Pianeta scienza MARTEDÌ 14 GENNAIO 2014 IL PICCOLO Nuova stagione “meccatronica” della Sissa con la stampante 3D Con l’arrivo della nuova stampante 3D si inaugura una nuova stagione “meccatronica” alla Sissa. Il nuovo laboratorio permetterà ai ricercatori di progettare e realizzare i setup sperimentali e i macchinari per i loro studi in totale autonomia. Grazie ai sofisticati dispositivi, fra i quali una stampante 3D di ultima generazione e all’expertise del laboratorio non dovranno più adattare la ricerca ai limiti tecnologici, ma potranno lavorare in maniera più creativa, sviluppando una tecnologia che si adatta all’indagine scientifica. «Abbiamo davanti a noi possibilità creative quasi infini- te», commenta Marco Gigante, ingegnere responsabile della progettazione 3D del nuovissimo Laboratorio di meccatronica dove è appena attivata la stampante 3D di ultima generazione che sarà al centro dell’attività di questo gruppo di ingegneri e ricercatori. L’attività del laboratorio, diretto da Mathew Diamond, neuroscienziato e coordinatore dell’Area di neuroscienze della Sissa, unisce i campi della meccanica, elettronica e informatica e sarà di supporto a tutta l’attività di ricerca, un esempio quasi unico in Italia fra gli istituti di ricerca scientifica. «Molti esperimenti condotti dai nostri ricercatori necessitano di setup sperimentali progettati nel dettaglio e controllati elettronicamente con estrema precisione», spiega Fabrizio Manzino, responsabile dello sviluppo software del laboratorio. «Gli scienziati vengono da noi e iniziamo a lavorare insieme sul progetto dell’esperimento fino ad arrivare alla realizzazione fisica del macchinario, in tutte le sue parti». Un lavoro che ora sarà più creativo: «Questa nuova macchina stampa ad altissima risoluzione – 16 micron – e ci permette di creare oggetti molto complessi, anche con parti mobili all’interno, in un unico processo, impossibile con i metodi tradizionali», spiega Erik Zorzin, responsabile della parte elettronica. Prima dell’arrivo della stampante 3D, infatti, la realizzazione delle parti meccaniche era un processo molto complicato e costoso. «Dovevamo fare - aggiunge Manzino - calchi in maniera non del tutto precisa e procedere per approssimazioni. Spesso non si poteva costruire tutto l’oggetto insieme, ma bisognava modellare le parti e poi assemblarlo». Il laboratorio ha altri macchinari importanti, per esem- AL MICROSCOPIO pio una fresa a controllo numerico per stampare i circuiti elettronici fondamentali per il controllo dei dispositivi meccatronici, ma anche per incidere altri oggetti metallici. Fondamentale nel laboratorio è anche tutta la parte software, sia per la progettazione (Cam-Cad) sia per il controllo della prestazione dei setup sperimentali. «Il nuovo laboratorio, che verrà man mano arricchito con altre macchine, apre importanti possibilità per la ricerca alla Sissa. Prima dovevamo adattare gli esperimenti alla tecnologia disponibile, invece ora possiamo adattare la tecnologia agli esperimenti, quindi agli scopi della ricerca», conclude Zorzin. Morbo di Crohn, c’è una speranza Dal Burlo di Trieste uno studio che promette risultati per la malattia infiammatoria dell’intestino di Cristina Serra La famigerata talidomide, nota per le malformazioni fetali causate negli anni ’50-60, torna a far parlare di sé. Questa volta, in positivo. Da uno studio del team di Alessandro Ventura e Marzia Lazzerini della clinica pediatrica dell’Irccs Burlo Garofolo di Trieste, completato in collaborazione con altri sei centri pediatrici italiani (Università di Messina, Firenze e Pisa; Irccs Gaslini di Genova; Ospedale Buzzi di Milano; Spedali Civili di Brescia), emerge la speranza di poter usare questo farmaco per curare pazienti pediatrici con morbo di Crohn. Il morbo di Crohn è una malattia infiammatoria cronica dell’intestino: in un quarto dei casi compare in età pediatrica (la forma più aggressiva) e, se non curato adeguatamente, può dare ritardo di crescita, osteoporosi e anche disturbi psicologici. Lo studio di Ventura e colleghi – finanziato dall’Agenzia italiana del farmaco - è stato pubblicato dalla rivista Jama, STUDIO Così l’evoluzione del colera Un team di ricercatori della Mc Master University (Hamilton, Ontario, Canada) ha ricostruito l’evoluzione del colera, identificando il ceppo responsabile delle prime pandemie. Il gruppo ha lavorato su campioni intestinali preservati di circa duecento anni fa, riuscendo a rintracciare il batterio che si nascondeva dietro una pandemia di colera globale che uccise in passato milioni di persone. Un “familiare” dello stesso bug che continua a colpire le popolazioni vulnerabili nelle regioni più povere del mondo. Il Burlo ha collaborato in questo studio con altri sei centri pediatrici per combinazione la stessa su cui, nel lontano 1932, Burrill Crohn, Leon Ginzburg e Gordon Oppenheimer, allora in forze al Mount Sinai Hospital di New York, descrissero per la prima volta la malattia. «I risultati odierni sono figli di un primo ciclo di sperimentazioni iniziate negli anni ’90 e approfondite una prima volta nel 2004, per cercare di trovare una terapia per i cosiddetti non-responder, cioè refrattari alle terapie normalmente usate», spiega Ventura, direttore della clinica pediatrica, apprezzato per scelte terapeutiche apparentemente contro corrente che però, alla fine, si rivelano vincenti (è suo il protocollo di desensibilizzazione dei bambini iperallergici basato sull’esposizione a dosi progressive di allergene). «In questo studio eseguito in doppio cieco (in cui né lo sperimentatore né i pazienti sono a conoscenza dei trattamenti assegnati) abbiamo somministrato a 56 bambini con morbo di Crohn in forma grave dosi diverse di talidomide o di placebo, una volta al dì per otto settimane, per verificare le prime reazioni. In seguito, abbiamo proseguito il trattamento per 52 settimane, solo nei soggetti che rispondevano a questo farmaco». Già dopo le prime otto settimane di cura sono stati registrati miglioramenti significativi nei piccoli pazienti, senza quegli effetti collaterali che, invece, sono tipici di altri farmaci usati. «Sono risultati molto promettenti – commenta Marzia Lazzerini, principale coautrice dello studio – perché a oggi non esiste un farmaco “definitivo”. Se pensiamo inoltre che la sua incidenza è in aumento specie nei paesi industrializzati, nuove cure sono senz’altro benvenute». ©RIPRODUZIONE RISERVATA Il nano-attrito sulla punta del microscopio Un lavoro di scienziati di Trieste e Basilea permette di descrivere meglio le onde di densità di carica Un lavoro pubblicato sulla rivista “Nature Materials”, frutto della collaborazione fra un gruppo di fisici teorici della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste e un gruppo di fisici sperimentali dell’Università di Basilea, svela i segreti del nano-attrito che si crea quando un microscopio a forza atomica osserva la superficie di alcuni materiali. I microscopi a forza atomica riescono a riprodurre delle immagini spettacolari, alla scala dei singoli atomi. Ciò si ottiene grazie all’oscillazione di una punta sottilissima sopra la superficie osservata. La punta non tocca mai la superficie ma si avvicina, su distanze nella scala del miliardesimo di metro, al punto di “sentire” la forza dovuta alle interazioni con gli atomi del materiale che “osserva. Si tratta di forze piccolissime, dell’ordine dei nano-Newton (per intenderci, un miliardesimo del peso di una mela). Dalla misura di questa forza si ricostruisce l’immagine del materiale. Un gruppo di ricerca, che ha unito fisici sperimentali dell’Università di Basilea e fisici teorici della Sissa, ha osservato e spiegato un particolare effetto, fonte di “attrito” in questo tipo di osservazioni nanoscopiche. Quando la punta del microscopio oscilla sopra alcune superfici particolari, in questo caso si tratta di NbSe2 (diseleniuro di niobio), si registrano dei picchi di “dissipazione” (ossia perdita di energia) a certe particolari distanze dalla superficie, come se la punta venisse trattenuta da una forza d’attri- Galileo. Koch. Jenner. Pasteur. Marconi. Fleming... Precursori