Storiografia, Mitologia e Storia del presente

Roberto Moro
Storiografia, Mitologia e Storia del presente
un approccio al pensiero della complessità
Crescita e sviluppo economico, libertà dei mercati e democrazia universale,
governo mondiale e competizione globale, fine delle ideologie e
internazionalizzazione della cultura, primato del sapere scientifico e
innovazione tecnologica, sono le mitologie del presente. L’evidente stato di
crisi di queste rappresentazioni collettive, ripropone con forza il tema dei
rapporti tra Mito e Storia, pensiero mitico e sapere storico, come processi
conoscitivi di fondazione dei sistemi culturali. Oggi l’epistemologia e
l’antropologia della complessità offrono nuove opportunità di approccio al
tema e, in base a questo approccio, i confini tra mito e storia scompaiono
per lasciare il posto a una fenomenologia del racconto. Al pari del mito la
storia si presenta allora come la narrazione di sociogonie che, nel pensiero
moderno, divengono vere e proprie cosmogonie fondate sulla credenza nella
linearità del tempo. La storiografia diviene una procedura di umanizzazione
del tempo e l’evento un paradigma della complessità che consente di
superare i confini tra storia e mito in vista di una “storia del presente” che
lascia appena intravedere nuove esplorazioni e nuove scoperte.
Cultura e pensiero mitico. - Antropologia e storia. - Pensiero mitico e
discorso storico. - Linguaggio, racconto, evento. - Mito e storia. Tempo “storico” e tempo “mitico”. - Problemi di confine. L’emergenza della complessità. - Approccio alla complessità. L’evento come paradigma della complessità. - Oltre i confini, la
“storia del presente”.
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Cultura e pensiero mitico.
I rapporti e le possibilità di collaborazione tra discipline storiche e
antropologia che sembrano materializzarsi nell’istanza di un possibile nuovo
e autonomo comparto di studi, l’Antropologia storica, ripropone i termini di
un confronto tra Storia e Mito che, in passato, ha animato un vasto dibattito
e oggi si impone con forza per effetto dell’affermarsi di nuovi modelli di
cultura e di società: la società della comunicazione e la società della
conoscenza.
Si tratta di un dibattito che, nel corso del pensiero moderno, ha
intrecciato di continuo i tentativi di interpretare le persistenza e l’emergenza
dei miti e delle mitologie con l’esperienza storica. Storia e mito sono a lungo
apparse come esperienze conoscitive affatto diverse e alternative, tra loro in
netto contrasto. E sono stati gli storici a tracciare i confini tra storiografia e
narrazione mitica. Nel corso del XX secolo l’antropologia sociale e culturale,
che ha di molto dilatato il campo delle scienze umane, ha offerto modelli
teorici significativi per un processo di revisione di questa tradizionale deriva
interpretativa. Parallelamente, nella seconda metà del Novecento, un vasto
dibattito si è aperto tra gli storici volto a ridefinire gli ambiti e il metodo della
storiografia in relazione alle nuove acquisizioni nel campo delle scienze
sociali e della stessa antropologia. Più di recente, infine, l’epistemologia della
complessità o scienza della complessità o sfida della complessità o, più
semplicemente, il pensiero della complessità offre nuove opportunità di
approccio al tema dei rapporti tra storia e mito come esperienze conoscitive
fondanti di quell’insieme di rappresentazioni collettive che sono i sistemi
culturali.
Ripercorrere le fasi di questo dibattito, come sopra indicate, e proporne
una interpretazione alla luce del pensiero complesso, può costituire un
contributo alla lettura delle circostanze presenti che segnano la crisi e la
possibile archiviazione delle credenze e dei miti della globalizzazione.
Crescita e sviluppo economico, libertà dei mercati e democrazia universale,
governo mondiale e competizione globale, fine delle ideologie e
internazionalizzazione della cultura, primato della tecnica e innovazione
tecnologica, sono le mitologie del presente. L’evidente stato di crisi di queste
rappresentazioni collettive, il loro recente costituirsi e il rischio della loro
imminente dissoluzione, hanno dato luogo e stanno sviluppando una
profonda riflessione nel campo delle scienze umane e suscitato l’istanza di
una “riforma del pensiero”, una riforma per la quale la ridefinizione dei
rapporti tra storia e mito, discorso storico e pensiero mitico costituisce uno
snodo non secondario.
Oggi più che mai l’uso dei vocaboli mito e mitologia e, più abitualmente,
miti e mitologie (ma anche mitografie) e l’abuso dell’aggettivazione “mitico”,
è entrato trasversalmente in tutte le discipline e si è riversato nel linguaggio
quotidiano carico di una pluralità di significati, persino del tutto contrastanti
tra loro, fino a disancorare in via definitiva il concetto dalle sue radici
filologiche e storiche e dal dibattito che lo ha insediato da più di un secolo
nello studio della cultura.
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Si deve questa emergenza del mito come struttura portante dei sistemi
di cultura a due essenziali fattori. In primo luogo, l’antropologia sociale e
culturale ha avviato un attento esame del concetto di cultura e, nella prima
metà del XX secolo, ha restituito al “pensiero” mitico un ruolo centrale nelle
pratiche sociali e culturali delle organizzazioni umane. Il moderno concetto di
cultura (nozione un tempo riservata esclusivamente all’esperienza
conoscitiva del pensiero occidentale) ha, infatti, profondamente innovato
rispetto al suo campo semantico originale (dal latino “coltivare”, poi esteso a
quei comportamenti spirituali che imponevano un “culto”). Dal tradizionale
concetto di cultura, di matrice umanistica, intesa come un patrimonio
individuale di conoscenze acquisite per via di insegnamento diretto, il
pensiero antropologico lo ha dilatato a quel complessivo intreccio di costumi,
credenze, atteggiamenti, valori, comportamenti condivisi che definiscono, in
modo non sempre formale, le norme (i modi dovuti di agire) a livello
collettivo. In questo ampio contesto il pensiero mitico acquista un ruolo
importante, se non centrale, come rivelatore delle strutture di pensiero e
delle pratiche organizzative non formalizzate che soggiacciono alle istituzioni
e governano le comunicazioni umane.
In secondo luogo, proprio il rapido sviluppo dei sistemi di
comunicazione, supportato da continue ondate di innovazione tecnologica
(dalla scrittura a internet), ha realizzato un rapido sviluppo dei processi e
degli scambi culturali, confuso i confini tra culture, prodotto una pluralità di
modelli di cultura in continua comunicazione e mutazione. Si giunge così a
una definizione ancor più vasta del concetto di cultura che accoglie l’idea di
sistema, di processi comunicativi reticolari, di strutture linguistiche aperte e
consente di definire la cultura stessa come una struttura di significato che
viaggia su reti di comunicazione non localizzate in singoli territori.
La cultura appare oggi come un vasto sistema di relazioni che creano
rappresentazioni collettive, vere e proprie credenze, che chiamiamo “culti”,
alle quali si attribuisce appunto il nome di mitologie.
Per effetto di questa deriva epistemologica, il moderno concetto di
cultura è divenuto un indicatore privilegiato di quella nuova dimensione della
conoscenza del reale che chiamiamo complessità. Un vocabolo e un intero
campo semantico ormai universalmente diffuso anche nel linguaggio comune
e così radicato da divenire una credenza vera e propria e in qualche modo, a
sua volta, un mito, un mito dominante del presente.
Antropologia e storia.
L’adozione, ormai accolta e praticata nelle scienze umane, di un
concetto di cultura così vasto e sistemico e la centralità del pensiero mitico
che ne deriva, non potevano non riversarsi nel sapere storico al quale la
cultura occidentale ha conferito, nei secoli della modernità, il compito
strategico di presidiare il passato delle esperienze umane, conservarne e
trasmetterne la memoria, spiegare e insegnare il progressivo sviluppo delle
azioni collettive e delle organizzazioni sociali. Ciò ha determinato, nel corso
nel corso del XX secolo, una formidabile dilatazione del campo storiografico e
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una profonda revisione del metodo e degli obiettivi dell’indagine storica. I
nuovi approcci della storia sociale, delle mentalità, della cultura hanno così
spinto la ricostruzione e l’interpretazione del passato oltre i tradizionali
“idoli” della storiografia moderna dei secoli XVIII e XIX: l’idolo politico (il
prevalere quasi esclusivo nella narrazione dei fatti politici), l’idolo individuale
(il privilegio accordato al contributo individuale nella costruzione degli eventi
e del processo storico), l’idolo cronologico (la definizione degli eventi a
partire da sequenze rigide di datazioni certificate). Si è così aperta, a partire
dagli anni Trenta del secolo scorso, quella strada alla storia del collettivo, del
sistemico e del complesso che ha reso operante nella storiografia il concetto
di cultura elaborato dall’approccio sociologico e antropologico. Questa nuove
piste di ricerca hanno, a loro volta, reso necessaria la collaborazione tra
storia, antropologia, sociologia, linguistica e innovato profondamente il
complessivo della scienze umane.
Le società europee del passato sono state da allora indagate e lette
all’insegna di quell’intreccio di costumi, credenze, atteggiamenti, valori,
comportamenti condivisi non formalizzati che sono generati, vivono e si
modificano proprio in virtù del pensiero mitico (o “tradizionale”, “persistente”
e di “lunga durata”) e soggiacciono al tessuto delle reti istituzionali, coscienti
e formali di ogni gruppo sociale. Una dimensione e un cantiere di ricerca sul
quale antropologia e storiografia sembrano trovarsi a diretto confronto. Ed è
su questo confronto che ha preso vita il tentativo di fondare una
“antropologia storica”.
L’Antropologia storica, disciplina in fieri e in via di codificazione,
dovrebbe,in prospettiva, definire in modo stabile i rapporti tra i due ordini di
sapere in vista di una loro integrazione permanente in termini di ambiti e
metodologie, una integrazione tale da produrre un autonomo statuto
disciplinare. Ma, posto in questi termini, il problema appare decisamente
fuorviante e rischia di celare un malinteso di fondo. Tra antropologia e
storiografia non vi è infatti un confronto diretto e non vi è possibile
integrazione, al massimo alcuni assunti teorici si possono intrecciare, alcuni
reciproci scambi sono possibili nell’approccio ad aree tematiche di comune
interesse che, per altro, appartengono ai nuovi interessi delle scienze umane
e a loro complessivo rinnovamento.
I confini tra antropologia e storiografia, infatti, sono netti e fanno parte
del consolidato statuto del sapere occidentale. La sincronia è il campo
operativo dell’antropologia, mentre la storiografia non può, per la sua stessa
natura, rinunciare all’approccio diacronico. Sul paino del metodo i due ordini
di sapere divergono diametralmente. La rispettiva teoria delle fonti risulta
inconciliabile. E infine è lo stesso statuto disciplinare a fissare i confini tra i
due ordini del sapere: per le sue radici e la sua vocazione, l’antropologia si
dedica allo studio dell’alterità e della differenza strutturale dei modelli
culturali rispetto al complessivo della cultura occidentale, mentre il compito
della storiografia è quello di ricondurre ad unità e a processi identitari
proprio la cultura occidentale nel suo sviluppo storico.
