Roberto Moro Storiografia, Mitologia e Storia del presente un approccio al pensiero della complessità Crescita e sviluppo economico, libertà dei mercati e democrazia universale, governo mondiale e competizione globale, fine delle ideologie e internazionalizzazione della cultura, primato del sapere scientifico e innovazione tecnologica, sono le mitologie del presente. L’evidente stato di crisi di queste rappresentazioni collettive, ripropone con forza il tema dei rapporti tra Mito e Storia, pensiero mitico e sapere storico, come processi conoscitivi di fondazione dei sistemi culturali. Oggi l’epistemologia e l’antropologia della complessità offrono nuove opportunità di approccio al tema e, in base a questo approccio, i confini tra mito e storia scompaiono per lasciare il posto a una fenomenologia del racconto. Al pari del mito la storia si presenta allora come la narrazione di sociogonie che, nel pensiero moderno, divengono vere e proprie cosmogonie fondate sulla credenza nella linearità del tempo. La storiografia diviene una procedura di umanizzazione del tempo e l’evento un paradigma della complessità che consente di superare i confini tra storia e mito in vista di una “storia del presente” che lascia appena intravedere nuove esplorazioni e nuove scoperte. Cultura e pensiero mitico. - Antropologia e storia. - Pensiero mitico e discorso storico. - Linguaggio, racconto, evento. - Mito e storia. Tempo “storico” e tempo “mitico”. - Problemi di confine. L’emergenza della complessità. - Approccio alla complessità. L’evento come paradigma della complessità. - Oltre i confini, la “storia del presente”. 1 Cultura e pensiero mitico. I rapporti e le possibilità di collaborazione tra discipline storiche e antropologia che sembrano materializzarsi nell’istanza di un possibile nuovo e autonomo comparto di studi, l’Antropologia storica, ripropone i termini di un confronto tra Storia e Mito che, in passato, ha animato un vasto dibattito e oggi si impone con forza per effetto dell’affermarsi di nuovi modelli di cultura e di società: la società della comunicazione e la società della conoscenza. Si tratta di un dibattito che, nel corso del pensiero moderno, ha intrecciato di continuo i tentativi di interpretare le persistenza e l’emergenza dei miti e delle mitologie con l’esperienza storica. Storia e mito sono a lungo apparse come esperienze conoscitive affatto diverse e alternative, tra loro in netto contrasto. E sono stati gli storici a tracciare i confini tra storiografia e narrazione mitica. Nel corso del XX secolo l’antropologia sociale e culturale, che ha di molto dilatato il campo delle scienze umane, ha offerto modelli teorici significativi per un processo di revisione di questa tradizionale deriva interpretativa. Parallelamente, nella seconda metà del Novecento, un vasto dibattito si è aperto tra gli storici volto a ridefinire gli ambiti e il metodo della storiografia in relazione alle nuove acquisizioni nel campo delle scienze sociali e della stessa antropologia. Più di recente, infine, l’epistemologia della complessità o scienza della complessità o sfida della complessità o, più semplicemente, il pensiero della complessità offre nuove opportunità di approccio al tema dei rapporti tra storia e mito come esperienze conoscitive fondanti di quell’insieme di rappresentazioni collettive che sono i sistemi culturali. Ripercorrere le fasi di questo dibattito, come sopra indicate, e proporne una interpretazione alla luce del pensiero complesso, può costituire un contributo alla lettura delle circostanze presenti che segnano la crisi e la possibile archiviazione delle credenze e dei miti della globalizzazione. Crescita e sviluppo economico, libertà dei mercati e democrazia universale, governo mondiale e competizione globale, fine delle ideologie e internazionalizzazione della cultura, primato della tecnica e innovazione tecnologica, sono le mitologie del presente. L’evidente stato di crisi di queste rappresentazioni collettive, il loro recente costituirsi e il rischio della loro imminente dissoluzione, hanno dato luogo e stanno sviluppando una profonda riflessione nel campo delle scienze umane e suscitato l’istanza di una “riforma del pensiero”, una riforma per la quale la ridefinizione dei rapporti tra storia e mito, discorso storico e pensiero mitico costituisce uno snodo non secondario. Oggi più che mai l’uso dei vocaboli mito e mitologia e, più abitualmente, miti e mitologie (ma anche mitografie) e l’abuso dell’aggettivazione “mitico”, è entrato trasversalmente in tutte le discipline e si è riversato nel linguaggio quotidiano carico di una pluralità di significati, persino del tutto contrastanti tra loro, fino a disancorare in via definitiva il concetto dalle sue radici filologiche e storiche e dal dibattito che lo ha insediato da più di un secolo nello studio della cultura. 2 Si deve questa emergenza del mito come struttura portante dei sistemi di cultura a due essenziali fattori. In primo luogo, l’antropologia sociale e culturale ha avviato un attento esame del concetto di cultura e, nella prima metà del XX secolo, ha restituito al “pensiero” mitico un ruolo centrale nelle pratiche sociali e culturali delle organizzazioni umane. Il moderno concetto di cultura (nozione un tempo riservata esclusivamente all’esperienza conoscitiva del pensiero occidentale) ha, infatti, profondamente innovato rispetto al suo campo semantico originale (dal latino “coltivare”, poi esteso a quei comportamenti spirituali che imponevano un “culto”). Dal tradizionale concetto di cultura, di matrice umanistica, intesa come un patrimonio individuale di conoscenze acquisite per via di insegnamento diretto, il pensiero antropologico lo ha dilatato a quel complessivo intreccio di costumi, credenze, atteggiamenti, valori, comportamenti condivisi che definiscono, in modo non sempre formale, le norme (i modi dovuti di agire) a livello collettivo. In questo ampio contesto il pensiero mitico acquista un ruolo importante, se non centrale, come rivelatore delle strutture di pensiero e delle pratiche organizzative non formalizzate che soggiacciono alle istituzioni e governano le comunicazioni umane. In secondo luogo, proprio il rapido sviluppo dei sistemi di comunicazione, supportato da continue ondate di innovazione tecnologica (dalla scrittura a internet), ha realizzato un rapido sviluppo dei processi e degli scambi culturali, confuso i confini tra culture, prodotto una pluralità di modelli di cultura in continua comunicazione e mutazione. Si giunge così a una definizione ancor più vasta del concetto di cultura che accoglie l’idea di sistema, di processi comunicativi reticolari, di strutture linguistiche aperte e consente di definire la cultura stessa come una struttura di significato che viaggia su reti di comunicazione non localizzate in singoli territori. La cultura appare oggi come un vasto sistema di relazioni che creano rappresentazioni collettive, vere e proprie credenze, che chiamiamo “culti”, alle quali si attribuisce appunto il nome di mitologie. Per effetto di questa deriva epistemologica, il moderno concetto di cultura è divenuto un indicatore privilegiato di quella nuova dimensione della conoscenza del reale che chiamiamo complessità. Un vocabolo e un intero campo semantico ormai universalmente diffuso anche nel linguaggio comune e così radicato da divenire una credenza vera e propria e in qualche modo, a sua volta, un mito, un mito dominante del presente. Antropologia e storia. L’adozione, ormai accolta e praticata nelle scienze umane, di un concetto di cultura così vasto e sistemico e la centralità del pensiero mitico che ne deriva, non potevano non riversarsi nel sapere storico al quale la cultura occidentale ha conferito, nei secoli della modernità, il compito strategico di presidiare il passato delle esperienze umane, conservarne e trasmetterne la memoria, spiegare e insegnare il progressivo sviluppo delle azioni collettive e delle organizzazioni sociali. Ciò ha determinato, nel corso nel corso del XX secolo, una formidabile dilatazione del campo storiografico e 3 una profonda revisione del metodo e degli obiettivi dell’indagine storica. I nuovi approcci della storia sociale, delle mentalità, della cultura hanno così spinto la ricostruzione e l’interpretazione del passato oltre i tradizionali “idoli” della storiografia moderna dei secoli XVIII e XIX: l’idolo politico (il prevalere quasi esclusivo nella narrazione dei fatti politici), l’idolo individuale (il privilegio accordato al contributo individuale nella costruzione degli eventi e del processo storico), l’idolo cronologico (la definizione degli eventi a partire da sequenze rigide di datazioni certificate). Si è così aperta, a partire dagli anni Trenta del secolo scorso, quella strada alla storia del collettivo, del sistemico e del complesso che ha reso operante nella storiografia il concetto di cultura elaborato dall’approccio sociologico e antropologico. Questa nuove piste di ricerca hanno, a loro volta, reso necessaria la collaborazione tra storia, antropologia, sociologia, linguistica e innovato profondamente il complessivo della scienze umane. Le società europee del passato sono state da allora indagate e lette all’insegna di quell’intreccio di costumi, credenze, atteggiamenti, valori, comportamenti condivisi non formalizzati che sono generati, vivono e si modificano proprio in virtù del pensiero mitico (o “tradizionale”, “persistente” e di “lunga durata”) e soggiacciono al tessuto delle reti istituzionali, coscienti e formali di ogni gruppo sociale. Una dimensione e un cantiere di ricerca sul quale antropologia e storiografia sembrano trovarsi a diretto confronto. Ed è su questo confronto che ha preso vita il tentativo di fondare una “antropologia storica”. L’Antropologia storica, disciplina in fieri e in via di codificazione, dovrebbe,in prospettiva, definire in modo stabile i rapporti tra i due ordini di sapere in vista di una loro integrazione permanente in termini di ambiti e metodologie, una integrazione tale da produrre un autonomo statuto disciplinare. Ma, posto in questi termini, il problema appare decisamente fuorviante e rischia di celare un malinteso di fondo. Tra antropologia e storiografia non vi è infatti un confronto diretto e non vi è possibile integrazione, al massimo alcuni assunti teorici si possono intrecciare, alcuni reciproci scambi sono possibili nell’approccio ad aree tematiche di comune interesse che, per altro, appartengono ai nuovi interessi delle scienze umane e a loro complessivo rinnovamento. I confini tra antropologia e storiografia, infatti, sono netti e fanno parte del consolidato statuto del sapere occidentale. La sincronia è il campo operativo dell’antropologia, mentre la storiografia non può, per la sua stessa natura, rinunciare all’approccio diacronico. Sul paino del metodo i due ordini di sapere divergono diametralmente. La rispettiva teoria delle fonti risulta inconciliabile. E infine