CAMBIO DI STAGIONE

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Stefano Fassina
è responsabile Economia e lavoro
del Partito Democratico
Cambio di stagione
La crisi economica globale ha fatto emergere prepotentemente gli squilibri presenti nell’eurozona sin dal momento della sua costituzione, di
fronte ai quali la miopia politica, il corporativismo cieco degli interessi forti e la rigidità ideologica di larga parte delle tecnocrazie hanno
portato a estendere all’eurozona la via mercantilista della Germania.
In tal modo non solo si sono accentuati gli squilibri economici interni
all’area, ma si è aggravata la recessione e sono aumentati il debito
pubblico e la disoccupazione. È giunto ora il momento di invertire
la rotta.
In un’intervista a “Der Spiegel” pubblicata il 29 ottobre scorso, il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, è intervenuto sulla
proposta del governo tedesco, richiamata più volte dal ministro delle
Finanze Wolfgang Schaüble, per l’istituzione di un “super commissario
UE” per le politiche di bilancio. In particolare, Draghi ha sottolineato
che il programma condizionato di acquisti illimitati, ma non infiniti, di
titoli a breve del debito pubblico degli Stati in difficoltà non è risolutivo.
È un intervento emergenziale: «Per ricostruire fiducia nell’eurozona, i
paesi devono trasferire una parte della loro sovranità al livello europeo
(…) tanti governi non hanno ancora consapevolezza che hanno perso
da tempo sovranità nazionale (…) soltanto quando i paesi dell’eurozona
saranno disponibili a condividere sovranità a livello europeo recupereranno sovranità».
Nella proposta tedesca, il super commissario, ossia il commissario agli
Affari economici e monetari dotato di poteri di intervento correttivo
diretto sulle leggi di bilancio nazionali, è un super poliziotto, una forza
di ingerenza economica, per l’attuazione delle misure previste nel fiscal
compact, nella Costituzione di ciascun paese (“equilibrio di bilancio”),
nelle raccomandazioni della Commissione europea al singolo Stato e
imposte, attraverso le leggi di bilancio, alle economie nazionali. In so-
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stanza, un’ulteriore cessione di sovranità asimmetrica, ossia sottratta ai
paesi “peccatori” da parte di quelli “virtuosi” affinché facciano “i compiti a casa”.
Nei termini implicitamente definiti dai conservatori tedeschi, la proposta di super commissario è irricevibile. Tuttavia, l’affermazione di Draghi apre uno spiraglio decisivo per una possibile azione politica tesa a
cambiare la rotta della politica economica dell’unione monetaria. Anzi,
l’unico spiraglio possibile, da allargare, rendere simmetrico e condizionare alla legittimazione democratica (si veda il punto a della griglia di
policies elencate più avanti), per evitare l’iceberg che è di fronte all’euro e
all’Unione europea.1
È un’opzione, quella del super commissario, da perseguire con urgenza.
A tal fine, occorre discutere sia della risposta di chiusura ufficialmente
data da Parigi sia della freddezza mostrata dal presidente del Consiglio
Mario Monti. Hollande appare ancora convinto di poter conservare
un’effettiva e significativa sovranità nazionale. Monti, invece, sembra
confidare nell’efficacia della rotta finora seguita nell’eurozona, quella
degli aggiustamenti confinati ai soli Stati periferici. Purtroppo, non è così. Nell’eurozona non sia- Monti sembra confidare
mo sulla rotta giusta. Anzi, siamo sulla strada di nell’efficacia della
un aggravamento degli squilibri macroeconomici. rotta finora seguita
nell’eurozona, quella
Come correttamente riflettono gli spread sui titoli
degli aggiustamenti
decennali dei PIIGS, i rischi di rottura della moconfinati ai soli Stati
neta unica e di disgregazione europea sono sempre periferici. Purtroppo, non
più elevati.