Nei fatti le profonde relazioni che sussistono tra antropologia e
storiografia si riducono, solo e quasi esclusivamente, all’accoglimento da
parte di quest’ultima del moderno concetto di cultura che ha consentito
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all’indagine storica di aprire il suo campo di ricerca a quella zona sommerse
del collettivo (clientela e strutture familiari, sesso e corporeità, magia e
devianza, prescrizioni e tabù, ecc.) che l’uso pubblico della storia ha sempre
celato. La lettura del passato organizzata dal pensiero razionalista e
storicista si è insomma arricchita oggi, per effetto dell’adozione del concetto
di cultura, di quei nuovi indicatori e modelli interpretativi dell’azione e del
comportamento sociale che la scuola antropologica anglosassone e la scuola
sociologica francese avevano scoperto e passato al vaglio nei primi decenni
del Novecento. Proprio in relazione alla deriva di questi nuovi interessi della
storiografia occidentale, che attualmente evolvono verso la teorizzazione di
una “storia globale” e addirittura “totale”, l’idea di una Antropologia storica
come disciplina autonoma appare decisamente fuorviante a meno che non si
voglia rubricare sotto questa categoria tematica, e con indubbie forzature,
quel genere di monografie storiche dedicate appunto alle zone della cultura
profonda e caratterizzate dell’emergenza e sopravvivenza del pensiero
mitico. Prova ne sia il fatto che viene rubricata, come centrale e fondante di
una possibile Antropologia storica, la letteratura sulla stregoneria, la magia,
il folclore, i riti connessi all’età della vita e alle manifestazioni popolari (festa
e rivolta, morte e paura, devianza e repressione). Un genere di letteratura
storiografica che, per altro, si intreccia tanto con l’antropologia quanto con
psicologia sociale, linguistica, sociologia e un ancor più vasto convoglio di
discipline e comparti delle scienze umane.
Pensiero mitico e discorso storico.
In realtà il vero terreno di confronto che l’acquisizione del concetto di
cultura pone alla storiografia, non è quello con l’antropologia quanto
piuttosto e più direttamente con i processi di produzione delle credenze, dei
miti, dei riti e delle emozioni collettive, una zona che, da sempre, sfugge al
pensiero storico di matrice razionalista, positivista e storicista. Ben oltre il
rapporto tra Antropologia e Storia, il confronto che da scacco alla storiografia
tradizionale, la innova e può offrire promettenti piste di ricerca è quello tra
discorso storico e pensiero mitico, tra narrazione storica e narrazione mitica
e infine tra Storia e Mito intese come due sfere concorrenti e compresenti
nella costruzione di quelle rappresentazioni collettive dalle quali la ricerca
storica non può prescindere più. In questo ambito di ricerca gli interrogativi
sono da tempo sul tappeto.
Quali sono i reali confini tra storiografia e mitografia? È possibile e in
che misura che il pensiero mitico offra più strumenti per la comprensione
della realtà di quanti non ne offre il discorso storico? Perché mai storia e
mito coesistono da sempre nella produzione delle rappresentazioni collettive
di un determinato gruppo sociale in un determinato tempo? Che relazione vi
è tra lo sviluppo storico di una società e l’insieme di credenze e valori
condivisi che ne definiscono la struttura e ne garantiscono il grado di
coesione? E perché infine, nel tempo presente, si annuncia con forza una
crisi o fine del discorso storico a favore di una nuova insorgenza del pensiero
mitico?
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Paiono queste, tra le molte possibili, le domande che materializzano il
confronto tra Storia e Mito, tra storiografia e mitografia e che vengono
suscitate dall’adozione, nell’ambito delle scienze umane, del moderno
concetto di cultura che, proprio qui, annuncia e promette profonde revisioni
e nuovi orizzonti. Un concetto, per altro, quello di cultura, che nel corso degli
ultimi due decenni ha conosciuto incessanti dilatazioni, ridefinizioni e vere e
proprie fondazioni.
Le riflessioni che seguono non pretendono di dare risposta a tutte
queste domande, ma trovano il loro fuoco sui rapporti tra mito e storia o, se
si preferisce, tra racconto mitico e discorso storico, a partire dalla radice del
problema e cioè dal significato stesso e dal ruolo che questi due esperienze
conoscitive hanno assunto e svolto nell’esperienza del pensiero occidentale.
Tracciamo dunque alcune generali e provvisorie linee di confine.
Innanzi tutto la Storia (ma più precisamente la Storiografia) é
un’esperienza conoscitiva che consiste nella identificazione, datazione,
ricostruzione, interpretazione dei fatti del passato relativi alle vicende umane
e nella loro comunicazione. Questo genere di sapere, esclusivo della cultura
europea prima, occidentale poi, si è progressivamente affermato nei secoli
della modernità e, al pari di altri ordini del sapere, è figlio della Rivoluzione
scientifica e di una antropologia filosofica che vuole l’uomo al centro
dell’universo, misura di tutte le cose e dotato di un esclusivo destino di
emancipazione per effetto del suo libero arbitrio e delle sue facoltà razionali
(antropocentrismo). Il privilegio accordato all’uomo nella conoscenza e
costruzione della realtà ha, di riflesso, generato la convinzione che il sapere
stesso altro non fosse che il risultato del progressivo sviluppo delle vicende
umana e quindi un continuato processo cumulativo e patrimoniale. Cosicché,
da questo punto di vista, la Storia altro non è che l’autobiografia dell’uomo
della modernità (eurocentrismo) e del suo cammino nel mondo. In questa
visione del mondo, in questo modello di cultura, storia e antropologia (intesa
nel suo più alto significato di “conoscenza” dell’uomo) sono la stessa cosa e
fare storia significa fare antropologia, una antropologia a fondazione storica
(e non certo una Antropologia storica) proprio perché letta e narrata
attraverso il correre delle vicende umane. Per questo e non per altro il
sapere storico ha creato una frattura profonda tra scienze dell’uomo e
scienze della natura che solo ora sembra in via di graduale superamento. Ed
è proprio questa frattura, il nascere e l’affermarsi della storiografia nei secoli
XVIII-XIX come teoria della conoscenza della cultura occidentale, che ha
posto il problema della specificità del mito come una reale alterità o una
sorta di indicatore della “preistoria” spirituale del pensiero moderno. Il
confronto tra discorso storico e pensiero mitico nasce qui.
Per quanto riguarda il mito, occorre ricordare in prima istanza che il
vocabolo è greco; che nella “cultura” greca il mito di cui per secoli abbiamo
parlato ha trovato la sua genesi e la sua reale funzione; che l’esperienza
intellettuale greca per eccellenza, la filosofia, è sempre convissuta con il
pensiero mitico; che infine proprio la Rinascita del pensiero classico ha
reintrodotto con forza questa dimensione dell’esperienza umana nella cultura
della modernità facendo riaffiorare un universo di simboli, racconti, stili di
vita, esperienze artistiche e spirituali nel cuore della civiltà occidentale. La
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rinascita degli antichi dei e la loro presenza nel mondo moderno, ha segnato,
infatti, tutto il ciclo storico dei secoli XV-XIX e realizzato processi di
acculturazione e imitazione verso la classicità fino a un tempo non molto
lontano da noi. La fascinazione della nostra cultura verso la mitologia greca
deve quindi ricondurci alla radice del problema e forse proprio da lì bisogna
partire.
Linguaggio, racconto, evento
Mithos, secondo i filologi classici, sta a significare, nelle lingua greca,
“parola”, “discorso” e qualcosa come “azione del narrare”, più in generale
“racconto”, e cioè una procedura operativa del linguaggio che certo è uno
dei più evidenti vantaggi evolutivi della nostra specie. Il linguaggio è il
fondamento della conoscenza ed è un processo cognitivo in sé; certifica la
capacità di astrazione della mente umana e questa astrazione dà luogo a
una costante produzione di forme simboliche e segni il cui scambio consente
quella collaborazione che chiamiamo socialità. Il “simbolo” (in greco:
“mettere in comune”, “condividere”, “ricomporre”, ”obbligarsi al rispetto
dell’accordo preso”), infatti, è abitualmente definito come un elemento della
comunicazione in grado di rappresentare un concetto o una quantità (per
esempio: un'idea, un oggetto, una qualità) che abbia un forte carattere
“intersoggettivo” in quanto condiviso da un gruppo sociale e cioè realmente
comunicabile in una determinata circostanza e in un determinato contesto.
Le elaborazioni simboliche che fondano il linguaggio, si organizzano poi in
sequenze e percorsi dotati di senso che attribuiscono all’uomo la facoltà
esclusiva di produrre ciò che chiamiamo cultura. L’azione del narrare, il
racconto e, in termini traslati, il mito, si configura dunque un processo
comunicativo che organizza simboli e segni in una sequenza dotata di
significato.
Più circostanziato appare nelle sue origini il temine di Storia che trova le
sue radici remote nel vocabolo greco istor (“saggio”, “testimone”, “colui che
vede”) e in quello successivo di Historiai che sta a significare “ricerca”,
“cose viste”, “conoscenza acquisita tramite indagine”. Ma proprio fin dalle
sue radici remote l’idea di Storia, come raccolta di fatti e dati, appare
indisgiungibile dall’azione stessa della sua comunicazione; le storie sona tali
proprio perché si raccontano e per convenzione universalmente accettata la
Storia è la “narrazione dei fatti storici”.
In virtù di questo approccio al problema, mito, storia e racconto sono
sinonimi o partecipano di una comune funzione; ogni mito è un racconto e
ogni racconto è una storia, cioè è la costruzione di canoni e processi
comunicativi che danno un “senso”, un “significato”, alla comunicazione
stessa e ne strutturano il contenuto a partire dalle elaborazioni simboliche
che appartengono al linguaggio umano.
Poiché ogni racconto è un processo di elaborazioni simboliche a scopo
comunicativo, esso è anche una sostanza mutevole, malleabile e soggetta
alla “struttura” interattiva della comunicazione stessa, all’interpretazione. I
racconti veicolano simboli e rappresentazione che, per essere tali (per essere
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davvero struttura comunicativa), sono con-divisi, “messi in comune”, sono
oggetto di partecipazione e di un comune sentire, infine di un possibile
scambio. Processo che il pensiero greco ha definito, fin dalle origini della
riflessione linguistica, come la “forza di persuasione” della parola ovvero
l’alto o basso grado di comunicabilità del discorso. Questa struttura
comunicativa (che è il linguaggio in sé) a fondazione simbolica è ciò che
chiamiamo “produzione della cultura” e cultura in sé: una produzione di
racconti, di forme simboliche e rappresentazioni che veicolano e codificano
significati condivisi: i valori (le idee forti) i quali divengono credenze diffuse
e determinano le pratiche di comportamento di un certo gruppo sociale.
