la malattia è stata
presente, hanno consentito la definizione dei
principali fattori di rischio legati all'introduzione e alla
diffusione della PSC nei cinghiali dell'isola. Tali
fattori possono così essere schematizzati:
- La densità di popolazione, che tende a rimanere
costantemente elevata per le caratteristiche
geofisiche e vegetative di gran parte della Sardegna
decisamente favorevoli al mantenimento di
consistenti gruppi di metapopolazioni di cinghiali. Lo
LA PSC IN PROVINCIA DI VARESE (‘97-‘00)
Superficie
370 kmq
Popolazione stimata
1200 capi
Presenza del virus
4 anni
Presenza di anticorpi
7 anni
L’OSSERVATORIO
7
Sanità animale
stesso prelievo venatorio, che si stima determini una
sottrazione di capi di circa il 45%, non interferisce di
per sé in maniera significativa sulla consistenza delle
popolazioni nel tempo.
- La pratica dell'allevamento brado del suino, che
ancora rappresenta per la Sardegna una forma di
zooeconomia irrinunciabile, per ragioni di natura
socioeconomica è, purtroppo, di difficile
regolamentazione. Con il risultato che, nella maggior
parte dei casi, questi allevamenti si configurano come
illegali. L'entità di tale fenomeno non è facilmente
quantificabile. In ogni caso, condividendo il suino
brado lo stesso habitat del cinghiale, non fa che
gioca senza dubbio un ruolo decisivo l'efficacia delle
strategie di controllo/eradicazione di volta in volta
adottate. Si è molto dibattuto, inoltre, anche sulla
opportunità di ricorrere a strategie di controllo di tipo
“indiretto”, basate cioè sulla vaccinazione. A questo
proposito, numerosi sono stati i tentativi effettuati in
varie parti d'Europa principalmente mediante
l'impiego di esche contenenti dosi di vaccino vivo
attenuato e distribuite in vario modo, con l'intento
principale di favorire l'instaurarsi di elevati livelli di
protezione in special modo negli animali giovani (al di
sotto di un anno), che rappresentano i soggetti
maggiormente suscettibili all'infezione. I risultati
ottenuti non sono stati però molto incoraggianti,
poiché i tassi di sieroconversione ottenuti in questa
categoria di soggetti si sono rivelati inadeguati.
Le misure di lotta “diretta”, basate cioè su strategie che
agiscono direttamente sulla popolazione ospite,
vengono adottate con lo scopo di raggiungere quella
che tecnicamente viene definita come “densità soglia
di estinzione dell'infezione”. In altre parole, una
densità di popolazione tale che un animale infetto
abbia probabilità vicine allo zero di contattare un
animale recettivo. Sono queste, di fatto, le strategie
comunemente più seguite e per le quali si rende
necessario un lavoro di equipe. E' evidente infatti,
come l'impostazione di corrette strategie di controllo,
implichi conoscenze appropriate di gestione
faunistica, di dinamica delle popolazioni, del contesto
ambientale, di epidemiologia oltre, naturalmente, ad
una approfondita conoscenza della malattia.
LA PSC IN SARDEGNA (1984-2001)
Superficie
> 24.000 kmq
Popolazione stimata
> 70.000 capi
Presenza del virus
17 anni
Presenza di anticorpi
?
incrementare il numero di animali recettivi al virus e
potenzialmente in grado di veicolare l'infezione.
- Anche l'uomo rappresenta un fattore di rischio in
quanto, nelle sue diverse forme di attività, influisce in
maniera considerevole nell'attivazione di focolai di
malattia sia nel domestico che nel selvatico. Si pensi,
ad esempio, alla figura del cacciatore ed alla pratica,
consolidata in tutta la Regione, di eviscerare i capi
abbattuti in loco con l'abbandono dell'intero pacchetto
addominale sul posto.
- Si deve infine considerare anche il clima. Spesso
infatti, a causa dei prolungati periodi di siccità, il
cinghiale è spinto a forti spostamenti per la ricerca di
alimento e di acqua. Ciò rende più facile il contatto tra
soggetti appartenenti a metapopolazioni diverse.
Centro di Referenza Nazionale per le Pesti Suine
Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell'Umbria e
delle Marche, Perugia
Conclusioni
Il ruolo del cinghiale nella persistenza e nella
diffusione del virus PSC ha assunto in questi ultimi
anni un'importanza crescente non solo in Italia, ma
anche in numerosi altri Paesi dell'Unione Europea. La
malattia nei selvatici, originariamente ritenuta “self
limiting”, cioè autoestinguente, si è rivelata al
contrario, almeno in certe situazioni, di lunga durata
nel tempo. Si è perfino invocato per il cinghiale il ruolo
di reservoir per il virus PSC anche se, secondo le
attuali vedute, non sembrano esserci elementi a
supporto di tale ipotesi. Come si è visto negli episodi
occorsi in Italia, l'evoluzione dell'infezione nei
selvatici può assumere connotati piuttosto diversi in
dipendenza di complessi e variegati fattori tra i quali,
Sanità animale
8
L’OSSERVATORIO
Diarrea Virale Bovina - Malattia delle Mucose:
stato dell’arte
2ª parte
C. Nassuato1
Controllo ed eradicazione
Prima di attuare un qualsivoglia piano è essenziale
conoscere la situazione epidemiologica e la densità di
capi bovini del territorio. Nei paesi scandinavi,
indagini di prevalenza hanno evidenziato che le
regioni meridionali, con elevata densità di capi bovini
e con allevamenti mediamente più grandi, erano
caratterizzate da una prevalenza più elevata rispetto
alle regioni settentrionali, in cui c'è una minor densità
di allevamenti di dimensioni inferiori. Anche in uno
studio spagnolo è stata riscontrata una correlazione
positiva tra siero prevalenza e densità di popolazione
bovina. In generale, quindi, in zone ad elevata densità,
ci si aspetta una elevata presenza del virus e ci si può
ragionevolmente attendere un impiego diffuso della