è lo stesso statuto disciplinare a fissare i confini tra i due ordini del sapere: per le sue radici e la sua vocazione, l’antropologia si dedica allo studio dell’alterità e della differenza strutturale dei modelli culturali rispetto al complessivo della cultura occidentale, mentre il compito della storiografia è quello di ricondurre ad unità e a processi identitari proprio la cultura occidentale nel suo sviluppo storico. Nei fatti le profonde relazioni che sussistono tra antropologia e storiografia si riducono, solo e quasi esclusivamente, all’accoglimento da parte di quest’ultima del moderno concetto di cultura che ha consentito 4 all’indagine storica di aprire il suo campo di ricerca a quella zona sommerse del collettivo (clientela e strutture familiari, sesso e corporeità, magia e devianza, prescrizioni e tabù, ecc.) che l’uso pubblico della storia ha sempre celato. La lettura del passato organizzata dal pensiero razionalista e storicista si è insomma arricchita oggi, per effetto dell’adozione del concetto di cultura, di quei nuovi indicatori e modelli interpretativi dell’azione e del comportamento sociale che la scuola antropologica anglosassone e la scuola sociologica francese avevano scoperto e passato al vaglio nei primi decenni del Novecento. Proprio in relazione alla deriva di questi nuovi interessi della storiografia occidentale, che attualmente evolvono verso la teorizzazione di una “storia globale” e addirittura “totale”, l’idea di una Antropologia storica come disciplina autonoma appare decisamente fuorviante a meno che non si voglia rubricare sotto questa categoria tematica, e con indubbie forzature, quel genere di monografie storiche dedicate appunto alle zone della cultura profonda e caratterizzate dell’emergenza e sopravvivenza del pensiero mitico. Prova ne sia il fatto che viene rubricata, come centrale e fondante di una possibile Antropologia storica, la letteratura sulla stregoneria, la magia, il folclore, i riti connessi all’età della vita e alle manifestazioni popolari (festa e rivolta, morte e paura, devianza e repressione). Un genere di letteratura storiografica che, per altro, si intreccia tanto con l’antropologia quanto con psicologia sociale, linguistica, sociologia e un ancor più vasto convoglio di discipline e comparti delle scienze umane. Pensiero mitico e discorso storico. In realtà il vero terreno di confronto che l’acquisizione del concetto di cultura pone alla storiografia, non è quello con l’antropologia quanto piuttosto e più direttamente con i processi di produzione delle credenze, dei miti, dei riti e delle emozioni collettive, una zona che, da sempre, sfugge al pensiero storico di matrice razionalista, positivista e storicista. Ben oltre il rapporto tra Antropologia e Storia, il confronto che da scacco alla storiografia tradizionale, la innova e può offrire promettenti piste di ricerca è quello tra discorso storico e pensiero mitico, tra narrazione storica e narrazione mitica e infine tra Storia e Mito intese come due sfere concorrenti e compresenti nella costruzione di quelle rappresentazioni collettive dalle quali la ricerca storica non può prescindere più. In questo ambito di ricerca gli interrogativi sono da tempo sul tappeto. Quali sono i reali confini tra storiografia e mitografia? È possibile e in che misura che il pensiero mitico offra più strumenti per la comprensione della realtà di quanti non ne offre il discorso storico? Perché mai storia e mito coesistono da sempre nella produzione delle rappresentazioni collettive di un determinato gruppo sociale in un determinato tempo? Che relazione vi è tra lo sviluppo storico di una società e l’insieme di credenze e valori condivisi che ne definiscono la struttura e ne garantiscono il grado di coesione? E perché infine, nel tempo presente, si annuncia con forza una crisi o fine del discorso storico a favore di una nuova insorgenza del pensiero mitico? 5 Paiono queste, tra le molte possibili, le domande che materializzano il confronto tra Storia e Mito, tra storiografia e mitografia e che vengono suscitate dall’adozione, nell’ambito delle scienze umane, del moderno concetto di cultura che, proprio qui, annuncia e promette profonde revisioni e nuovi orizzonti. Un concetto, per altro, quello di cultura, che nel corso degli ultimi due decenni ha conosciuto incessanti dilatazioni, ridefinizioni e vere e proprie fondazioni. Le riflessioni che seguono non pretendono di dare risposta a tutte queste domande, ma trovano il loro fuoco sui rapporti tra mito e storia o, se si preferisce, tra racconto mitico e discorso storico, a partire dalla radice del problema e cioè dal significato stesso e dal ruolo che questi due esperienze conoscitive hanno assunto e svolto nell’esperienza del pensiero occidentale. Tracciamo dunque alcune generali e provvisorie linee di confine. Innanzi tutto la Storia (ma più precisamente la Storiografia) é un’esperienza conoscitiva che consiste nella identificazione, datazione, ricostruzione, interpretazione dei fatti del passato relativi alle vicende umane e nella loro comunicazione. Questo genere di sapere, esclusivo della cultura europea prima, occidentale poi, si è progressivamente affermato nei secoli della modernità e, al pari di altri ordini del sapere, è figlio della Rivoluzione scientifica e di una antropologia filosofica che vuole l’uomo al centro dell’universo, misura di tutte le cose e dotato di un esclusivo destino di emancipazione per effetto del suo libero arbitrio e delle sue facoltà razionali (antropocentrismo). Il privilegio accordato all’uomo nella conoscenza e costruzione della realtà ha, di riflesso, generato la convinzione che il sapere stesso altro non fosse che il risultato del progressivo sviluppo delle vicende umana e quindi un continuato processo cumulativo e patrimoniale. Cosicché, da questo punto di vista, la Storia altro non è che l’autobiografia dell’uomo della modernità (eurocentrismo) e del suo cammino nel mondo. In questa visione del mondo, in questo modello di cultura, storia e antropologia (intesa nel suo più alto significato di “conoscenza” dell’uomo) sono la stessa cosa e fare storia significa fare antropologia, una antropologia a fondazione storica (e non certo una Antropologia storica) proprio perché letta e narrata attraverso il correre delle vicende umane. Per questo e non per altro il sapere storico ha creato una frattura profonda tra scienze dell’uomo e scienze della natura che solo ora sembra in via di graduale superamento. Ed è proprio questa frattura, il nascere e l’affermarsi della storiografia nei secoli XVIII-XIX come teoria della conoscenza della cultura occidentale, che ha posto il problema della specificità del mito come una reale alterità o una sorta di indicatore della “preistoria” spirituale del pensiero moderno. Il confronto tra discorso storico e pensiero mitico nasce qui. Per quanto riguarda il mito, occorre ricordare in prima istanza che il vocabolo è greco; che nella “cultura” greca il mito di cui per secoli abbiamo parlato ha trovato la sua genesi e la sua reale funzione; che l’esperienza intellettuale greca per eccellenza, la filosofia, è sempre convissuta con il pensiero mitico; che infine proprio la Rinascita del pensiero classico ha reintrodotto con forza questa dimensione dell’esperienza umana nella cultura della modernità facendo riaffiorare un universo di simboli, racconti, stili di vita, esperienze artistiche e spirituali nel cuore della civiltà occidentale. La 6 rinascita degli antichi dei e la loro presenza nel mondo moderno, ha segnato, infatti, tutto il ciclo storico dei secoli XV-XIX e realizzato processi di acculturazione e imitazione verso la classicità fino a un tempo non molto lontano da noi. La fascinazione della nostra cultura verso la mitologia greca deve quindi ricondurci alla radice del problema e forse proprio da lì bisogna partire. Linguaggio, racconto, evento Mithos, secondo i filologi classici, sta a significare, nelle lingua greca, “parola”, “discorso” e qualcosa come “azione del narrare”, più in generale “racconto”, e cioè una procedura operativa del linguaggio che certo è uno dei più evidenti vantaggi evolutivi della nostra specie. Il linguaggio è il fondamento della conoscenza ed è un processo cognitivo in sé; certifica la capacità di astrazione della mente umana e questa astrazione dà luogo a una costante produzione di forme simboliche e segni il cui scambio consente quella collaborazione che chiamiamo socialità. Il “simbolo” (in greco: “mettere in comune”, “condividere”, “ricomporre”, ”obbligarsi al rispetto dell’accordo preso”), infatti, è abitualmente definito come un elemento della comunicazione in grado di rappresentare un concetto o una quantità (per esempio: un'idea, un oggetto, una qualità) che abbia un forte carattere “intersoggettivo” in quanto condiviso da un gruppo sociale e cioè realmente comunicabile in una determinata circostanza e in un determinato contesto. Le elaborazioni simboliche che fondano il linguaggio, si organizzano poi in sequenze e percorsi dotati di senso che attribuiscono all’uomo la facoltà esclusiva di produrre ciò che chiamiamo cultura. L’azione del narrare, il racconto e, in termini traslati, il mito, si configura dunque un processo comunicativo che organizza simboli e segni in una sequenza dotata di significato. Più circostanziato appare nelle sue origini il temine di Storia che trova le sue radici remote nel vocabolo greco istor (“saggio”, “testimone”, “colui che vede”) e in quello successivo di Historiai che sta a significare “ricerca”, “cose viste”, “conoscenza acquisita tramite indagine”. Ma proprio fin dalle sue radici remote l’idea di Storia, come raccolta di fatti e dati, appare indisgiungibile dall’azione stessa della sua comunicazione; le storie sona tali proprio perché si raccontano e per convenzione universalmente accettata la Storia è la “narrazione dei fatti storici”. In virtù di questo approccio al problema, mito, storia e racconto sono sinonimi o partecipano di una comune funzione; ogni mito è un racconto e ogni racconto è una storia, cioè è la costruzione di canoni e processi comunicativi che danno un “senso”, un “significato”, alla comunicazione stessa e ne strutturano il contenuto a partire dalle elaborazioni simboliche che appartengono al linguaggio umano. Poiché ogni racconto è un processo di elaborazioni simboliche a scopo comunicativo, esso è anche una sostanza mutevole, malleabile e soggetta alla “struttura” interattiva della comunicazione stessa, all’interpretazione. I racconti veicolano simboli e rappresentazione che, per essere tali (per essere 7 davvero struttura comunicativa), sono con-divisi, “messi in comune”, sono oggetto di partecipazione e di un comune sentire, infine di un possibile scambio. Processo che il pensiero greco ha definito, fin dalle origini della riflessione linguistica, come la “forza di persuasione” della parola ovvero l’alto o basso grado di comunicabilità del discorso. Questa