Anno 8 - n. 2 - Aprile 2005 RIVISTA BIMESTRALE D’INFORMAZIONE SCIENTIFICA a cura dell’Osservatorio Epidemiologico Veterinario della Regione Lombardia Regione Lombardia Direzione Generale Sanità - Servizio Veterinario Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia e dell’Emilia Romagna Osservatorio Epidemiologico Veterinario Regionale - Via Bianchi, 9 - 25124 Brescia S ommario Anno 8 - n. 2 - Aprile 2005 RIVISTA BIMESTRALE D’INFORMAZIONE SCIENTIFICA POSTE ITALIANE - SPEDIZIONE IN A.P. - 70% - BRESCIA a cura dell’Osservatorio Epidemiologico Veterinario della Regione Lombardia 3 Editoriale 4 La Peste Suina Classica nel cinghiale in Italia: cronistoria degli eventi infettivi Regione Lombardia Direzione Generale Sanità - Servizio Veterinario Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia e dell’Emilia Romagna Osservatorio Epidemiologico Veterinario Regionale - Via Bianchi, 9 - 25124 Brescia G.M. De Mia Diarrea Bovina Virale - Malattia delle Mucose: stato dell’arte - 2ª parte 9 Direttore responsabile Cesare Bonacina C. Nassuato Direttore scientifico Ezio Lodetti Redattore Giorgio Zanardi Responsabile comitato redazione Giorgio Zanardi 15 Comunicazione e formazione 16 Notizie da Internet Comitato di redazione M. Astuti, P. Cordioli, M. Domenichini, P. Antoniolli, L. Gemma, C. Genchi, G. Gridavilla, A. Lavazza, A. Palma, V.M. Tranquillo Hanno collaborato a questo numero G.M. De Mia, C. Nassuato Segreteria di redazione M. Guerini L. Marella Fotocomposizione e Stampa Editrice Vannini - Gussago (BS) Editore Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia ed Emilia Romagna “Bruno Ubertini” Via Bianchi, 9 - 25124 Brescia Tel. 03022901 - Fax 030225613 Tutti coloro che vogliono scriverci, devono indirizzare le lettere al seguente indirizzo: “L’OSSERVATORIO” rubrica “La posta dei lettori”, via Bianchi, 9 - 25124 Brescia - tel. 030 2290259-235; oppure utilizzare la posta elettronica: [email protected] L’Osservatorio e i numeri del precedente Bollettino Epidemiologico possono essere consultati anche sul sito web http:\\www.oevr.org Editoriale Lo scorso gennaio si è svolto a Brescia il Corso di Formazione su “La gestione delle emergenze epidemiche con particolare riferimento alle Pesti Suine e alle Malattie Vescicolari”, organizzato in collaborazione dall' IZS di Umbria e Marche e IZS di Lombardia ed Emilia Romagna e finanziato dal Ministero della Salute. Lo spunto del primo articolo di questo numero, nasce proprio dalla disponibilità del responsabile del Centro di Referenza Nazionale delle Pesti Suine a riassumere in un unico articolo la cronistoria nazionale degli eventi infettivi relativi alla Peste Suina Classica nel cinghiale. L'argomento è di per sé interessante dal punto di vista epidemiologico e utile, se si rammenta l'epidemia di peste suina nei selvatici del 1997, verificatasi nella provincia di Varese e in cui il cinghiale aveva svolto un ruolo preminente nell'insorgenza di focolai nei suini domestici, cronologicamente gli ultimi a essersi verificati in Lombardia. La seconda parte della monografia sulla Diarrea Virale del Bovino - Malattia delle Mucose (BVD MD) completa quello che vuole essere un quadro aggiornato di una patologia verso la quale, dopo la Rinotracheite Infettiva del bovino, i nostri partner europei hanno approntato e stanno applicando piani di controllo. Le province autonome di Trento e Bolzano si stanno attivando e, come sempre, rappresentano la spia di quello che avviene oltre frontiera e dei temi sanitari che, volenti o nolenti, ci attendono per essere prima o poi affrontati a livello commerciale. Pertanto, in questo numero sono trattate due tipi di malattie: le pesti suine, che fanno parte delle malattie infettive altamente contagiose, in grado di provocare emergenze epidemiche a forte impatto sanitario e socio-economico e che richiedono una costante attività di aggiornamento e formazione; la BVD MD, malattia d'importanza eminentemente economico-zootecnica, che viene affrontata con piani di monitoraggio e di controllo, al fine di raggiungere riconoscimenti sanitari da utilizzare negli scambi commerciali come garanzie sanitarie addizionali da chiedere ai Paese esportatori e per conquistare quote di mercato con animali di qualità sanitaria superiore. Lo scopo della monografia sulla BVD MD è semplicemente quello di aggiornarci sulle più recenti conoscenze circa la trasmissione ed epidemiologia della malattia e sulle esperienze maturate o in corso in altri Paesi circa i piani di controllo. G. Zanardi L’OSSERVATORIO 3 La Peste Suina Classica dei cinghiali in Italia: cronistoria degli eventi infettivi G.M. De Mia1 almeno localmente, un miglioramento delle condizioni ambientali necessarie alla specie. Anche lo spopolamento generalizzato di vaste fasce dell'Italia appenninica e la conseguente diminuzione della persecuzione da parte dell'uomo ne hanno in qualche modo condizionato la crescita. In Italia tuttavia, più che in altri paesi, un ruolo fondamentale è stato svolto dall'introduzione di vasti contingenti di animali importati dall'estero (soprattutto da paesi est-europei) che hanno avuto modo di incrociarsi con i residui nuclei di cinghiali autoctoni e con le locali popolazioni di maiali bradi. Questa attività di immissione è stata condotta in maniera non programmata e senza tenere in minimo conto sia i più elementari principi di Premessa La peste suina classica (PSC) rappresenta una delle malattie infettive ad eziologia virale economicamente più importanti del suino domestico. E' pertanto oggetto, a livello internazionale, di norme di polizia sanitaria particolarmente stringenti. La malattia colpisce in condizioni naturali anche il cinghiale e ciò ha determinato difficoltà notevoli soprattutto nella implementazione di sistemi di controllo efficaci, con la conseguenza che la PSC è stata a lungo presente nel cinghiale in diversi Paesi della UE (Austria, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Svizzera) e in molti Paesi dell'Europa centro-orientale. Il ruolo del cinghiale come possibile sorgente d'infezione per il suino domestico è ben conosciuta e le correlazioni epidemiologiche tra presenza di malattia nel selvatico e trasmissione nel domestico sono state confermate da più parti nel corso degli anni. Si è stimato che in alcuni Paesi della UE, la presenza del virus della PSC nelle popolazioni di cinghiali si sia resa responsabile del 47% dei focolai di malattia nel domestico. Talvolta, in alcune metapopolazioni di cinghiali, la malattia ha avuto un carattere auto-limitante, talvolta invece il virus è circolato per lungo tempo. A questo proposito, a seguito dell'isolamento e della successiva caratterizzazione molecolare dei ceppi di virus circolanti, è stato dimostrato che la malattia in molte popolazioni di cinghiali europei si è mantenuta per anni. In base a quanto detto, è chiaro che la prevenzione e il controllo della malattia nei selvatici assume una importanza particolare ai fini di un controllo parallelo dell'infezione nel suino domestico. stabile discontinua sporadica Distribuzione storico-geografica del cinghiale Il cinghiale è andato incontro a partire dagli anni '50 ad una spettacolare esplosione demografica che ha coinvolto le popolazioni di tutta Europa. Anche in Italia, sin dal secondo dopoguerra ha avuto inizio una crescita delle popolazioni con conseguente aumento dell'areale. Diversi fattori sono stati chiamati in causa per spiegare tale fenomeno. In primo luogo i cambiamenti socio-economici, come ad esempio l'abbandono delle campagne che ha determinato, Sanità animale assente Figura 1. Presenza del cinghiale nelle province Italiane 4 L’OSSERVATORIO - controlli virologici e sierologici dei cinghiali abbattuti o trovati morti - sequestro delle carcasse fino all'esito degli esami di laboratorio - definizione di una zona infetta e di una zona di protezione - rivaccinazione in tutti gli allevamenti suini compresi in dette zone Bisogna a questo proposito osservare che le misure intraprese (era di fatto la prima volta che si fronteggiava una situazione del genere) ricalcavano pedissequamente i dettami di legge senza che fossero modulate verso un approccio di tipo ecologico. In pratica, si trattò di un mero trasferimento delle misure da