vaccinazione, allo scopo di contenere i danni
economici della malattia, mentre in aree a bassa
densità, ci si aspetta di osservare valori contenuti di
siero prevalenza, che non danno luogo ad un impiego
sistematico della vaccinazione. Ne consegue che, in
aree a bassa densità, è plausibile intraprendere un
piano di eradicazione della malattia, mentre in regioni
con valori elevati di siero prevalenza è opportuno
mirare al controllo della malattia. Oltre alla
conoscenza delle caratteristiche dell'allevamento
bovino e della prevalenza di BVD, è necessario, ai fini
del controllo, comprendere meglio l'epidemiologia di
BVDv. Pertanto, a questo scopo, andrebbero condotti
studi finalizzati ad identificare i ceppi circolanti sul
territorio, anche per studiarne le caratteristiche
antigeniche a scopo vaccinale. In Italia, in uno studio
del 2001, sono stati tipizzati 26 ceppi di campo,
raccolti tra il 1995 ed il 2000. Mediante confronto del
5'-UTR degli isolati è stato possibile attribuirne alcuni
al genotipo I ed altri al genotipo II. I ceppi BVD I
presentavano un quadro di elevata diversità genetica,
analogo a quelli documentati in Germania ed in
Belgio. Il genotipo II rappresenta il primo isolamento
italiano e lo studio dei ceppi ha evidenziato affinità, da
un punto di vista di identità e di omologia di sequenza,
con un ceppo tedesco ed un ceppo giapponese. In
Europa sono presenti sia il genotipo I sia il genotipo II
del BVDv e questo è importante da tenere a mente
quando si decide di intraprendere un piano di
L’OSSERVATORIO
eradicazione, poiché i tests diagnostici devono essere
capaci di identificarli entrambi. Esiste una grande
variabilità genetica anche all'interno dello stesso
gruppo BVD I ed è auspicabile l'uso combinato di test
differenti, capaci di riconoscere anche queste
differenze antigeniche, per aumentare la sensibilità
diagnostica.
Dal momento che, ai fini dell'applicazione di un piano
di controllo o di eradicazione, l'allevamento
costituisce l'unità epidemiologica di interesse, il primo
passo in entrambi i casi è identificare gli allevamenti
con animali PI. La distinzione tra allevamenti con PI e
allevamenti senza PI può essere effettuata avvalendosi
o di test per la ricerca di anticorpi per BVDv condotti
su latte di massa, oppure di test su campioni di siero,
prelevati in modo mirato su un gruppo definito di
animali giovani compresi tra gli 8 e i 12 mesi di età,
esaminati singolarmente o in pool ('spot test'). In
allevamenti da latte non sottoposti a vaccinazione, è
possibile effettuare un test ELISA per la ricerca di
anticorpi nel latte di massa. Il principale vantaggio di
questo tipo di analisi è di natura economica e di
praticità di prelievo. Il limite maggiore sta invece nel
fatto che, dal momento che non tutti i soggetti PI sono
in lattazione, uno screening effettuato con queste
modalità non è in grado di indicare se nell'intero
allevamento vi siano soggetti PI oppure no, ma solo di
riscontrare eventuali rialzi dei titoli anticorpali nel
latte. E' vero tuttavia che, in genere, riscontri di
negatività o bassi titoli di positività, possono essere
interpretati come indicativi di allevamenti in cui il
virus non è presente almeno dal tempo della nascita
degli animali testati. Un altro limite sta nel fatto che
sono test validi solo in caso di allevamenti non
sottoposti a vaccinazione per BVDv, a meno di
utilizzare test ELISA specifici per il rilevamento di
anticorpi diretti verso la proteina NS3. In caso di
allevamenti con infezione in corso, in genere, l'esame
su latte di massa porta al riscontro di valori elevati.
Purtroppo, però, la medesima condizione può
verificarsi anche in allevamenti il cui stato sanitario sia
stato risanato recentemente. In questi ultimi, i livelli
anticorpali tenderanno a diminuire gradualmente nel
9
Sanità animale
corso di diversi anni. Per svelare la presenza di PI in
questi allevamenti sarà necessario effettuare dei
controlli su latte in pool prelevato dalle primipare ed
analizzare campioni di sangue prelevati, in modo
mirato, da animali giovani, appartenenti a vari gruppi
di età rappresentativi della futura rimonta. Su latte di
massa è possibile effettuare eventualmente anche la
ricerca di Dna virale sulle cellule somatiche. Il
vantaggio di quest'ultimo approccio è che può trovare
applicazione anche in allevamenti vaccinati.
Idealmente, il materiale diagnostico migliore per
rivelare allevamenti con PI sarebbe costituito da
campioni di sangue individuali di tutti gli animali
dell'allevamento, esclusi i vitelli di età inferiore ai sei
mesi. Un criterio riconosciuto per la diagnosi di PI è
l'isolamento ripetuto del virus, a distanza di tre-quattro
settimane, da animali siero negativi. La sieronegatività dei soggetti PI però in questo caso deve
essere ottenuta con test per la ricerca di anticorpi anti
NS3/2-3, dal momento che, come già si è accennato,
alcuni epitopi di questa proteina sono comuni a tutti i
ceppi. Sarà, comunque, già suggestivo di presenza di
infezione persistente, il riscontro di un soggetto siero
negativo viremico all'interno di un allevamento dove
si sia riscontrata, mediante prelievo effettuato in
contemporanea, siero positività con titoli anticorpali
elevati in tutti gli altri soggetti.
In ogni caso, ai fini della distinzione tra allevamenti
infetti e allevamenti non infetti, nel caso di
allevamenti strutturati in più unità produttive separate,
è necessario che il prelievo del materiale da sottoporre
ad esame venga effettuato in ciascuna delle unità
produttive.
svelare la presenza di una singola positività in un
allevamento di 250-500 vacche da latte.