struttura comunicativa (che è il linguaggio in sé) a fondazione simbolica è ciò che chiamiamo “produzione della cultura” e cultura in sé: una produzione di racconti, di forme simboliche e rappresentazioni che veicolano e codificano significati condivisi: i valori (le idee forti) i quali divengono credenze diffuse e determinano le pratiche di comportamento di un certo gruppo sociale. Fissano insomma le regole del gioco a livello sistemico delle strutture organizzative ai loro vari livelli di complessità. Noi viviamo e ci rappresentiamo, assumiamo identità e comunichiamo, in relazione ai racconti condivisi che ci spiegano le regole del gioco sociale. Raccontiamo storie, e la nostra stessa storia, e, in questo senso, ogni narrazione è una produzione mitica e storica insieme, è un racconto e ogni racconto è lo sviluppo di qualcosa che si assume come accaduto, passato. Ma cose è un racconto, quale il suo contenuto, quale la sua struttura? Un racconto è la “rappresentazione” di azioni. Anzi, per la precisione: “l’imitazione dell’azione è il racconto, poiché chiamo racconto proprio questo: la composizione delle azioni” (Aristotele, Poetica). Da circa venticinque secoli, analisti del linguaggio e poi linguisti si sono fondamentalmente attenuti a questo assunto dal qual ancor oggi si può partire. Più di recente la Narratologia, disciplina neonata nell’universo della scienze del linguaggio (se ne data la costituzione al 1960), sta approfondendo il problema a partire dall’enfasi accordata al ruolo degli aspetti comunicativi del racconto e dalla sua struttura linguistica. Se la narrazione è un processo di comunicazione, ne consegue infatti che il racconto è un procedura di costruzione di un prodotto comunicativo e questo prodotto è lo sviluppo di un insieme di azioni che chiamiamo evento: la rappresentazione (“imitazione”, “mimesi”) di una sequenza/successione di azioni nel loro insieme coerenti e dotate di senso. Per effetto del suo significato, della sua comunicazione e della sua condivisione, il racconto è un processo conoscitivo e concorre a costruire la realtà intesa come un susseguirsi di eventi. Che cosa è allora un evento? Anche qui è possibile esprimere un punto di vista generalmente condiviso. L’evento è un “fatto” (un’azione, un movimento) che sopraggiunge in un certo luogo del tempo e dello spazio (in fisica l’evento è un “punto” dello spaziotempo) e, per effetto della nostra esperienza conoscitiva, è percepito come una rottura, come un mutamento che ci rivela il nostro modo di essere nel mondo e nel tempo, segna il prima e il dopo, ci coinvolge e suscita il nostro impegno a conferirgli un senso. L’evento si caratterizza, infatti, alla nostra percezione, per essere una rottura, una discontinuità nel corso delle cose e del loro ordine atteso (una “novità”) e che, proprio per questo, necessita di un significato, una spiegazione, un senso. In senso ampio il temine di evento sta a significare tutto quanto “accade” ed è conoscibile proprio perché “accaduto” nel tempo. Non esiste 8 un tempo senza eventi così come non vi è un evento senza una sua origine nel tempo che ne certifichi l’esistenza. In questa prospettiva di interpretazione, l’“evento” e il racconto di un evento, sono una modalità di umanizzare e addomesticare il tempo e un criterio/indicatore della sua possibile misurazione. Sono infatti gli eventi condivisi a costruire il calendario culturale di ogni organizzazione umana e sono i racconti condivisi di questi eventi a realizzare quel patrimonio comune di giudizi, valori, simboli che è la cultura nel significato più ampio, ma anche più profondo. Racconto ed evento, dunque, si intrecciano indissolubilmente: è infatti evidente che gli eventi esistono solo se sono narrati, comunicati e condivisi come tali. È il racconto, la narrazione stessa che crea l’evento? Si dovrebbe rispondere sì, e senza incertezze. Un evento non esiste se non è percepito, costruito dal linguaggio, raccontato, comunicato e accolto/condiviso come tale. Nei fatti è quella struttura operativa del linguaggio che chiamiamo narrazione a creare l’evento in quanto accadimento nel tempo e afarne un laboratorio permanente della temporalità.. Ogni racconto, infatti, in quanto rappresentazione/imitazione di azioni è anche una produzione della temporalità in grado di misurare l’azione stessa. Ogni racconto ha un principio, un esordio che genera il tempo stesso della narrazione a partire da una discontinuità che è il suo stesso inizio; uno sviluppo delle azioni narrate e cioè una trama che spiega, organizza o giustifica le azioni in relazione alla discontinuità che le ha generate; infine ogni racconto ha un suo necessario epilogo proprio perchè l’evento è accaduto, il suo tempo si è esaurito. Nel suo sviluppo complessivo, dalla suo esordio al suo epilogo, ogni evento/racconto comunica un senso, un significato delle azioni stesse. Questo significato, che sembra essere quello di ristabilire una situazione di equilibrio anche se non di necessaria conciliazione tra discontinuità e continuità, è infine la funzione del narratore, del soggetto in quanto io narrante. Il narratore è, infatti, il legislatore del racconto e dell’evento narrato poiché lo sceglie, sceglie l’insieme di simboli e segni che en consentono la costruzione e la comunicazione, e fissa le regole interne che organizzano l’esordio, la trama e l’epilogo a fini comunicativi, e in questo senso ogni narratore e al tempo stesso un mediatore e un media. Narrazione come processo di comunicazione (e scambio), racconto come procedura di senso, evento come prodotto comunicativo, riconducono il campo di indagine dei rapporti tra mito è storia a un terreno comune che è quello del linguaggio umano inteso come produzione di simboli e rappresentazioni condivise: un processo cognitivo in sé e quindi una produzione di cultura. Mito e storia sono procedure conoscitive e comunicative e concorrono a costruire la realtà. Tuttavia, proprio questo approccio linguistico e narratologico al problema, sembra confondere ogni possibile confine tra mito e storia: i racconti infatti sono “storie” e la Storia è un racconto, e infine storia e racconto sono sinonimi. Quale è allora, se davvero vi è, la differenza tra il racconto mitico e il racconto storico? Come si definiscono, per differenza, le due procedure conoscitive e comunicative, così saldamente ancorate elle strutture operative 9 del linguaggio, e quali campi percettivi fondano il racconto mitico e quello storico? Mito e storia. Occorre in primo luogo sgomberare il campo linguistico dai luoghi comuni e dalla false piste. Ancor oggi, nel linguaggio corrivo, si definisce comunemente e volgarmente "mito" la narrazione di eventi fantastici e leggendari, in qualche modo legati a credenze religiose, su divinità e antichi eroi, o sui rapporti tra l’uomo, la natura e ciò che è soprannaturale. Questo comune sentire è il risultato di un modello di cultura (quello della modernità) nel quale il mito, il mito greco in particolare, è stato parte costitutiva del dibattito Antichi/Moderni nel corso dei secoli XVI-XVII. La riscoperta della mitologia greca, poi la rinascita, la sopravvivenza e la morte tardiva degli antichi dei greci e romani, ha profondamente contribuito alla fondazione del pensiero dell’Europa occidentale in età moderna e solo la Rivoluzione scientifica, che ha segnato il trionfo dei Moderni sugli Antichi, ha creato le condizioni per una svalutazione complessiva del sapere mitologico e delle narrazioni mitiche a tutto vantaggio del discorso e del sapere storico. A seguito dell’emergere della storiografia come tecnica dominante (istituzionale e quindi politica) nella narrazione degli eventi, si è a lungo immaginato che il mito fosse una sorta di stato nascente (primitivo) del pensiero greco. Oggi però sappiamo che la società e la cultura greca hanno sempre convissuto con le narrazioni mitiche e ben oltre la nascita del pensiero razionale; sappiamo che filosofi e storici dell’antichità hanno accordato dignità alla sfera mitologica, che essa è stata parte e struttura del pensiero filosofico stesso. Sappiamo infine che la sfera del sacro, sorretta dal pensiero mitico, non è mai stata disgiunta dall’esperienza di conoscenza del mondo e della natura. Un secondo errore interpretativo, che va definitivamente archiviato, è quello che attribuisce al pensiero mitico un fondazione immaginifica rispetto a quella razionale del pensiero moderno e del discorso storico. Ogni racconto è dotato di una sua struttura, di sue regole proprie che lo rendono coerente e gli danno significato. L’archiviazione del pensiero mitico operata nel corso dei secoli XVIII-XIX, si è fondata sul radicato pregiudizio che la sfera del mito fosse il frutto di un pensiero prelogico (irrazionale) e quindi rappresentasse uno stadio precedente o residuale dello sviluppo della cultura umana votata all’emergere della razionalità; un approccio interpretativo che oggi non ha più luogo. Così come superata appare la rivalutazione del mito ad opera del pensiero romantico che ne ha fatto la traccia originaria e originale della primigenia condizione umana, un indicatore prezioso in grado di rivelare le strutture più profonde, naturali e autentiche della psiche che si sarebbero poi, “storicamente”, progressivamente inabissate ad opera del corso della civiltà stessa. Il buon selvaggio non è mai esistito, così come le società primitive non sono né il giardino dell’Eden, né l’anticamera dell’inferno. 