è così. Nell’eurozona
Perché? Per scelte politiche inadeguate ad affronta- non siamo sulla
re il problema di fondo dell’euro: le divergenze di rotta giusta
competitività tra le sue aree. Sin dall’inizio, i padri fondatori dell’euro sapevano bene che l’eurozona non sarebbe stata
un’area monetaria ottimale. Purtroppo, però, l’egemonia conservatrice
prevalse e si affidò la soluzione dei problemi esclusivamente alla disciplina di bilancio e al mercato unico (più un pizzico di Fondi strutturali). Una strada, per molte ragioni, senza uscita. In primo luogo perché
non è vero che l’economia si autoregola una volta eliminato l’intervento pubblico, considerato irrimediabilmente nocivo. In secondo luogo
perché i paesi periferici, inebriati dalla finanza facile in arrivo dai paesi
core per coprire i deficit di bilancia commerciale, rinviavano, chi più
chi meno, le riforme e gli investimenti innovativi, pubblici e privati,
1 Un iceberg sempre più vicino, come indicano Bruno Amoroso e Jesper Jespersen in
un saggio intelligente e ben fondato analiticamente. Si veda B. Amoroso, J. Jespersen, L’Europa oltre l’euro. Le ragioni del disastro economico e la ricostruzione del progetto
comunitario, Castelvecchi, Roma 2012.
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e si limitavano, chi più chi meno, a flessibilizzare e ridurre il costo del
lavoro. Infine, perché i paesi core (la Germania ne è il modello), oltre a
importanti riforme strutturali e investimenti innovativi, percorrevano
la strada mercantilista della “svalutazione interna” (i salari medi tedeschi
in termini reali hanno perso 7 punti percentuali dal 1999 al 2008).
In sintesi, il collasso dell’equilibrio globale, nel 2008, ha messo a nudo
un’unione monetaria in fortissima, insostenibile tensione interna, sopravvissuta per un decennio scarso in quanto transfer union, alimentata
da canali privati (credito bancario). A differenza di quanto ripete la cronaca ufficiale, il debito più pericoloso è stato accumulato da famiglie e
imprese, non dai bilanci pubblici. La Grecia è un caso isolato. Anche
noi, nel nostro decennio perduto, abbiamo ridotto significativamente il
debito pubblico (dal 113% del 1999 al 103,1% del 2007) e aumentato
il debito privato (dal 70 al 101%).
Di fronte al riemergere delle contraddizioni interne, la miopia politica,
il corporativismo cieco degli interessi forti e la rigidità ideologica di
larga parte delle tecnocrazie hanno portato a estendere all’eurozona la
via mercantilista della Germania. Si tratta, però, date le debolezze istituzionali ed economiche dei paesi interessati, di un mercantilismo drammaticamente sbilanciato verso la svalutazione del lavoro; a differenza di
quello tedesco, non fondato su un equilibrio (patto) tra capitale e lavoro, ossia su una relazione virtuosa tra investimenti innovativi e moderazione salariale. Ma, al di là della brutalità insita nella sua attuazione, la
via mercantilistica alla correzione degli squilibri macroeconomici è una
strada impossibile da praticare. Per una ragione intuitiva: il mercantilismo, per definizione, non è generalizzabile. Affinché qualcuno abbia un
surplus commerciale qualcun altro, di almeno pari stazza, deve avere un
deficit. Per la Germania, nel primo decennio dell’euro, il meccanismo
ha funzionato in quanto le economie periferiche si indebitavano grazie
al finanziamento facile delle banche tedesche e francesi. La speranza
di esportazioni nette positive dall’eurozona verso il resto del mondo
si è invece rivelata illusoria, poiché l’area euro è (ancora) tra le aree
economiche più rilevati del pianeta, i BRICS non vogliono e, comunque, non possono rovesciare il loro sentiero di sviluppo in pochi mesi o
pochi anni e, infine gli Stati Uniti, per 20 anni consumatore globale di
ultima istanza, sono impegnati a ridurre il loro enorme debito estero.
In sintesi, la rotta mercantilista seguita nell’eurozona è insostenibile.
Genera inevitabilmente recessione, disoccupazione, aumento del debi-
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RISPONDERE ALL’INDIGNAZIONE.
