Liceo T.L.Caro, Cittadella (PD) 23 gennaio 2012 Corso di Formazione “Didattica delle Lingue e Linguistica Formale” Renato Oniga – Nicoletta Penello Il nuovo paradigma scientifico e didattico della grammatica neo-comparativa Alcuni orientamenti della ricerca linguistica hanno prodotto, negli ultimi decenni, la nascita di un nuovo paradigma scientifico, che Liliane Haegeman ha chiamato suggestivamente “la nuova sintassi comparativa”1. Rispetto alla grammatica comparativa tradizionale, notoriamente orientata in direzione diacronica, e cioè volta a comparare le lingue per ricostruire la storia delle famiglie linguistiche, in particolare nel settore indoeuropeo, la nuova sintassi e più in generale la nuova grammatica comparativa è orientata in direzione sincronica, e cioè compara le lingue, non necessariamente solo all’interno della famiglia indoeuropea, per ricostruire il nucleo comune a tutte le lingue, la cosiddetta Grammatica Universale, cioè il sistema di costanti e di variabili che sta alla base della grammatica di ogni lingua 2. Di fronte a questo nuovo orientamento della ricerca linguistica, che può piacere o non piacere, ma ormai è un dato di fatto assodato da diversi decenni, a partire dagli studi di Noam Chomsky, ritengo che anche lo studioso di lingue antiche sia chiamato ad interrogarsi, che egli debba cioè, ancora una volta, prendere nella dovuta considerazione quella che a suo tempo Germano Proverbio ha chiamato “la sfida linguistica”3. Personalmente, sono convinto che il metodo neo-comparativo abbia in sé le potenzialità per rinnovare e migliorare decisamente l’insegnamento delle lingue classiche, in maniera analoga a come il metodo comparativo classico ha prodotto un certo rinnovamento rispetto all’insegnamento grammaticale dei secoli precedenti. Naturalmente, siamo ancora agli inizi di questo processo, e il mio tentativo si può considerare finora unico a livello internazionale, ma sono sicuro che ben presto altri seguiranno4. C’è infatti una motivazione di fondo, a favore alla mia proposta di rinnovamento della didattica delle lingue classiche in prospettiva neo-comparativa, sulla quale vale la pena di soffermarsi un attimo. Nella linguistica contemporanea, al di là delle controversie tra le diverse scuole di pensiero, c’è infatti ormai, almeno a partire da Saussure, un certo accordo sul fatto che la grammatica può essere considerata a buon diritto come una disciplina scientifica, in cui è possibile fare ricerca, correggere vecchi errori e giungere a nuove scoperte. La comparazione non è 1 L. Haegeman, The New Comparative Syntax, London 1997. K.É. Kiss (ed.), Universal Grammar in the reconstruction of ancient languages, Berlin – New York 2005. 3 G. Proverbio, La sfida linguistica, Torino 0000, 4 Si vedano ad esempio i numerosi contributi raccolti in Oniga – Zennaro (2006) e Oniga – Iovino – Giusti (2011). 2 un’opinione, o è giusta o è sbagliata. Ciò conferisce un valore scientifico intrinseco alla ricerca linguistica, che si presenta oggi come un settore in continuo progresso. Credo che non ci possa essere dubbio sul fatto che lo studio di una scienza è in grado di attivare la curiosità per la scoperta e stimolare le migliori facoltà intellettuali degli studenti. Al contrario, se l’insegnamento delle lingue antiche continuerà ad essere proposto secondo la vecchia prospettiva scolastica, che considera questa disciplina come un’attività puramente strumentale, priva di contenuti scientifici interessanti, la reazione degli studenti, e oggi anche quella di un numero crescente di personaggi capaci di orientare la cosiddetta opinione pubblica, non potrà che continuare ad essere quella che è stata efficacemente riassunta, qualche decennio fa, dallo scrittore austriaco Thomas Bernhard nella propria autobiografia, dove egli individua precisamente l’origine del proprio rifiuto degli studi ginnasiali nella convinzione che la materia di studio rappresentasse “il semplice sottoprodotto di un materiale scientifico stantio ormai da secoli”5. Se l’insegnamento scolastico delle lingue antiche continuerà semplicemente ad ignorare tutto ciò che è stato prodotto dalla ricerca scientifica sulle lingue nell’ultimo secolo, non si potrà certamente dare torto a questo giudizio impietoso. La dignità scientifica della materia insegnata è un pre-requisito necessario, se si vuole difendere il valore formativo di un insegnamento. Applicare allo studio delle lingue classiche la prospettiva neo-comparativa significa proporre agli studenti una materia valida per la formazione di una cultura linguistica di base, destinata ad arricchire in modo permanente la personalità dell’alunno. Apprendere i primi rudimenti di una scienza viva e in pieno sviluppo sarà un’esperienza intellettuale utile, sia a chi continuerà poi lo studio