domestico a selvatico e il diradamento costituì, di fatto, la principale azione di lotta intrapresa. Tuttavia, nonostante il rilevante numero di cinghiali abbattuti (4.789 nella sola stagione venatoria 1986/87) la PSC si diffuse in direzione sud nelle province limitrofe di Pisa, Grosseto e Siena. Una delle ragioni del fallimento fu senza dubbio rappresentata dal mancato raggiungimento del livello di densità soglia al di sotto del quale la trasmissione dell'infezione non si realizza. La caccia pertanto, non solo fallì in questo obiettivo, ma contribuì, con ogni probabilità, ad aumentare l'home range del cinghiale e quindi l'estensione, di fatto, dell'area infetta. Un altro fattore critico fu determinato dalle modalità attraverso le quali venivano effettuati i campionamenti per il monitoraggio dei cinghiali abbattuti. Infatti, nella impossibilità di controlli di laboratorio a tappeto, si decise di controllarne un 10% (e talvolta anche meno), senza perciò alcun fondamento di tipo statistico relativamente alla prevalenza attesa, con il risultato di non poter disporre di dati utili alla determinazione della zona infetta e con il rischio (elevato) di dichiarare indenni zone che in realtà non lo erano. Alla fine della epizoozia nel 1990, l'area coinvolta era di circa 3.800 kmq (corrispondente al 17% dell'intera Toscana). I casi virologicamente positivi diagnosticati furono 183, ma è verosimile che tale numero non rappresentasse che l'epifenomeno della malattia. In aggiunta, vennero registrati 5 focolai nel suino domestico (per complessivi 110 capi) ed altri 5 focolai in allevamenti misti suino/cinghiale. gestione faunistica, sia le prescritte norme di profilassi sanitaria. Tra i numerosi risultati di tale dissennato comportamento, si deve purtroppo registrare anche l'introduzione di alcune malattie in grado, sia di provocare rilevanti episodi di mortalità nelle popolazioni di cinghiali, sia di determinare uno stato di grave rischio sanitario per il suino domestico. Infatti, la diversa recettività delle popolazioni selvatiche agli agenti patogeni si basa spesso su equilibri locali stabilitisi, in tempi molto lunghi, fra ospite, agente patogeno e contesto ecologico in cui entrambi si sono evoluti. Tale equilibrio viene spesso compromesso dalle immissioni di capi allevati o catturati in altre località, sia a causa del c.d. “inquinamento genetico”, sia per problemi sanitari. In figura 1 è rappresentata l'attuale presenza del cinghiale in Italia. La situazione in Italia In Italia la PSC nei cinghiali si è ripetutamente presentata nell'ultimo ventennio in aree geograficamente distinte e con modalità di volta in volta diverse, coinvolgendo, non di rado, anche il suino domestico. Volendo schematizzare, potremmo ricondurre le epizoozie di PSC verificatesi nel cinghiale, a quattro diversi modelli che differiscono tra di loro sia per l'ampiezza della superficie geografica coinvolta, sia per la diversa evoluzione assunta dall'infezione. La PSC in Toscana (1986-1990) Rappresenta l'epizoozia più lontana, in ordine di tempo, tra quelle registrate nell'Italia peninsulare nei selvatici. In Toscana, fino alla fine degli anni '60, non esistevano che poche migliaia di cinghiali di razza maremmana. Dal 1970, ripetute introduzioni del cinghiale centro-europeo a scopo di ripopolamento, hanno ben presto determinato una sovrapopolazione stimata, attorno agli anni '90, in oltre 80.000 capi. Il primo caso di PSC si verificò nell'ottobre 1985, nella località di Castagneto Carducci (LI), in un allevamento di circa 300 cinghiali. Le cronache dell'epoca riferiscono che il proprietario faceva uso di residui di mensa provenienti da un vicino campeggio internazionale. Si ritenne pertanto che a tale pratica, potesse essere ricondotta l'origine dell'infezione. Solo diversi mesi dopo, esattamente nel giugno 1986, iniziò una moria nei cinghiali in libertà delle zone limitrofe, da cui l'infezione dilagò fino ad interessare il territorio di 17 comuni diversi in meno di un anno. Durante questo periodo furono diagnosticati 63 casi di PSC nel cinghiale, ma si calcola in diverse centinaia il numero di soggetti venuti a morte, senza contare le molte segnalazioni di rinvenimento di soggetti malati. Nelle zone infette furono adottate le seguenti misure: - diradamento (prelievo venatorio) per tre mesi all'anno L’OSSERVATORIO LA PSC IN TOSCANA (‘86-‘90) 5 Superficie 3.800 kmq Popolazione stimata 8.000 capi Presenza del virus 5 anni Presenza di anticorpi 8 anni Sanità animale diradamento. Per la verità, non fu tanto per una scelta precisa, piuttosto per la mancata disponibilità dei cacciatori ad attuarla a causa del prescritto obbligo di distruzione delle carcasse (Direttiva EEC 91/625). Una intensa attività venatoria ebbe luogo solo alcuni mesi dopo il riscontro dell'ultimo caso positivo, più precisamente durante la stagione venatoria 1992/93. Un nuovo episodio di malattia nei selvatici, per molti aspetti simile a quello appena descritto, si verificò tre anni dopo in provincia di Piacenza. Risale al settembre '95 la prima positività virologica riscontrata in cinghiali di un agriturismo. Successivamente furono rinvenuti nell'area circostante 12 altri soggetti virologicamente positivi (su un totale di circa 200 animali esaminati). L'ultimo caso si registrò nel gennaio '96. In questa zona, e sulla scorta della esperienza in Lunigiana, fu attuato per la prima volta e deliberatamente il blocco totale della caccia, inclusa quella da postazione e da penna. Nel resto della provincia, con una popolazione di cinghiali stimata intorno ai 1600 capi, vennero abbattuti 480 cinghiali secondo procedure di tipo centripeto. Tutti i capi risultarono virologicamente negativi. L'ultimo capo negativo fu rinvenuto nel gennaio 1996. La sieroprevalenza riscontrata tra i capi abbattuti nel corso della stagione venatoria 1996/97 fu del 4,5% mentre in quella 1997/98 del 1,9%. Per entrambe le situazioni descritte, l'origine dell'infezione rimase oscura. La PSC in Lunigiana (1992) e in provincia di Piacenza (1995) Queste epizoozie di PSC, pur se avvenute in tempi diversi, hanno rappresentato per certi aspetti un modello unico ed è per questo che vengono descritte assieme. In particolare, ci sono alcune caratteristiche che le accomunano e che possono essere così sintetizzate: - zone infette di modeste dimensioni - durata limitata nel tempo - strategie di eradicazione simili La Lunigiana è quella parte del territorio della provincia di Massa Carrara che si trova in alta Toscana al confine con Liguria ed Emilia. Il primo caso d'infezione nel cinghiale in quest'area risale all'aprile '92, l'ultimo caso è stato registrato nell'agosto dello stesso anno. Nessun tipo di correlazione epidemiologica è stata evidenziata con l'altra epizoozia toscana. Tra l'altro, tra le due aree esistono importanti barriere sia artificiali che naturali. In totale si sono registrati 17 casi di positività virologica, tutti in soggetti giovani. La sieroprevalenza riscontrata nel periodo 1992/93 è stata del 41,5% su un totale di 609 animali esaminati. I risultati delle indagini di laboratorio condotte su 196 cinghiali abbattuti nel corso della stagione venatoria 1993/94 ha rivelato una sieroprevalenza del 12,2% mentre nella stagione 1994/95 una sola femmina adulta è risultata sieropositiva (0,4%). Nessun focolaio è stato segnalato tra i suini domestici allevati nei numerosi allevamenti a carattere familiare presenti nella zona. Le misure di controllo applicate in questo caso sono state: - distruzione di tutti gli animali trovati morti - controlli di laboratorio di tutti i cinghiali cacciati durante le stagioni venatorie che si sono susseguite dopo l'epidemia - attività di sorveglianza negli allevamenti di suini presenti nell'area Appare evidente come, a differenza della precedente epizoozia, non venne applicata la strategia del LA PSC IN LUNIGIANA (’92) E PIACENZA (’95) Lunigiana 309 kmq; Piacenza Superficie 75 kmq Popolazione Lunigiana circa 1.000 ca pi; stimata Piacenza circa 300 Lunigiana 5 mesi; Piacenza 4 Presenza del virus mesi Presenza di Lunigiana 3 anni; Piace nza 3 anticorpi anni La PSC in provincia di Varese (1997-2000) In Italia, l'epidemia di PSC più recente si è presentata in Lombardia, in