Fissano insomma le regole del gioco a livello sistemico delle strutture
organizzative ai loro vari livelli di complessità.
Noi viviamo e ci rappresentiamo, assumiamo identità e comunichiamo,
in relazione ai racconti condivisi che ci spiegano le regole del gioco sociale.
Raccontiamo storie, e la nostra stessa storia, e, in questo senso, ogni
narrazione è una produzione mitica e storica insieme, è un racconto e ogni
racconto è lo sviluppo di qualcosa che si assume come accaduto, passato.
Ma cose è un racconto, quale il suo contenuto, quale la sua struttura?
Un racconto è la “rappresentazione” di azioni. Anzi, per la precisione:
“l’imitazione dell’azione è il racconto, poiché chiamo racconto proprio
questo: la composizione delle azioni” (Aristotele, Poetica). Da circa
venticinque secoli, analisti del linguaggio e poi linguisti si sono
fondamentalmente attenuti a questo assunto dal qual ancor oggi si può
partire. Più di recente la Narratologia, disciplina neonata nell’universo della
scienze del linguaggio (se ne data la costituzione al 1960), sta
approfondendo il problema a partire dall’enfasi accordata al ruolo degli
aspetti comunicativi del racconto e dalla sua struttura linguistica. Se la
narrazione è un processo di comunicazione, ne consegue infatti che il
racconto è un procedura di costruzione di un prodotto comunicativo e questo
prodotto è lo sviluppo di un insieme di azioni che chiamiamo evento: la
rappresentazione (“imitazione”, “mimesi”) di una sequenza/successione di
azioni nel loro insieme coerenti e dotate di senso. Per effetto del suo
significato, della sua comunicazione e della sua condivisione, il racconto è un
processo conoscitivo e concorre a costruire la realtà intesa come un
susseguirsi di eventi.
Che cosa è allora un evento? Anche qui è possibile esprimere un punto
di vista generalmente condiviso. L’evento è un “fatto” (un’azione, un
movimento) che sopraggiunge in un certo luogo del tempo e dello spazio (in
fisica l’evento è un “punto” dello spaziotempo) e, per effetto della nostra
esperienza conoscitiva, è percepito come una rottura, come un mutamento
che ci rivela il nostro modo di essere nel mondo e nel tempo, segna il prima
e il dopo, ci coinvolge e suscita il nostro impegno a conferirgli un senso.
L’evento si caratterizza, infatti, alla nostra percezione, per essere una
rottura, una discontinuità nel corso delle cose e del loro ordine atteso (una
“novità”) e che, proprio per questo, necessita di un significato, una
spiegazione, un senso.
In senso ampio il temine di evento sta a significare tutto quanto
“accade” ed è conoscibile proprio perché “accaduto” nel tempo. Non esiste
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un tempo senza eventi così come non vi è un evento senza una sua origine
nel tempo che ne certifichi l’esistenza. In questa prospettiva di
interpretazione, l’“evento” e il racconto di un evento, sono una modalità di
umanizzare e addomesticare il tempo e un criterio/indicatore della sua
possibile misurazione. Sono infatti gli eventi condivisi a costruire il
calendario culturale di ogni organizzazione umana e sono i racconti condivisi
di questi eventi a realizzare quel patrimonio comune di giudizi, valori,
simboli che è la cultura nel significato più ampio, ma anche più profondo.
Racconto ed evento, dunque, si intrecciano indissolubilmente: è infatti
evidente che gli eventi esistono solo se sono narrati, comunicati e condivisi
come tali. È il racconto, la narrazione stessa che crea l’evento? Si dovrebbe
rispondere sì, e senza incertezze. Un evento non esiste se non è percepito,
costruito dal linguaggio, raccontato, comunicato e accolto/condiviso come
tale. Nei fatti è quella struttura operativa del linguaggio che chiamiamo
narrazione a creare l’evento in quanto accadimento nel tempo e afarne un
laboratorio permanente della temporalità..
Ogni racconto, infatti, in quanto rappresentazione/imitazione di azioni è
anche una produzione della temporalità in grado di misurare l’azione stessa.
Ogni racconto ha un principio, un esordio che genera il tempo stesso della
narrazione a partire da una discontinuità che è il suo stesso inizio; uno
sviluppo delle azioni narrate e cioè una trama che spiega, organizza o
giustifica le azioni in relazione alla discontinuità che le ha generate; infine
ogni racconto ha un suo necessario epilogo proprio perchè l’evento è
accaduto, il suo tempo si è esaurito. Nel suo sviluppo complessivo, dalla suo
esordio al suo epilogo, ogni evento/racconto comunica un senso, un
significato delle azioni stesse. Questo significato, che sembra essere quello
di ristabilire una situazione di equilibrio anche se non di necessaria
conciliazione tra discontinuità e continuità, è infine la funzione del narratore,
del soggetto in quanto io narrante. Il narratore è, infatti, il legislatore del
racconto e dell’evento narrato poiché lo sceglie, sceglie l’insieme di simboli e
segni che en consentono la costruzione e la comunicazione, e fissa le regole
interne che organizzano l’esordio, la trama e l’epilogo a fini comunicativi, e
in questo senso ogni narratore e al tempo stesso un mediatore e un media.
Narrazione come processo di comunicazione (e scambio), racconto come
procedura di senso, evento come prodotto comunicativo, riconducono il
campo di indagine dei rapporti tra mito è storia a un terreno comune che è
quello del linguaggio umano inteso come produzione di simboli e
rappresentazioni condivise: un processo cognitivo in sé e quindi una
produzione di cultura. Mito e storia sono procedure conoscitive e
comunicative e concorrono a costruire la realtà.
Tuttavia, proprio questo approccio linguistico e narratologico al
problema, sembra confondere ogni possibile confine tra mito e storia: i
racconti infatti sono “storie” e la Storia è un racconto, e infine storia e
racconto sono sinonimi.
Quale è allora, se davvero vi è, la differenza tra il racconto mitico e il
racconto storico? Come si definiscono, per differenza, le due procedure
conoscitive e comunicative, così saldamente ancorate elle strutture operative
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del linguaggio, e quali campi percettivi fondano il racconto mitico e quello
storico?
Mito e storia.
Occorre in primo luogo sgomberare il campo linguistico dai luoghi
comuni e dalla false piste. Ancor oggi, nel linguaggio corrivo, si definisce
comunemente e volgarmente "mito" la narrazione di eventi fantastici e
leggendari, in qualche modo legati a credenze religiose, su divinità e antichi
eroi, o sui rapporti tra l’uomo, la natura e ciò che è soprannaturale. Questo
comune sentire è il risultato di un modello di cultura (quello della modernità)
nel quale il mito, il mito greco in particolare, è stato parte costitutiva del
dibattito Antichi/Moderni nel corso dei secoli XVI-XVII. La riscoperta della
mitologia greca, poi la rinascita, la sopravvivenza e la morte tardiva degli
antichi dei greci e romani, ha profondamente contribuito alla fondazione del
pensiero dell’Europa occidentale in età moderna e solo la Rivoluzione
scientifica, che ha segnato il trionfo dei Moderni sugli Antichi, ha creato le
condizioni per una svalutazione complessiva del sapere mitologico e delle
narrazioni mitiche a tutto vantaggio del discorso e del sapere storico.
A seguito dell’emergere della storiografia come tecnica dominante
(istituzionale e quindi politica) nella narrazione degli eventi, si è a lungo
immaginato che il mito fosse una sorta di stato nascente (primitivo) del
pensiero greco. Oggi però sappiamo che la società e la cultura greca hanno
sempre convissuto con le narrazioni mitiche e ben oltre la nascita del
pensiero razionale; sappiamo che filosofi e storici dell’antichità hanno
accordato dignità alla sfera mitologica, che essa è stata parte e struttura del
pensiero filosofico stesso. Sappiamo infine che la sfera del sacro, sorretta dal
pensiero mitico, non è mai stata disgiunta dall’esperienza di conoscenza del
mondo e della natura.
Un secondo errore interpretativo, che va definitivamente archiviato, è
quello che attribuisce al pensiero mitico un fondazione immaginifica rispetto
a quella razionale del pensiero moderno e del discorso storico. Ogni racconto
è dotato di una sua struttura, di sue regole proprie che lo rendono coerente
e gli danno significato. L’archiviazione del pensiero mitico operata nel corso
dei secoli XVIII-XIX, si è fondata sul radicato pregiudizio che la sfera del
mito fosse il frutto di un pensiero prelogico (irrazionale) e quindi
rappresentasse uno stadio precedente o residuale dello sviluppo della cultura
umana votata all’emergere della razionalità; un approccio interpretativo che
oggi non ha più luogo. Così come superata appare la rivalutazione del mito
ad opera del pensiero romantico che ne ha fatto la traccia originaria e
originale della primigenia condizione umana, un indicatore prezioso in grado
di rivelare le strutture più profonde, naturali e autentiche della psiche che si
sarebbero poi, “storicamente”, progressivamente inabissate ad opera del
corso della civiltà stessa. Il buon selvaggio non è mai esistito, così come le
società primitive non sono né il giardino dell’Eden, né l’anticamera
dell’inferno.
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Un ultimo malinteso, su cui occorre fare chiarezza e prendere netta
posizione, è quello relativo all’alto o basso grado di propensione al sapere
storico nelle varie culture. Sarebbe questo un indicatore dei rapporti tra Mito
e Storia. Si tratta di un dibattito e un tentativo di fondazione teorica che si è
sviluppato, a partire dagli anni Settanta del Novecento, proprio per effetto di
un intreccio tra storici e antropologi e che ha condotto a distribuire punteggi
di merito circa il livello di “temperatura storica” della varie esperienza
conoscitive di gruppi sociali e civiltà. Vi sarebbero così, in base a questo
paradigma interpretativo, gruppi umani e culture con un livello di
temperatura storica vicina allo zero, società senza storia perché immobili e
dunque dotate di una “memoria storica” di sostanza e funzioni diverse da
quella specifica del pensiero moderno e occidentale. Ma le società immobili
non esistono perché ovunque vi sono eventi e racconti degli eventi, così
come non può esistere per definizione una “histoire immobile”. La “memoria
storica” sembra poi essere, alla luce della più recenti acquisizioni delle
neuroscienze e della scienze cognitive, più un postulato dogmatico che un
assunto teorico. Memoria, racconti, eventi sono elementi costitutivi di ogni
modello di cultura, ogni cultura ha una sua percezione della temporalità sulla
quale adegua la memoria individuale e ha eventi da ricordare per effetto
della loro narrazione. Semmai è il canone narrativo che cambia.