del latino all’università, sia a chi si fermerà al livello liceale, non diversamente da come lo studio della matematica sarà senza dubbio formativa non solo per coloro che continueranno lo studio della disciplina ad un livello superiore. Il mio progetto didattico nasce dunque da un’esigenza scientifica e offre una via più aggiornata per tornare allo studio della grammatica delle lingue antiche. Naturalmente, ci si potrebbe giustamente chiedere perché mai questo studio neocomparativo debba essere applicato proprio alle lingue classiche, e non sia sufficiente limitarsi alle lingue moderne. In realtà, l’obiezione andrebbe rovesciata, nel senso che, se questa metodologia si è dimostrata valida per le lingue moderne, vale la pena di domandarsi se essa possa essere utile anche alle lingue classiche. Nel caso che la risposta a questa domanda possa essere affermativa, avremmo raggiunto il risultato di riuscire ad applicare uno stesso metodo descrittivo ed esplicativo sia alle lingue antiche, sia alle lingue moderne, come in effetti avveniva già nel periodo della vecchia grammatica comparativa, quando ad esempio all’analisi delle lingue germaniche non si applicavano metodi diversi dall’analisi del greco o del latino. Uno degli obiettivi qualificanti a lungo termine dello studio del latino e del greco dovrebbe essere infatti non tanto l’accumulo di nozioni minute per diventare dei futuri filologi classici, ma lo sviluppo di una ‘cultura linguistica’ superiore, con 5 T. Bernhard, Autobiografia, trad. it. Milano 2011, p. 86. ricadute positive anche sulla conoscenza consapevole dell’italiano e delle lingue straniere. Ecco allora che è facile capire perché proprio lo studio del latino e del greco, assai più di quello delle lingue moderne, si presta ad utilizzare un metodo che conduce a riflessioni generali sul funzionamento del linguaggio. In passato, la circostanza era quasi inavvertita, perché la grammatica latina era in pratica l’unica teoria linguistica universalmente condivisa. Nell’insegnamento del latino si sono infatti, per così dire, stratificate e condensate nei secoli le riflessioni di filosofi quali Platone, Aristotele, gli stoici antichi, i grammatici speculativi medievali e i logici di Port-Royal. Ciò è accaduto perché il latino, fino a pochi secoli fa, occupava nell’universo intellettuale la posizione privilegiata di lingua della cultura per eccellenza: ma anche perché una lingua ‘morta’, e come tale sottratta alla mutevolezza del parlato quotidiano, permette di raggiungere più agevolmente un alto grado di astrazione grammaticale, e dunque una più attenta consapevolezza teorica dell’atto linguistico. Non a caso, le prime grammatiche delle lingue moderne sono state realizzate proprio sul modello della grammatica latina, che ha rappresentato a lungo lo strumento più raffinato di analisi linguistica. Ecco perché, si diceva una volta, ‘il latino insegna a ragionare’: ed ecco perché la pedagogia ha giustificato a lungo il valore dell’insegnamento grammaticale del latino come contributo prezioso all’educazione linguistica, e più in generale come addestramento di importanti funzioni mentali, quali memoria, pazienza, capacità di analisi e concentrazione, trasferibili poi utilmente in altri campi di studio. Le domande di fondo che si pone chi si appresta a studiare una lingua con finalità scientifiche, e non puramente pratiche e strumentali, sono sempre le stesse. Come funziona una lingua? Com’è possibile che un parlante sia in grado di produrre e capire un numero infinito di frasi che non ha mai sentito prima? Le lingue variano ad arbitrio o ci sono dei princìpi universali? Dobbiamo ammettere di non saper rispondere, se non in maniera parziale, a tali quesiti. Ma sono problemi affascinanti, che vale la pena di affrontare, se non altro per tentativi: intorno a queste domande è nata la stessa grammatica antica, che è appunto, in origine, una teoria del linguaggio. Ancor oggi, il compito primario dell’insegnamento grammaticale dovrebbe essere quello di porre i problemi, formulare le domande, prima ancora che suggerire risposte preconfezionate. Come in ogni ricerca scientifica, le teorie cercano di approssimarsi il più possibile alla realtà, senza pretendere di cogliere la verità ultima. La sfida che si pone alla teoria linguistica è cercare di descrivere in modo formale, per mezzo di un numero limitato di premesse, questo insieme altamente complesso di princìpi generali e di regole particolari che costituisce la grammatica interiorizzata nel parlante. Un problema di analisi morfologica o sintattica richiede capacità di ragionamento, astrazione e generalizzazione, non dissimili da quelle necessarie per risolvere un problema di matematica. Se si svuota lo studio della grammatica del suo interesse scientifico, non