10 Un ultimo malinteso, su cui occorre fare chiarezza e prendere netta posizione, è quello relativo all’alto o basso grado di propensione al sapere storico nelle varie culture. Sarebbe questo un indicatore dei rapporti tra Mito e Storia. Si tratta di un dibattito e un tentativo di fondazione teorica che si è sviluppato, a partire dagli anni Settanta del Novecento, proprio per effetto di un intreccio tra storici e antropologi e che ha condotto a distribuire punteggi di merito circa il livello di “temperatura storica” della varie esperienza conoscitive di gruppi sociali e civiltà. Vi sarebbero così, in base a questo paradigma interpretativo, gruppi umani e culture con un livello di temperatura storica vicina allo zero, società senza storia perché immobili e dunque dotate di una “memoria storica” di sostanza e funzioni diverse da quella specifica del pensiero moderno e occidentale. Ma le società immobili non esistono perché ovunque vi sono eventi e racconti degli eventi, così come non può esistere per definizione una “histoire immobile”. La “memoria storica” sembra poi essere, alla luce della più recenti acquisizioni delle neuroscienze e della scienze cognitive, più un postulato dogmatico che un assunto teorico. Memoria, racconti, eventi sono elementi costitutivi di ogni modello di cultura, ogni cultura ha una sua percezione della temporalità sulla quale adegua la memoria individuale e ha eventi da ricordare per effetto della loro narrazione. Semmai è il canone narrativo che cambia. Gli sviluppi dell’antropologia sociale e culturale, ci hanno rivelato che la produzione mitica, e l’insieme dei racconti che la costituiscono, è parte strutturale di qualsiasi modello di cultura, e sappiamo che la cultura stessa, nel suo più ampio significato, è appunto un insieme coerente quanto mutevole di credenze in valori, simboli e rappresentazioni condivise; sappiamo che ogni sistema culturale si realizza e vive in virtù di scambi comunicativi fatti di racconti e metaracconti i quali insegnano le regole dell’organizzazione sociale e del comportamento individuale che ne deve conseguire. Ogni società vive ed evolve nel suo presente in relazione all’alto o basso grado non gia di “temperatura storica”, ma di condivisione e partecipazione ai valori che soggiacciono al tessuto di norme che la costituiscono. Valutati alla luce dell’esperienza antropologica e dell’approccio linguistico, mito e storia, oggi, non si presentano come una naturale successione logica e temporale, non sono realizzazioni di diverse facoltà intellettiva (immaginazione e ragione), non segnano un prima e un dopo nel corso della civiltà, ma coesistono in ogni cultura e scambiano forse di continuo le loro strutture, la loro funzione e le loro proprietà. È ragionevole ritenere che oggi larga parte dei cultori di scienze umane possano condividere il punto di vista di chi (tra i molti Cassirer) ha da tempo proposto una revisione profonda, se non radicale, delle stesso modello di uomo elaborato dalla cultura della modernità e definito in base al progressivo emergere della razionalità. Poiché il linguaggio si configura come consustanziale all’uomo e alla sua presenza come tale nel mondo, la sequenza uomo, linguaggio, cultura, razionalità, che ha costituito l’orizzonte antropologico della modernità sembra ormai aver definitivamente superato i suoi tradizionali confini. Si può dunque concludere che “la ragione è un termine assai inadeguato per comprendere tutte le forme della vita culturale 11 dell'uomo in tutta la loro ricchezza e varietà. E poiché tutte queste forme sono forme simboliche ne consegue che, invece di definire l'uomo animale razionale, possiamo definirlo animale simbolico. Così facendo indichiamo ciò che specificamente lo distingue e possiamo capire la nuova strada che si è aperta all'uomo, la strada verso la civiltà”. E anzi, alla luce di una teoria della cultura come sistema complesso e a fondazione simbolica, si giunge facilmente alla conclusione che proprio la razionalità abbia costituito e costituisca un mito centrale (una credenza condivisa) del nostro stesso modello di cultura. Più di recente le scienze cognitive e il pensiero della complessità si sono anche spinte ben oltre queste prime revisioni. Un approccio dal punto di vista del pensiero complesso consente di aggiungere qualcosa all’interpretazione classica del pensiero come produzione di forme simboliche. E cioè che questa produzione è di tipo sistemico e realizza sistemi di simboli tra loro dinamici e a diversi livelli di complessità. Il linguaggio umano, come la mente, si configura allora come un processo o un comportamento emergente (nativo), quel comportamento proprio dei sistemi che fa apparire nuove proprietà (“proprietà emergenti”) a partire dall’interno dei sistemi stessi. In altri termini i sistemi simbolici del linguaggio sarebbero autopoietici, sistemi che si ridefiniscono, si riproducono, si autoorgannizzano per effetto delle loro interazioni. Il racconto come struttura operativa del linguaggio ci appare così, se non come dotato di vita propria, un oggetto o una cosa, certo come un prodotto della cultura umana dotato di un grado elevato di autonomia, un processo cognitivo in sé. Ma è proprio, pur alla luce di questi nuovi orizzonti, che la domanda si ripropone con forza. Se il racconto è una parte tento significativa nella costruzione della realtà, quale è, se davvero vi è, la differenza tra storia e mito, racconto storico e racconto mitico? Poiché è proprio la storiografia, costituendosi a partire dal XVIII secolo in sapere autonomo (e cioè “epistemologicamente” fondato), che ha codificato questa differenza tra Mito e Storia sul piano del metodo e degli obiettivi, è bene partirei qui. Per differenza rispetto ad ogni forma di narrazione e in particolare quella mitica, la storiografia moderna assume come fondamento del suo statuto disciplinare di limitare il suo ambito narrativo ai fatti ed eventi “storicamente fondati” e certificati da fonti che ne garantiscano la effettiva realtà. Per convinzione universale, infatti, la Storia è la “narrazione di fatti veri e realmente accaduti relativi alle vicende umane”. Per opposto la cultura storica dell’occidente, all’atto stesso della sua fondazione, ha attribuito al pensiero mitico il racconto di eventi fantastici e leggendari, di azioni sovrumane in nulla “storicamente fondate”. Seguendo questa pista, del tutto visibile e da tutti percepita, si giunge alla conclusione che la differenza tra i due ordini di esperienza conoscitiva non risiede né nella procedura narrativa né nella struttura del racconto, risiede bensì nella temporalità e cioè nella dimensione del tempo o campo temporale nel quale queste narrazioni si collocano: il tempo “storico” da un lato, il tempo “mitico” dall’altro. 12 Tempo “storico” e tempo “mitico”. Anche qui una precisazione fa da premessa. Il Tempo con la T maiuscola non esiste e si configura ormai come una dimensione del tutto metafisica inafferrabile dall’esperienza. Ogni racconto genera il suo tempo e l’evento narrato è un laboratorio della temporalità. Gli storici non si sono mai occupati del Tempo come dimensione assoluta e universale, ma appunto del tempo “storico” e questo tempo convive e coesiste con una infinita pluralità di altre dimensioni e strutture della temporalità. Che il tempo sia “relativo” è un convinzione ormai diffusa e che ogni circostanza, ogni evento, ogni oggetto abbia un suo tempo è una esperienza diretta di ciascuno di noi. Ogni approccio alla realtà, così come ogni esperienza conoscitiva, incontra e in qualche modo genera una specifica struttura del tempo. Ogni ordine di sapere ha un suo codice della temporalità, criteri di misurazione, calendari e durata degli eventi osservati così come ciascuna forma letteraria ha i tempi e ritmi che le sono propri. Il tempo “storico” può essere definito come il tempo delle vicende umane databili, nella loro successione necessaria (il prima e il dopo che è il “divenire” storico), a partire da un certo evento e, da questo punto di vista, la Storia si configura come il racconto di tutti i racconti o se si preferisce un palinsesto di più narrazioni, o ancora un “metaracconto” capace di dare ordine e un complessivo significato a tutti gli eventi relativi alla presenza dell’uomo nel mondo. Datazione, successione ed evento fondativo concorrono a definire la struttura del tempo storico. La datazione è la misura del tempo fornita da un calendario e cioè da un utensile creato dalle varie culture per dare un nome a singole porzioni del tempo e iscrivervi dati e informazioni in una regolare e ripetitiva successione. Per la storiografia occidentale il calendario è quello Gregoriano. L’evento iscritto in questo calendario che da origine al tempo storico è, per convenzione condivisa, la data di invenzione della scrittura. Prima di quella data non esiste il tempo storico, ma quello pre-istorico e gli eventi che sono “immemorabili”, e cioè che non possono essere datati, non fanno parte del tempo storico. La scrittura della storia si opera quindi in relazione agli eventi databili che si considerano, per ciò stesso, realmente accaduti; e poiché, per effetto della datazione, gli eventi si succedono cronologicamente in un prima e in un dopo, il tempo storico è lineare anche là dove, per effetto della sua presunta ripetitività, appare superficialmente come ciclico. La successione temporale è continua, necessaria e trascina gli eventi in un continuo che chiamiamo appunto il “divenire storico”. Per questo il tempo storico è sicuramente percepito come una freccia che corre da un punto di inizio a una fine e l’oggetto della narrazione di questo corso è solo ed esclusivamente la vicenda umana e il suo “progredire” (ma forse solo “procedere”) nel mondo. Ma questa percezione del tempo, a misura umana e specchio immediato dell’esperienza biologica della specie, è tuttavia essa stessa un prodotto della cultura, una convenzione condivisa, e per questo la Storia con la S maiuscola può essere a sua volta definita come la credenza in un Tempo (anch’esso con la T maiuscola) lineare e progressivo che corre da un evento 13 fondativo e certo, fino a un punto terminale che, di volta in volta, la struttura e il senso del racconto storico definiscono. Una credenza che, per altro, la scienza del nostro tempo si è incaricata di archiviare. Per differenza rispetto a quello storico, è possibile definire il tempo “mitico” il quale raccoglie eventi non databili perché non sono “realmente” accaduti o, forse meglio, non sono realmente accaduti perché non sono databili. Liberato dal tempo storico, il racconto mitologico ha il compito di spiegare proprio quegli eventi che la storiografia non può raccontare perché sfuggono al suo campo temporale e per i quali non esistono fonti scientificamente accettate e codificate. Ne è conseguita e ne consegue una netta divisione di campo e, per molto tempo, una dinamica conflittuale: il pensiero storico non accorda alcun fondamento costruttivo al tempo del mito, una dimensione temporale che, a differenza di quella della storia, si qualifica per essere estranea a qualunque criterio di linearità, di misurazione e quindi di verifica di realtà. Di qui si scivola automaticamente in un giudizio di valore che nega al mito ogni “verità” confinando la narrazione mitica alla sfera del fantastico, del leggendario e del numinoso. Ma, in relazione all’approccio seguito fin qui, questa deriva interpretativa è soggetta a profonda revisione. Anche qui il problema sembra mal posto. Innanzi tutto il tempo mitico non è quello che consente di raccontare e misurare le vicende dell’uomo nel mondo, ma semmai di rappresentare l’insieme di rapporti che il mondo ha con l’essere umano. Nella narrazione mitica non è l’uomo il soggetto privilegiato che fa del mondo la sua scena, ma è il mondo, nella infinita pluralità delle sue manifestazioni, che deve comporre in sé l’incerta e mutevole presenza dell’uomo. Per questo il tempo mitico non è lineare e la sua trama è “complessa” nel significato etimologico del termine: “tiene insieme”, mette in relazione, connette una pluralità di rapporti, circostanze e azioni che non hanno né un oggetto, né un io narrante predefinito. Il tempo mitico, non è “storico” non già e non solo perché i fatti che genera e accoglie non sono databili, ma perché questi fatti connettono tra loro dimensioni temporali diverse: quelle delle forze della natura, delle origini del