Gli sviluppi dell’antropologia sociale e culturale, ci hanno rivelato che la
produzione mitica, e l’insieme dei racconti che la costituiscono, è parte
strutturale di qualsiasi modello di cultura, e sappiamo che la cultura stessa,
nel suo più ampio significato, è appunto un insieme coerente quanto
mutevole di credenze in valori, simboli e rappresentazioni condivise;
sappiamo che ogni sistema culturale si realizza e vive in virtù di scambi
comunicativi fatti di racconti e metaracconti i quali insegnano le regole
dell’organizzazione sociale e del comportamento individuale che ne deve
conseguire. Ogni società vive ed evolve nel suo presente in relazione all’alto
o basso grado non gia di “temperatura storica”, ma di condivisione e
partecipazione ai valori che soggiacciono al tessuto di norme che la
costituiscono.
Valutati alla luce dell’esperienza antropologica e dell’approccio
linguistico, mito e storia, oggi, non si presentano come una naturale
successione logica e temporale, non sono realizzazioni di diverse facoltà
intellettiva (immaginazione e ragione), non segnano un prima e un dopo nel
corso della civiltà, ma coesistono in ogni cultura e scambiano forse di
continuo le loro strutture, la loro funzione e le loro proprietà.
È ragionevole ritenere che oggi larga parte dei cultori di scienze umane
possano condividere il punto di vista di chi (tra i molti Cassirer) ha da tempo
proposto una revisione profonda, se non radicale, delle stesso modello di
uomo elaborato dalla cultura della modernità e definito in base al
progressivo emergere della razionalità. Poiché il linguaggio si configura come
consustanziale all’uomo e alla sua presenza come tale nel mondo, la
sequenza uomo, linguaggio, cultura, razionalità, che ha costituito l’orizzonte
antropologico della modernità sembra ormai aver definitivamente superato i
suoi tradizionali confini. Si può dunque concludere che “la ragione è un
termine assai inadeguato per comprendere tutte le forme della vita culturale
11
dell'uomo in tutta la loro ricchezza e varietà. E poiché tutte queste forme
sono forme simboliche ne consegue che, invece di definire l'uomo animale
razionale, possiamo definirlo animale simbolico. Così facendo indichiamo ciò
che specificamente lo distingue e possiamo capire la nuova strada che si è
aperta all'uomo, la strada verso la civiltà”. E anzi, alla luce di una teoria
della cultura come sistema complesso e a fondazione simbolica, si giunge
facilmente alla conclusione che proprio la razionalità abbia costituito e
costituisca un mito centrale (una credenza condivisa) del nostro stesso
modello di cultura.
Più di recente le scienze cognitive e il pensiero della complessità si sono
anche spinte ben oltre queste prime revisioni. Un approccio dal punto di
vista del pensiero complesso consente di aggiungere qualcosa
all’interpretazione classica del pensiero come produzione di forme
simboliche. E cioè che questa produzione è di tipo sistemico e realizza
sistemi di simboli tra loro dinamici e a diversi livelli di complessità. Il
linguaggio umano, come la mente, si configura allora come un processo o un
comportamento emergente (nativo), quel comportamento proprio dei sistemi
che fa apparire nuove proprietà (“proprietà emergenti”) a partire dall’interno
dei sistemi stessi. In altri termini i sistemi simbolici del linguaggio sarebbero
autopoietici, sistemi che si ridefiniscono, si riproducono, si autoorgannizzano per effetto delle loro interazioni. Il racconto come struttura
operativa del linguaggio ci appare così, se non come dotato di vita propria,
un oggetto o una cosa, certo come un prodotto della cultura umana dotato di
un grado elevato di autonomia, un processo cognitivo in sé.
Ma è proprio, pur alla luce di questi nuovi orizzonti, che la domanda si
ripropone con forza.
Se il racconto è una parte tento significativa nella costruzione della
realtà, quale è, se davvero vi è, la differenza tra storia e mito, racconto
storico e racconto mitico?
Poiché è proprio la storiografia, costituendosi a partire dal XVIII secolo
in sapere autonomo (e cioè “epistemologicamente” fondato),
che ha
codificato questa differenza tra Mito e Storia sul piano del metodo e degli
obiettivi, è bene partirei qui.
Per differenza rispetto ad ogni forma di narrazione e in particolare quella
mitica, la storiografia moderna assume come fondamento del suo statuto
disciplinare di limitare il suo ambito narrativo ai fatti ed eventi “storicamente
fondati” e certificati da fonti che ne garantiscano la effettiva realtà. Per
convinzione universale, infatti, la Storia è la “narrazione di fatti veri e
realmente accaduti relativi alle vicende umane”. Per opposto la cultura
storica dell’occidente, all’atto stesso della sua fondazione, ha attribuito al
pensiero mitico il racconto di eventi fantastici e leggendari, di azioni
sovrumane in nulla “storicamente fondate”. Seguendo questa pista, del tutto
visibile e da tutti percepita, si giunge alla conclusione che la differenza tra i
due ordini di esperienza conoscitiva non risiede né nella procedura narrativa
né nella struttura del racconto, risiede bensì nella temporalità e cioè nella
dimensione del tempo o campo temporale nel quale queste narrazioni si
collocano: il tempo “storico” da un lato, il tempo “mitico” dall’altro.
12
Tempo “storico” e tempo “mitico”.
Anche qui una precisazione fa da premessa. Il Tempo con la T maiuscola
non esiste e si configura ormai come una dimensione del tutto metafisica
inafferrabile dall’esperienza. Ogni racconto genera il suo tempo e l’evento
narrato è un laboratorio della temporalità. Gli storici non si sono mai
occupati del Tempo come dimensione assoluta e universale, ma appunto del
tempo “storico” e questo tempo convive e coesiste con una infinita pluralità
di altre dimensioni e strutture della temporalità. Che il tempo sia “relativo” è
un convinzione ormai diffusa e che ogni circostanza, ogni evento, ogni
oggetto abbia un suo tempo è una esperienza diretta di ciascuno di noi. Ogni
approccio alla realtà, così come ogni esperienza conoscitiva, incontra e in
qualche modo genera una specifica struttura del tempo. Ogni ordine di
sapere ha un suo codice della temporalità, criteri di misurazione, calendari e
durata degli eventi osservati così come ciascuna forma letteraria ha i tempi e
ritmi che le sono propri.
Il tempo “storico” può essere definito come il tempo delle vicende
umane databili, nella loro successione necessaria (il prima e il dopo che è il
“divenire” storico), a partire da un certo evento e, da questo punto di vista,
la Storia si configura come il racconto di tutti i racconti o se si preferisce un
palinsesto di più narrazioni, o ancora un “metaracconto” capace di dare
ordine e un complessivo significato a tutti gli eventi relativi alla presenza
dell’uomo nel mondo. Datazione, successione ed evento fondativo
concorrono a definire la struttura del tempo storico. La datazione è la misura
del tempo fornita da un calendario e cioè da un utensile creato dalle varie
culture per dare un nome a singole porzioni del tempo e iscrivervi dati e
informazioni in una regolare e ripetitiva successione. Per la storiografia
occidentale il calendario è quello Gregoriano. L’evento iscritto in questo
calendario che da origine al tempo storico è, per convenzione condivisa, la
data di invenzione della scrittura. Prima di quella data non esiste il tempo
storico, ma quello pre-istorico e gli eventi che sono “immemorabili”, e cioè
che non possono essere datati, non fanno parte del tempo storico. La
scrittura della storia si opera quindi in relazione agli eventi databili che si
considerano, per ciò stesso, realmente accaduti; e poiché, per effetto della
datazione, gli eventi si succedono cronologicamente in un prima e in un
dopo, il tempo storico è lineare anche là dove, per effetto della sua presunta
ripetitività, appare superficialmente come ciclico. La successione temporale è
continua, necessaria e trascina gli eventi in un continuo che chiamiamo
appunto il “divenire storico”. Per questo il tempo storico è sicuramente
percepito come una freccia che corre da un punto di inizio a una fine e
l’oggetto della narrazione di questo corso è solo ed esclusivamente la
vicenda umana e il suo “progredire” (ma forse solo “procedere”) nel mondo.
Ma questa percezione del tempo, a misura umana e specchio immediato
dell’esperienza biologica della specie, è tuttavia essa stessa un prodotto
della cultura, una convenzione condivisa, e per questo la Storia con la S
maiuscola può essere a sua volta definita come la credenza in un Tempo
(anch’esso con la T maiuscola) lineare e progressivo che corre da un evento
13
fondativo e certo, fino a un punto terminale che, di volta in volta, la
struttura e il senso del racconto storico definiscono. Una credenza che, per
altro, la scienza del nostro tempo si è incaricata di archiviare.
Per differenza rispetto a quello storico, è possibile definire il tempo
“mitico” il quale raccoglie eventi non databili perché non sono “realmente”
accaduti o, forse meglio, non sono realmente accaduti perché non sono
databili. Liberato dal tempo storico, il racconto mitologico ha il compito di
spiegare proprio quegli eventi che la storiografia non può raccontare perché
sfuggono al suo campo temporale e per i quali non esistono fonti
scientificamente accettate e codificate. Ne è conseguita e ne consegue una
netta divisione di campo e, per molto tempo, una dinamica conflittuale: il
pensiero storico non accorda alcun fondamento costruttivo al tempo del
mito, una dimensione temporale che, a differenza di quella della storia, si
qualifica per essere estranea a qualunque criterio di linearità, di misurazione
e quindi di verifica di realtà. Di qui si scivola automaticamente in un giudizio
di valore che nega al mito ogni “verità” confinando la narrazione mitica alla
sfera del fantastico, del leggendario e del numinoso. Ma, in relazione
all’approccio seguito fin qui, questa deriva interpretativa è soggetta a
profonda revisione. Anche qui il problema sembra mal posto.
Innanzi tutto il tempo mitico non è quello che consente di raccontare e
misurare le vicende dell’uomo nel mondo, ma semmai di rappresentare
l’insieme di rapporti che il mondo ha con l’essere umano. Nella narrazione
mitica non è l’uomo il soggetto privilegiato che fa del mondo la sua scena,
ma è il mondo, nella infinita pluralità delle sue manifestazioni, che deve
comporre in sé l’incerta e mutevole presenza dell’uomo. Per questo il tempo
mitico non è lineare e la sua trama è “complessa” nel significato etimologico
del termine: “tiene insieme”, mette in relazione, connette una pluralità di
rapporti, circostanze e azioni che non hanno né un oggetto, né un io
narrante predefinito. Il tempo mitico, non è “storico” non già e non solo
perché i fatti che genera e accoglie non sono databili, ma perché questi fatti
connettono tra loro dimensioni temporali diverse: quelle delle forze della
natura, delle origini del cosmo inteso come una creazione permanente, dei
rapporti tra gli esseri umani e il loro tempo e gli innumerevoli, casuali tempi
che le infinite varietà dell’essere (le forme di vita) portano con sé. Nel
pensiero mitico, sulla ricerca delle “verità” fattuali, prevale una funzione ben
più importante che é quella di produrre rappresentazioni condivise, e cioè
forme simboliche e significati, che assicurino un alto grado di integrazione
dell’uomo con il misterium tremendum et fascinans che è la totalità del
cosmo e cioè un’esperienza conoscitiva che va oltre la soglia dei sensi.