si potrà poi difenderne il valore pratico nell’uso scolastico. La negazione dell’interesse teorico finisce inevitabilmente per condurre all’abbandono della grammatica stessa, intesa come riflessione linguistica, in favore dello sviluppo di automatismi da memorizzare supinamente (cosa che appunto hanno fatto, con indubbia coerenza metodologica, alcuni indirizzi didattici oggi correnti). La prospettiva teorica giustifica invece pienamente la pratica scolastica dell’analisi grammaticale come preliminare ad una traduzione ragionata. Tradurre in modo consapevole significa infatti risalire dalla forma superficiale di una frase in una data lingua di partenza alla sua struttura grammaticale più astratta, per poi ridiscendere alla forma di superficie della lingua di arrivo, partendo dalle medesime relazioni grammaticali elementari, ma sostituendo le unità lessicali, e tenendo conto delle differenze parametriche tra le lingue. La traduzione presuppone sempre un ragionamento estremamente complesso, che può rimanere implicito, ridotto a meccanismi da assimilare supinamente, oppure può essere reso esplicito attraverso gli strumenti dell’analisi linguistica. Questo secondo metodo mi pare indubbiamente più interessante e meno arido per lo studio – anche scolastico – della grammatica. Si tratta cioè non solo di descrivere il come, ma anche di ricercare costantemente il perché dei fenomeni grammaticali, ribaltando la pratica scolastica abituale, e concentrandosi dunque prima di tutto sui princìpi generali, anziché sulle eccezioni. Esempi pratici di analisi neo-comparativa: latino vs inglese 1. Fonetica Premessa: il concetto di suono e fonema L’inventario dei suoni linguistici è un insieme finito e universale, che viene rappresentato graficamente per mezzo dell’alfabeto fonetico internazionale. Ciò accade perché tutti gli uomini sono in grado di pronunciare un medesimo e limitato numero di suoni. L’inventario dei fonemi varia invece da lingua a lingua (è un parametro). Ciò accade perché un fonema può esistere in una data lingua ed essere assente in un’altra. Ad esempio, la fricativa interdentale inglese /θ/ di parole come l’articolo the, non esiste in italiano né in latino. Oppure, la labiovelare /qu/ esiste in latino, in italiano e in inglese, ma non in tedesco. Ma c’è anche un secondo motivo, per cui l’inventario dei fonemi varia da una lingua all’altra. Uno stesso suono può assumere cioè il valore di fonema in una data lingua, ma il valore di semplice variante (allofono) in un’altra lingua. Ad esempio, l’italiano utilizza un unico fonema /s/, che in posizione intervocalica è realizzato da due allofoni regionali. In parole come rosa, il fonema /s/ viene pronunciato come fricativa sonora [z] al nord e sorda [s] al sud. Diversamente, l’inglese distingue i due fonemi, sordo e sonoro, cioè /s/ e /z/, come dimostra la coppia minima price [prais] e prize [praiz]. In conclusione, assai più che conoscere l’elenco delle lettere dell’alfabeto latino o inglese o italiano, sarà perciò importante saper valutare esattamente l’inventario dei fonemi latini. - I fonemi dell’inglese e del latino (si veda anche lo schema separato, parte 3) I fonemi del latino: Le consonanti Punto Modo Occlusive Fricative Nasali Laterali Vibranti Labiali Sorde Sonore p b f m Dentali Velari Sorde Sonore Sorde Sonore t d k g s n l r Nella terminologia scolastica, le occlusive venivano chiamate “mute”, le sorde “tenui”, le sonore “medie” e le fricative “spiranti”. Rimane tuttora in uso che la fricativa /s/ sia detta anche “sibilante”, e che la laterale /l/ e la vibrante /r/ vengano dette insieme “liquide”. All’inventario delle consonanti latine devono poi essere aggiunte altre consonanti meno comuni, perché di articolazione più complessa. Le labiovelari sono scritte nell’alfabeto latino qu e gu e nell’alfabeto fonetico internazionale [kw] e [gw]. Si tratta in entrambi i casi di digrammi, che indicano cioè non la combinazione di una consonante velare con una vocale u, ma un fonema unico (rispettivamente /kw/ e /gw/), costituito da una consonante velare (sorda o sonora) con appendice labiale. La lettera x è semplicemente un segno alfabetico unico per indicare la sequenza di un fonema velare seguito da una /s/, cioè /k/+/s/ o /g/+/s/. Ad esempio, nella declinazione delle parole crux, crucis e lex, legis, la x che si trova al nominativo rappresenta la combinazione dei fonemi /k/+/s/ e /g/+/s/ rispettivamente. La lettera z è stata introdotta nell’alfabeto latino per scrivere le parole greche come zona, che possedevano l’affricata dentale sonora [dz], un fonema sconosciuto al latino. In generale, le affricate costituiscono fonemi meno comuni nelle lingue del mondo (l’italiano possiede anche le due affricate palatali sorda /tʃ/ di cento e sonora /dʒ/ di già, che