provincia di Varese. Anche in questo caso, il focolaio primario è stato registrato in un allevamento misto di suini e cinghiali di tipo familiare. Immediatamente dopo, l'infezione si è estesa alle popolazioni di cinghiali presenti nei territori circostanti. L'area interessata dall'epizoozia, a nord della provincia di Varese, ha una estensione di 370 Kmq e per una lunghezza di 52 Km costituisce linea di confine con la Svizzera. L'intero territorio comprende quattro ambiti di caccia (ATC 1, 2, 3 e 4). Nel 1996 si stimava l'esistenza di 1200 cinghiali in tale area. Il Sanità animale 6 L’OSSERVATORIO primo cinghiale positivo virologicamente fu rinvenuto nell'ATC 2 nel maggio del 1997, in periodo di riposo venatorio. Nel corso della prima fase epidemica (maggio 97-aprile 98) furono rinvenuti 42 cinghiali virologicamente positivi e l'infezione si estese anche agli ATC 3 e 4. La malattia si propagò anche alla popolazione di suini domestici con 5 focolai. Dato l'esiguo numero di allevamenti di suini presenti nell'area (n=173), fu deciso lo stamping out di tutti i soggetti (n=993). Il piano di controllo della malattia aveva come obiettivo principale quello di rimuovere la possibilità di movimentazione e di dispersione del cinghiale al di fuori del territorio infetto attraverso il divieto della caccia. Fu comunque permessa la caccia ad altre specie con l'ausilio del cane. Durante il 1998 la malattia si è estesa anche nell'ATC 1 ed in tutta l'area infetta furono ritrovati 27 cinghiali morti virologicamente positivi. La caccia fu consentita nuovamente a partire dal dicembre 1998 nella intera zona infetta, con l'obiettivo di monitorare la diffusione della infezione sia dal punto di vista sierologico che virologico e per abbattere in modo mirato i giovani cinghiali, maggiormente suscettibili all'infezione. I risultati riferiti alla stagione venatoria, accertarono la presenza del virus in 90 dei 664 soggetti esaminati. La sieroprevalenza osservata fu del 55%. Nel seguente periodo di silenzio venatorio (marzonovembre 1999), nell'ambito della sorveglianza eseguita dalle guardie forestali, su 136 cinghiali abbattuti e/o trovati morti, 2 furono trovati virologicamente positivi nell'ATC 2, mentre la sieroprevalenza si attestava intorno al 50%. Nella successiva stagione venatoria (novembre 1999febbraio 2000), 3 cinghiali al di sotto dell'anno di età furono trovati virologicamente positivi su un totale di 751 esaminati; i soggetti positivi furono rinvenuti in un area dell'ATC 2 corrispondente a quella da cui era partita l'epizoozia nel 1997. La sieroprevalenza globale diminuì al 43,7% con un 70% circa di popolazione adulta immunologicamente coperta. Nel periodo di silenzio venatorio (marzo-novembre 2000), di 244 cinghiali esaminati, 5 furono trovati virologicamente positivi nell'ATC 2. La sieroprevalenza globale diminuì al 24,8% con un 37% di popolazione adulta immunologicamente coperta. Negli anni successivi non vennero più rinvenuti cinghiali virologicamente positivi e la sieroprevalenza scese progressivamente fino ad azzerarsi nel 2003. La PSC in Sardegna (1984-2001) La PSC è riapparsa in Sardegna nel 1983 e da allora è stata ininterrottamente presente in forma endemica fino al 2003, anno in cui si è registrato l'ultimo focolaio nel suino domestico. Nel cinghiale la prima positività per PSC risale al 1984. Da allora un numero imprecisato di casi è stato riscontrato ogni anno fino al 2001, e da tale data non ne vengono più segnalati. Si rilevano invece modeste percentuali di sieropositività con un trend decisamente in calo, se riferito agli ultimi quattro anni (da 7,75% nella stagione 2000/01 a 2,41% nella stagione 2003/04). Attualmente è ancora presente la peste suina africana (PSA) in forma endemica anche se, nei cinghiali, in misura molto limitata rispetto al domestico. Si ritiene infatti che il cinghiale giochi un ruolo meno determinante nel mantenimento della PSA. Per quanto riguarda le misure intraprese, il perdurare nel corso degli anni di una situazione di endemicità per PSC, ha indotto ad indirizzare la maggior parte degli sforzi verso il suino domestico. Nei vari piani di eradicazione per PSC che si sono susseguiti dal 1993, non era contenuta, di fatto, nessuna misura vera e propria che riguardasse i cinghiali se si eccettuano azioni di sorveglianza basate esclusivamente sul controllo sierologico e virologico dei soggetti cacciati. E tuttavia, l'analisi della dinamica delle popolazioni e le informazioni sull'andamento della sieroprevalenza nel corso degli anni nei territori in cui la malattia è stata presente, hanno consentito la definizione dei principali fattori di rischio legati all'introduzione e alla diffusione della PSC nei cinghiali dell'isola. Tali fattori possono così essere schematizzati: - La densità di popolazione, che tende a rimanere costantemente elevata per le caratteristiche geofisiche e vegetative di gran parte della Sardegna decisamente favorevoli al mantenimento di consistenti gruppi di metapopolazioni di cinghiali. Lo LA PSC IN PROVINCIA DI VARESE (‘97-‘00) Superficie 370 kmq Popolazione stimata 1200 capi Presenza del virus 4 anni Presenza di anticorpi 7 anni L’OSSERVATORIO 7 Sanità animale stesso prelievo venatorio, che si stima determini una sottrazione di capi di circa il 45%, non interferisce di per sé in maniera significativa sulla consistenza delle popolazioni nel tempo. - La pratica dell'allevamento brado del suino, che ancora rappresenta per la Sardegna una forma di zooeconomia irrinunciabile, per ragioni di natura socioeconomica è, purtroppo, di difficile regolamentazione. Con il risultato che, nella maggior parte dei casi, questi allevamenti si configurano come illegali. L'entità di tale fenomeno non è facilmente quantificabile. In ogni caso, condividendo il suino brado lo stesso habitat del cinghiale, non fa che gioca senza dubbio un ruolo decisivo l'efficacia delle strategie di controllo/eradicazione di volta in volta adottate. Si è molto dibattuto, inoltre, anche sulla opportunità di ricorrere a strategie di controllo di tipo “indiretto”, basate cioè sulla vaccinazione. A questo proposito, numerosi sono stati i tentativi effettuati in varie parti d'Europa principalmente mediante l'impiego di esche contenenti dosi di vaccino vivo attenuato e distribuite in vario modo, con l'intento principale di favorire l'instaurarsi di elevati livelli di protezione in special modo negli animali giovani (al di sotto di un anno), che rappresentano i soggetti maggiormente suscettibili all'infezione. I risultati ottenuti non sono stati però molto incoraggianti, poiché i tassi di sieroconversione ottenuti in questa categoria di soggetti si sono rivelati inadeguati. Le misure di lotta “diretta”, basate cioè su strategie che agiscono direttamente sulla popolazione ospite, vengono adottate con lo scopo di raggiungere quella che tecnicamente viene definita come “densità soglia di estinzione dell'infezione”. In altre parole, una densità di popolazione tale che un animale infetto abbia probabilità vicine allo zero di contattare un animale recettivo. Sono queste, di fatto, le strategie comunemente più seguite e per le quali si rende necessario un lavoro di equipe. E' evidente infatti, come l'impostazione di corrette strategie di controllo, implichi conoscenze appropriate di gestione faunistica, di dinamica delle popolazioni, del contesto ambientale, di epidemiologia oltre, naturalmente, ad una approfondita conoscenza della malattia. LA PSC IN SARDEGNA (1984-2001) Superficie > 24.000 kmq Popolazione stimata > 70.000 capi Presenza del virus 17 anni Presenza di anticorpi ? incrementare il numero di animali recettivi al virus e potenzialmente in grado di veicolare l'infezione. - Anche l'uomo rappresenta un fattore di rischio in quanto, nelle sue diverse forme di attività, influisce in maniera considerevole nell'attivazione di focolai di malattia sia nel domestico che nel selvatico. Si pensi, ad esempio, alla figura del cacciatore ed alla pratica, consolidata in tutta la Regione, di eviscerare i capi abbattuti in loco con l'abbandono dell'intero pacchetto addominale sul posto. - Si deve infine considerare anche il clima. Spesso infatti, a causa dei prolungati periodi di siccità, il cinghiale