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to pubblico, aggravamento degli squilibri macroeconomici tra le aree
della moneta unica.
I risultati conseguiti sono inequivocabili, come lo sono le previsioni ufficiali. La spirale regressiva è tanto più soffocante quanto più intensamente sono applicati i memorandum della troika.
In Grecia, dopo una sequenza di manovre di bilan- La rotta mercantilista
cio per circa 10 punti di PIL all’anno, dal 2009 al seguita nell’eurozona
2013 il debito pubblico, nonostante la ristruttura- è insostenibile:
zione decisa in primavera, sale dal 127 al 190%, in genera recessione,
disoccupazione, aumento
quanto l’economia perde quasi un quarto della sua
del debito pubblico,
dimensione reale e il tasso di disoccupazione supera
aggravamento degli
in media il 25%. In Irlanda, la prima della clas- squilibri macroeconomici
se nell’attuazione delle misure di condizionalità, il tra le aree della
debito pubblico, al 92% del PIL nel 2010 grazie moneta unica
alla presa in carico del colossale debito delle banche (nel 2007, il debito pubblico era intorno al 40%), arriverà al 118%
del PIL nel 2013, mentre la ricchezza prodotta si ridurrà di 10 punti
percentuali. Le medesime dinamiche involutive segnano il Portogallo.
La Spagna, senza un programma ufficiale, ma per “autonoma” imposizione, è drammaticamente avvitata in una spirale analoga. In generale,
nell’eurozona, dal 2009 al 2013 il debito pubblico si gonfia ovunque e
dal 2012 la recessione o la stagnazione marcano tutte le economie.
In tale scenario si dovrebbe collocare la disputa sulla cosiddetta “Agenda
Monti”. Anche noi siamo prigionieri della soffocante spirale mercantilista. Nonostante previsioni ottimistiche sul PIL (−2,4% nel 2012 e −0,2%
l’anno prossimo), il debito pubblico (al netto dei contributi al Fondo salva Stati) continua a salire: dal 119,9% del 2011 al 123,3% per il 2013. Il
saldo strutturale, indicatore sempre meno significativo ma richiamato dal
governo Monti come chiave per riconoscere l’utilità delle misure attuate,
scende dallo 0,6% previsto a settembre 2011 (prima del “Salva Italia”)
allo 0,2% del PIL indicato a settembre scorso (dopo le “cure”). L’ultima
previsione di “crescita” potenziale diventa ancora più misera in relazione
a quanto atteso l’anno prima e scende a valori negativi.
Dalla fine del 2007 alla fine dell’anno in corso la nostra economia reale
perde oltre il 7% della sua consistenza. Se l’economia italiana avesse continuato a espandersi lungo il pur modesto sentiero pre-crisi, avremmo
cumulato un incremento di poco inferiore al 10%. La perdita di prodotto rispetto al trend precedente la crisi è di entità eccezionale: oltre il
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15%, ovvero 250 miliardi di euro all’anno. La produzione industriale è
ancora 20 punti percentuali in meno rispetto al primo semestre 2008.
La disoccupazione si impenna, in particolare per i giovani e nel Mezzogiorno, dove supera la soglia del 50%.
Le condizioni del Mezzogiorno sono, oramai, da economia di guerra. Dal
2007 al 2012, la ricchezza prodotta al Sud si è ridotta del 10% (−6%
nel Centro-Nord). In Spagna, la media cumulata del periodo è −6%; la
Germania segna un’espansione inferiore al 2%, mentre nell’eurozona siamo intorno a zero. Nel triennio 2008-11, gli investimenti nell’industria
in senso stretto sono crollati del 24% al Sud e del 15% nel Centro-Nord.
Nell’edilizia, gli investimenti hanno perso il 40% al Sud e poco meno del
30% nel Centro-Nord. Nei servizi, si sono registrati −5% nel Sud e −13%
nel Centro-Nord. In agricoltura, −8% al Sud e −15% nel Centro-Nord.