invece sono anch’esse sconosciute al latino classico). Le semiconsonanti (o semivocali) Le semiconsonanti o semivocali del latino sono la labiale /j/, come nell’inglese yet [jet], e la palatale /w/, come nell’inglese well [wel]. Le semiconsonanti funzionano all’inizio della sillaba come le altre consonanti: ad esempio le latino iacto [jakto] e venio [wenio] o nell’italiano ieri [jɛri] e uomo [wɔmo]. Nell’alfabeto latino, come in quello italiano, i fonemi /j/ e /w/ sono scritti con gli stessi segni che indicano le vocali corrispondenti (i e u). Le uniche difficoltà che si possono incontrare in latino possono essere la presenza o assenza delle cosiddette “lettere ramiste” (la possibilità cioè di trovare scritto jacto o iacto, oppure venio o uenio). Le semivocali si trovano dopo una vocale e funzionano come secondo elemento del dittongo (come nell’italiano sei [sei] e pausa [pauza]). Inoltre, ci sono dei rari casi in cui la i, pur trovandosi in inizio di sillaba davanti a vocale, ha il valore di fonema vocalico /i/, e non di fonema semiconsonantico /j/. Ad esempio, in latino, nella parola di origine greca Iason [iason] o nella forma di participio presente i-ens [iens], la i davanti a vocale è anch’essa eccezionalmente una vocale. Eccezioni di questo genere si trovano anche in italiano, ad esempio nella parola diario [diarjo], dove la prima i è una vocale e la seconda una semiconsonante. Le vocali Alte (chiuse) Medie Basse (aperte) Anteriori (palatali) i e Centrali a Posteriori (velari) u o La quantità vocalica In latino la quantità vocalica ha valore fonologico: dunque, i fonemi vocalici latini non sono cinque (come in italiano), ma dieci, perché per ogni suono vocalico esistono due fonemi autonomi: una vocale lunga e una vocale breve. I fonemi vocalici del latino sono dunque i seguenti: /ĭ/, /ī/, /ŭ/, /ū/, /ĕ/, /ē/, /ŏ/, /ō/, /ă/, /ā/. La quantità vocalica in latino ha valore distintivo di fonema, come si può notare dalle seguenti coppie minime: dĭco “io dedico” / dīco “io dico”; pŭtet “che egli pensi” / pūtet “egli puzza”; vĕnit “egli viene” / vēnit “egli venne”; nŏvi “qualcosa di nuovo” / nōvi “io so”; mălum “il male” / mālum “la mela”. Fenomeni simili si possono osservare in inglese (ad es. sheep “pecora” e ship “nave”), o in friulano (ad es. lât “lato” e lat “latte”). In italiano, invece, certamente esistono suoni vocalici lunghi (ad es. fāto) e brevi (ad es. fătica), ma questi non hanno il valore di fonemi, bensì solo di allofoni prevedibili in base al contesto (le vocali accentate sono solitamente più lunghe di quelle non accentate). Nel caso di coppie minime come fato e fatto, in italiano il valore distintivo non viene attribuito alla quantità del fonema vocalico, ma a quella del fonema consonantico. I dittonghi Il dittongo (dal greco dìfthongos “che possiede due suoni”) viene percepito come una vocale che cambia il proprio suono nel corso dell’emissione, cosicché all’inizio si avverte il suono una vocale, e alla fine il suono di un’altra: ad esempio [au] nell’italiano sauna. Le grammatiche italiane distinguono solitamente i dittonghi in “ascendenti” (ad es. piánta), se il suono aumenta dal primo al secondo elemento; e viceversa “discendenti” (ad es. láico), se il suono diminuisce. Oggi i linguisti preferiscono però considerare i dittonghi ascendenti non come veri dittonghi, ma come gruppi formati da una semiconsonante più una vocale. Per tale motivo, il primo elemento /j/ o /w/ è definito appunto come semiconsonante, perché ha una natura fonetica più vicina a quella delle consonanti, che non a quella delle vocali. Gli unici veri dittonghi sono pertanto i dittonghi discendenti, cioè i gruppi formati da una vocale più una semivocale. I dittonghi più frequenti in latino sono tre: au, ae e oe (ad esempio in causa, Caesar, poena). Più rari sono eu ed ei. Poiché, come si è detto, i veri dittonghi sono sempre “discendenti”, il suono diminuisce dal primo al secondo elemento: dunque, se la sillaba è accentata, l’accento si pone sempre sulla prima vocale del dittongo: ad esempio cáusa, Cáesar, póena. Per la precisione, il valore fonetico proprio dei dittonghi ae e oe nel latino classico era [ai] e [oi], e non [ae] e [oe]. Ce lo testimoniano le grafie fonetiche in iscrizioni arcaiche, come aidilis per aedilis, e il fatto che alle parole latine Caesar e poena corrispondono il tedesco Kaiser e il greco ποινή [poiné]. In secondo luogo, la fonetica universale ci testimonia che il secondo elemento di un dittongo è tipicamente una semivocale i o u, ma non una e. Anche in italiano esistono i dittonghi ai e oi (ad esempio in mai e noi), e così anche in greco antico e in inglese (ad esempio night [nait] e boy [bɔi]), ma in nessuna di queste lingue esistono i dittonghi ae e oe. Possiamo dunque cogliere qui un limite