è spinto a forti spostamenti per la ricerca di alimento e di acqua. Ciò rende più facile il contatto tra soggetti appartenenti a metapopolazioni diverse. Centro di Referenza Nazionale per le Pesti Suine Istituto Zooprofilattico Sperimentale dell'Umbria e delle Marche, Perugia Conclusioni Il ruolo del cinghiale nella persistenza e nella diffusione del virus PSC ha assunto in questi ultimi anni un'importanza crescente non solo in Italia, ma anche in numerosi altri Paesi dell'Unione Europea. La malattia nei selvatici, originariamente ritenuta “self limiting”, cioè autoestinguente, si è rivelata al contrario, almeno in certe situazioni, di lunga durata nel tempo. Si è perfino invocato per il cinghiale il ruolo di reservoir per il virus PSC anche se, secondo le attuali vedute, non sembrano esserci elementi a supporto di tale ipotesi. Come si è visto negli episodi occorsi in Italia, l'evoluzione dell'infezione nei selvatici può assumere connotati piuttosto diversi in dipendenza di complessi e variegati fattori tra i quali, Sanità animale 8 L’OSSERVATORIO Diarrea Virale Bovina - Malattia delle Mucose: stato dell’arte 2ª parte C. Nassuato1 Controllo ed eradicazione Prima di attuare un qualsivoglia piano è essenziale conoscere la situazione epidemiologica e la densità di capi bovini del territorio. Nei paesi scandinavi, indagini di prevalenza hanno evidenziato che le regioni meridionali, con elevata densità di capi bovini e con allevamenti mediamente più grandi, erano caratterizzate da una prevalenza più elevata rispetto alle regioni settentrionali, in cui c'è una minor densità di allevamenti di dimensioni inferiori. Anche in uno studio spagnolo è stata riscontrata una correlazione positiva tra siero prevalenza e densità di popolazione bovina. In generale, quindi, in zone ad elevata densità, ci si aspetta una elevata presenza del virus e ci si può ragionevolmente attendere un impiego diffuso della vaccinazione, allo scopo di contenere i danni economici della malattia, mentre in aree a bassa densità, ci si aspetta di osservare valori contenuti di siero prevalenza, che non danno luogo ad un impiego sistematico della vaccinazione. Ne consegue che, in aree a bassa densità, è plausibile intraprendere un piano di eradicazione della malattia, mentre in regioni con valori elevati di siero prevalenza è opportuno mirare al controllo della malattia. Oltre alla conoscenza delle caratteristiche dell'allevamento bovino e della prevalenza di BVD, è necessario, ai fini del controllo, comprendere meglio l'epidemiologia di BVDv. Pertanto, a questo scopo, andrebbero condotti studi finalizzati ad identificare i ceppi circolanti sul territorio, anche per studiarne le caratteristiche antigeniche a scopo vaccinale. In Italia, in uno studio del 2001, sono stati tipizzati 26 ceppi di campo, raccolti tra il 1995 ed il 2000. Mediante confronto del 5'-UTR degli isolati è stato possibile attribuirne alcuni al genotipo I ed altri al genotipo II. I ceppi BVD I presentavano un quadro di elevata diversità genetica, analogo a quelli documentati in Germania ed in Belgio. Il genotipo II rappresenta il primo isolamento italiano e lo studio dei ceppi ha evidenziato affinità, da un punto di vista di identità e di omologia di sequenza, con un ceppo tedesco ed un ceppo giapponese. In Europa sono presenti sia il genotipo I sia il genotipo II del BVDv e questo è importante da tenere a mente quando si decide di intraprendere un piano di L’OSSERVATORIO eradicazione, poiché i tests diagnostici devono essere capaci di identificarli entrambi. Esiste una grande variabilità genetica anche all'interno dello stesso gruppo BVD I ed è auspicabile l'uso combinato di test differenti, capaci di riconoscere anche queste differenze antigeniche, per aumentare la sensibilità diagnostica. Dal momento che, ai fini dell'applicazione di un piano di controllo o di eradicazione, l'allevamento costituisce l'unità epidemiologica di interesse, il primo passo in entrambi i casi è identificare gli allevamenti con animali PI. La distinzione tra allevamenti con PI e allevamenti senza PI può essere effettuata avvalendosi o di test per la ricerca di anticorpi per BVDv condotti su latte di massa, oppure di test su campioni di siero, prelevati in modo mirato su un gruppo definito di animali giovani compresi tra gli 8 e i 12 mesi di età, esaminati singolarmente o in pool ('spot test'). In allevamenti da latte non sottoposti a vaccinazione, è possibile effettuare un test ELISA per la ricerca di anticorpi nel latte di massa. Il principale vantaggio di questo tipo di analisi è di natura economica e di praticità di prelievo. Il limite maggiore sta invece nel fatto che, dal momento che non tutti i soggetti PI sono in lattazione, uno screening effettuato con queste modalità non è in grado di indicare se nell'intero allevamento vi siano soggetti PI oppure no, ma solo di riscontrare eventuali rialzi dei titoli anticorpali nel latte. E' vero tuttavia che, in genere, riscontri di negatività o bassi titoli di positività, possono essere interpretati come indicativi di allevamenti in cui il virus non è presente almeno dal tempo della nascita degli animali testati. Un altro limite sta nel fatto che sono test validi solo in caso di allevamenti non sottoposti a vaccinazione per BVDv, a meno di utilizzare test ELISA specifici per il rilevamento di anticorpi diretti verso la proteina NS3. In caso di allevamenti con infezione in corso, in genere, l'esame su latte di massa porta al riscontro di valori elevati. Purtroppo, però, la medesima condizione può verificarsi anche in allevamenti il cui stato sanitario sia stato risanato recentemente. In questi ultimi, i livelli anticorpali tenderanno a diminuire gradualmente nel 9 Sanità animale corso di diversi anni. Per svelare la presenza di PI in questi allevamenti sarà necessario effettuare dei controlli su latte in pool prelevato dalle primipare ed analizzare campioni di sangue prelevati, in modo mirato, da animali giovani, appartenenti a vari gruppi di età rappresentativi della futura rimonta. Su latte di massa è possibile effettuare eventualmente anche la ricerca di Dna virale sulle cellule somatiche. Il vantaggio di quest'ultimo approccio è che può trovare applicazione anche in allevamenti vaccinati. Idealmente, il materiale diagnostico migliore per rivelare allevamenti con PI sarebbe costituito da campioni di sangue individuali di tutti gli animali dell'allevamento, esclusi i vitelli di età inferiore ai sei mesi. Un criterio riconosciuto per la diagnosi di PI è l'isolamento ripetuto del virus, a distanza di tre-quattro settimane, da animali siero negativi. La sieronegatività dei soggetti PI però in questo caso deve essere ottenuta con test per la ricerca di anticorpi anti NS3/2-3, dal momento che, come già si è accennato, alcuni epitopi di questa proteina sono comuni a tutti i ceppi. Sarà, comunque, già suggestivo di presenza di infezione persistente, il riscontro di un soggetto siero negativo viremico all'interno di un allevamento dove si sia riscontrata, mediante prelievo effettuato in contemporanea, siero positività con titoli anticorpali elevati in tutti gli altri soggetti. In ogni caso, ai fini della distinzione tra allevamenti infetti e allevamenti non infetti, nel caso di allevamenti strutturati in più unità produttive separate, è necessario che il prelievo del materiale da sottoporre ad esame venga effettuato in ciascuna delle unità produttive. svelare la presenza di una singola positività in un allevamento di 250-500 vacche da latte. Quando si vuole verificare che tutti i soggetti PI sono stati eliminati, l'approccio più opportuno è quello di effettuare analisi su campioni individuali di sangue di animali di età compresa tra gli 8 e i 12 mesi di età. La certificazione degli allevamenti indenni non rappresenta una fase obbligatoria. Tuttavia, dal momento che, di norma, gli animali certificati indenni acquistano valore sul mercato, nell'ambito di piani ad adesione volontaria essa rappresenta un ottimo incentivo per gli allevatori a sottoscrivere il piano. La fase di 'auto-clearance' consiste nel naturale esaurirsi dell'infezione in allevamenti in cui siano stati rimossi tutti i soggetti PI e siano state efficacemente applicate tutte le