Quando si vuole verificare che tutti i soggetti PI sono
stati eliminati, l'approccio più opportuno è quello di
effettuare analisi su campioni individuali di sangue di
animali di età compresa tra gli 8 e i 12 mesi di età.
La certificazione degli allevamenti indenni non
rappresenta una fase obbligatoria. Tuttavia, dal
momento che, di norma, gli animali certificati indenni
acquistano valore sul mercato, nell'ambito di piani ad
adesione volontaria essa rappresenta un ottimo
incentivo per gli allevatori a sottoscrivere il piano.
La fase di 'auto-clearance' consiste nel naturale
esaurirsi dell'infezione in allevamenti in cui siano stati
rimossi tutti i soggetti PI e siano state efficacemente
applicate tutte le misure atte a prevenire sia nuove
introduzioni di soggetti PI, sia l'esposizione
all'infezione di vacche suscettibili nel primo trimestre
di gravidanza. Tra queste misure vi sono l'applicazione
della quarantena agli animali di nuova introduzione,
compresi i tori, con effettuazione di test atti ad
individuare soprattutto le infezioni persistenti, ma
anche diffusori transitori; l'allevamento separato dei
vitelli; la riduzione ai minimi termini della
partecipazione a mostre e fiere ed a tutte le altre
eventuali condizioni che favoriscono situazioni di
promiscuità, come il pascolo. Sono diverse le
esperienze di campo che confermano questo naturale
scemare dell'infezione in allevamenti privi di PI ed in
condizioni ottimali di biosicurezza soprattutto in
allevamenti di dimensioni ridotte.
Controllo
I piani di controllo sono attuati in zone ad alta densità
di popolazione bovina, con una prevalenza elevata
dell'infezione. Essi prevedono, contestualmente
all'applicazione delle misure previste dai piani di
eradicazione, finalizzate a minimizzare le possibilità
di trasmissione del virus, l'esecuzione della
vaccinazione. La profilassi vaccinale limita i danni
economici determinati dalla BVD e tende a prevenire
la trasmissione transplacentare e la conseguente
nascita di soggetti PI. I piani di controllo hanno
l'obiettivo di ridurre progressivamente la diffusione
del virus sino a rendere praticabile un piano di
eradicazione. D'altra parte, la pratica vaccinale non
sempre ha risvolti confortanti sul campo. La
prevenzione della trasmissione verticale
dell'infezione, ad esempio, è risultata efficace solo in
caso di vaccinazione con ceppo omologo, effettuata
prima della fecondazione. Nonostante i ceppi di
BVDv siano in grado di dare protezione crociata verso
ceppi eterologhi, è da sottolineare che, all'interno del
genotipo, questo non sembra vero. Vaccini verso il
genotipo I, infatti, non sarebbero in grado di fornire
protezione verso il genotipo II e viceversa.
Per quanto concerne i vaccini vivi, esperienze di
Eradicazione
Un piano di eradicazione deve essere basato sulla
identificazione e rimozione di soggetti PI allo scopo di
prevenire la trasmissione verticale, interrompendo il
ciclo dell'esposizione di animali gravidi nei primi 120150 giorni di gestazione. Uno schema generale per
l'eradicazione della BVD da una popolazione di
allevamenti include tre fasi: la prima, come si è detto,
consiste nella distinzione della popolazione tra
allevamenti infetti e allevamenti non infetti; la
seconda nel monitoraggio, anche a fini di
certificazione, degli allevamenti non infetti. La terza,
infine, consta della cosiddetta 'auto clearance' del virus
dagli allevamenti.
Riguardo la prima fase si è già discusso diffusamente.
La fase di sorveglianza negli allevamenti indenni può
essere condotta con l'applicazione del test ELISA su
latte di massa. Questo tipo di analisi è il più indicato
per la sua elevata sensibilità e consente di rilevare la
presenza di infezione in allevamenti anche in stadi
molto precoci, addirittura prima della nascita di
soggetti PI. E', infatti, sensibile anche a rialzi molto
contenuti dei titoli anticorpali. Ad esempio, riesce a
Sanità animale
10
L’OSSERVATORIO
campo hanno dimostrato la possibilità di trasmissione
transplacentare del ceppo vaccinale, con conseguente
nascita di soggetti PI. Inoltre, con l'uso di vaccini
composti da diversi ceppi, anche citopatici, si sono
osservati casi di malattia acuta, dovuti a sovra
infezione da ceppo vaccinale cp su ceppo di campo
ncp. E' evidente che, in questi casi, l'impiego del
vaccino è del tutto controproducente.
I vaccini esistenti per BVD possono essere attenuati,
spenti e mutanti temperatura-sensibili. Sono in fase di
sperimentazione vaccini di nuova generazione quali
quelli a subunità, a Dna e vaccini ricombinanti, che
potrebbero costituire una risposta adeguata alle
necessità di controllo della BVD. Questi vaccini di
nuova concezione, infatti, non sono costituiti da virus
intero, ma da subunità o da porzioni di genoma del
virus e pertanto potrebbero unire la sicurezza di
impiego all'efficacia nell'indurre l'immunità
protettiva. Inoltre, non recando proteine strutturali,
potrebbero essere impiegati come vaccini 'marker',
consentendo la distinzione tra animali naturalmente
infetti ed animali vaccinati. Sarebbe, ad esempio,
sufficiente impiegare i test ELISA, già disponibili sul
mercato, per la ricerca di anticorpi verso la proteina
NS2/3.
sangue di un campione di animali giovani. Lo scopo
era di individuare gli allevamenti con un'infezione in
atto. La terza fase ha comportato, inizialmente,
l'esame di tutti gli animali presenti in allevamento, per
poi passare al monitoraggio nei vitelli che
raggiungevano l'età minima per essere controllati.
Infine, dopo la rimozione di tutti i soggetti PI, è stato
previsto un sistema di sorveglianza per verificare la
condizione di indennità, ai fini della certificazione.