dell’odierna schiera di ricercatori che con impegno strenuo e generoso (e spesso oscuro) profondono ogni giorno scienza, intelletto e fatica imprimendo svolte decisive al vivere civile. Incoraggiare la ricerca significa optare in concreto per il progresso del benessere sociale. La Fondazione lo crede da sempre. to. Questo effetto, legato a una proprietà della superficie nota con il nome di onde di densità di carica (charge density waves, o Cdw), è stato osservato sperimentalmente dai fisici di Basilea e spiegato per la prima volta da Franco Pellegrini, Giuseppe Santoro ed Erio Tosatti, della Sissa, tramite un modello teorico, analizzato con l’impiego di simulazioni numeriche. «Il nostro modello descrive nel dettaglio l’interazione fra la punta del microscopio a forza atomica e le Cdw», spiega 27 Pellegrini. «Il modello riproduce – e prevede - i dati osservati sperimentalmente». «La conoscenza dell’attrito a livello nanoscopico oggi come oggi è importante. La miniaturizzazione progressiva dei dispositivi elettronici infatti rende fondamentale conoscere i meccanismi alla base delle perdite di energia», conclude il professor Pellegrini. «Grazie al nostro lavoro inoltre ora abbiamo una descrizione più accurata delle onde di densità di carica». (l.str.) QUESTA PAGINA È REALIZZATA IN COLLABORAZIONE CON Farmaco migliore per combattere l’epatite C di MAURO GIACCA Q uali sono stati i grandi temi della scienza del 2013? Tutte le grandi riviste scientifiche hanno pubblicato nel primo numero dell’anno le loro classifiche. Nella hit parade in ambito biologico e medico, tutti i temi trattati anche in questa rubrica, dalle promesse delle cellule staminali al dibattito sulla brevettabilità del genoma umano. Dal punto di vista della terapia, nel 2013 la Food and Drug Administration (Fda) degli Stati Uniti ha approvato 27 nuovi farmaci. Tra questi, uno in particolare, il sofosvubir, sviluppato per il trattamento dell’epatite C, appare destinato ad un successo che va al di là delle più rosee aspettative. L’infezione da virus dell’epatite C (Hcv) è ben nota: secondo l’Oms, interessa 3-4 milioni di persone ogni anno; al mondo, circa 150 milioni di individui sono infettati in maniera cronica (quasi 2 milioni in Italia) e quindi sono a rischio di sviluppare cirrosi o carcinoma epatico; più di 350 milioni (10mila in Italia) ne muoiono ogni anno. Nelle persone infettate che richiedono un trattamento, oggi questo consiste sostanzialmente nell’utilizzo dell’interferone associato alla ribavirina. Sfortunatamente, l’interferone è scarsamente disponibile nel sud del mondo, non sempre è ben tollerato, e qualcuna delle varianti del virus non risponde in maniera ottimale. Per molti pazienti, quindi, l’epatite C si trasforma in una malattia difficilmente controllabile che evolve cronicamente. La Fda ha ora approvato l’uso del sofosbuvir sulla base di una serie di spettacolari risultati ottenuti nelle prime sperimentazioni cliniche. Il farmaco, che inibisce uno degli enzimi indispensabili per la replicazione del virus, si è rivelato efficace sulle diverse varianti di Hcv, e ha portato alla guarigione definitiva fino al 90% dei pazienti trattati nelle 6 sperimentazioni diverse finora condotte. A fine novembre, l’European Medicines Agency (Ema) ha già raccomandato l’utilizzo del farmaco anche nei Paesi Europei. Sembra quindi iniziare una nuova era nella cura dell’epatite C, dove grazie a questo farmaco, da solo o in combinazione con gli altri già esistenti, la guarigione dall’infezione potrà essere ottenuta nella maggioranza dei pazienti. Non senza spese, tuttavia: una terapia di 12 settimane costa attualmente 84mila dollari (1000 dollari al giorno). Potrà il nostro sistema sanitario nazionale accollarsi un simile prezzo? E cosa succederà nei Paesi meno sviluppati? Intanto, il valore delle azioni della Gilead, l’azienda che ha sviluppato il farmaco e lo distribuisce con il nome commerciale di Sovaldi, è quasi quadruplicato dal 2012, forte ora di un mercato stimato di oltre 2 miliardi di dollari per il 2014.