misure atte a prevenire sia nuove introduzioni di soggetti PI, sia l'esposizione all'infezione di vacche suscettibili nel primo trimestre di gravidanza. Tra queste misure vi sono l'applicazione della quarantena agli animali di nuova introduzione, compresi i tori, con effettuazione di test atti ad individuare soprattutto le infezioni persistenti, ma anche diffusori transitori; l'allevamento separato dei vitelli; la riduzione ai minimi termini della partecipazione a mostre e fiere ed a tutte le altre eventuali condizioni che favoriscono situazioni di promiscuità, come il pascolo. Sono diverse le esperienze di campo che confermano questo naturale scemare dell'infezione in allevamenti privi di PI ed in condizioni ottimali di biosicurezza soprattutto in allevamenti di dimensioni ridotte. Controllo I piani di controllo sono attuati in zone ad alta densità di popolazione bovina, con una prevalenza elevata dell'infezione. Essi prevedono, contestualmente all'applicazione delle misure previste dai piani di eradicazione, finalizzate a minimizzare le possibilità di trasmissione del virus, l'esecuzione della vaccinazione. La profilassi vaccinale limita i danni economici determinati dalla BVD e tende a prevenire la trasmissione transplacentare e la conseguente nascita di soggetti PI. I piani di controllo hanno l'obiettivo di ridurre progressivamente la diffusione del virus sino a rendere praticabile un piano di eradicazione. D'altra parte, la pratica vaccinale non sempre ha risvolti confortanti sul campo. La prevenzione della trasmissione verticale dell'infezione, ad esempio, è risultata efficace solo in caso di vaccinazione con ceppo omologo, effettuata prima della fecondazione. Nonostante i ceppi di BVDv siano in grado di dare protezione crociata verso ceppi eterologhi, è da sottolineare che, all'interno del genotipo, questo non sembra vero. Vaccini verso il genotipo I, infatti, non sarebbero in grado di fornire protezione verso il genotipo II e viceversa. Per quanto concerne i vaccini vivi, esperienze di Eradicazione Un piano di eradicazione deve essere basato sulla identificazione e rimozione di soggetti PI allo scopo di prevenire la trasmissione verticale, interrompendo il ciclo dell'esposizione di animali gravidi nei primi 120150 giorni di gestazione. Uno schema generale per l'eradicazione della BVD da una popolazione di allevamenti include tre fasi: la prima, come si è detto, consiste nella distinzione della popolazione tra allevamenti infetti e allevamenti non infetti; la seconda nel monitoraggio, anche a fini di certificazione, degli allevamenti non infetti. La terza, infine, consta della cosiddetta 'auto clearance' del virus dagli allevamenti. Riguardo la prima fase si è già discusso diffusamente. La fase di sorveglianza negli allevamenti indenni può essere condotta con l'applicazione del test ELISA su latte di massa. Questo tipo di analisi è il più indicato per la sua elevata sensibilità e consente di rilevare la presenza di infezione in allevamenti anche in stadi molto precoci, addirittura prima della nascita di soggetti PI. E', infatti, sensibile anche a rialzi molto contenuti dei titoli anticorpali. Ad esempio, riesce a Sanità animale 10 L’OSSERVATORIO campo hanno dimostrato la possibilità di trasmissione transplacentare del ceppo vaccinale, con conseguente nascita di soggetti PI. Inoltre, con l'uso di vaccini composti da diversi ceppi, anche citopatici, si sono osservati casi di malattia acuta, dovuti a sovra infezione da ceppo vaccinale cp su ceppo di campo ncp. E' evidente che, in questi casi, l'impiego del vaccino è del tutto controproducente. I vaccini esistenti per BVD possono essere attenuati, spenti e mutanti temperatura-sensibili. Sono in fase di sperimentazione vaccini di nuova generazione quali quelli a subunità, a Dna e vaccini ricombinanti, che potrebbero costituire una risposta adeguata alle necessità di controllo della BVD. Questi vaccini di nuova concezione, infatti, non sono costituiti da virus intero, ma da subunità o da porzioni di genoma del virus e pertanto potrebbero unire la sicurezza di impiego all'efficacia nell'indurre l'immunità protettiva. Inoltre, non recando proteine strutturali, potrebbero essere impiegati come vaccini 'marker', consentendo la distinzione tra animali naturalmente infetti ed animali vaccinati. Sarebbe, ad esempio, sufficiente impiegare i test ELISA, già disponibili sul mercato, per la ricerca di anticorpi verso la proteina NS2/3. sangue di un campione di animali giovani. Lo scopo era di individuare gli allevamenti con un'infezione in atto. La terza fase ha comportato, inizialmente, l'esame di tutti gli animali presenti in allevamento, per poi passare al monitoraggio nei vitelli che raggiungevano l'età minima per essere controllati. Infine, dopo la rimozione di tutti i soggetti PI, è stato previsto un sistema di sorveglianza per verificare la condizione di indennità, ai fini della certificazione. In Svezia il piano di eradicazione è iniziato nel 1993 per adesione volontaria. L'anno successivo, circa 6.000 su 15.000 allevamenti da latte avevano aderito al piano. Nel 1998 tutti gli allevamenti da latte avevano aderito ed il 67% di questi fu certificato come allevamento indenne da BVD. Il numero medio di animali presenti in allevamento a metà degli anni '90 era alquanto ridotto, variando tra le 10 e le 28 vacche. Negli allevamenti da carne il piano ha stentato a decollare ma, nonostante nel 1998 vi fosse solo il 36% di adesioni, nel 2002 si era raggiunto il 99%. Nel 2002 gli allevamenti da latte certificati come indenni da BVD erano il 93%, l'88% quelli da carne. Nel giugno 2002 le Autorità svedesi resero obbligatoria l'adesione al piano. A maggio 2004 il 96% degli allevamenti aveva ottenuto la certificazione di indennità ed un 1,2% era in fase di auto clearance. Il restante 2,8% era costituito da allevamenti recentemente risanati in attesa di certificazione. E' una situazione che lascia ben sperare per l'eradicazione in un futuro molto prossimo. In Norvegia nel dicembre 1992 è partito un programma finalizzato, dapprima, al solo contenimento della diffusione del virus ed in uno stadio successivo, all'eradicazione della malattia. In questo Paese, poco dopo l'avvio del piano, le Autorità inclusero la BVD nell'elenco delle malattie soggette a denuncia. Questa decisione comportò la possibilità di applicare delle restrizioni delle movimentazioni in caso di animali provenienti da allevamenti infetti. In questo modo il servizio veterinario fu responsabile dell'osservanza di diverse misure, finalizzate a ridurre il rischio di circolazione di animali infetti o persistentemente infetti. Dopo un primo screening effettuato su latte di massa o con spot test negli allevamenti da carne, si identificavano gli allevamenti positivi da sottoporre ad ulteriori controlli mediante test su latte delle primipare e su campioni di sangue prelevati da animali giovani. Gli allevamenti positivi anche a questo test erano considerati infetti e sottoposti a restrizioni delle movimentazioni. Per l'identificazione dei soggetti PI era previsto un esame del sangue con ricerca anticorpale seguito, negli individui siero negativi, dalla ricerca di antigeni del virus BVD. La movimentazione era permessa dopo due test consecutivi negativi, effettuati a distanza di quattro mesi. Anche in questo Paese si è verificato un progressivo declino del numero di allevamenti infetti. Esperienze a livello europeo I Paesi scandinavi Studi di prevalenza a livello di allevamento risalenti agli anni '90, hanno rilevato, negli allevamenti da latte, valori prossimi al 100% di siero prevalenza per BVD in Danimarca, mentre valori relativamente più bassi sono stati riscontrati in Svezia (40%), in Norvegia (2530%), fino all'1% in Finlandia. In Svezia ed in Norvegia la prevalenza variava a seconda delle zone, con valori variabili dal 56 al 76% nelle zone meridionali e valori dal 4 al 21% nelle aree settentrionali. In questi Paesi, nonostante questi riscontri relativamente alti di siero prevalenza, non è mai stato autorizzato l'impiego di vaccini per contrastare la BVD. Nonostante le difformità dell'allevamento bovino nei diversi paesi scandinavi, i piani di eradicazione attuati condividono alcune linee di