cosmo inteso come una creazione permanente, dei rapporti tra gli esseri umani e il loro tempo e gli innumerevoli, casuali tempi che le infinite varietà dell’essere (le forme di vita) portano con sé. Nel pensiero mitico, sulla ricerca delle “verità” fattuali, prevale una funzione ben più importante che é quella di produrre rappresentazioni condivise, e cioè forme simboliche e significati, che assicurino un alto grado di integrazione dell’uomo con il misterium tremendum et fascinans che è la totalità del cosmo e cioè un’esperienza conoscitiva che va oltre la soglia dei sensi. Contrariamente a quanto accade nel discorso storico, gli eventi dei quali si occupa la narrazione mitica non devono essere “insegnati”, più semplicemente devono essere “partecipati” e la loro “verità” non consiste nella corrispondenza con ciò che chiamiamo realtà, non nella coerenza razionale delle azioni narrate, ma nella produzione di consenso; insomma ciò che chiamiamo, con profonda superficialità verbale, “verità” o certezza qui assume un significato e svolge un ruolo assai più immediato e si realizza nel “mettere d’accordo” gli “ascoltatori” sul senso che i racconti trasmettono all’interno di un determinato circuito comunicativo (i clan, le tribù, le 14 organizzazioni urbane e i comparti in termini di età, funzioni professionali, ecc.). Proprio questa funzione del mito consente di ridefinire i rapporti tra tempo storico e tempo mitico e, più in generale, quelli tra Storia e Mito, tra racconto storico e racconto mitico facendo perno sul moderno concetto di cultura da un lato e sulle strutture operative del linguaggio che la fondano dall’altro. E per questa via si può forse costruire un paradigma (inteso come una matrice di pensiero che cristallizza una visione globale e globalmente condivisa del mondo) capace, se non di conciliare le due esperienze conoscitive, almeno di rendere conto della loro continuata coesistenza e dei reciproci scambi che la tengono in vita, e dare conto della crisi del pensiero mitico nei secoli della modernità e di quella del discorso storico che sembra caratterizzare il tempo presente. I problemi, del resto, sono da tempo sul tappeto e il dibattito è aperto in più ambiti disciplinari. Problemi di confine. Innanzi tutto oggi i confini tra i due campi conoscitivi paiono assai più sfumati di quanto avvenisse in passato. Oggi sappiamo che le narrazioni mitiche contengono a volte reminiscenze di fatti storici, così come molte mitologie e miti del presente trovano le loro radici in narrazioni storiche. Nell’esperienza storica del mondo antico, racconto storico e racconto mitico non perdono mai il loro contatto e generalmente si confondono. Innanzi tutto la storiografia è stata vissuta dagli antichi come un genere letterario e ciò che si è salvato ed è arrivato fino a noi di un immenso patrimonio perduto è proprio il frutto di una selezione operata dagli antichi in relazione al valore stilistico e letterario dei racconti storici. I secondo luogo, per quanto attiene alla storiografia greca, tutte le opere si organizzano intorno al metaracconto di quella che è la più umana e sarei per dire la più antropomorfa delle mimesi della natura: la guerra e il conflitto per la sopravvivenza di stirpi, popoli e culture. Qui occupano la scena stirpi sovrumane di eroi che trasmettono le loro proprietà alla storia di uomini e a stirpi altrettanto eccezionali. E la fascinazione per questi eroi fondatori non solo non ha mai abbandonato gli storici antichi, ma ha costituito parte integrante della loro narrazione. Dall’epopea omerica passando per Erodono e Tucidide e giungere a tutta la letterature storica dell’antichità, la fondazione di ogni ciclo narrativo, le origini certificate di ogni evento sono mitiche nel senso che rinviano a racconti oltre i confini di ogni possibile datazione. Sono i miti della fondazione di città, della divinizzazione di antichi re, del destino impresso a questo o quel gruppo umano fin dalle origini cosmiche, racconti accettati perché condivisi e costitutivi della cultura intesa come funzione di identità. Nei fatti la storiografia antica non costituisce un vettore epistemologico della Storia come la ha pratica la cultura della modernità e nella pratica della storiografia moderna la lezione degli antichi appare più come un mito fondativo esso stesso del sapere storico che come una fonte di ispirazione metodologica e scientifica. Ma forse l’intreccio indissolubile dei rapporti tra rappresentazione mitica e fatto storico che ci 15 comunicano questi sacri testi può contribuire a liberaci dall’idea che esista un unico discorso storico. Lo studio della culture come sistemi complessi, ha favorito processi di revisione anche sull’altro versante. Oggi siamo disposti ad accettare che le narrazioni storiche non certificano la “verità” di fatti realmente accaduti. Ogni fatto storico è soggetto a una costante revisione sia sotto il profilo interpretativo sia in relazione alla “verità” dei fatti narrati: la datazione, la reale dimensione e localizzazione di ogni evento storico possono essere modificati per l’insorgere di nuove fonti e di nuovi percorsi metodologici. Nella ricerca storiografica nessun dato è certo, nessuna sequenza cronologica è definitiva. In realtà, la Storia è solo Storiografia perché il fatto storico si costituisce, prende forma e vive nell’atto della sua narrazione e dunque la storia non la fanno gli uomini nell’insieme costante delle loro reciproche azioni, ma la fanno gli storici che selezionano i fatti e li organizzano in eventi dotati di senso, li raccontano. Un fatto storico non rilevato, non datato, non oggetto di storio-grafia non è mai esistito. Per effetto della sua struttura narrativa e della sua funzione comunicativa, la storiografia (e cioè il racconto storico) non restituisce alcuna “verità” dell’evento, ma ne offre semplicemente la sua rappresentazione mutevole in funzione dell’interpretazione che, di volta in volta, il narratore sceglie per comunicare. Sappiamo inoltre che è il racconto, qualsiasi e ciascun racconto, a generare il suo tempo e che, per quanto costretto e costruito su scansioni cronologiche precise e circostanziate, ogni racconto storico non è il tempo reale dell’evento, ma una sua rappresentazione simbolica; è una dimensione virtuale delle temporalità del tutto flessibile e che si può comprimere o dilatare all’infinto. Poche pagine possono raccogliere vicende plurisecolari e intere biblioteche essere dedicate al racconto di un singolo evento. A una attenta analisi il tempo storico e il tempo mitico non segnano una radicale inconciliabilità e i loro confini non sembrano rigorosamente definiti. Ciò che chiamiamo Storia, con la S maiuscola, e che è un prodotto esclusivo della cultura della modernità, altro in realtà non è che la credenza diffusa di un tempo lineare capace di rappresentare il susseguirsi progressivo delle vicende umane da un evento fondativo verso un fine ultimo di natura morale e politica e, in realtà, apocalittica e profetica: l’emancipazione dell’uomo, esso stesso prodotto della storia, dai vincoli che proprio la sua natura di essere “storico” gli impongono; il che, non sfugge, si configura come un evidente paradosso. Se, infatti, la nostra antropologia filosofica, antropocentrica ed eurocentrico, fa dell’uomo un prodotto della sua stessa storia, del corso e del divenire delle vicende umane, allora la sua emancipazione sta nel compimento della Storia stessa. Questa credenza, universalmente diffusa e certo condivisa dagli storici, di un divenire storico fa della Storia l’indefinito contenitore di tutti i racconti possibili, un “metaracconto” e una vera e propria mitologia della modernità. Mito e Storia qui davvero si confondono e scambiano le loro proprietà. Con una fondamentale differenza però. Limitandosi alla narrazione delle vicende umane e delle relazioni che gli esseri umani intrattengo tra loro, la storiografia non produce cosmogonie, 16 bensì sociogonie; fonda e spiega l’origine delle organizzazioni sociali nella loro assoluta alterità rispetto alla natura e ai campi di forza che le governano. Celebra e definisce le origini e le ragioni del potere nella società e queste celebrazioni fondano una mitologia e un mito di potere e di potenza dell’uomo. Si può dunque ragionevolmente affermare che la storiografia occidentale dei secoli XV-XIX, e fino a un tempo non molto lontano da noi, è per questo un processo mitopoietico e un racconto nel quale l’uomo non è un oggetto della creazione, ma il soggetto di continui processi creativi del tempo e del suo stesso tempo in virtù dei racconti che fa della sue vicende storiche. La narrazione storica, infatti, genera un tempo che le è proprio e questo tempo è esclusivamente umano, esclude ogni altra dimensione della temporalità e crea un formidabile campo magnetico di identificazione e di condivisione. Nessun altro sistema di pensiero ha percorso un cammino tanto rischioso, nessuna cultura ha conferito al pensiero mitico il compito di umanizzare il tempo e di promuovere, nel tempo, l’espansione della conoscenza dell’uomo come dominio del mondo. Sta forse qui il vero confine tra Storia e Nito, ma certo è qui la forza del racconto storico, la sua potenza, la sua originalità e, al tempo stesso, il suo limite. Un limite che proprio il pensiero mitico sembra superare. Questo limite ci riconduce, infatti, al Mito, in particolare al pensiero mitico greco che ci ha seguito fin qui. Risalendo al tempo della formazione della cultura greca, i saperi umani, teorici e pratici, trovano la loro origine ultima presso gli dei, sono loro che donano agli uomini gli utensili e le conoscenze per trarne profitto: la saggezza come libera pratica di conoscenza che va ben oltre la filosofia. Ed è per questo che l’emergere della filosofia e del pensiero razionale non ha mai spezzato questo legame tra saggezza e divinità, un legame che anzi sul finire dell’Antichità sembra radicarsi con rinnovata forza. Gli dei del Pantheon greco sono antropomorfi e, come tali, sono uno specchio e una proiezione dell’uomo, ma hanno nomi e questi nomi sono forme simboliche e rappresentazioni di tutto quanto è il mondo percepito dai sensi e delle forze misteriose che lo governano. Cielo e terra, sole e notte, tempo e memoria, fuoco e acqua, mare e vento, giustizia e guerra e così via sono altrettanti dei e, più precisamente, essenze esterne e sovrastanti l’uomo per effetto della loro sostanza immateriale che è l’immortalità. La pluralità delle forze che agiscono nel mondo naturale e nell’uomo che di questo è una parte non esclusiva, né privilegiata, trova la sua rappresentazione nell’universo politeista e in un intreccio di azioni narrative che spiegano gli eventi. Ma anche se, in qualche modo, questi evinti si succedono in dimensioni e qualità tra loro diverse (le età del mondo e del cosmo), perché appunto sono storie, non sviluppano una temporalità lineare che proponga una direttrice di marcia, un