della cosiddetta pronuncia classica del latino, che ricostruisce dittonghi foneticamente improbabili come [ae] e [oe]. Nel latino tardo, ma anche nella pronuncia dialettale della stessa età classica (la pronuncia detta “rustica”), i dittonghi ae ed oe furono invece “monottongati”, cioè ridotti al valore fonico di una sola vocale [ē]. Per questo motivo, nella pronuncia scolastica del latino, Caesar e poena vengono pronunciati [tʃezar] e [pena], esattamente come le parole che ne sono derivate in italiano (Cesare e pena). Al contrario, il dittongo au, di cui pure si hanno tracce di monottongazione nel latino rustico (ad es. caupo > copo), e in alcune derivazioni italiane (ad es. aurum > oro), nel latino letterario si mantiene stabile fino all’età tarda, ed è conservato anche nella pronuncia scolastica. Vantaggi dell’approccio neo-comparativo alla fonetica latina: - Rendere interessante il capitolo dedicato all’alfabeto latino, che solitamente viene del tutto ignorato nella didattica - Permettere di capire bene il problema della pronuncia del latino, aiutando a risolvere il problema della lettura erronea degli studenti, che si trascina dalla scuola all’università Il problema della pronuncia deriva paradossalmente dalla vitalità del latino come lingua parlata nell’età moderna. Nacquero così le varie pronunce ‘nazionali’ del latino, nelle quali la lingua latina tendeva ad essere il più possibile adattata a quella della lingua madre del parlante. Ad esempio, ancor oggi è usuale in Francia mettere sistematicamente l’accento sull’ultima sillaba delle parole latine che terminano per vocale, così come si fa per quelle francesi: anche i professori universitari dicono volentieri linguà Latinà. La pronuncia nazionale italiana ha avuto poi una fortuna del tutto particolare, perché è rimasta la più vicina alla pronuncia del latino in età tardoantica, e si è conservata come pronuncia ufficiale della Chiesa Cattolica. Per questo, nella scuola italiana, quella che viene chiamata pronuncia ‘scolastica’ o ‘ecclesiastica’ o ‘umanistica’ rimane tuttora la più praticata, e forse la più consigliabile, perché ci fa sentire il latino come qualcosa di familiare, come un elemento della nostra stessa identità. Negli ambienti universitari si è invece affermata negli ultimi decenni la pronuncia “classica” o restituta, che cerca di ricostruire la reale pronuncia degli antichi, sulla base di solidi argomenti prodotti dalla ricerca storico-linguistica. La soluzione consigliabile oggi nella scuola è di conoscere bene entrambe le pronunce, ma di optare fin dall’inizio per una delle due, a giudizio dell’insegnante, evitando soprattutto fastidiose confusioni tra le due. Ad ogni modo, il problema della pronuncia appare tutto sommato secondario: come sappiamo, l’importante è conoscere i fonemi di una lingua, il loro suono effettivo può ben ammettere delle varianti regionali. Pronuncia scolastica La pronuncia cosiddetta scolastica è certo più facile per un parlante italiano: si tratta, come si è detto, della pronuncia nazionale italiana del latino. In pratica, si può semplicemente leggere il latino come se fosse italiano. Le divergenze rispetto alla pronuncia dell’italiano sono infatti soltanto due: - i dittonghi ae ed oe si pronunciano monottongati in [e]. Ad esempio, poena si pronuncia [pena], esattamente come la parola italiana pena. - l’occlusiva dentale sorda [t] diventa l’affricata corrispondente [ts], qualora si trovi davanti a vocale i non accentata, e non sia preceduta da un’altra t, o da una s, o da una x. Ad esempio, gratia si pronuncia [grátsia], esattamente come l’italiano grazia. Al contrario, totius si pronuncia [totíus], perché la t precede una vocale accentata. La t rimane inalterata anche se è preceduta da un’altra t, una s o una x: ad esempio in Cottius, vestio, mixtio, e in alcune parole di origine greca, come tiara. - come nella maggior parte delle lingue moderne (ad esempio nell’inglese photo), il gruppo ph si pronuncia [f]: ad esempio, philosophus [filósofus]. Pronuncia classica La pronuncia cosiddetta “classica” o restituta è il frutto della ricostruzione storica, che cerca di riprodurre la pronuncia delle classi colte di Roma nel periodo “classico”, cioè intorno al primo secolo a.C. Le divergenze della pronuncia classica rispetto alla pronuncia scolastica sono le seguenti: - i dittonghi ae ed oe si pronunciano sempre come tali: cioè [ae] e [oe], anche se, a rigore, la pronuncia più corretta sarebbe [ai] e [oi]. - l’occlusiva dentale t si pronuncia sempre [t]. - le occlusive velari c e g si pronunciano sempre come velari, cioè [k] e [g]. La pronuncia scolastica segue invece l’uso italiano, dove esse si pronunciano velari solo se sono seguite dalle vocali a, o, ed u (ad es. casa, cosa, cura), mentre, si pronunciano