azione fondamentali. Nella prima fase, i piani sono stati mirati allo screening degli allevamenti presenti sull'intero territorio nazionale al fine di identificare quelli indenni per tutelarli, rafforzando le misure di biosicurezza contro il potenziale ingresso del virus. La fase di screening di ricerca di anticorpi verso BVDv si è basata sulla raccolta di campioni di latte di massa o su un campionamento di sangue individuale, rappresentativo della composizione dell'allevamento. Nella seconda fase, accanto alla sorveglianza degli allevamenti indenni, si sono ricontrollati quelli positivi allo screening, tramite l'uso del test ELISA per la ricerca di anticorpi nel latte delle primipare e sul L’OSSERVATORIO 11 Sanità animale Nel 2004 esistevano soltanto tre allevamenti ancora soggetti a restrizioni di movimentazione degli animali. La Finlandia cominciò a testare nel 1993 tutti gli allevamenti da latte ed una parte di quelli da carne per presenza di anticorpi vs BVDv. Nel 1994 partì un piano di controllo ed eradicazione su adesione volontaria. In questo Paese la tipologia degli allevamenti è simile a quella norvegese con una maggioranza di allevamenti da latte di ridotte dimensioni, in cui la siero prevalenza per BVD era contenuta e la vaccinazione non era attuata. Tra il 1994 ed il 1997 la prevalenza di allevamenti infetti diminuì dall'1% allo 0,4% negli allevamenti da latte e dal 30% al 3,2% in quelli da carne. I titoli anticorpali rilevati dal test su latte di massa sono in costante declino e sembrano evidenziare il processo di auto-clearance dal virus. In Danimarca, dove la densità di allevamenti è maggiore rispetto a Norvegia e Svezia, come pure la dimensione media degli allevamenti, in una prima fase furono eseguiti dei piani pilota allo scopo di verificare in campo le performances dei test ELISA per la ricerca virale, sviluppati nei laboratori nazionali con isolati nazionali. Nel 1994, dopo l'esito assai incoraggiante dei piani pilota, prese l'avvio un programma di controllo a livello nazionale. Il programma, benché su adesione volontaria, sin dal 1996 fu supportato dalla legislazione, che vietava il trasporto di animali potenzialmente viremici. Gli allevamenti vennero distinti in allevamenti indenni, allevamenti con PI e allevamenti con stato sanitario ignoto. Nel 1999 il 9% degli allevamenti da latte ed il 5% di quelli da carne aveva soggetti PI. risulta che siano in atto piani di controllo della malattia su scala nazionale, mentre è noto che è autorizzato l'uso di vaccini inattivati per BVD. Un piano di eradicazione in assenza di vaccinazione ha invece interessato le sole isole Shetland nel periodo 19941997. Il piano si avvaleva di test ELISA per la ricerca anticorpale e per la ricerca di antigeni su leucociti del sangue periferico ed imponeva il controllo degli animali in ingresso e di tutto il bestiame, destinato alla riproduzione, di età superiore ai quattro mesi. Vitelli nati da bovine acquistate dovevano essere sottoposti ad esame prima di prendere il colostro o, mantenuti in isolamento, dopo i quattro mesi di età. In caso di positività per anticorpi allo screening iniziale, gli animali andavano riesaminati mediante test per la ricerca dell'antigene dopo tre settimane. Animali riscontrati nuovamente positivi, considerati PI, venivano abbattuti. Tutti i vitelli allevati in aziende con siero positività venivano controllati dopo il raggiungimento del quarto mese di età, così come gli animali siero negativi allevati in aziende con un discreto numero di soggetti siero positivi. Lo screening iniziale rilevò un 43% di allevamenti indenni ed una minoranza di allevamenti con PI tra gli allevamenti infetti. Nel 1997 la malattia risultava eradicata, il piano ebbe fine e ad esso fece seguito una sorveglianza che, nel maggio 1998, consentì di circoscrivere un episodio di infezione, originato dall'introduzione di capi. In Grecia è in atto un programma volontario di eradicazione, mediante identificazione ed eliminazione di soggetti PI, che, ad oggi, interessa circa 32 allevamenti da latte. Il piano prevede la raccolta di campioni di sangue da tutti i capi per ricerca di antigeni mediante ELISA ed in caso di positività a due controlli effettuati a distanza di tre settimane, i soggetti positivi, considerati PI, vengono eliminati. Altri paesi europei Il più grande piano di eradicazione attuato nell'Europa continentale è stato condotto su allevamenti da latte nelle regioni meridionali dell'Austria nel 1997. Si è trattato di un piano su adesione volontaria. Grazie al fatto che in questo Paese non viene praticata la vaccinazione, la sorveglianza e il monitoraggio su infezioni in atto sono state effettuate mediante test ELISA per ricerca di anticorpi su latte di massa. In allevamenti considerati positivi, venivano poi prelevati campioni di sangue individuale per condurre la ricerca di antigeni mediante metodica ELISA, seguita da rt-PCR come esame di conferma. Gli animali PI venivano quindi eliminati. Le Autorità austriache parrebbero intenzionate, in un prossimo futuro, ad implementare una legislazione nazionale che limiti le movimentazioni animali da allevamenti di cui non sia nota la condizione per BVD. In Olanda nel 1998 ha avuto inizio un programma volontario di certificazione di indennità da BVDv, basato sull'impiego di PCR, su latte di massa e su campioni di sangue in pool, e di test ELISA, per ricerca sia di anticorpi sia di antigeni, su campioni individuali di sangue. La certificazione va poi confermata ogni due anni. In Germania l'allevamento bovino è piuttosto eterogeneo: nelle zone nord-occidentali e al sud esiste un gran numero di capi bovini concentrati in aree relativamente piccole ed una tipologia rurale di allevamento, mentre negli Stati Federali orientali ci sono grandi allevamenti da 1.000/2.000 capi. In tutte queste tre aree vi è una densità bovina elevata ed una siero prevalenza di BVDv che supera l'80%. La prevalenza di individui PI varia tra l'1 e il 2 %. Questa situazione ha comportato un approccio diverso al Nel Regno Unito (Inghilterra e Galles) sono state condotte alcune indagini che hanno consentito di rilevare una siero prevalenza del 95% negli allevamenti da latte . Dalla letteratura disponibile non Sanità animale 12 L’OSSERVATORIO allevamenti era in corso la rimozione di soggetti PI. Questo piano di controllo dovrebbe portare ad una condizione di stabilità immunitaria degli allevamenti tale da ridurre la circolazione e la presenza del virus e, pertanto, da consentire la successiva applicazione di un piano di eradicazione. E' nelle intenzioni del governo tedesco di intraprendere un piano di controllo ed eradicazione per BVD a livello nazionale ed a tal fine è stato istituito un laboratorio diagnostico di referenza nazionale. In Belgio, dove la siero prevalenza di BVDv negli animali è pari a circa il 65%, è in atto un piano volontario di controllo basato sulla vaccinazione delle vacche prima della fecondazione e sull'identificazione e l'eliminazione di animali PI. L'identificazione dei PI viene effettuata mediante l'impiego di PCR, su campioni di sangue o di latte in pool, e di ELISA per ricerca dell'antigene su sangue individuale, per la conferma di positività. In Francia, dall'iniziativa dell'Unione Bretone di difesa sanitaria, nel 1986 nacque un programma volto al controllo della BVD nei soli allevamenti della Bretagna con manifestazioni cliniche. In breve tempo furono però gli stessi allevatori a rendersi conto dei limiti di un simile approccio. Pertanto, venne attuato uno studio preliminare atto a verificare la possibilità di impiego di un test ELISA per ricerca di anticorpi in campioni di latte di massa, al fine di stabilire la prevalenza intra-allevamento di BVDv. A tale studio, seguì l'attuazione di un vero e proprio piano basato sull'identificazione di soggetti PI tra animali sottoposti a movimentazione sia per pascolo sia per commercializzazione. L'identificazione dei PI venne effettuata mediante test ELISA su campioni di latte delle primipare seguito, in caso di positività, da ricerca del genoma virale con PCR su latte di cisterna. In caso di ulteriore positività venivano quindi prelevati campioni individuali di sangue da esaminare per ricerca sia di anticorpi