In Svezia il piano di eradicazione è iniziato nel 1993
per adesione volontaria. L'anno successivo, circa
6.000 su 15.000 allevamenti da latte avevano aderito
al piano. Nel 1998 tutti gli allevamenti da latte
avevano aderito ed il 67% di questi fu certificato come
allevamento indenne da BVD. Il numero medio di
animali presenti in allevamento a metà degli anni '90
era alquanto ridotto, variando tra le 10 e le 28 vacche.
Negli allevamenti da carne il piano ha stentato a
decollare ma, nonostante nel 1998 vi fosse solo il 36%
di adesioni, nel 2002 si era raggiunto il 99%. Nel 2002
gli allevamenti da latte certificati come indenni da
BVD erano il 93%, l'88% quelli da carne. Nel giugno
2002 le Autorità svedesi resero obbligatoria l'adesione
al piano. A maggio 2004 il 96% degli allevamenti
aveva ottenuto la certificazione di indennità ed un
1,2% era in fase di auto clearance. Il restante 2,8% era
costituito da allevamenti recentemente risanati in
attesa di certificazione. E' una situazione che lascia
ben sperare per l'eradicazione in un futuro molto
prossimo.
In Norvegia nel dicembre 1992 è partito un
programma finalizzato, dapprima, al solo
contenimento della diffusione del virus ed in uno
stadio successivo, all'eradicazione della malattia. In
questo Paese, poco dopo l'avvio del piano, le Autorità
inclusero la BVD nell'elenco delle malattie soggette a
denuncia. Questa decisione comportò la possibilità di
applicare delle restrizioni delle movimentazioni in
caso di animali provenienti da allevamenti infetti. In
questo modo il servizio veterinario fu responsabile
dell'osservanza di diverse misure, finalizzate a ridurre
il rischio di circolazione di animali infetti o
persistentemente infetti. Dopo un primo screening
effettuato su latte di massa o con spot test negli
allevamenti da carne, si identificavano gli allevamenti
positivi da sottoporre ad ulteriori controlli mediante
test su latte delle primipare e su campioni di sangue
prelevati da animali giovani. Gli allevamenti positivi
anche a questo test erano considerati infetti e
sottoposti a restrizioni delle movimentazioni. Per
l'identificazione dei soggetti PI era previsto un esame
del sangue con ricerca anticorpale seguito, negli
individui siero negativi, dalla ricerca di antigeni del
virus BVD. La movimentazione era permessa dopo
due test consecutivi negativi, effettuati a distanza di
quattro mesi. Anche in questo Paese si è verificato un
progressivo declino del numero di allevamenti infetti.
Esperienze a livello europeo
I Paesi scandinavi
Studi di prevalenza a livello di allevamento risalenti
agli anni '90, hanno rilevato, negli allevamenti da latte,
valori prossimi al 100% di siero prevalenza per BVD
in Danimarca, mentre valori relativamente più bassi
sono stati riscontrati in Svezia (40%), in Norvegia (2530%), fino all'1% in Finlandia. In Svezia ed in
Norvegia la prevalenza variava a seconda delle zone,
con valori variabili dal 56 al 76% nelle zone
meridionali e valori dal 4 al 21% nelle aree
settentrionali. In questi Paesi, nonostante questi
riscontri relativamente alti di siero prevalenza, non è
mai stato autorizzato l'impiego di vaccini per
contrastare la BVD. Nonostante le difformità
dell'allevamento bovino nei diversi paesi scandinavi, i
piani di eradicazione attuati condividono alcune linee
di azione fondamentali. Nella prima fase, i piani sono
stati mirati allo screening degli allevamenti presenti
sull'intero territorio nazionale al fine di identificare
quelli indenni per tutelarli, rafforzando le misure di
biosicurezza contro il potenziale ingresso del virus. La
fase di screening di ricerca di anticorpi verso BVDv si
è basata sulla raccolta di campioni di latte di massa o su
un campionamento di sangue individuale,
rappresentativo della composizione dell'allevamento.
Nella seconda fase, accanto alla sorveglianza degli
allevamenti indenni, si sono ricontrollati quelli
positivi allo screening, tramite l'uso del test ELISA per
la ricerca di anticorpi nel latte delle primipare e sul
L’OSSERVATORIO
11
Sanità animale
Nel 2004 esistevano soltanto tre allevamenti ancora
soggetti a restrizioni di movimentazione degli animali.
La Finlandia cominciò a testare nel 1993 tutti gli
allevamenti da latte ed una parte di quelli da carne per
presenza di anticorpi vs BVDv. Nel 1994 partì un
piano di controllo ed eradicazione su adesione
volontaria. In questo Paese la tipologia degli
allevamenti è simile a quella norvegese con una
maggioranza di allevamenti da latte di ridotte
dimensioni, in cui la siero prevalenza per BVD era
contenuta e la vaccinazione non era attuata. Tra il 1994
ed il 1997 la prevalenza di allevamenti infetti diminuì
dall'1% allo 0,4% negli allevamenti da latte e dal 30%
al 3,2% in quelli da carne. I titoli anticorpali rilevati dal
test su latte di massa sono in costante declino e
sembrano evidenziare il processo di auto-clearance
dal virus.