come affricate palatali [tʃ] e [dʒ] se sono seguite dalle vocali e ed i (ad es. cena, cima, gelo, giro). - il gruppo ph si pronuncia come occlusiva aspirata [ph], e non come fricativa [f]. - la consonante h si fa sentire come l’aspirazione dell’inglese (how) o del tedesco (Himmel), mentre, come si suol dire, in italiano “non vale un’acca”, cioè la h non viene pronunciata. - la s è sempre sorda, e non, come nell’italiano settentrionale, sonora in posizione intervocalica: dunque rosa si pronuncia [rosa] e non si sonorizza in [roza]. - la v si pronuncia [w], cioè come semivocale labiale e non come la fricativa labiodentale italiana [v]. In sostanza, la pronuncia classica è più vicina al valore proprio dei singoli fonemi latini: i dittonghi sono pronunciati appunto come dittonghi; le occlusive sempre come occlusive, e non come affricate; e così l’aspirata, la sibilante e la semiconsonante mantengono sempre il loro valore fonetico proprio. La pronuncia scolastica introduce invece tutta una serie di innovazioni: i dittonghi vengono monottongati, le occlusive a volte diventano affricate, l’aspirazione scompare, la sibilante a volte si sonorizza, la semiconsonante diventa fricativa. La conoscenza della pronuncia classica ci permette perciò di capire che la pronuncia scolastica è il risultato di una evoluzione storica, avvenuta nel latino tardo proprio a partire dalla pronuncia classica. Possiamo così capire meglio perché, solo per il latino, esistono due pronunce. Sarebbe come se per l’inglese si usasse in alternativa la pronuncia attuale e quella medioevale. Anche alcune apparenti bizzarrie dell’italiano possono essere meglio comprese in questo contesto, collocandole nella giusta prospettiva di evoluzione linguistica. Ad esempio, la c si pronuncia [k] in casa, ma [tʃ] in cena, perché ad un certo punto della storia del latino è avvenuto un tipico fenomeno di “assimilazione”: l’occlusiva velare ha subito cioè l’influsso della vocale palatale ed è divenuta una affricata palatale. 2. Morfologia: Premessa: il concetto di parola Come la fonetica studia i fonemi, la morfologia studia le parole. Se il concetto di parola è un universale linguistico, le sue proprietà specifiche variano da una lingua all’altra, secondo dei parametri. Un parametro essenziale è la flessione, cioè l’insieme di modificazioni che la parola assume per esprimere delle informazioni grammaticali di vario tipo. Nelle lingue con flessione ridotta, come l’inglese, le unità di base della morfologia si possono considerare grosso modo coincidenti con le parole semplici, che si trovano registrate in un dizionario. Ciò è possibile perché, in queste lingue, la flessione avviene di regola tramite l’addizione di elementi a delle unità di base, che sono chiaramente delle parole semplici. Ad esempio, per il nome boy e per il verbo to want, le basi delle forme flesse (boy-s, want-s, want-ed) sono rispettivamente il nome boy- e il verbo want-. Nelle lingue con flessione ricca, come il latino (ma anche l’italiano), i casi di semplice ‘aggiunta’ di elementi flessivi ad una forma di base, che sia essa stessa una ‘parola’, sono molto rari. Questo accade, ad esempio, per la flessione di un nome come il latino consul “console”. Esso si declina nel seguente modo: Nom. consul, Gen. consul-is, Dat. consul-ī, Acc. consul-em, ecc. In questa circostanza fortunata, la base delle forme flesse è dunque il nome consul-, che coincide con la forma di citazione che si trova sul vocabolario (il nominativo singolare). Ma di solito, il meccanismo flessivo dei nomi latini è più complesso. Nella maggioranza dei casi, la forma di base sottostante al paradigma flessivo non è in grado di comparire da sola alla superficie della lingua, ma è qualcosa di più astratto, definibile solo per mezzo dell’analisi linguistica. Prendiamo ad esempio la declinazione di un nome come crux “croce” (che appartiene alla medesima classe flessiva del citato consul, cioè la terza declinazione). Il paradigma flessivo è il seguente: Nom. crux, Gen. cruc-is, Dat. crucī, Acc. cruc-em, ecc. L’analisi linguistica, già proposta dagli antichi (Varrone, De lingua Latina IX 44), ci permette di dimostrare facilmente che la forma di base sottostante al paradigma è in questo caso un elemento astratto *cruc-. Il problema è che tale forma non si trova mai alla superficie della lingua, e nemmeno sul vocabolario. Eppure, questa forma astratta ha una reale esistenza nel lessico mentale, e rappresenta appunto la forma di base per la flessione. Le lingue con flessione ricca utilizzano come unità di base della morfologia delle “parole astratte”, che nella tradizione scolastica sono chiamate “temi”. Le cinque declinazioni La grammatica latina distingue cinque declinazioni: il motivo deriva dal fatto che le vocali in latino sono