L’occupazione in Italia perde 536.000 unità, dal primo semestre 2008 al
primo semestre del 2012, di cui 366.000 al Sud e 169.000 al CentroNord. La disaggregazione dei dati per fasce d’età rivela una realtà agghiacciante: nella classe di età 15-34 anni, l’occupazione crolla di 1,36 milioni
di unità, 433.000 al Sud e 927.000 nel Centro-Nord. Gli interventi sul
sistema pensionistico, in larga misura pre-Fornero, determinano un incremento di 855.000 occupati over 35, di cui 67.000 al Sud e 758.000 nel
Centro-Nord. Il tasso di occupazione giovanile (la percentuale di quanti
effettivamente lavorano su quanti potrebbero lavorare nella fascia di età
15-34 anni), in media nazionale, dal 51% del secondo semestre 2008
scende al 44% nel secondo semestre 2012, un dato peggiore di quello
della Spagna (45,6%). Al Sud, cala dal 37 al 31%, mentre nel CentroNord si riduce dal 60 al 52%. Soltanto 4 giovani donne laureate su 10
sono occupate nel Mezzogiorno, mentre nel Centro-Nord sono 7 su 10.
150.000 laureati e laureate hanno abbandonato il Sud nel primo decennio
del secolo. Ai disoccupati si aggiungono circa mezzo milione di lavoratori
“equivalenti” nelle varie forme di Cassa integrazione. La percentuale di
famiglie che riesce a risparmiare cala da oltre il 35% del 2001 al 15% di
oggi. La fiducia dei consumatori è al minimo storico. In tale contesto, i
consumi alimentari delle famiglie, tra il 2008 e il 2012, segnano un −12%
al Sud e −7,5% al Centro-Nord.
Insomma, non siamo di fronte a due parti di Italia che viaggiano in direzione opposta. Non c’è nessun indicatore economico e sociale che abbia
per Sud e Centro-Nord segni diversi. Il Mezzogiorno vive con maggiore
intensità le medesime dinamiche del resto dell’Italia. Non c’è una “que-
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stione meridionale” come non c’è una “questione settentrionale”. C’è
una “questione nazionale” da declinare in relazione alle specificità dei
territori.
Attenzione: il problema non sono però “soltanto” l’iniquità e la sofferenza sociale e le derive populiste e nazionaliste. Il problema è che i debiti
pubblici continuano ad aumentare ovunque. Finalmente, in una tardiva ma comunque apprezzabile operazione verità
voluta da Olivier Blanchard, il Fondo monetario Il Mezzogiorno vive
internazionale ha riconosciuto il carattere autodi- con maggiore intensità
le medesime dinamiche del
struttivo dell’austerity e della svalutazione interna.
resto dell’Italia
In sintesi, la linea di austerità imposta all’eurozona
è incompatibile con lo sviluppo. La rotta mercantilista è insostenibile.
Genera, inevitabilmente, recessione, disoccupazione, aumento del debito pubblico, aggravamento degli squilibri macroeconomici tra le aree
della moneta unica. Non ha senso continuare a ripetere, come ha fatto da ultimo il ministro Grilli, che rigore e sviluppo sono compatibili.
Oppure che, fatto il rigore si farà lo sviluppo. È deprimente sul piano
intellettuale, prima che su quello economico, continuare a presentare la
finanza pubblica e l’economia reale come fossero due universi paralleli
in un incubo di Dylan Dog. Finanza pubblica ed economia reale sono
interdipendenti. Il rigore non è una variabile binaria (0-1, che c’è o non
c’è). La quantità di rigore interno ed esterno, ossia delle altre economie
in relazione all’economia direttamente interessata, rileva al fine della sua
efficacia.