In Danimarca, dove la densità di allevamenti è
maggiore rispetto a Norvegia e Svezia, come pure la
dimensione media degli allevamenti, in una prima fase
furono eseguiti dei piani pilota allo scopo di verificare
in campo le performances dei test ELISA per la ricerca
virale, sviluppati nei laboratori nazionali con isolati
nazionali. Nel 1994, dopo l'esito assai incoraggiante
dei piani pilota, prese l'avvio un programma di
controllo a livello nazionale. Il programma, benché su
adesione volontaria, sin dal 1996 fu supportato dalla
legislazione, che vietava il trasporto di animali
potenzialmente viremici. Gli allevamenti vennero
distinti in allevamenti indenni, allevamenti con PI e
allevamenti con stato sanitario ignoto. Nel 1999 il 9%
degli allevamenti da latte ed il 5% di quelli da carne
aveva soggetti PI.
risulta che siano in atto piani di controllo della malattia
su scala nazionale, mentre è noto che è autorizzato
l'uso di vaccini inattivati per BVD. Un piano di
eradicazione in assenza di vaccinazione ha invece
interessato le sole isole Shetland nel periodo 19941997. Il piano si avvaleva di test ELISA per la ricerca
anticorpale e per la ricerca di antigeni su leucociti del
sangue periferico ed imponeva il controllo degli
animali in ingresso e di tutto il bestiame, destinato alla
riproduzione, di età superiore ai quattro mesi. Vitelli
nati da bovine acquistate dovevano essere sottoposti
ad esame prima di prendere il colostro o, mantenuti in
isolamento, dopo i quattro mesi di età. In caso di
positività per anticorpi allo screening iniziale, gli
animali andavano riesaminati mediante test per la
ricerca dell'antigene dopo tre settimane. Animali
riscontrati nuovamente positivi, considerati PI,
venivano abbattuti. Tutti i vitelli allevati in aziende
con siero positività venivano controllati dopo il
raggiungimento del quarto mese di età, così come gli
animali siero negativi allevati in aziende con un
discreto numero di soggetti siero positivi. Lo
screening iniziale rilevò un 43% di allevamenti
indenni ed una minoranza di allevamenti con PI tra gli
allevamenti infetti. Nel 1997 la malattia risultava
eradicata, il piano ebbe fine e ad esso fece seguito una
sorveglianza che, nel maggio 1998, consentì di
circoscrivere un episodio di infezione, originato
dall'introduzione di capi.
In Grecia è in atto un programma volontario di
eradicazione, mediante identificazione ed
eliminazione di soggetti PI, che, ad oggi, interessa
circa 32 allevamenti da latte. Il piano prevede la
raccolta di campioni di sangue da tutti i capi per ricerca
di antigeni mediante ELISA ed in caso di positività a
due controlli effettuati a distanza di tre settimane, i
soggetti positivi, considerati PI, vengono eliminati.
Altri paesi europei
Il più grande piano di eradicazione attuato nell'Europa
continentale è stato condotto su allevamenti da latte
nelle regioni meridionali dell'Austria nel 1997. Si è
trattato di un piano su adesione volontaria. Grazie al
fatto che in questo Paese non viene praticata la
vaccinazione, la sorveglianza e il monitoraggio su
infezioni in atto sono state effettuate mediante test
ELISA per ricerca di anticorpi su latte di massa. In
allevamenti considerati positivi, venivano poi
prelevati campioni di sangue individuale per condurre
la ricerca di antigeni mediante metodica ELISA,
seguita da rt-PCR come esame di conferma. Gli
animali PI venivano quindi eliminati. Le Autorità
austriache parrebbero intenzionate, in un prossimo
futuro, ad implementare una legislazione nazionale
che limiti le movimentazioni animali da allevamenti di
cui non sia nota la condizione per BVD.
In Olanda nel 1998 ha avuto inizio un programma
volontario di certificazione di indennità da BVDv,
basato sull'impiego di PCR, su latte di massa e su
campioni di sangue in pool, e di test ELISA, per
ricerca sia di anticorpi sia di antigeni, su campioni
individuali di sangue. La certificazione va poi
confermata ogni due anni.
In Germania l'allevamento bovino è piuttosto
eterogeneo: nelle zone nord-occidentali e al sud esiste
un gran numero di capi bovini concentrati in aree
relativamente piccole ed una tipologia rurale di
allevamento, mentre negli Stati Federali orientali ci
sono grandi allevamenti da 1.000/2.000 capi. In tutte
queste tre aree vi è una densità bovina elevata ed una
siero prevalenza di BVDv che supera l'80%. La
prevalenza di individui PI varia tra l'1 e il 2 %. Questa
situazione ha comportato un approccio diverso al
Nel Regno Unito (Inghilterra e Galles) sono state
condotte alcune indagini che hanno consentito di
rilevare una siero prevalenza del 95% negli
allevamenti da latte . Dalla letteratura disponibile non
Sanità animale
12
L’OSSERVATORIO
allevamenti era in corso la rimozione di soggetti PI.
Questo piano di controllo dovrebbe portare ad una
condizione di stabilità immunitaria degli allevamenti
tale da ridurre la circolazione e la presenza del virus e,
pertanto, da consentire la successiva applicazione di
un piano di eradicazione. E' nelle intenzioni del
governo tedesco di intraprendere un piano di controllo
ed eradicazione per BVD a livello nazionale ed a tal
fine è stato istituito un laboratorio diagnostico di
referenza nazionale.
In Belgio, dove la siero prevalenza di BVDv negli
animali è pari a circa il 65%, è in atto un piano
volontario di controllo basato sulla vaccinazione delle
vacche prima della fecondazione e sull'identificazione
e l'eliminazione di animali PI. L'identificazione dei PI
viene effettuata mediante l'impiego di PCR, su
campioni di sangue o di latte in pool, e di ELISA per
ricerca dell'antigene su sangue individuale, per la
conferma di positività.