sia di virus. I soggetti PI venivano eliminati entro un mese dal riscontro. Queste indagini si fermavano in caso di tre riscontri negativi consecutivi. Nel febbraio 2001 la percentuale degli allevamenti con siero conversione si attestava sull'1,2 %; nel febbraio 2004 sullo 0,5%. Ad oggi il 40% degli allevamenti ha qualifica di allevamento 'non-PI'. In Italia non esiste alcun piano di controllo e non è nota neppure la prevalenza di BVD. Diversi studi, condotti su realtà limitate, hanno riportato dati di prevalenza elevata. Uno studio trasversale condotto in Piemonte, in Campania e nella provincia di Ragusa, ha rilevato valori di prevalenza tra gli allevamenti non soggetti a vaccinazione, pari, rispettivamente al 78%, al 76,1% ed al 98%. La siero prevalenza intra-allevamento è risultata del 31% in Campania, del 36,1% in Piemonte e del 76,1% in Sicilia. La vaccinazione interessava il 35% degli allevamenti campionati in Piemonte, il 27% di quelli siciliani ed il 5% dei campani ed era praticata problema rispetto al modello dei Paesi Scandinavi. Nel 2002 ha avuto inizio in bassa Sassonia un piano di controllo ad adesione volontaria, divenuto obbligatorio nel 2004, i cui punti fondamentali consistono nell'identificazione e rimozione di individui PI, nella vaccinazione sistematica della prole femminile destinata alla rimonta e nella attuazione di misure igieniche atte a prevenire la re-introduzione dell'infezione. Lo scopo del piano è di ottenere allevamenti stabili dal punto di vista della protezione immunitaria. Nel dettaglio, il piano prevede, come primo passo, che tutti gli animali di età inferiore a 3 anni vengano sistematicamente esaminati mediante test ELISA per identificare gli antigeni del BVDv. Gli animali positivi al test devono essere ritestati dopo 14 giorni e, in caso di ulteriore positività, devono essere eliminati entro sei settimane. Nei 12 mesi successivi alla rimozione dell'ultimo individuo PI, tutti i nuovi nati vanno esaminati per presenza di antigeni con metodica ELISA ed i positivi vanno eliminati. Tutte le manze di età superiore ai sei mesi devono essere vaccinate. In allevamenti nei quali questi interventi siano già stati effettuati e che pertanto sono identificati come allevamenti non sospetti di infezione, vanno attuate misure di prevenzione che includono l'esame, mediante ELISA per ricerca di antigeni, di vitelli nati entro i 12 mesi successivi alla rimozione dell'ultimo individuo PI, la vaccinazione sistematica e l'introduzione solo di individui provenienti da aziende ufficialmente indenni da BVDv. La vaccinazione viene effettuata al duplice scopo di contenere il danno economico e di prevenire l'infezione intrauterina e quindi la nascita di soggetti PI. A questo scopo, è stato pensata una procedura twostep, che prevede un primo intervento con vaccino spento ed un secondo intervento di richiamo con vaccino vivo modificato. Ciò consente di ottenere un ottimo livello di protezione fornita da anticorpi neutralizzanti, evitando, nel contempo, che si verifichi la trasmissione transplacentare del vaccino vivo. I vaccini da impiegare sono stati scelti per la loro capacità di fornire una protezione ad ampio spettro verso le diverse varietà antigeniche del genotipo I e del genotipo II. A maggio 2004, 394 allevamenti su 2.500 erano classificati come non infetti. In altri 1.914 L’OSSERVATORIO 13 Sanità animale per circa una metà degli allevamenti con vaccino spento, per l'altra con vaccino vivo modificato. In Umbria, un'indagine condotta su tutti gli allevamenti da latte della regione tramite l'uso di test su latte di massa, ha riscontrato una siero positività aziendale dell'11,8%. Piani di controllo sono stati condotti in provincia di Bolzano, nella provincia di Roma ed in due province del Nord Italia. Nella provincia di Bolzano, dove non era mai stato impiegato alcun vaccino per BVDv, nel 1997 è partito un piano di controllo volontario, reso obbligatorio nel 1999. Nella fase conoscitiva del piano (1997-1999), risultò siero positivo il 58,9% dei soggetti testati e 211 allevamenti sui 220 esaminati. La prevalenza dei soggetti immunotolleranti era pari all'1,1%. Il piano prevedeva l'esame virologico annuale di campioni individuali di sangue prelevati da tutti gli animali di età compresa, nel 1999-2000, tra i tre mesi e i tre anni e, nel biennio 2001-2002, tra i due mesi e i due anni di età, oltre ad esami su animali sottoposti a movimentazione per pascolo o alpeggio e su animali in ingresso acquistati fuori dalla provincia di Bolzano. Inoltre, la partecipazione ad aste effettuate sul territorio della provincia di Bolzano, condizionata a negatività ad un esame virologico effettuato 1 mese prima della manifestazione, era limitata a capi provenienti da aziende della provincia stessa. Gli esami sierologici venivano condotti mediante impiego di un test ELISA per la ricerca della proteina non strutturale Erns (gp 48). Si tratta di un test la cui sensibilità e specificità si avvicinano a quelle di un isolamento virale in coltura cellulare e che risente dell'interferenza da anticorpi materni solo limitatamente alle prime quattro settimane di vita del vitello. Soggetti riscontrati sierologicamente positivi venivano sottoposti a un riesame a distanza di almeno 30 giorni nel periodo 1999-2000 e 60 giorni nel periodo 2001-2002, per verificare il tipo di viremia transitoria o persistente. Nel caso di viremia persistente, gli animali, considerati PI, erano eliminati. In caso di bovine gravide immuno tolleranti, i nascituri venivano anch'essi destinati all'abbattimento. Era inoltre vietata la vaccinazione. Tra il 1999 ed il 2002 fu possibile osservare una progressiva riduzione della circolazione del virus nel territorio della provincia dall'1,89% allo 0,30% di positività del 2002, cui corrispose una diminuzione nelle nascite di soggetti PI dall'1,1% del 1999 allo 0,26% del 2002. Nel periodo 2001-2002 sui 9.812 allevamenti da latte dell'intera provincia, risultarono positive per presenza di soggetti PI soltanto 125 aziende. Il piano romano, ad adesione volontaria, prevedeva una fase iniziale di screening mediante impiego di un test ELISA su sieri di sangue prelevati nell'ambito del piano nazionale di eradicazione della leucosi e della brucellosi, finalizzato alla distinzione degli allevamenti in allevamenti negativi e allevamenti Sanità animale positivi. Nel caso, poi, di allevamenti negativi era previsto un esame di conferma a distanza di 1 mese. La condizione di indennità veniva verificata ogni sei mesi mediante test su latte di cisterna o su un campione random dei sieri disponibili. In caso di positività allo screening, invece, si procedeva all'esame di campioni individuale di sangue prelevati da animali di età compresa tra i 6 e i 12 mesi ai fini di una classificazione degli allevamenti in allevamenti infetti, con o senza casi recenti di infezione. In situazioni di siero positività in assenza di infezioni recenti, il piano prevedeva solo di testare gli animali che man mano raggiungevano i 6 mesi di età. Al contrario, in caso di infezioni recenti, gli animali con due positività consecutive a distanza di 30 giorni, erano considerati PI ed eliminati. Il piano, esordito nel 1997, ha riscontrato 63 allevamenti negativi su 174 (42,9%). Degli 84 allevamenti positivi, solo l'8,8% venne classificato come recentemente infetto. La prevalenza intra-allevamento risultava del 31,4%. In Italia settentrionale, le province di Lecco e Como hanno intrapreso un piano di controllo volontario sugli allevamenti da latte a partire dal 2002. A maggio 2004 aderivano al piano 84 aziende sulle 425 presenti sul territorio delle due provincie, 58 delle quali non praticavano la vaccinazione. L'esame sierologico, condotto con un campionamento in grado di rilevare una prevalenza del 10%, è stato integrato con un'indagine sui fattori di rischio per BVD. Gli allevamenti venivano suddivisi in quattro categorie: allevamenti negativi a basso rischio, negativi a rischio elevato di infezione, allevamenti positivi a basso ed elevato rischio di infezione. Allevamenti appartenenti alle prime due categorie venivano nuovamente controllati a distanza di sei e dodici mesi; gli allevamenti delle due ultime categorie erano sottoposti ad indagine per identificare soggetti PI. Negli allevamenti con infezione in atto veniva consigliata la vaccinazione con vaccino spento. Dall'analisi delle informazioni raccolte mediante questionario il commercio del bestiame risultò associato alla presenza di BVD. Nel 2002 ha visto la luce un progetto promosso dall'Unione Europea, che coinvolge veterinari specialisti di 17 Paesi Europei, che ha lo scopo di raccogliere, confrontare e condividere le esperienze di controllo della BVD fatte in Europa (per informazioni sul progetto ed aggiornamenti sulla BVD consultare il sito: http://www.bvdv-control.com/). Tra gli scopi di questo progetto c'è la valutazione degli approcci diagnostici e il confronto dei dati epidemiologici disponibili, nonché la valutazione dell'impiego di misure di immunoprofilassi e considerazioni di ordine economico. 