Le speranze di ripresa, collocata dal presidente del Consiglio nel primo
trimestre del 2013, sono purtroppo infondate. Quale driver di domanda
dovrebbe tirare l’inversione di tendenza? I consumi delle famiglie subiranno un’ulteriore flessione a causa della maggiore disoccupazione e
dell’esaurimento di parte delle indennità di disoccupazione, dei tagli al
welfare nazionale e locale, dell’aumento regressivo di prezzi, tasse e tariffe, delle minori disponibilità di risparmio. Gli investimenti delle imprese
saranno imbrigliati dalle tristi aspettative di domanda. Il bilancio pubblico accentuerà il suo impatto regressivo dato che l’insieme delle manovre di finanza pubblica approvate nel biennio alle nostre spalle comporta
per il 2013 tagli e maggiori imposte per ulteriori 25 miliardi. Rimane il
miraggio delle esportazioni, che è, appunto, un miraggio poiché, come
ricordato sopra, ciascuna economia europea ed extraeuropea prova a scaricare sul vicino (o sul lontano) la sua speranza di maggiore produzione.
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La linea di politica economica seguita dal governo Monti non funziona.
Non per colpa di Monti, che si è trovato, da un lato, vincolato dall’agenda conservatrice europea e, dall’altro, costretto a confermare gli impegni
ancor più restrittivi sottoscritti per deficit di credibilità politica dal governo Berlusconi-Bossi-Tremonti. Come indicammo già nella primavera
del 2011, l’obiettivo di pareggio di bilancio al 2014 era impossibile. Anticiparlo al 2013, sulla base dei diktat di Bruxelles e Francoforte, unico
caso nell’eurozona, diventava, come è sempre più evidente, un’avventura
autolesionistica.
Dopo la caduta di Berlusconi, la sintonia culturale del presidente Monti
con la linea mercantilista vigente nell’eurozona è stata un asset importante per recuperare il terreno politico perduto dall’Italia. Tuttavia, ecco
il punto decisivo, oggi siamo in un’altra fase. Per ridurre gli squilibri
macroeconomici e i debiti pubblici va data priorità a politiche asimmetriche demand side, sia di domanda privata sia di domanda pubblica
per investimenti innovativi. Affidarsi a politiche supply side di svalutazione del lavoro o tagli di tasse e welfare (in ossequio
alla falsificata teoria classista dell’expansionary fiscal Oggi nell’eurozona
va archiviata
adjustment di Giavazzi e Alesina) incancrenisce la
la via mercantilista e
recessione in depressione.
allargata la prospettiva
Oggi nell’eurozona va archiviata la via mercantilista dello sviluppo sostenibile
e allargata la prospettiva dello sviluppo sostenibile.
È la via invocata dalle forze politiche e sociali progressiste europee, dai
liberali consapevoli (i principali columnists del “Financial Times” negli
ultimi tre anni), oltre che da una valanga di economisti mainstream, ma
bollata, per strumentalità o inconsapevolezza nell’asfissiante conformismo italico, come “socialdemocratica”, “massimalista”, “di sinistra”, “indietro di 30 anni”. Oggi, per salvare l’euro e la civiltà del lavoro, ossia la
democrazia delle classi medie, le priorità sono:
a) una fiscal union, da costruire oltre la linea del “semestre europeo”
per cogliere le opportunità dello spiraglio aperto dalla proposta di super
commissario per l’eurozona e, così, attribuire al Consiglio e al Parlamento europeo, oltre che alla Commissione per la fase istruttoria, il potere di
autorizzare ciascun paese membro a presentare al Parlamento nazionale
la legge di bilancio e prevedere sanzioni automatiche. A tal fine, indicazione da parte delle famiglie politiche dell’Unione europea del candidato
alla Presidenza della Commissione da proporre alle elezioni del Parlamento di Strasburgo;
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b) nella fiscal union – qui sta la svolta decisiva per lo sviluppo sostenibile
e il lavoro – allentamento delle politiche di bilancio procicliche e golden
rule, come proposto dai Socialisti e Democratici al Parlamento europeo,
bloccati dai partiti conservatori. Inoltre, obiettivi di inflazione a due velocità (più elevata per i paesi core), come suggerito da Olivier Blanchard,
chief economist del FMI;
c) investimenti europei, definiti in una strategia green di politica industriale, finanziati mediante euro-project bond e imposte sulle transazioni
finanziare speculative;
d) banking union di ampio raggio ed effettività per spezzare la spirale
distruttiva tra crisi delle banche e crisi dei debiti sovrani;
e) coordinamento delle politiche di tassazione e offensiva contro i paradisi fiscali intra ed extra UE;
f) standard retributivo, previsto in linea di principio, ma dimenticato,
nel Six pack;
g) meccanismo condiviso di ristrutturazione dei debiti sovrani insostenibili (ad esempio la Grecia) come elaborato dall’Institute for New Economic Thinking e archiviazione dei progetti di “mutualizzazione dei debiti pubblici” in quanto l’avvio di politiche credibili ai fini dello sviluppo
e della correzione delle divergenti dinamiche di competitività elimina i
problemi di liquidità degli Stati sovrani solvibili (Italia e Spagna).