Contrariamente a quanto accade nel discorso storico, gli eventi dei quali si
occupa la narrazione mitica non devono essere “insegnati”, più
semplicemente devono essere “partecipati” e la loro “verità” non consiste
nella corrispondenza con ciò che chiamiamo realtà, non nella coerenza
razionale delle azioni narrate, ma nella produzione di consenso; insomma ciò
che chiamiamo, con profonda superficialità verbale, “verità” o certezza qui
assume un significato e svolge un ruolo assai più immediato e si realizza nel
“mettere d’accordo” gli “ascoltatori” sul senso che i racconti trasmettono
all’interno di un determinato circuito comunicativo (i clan, le tribù, le
14
organizzazioni urbane e i comparti in termini di età, funzioni professionali,
ecc.).
Proprio questa funzione del mito consente di ridefinire i rapporti tra
tempo storico e tempo mitico e, più in generale, quelli tra Storia e Mito, tra
racconto storico e racconto mitico facendo perno sul moderno concetto di
cultura da un lato e sulle strutture operative del linguaggio che la fondano
dall’altro. E per questa via si può forse costruire un paradigma (inteso come
una matrice di pensiero che cristallizza una visione globale e globalmente
condivisa del mondo) capace, se non di conciliare le due esperienze
conoscitive, almeno di rendere conto della loro continuata coesistenza e dei
reciproci scambi che la tengono in vita, e dare conto della crisi del pensiero
mitico nei secoli della modernità e di quella del discorso storico che sembra
caratterizzare il tempo presente. I problemi, del resto, sono da tempo sul
tappeto e il dibattito è aperto in più ambiti disciplinari.
Problemi di confine.
Innanzi tutto oggi i confini tra i due campi conoscitivi paiono assai più
sfumati di quanto avvenisse in passato. Oggi sappiamo che le narrazioni
mitiche contengono a volte reminiscenze di fatti storici, così come molte
mitologie e miti del presente trovano le loro radici in narrazioni storiche.
Nell’esperienza storica del mondo antico, racconto storico e racconto
mitico non perdono mai il loro contatto e generalmente si confondono.
Innanzi tutto la storiografia è stata vissuta dagli antichi come un genere
letterario e ciò che si è salvato ed è arrivato fino a noi di un immenso
patrimonio perduto è proprio il frutto di una selezione operata dagli antichi in
relazione al valore stilistico e letterario dei racconti storici. I secondo luogo,
per quanto attiene alla storiografia greca, tutte le opere si organizzano
intorno al metaracconto di quella che è la più umana e sarei per dire la più
antropomorfa delle mimesi della natura: la guerra e il conflitto per la
sopravvivenza di stirpi, popoli e culture. Qui occupano la scena stirpi
sovrumane di eroi che trasmettono le loro proprietà alla storia di uomini e a
stirpi altrettanto eccezionali. E la fascinazione per questi eroi fondatori non
solo non ha mai abbandonato gli storici antichi, ma ha costituito parte
integrante della loro narrazione. Dall’epopea omerica passando per Erodono
e Tucidide e giungere a tutta la letterature storica dell’antichità, la
fondazione di ogni ciclo narrativo, le origini certificate di ogni evento sono
mitiche nel senso che rinviano a racconti oltre i confini di ogni possibile
datazione. Sono i miti della fondazione di città, della divinizzazione di antichi
re, del destino impresso a questo o quel gruppo umano fin dalle origini
cosmiche, racconti accettati perché condivisi e costitutivi della cultura intesa
come funzione di identità. Nei fatti la storiografia antica non costituisce un
vettore epistemologico della Storia come la ha pratica la cultura della
modernità e nella pratica della storiografia moderna la lezione degli antichi
appare più come un mito fondativo esso stesso del sapere storico che come
una fonte di ispirazione metodologica e scientifica. Ma forse l’intreccio
indissolubile dei rapporti tra rappresentazione mitica e fatto storico che ci
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comunicano questi sacri testi può contribuire a liberaci dall’idea che esista un
unico discorso storico.
Lo studio della culture come sistemi complessi, ha favorito processi di
revisione anche sull’altro versante. Oggi siamo disposti ad accettare che le
narrazioni storiche non certificano la “verità” di fatti realmente accaduti.
Ogni fatto storico è soggetto a una costante revisione sia sotto il profilo
interpretativo sia in relazione alla “verità” dei fatti narrati: la datazione, la
reale dimensione e localizzazione di ogni evento storico possono essere
modificati per l’insorgere di nuove fonti e di nuovi percorsi metodologici.
Nella ricerca storiografica nessun dato è certo, nessuna sequenza
cronologica è definitiva.
In realtà, la Storia è solo Storiografia perché il fatto storico si
costituisce, prende forma e vive nell’atto della sua narrazione e dunque la
storia non la fanno gli uomini nell’insieme costante delle loro reciproche
azioni, ma la fanno gli storici che selezionano i fatti e li organizzano in eventi
dotati di senso, li raccontano. Un fatto storico non rilevato, non datato, non
oggetto di storio-grafia non è mai esistito. Per effetto della sua struttura
narrativa e della sua funzione comunicativa, la storiografia (e cioè il racconto
storico) non restituisce alcuna “verità” dell’evento, ma ne offre
semplicemente
la
sua
rappresentazione
mutevole
in
funzione
dell’interpretazione che, di volta in volta, il narratore sceglie per comunicare.
Sappiamo inoltre che è il racconto, qualsiasi e ciascun racconto, a
generare il suo tempo e che, per quanto costretto e costruito su scansioni
cronologiche precise e circostanziate, ogni racconto storico non è il tempo
reale dell’evento, ma una sua rappresentazione simbolica; è una dimensione
virtuale delle temporalità del tutto flessibile e che si può comprimere o
dilatare all’infinto. Poche pagine possono raccogliere vicende plurisecolari e
intere biblioteche essere dedicate al racconto di un singolo evento. A una
attenta analisi il tempo storico e il tempo mitico non segnano una radicale
inconciliabilità e i loro confini non sembrano rigorosamente definiti.
Ciò che chiamiamo Storia, con la S maiuscola, e che è un prodotto
esclusivo della cultura della modernità, altro in realtà non è che la credenza
diffusa di un tempo lineare capace di rappresentare il susseguirsi progressivo
delle vicende umane da un evento fondativo verso un fine ultimo di natura
morale e politica e, in realtà, apocalittica e profetica: l’emancipazione
dell’uomo, esso stesso prodotto della storia, dai vincoli che proprio la sua
natura di essere “storico” gli impongono; il che, non sfugge, si configura
come un evidente paradosso. Se, infatti, la nostra antropologia filosofica,
antropocentrica ed eurocentrico, fa dell’uomo un prodotto della sua stessa
storia, del corso e del divenire delle vicende umane, allora la sua
emancipazione sta nel compimento della Storia stessa. Questa credenza,
universalmente diffusa e certo condivisa dagli storici, di un divenire storico
fa della Storia l’indefinito contenitore di tutti i racconti possibili, un
“metaracconto” e una vera e propria mitologia della modernità.
Mito e Storia qui davvero si confondono e scambiano le loro proprietà.
Con una fondamentale differenza però.
Limitandosi alla narrazione delle vicende umane e delle relazioni che gli
esseri umani intrattengo tra loro, la storiografia non produce cosmogonie,
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bensì sociogonie; fonda e spiega l’origine delle organizzazioni sociali nella
loro assoluta alterità rispetto alla natura e ai campi di forza che le
governano. Celebra e definisce le origini e le ragioni del potere nella società
e queste celebrazioni fondano una mitologia e un mito di potere e di potenza
dell’uomo. Si può dunque ragionevolmente affermare che la storiografia
occidentale dei secoli XV-XIX, e fino a un tempo non molto lontano da noi, è
per questo un processo mitopoietico e un racconto nel quale l’uomo non è un
oggetto della creazione, ma il soggetto di continui processi creativi del
tempo e del suo stesso tempo in virtù dei racconti che fa della sue vicende
storiche. La narrazione storica, infatti, genera un tempo che le è proprio e
questo tempo è esclusivamente umano, esclude ogni altra dimensione della
temporalità e crea un formidabile campo magnetico di identificazione e di
condivisione. Nessun altro sistema di pensiero ha percorso un cammino
tanto rischioso, nessuna cultura ha conferito al pensiero mitico il compito di
umanizzare il tempo e di promuovere, nel tempo, l’espansione della
conoscenza dell’uomo come dominio del mondo. Sta forse qui il vero confine
tra Storia e Nito, ma certo è qui la forza del racconto storico, la sua potenza,
la sua originalità e, al tempo stesso, il suo limite. Un limite che proprio il
pensiero mitico sembra superare.
Questo limite ci riconduce, infatti, al Mito, in particolare al pensiero
mitico greco che ci ha seguito fin qui. Risalendo al tempo della formazione
della cultura greca, i saperi umani, teorici e pratici, trovano la loro origine
ultima presso gli dei, sono loro che donano agli uomini gli utensili e le
conoscenze per trarne profitto: la saggezza come libera pratica di
conoscenza che va ben oltre la filosofia. Ed è per questo che l’emergere della
filosofia e del pensiero razionale non ha mai spezzato questo legame tra
saggezza e divinità, un legame che anzi sul finire dell’Antichità sembra
radicarsi con rinnovata forza. Gli dei del Pantheon greco sono antropomorfi
e, come tali, sono uno specchio e una proiezione dell’uomo, ma hanno nomi
e questi nomi sono forme simboliche e rappresentazioni di tutto quanto è il
mondo percepito dai sensi e delle forze misteriose che lo governano. Cielo e
terra, sole e notte, tempo e memoria, fuoco e acqua, mare e vento, giustizia
e guerra e così via sono altrettanti dei e, più precisamente, essenze esterne
e sovrastanti l’uomo per effetto della loro sostanza immateriale che è
l’immortalità. La pluralità delle forze che agiscono nel mondo naturale e
nell’uomo che di questo è una parte non esclusiva, né privilegiata, trova la
sua rappresentazione nell’universo politeista e in un intreccio di azioni
narrative che spiegano gli eventi. Ma anche se, in qualche modo, questi
evinti si succedono in dimensioni e qualità tra loro diverse (le età del mondo
e del cosmo), perché appunto sono storie, non sviluppano una temporalità
lineare che proponga una direttrice di marcia, un divenire, un fine ultimo
delle vicende di volta in volta narrate. Il fato, la casualità, l’imprevedibile
governano gli eventi producono l’effetto di aprire gli eventi stessi e
rigenerarli in un processo di auto e mitopoiesi. Più che una Storia in grado
di contenere tutti i racconti e dar loro un ordine, la mitografia sembra
sempre configurarsi come una genealogia o, se si preferisce, una biologia di
eventi: ogni racconto mitico crea un sistema di relazioni complesse,
discontinue e casuali con altre narrazioni senza dare luogo a una gerarchia e
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neppure un ordine stabile perché le passioni che sono le forze del cosmo in
libera, reciproca attrazione non danno luogo a continuità, ricorrenze,
ripetizioni o sistemi di regole.