1. Veterinario borsista Osservatorio Epidemiologico Veterinario Regionale Lombardia c/o IZSLER Brescia 14 L’OSSERVATORIO Comunicazione e formazione La sensibilità e l’attenzione dei cittadini europei nei riguardi dei “diritti degli animali” e delle condizioni in cui essi sono allevati è fortemente aumentata in questi ultimi anni. Sull’onda di questa esigenza, il legislatore europeo si è fatto carico di adottare dei provvedimenti normativi nei settori tradizionalmente ritenuti critici: l’allevamento dei suini, del vitello a carne bianca e delle galline ovaiole, il trasporto degli animali e la loro macellazione. Ogni provvedimento normativo scaturisce da un confronto tecnico e politico in sede comunitaria ed è il frutto di discussioni scientifiche prodotte nelle varie Commissioni della UE. Le ragioni tecniche sottese a detti provvedimenti purtroppo non sempre sono immediatamente percepibili dagli operatori chiamati ad applicare la norma. Inoltre, la normativa in tema di benessere animale è oggi un “corpus normativo” di notevole entità, soggetta a revisioni frequenti e non sempre ben conosciuta dagli interessati. L’Amministrazione Provinciale di Mantova, in collaborazione con l’Amministrazione del Comune di Viadana, ha ritenuto utile promuovere e sostenere un’opera di divulgazione in tema di benessere animale nelle varie fasi di filiere produttive di grande rilievo nella realtà locale. Il manuale, nato dalla collaborazione di funzionari ASL e veterinari operanti nel settore delle produzioni animali, testimonia la nuova consapevolezza dell’impegno che operatori commerciali e tecnici incaricati dei controlli dovranno profondere per essere all’altezza delle aspettative e dei compiti che la Legge affida loro. Partendo dal dettato legislativo, gli autori descrivono le motivazioni tecniche sottese alla norma e ne suggeriscono le modalità per una pratica applicazione. Si tratta di un’opera che avvicina una materia nuova e complessa ai diretti interessati e dissipa i dubbi e gli alibi di chi bolla la normativa comunitaria come avulsa dalla realtà. Il testo, arricchito da un’interessante documentazione fotografica, si propone come strumento di formazione per gli addetti del settore ma può essere di grande interesse anche per i professionisti del settore che vogliano avvicinarsi alle tematiche del benessere animale. Interessare gli operatori alle ragioni ed alle tecniche del benessere animale promuove il concreto miglioramento delle condizioni degli animali e l’instaurarsi di quel rispetto che essi meritano per il semplice fatto che sono esseri viventi. Il testo può essere richiesto gratuitamente all’Assessorato all’Ambiente della Provincia di Mantova. L’OSSERVATORIO 15 Comunicazione e Formazione Notizie da Internet Queste notizie sono tratte dalla lista elettronica di epidemiologia ProMED-mail (Http//www.healthnet.org/programs/promed.htlm) Febbre emorragica di Marburg in Angola Il virus di Marburg della famiglia Filoviridae, che include il virus di Ebola, ha un periodo d’incubazione di 5-10 giorni e provoca una malattia emorragica che esordisce con febbre, mal di testa, mialgie. Dopo circa 5 giorni può manifestarsi un rash cutaneo con nausea dolori allo stomaco, vomito, dolori al petto e all’addome e diarrea. L’evoluzione caratterizzata da emorragie interne massive e le conseguenti disfunzioni organiche portano ad esito mortale nel 25-80% dei casi. Esso è stato identificato per la prima volta nel 1967 tra laboratoristi nella città tedesca di Marburg, a contatto con scimmie. La malattia è geograficamente confinata alla parte meridionale del continente africano ed è potenzialmente epidemica, trasmissibile da uomo a uomo, spesso durante la cura dei pazienti, attraverso lo stretto contatto con i fluidi corporei (sangue, saliva, urine) di persone infette. Il più grave focolaio registrato in passato si era verificato tra il 1998 e il 2000 nella Repubblica Democratica del Congo con 149 casi di cui 123 morti. In Angola, dal 1° ottobre 2004 al 4 Aprile 2005, sono già 175 i casi di cui 155 mortali, causati da questo virus. Il 75% dei morti è rappresentato da bambini al di sotto dei 5 anni di età, ma il virus sta mietendo vittime anche tra gli adulti, tra cui 7 medici, compresa una pediatra italiana. A questo proposito, è in atto un interessante scambio di opinioni tra diversi scienziati circa le modalità di trasmissione del virus nel corso dell’attuale epidemia. Infatti, non è molto comprensibile il perché siano colpiti soprattutto i bambini al di sotto dei 5 anni, visto che la malattia si trasmette durante le cure mediche ai malati o le pratiche di sepoltura dei morti. Vi sono diverse ipotesi, fermo restando che necessitano dati più precisi in risposta alle classiche domande in focolaio “chi, dove, quando, come e perché”. Dal quadro descritto dovrebbe esserci un’altra sorgente comune di trasmissione, a meno che i casi nei bambini siano tutti correlati con una persona a contatto con malati. Oppure, i bambini sono particolarmente suscettibili per altre ragioni? Siamo di fronte a introduzioni multiple di virus da reservoir naturali, attualmente sconosciuti, o il focolaio è dovuto ad una singola fonte puntiforme di introduzione seguita da una diffusione da persona a persona? Nel focolaio del 1999-2000 nella Repubblica Democratica del Congo l’evidenza indicò introduzioni multiple nella popolazione da un reservoir collegato ad una miniera abbandonata. Tutti i tre sierotipi circolanti trovati contemporaneamente erano coinvolti nel focolaio. Le introduzioni multiple spiegavano l’elevato numero di casi riportato, a differenza di passati focolai con una sola fonte di introduzione e caratterizzati da un limitato numero di casi, causati da cicli di trasmissione da persona a persona. Dai rapporti iniziali, l’attuale focolaio sembra sovrapponibile come numero di casi a quello del Congo e se fosse dovuto a una singola fonte di introduzione con conseguente trasmissione inter-umana, come nel caso precedente, i focolai dovrebbero essere limitati. Sarebbe interessante conoscere se questa è una caratteristica del virus o se è dovuta alle condizioni sanitarie e socio-economiche dell’area interessata. La predominanza di casi in bambini sotto i 5 anni è inusuale. Nel focolaio del Congo la maggior parte dei casi erano minatori e un monitoraggio sierologico di chi aveva curato i pazienti aveva dimostrato che non vi era stata trasmissione del virus durante il focolaio. Un’indagine sierologica condotta nell’Africa Centrale aveva evidenziato il 3,2% di positività vs il virus di Marburg nella popolazione (137/4295). Non vi sono studi simili per l’Angola e da ciò si deduce che sia la prima apparizione del virus nella zona. In Congo vi fu un cluster di 6 casi in bambini con una blanda forma clinica, presumibilmente contratta con l’allattamento al seno. In Angola non conosciamo ancora la suddivisone dei casi per età vera e vi potrebbe essere una significativa proporzione di casi lievi non evidenziati prima della notifica del focolaio. Un’altra spiegazione è che l’immunità pre-esistente nella popolazione più vecchia lascerebbe scoperta la popolazione più giovane. La terza spiegazione è che vi sia un’esposizione comune in giovane età che è sottoposta a più alto rischio; tale ipotesi è meno probabile, perché i bambini tendono a stare nel loro nucleo familiare e a non aggregarsi in gruppi prescolastici. L’OSSERVATORIO