divenire, un fine ultimo delle vicende di volta in volta narrate. Il fato, la casualità, l’imprevedibile governano gli eventi producono l’effetto di aprire gli eventi stessi e rigenerarli in un processo di auto e mitopoiesi. Più che una Storia in grado di contenere tutti i racconti e dar loro un ordine, la mitografia sembra sempre configurarsi come una genealogia o, se si preferisce, una biologia di eventi: ogni racconto mitico crea un sistema di relazioni complesse, discontinue e casuali con altre narrazioni senza dare luogo a una gerarchia e 17 neppure un ordine stabile perché le passioni che sono le forze del cosmo in libera, reciproca attrazione non danno luogo a continuità, ricorrenze, ripetizioni o sistemi di regole. Ben diversamente dalla costruzione di scenari storici e vicende umane tra loro susseguenti e coerenti, la rappresentazione mitica ha infatti la particolarità di organizzare, qui e ora, l’insieme possibile di relazioni tra oggetti e circostanze percepibili dai sensi in un sistema complessivo e complesso autosufficiente e quindi globale. Ciò che chiamiamo mitologia in realtà è una enciclopedia del sapere, delle arti e dei mestieri, una “enciclopedia tribale” che mette in rete e connette un sistema complesso di significati. In questo senso l’approccio conoscitivo del pensiero mitico è di tipo olistico, termine con il quale oggi indichiamo quella tendenza della natura a costituire insiemi che sono diversi dalla somma delle singole parti che li compongono (in termini di teoria della complessità è la tendenza dell’universo a costituire delle unità strutturali ci complessità crescente ma formanti ciascuna una totalità). Tutte le parti del discorso mitico, le azioni e gli attori che esso genera, partecipano di un tessuto connettivo che è specifico del discorso stesso e non possono essere considerate isolatamente. La narrazione mitica in apparenza, ma solo in apparenza, si chiude su sé stessa, in qualche modo si auto-organizza e genera eventi il cui significato è incontrovertibile perché non necessita di valori codificati di riferimento (vero o falso, giusto o ingiusto, razionale o irrazionale) esterni a sé stesso. Qui l’evento non ha bisogno di un prima e di un dopo e, in certo senso, ogni evento mitico è un laboratorio esclusivo del suo stesso tempo, è una fondazione “nativa” che precede e genera le strutture profonde, le fa emergere. Ed è per questo che la narrazione degli eventi mitici non dà luogo a una dinamica lineare (la sequenza cronologica), piuttosto dà luogo a una genealogia intesa come un sistema di relazioni con altrettante unità narrative ciascuna dotata di una sua totalità, un sistema a rete e reticolare. Insomma un sistema chiuso e aperto alla stesso tempo, un processo cognitivo in sé. Il pensiero mitico appare insomma, assai più che il discorso storico, come un paradigma della complessità e del pensiero complesso. Sta certo in questa compiuta autosufficienza narrativa la forza del pensiero mitico, il suo alto livello di partecipazione e condivisione e la sua funzione di fondazione primaria della cultura di cui svela tutta la complessità. E sta qui, in questa soggiacente accettazione del complesso e nella intuizione della complessità come dimensione profonda di ciò che chiamiamo cultura, la ragione della persistenza e centralità del pensiero mitico nella produzione di quelle rappresentazioni collettive (valori, idee forti, pratiche e riti fondati su racconti condivisi) che caratterizzano le organizzazioni umane. Il tema della complessità e il nuovo convoglio semantico che essa richiama da più campi disciplinari (teoria della complessità e del caos, sistemi complessi, emergenza, dissipazione, olismo, globalità, teoria dei sistemi, intelligenza artificiale e intelligenza collettiva, ecc.) segna oggi il superamento del modello culturale della modernità e di quella epistemologia (fondata sul mito della razionalità) e antropologia (fondata sul mito 18 eurocentrico) che potremmo ormai definire come la deriva tradizionale del pensiero occidentale. Cosicché proprio facendo leva sull’interpretazione del pensiero mitico come paradigma di un pensiero della complessità, siamo forse nelle condizioni di tracciare confini nuovi e più definiti tra Mito e Storia, racconto mitico e racconto storico, e di intravedere al tempo stesso il possibile superamento di questi stessi confini. L’emergenza della complessità. In virtù dell’emergenza del pensiero complesso come tessuto connettivo o teoria unificata di vasti campi disciplinari, oggi siamo disposti ad accettare che l’opposto della verità non è l’errore, ma un’altra verità e che tanto più e profonda una verità tanto più cela o genera una contro-verità altrettanto profonda. Oggi sospettiamo come proprio la cancellazione del pensiero mitico a vantaggio del discorso storico abbia dato luogo al sorgere di sociogonie, di nuove mitologie e produzione di forma simboliche, rappresentazioni, racconti e metaracconti. I racconti storici oggi si possono interpretare come veri e propri campi mitogentici che offrono l’occasione, non solo per una rilettura del modello culturale della modernità e di una ridefinizione dei confini tra mito e storia che ne hanno segnato la particolarità e il paradigma, ma consentono forse di superare questo stesso modello e questi stessi confini. La revisione tocca le radici profonde della cultura occidentale e del suo sviluppo nel modello culturale della modernità. La filosofia come esperienza individuale della conoscenza delle cose del mondo e quindi come decentramento, presa di distanze dell’uomo dal modo, nasce in Grecia proprio come analisi critica e progressiva demolizione di quella saggezza diffusa che si confonde con la produzione di miti. È una frattura tra uomo e mondo, tra soggetto e oggetto, che ha prodotto un balzo prodigioso per la storia dell’umanità: ha dato origine all’antropologia dell’occidente e generato un modello culturale (quello della modernità) che oggi ha globalizzato il mondo. Ma la ricerca della verità come esclusivo obiettivo della conoscenza, ha creato un dualismo ontologico radicale tra essere e non essere, tra vero e falso, tra sapere codificato e libero pensiero, tra metodo e creatività, infine tra fatti “realmente accaduti” ed eventi aperti a trame narrative casuali e discontinue, tra un tempo lineare predefinito e programmato nel suo sviluppo e una dimensione instabile della temporalità dinamica e capace di accogliere la connessione con una pluralità di tempi e di agenti e di co-evolvere con essi. Questo dualismo ha dato poi luogo a processi di riduzione della realtà e comportato una progressiva rinuncia alla complessità del reale. La riduzione del mondo a scenario delle vicende umane, che è l’immediato riflesso della storia dell’uomo moderno e delle tecniche e dei canoni della sua narrazione, ha codificato nella nostra cultura le credenze nella linearità del tempo, nel necessario rapporto di causalità nella successione degli eventi nel tempo e in un incessante divenire profetico e 19 apocalittico. Per effetto di questo processo di riduzione, nella cultura occidentale, in forza delle sue radici giudaiche, l’origine del cosmo coincide con l’atto creativo narrato nella Genesi, l’origine della storia dell’umanità è l’Evento di fondazione del cristianesimo, e cioè il mito fondativo di una religione dell’uomo come immagine della divinità. Questi miti fondativi hanno poi dato luogo al conseguente processo di divinizzazione dell’uomo stesso: quel processo di laicizzazione (il cui rovescio è appunto la dinivinizzazione) che ha caratterizzato la cultura della modernità e imposto l’onnipotenza del sapere e della razionalità e ha insediato la storiografia come autonomo ordine del sapere al quale è stato affidato il compito di conciliare continuità e discontinuità nel progredire indefinito dell’emancipazione dell’uomo dal mondo e dalla sua stessa storia. La storiografia ha così assunto nei secoli XVIII-XIX un ruolo strategico e centrale nella umanizzazione del tempo e nella produzione di sociogonie e dei miti del potere: il potere della razionalità, l’idea del progresso e poi quella del divenire necessario di questo progresso, l’idea di stato come compimento definitivo di una “sociogonia universale” e poi del supermento di questo stesso mito in una dimensione spirituale del collettivo che chiamiamo nazione. E infine, proprio in forza di questo collettivo in costante “divenire” storico, si è giunti a una nuova, apocalittica, sociogonia che è davvero già una cosmogonia: il comunismo, una società senza classi e senza stato, il compimento della storia stessa e la sua fine, l’avvento di un paradiso per effetto del “ritorno alle origini”. L’ultimo grande mito dell’eterno ritorno. Per questa sua funzione mitopoietica la Storia è divenuta così, al culmine della sua centralità come teoria unificata della conoscenze, l’incubatore e la sorgente di tutto il convoglio delle scienze umane. L’esperienza storiografica ha generato la sociologia, l’antropologia, l’etnografia, la geografia, la linguistica e una pluralità di comparti e sottocomparti disciplinari. E la storia si è infine autodefinita, negli anni Sessanta del secolo scorso, il “mercato comune delle scienze umane”. Un mercato di scambio tra saperi e metodi in grado di rassicurare e confermare incessantemente la centralità dell’uomo moderno al mondo e il suo difficile ruolo di produzione e governo della realtà. L’idea di una storiografia come mitografia della modernità pare ormai sempre più condivisa. I più recenti sviluppi del pensiero storico considerano la storiografia come una forma di narrazione connessa ad una istanza o un paradigma culturale che intende dare del passato una visione tale da rispondere alle preoccupazioni del presente per esorcizzarle e riconciliarle con il corso stesso del tempo. Gli storici tentano, infatti, ciascuno a suo modo di modificare o legittimare il presente con l’aiuto di nuove interpretazioni del passato. Ma la relatività di ogni interpretazione e di ogni teoria nel campo delle scienze umane, ha per conseguenza la relatività di ogni interpretazione storica. La prova più elementare non è più considerata come un fatto, ma come l’interpretazione di un avvenimento nella quale l’agente umano, il narratore-mediatore è implicato fin dall’inizio. Come ogni mediatore e comunicatore, lo storico ricostruisce e rielabora materiali presenti alla coscienza dei suoi ascoltatori, li seleziona e li interpreta dando loro un significato, ma all’atto stesso della selezione e dell’interpretazione 20 questi eventi mutano nella loro struttura e nella loro sostanza, si liberano da ogni condizionamento e si propongono come diversi o meglio nuovi, nativi. E questo processo cognitivo e comunicativo confonde automaticamente i confini tra mito e storia, conferisce centralità all’approccio linguistico, svela la natura sistemica e complessa di quell’insieme di simboli e segni che si organizzano e auto-organizzano