In Francia, dall'iniziativa dell'Unione Bretone di
difesa sanitaria, nel 1986 nacque un programma volto
al controllo della BVD nei soli allevamenti della
Bretagna con manifestazioni cliniche. In breve tempo
furono però gli stessi allevatori a rendersi conto dei
limiti di un simile approccio. Pertanto, venne attuato
uno studio preliminare atto a verificare la possibilità di
impiego di un test ELISA per ricerca di anticorpi in
campioni di latte di massa, al fine di stabilire la
prevalenza intra-allevamento di BVDv. A tale studio,
seguì l'attuazione di un vero e proprio piano basato
sull'identificazione di soggetti PI tra animali sottoposti
a movimentazione sia per pascolo sia per
commercializzazione. L'identificazione dei PI venne
effettuata mediante test ELISA su campioni di latte
delle primipare seguito, in caso di positività, da ricerca
del genoma virale con PCR su latte di cisterna. In caso
di ulteriore positività venivano quindi prelevati
campioni individuali di sangue da esaminare per
ricerca sia di anticorpi sia di virus. I soggetti PI
venivano eliminati entro un mese dal riscontro. Queste
indagini si fermavano in caso di tre riscontri negativi
consecutivi. Nel febbraio 2001 la percentuale degli
allevamenti con siero conversione si attestava sull'1,2
%; nel febbraio 2004 sullo 0,5%. Ad oggi il 40% degli
allevamenti ha qualifica di allevamento 'non-PI'.
In Italia non esiste alcun piano di controllo e non è nota
neppure la prevalenza di BVD. Diversi studi, condotti
su realtà limitate, hanno riportato dati di prevalenza
elevata. Uno studio trasversale condotto in Piemonte,
in Campania e nella provincia di Ragusa, ha rilevato
valori di prevalenza tra gli allevamenti non soggetti a
vaccinazione, pari, rispettivamente al 78%, al 76,1%
ed al 98%. La siero prevalenza intra-allevamento è
risultata del 31% in Campania, del 36,1% in Piemonte
e del 76,1% in Sicilia. La vaccinazione interessava il
35% degli allevamenti campionati in Piemonte, il 27%
di quelli siciliani ed il 5% dei campani ed era praticata
problema rispetto al modello dei Paesi Scandinavi.
Nel 2002 ha avuto inizio in bassa Sassonia un piano di
controllo ad adesione volontaria, divenuto
obbligatorio nel 2004, i cui punti fondamentali
consistono nell'identificazione e rimozione di
individui PI, nella vaccinazione sistematica della prole
femminile destinata alla rimonta e nella attuazione di
misure igieniche atte a prevenire la re-introduzione
dell'infezione. Lo scopo del piano è di ottenere
allevamenti stabili dal punto di vista della protezione
immunitaria. Nel dettaglio, il piano prevede, come
primo passo, che tutti gli animali di età inferiore a 3
anni vengano sistematicamente esaminati mediante
test ELISA per identificare gli antigeni del BVDv. Gli
animali positivi al test devono essere ritestati dopo 14
giorni e, in caso di ulteriore positività, devono essere
eliminati entro sei settimane. Nei 12 mesi successivi
alla rimozione dell'ultimo individuo PI, tutti i nuovi
nati vanno esaminati per presenza di antigeni con
metodica ELISA ed i positivi vanno eliminati. Tutte le
manze di età superiore ai sei mesi devono essere
vaccinate. In allevamenti nei quali questi interventi
siano già stati effettuati e che pertanto sono identificati
come allevamenti non sospetti di infezione, vanno
attuate misure di prevenzione che includono l'esame,
mediante ELISA per ricerca di antigeni, di vitelli nati
entro i 12 mesi successivi alla rimozione dell'ultimo
individuo PI, la vaccinazione sistematica e
l'introduzione solo di individui provenienti da aziende
ufficialmente indenni da BVDv.
La vaccinazione viene effettuata al duplice scopo di
contenere il danno economico e di prevenire
l'infezione intrauterina e quindi la nascita di soggetti
PI. A questo scopo, è stato pensata una procedura twostep, che prevede un primo intervento con vaccino
spento ed un secondo intervento di richiamo con
vaccino vivo modificato. Ciò consente di ottenere un
ottimo livello di protezione fornita da anticorpi
neutralizzanti, evitando, nel contempo, che si verifichi
la trasmissione transplacentare del vaccino vivo. I
vaccini da impiegare sono stati scelti per la loro
capacità di fornire una protezione ad ampio spettro
verso le diverse varietà antigeniche del genotipo I e del
genotipo II. A maggio 2004, 394 allevamenti su 2.500
erano classificati come non infetti. In altri 1.914
L’OSSERVATORIO
13
Sanità animale
per circa una metà degli allevamenti con vaccino
spento, per l'altra con vaccino vivo modificato. In
Umbria, un'indagine condotta su tutti gli allevamenti
da latte della regione tramite l'uso di test su latte di
massa, ha riscontrato una siero positività aziendale
dell'11,8%. Piani di controllo sono stati condotti in
provincia di Bolzano, nella provincia di Roma ed in
due province del Nord Italia. Nella provincia di
Bolzano, dove non era mai stato impiegato alcun
vaccino per BVDv, nel 1997 è partito un piano di
controllo volontario, reso obbligatorio nel 1999. Nella
fase conoscitiva del piano (1997-1999), risultò siero
positivo il 58,9% dei soggetti testati e 211 allevamenti
sui 220 esaminati. La prevalenza dei soggetti
immunotolleranti era pari all'1,1%. Il piano prevedeva
l'esame virologico annuale di campioni individuali di
sangue prelevati da tutti gli animali di età compresa,
nel 1999-2000, tra i tre mesi e i tre anni e, nel biennio
2001-2002, tra i due mesi e i due anni di età, oltre ad
esami su animali sottoposti a movimentazione per
pascolo o alpeggio e su animali in ingresso acquistati
fuori dalla provincia di Bolzano. Inoltre, la
partecipazione ad aste effettuate sul territorio della
provincia di Bolzano, condizionata a negatività ad un
esame virologico effettuato 1 mese prima della
manifestazione, era limitata a capi provenienti da
aziende della provincia stessa. Gli esami sierologici
venivano condotti mediante impiego di un test ELISA
per la ricerca della proteina non strutturale Erns (gp
48). Si tratta di un test la cui sensibilità e specificità si
avvicinano a quelle di un isolamento virale in coltura
cellulare e che risente dell'interferenza da anticorpi
materni solo limitatamente alle prime quattro
settimane di vita del vitello. Soggetti riscontrati
sierologicamente positivi venivano sottoposti a un
riesame a distanza di almeno 30 giorni nel periodo
1999-2000 e 60 giorni nel periodo 2001-2002, per
verificare il tipo di viremia transitoria o persistente.