appunto cinque. L’appartenenza di un tema ad una delle cinque declinazioni è determinata infatti, automaticamente, dalla vocale finale del tema: se il tema finisce in a, la parola segue la prima declinazione; se il tema finisce in o, la parola segue la seconda declinazione; se il tema finisce in i, la parola segue la terza declinazione; se il tema finisce in u, la parola segue la quarta declinazione; se il tema finisce in e, la parola segue la quinta declinazione. Infine, se il tema finisce in consonante, a rigor di logica la parola dovrebbe seguire una declinazione autonoma, ma la grammatica la considera parte della terza declinazione, perché in effetti la declinazione dei temi consonantici presenta molte analogie (e non poche confusioni) con la declinazione dei temi in -i-. Questo è il motivo per cui la terza declinazione è oggettivamente più complessa delle altre. Una presentazione che parta però dalle proprietà dei temi (ad esempio distinguendo temi in occlusiva, nasale, ecc.), anziché dare regolette astruse e innaturali come quella dei parisillabi e imparisillabi, permette di presentare in maniera più corretta, dal punto di vista linguistico, la terza declinazione, e permette un più agevole confronto con il greco, dove per fortuna la descrizione della terza declinazione si basa sulle forme dei temi. Il Caso La declinazione è la flessione del nome. Le modificazioni subite dai temi nominali hanno lo scopo di esprimere le informazioni di Numero e Caso. Anche questo è un fenomeno universale, ma esistono variazioni parametriche tra le lingue. L’informazione relativa al Numero è espressa anche in inglese, per mezzo della desinenza zero (singolare) e –s (plurale). Talvolta anche in inglese la formazione del plurale implica processi morfologici più complessi (apofonia: foot/feet). Il latino, oltre al Numero, esprime per mezzo di modificazioni morfologiche anche l’informazione relativa al Caso. Per poter capire questo fenomeno, bisogna distinguere il concetto di Caso astratto e Caso morfologico. Il Caso astratto è una proprietà universale di tutte le lingue. Esistono infatti particolari insiemi di parole, tipicamente i verbi, i quali sono per natura assegnatori di Caso. Ad esempio, un verbo transitivo deve necessariamente assegnare il Caso accusativo al proprio oggetto. Mentre il Caso astratto è una proprietà universale della grammatica di tutte le lingue, il Caso morfologico varia secondo parametri diversi da lingua a lingua. Ad esempio, in latino, in greco, o anche in tedesco, troviamo un sistema di casi morfologici molto ricco e ben descritto dalle grammatiche. In altre lingue, come l’italiano o l’inglese, il sistema dei casi morfologici è più ridotto, tanto che nelle grammatiche scolastiche si dice spesso che il Caso è un concetto sconosciuto all’italiano. In realtà, non c’è nulla di più sbagliato che presentare il Caso come una particolarità esclusiva delle lingue classiche. Questo mette lo studente in una condizione di difficoltà, perché si trova a dover maneggiare una categoria concettuale che gli viene detta assente dalla propria madrelingua. Sarebbe molto meglio dire fin dall’inizio che, anche alle grammatiche delle lingue moderne, italiano e inglese inclusi, non sono sconosciuti neppure i Casi morfologici: ad esempio, come si può notare dalla tabella seguente, i pronomi di terza persona singolare possiedono in italiano una declinazione a tre casi morfologici, e in inglese a due casi morfologici: Maschile Femminile Nominativo egli ella Dativo gli le Accusativo lo la Maschile Femminile Nominativo he she Accusativo him her Dunque, bisognerebbe dire che l’italiano e l’inglese possiedono un sistema di Casi astratti assolutamente paragonabile a quello del latino, solo che l’assegnazione del Caso solo raramente produce effetti morfologici. Sintassi: (si vedano anche gli schemi nella parte 3) Le parole flesse sono allo stesso tempo le unità massime della morfologia e le unità minime della sintassi, perché la morfologia studia la struttura interna delle parole, mentre la sintassi studia la struttura esterna delle stesse. La morfologia ci permette di affermare che una parola appartiene a una determinata categoria sintattica (nome, aggettivo, verbo, ecc.), ed esprime una serie di informazioni flessive (genere, numero, caso, ecc.). La sintassi si occupa delle proprietà della parola quando essa va a interagire con le altre. Il Caso ne è un tipico esempio. La grammatica tradizionale parla in proposito di “costruzioni”, come se queste fossero qualcosa a sé stante, e non il prodotto dell’interazione tra le proprietà delle singole parole, che determinano il loro combinarsi all’interno della frase. Nella linguistica contemporanea, la prospettiva tende ad essere rovesciata: si ipotizza appunto che le parole possiedano