nel racconto, spinge a superare l’idea stessa di funzione e struttura per ricercare le proprietà emergenti che danno luogo all’autopiesi. Ciò che permette e impone di superare i confini tra storia e mito è, infatti, un nuovo paradigma culturale che segna al tempo stesso anche il superamento del modello culturale della modernità e le mitologie che la hanno costituita. La novità è che, nel corso degli ultimi decenni, scienze fisiche e matematiche, scienze cognitive e scienze della vita hanno proposto e imposto una nuova visione della mondo e nuove teorie della conoscenza che riconducono la sociogonia storiografica della modernità a nuove e inattese cosmogonie. Neuroscienze, scienze della comunicazione, biologia, hanno spostato il fondamento della realtà dall’humnitas al concetto stesso di vita e di vivente come oggetto e fondamento di ogni possibile racconto e hanno aperto la strada al pensiero della complessità. L’uomo non è più percepito come il prodotto più elevato della creazione, ma come una delle innumerevoli piste evolutive della vita; e di conseguenze il corso delle vicende umane non può essere più immaginato come indicatore esclusivo della “storia universale” e dell’universo. La “storia” dell’uomo nel mondo come teatro della sua emancipazione esclusiva e dominante, cede così il campo all’ “evento” della vita come emergenza e processo continuo di conoscenza, comunicazione e autocreazione. Quest’idea emergente e centrale di vita, questo evento di fondazione universale e permanente, sembra configurarsi come il paradigma di una nuova cultura planetaria. Sicuramente è un “riforma della cultura” che si sta realizzando nel presente e il cui obiettivo è quello di comprendere il comportamento dei sistemi complessi, caratterizzati da elementi numerosi e diversi tra di loro e da connessioni numerose e non lineari. L’epistemologia della complessità che raccoglie in sé la pluralità dei campi di indagine e dei metodi di quelli che chiamiamo “nuovi saperi” (teoria della complessità e del caos, dei sistemi complessi ed emergenti, cibernetica, intelligenza artificiale, neoevoluzionismo, ecc.) ha di fatto archiviato in via definitiva miti e credenze costruiti pazientemente dalla storiografia nel corso dei secoli della modernità. Contestualmente alla fine della modernità si è dunque annunciata la fine della storia. È un’opinione diffusa e dibattuta e ovviamente respinta in blocco dagli storici. E i motivi di perplessità se non scetticismo, ci sono. Nei fati la domanda di storia, o perlomeno di racconti storici, è, proprio nel presente, quanto mia prorompente in tutti i settori della comunicazione, editoria, cinema teatro. Nelle produzioni televisive, nell’intrattenimento e nelle cerimonie collettive, la costruzione di scenari storici e la narrazione di eventi storici occupa un ruolo centrale. E lo stesso si può dire della presenza del mito e della narrazioni mitiche nel presente. Anzi, ad una attenta analisi, 21 narrazioni storiche e narrazioni mitiche, tempo storico e tempo mitico sembrano coesistere e addirittura integrarsi in modo permanente. Questo stato di cose, questa evidente contraddizione, ci consente di concludere tutte le riflessioni condotte fin qui e di trovare una possibile risposta ad alcuni degli interrogativi che hanno guidato questa “narrazione”. Approccio alla complessità. I confini tra storia e mito, lo si è detto sono labili e, in un approccio di tipo linguistico, pressoché inesistenti. Il mito è un racconto e il racconto una storia. Il racconto è un processo conoscitivo e un prodotto comunicativo che costruisce la realtà e la rende vera in relazione al grado di condivisione che raccoglie. Al pari di quanto accade nella storiografia, anche nella mitografia l’evento si costituisce nell’atto stesso della sua narrazione e della sua comunicazione, e sono i mediatori di questa comunicazione, i mitografi (poeti, aedi, narratori, mediatori con la sfera del numinoso e oggi tecnici della comunicazione) a costruire e formalizzare i canoni narrativi. A differenza degli storiografi, i narratori di miti non soffrono alcuna limitazione nella selezione e costruzione degli eventi e non dispongono di una linearità del tempo da rispettare. Al contrario il loro compito è interpretare e governare il discontinuo accettandolo come manifestazione autentica della realtà. Ma anche gli storici scelgono liberamente l’oggetto delle loro narrazione e, conciliando continuità e discontinuità, concorrono a costruire paradigmi di realtà, danno ordine e spiegano gli eventi. Al pari della mitologia anche la storia produce racconti il cui compito è quello di connettere le esperienze conoscitive individuali al vasto tessuto delle relazioni intersoggettive. La Storia, divenuta nel corso del XIX secolo “storia universale”, è un metaracconto che, come il mito, va oltre i confini dell’esperienza individuale, promuove valori, sistemi di idee, codifica comportamenti e “insegna” le regole del gioco di una certa società o di un certo gruppo sociale. Le storie raccontate dagli storici fissano poi le origini di queste regole, la loro legittimità e il loro perché. Tutti gli storici creano i propri miti fondativi degli eventi che vogliono narrare e questi miti sono quelli del potere, della sua legittimazione su base storica, in una certa società e in una determinata circostanza. Ma proprio questa procedura, quando raggiunge quel livello di condivisione che le da forza e la fa vivere, materializza automaticamente in riti, culti, credenze, apparati cerimoniali, comportamenti e persino sacrifici rituali. Un tessuto e una trama della cultura che di recente e con paradossale espressione si coniugano con ciò che viene definito “uso pubblico della storia”. La storia non ha mai, per sua stessa definizione, avuto un uso “privato” per il fatto che, in quanto la sua funzione è stata ed è quella di celebrare e comunicare i miti del potere e in questo senso tutta la storiografia è “comunicazione politica” e nulla più. Per questo il confine tra sociogonie storiche e cosmogonie mitiche appare inesistente. 22 Al pari della Storia il Mito non offre verità, offre una opportunità di verità perché la verità è ciò che si crede tale e cioè ciò che “convince”, connette e “mette d’accordo” più interlocutori sul significato di un determinato discorso. La condivisione del significato e di partecipazione allo sviluppo delle azioni narrate è la forza del racconto che questo sia mitico o storico. Il pensiero mitico va ben oltre i confini ristretti della vicenda umana e tocca quel livello complesso della conoscenza che non è sovrumano, ma semmai “ultraumano”. Il pensiero mitico svela una dimensione del concetto di coscienza e conoscenza, una dimensione della cultura destinata a dare scacco all’idea stessa di sapere (riduzionista e meccanicista) che proprio il discorso storico della modernità ha radicato nella cultura occidentale: l’antropocentrismo e l’eurocentrismo. Un antropocentrismo (fondato dalle radici giudaico-cristiane) che l’epistemologia del presente propone di superare e un eurocentrismo, (fondato dal processo di laicizzazione della modernità), che non ha più luogo nelle coscienze e che proprio una antropologia nuova, una antropologia della complessità, dovrebbe progressivamente archiviare. Ma proprio questa deriva svela la funzione profetica della storiografia non diversa da quella che il mito ha svolto e svolge nella costruzione dei paradigmi culturali; al pari dei narratori di miti, gli storici mediano incessantemente tra la sfera del visibile e la sfera del numinoso che è la progressiva divinizzazione dell’uomo e il suo destino di potere sul mondo. Ancora, e forse con maggior forza del mito, la storia si impone alla partecipazione e alla condivisione: la storia “insegna” la dignità dell’uomo e il suo destino di dominio e di potere sul mondo. Per questa sua funzione la storia è ben più che una sociogonia, è stata per la nostra cultura una vera e propria cosmogonia. Infine la forza del racconto, che sia esso storico o mitico, si manifesta nel suo basso o alto grado di condivisione e quindi del suo stabile insediamento nel sistema culturale. E questo livello di condivisione e partecipazione, per averlo sempre instabile in virtù dello scambio comunicativo e dei processi di interpretazione, non è l’effetto della coerenza che il racconto intrattiene solo ed esclusivamente con gli aspetti cumulativi e patrimoniali della cultura, non assume rilevanza in relazione alla “memoria storica” o alla “memoria collettiva”. La “memoria collettiva”, concetto nato nella psicologia sociale e derivato dalla sociologia, non sembra aver alcun fondamento alla luce delle più recenti acquisizioni delle neuroscienze. La “memoria storica”, espressione di recente conio e che sembra essere definibile la permanenza nella nostra cultura diffusa (principalmente la cultura orale) di alcuni eventi storici, sembra riferirsi alla trasfigurazione mitica degli eventi storici stessi. Proprio questa trasfigurazione, che cancella ogni possibile confine tra storia e mito, svela funzione primaria della storiografia di comunicazione politica e di celebrazione del potere e dei fatti ad esso connessi. In realtà la forza di condivisione delle storie e dei miti, risiede essenzialmente nella composizione stessa del racconto e nella sua capacità di conferire un significato alle discontinuità che il presente impone di continuo all’esperienza. E se va identificato un tessuto culturale nel quale si insediano e raccolgono consenso i racconti storici e mitici, si dovrebbe oggi fare 23 riferimento non tanto alla formula fragile di “memoria storica”, quanto piuttosto al concetto emergente di intelligenza collettiva, concetto con il quale si indicano le capacità cognitive di una comunità (non necessariamente umana) conseguente al sistema di interazioni tra gli agenti che le costituiscono. Una visione meno individualistica e meno antropocentrica dei sistemi viventi che emerge dal campo della biologia e della sociobiologia, avanza, infatti, l’ipotesi che un gran numero di unità possano cooperare tanto strettamente da divenire indistinguibili da un singolo organismo, raggiungendo un unico livello di attenzione che costituisce una adeguata soglia di azione (la comunità scientifica né un esempio evidente). La forza del racconto sarebbe, in questo caso, la sua capacita di realizzare costruzioni di senso che si inseriscono in processi cognitivi profondi insiti nei sistemi di cultura in quanto reti interattive di significati instabili e in costante mutamento. L’evento come paradigma della complessità. L’unico caposaldo, l’unico salto o possibile confine che divide mito e storia sembra essere ancora la netta distinzione dei rispettivi campi temporali che impone una apparente alterità alle due esperienza conoscitive. La storia è del passato e il mito occupa un tempo che non ha date e non si riferisce al passato “storico” dell’’esperienza umana. È nativo, fonda le origini, spiega