Nel caso di viremia persistente, gli animali,
considerati PI, erano eliminati. In caso di bovine
gravide immuno tolleranti, i nascituri venivano
anch'essi destinati all'abbattimento. Era inoltre vietata
la vaccinazione. Tra il 1999 ed il 2002 fu possibile
osservare una progressiva riduzione della circolazione
del virus nel territorio della provincia dall'1,89% allo
0,30% di positività del 2002, cui corrispose una
diminuzione nelle nascite di soggetti PI dall'1,1% del
1999 allo 0,26% del 2002. Nel periodo 2001-2002 sui
9.812 allevamenti da latte dell'intera provincia,
risultarono positive per presenza di soggetti PI
soltanto 125 aziende.
Il piano romano, ad adesione volontaria, prevedeva
una fase iniziale di screening mediante impiego di un
test ELISA su sieri di sangue prelevati nell'ambito del
piano nazionale di eradicazione della leucosi e della
brucellosi, finalizzato alla distinzione degli
allevamenti in allevamenti negativi e allevamenti
Sanità animale
positivi. Nel caso, poi, di allevamenti negativi era
previsto un esame di conferma a distanza di 1 mese. La
condizione di indennità veniva verificata ogni sei mesi
mediante test su latte di cisterna o su un campione
random dei sieri disponibili. In caso di positività allo
screening, invece, si procedeva all'esame di campioni
individuale di sangue prelevati da animali di età
compresa tra i 6 e i 12 mesi ai fini di una
classificazione degli allevamenti in allevamenti
infetti, con o senza casi recenti di infezione. In
situazioni di siero positività in assenza di infezioni
recenti, il piano prevedeva solo di testare gli animali
che man mano raggiungevano i 6 mesi di età. Al
contrario, in caso di infezioni recenti, gli animali con
due positività consecutive a distanza di 30 giorni,
erano considerati PI ed eliminati. Il piano, esordito nel
1997, ha riscontrato 63 allevamenti negativi su 174
(42,9%). Degli 84 allevamenti positivi, solo l'8,8%
venne classificato come recentemente infetto. La
prevalenza intra-allevamento risultava del 31,4%.
In Italia settentrionale, le province di Lecco e Como
hanno intrapreso un piano di controllo volontario sugli
allevamenti da latte a partire dal 2002. A maggio 2004
aderivano al piano 84 aziende sulle 425 presenti sul
territorio delle due provincie, 58 delle quali non
praticavano la vaccinazione. L'esame sierologico,
condotto con un campionamento in grado di rilevare
una prevalenza del 10%, è stato integrato con
un'indagine sui fattori di rischio per BVD. Gli
allevamenti venivano suddivisi in quattro categorie:
allevamenti negativi a basso rischio, negativi a rischio
elevato di infezione, allevamenti positivi a basso ed
elevato rischio di infezione. Allevamenti appartenenti
alle prime due categorie venivano nuovamente
controllati a distanza di sei e dodici mesi; gli
allevamenti delle due ultime categorie erano
sottoposti ad indagine per identificare soggetti PI.
Negli allevamenti con infezione in atto veniva
consigliata la vaccinazione con vaccino spento.
Dall'analisi delle informazioni raccolte mediante
questionario il commercio del bestiame risultò
associato alla presenza di BVD.
Nel 2002 ha visto la luce un progetto promosso
dall'Unione Europea, che coinvolge veterinari
specialisti di 17 Paesi Europei, che ha lo scopo di
raccogliere, confrontare e condividere le esperienze di
controllo della BVD fatte in Europa (per informazioni
sul progetto ed aggiornamenti sulla BVD consultare il
sito: http://www.bvdv-control.com/). Tra gli scopi di
questo progetto c'è la valutazione degli approcci
diagnostici e il confronto dei dati epidemiologici
disponibili, nonché la valutazione dell'impiego di
misure di immunoprofilassi e considerazioni di ordine
economico.
1. Veterinario borsista Osservatorio Epidemiologico
Veterinario Regionale Lombardia c/o IZSLER Brescia
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L’OSSERVATORIO
Comunicazione e formazione
La sensibilità e l’attenzione dei
cittadini europei nei riguardi dei
“diritti degli animali” e delle condizioni in cui essi sono allevati è
fortemente aumentata in questi
ultimi anni. Sull’onda di questa
esigenza, il legislatore europeo si
è fatto carico di adottare dei provvedimenti normativi nei settori
tradizionalmente ritenuti critici:
l’allevamento dei suini, del vitello a carne bianca e delle galline
ovaiole, il trasporto degli animali
e la loro macellazione.
Ogni provvedimento normativo
scaturisce da un confronto tecnico e politico in sede comunitaria
ed è il frutto di discussioni scientifiche prodotte nelle varie Commissioni della UE. Le ragioni tecniche sottese a detti provvedimenti purtroppo non sempre sono
immediatamente percepibili dagli
operatori chiamati ad applicare la
norma. Inoltre, la normativa in tema di benessere animale è oggi un “corpus normativo” di notevole entità, soggetta a revisioni frequenti e non sempre ben conosciuta dagli interessati.
L’Amministrazione Provinciale di Mantova, in collaborazione con l’Amministrazione del Comune di Viadana,
ha ritenuto utile promuovere e sostenere un’opera di divulgazione in tema di benessere animale nelle varie fasi di filiere produttive di grande rilievo nella realtà locale.
Il manuale, nato dalla collaborazione di funzionari ASL e veterinari operanti nel settore delle produzioni animali, testimonia la nuova consapevolezza dell’impegno che operatori commerciali e tecnici incaricati dei controlli dovranno profondere per essere all’altezza delle aspettative e dei compiti che la Legge affida loro.