una struttura esterna, considerando le strutture sintattiche come la proiezione delle proprietà delle parole. Ad esempio, si è detto che il Caso accusativo è una proprietà che il verbo assegna al proprio oggetto, in una determinata configurazione sintattica. Un concetto fondamentale per poter analizzare in modo scientifico la sintassi, è quello di “sintagma”. L’esistenza di tali unità è piuttosto intuitiva, e corrisponde grosso modo all’idea che tutti abbiamo dell’esistenza di “gruppi di parole”, che possono essere spostati da un punto della frase a un altro. Proviamo a scrivere una frase qualsiasi, ad esempio leggo [il giornale] [con interesse], e ci rendiamo conto che è possibile spostare l’ordine dei sintagmi, leggo [con interesse] [il giornale]. Oppure [lo studente] [è sveglio] può diventare [è sveglio] [lo studente]. Esiste anche un metodo formale, il cosiddetto metodo di analisi strutturale in “costituenti immediati”, elaborato nella prima metà del Novecento dal linguista americano Leonard Bloomfield, che permette di arrivare ad una definizione più precisa di sintagma, e sul quale non possiamo qui soffermarci. Diciamo solo che ogni sintagma ha un proprio costituente principale, detto in gergo “testa”, e poi una serie di modificatori, che si stratificano gerarchicamente secondo una struttura universale, che prevede la presenza delle posizioni cosiddette di Specificatore, Testa e Complemento: XP (Specificatore) X' X (Complemento) Il diagramma ad albero simboleggia il fatto che tra gli elementi di un sintagma esistono delle relazioni di tipo gerarchico (verticale), e non solo di tipo lineare (orizzontale). La comprensione delle frasi richiede infatti l’individuazione delle relazioni gerarchiche complesse di volta in volta concretamente realizzate tra le parole, anziché la pura e semplice registrazione dei significati delle parole nella loro successione lineare. Esempio di sintagma nominale: NPi Specificatore N' N Complemento Omnium exspectatio everybody’s expectation visendi Alcibiadis to see Alcibiades Oltre a queste posizioni strutturali di specificatore, testa e complemento, ci possono essere altri elementi facoltativi, detti aggiunti, sui quali si discute tuttora se possano essere aggiunti solo a sinistra oppure anche a destra: SX Specificatore X' X' (Aggiunto) (Aggiunto) X' X Testa Complemento Senza poterci ovviamente soffermare qui sul problema, osseviamo che sarebbe più elegante se potessero esserci solo aggiunti a sinistra, come ad esempio: NP AP N' NP N' Ni veteribus Helvetiorum iniuriis NP populi Romani the old offences by the Helvetii to the Roman people Come si potrà notare in questo caso, l’ordine degli elementi tra latino e inglese varia per quanto riguarda la posizione del nome rispetto allo specificatore. In latino, infatti, è ammesso sia l’ordine canonico in cui la testa segue lo specificatore, sia quello in cui la testa precede lo specificatore, che si può ipotizzare sia prodotto da un movimento del nome: SN Spec N Helvetiorum iniuriae SN N SN Spec iniuriae Helvetiorum N iniuriae Nella traduzione italiana è ammesso solo l’ordine in cui la testa precede (“le offese degli Elvezi”). In inglese, in realtà, sono ammessi entrambi gli ordini, ma in diverse configurazioni sintattiche: da un lato the offences of the Helvetii, dall’altro the Helvetii’s offences, con il cosiddetto genitivo sassone. L’ordine delle parole nelle diverse lingue costituisce dunque solo un fenomeno di superficie. La struttura più profonda del sintagma è definita dalla sua strutturazione gerarchica, non dall’ordine lineare degli elementi. Anche se l’ordine superficiale è libero, la stratificazione gerarchica degli elementi nel sintagma non cambia affatto, né in latino, né in altre lingue. Questo modo di vedere le cose dovrebbe senza dubbio facilitare lo studente nell’apprendimento, dal momento che lo mette nella situazione tranquillizzante di esercitare un dominio razionale sulla materia studiata. Naturalmente, tutto ciò ha bisogno di essere dimostrato scientificamente in tutte le frasi che lo studente potrà trovarsi ad affrontare. Questo è il lavoro che ci accingiamo ad affrontare con il nostro corpus sintattico. Possiamo fare qui solo un esempio della prima frase del De bello Gallico, in latino, inglese e italiano: Caes. Gall. 1, 1, 1 Principale con predicato nominale TP NP T' T SC QP Q AP NP A PP P QP Spec Q' Q NP N CP Gallia est omnis Gallia divisa in partes tres partes Caes. Gall. 1, 1, 1 Principale con predicato nominale TP DP Det N T' PP T’ T SC DP Det AP N A PP P QP Q NP N CP la Gallia nel suo complesso è la Gallia divisa in tre parti Caes. Gall. 1,1,1 Main clause with noun phrase TP QP T' T SC QP Q NP AP A PP P QP Q Q N NP All Gaul is all Gaul divided into three parts Renato Oniga (Università di Udine)