Ben diversamente dalla costruzione di scenari storici e vicende umane
tra loro susseguenti e coerenti, la rappresentazione mitica ha infatti la
particolarità di organizzare, qui e ora, l’insieme possibile di relazioni tra
oggetti e circostanze percepibili dai sensi in un sistema complessivo e
complesso autosufficiente e quindi globale. Ciò che chiamiamo mitologia in
realtà è una enciclopedia del sapere, delle arti e dei mestieri, una
“enciclopedia tribale” che mette in rete e connette un sistema complesso di
significati. In questo senso l’approccio conoscitivo del pensiero mitico è di
tipo olistico, termine con il quale oggi indichiamo quella tendenza della
natura a costituire insiemi che sono diversi dalla somma delle singole parti
che li compongono (in termini di teoria della complessità è la tendenza
dell’universo a costituire delle unità strutturali ci complessità crescente ma
formanti ciascuna una totalità). Tutte le parti del discorso mitico, le azioni e
gli attori che esso genera, partecipano di un tessuto connettivo che è
specifico del discorso stesso e non possono essere considerate isolatamente.
La narrazione mitica in apparenza, ma solo in apparenza, si chiude su sé
stessa, in qualche modo si auto-organizza e genera eventi il cui significato è
incontrovertibile perché non necessita di valori codificati di riferimento (vero
o falso, giusto o ingiusto, razionale o irrazionale) esterni a sé stesso. Qui
l’evento non ha bisogno di un prima e di un dopo e, in certo senso, ogni
evento mitico è un laboratorio esclusivo del suo stesso tempo, è una
fondazione “nativa” che precede e genera le strutture profonde, le fa
emergere. Ed è per questo che la narrazione degli eventi mitici non dà luogo
a una dinamica lineare (la sequenza cronologica), piuttosto dà luogo a una
genealogia intesa come un sistema di relazioni con altrettante unità
narrative ciascuna dotata di una sua totalità, un sistema a rete e reticolare.
Insomma un sistema chiuso e aperto alla stesso tempo, un processo
cognitivo in sé.
Il pensiero mitico appare insomma, assai più che il discorso storico,
come un paradigma della complessità e del pensiero complesso.
Sta certo in questa compiuta autosufficienza narrativa la forza del
pensiero mitico, il suo alto livello di partecipazione e condivisione e la sua
funzione di fondazione primaria della cultura di cui svela tutta la
complessità. E sta qui, in questa soggiacente accettazione del complesso e
nella intuizione della complessità come dimensione profonda di ciò che
chiamiamo cultura, la ragione della persistenza e centralità del pensiero
mitico nella produzione di quelle rappresentazioni collettive (valori, idee
forti, pratiche e riti fondati su racconti condivisi) che caratterizzano le
organizzazioni umane.
Il tema della complessità e il nuovo convoglio semantico che essa
richiama da più campi disciplinari (teoria della complessità e del caos,
sistemi complessi, emergenza, dissipazione, olismo, globalità, teoria dei
sistemi, intelligenza artificiale e intelligenza collettiva, ecc.) segna oggi il
superamento del modello culturale della modernità e di quella epistemologia
(fondata sul mito della razionalità) e antropologia (fondata sul mito
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eurocentrico) che potremmo ormai definire come la deriva tradizionale del
pensiero occidentale.
Cosicché proprio facendo leva sull’interpretazione del pensiero mitico
come paradigma di un pensiero della complessità, siamo forse nelle
condizioni di tracciare confini nuovi e più definiti tra Mito e Storia, racconto
mitico e racconto storico, e di intravedere al tempo stesso il possibile
superamento di questi stessi confini.
L’emergenza della complessità.
In virtù dell’emergenza del pensiero complesso come tessuto connettivo
o teoria unificata di vasti campi disciplinari, oggi siamo disposti ad accettare
che l’opposto della verità non è l’errore, ma un’altra verità e che tanto più e
profonda una verità tanto più cela o genera una contro-verità altrettanto
profonda. Oggi sospettiamo come proprio la cancellazione del pensiero
mitico a vantaggio del discorso storico abbia dato luogo al sorgere di
sociogonie, di nuove mitologie e produzione di forma simboliche,
rappresentazioni, racconti e metaracconti. I racconti storici oggi si possono
interpretare come veri e propri campi mitogentici che offrono l’occasione,
non solo per una rilettura del modello culturale della modernità e di una
ridefinizione dei confini tra mito e storia che ne hanno segnato la
particolarità e il paradigma, ma consentono forse di superare questo stesso
modello e questi stessi confini.
La revisione tocca le radici profonde della cultura occidentale e del suo
sviluppo nel modello culturale della modernità.
La filosofia come esperienza individuale della conoscenza delle cose del
mondo e quindi come decentramento, presa di distanze dell’uomo dal modo,
nasce in Grecia proprio come analisi critica e progressiva demolizione di
quella saggezza diffusa che si confonde con la produzione di miti. È una
frattura tra uomo e mondo, tra soggetto e oggetto, che ha prodotto un balzo
prodigioso per la storia dell’umanità: ha dato origine all’antropologia
dell’occidente e generato un modello culturale (quello della modernità) che
oggi ha globalizzato il mondo. Ma la ricerca della verità come esclusivo
obiettivo della conoscenza, ha creato un dualismo ontologico radicale tra
essere e non essere, tra vero e falso, tra sapere codificato e libero pensiero,
tra metodo e creatività, infine tra fatti “realmente accaduti” ed eventi aperti
a trame narrative casuali e discontinue, tra un tempo lineare predefinito e
programmato nel suo sviluppo e una dimensione instabile della temporalità
dinamica e capace di accogliere la connessione con una pluralità di tempi e
di agenti e di co-evolvere con essi. Questo dualismo ha dato poi luogo a
processi di riduzione della realtà e comportato una progressiva rinuncia alla
complessità del reale.
La riduzione del mondo a scenario delle vicende umane, che è
l’immediato riflesso della storia dell’uomo moderno e delle tecniche e dei
canoni della sua narrazione, ha codificato nella nostra cultura le credenze
nella linearità del tempo, nel necessario rapporto di causalità nella
successione degli eventi nel tempo e in un incessante divenire profetico e
19
apocalittico. Per effetto di questo processo di riduzione, nella cultura
occidentale, in forza delle sue radici giudaiche, l’origine del cosmo coincide
con l’atto creativo narrato nella Genesi, l’origine della storia dell’umanità è
l’Evento di fondazione del cristianesimo, e cioè il mito fondativo di una
religione dell’uomo come immagine della divinità. Questi miti fondativi hanno
poi dato luogo al conseguente processo di divinizzazione dell’uomo stesso:
quel processo di laicizzazione (il cui rovescio è appunto la dinivinizzazione)
che ha caratterizzato la cultura della modernità e imposto l’onnipotenza del
sapere e della razionalità e ha insediato la storiografia come autonomo
ordine del sapere al quale è stato affidato il compito di conciliare continuità e
discontinuità nel progredire indefinito dell’emancipazione dell’uomo dal
mondo e dalla sua stessa storia. La storiografia ha così assunto nei secoli
XVIII-XIX un ruolo strategico e centrale nella umanizzazione del tempo e
nella produzione di sociogonie e dei miti del potere: il potere della
razionalità, l’idea del progresso e poi quella del divenire necessario di questo
progresso, l’idea di stato come compimento definitivo di una “sociogonia
universale” e poi del supermento di questo stesso mito in una dimensione
spirituale del collettivo che chiamiamo nazione. E infine, proprio in forza di
questo collettivo in costante “divenire” storico, si è giunti a una nuova,
apocalittica, sociogonia che è davvero già una cosmogonia: il comunismo,
una società senza classi e senza stato, il compimento della storia stessa e la
sua fine, l’avvento di un paradiso per effetto del “ritorno alle origini”.
L’ultimo grande mito dell’eterno ritorno.
Per questa sua funzione mitopoietica la Storia è divenuta così, al
culmine della sua centralità come teoria unificata della conoscenze,
l’incubatore e la sorgente di tutto il convoglio delle scienze umane.
L’esperienza storiografica ha generato la sociologia, l’antropologia,
l’etnografia, la geografia,
la linguistica e una pluralità di comparti e
sottocomparti disciplinari. E la storia si è infine autodefinita, negli anni
Sessanta del secolo scorso, il “mercato comune delle scienze umane”. Un
mercato di scambio tra saperi e metodi in grado di rassicurare e confermare
incessantemente la centralità dell’uomo moderno al mondo e il suo difficile
ruolo di produzione e governo della realtà.
L’idea di una storiografia come mitografia della modernità pare ormai
sempre più condivisa. I più recenti sviluppi del pensiero storico considerano
la storiografia come una forma di narrazione connessa ad una istanza o un
paradigma culturale che intende dare del passato una visione tale da
rispondere alle preoccupazioni del presente per esorcizzarle e riconciliarle
con il corso stesso del tempo. Gli storici tentano, infatti, ciascuno a suo
modo di modificare o legittimare il presente con l’aiuto di nuove
interpretazioni del passato. Ma la relatività di ogni interpretazione e di ogni
teoria nel campo delle scienze umane, ha per conseguenza la relatività di
ogni interpretazione storica. La prova più elementare non è più considerata
come un fatto, ma come l’interpretazione di un avvenimento nella quale
l’agente umano, il narratore-mediatore è implicato fin dall’inizio. Come ogni
mediatore e comunicatore, lo storico ricostruisce e rielabora materiali
presenti alla coscienza dei suoi ascoltatori, li seleziona e li interpreta dando
loro un significato, ma all’atto stesso della selezione e dell’interpretazione
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questi eventi mutano nella loro struttura e nella loro sostanza, si liberano da
ogni condizionamento e si propongono come diversi o meglio nuovi, nativi. E
questo processo cognitivo e comunicativo confonde automaticamente i
confini tra mito e storia, conferisce centralità all’approccio linguistico, svela
la natura sistemica e complessa di quell’insieme di simboli e segni che si
organizzano e auto-organizzano nel racconto, spinge a superare l’idea stessa
di funzione e struttura per ricercare le proprietà emergenti che danno luogo
all’autopiesi.