Partendo dal dettato legislativo, gli autori descrivono le motivazioni tecniche sottese alla norma e ne suggeriscono le modalità per una pratica applicazione.
Si tratta di un’opera che avvicina una materia nuova e complessa ai diretti interessati e dissipa i dubbi e gli alibi di chi bolla la normativa comunitaria come avulsa dalla realtà. Il testo, arricchito da un’interessante documentazione fotografica, si propone come strumento di formazione per gli addetti del settore ma può essere di
grande interesse anche per i professionisti del settore che vogliano avvicinarsi alle tematiche del benessere animale.
Interessare gli operatori alle ragioni ed alle tecniche del benessere animale promuove il concreto miglioramento delle condizioni degli animali e l’instaurarsi di quel rispetto che essi meritano per il semplice fatto che
sono esseri viventi.
Il testo può essere richiesto gratuitamente all’Assessorato all’Ambiente della Provincia di Mantova.
L’OSSERVATORIO
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Comunicazione e Formazione
Notizie da Internet
Queste notizie sono tratte dalla lista elettronica di epidemiologia ProMED-mail
(Http//www.healthnet.org/programs/promed.htlm)
Febbre emorragica di Marburg in Angola
Il virus di Marburg della famiglia Filoviridae, che include il virus di Ebola, ha un periodo d’incubazione di 5-10
giorni e provoca una malattia emorragica che esordisce con febbre, mal di testa, mialgie. Dopo circa 5 giorni può
manifestarsi un rash cutaneo con nausea dolori allo stomaco, vomito, dolori al petto e all’addome e diarrea. L’evoluzione caratterizzata da emorragie interne massive e le conseguenti disfunzioni organiche portano ad esito mortale
nel 25-80% dei casi.
Esso è stato identificato per la prima volta nel 1967 tra laboratoristi nella città tedesca di Marburg, a contatto con
scimmie. La malattia è geograficamente confinata alla parte meridionale del continente africano ed è potenzialmente epidemica, trasmissibile da uomo a uomo, spesso durante la cura dei pazienti, attraverso lo stretto contatto con i
fluidi corporei (sangue, saliva, urine) di persone infette.
Il più grave focolaio registrato in passato si era verificato tra il 1998 e il 2000 nella Repubblica Democratica del Congo con 149 casi di cui 123 morti.
In Angola, dal 1° ottobre 2004 al 4 Aprile 2005, sono già 175 i casi di cui 155 mortali, causati da questo virus.
Il 75% dei morti è rappresentato da bambini al di sotto dei 5 anni di età, ma il virus sta mietendo vittime anche tra
gli adulti, tra cui 7 medici, compresa una pediatra italiana.
A questo proposito, è in atto un interessante scambio di opinioni tra diversi scienziati circa le modalità di trasmissione del virus nel corso dell’attuale epidemia. Infatti, non è molto comprensibile il perché siano colpiti soprattutto
i bambini al di sotto dei 5 anni, visto che la malattia si trasmette durante le cure mediche ai malati o le pratiche di
sepoltura dei morti. Vi sono diverse ipotesi, fermo restando che necessitano dati più precisi in risposta alle classiche
domande in focolaio “chi, dove, quando, come e perché”. Dal quadro descritto dovrebbe esserci un’altra sorgente
comune di trasmissione, a meno che i casi nei bambini siano tutti correlati con una persona a contatto con malati.
Oppure, i bambini sono particolarmente suscettibili per altre ragioni?
Siamo di fronte a introduzioni multiple di virus da reservoir naturali, attualmente sconosciuti, o il focolaio è dovuto ad una singola fonte puntiforme di introduzione seguita da una diffusione da persona a persona? Nel focolaio del
1999-2000 nella Repubblica Democratica del Congo l’evidenza indicò introduzioni multiple nella popolazione da
un reservoir collegato ad una miniera abbandonata. Tutti i tre sierotipi circolanti trovati contemporaneamente erano
coinvolti nel focolaio. Le introduzioni multiple spiegavano l’elevato numero di casi riportato, a differenza di passati focolai con una sola fonte di introduzione e caratterizzati da un limitato numero di casi, causati da cicli di trasmissione da persona a persona.
Dai rapporti iniziali, l’attuale focolaio sembra sovrapponibile come numero di casi a quello del Congo e se fosse dovuto a una singola fonte di introduzione con conseguente trasmissione inter-umana, come nel caso precedente, i focolai dovrebbero essere limitati. Sarebbe interessante conoscere se questa è una caratteristica del virus o se è dovuta alle condizioni sanitarie e socio-economiche dell’area interessata.
La predominanza di casi in bambini sotto i 5 anni è inusuale. Nel focolaio del Congo la maggior parte dei casi erano minatori e un monitoraggio sierologico di chi aveva curato i pazienti aveva dimostrato che non vi era stata trasmissione del virus durante il focolaio.
Un’indagine sierologica condotta nell’Africa Centrale aveva evidenziato il 3,2% di positività vs il virus di Marburg
nella popolazione (137/4295). Non vi sono studi simili per l’Angola e da ciò si deduce che sia la prima apparizione
del virus nella zona. In Congo vi fu un cluster di 6 casi in bambini con una blanda forma clinica, presumibilmente
contratta con l’allattamento al seno. In Angola non conosciamo ancora la suddivisone dei casi per età vera e vi potrebbe essere una significativa proporzione di casi lievi non evidenziati prima della notifica del focolaio. Un’altra
spiegazione è che l’immunità pre-esistente nella popolazione più vecchia lascerebbe scoperta la popolazione più giovane.
La terza spiegazione è che vi sia un’esposizione comune in giovane età che è sottoposta a più alto rischio; tale ipotesi è meno probabile, perché i bambini tendono a stare nel loro nucleo familiare e a non aggregarsi in gruppi prescolastici.
L’OSSERVATORIO