tutto in un solo istante: quello della sua creazione e fondazione. Ma anche questo confine, alla luce di un pensiero rispettoso della complessità, si scioglie subito come neve al sole. La linearità del tempo è una credenza, un utensile della cultura la cui funzione è stata quella di insediare l’uomo al centro dell’universo e umanizzare il tempo, addomesticarlo. Oggi però una visione sistemica disintegra questa ideologia perché il susseguirsi della vicende umane nel continuo storico non dà conto dell’evento stesso della vita come processo permanente di auto-generazione in virtù di proprietà emergenti. Certo ogni evento è, per definizione, “accaduto” e solo per questo si può narrare, ma un approccio alla complessità dell’evento di vita impone una fenomenologia dell’evento che dilata il presente nella dimensione dello spaziotempo. Ma per il narratore, inutile dirlo, l’evento è “qui e ora” perché prende vita nell’atto della sua costruzione e della sua attribuzione di senso. E poiché l’evento è una discontinuità percepita “qui e ora” rispetto ad un ordine atteso, il racconto è sempre nel presente e questo presente è forse, a sua volta, un complesso sistemico di altri tempi e una rete di significati richiama altre possibili narrazioni. Il racconto, lo si è detto, è un laboratorio della temporalità, genera il tempo e il suo proprio tempo. Esiste però un processo sistemico, che organizza gli elementi che lo compongono e ne consentono la costruzione e la comunicazione. Esordio, trama, epilogo, significato, soggetto narrante intrattengono relazioni complesse; ma, pare evidente, è la percezione della discontinuità dell’evento, la sua novità, il suo essere “qui e ora” che impone al narratore la necessità di spiegarlo e dargli un significato. Questo 24 significato è consustanziale all’epilogo di ogni racconto ed è a partire da questo passaggio finale, dal senso comunicato, che si costruisce, a ritroso, il racconto. È l’epilogo che determina l’inizio e crea il punto zero della storia narrata, il mito fondativo al di al del quale non si può andare. Per lo storico questo è immediato: non vi è narrazione storica che non presupponga un significato possibile, una tesi che si vuole dimostrare, un discontinuità che si deve spiegare e riconciliare. In questo senso, come dicevo, ogni storico costruisce la sua mitologia delle origini del fatto narrato. La sequenza non lineare fine-inizio-composizione della azioni narrate e il significato che si costruisce a partire da una fine la quale determina il suo stesso inizio, mette in moto la narrazione di ogni evento e ne consente l’attribuzione di senso. Ma questa sequenza non è lineare, in realtà è un anello che solo all’apparenza chiude il racconto su stesso, gli da autonomia e forza e al tempo stesso crea un sistema dinamico e un vero e proprio anello di retroazione e cioè quella capacità dei sistemi dinamici di tener conto dei risultati del sistema per modificare le caratteristiche del sistema stesso. Pur nella sua apparente autonomia, ogni racconto, ogni storia, contiene in sé gli elementi per evolvere ne tessuto comunicativo in forza delle sue proprietà emergenti e della sua autopoiesi. Come ogni racconto la Storia è del presente, nasce nel presente e nell’atto della sua narrazione ed sviluppa il suo campo narrativo in una direzione che chiamiamo “passato”, ma ogni inizio, ogni fondazione del racconto storico definisce a sua volta un certo tipo di passato, gli dà sostanza e colore diverso per effetto del significato del quale si pone al servizio, ne modifica di continuo le proprietà e la dimensione in relazione al vortice dei processi interpretativi e comunicativi. Il passato non è la reale dimensione del racconto storico: liberati delle gabbie del loro tempo anche gli eventi storici vivono vita autonoma e perdono il contatto con la linearità del tempo per distendersi in una rete di altri racconti storici, di altre esperienze conoscitive. Cosa riserva questo modello di interpretazione dell’evento/narrazione come sistema complesso, al futuro della Storia e della storiografia? Questa domanda, ancor più che il tentativo di dare una risposta, conclude la “narrazione” compiuta fin qui e la apre alla sua possibile evoluzione. Oltre i confini, la “storia del presente”. Proprio mentre concludo queste riflessioni, la percezione individuale e collettiva del mutamento (forse una vera e propria “metamorfosi”), di un paradigma delle cultura, quello della modernità, è universalmente diffusa. Il mito della modernizzazione come globalizzazione di un insieme di saperi e credenze a fondazione storica e di matrice antropocentrica ed eurocentrica, rivela i suoi limiti e la sua profonda crisi. Il pianeta, disseminato di guerre, campi di battaglia, lager, non sembra essere uscito dal ciclo infernale del XX secolo. Il rapido mutamento in corso degli ecosistemi, l’esaurirsi progressivo delle risorse, l’incremento esponenziale dei processi demografici e di 25 urbanizzazione sembrano battere le campane a morto dell’esperienza stessa della nostra specie nel suo rapporto di dominio con quella alterità che chiamiamo natura. Al di la delle emozioni e dei racconti al nero, nulla di apocalittico o catastrofico. Sicuramente un radicale discontinuità e una tratta di fiducia spiccata sul pensiero Le credenze collettive che storiografia e mitografia hanno costruito e che hanno retto un ciclo plurisecolare non funzionano più. I sistemi di governo della realtà che queste mitologie hanno generato non sembrano in grado di garantire un equilibrio mondiale e rapporti accettabili tra l’uomo e l’ambiente che lo circonda. E la recente crisi finanziaria “globale” è il più visibile indicatore del fatto che tutto un convoglio di saperi tradizionali non offre più miti condivisi e opportunità di verità. La centralità del pensiero economico nelle scienze sociali e di queste nella scienze umane, che si è imposta negli ultimi cinquant’anni, ha creato false premesse per il ciclo evolutivo della vita stessa. Sarebbe questa una terribile affermazione se non ve ne fosse una, ancora più scioccante, che si sta facendo strada nelle coscienze e nei processi conoscitivi: oggi ci è facile intuire si sono verificati fraintendimenti non solo in ambito politico, economico e finanziario, ma anche su tutti i comportamenti umani che proprio il racconto di questi saperi tradizionali ha determinato e cercato di organizza in un lungo corso di secoli. Altre rappresentazioni, altri racconti sembrano dover prende il campo per effetto della discontinuità che il presente porta automaticamente con sé. Nuovi saperi, paradigmi e processi di identità rivelano una nuova dimensione dell’humanitas. Ma l’archiviazione delle vecchie mitologie e il loro superamento incontra formidabili ostacoli proprio in virtù di un sistema di comunicazioni sempre più complesso ne quale storie e racconti come strutture di significati che viaggia su reti non localizzate in singoli territori e in ambiti temporali universalmente vissuti e condivisi. Oggi più che mia l’esperienza storica si trova a fronteggiare, interpretare e narrare un vero oceano di eventi che le tecniche di comunicazione veicolano a livello planetario oltre ogni confine di culture, esperienze e “storie”; le fonti si moltiplicano a dismisura e le narrazioni stesse appaiono sempre più come prodotti comunicativi complessi, multimediali e tra loro intrecciati in sistemi complessi di significato. Se una estinzione di massa minaccia i linguaggi tradizionali (nel giro di tre generazioni si stima che l’80% degli idiomi in usa scomparirà), nuovi linguaggi e sistemi di segni si stanno costituendo e l’esperienza storica con essi si deve confrontare. Intorno agli anni Ottanta del secolo scorso è stato sfondato il “muro della storia” e gli eventi sono, in un certo senso, entrati in sciopero, hanno assunto un elevato grado di autonomia e si sottraggono al governo della storiografia che, per secoli, li rigidamente organizzati in relazione ai principi di causalità e continuità. Non esiste una storia universale capace ridurre a racconto unitario la pluralità degli eventi e dei loro significati e gli storici debbono oggi prendere atto delle condizioni caotiche che natura dinamica di quei sistemi di significato che sono gli eventi e racconti che li costruiscono creano a livello comunicativo e interpretativo. 26 La storiografia, che ha sempre costruito scenari virtuali e ne ha certificato la verità, deve ora confrontarsi con veri mondi virtuali nei quali l’intelligenza artificiale e la vita artificiale propongono modelli complessi, vaste alleanze e una innovativa epistemologia, una nuova fenomenologia dell’evento storico. Per un’intera generazione, l’ultima in termini storici, già non esistono più confini tra reale e virtuale, così come non esistono confini tra storia e mito, discorso storico e pensiero mitico. Nella seconda metà del Novecento la conoscenza ha superato il muro dell’invisibile e le nostre esperienze vanno ben oltre i confini dei nostri sensi. La tradizionale relazione tra storia e geografia che ha fatto il tono della geopolitica di marchio ottocentesco, appare un approccio conoscitivo inadeguato alla luce della più recenti acquisizioni del sapere. Oggi le società umane si percepiscono come veri e propri ecosistemi complessi che intrecciano e tra loro connettono un pluralità di organizzazioni di vita e interagiscono con sistemi dinamici le cui dimensioni di spazio e dei tempo non si conciliano necessariamente don il tempo storico imposto dalla cultura della modernità. La metafora della vita come evento di fondazione della realtà, come complessità sempre nuova, sempre emergente, fa del presente l’unico luogo possibile della discontinuità e dell’evento che la svela. Così il compito dello storico ora sembra dover essere quello non già di conciliare continuità e discontinuità in un tempo lineare a una unica velocità e direzione, ma di accettare la narrazione di tempi plurali e di eventi innumerevoli tra loro intrecciati in una invisibile rete. Le mitologie del passato hanno indotto a ritenere che il percorso di revisione del ruolo della storiografia dovesse essere una sorta di “globalizzazione” del metodo storico, un salto verso una storia “totale” capace di conciliare tutti i saperi per conciliare ogni possibile discontinuità. Non esiste una “storia globale”, né una storia “totale”. Al pari della “teoria del tutto”, avanzata negli ambienti scientifici, queste proposte per una possibile rinascita della centralità del sapere storico nel rispetto della sua gloriosa tradizione, sono solo ipotesi che non lasciano intravedere nuove esplorazioni e nuove scoperte. Quello che appena si intravede è forse una “storia del presente”, perché è il presente l’unico attore della discontinuità, la storia è lì. E lì è anche la definitiva riconciliazione tra mito e storia e il loro superamento in vista di una profonda “riforma del pensiero”. * * * Dicembre 2008 - (87.600 caratteri) 27