Ciò che permette e impone di superare i confini tra storia e mito è,
infatti, un nuovo paradigma culturale che segna al tempo stesso anche il
superamento del modello culturale della modernità e le mitologie che la
hanno costituita.
La novità è che, nel corso degli ultimi decenni, scienze fisiche e
matematiche, scienze cognitive e scienze della vita hanno proposto e
imposto una nuova visione della mondo e nuove teorie della conoscenza che
riconducono la sociogonia storiografica della modernità a nuove e inattese
cosmogonie. Neuroscienze, scienze della comunicazione, biologia, hanno
spostato il fondamento della realtà dall’humnitas al concetto stesso di vita e
di vivente come oggetto e fondamento di ogni possibile racconto e hanno
aperto la strada al pensiero della complessità. L’uomo non è più percepito
come il prodotto più elevato della creazione, ma come una delle
innumerevoli piste evolutive della vita; e di conseguenze il corso delle
vicende umane non può essere più immaginato come indicatore esclusivo
della “storia universale” e dell’universo. La “storia” dell’uomo nel mondo
come teatro della sua emancipazione esclusiva e dominante, cede così il
campo all’ “evento” della vita come emergenza e processo continuo di
conoscenza, comunicazione e autocreazione.
Quest’idea emergente e centrale di vita, questo evento di fondazione
universale e permanente, sembra configurarsi come il paradigma di una
nuova cultura planetaria. Sicuramente è un “riforma della cultura” che si sta
realizzando nel presente e il cui obiettivo è quello di comprendere il
comportamento dei sistemi complessi, caratterizzati da elementi numerosi e
diversi tra di loro e da connessioni numerose e non lineari. L’epistemologia
della complessità che raccoglie in sé la pluralità dei campi di indagine e dei
metodi di quelli che chiamiamo “nuovi saperi” (teoria della complessità e del
caos, dei sistemi complessi ed emergenti, cibernetica, intelligenza artificiale,
neoevoluzionismo, ecc.) ha di fatto archiviato in via definitiva miti e
credenze costruiti pazientemente dalla storiografia nel corso dei secoli della
modernità. Contestualmente alla fine della modernità si è dunque annunciata
la fine della storia. È un’opinione diffusa e dibattuta e ovviamente respinta in
blocco dagli storici. E i motivi di perplessità se non scetticismo, ci sono.
Nei fati la domanda di storia, o perlomeno di racconti storici, è, proprio
nel presente, quanto mia prorompente in tutti i settori della comunicazione,
editoria, cinema teatro. Nelle produzioni televisive, nell’intrattenimento e
nelle cerimonie collettive, la costruzione di scenari storici e la narrazione di
eventi storici occupa un ruolo centrale. E lo stesso si può dire della presenza
del mito e della narrazioni mitiche nel presente. Anzi, ad una attenta analisi,
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narrazioni storiche e narrazioni mitiche, tempo storico e tempo mitico
sembrano coesistere e addirittura integrarsi in modo permanente.
Questo stato di cose, questa evidente contraddizione, ci consente di
concludere tutte le riflessioni condotte fin qui e di trovare una possibile
risposta ad alcuni degli interrogativi che hanno guidato questa “narrazione”.
Approccio alla complessità.
I confini tra storia e mito, lo si è detto sono labili e, in un approccio di
tipo linguistico, pressoché inesistenti. Il mito è un racconto e il racconto una
storia. Il racconto è un processo conoscitivo e un prodotto comunicativo che
costruisce la realtà e la rende vera in relazione al grado di condivisione che
raccoglie.
Al pari di quanto accade nella storiografia, anche nella mitografia
l’evento si costituisce nell’atto stesso della sua narrazione e della sua
comunicazione, e sono i mediatori di questa comunicazione, i mitografi
(poeti, aedi, narratori, mediatori con la sfera del numinoso e oggi tecnici
della comunicazione) a costruire e formalizzare i canoni narrativi. A
differenza degli storiografi, i narratori di miti non soffrono alcuna limitazione
nella selezione e costruzione degli eventi e non dispongono di una linearità
del tempo da rispettare. Al contrario il loro compito è interpretare e
governare il discontinuo accettandolo come manifestazione autentica della
realtà. Ma anche gli storici scelgono liberamente l’oggetto delle loro
narrazione e, conciliando continuità e discontinuità, concorrono a costruire
paradigmi di realtà, danno ordine e spiegano gli eventi.
Al pari della mitologia anche la storia produce racconti il cui compito è
quello di connettere le esperienze conoscitive individuali al vasto tessuto
delle relazioni intersoggettive. La Storia, divenuta nel corso del XIX secolo
“storia universale”, è un metaracconto che, come il mito, va oltre i confini
dell’esperienza individuale, promuove valori, sistemi di idee, codifica
comportamenti e “insegna” le regole del gioco di una certa società o di un
certo gruppo sociale. Le storie raccontate dagli storici fissano poi le origini di
queste regole, la loro legittimità e il loro perché. Tutti gli storici creano i
propri miti fondativi degli eventi che vogliono narrare e questi miti sono
quelli del potere, della sua legittimazione su base storica, in una certa
società e in una determinata circostanza. Ma proprio questa procedura,
quando raggiunge quel livello di condivisione che le da forza e la fa vivere,
materializza automaticamente in riti, culti, credenze, apparati cerimoniali,
comportamenti e persino sacrifici rituali. Un tessuto e una trama della
cultura che di recente e con paradossale espressione si coniugano con ciò
che viene definito “uso pubblico della storia”. La storia non ha mai, per sua
stessa definizione, avuto un uso “privato” per il fatto che, in quanto la sua
funzione è stata ed è quella di celebrare e comunicare i miti del potere e in
questo senso tutta la storiografia è “comunicazione politica” e nulla più. Per
questo il confine tra sociogonie storiche e cosmogonie mitiche appare
inesistente.
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Al pari della Storia il Mito non offre verità, offre una opportunità di verità
perché la verità è ciò che si crede tale e cioè ciò che “convince”, connette e
“mette d’accordo” più interlocutori sul significato di un determinato discorso.
La condivisione del significato e di partecipazione allo sviluppo delle azioni
narrate è la forza del racconto che questo sia mitico o storico. Il pensiero
mitico va ben oltre i confini ristretti della vicenda umana e tocca quel livello
complesso della conoscenza che non è sovrumano, ma semmai
“ultraumano”. Il pensiero mitico svela una dimensione del concetto di
coscienza e conoscenza, una dimensione della cultura destinata a dare
scacco all’idea stessa di sapere (riduzionista e meccanicista) che proprio il
discorso storico della modernità ha radicato nella cultura occidentale:
l’antropocentrismo e l’eurocentrismo. Un antropocentrismo (fondato dalle
radici giudaico-cristiane) che l’epistemologia del presente propone di
superare e un eurocentrismo, (fondato dal processo di laicizzazione della
modernità), che non ha più luogo nelle coscienze e che proprio una
antropologia nuova, una antropologia della complessità, dovrebbe
progressivamente archiviare. Ma proprio questa deriva svela la funzione
profetica della storiografia non diversa da quella che il mito ha svolto e
svolge nella costruzione dei paradigmi culturali; al pari dei narratori di miti,
gli storici mediano incessantemente tra la sfera del visibile e la sfera del
numinoso che è la progressiva divinizzazione dell’uomo e il suo destino di
potere sul mondo. Ancora, e forse con maggior forza del mito, la storia si
impone alla partecipazione e alla condivisione: la storia “insegna” la dignità
dell’uomo e il suo destino di dominio e di potere sul mondo. Per questa sua
funzione la storia è ben più che una sociogonia, è stata per la nostra cultura
una vera e propria cosmogonia.
Infine la forza del racconto, che sia esso storico o mitico, si manifesta
nel suo basso o alto grado di condivisione e quindi del suo stabile
insediamento nel sistema culturale. E questo livello di condivisione e
partecipazione, per averlo sempre instabile in virtù dello scambio
comunicativo e dei processi di interpretazione, non è l’effetto della coerenza
che il racconto intrattiene solo ed esclusivamente con gli aspetti cumulativi e
patrimoniali della cultura, non assume rilevanza in relazione alla “memoria
storica” o alla “memoria collettiva”. La “memoria collettiva”, concetto nato
nella psicologia sociale e derivato dalla sociologia, non sembra aver alcun
fondamento alla luce delle più recenti acquisizioni delle neuroscienze. La
“memoria storica”, espressione di recente conio e che sembra essere
definibile la permanenza nella nostra cultura diffusa (principalmente la
cultura orale) di alcuni eventi storici, sembra riferirsi alla trasfigurazione
mitica degli eventi storici stessi. Proprio questa trasfigurazione, che cancella
ogni possibile confine tra storia e mito, svela funzione primaria della
storiografia di comunicazione politica e di celebrazione del potere e dei fatti
ad esso connessi. In realtà la forza di condivisione delle storie e dei miti,
risiede essenzialmente nella composizione stessa del racconto e nella sua
capacità di conferire un significato alle discontinuità che il presente impone
di continuo all’esperienza.
E se va identificato un tessuto culturale nel quale si insediano e
raccolgono consenso i racconti storici e mitici, si dovrebbe oggi fare
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riferimento non tanto alla formula fragile di “memoria storica”, quanto
piuttosto al concetto emergente di intelligenza collettiva, concetto con il
quale si indicano le capacità cognitive di una comunità (non necessariamente
umana) conseguente al sistema di interazioni tra gli agenti che le
costituiscono. Una visione meno individualistica e meno antropocentrica dei
sistemi viventi che emerge dal campo della biologia e della sociobiologia,
avanza, infatti, l’ipotesi che un gran numero di unità possano cooperare
tanto strettamente da divenire indistinguibili da un singolo organismo,
raggiungendo un unico livello di attenzione che costituisce una adeguata
soglia di azione (la comunità scientifica né un esempio evidente). La forza
del racconto sarebbe, in questo caso, la sua capacita di realizzare costruzioni
di senso che si inseriscono in processi cognitivi profondi insiti nei sistemi di
cultura in quanto reti interattive di significati instabili e in costante
mutamento.
L’evento come paradigma della complessità.
L’unico caposaldo, l’unico salto o possibile confine che divide mito e
storia sembra essere ancora la netta distinzione dei rispettivi campi
temporali che impone una apparente alterità alle due esperienza conoscitive.