Oggi, deve rafforzarsi la consapevolezza che siamo su una strada di austerità autodistruttiva. Va ridimensionata la fiducia (ideologica) nella
capacità delle riforme strutturali, pur necessarie (istituzioni e partiti, legalità, giustizia, amministrazioni pubbliche, fisco, regolazione mercati),
di riavviare i motori dell’economia in un quadro di domanda aggregata
in contrazione. Va invertita la tendenza alla svalutazione del lavoro, confermata ancora una volta, dopo la tentata incursione contro l’articolo 18
dello Statuto dei lavoratori, nell’impianto suggerito dal governo Monti
alle parti sociali sotto forma di intervento per la produttività. Va attuata la correzione della distribuzione del reddito, sia sul terreno primario
che secondario, oltre che per equità, per rianimare i consumi interni
europei. La democrazia della sussidiarietà, ossia il coinvolgimento attivo delle autonomie territoriali ed economiche e sociali, va rigiocata
come opportunità per definire riforme condivise e, quindi, efficaci, non
esorcizzata come cedimento a istanze corporative. Va evitato il ricorso
al Fondo salva Stati, indipendentemente dal contenuto di ulteriori condizionalità, in quanto fattore di consolidamento di un’analisi infondata
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(paesi “virtuosi” e “peccatori”) e di applicazione di ricette dannose (ulteriore svalutazione interna per la rotta mercantilista).
In sintesi, oggi la linea di politica economica seguita, per necessità e
convinzione, dal governo Monti è, per cultura politica ed economica e
interessi materiali in essa prevalenti, meno adatta
ad affermare le priorità della fase attuale. Ma sol- La linea di politica
tanto la propaganda strumentale può leggere nella economica seguita dal
correzione di rotta proposta la volontà di smontare governo Monti è, per
gli interventi degli ultimi mesi. Aggiustamenti van- cultura politica ed
economica e interessi
no fatti (sugli esodati e sugli squilibrati assetti degli
materiali in essa
ammortizzatori sociali presenti nella legge Forneprevalenti, meno adatta
ro). Ma sono aspetti marginali. È fuori discussione, ad affermare le priorità
dato il curriculum della classe dirigente del PD, il della fase attuale
rispetto di tutti gli impegni sottoscritti dall’Italia.
La nostra specificità politica è la determinazione a costruire, insieme agli
altri governi progressisti europei, senza autolesionistici atti unilaterali, il
consenso per cambiare rotta. Insomma, la giustificazione politica della
leadership di Bersani per il governo dell’Italia è nella distintiva lettura
della fase, nella cultura economica, nell’idea di democrazia, nella potenzialità degli interessi materiali da noi rappresentati, in quanto interessi
svantaggiati (i disoccupati, il lavoro subordinato e precario, il lavoro imprenditoriale e professionale polverizzato), di definire un ordine egemonico, ossia in grado di riconoscere e mettere in equilibrio espansivo i
principali interessi materiali in campo.
Il governo Monti e l’impegno dei partiti a suo sostegno hanno avviato
la ricostruzione morale, politica ed economica dell’Italia. È un merito
storico indiscutibile di Mario Monti, condiviso con il presidente Napolitano. Noi siamo orgogliosi del contributo determinante dato all’operazione. Oggi, però, siamo in un’altra stagione.
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