La storia è del passato e il mito occupa un tempo che non ha date e non si
riferisce al passato “storico” dell’’esperienza umana. È nativo, fonda le
origini, spiega tutto in un solo istante: quello della sua creazione e
fondazione. Ma anche questo confine, alla luce di un pensiero rispettoso
della complessità, si scioglie subito come neve al sole.
La linearità del tempo è una credenza, un utensile della cultura la cui
funzione è stata quella di insediare l’uomo al centro dell’universo e
umanizzare il tempo, addomesticarlo. Oggi però una visione sistemica
disintegra questa ideologia perché il susseguirsi della vicende umane nel
continuo storico non dà conto dell’evento stesso della vita come processo
permanente di auto-generazione in virtù di proprietà emergenti. Certo ogni
evento è, per definizione, “accaduto” e solo per questo si può narrare, ma un
approccio alla complessità dell’evento di vita impone una fenomenologia
dell’evento che dilata il presente nella dimensione dello spaziotempo. Ma per
il narratore, inutile dirlo, l’evento è “qui e ora” perché prende vita nell’atto
della sua costruzione e della sua attribuzione di senso. E poiché l’evento è
una discontinuità percepita “qui e ora” rispetto ad un ordine atteso, il
racconto è sempre nel presente e questo presente è forse, a sua volta, un
complesso sistemico di altri tempi e una rete di significati richiama altre
possibili narrazioni.
Il racconto, lo si è detto, è un laboratorio della temporalità, genera il
tempo e il suo proprio tempo. Esiste però un processo sistemico, che
organizza gli elementi che lo compongono e ne consentono la costruzione e
la comunicazione. Esordio, trama, epilogo, significato, soggetto narrante
intrattengono relazioni complesse; ma, pare evidente, è la percezione della
discontinuità dell’evento, la sua novità, il suo essere “qui e ora” che impone
al narratore la necessità di spiegarlo e dargli un significato. Questo
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significato è consustanziale all’epilogo di ogni racconto ed è a partire da
questo passaggio finale, dal senso comunicato, che si costruisce, a ritroso, il
racconto. È l’epilogo che determina l’inizio e crea il punto zero della storia
narrata, il mito fondativo al di al del quale non si può andare. Per lo storico
questo è immediato: non vi è narrazione storica che non presupponga un
significato possibile, una tesi che si vuole dimostrare, un discontinuità che si
deve spiegare e riconciliare. In questo senso, come dicevo, ogni storico
costruisce la sua mitologia delle origini del fatto narrato. La sequenza non
lineare fine-inizio-composizione della azioni narrate e il significato che si
costruisce a partire da una fine la quale determina il suo stesso inizio, mette
in moto la narrazione di ogni evento e ne consente l’attribuzione di senso.
Ma questa sequenza non è lineare, in realtà è un anello che solo
all’apparenza chiude il racconto su stesso, gli da autonomia e forza e al
tempo stesso crea un sistema dinamico e un vero e proprio anello di
retroazione e cioè quella capacità dei sistemi dinamici di tener conto dei
risultati del sistema per modificare le caratteristiche del sistema stesso. Pur
nella sua apparente autonomia, ogni racconto, ogni storia, contiene in sé gli
elementi per evolvere ne tessuto comunicativo in forza delle sue proprietà
emergenti e della sua autopoiesi.
Come ogni racconto la Storia è del presente, nasce nel presente e
nell’atto della sua narrazione ed sviluppa il suo campo narrativo in una
direzione che chiamiamo “passato”, ma ogni inizio, ogni fondazione del
racconto storico definisce a sua volta un certo tipo di passato, gli dà
sostanza e colore diverso per effetto del significato del quale si pone al
servizio, ne modifica di continuo le proprietà e la dimensione in relazione al
vortice dei processi interpretativi e comunicativi. Il passato non è la reale
dimensione del racconto storico: liberati delle gabbie del loro tempo anche
gli eventi storici vivono vita autonoma e perdono il contatto con la linearità
del tempo per distendersi in una rete di altri racconti storici, di altre
esperienze conoscitive.
Cosa riserva questo modello di interpretazione dell’evento/narrazione
come sistema complesso, al futuro della Storia e della storiografia?
Questa domanda, ancor più che il tentativo di dare una risposta,
conclude la “narrazione” compiuta fin qui e la apre alla sua possibile
evoluzione.
Oltre i confini, la “storia del presente”.
Proprio mentre concludo queste riflessioni, la percezione individuale e
collettiva del mutamento (forse una vera e propria “metamorfosi”), di un
paradigma delle cultura, quello della modernità, è universalmente diffusa. Il
mito della modernizzazione come globalizzazione di un insieme di saperi e
credenze a fondazione storica e di matrice antropocentrica ed eurocentrica,
rivela i suoi limiti e la sua profonda crisi. Il pianeta, disseminato di guerre,
campi di battaglia, lager, non sembra essere uscito dal ciclo infernale del XX
secolo. Il rapido mutamento in corso degli ecosistemi, l’esaurirsi progressivo
delle risorse, l’incremento esponenziale dei processi demografici e di
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urbanizzazione sembrano battere le campane a morto dell’esperienza stessa
della nostra specie nel suo rapporto di dominio con quella alterità che
chiamiamo natura. Al di la delle emozioni e dei racconti al nero, nulla di
apocalittico o catastrofico. Sicuramente un radicale discontinuità e una tratta
di fiducia spiccata sul pensiero
Le credenze collettive che storiografia e mitografia hanno costruito e che
hanno retto un ciclo plurisecolare non funzionano più. I sistemi di governo
della realtà che queste mitologie hanno generato non sembrano in grado di
garantire un equilibrio mondiale e rapporti accettabili tra l’uomo e l’ambiente
che lo circonda. E la recente crisi finanziaria “globale” è il più visibile
indicatore del fatto che tutto un convoglio di saperi tradizionali non offre più
miti condivisi e opportunità di verità.
La centralità del pensiero economico nelle scienze sociali e di queste
nella scienze umane, che si è imposta negli ultimi cinquant’anni, ha creato
false premesse per il ciclo evolutivo della vita stessa. Sarebbe questa una
terribile affermazione se non ve ne fosse una, ancora più scioccante, che si
sta facendo strada nelle coscienze e nei processi conoscitivi: oggi ci è facile
intuire si sono verificati fraintendimenti non solo in ambito politico,
economico e finanziario, ma anche su tutti i comportamenti umani che
proprio il racconto di questi saperi tradizionali ha determinato e cercato di
organizza in un lungo corso di secoli.
Altre rappresentazioni, altri racconti sembrano dover prende il campo
per effetto della discontinuità che il presente porta automaticamente con sé.
Nuovi saperi, paradigmi e processi di identità rivelano una nuova dimensione
dell’humanitas. Ma l’archiviazione delle vecchie mitologie e il loro
superamento incontra formidabili ostacoli proprio in virtù di un sistema di
comunicazioni sempre più complesso ne quale storie e racconti come
strutture di significati che viaggia su reti non localizzate in singoli territori e
in ambiti temporali universalmente vissuti e condivisi.
Oggi più che mia l’esperienza storica si trova a fronteggiare,
interpretare e narrare un vero oceano di eventi che le tecniche di
comunicazione veicolano a livello planetario oltre ogni confine di culture,
esperienze e “storie”; le fonti si moltiplicano a dismisura e le narrazioni
stesse appaiono sempre più come prodotti comunicativi complessi,
multimediali e tra loro intrecciati in sistemi complessi di significato. Se una
estinzione di massa minaccia i linguaggi tradizionali (nel giro di tre
generazioni si stima che l’80% degli idiomi in usa scomparirà), nuovi
linguaggi e sistemi di segni si stanno costituendo e l’esperienza storica con
essi si deve confrontare. Intorno agli anni Ottanta del secolo scorso è stato
sfondato il “muro della storia” e gli eventi sono, in un certo senso, entrati in
sciopero, hanno assunto un elevato grado di autonomia e si sottraggono al
governo della storiografia che, per secoli, li rigidamente organizzati in
relazione ai principi di causalità e continuità. Non esiste una storia universale
capace ridurre a racconto unitario la pluralità degli eventi e dei loro
significati e gli storici debbono oggi prendere atto delle condizioni caotiche
che natura dinamica di quei sistemi di significato che sono gli eventi e
racconti che li costruiscono creano a livello comunicativo e interpretativo.
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La storiografia, che ha sempre costruito scenari virtuali e ne ha
certificato la verità, deve ora confrontarsi con veri mondi virtuali nei quali
l’intelligenza artificiale e la vita artificiale propongono modelli complessi,
vaste alleanze e una innovativa epistemologia, una nuova fenomenologia
dell’evento storico. Per un’intera generazione, l’ultima in termini storici, già
non esistono più confini tra reale e virtuale, così come non esistono confini
tra storia e mito, discorso storico e pensiero mitico. Nella seconda metà del
Novecento la conoscenza ha superato il muro dell’invisibile e le nostre
esperienze vanno ben oltre i confini dei nostri sensi. La tradizionale relazione
tra storia e geografia che ha fatto il tono della geopolitica di marchio
ottocentesco, appare un approccio conoscitivo inadeguato alla luce della più
recenti acquisizioni del sapere. Oggi le società umane si percepiscono come
veri e propri ecosistemi complessi che intrecciano e tra loro connettono un
pluralità di organizzazioni di vita e interagiscono con sistemi dinamici le cui
dimensioni di spazio e dei tempo non si conciliano necessariamente don il
tempo storico imposto dalla cultura della modernità.
La metafora della vita come evento di fondazione della realtà, come
complessità sempre nuova, sempre emergente, fa del presente l’unico luogo
possibile della discontinuità e dell’evento che la svela. Così il compito dello
storico ora sembra dover essere quello non già di conciliare continuità e
discontinuità in un tempo lineare a una unica velocità e direzione, ma di
accettare la narrazione di tempi plurali e di eventi innumerevoli tra loro
intrecciati in una invisibile rete.
Le mitologie del passato hanno indotto a ritenere che il percorso di
revisione del ruolo della storiografia dovesse essere una sorta di
“globalizzazione” del metodo storico, un salto verso una storia “totale”
capace di conciliare tutti i saperi per conciliare ogni possibile discontinuità.
Non esiste una “storia globale”, né una storia “totale”. Al pari della “teoria
del tutto”, avanzata negli ambienti scientifici, queste proposte per una
possibile rinascita della centralità del sapere storico nel rispetto della sua
gloriosa tradizione, sono solo ipotesi che non lasciano intravedere nuove
esplorazioni e nuove scoperte. Quello che appena si intravede è forse una
“storia del presente”, perché è il presente l’unico attore della discontinuità,
la storia è lì. E lì è anche la definitiva riconciliazione tra mito e storia e il loro
superamento in vista di una profonda “riforma del pensiero”.
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Dicembre 2008 - (87.600 caratteri)
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