Olanda, frena il mulino tedesco
Martedì 24 Aprile 2012 23:00
di Michele Paris
Due giorni fa, il gabinetto olandese di centro-destra è diventato l’ennesima vittima della crisi del
debito in Europa, quando il primo ministro, Mark Rutte, ha rimesso il proprio incarico nelle mani
della regina Beatrice. La crisi di governo nei Paesi Bassi è stata provocata dal mancato accordo
raggiunto dall’esecutivo con il Partito per la Libertà (PVV) di estrema destra su un pacchetto di
austerity richiesto dall’Unione Europea e dal Fondo Monetario Internazionale.
Il premier Rutte è alla guida di un governo di minoranza, sostenuto dal suo Partito Popolare per
la Libertà e la Democrazia (VVD) e dai Cristiano Democratici (CDA), che finora ha dovuto fare
affidamento sull’appoggio esterno del PVV di Geert Wilders. Rutte aveva messo assieme la sua
coalizione nell’ottobre del 2010 dopo il crollo di quella precedente, formata dal CDA e dal Partito
Laburista (PVDA), in seguito alla defezione di quest’ultimo, contrario alla decisione di
prolungare la permanenza del contingente militare olandese in Afghanistan.
Come già anticipato, la rottura è avvenuta dopo che Wilders ha annunciato che il suo partito
non avrebbe votato i nuovi tagli alla spesa pubblica voluti dal governo e che ammontano a 16
miliardi di euro. Il timore del leader populista olandese è quello di veder crollare i propri
consensi appoggiando una serie di misure estremamente impopolari. Da qui la consueta
accesa retorica di Wilders, il quale ha affermato che “non ha alcun senso infliggere sofferenze
per compiacere i dittatori di Bruxelles”.
Secondo quanto concordato con l’Unione Europea, l’Olanda avrebbe dovuto sottoporre entro il
30 aprile il proprio piano di bilancio per riportate il deficit al di sotto del 3% del PIL entro la fine
del 2013 dopo che per quest’anno dovrebbe salire al 4,7%.
La caduta di fatto del governo olandese e la mancata approvazione delle misure di austerity
sono altamente significative. L’Olanda, oltre a essere uno dei pochi paesi europei a conservare
il rating della tripla A per il proprio debito pubblico, è infatti schierata a fianco della Germania nel
chiedere a tutti i governi dell’Unione il rispetto assoluto delle politiche di rigore. Il contagio
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dell’instabilità politica a questo paese appare dunque come il sintomo più evidente delle gravi
tensioni sociali provocate dai diktat dei mercati finanziari e dei vertici europei ai governi sovrani
per operare sempre più pesanti tagli alla spesa pubblica.
Le dimissioni di Rutte giungono inoltre in un momento nel quale sembrano tornare ad
addensarsi nubi minacciose sul futuro dell’Unione Europea, con i mercati già in agitazione per
la vittoria al primo turno delle presidenziali francesi di François Hollande e per la diffusione dei
dati preoccupanti sull’andamento dell’economia tedesca. Questo inizio di settimana è stato così
segnato da una nuova impennata dei tassi di interesse sui bond di molti paesi in affanno, tra cui
l’Italia e la Spagna, e da perdite sostanziali per le principali borse europee e a Wall Street.
Se l’opposizione olandese, pur avendo nei propri programmi la riduzione del debito, non ha
voluto prendersi il rischio di appoggiare il piano di austerity del governo, qualunque esecutivo
prenderà il posto di quello uscente si ritroverà a fronteggiare le pressioni degli ambienti
finanziari internazionali per rispettare gli impegni presi e procedere in qualche modo con
l’approvazione delle misure di rigore.
A confermalo è stato lunedì il ministro delle Finanze olandese, Jan Kees de Jager (CDA), di
ritorno del vertice dell’FMI a Washington. Secondo quest’ultimo, il governo Rutte potrebbe
rimanere al suo posto per alcuni mesi, così da cercare un nuovo accordo sui tagli e ottenerne
l’approvazione in Parlamento. Ribadendo le uniche preoccupazioni della classe dirigente
europea in questa fase storica, nonché la natura profondamente anti-democratica dei governi in
carica, Kees de Jager ha affermato che “la cosa più importante, per lanciare un messaggio ai
mercati finanziari, è che l’Olanda, in qualsiasi circostanza, faccia tutto il possibile per mantenere
la disciplina di bilancio”.
Al momento non è ancora chiara la data delle elezioni anticipate. Alcuni partiti preferiscono
rimandare il voto a dopo l’estate, così come l’Unione Europea, che vorrebbe l’approvazione
immediata del pacchetto di austerity per evitare di lasciare la questione in mano ad una nuova
coalizione di governo che, alla luce della frammentazione politica e dell’impopolarità di quasi
tutti i partiti olandesi, potrebbe essere tutt’altro che stabile.
Secondo i sondaggi, nessun partito sarebbe in grado di ottenere una chiara maggioranza e, in
particolare, l’ostilità diffusa verso le politiche di rigore finora adottate determinerebbe un calo
evidente dei consensi per la coalizione di governo e, in misura minore, per lo stesso PVV di
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Geert Wilders. Meglio dovrebbero andare invece le opposizioni, in particolare il Partito
Socialista (SP).
La crisi di governo in Olanda, intanto, ha visto il moltiplicarsi sui media occidentali del
messaggio già uscito recentemente dal summit FMI e cioè che le misure di austerity da sole
non sono in grado di risolvere la crisi del debito nell’eurozona e sono perciò necessarie
iniziative per rilanciare la crescita economica.
La nuova realtà appare tanto più preoccupante se si considera che solo poco più di un mese è
passato dalla sottoscrizione da parte di 25 dei 27 paesi UE di un patto fiscale improntato al
rigore che sembrava aver dissipato le principali inquietudini per il futuro dell’unione monetaria.
Parallelamente, qualcosa come mille miliardi di euro in prestiti a bassissimo tasso di interesse,
erogati tra dicembre e marzo dalla BCE al sistema bancario europeo, avevano ancor più fatto
sperare che il peggio era ormai dietro le spalle. Ben presto tuttavia, i dati negativi provenienti da
molte parti d’Europa hanno reso evidente che, con ogni probabilità, il fondo deve ancora essere
toccato.
Mentre nelle stanze del potere e sui giornali si discute della necessità di misure che favoriscano
la crescita, raramente si parla di iniziative concrete che, inevitabilmente, comporterebbero un
maggiore livello di spesa, determinando un nuovo aumento dell’indebitamento di molti paesi e
nuove pressioni dei mercati. Tra le idee che sembrano trovare maggiore consenso vi sono poi
un eventuale ruolo più attivo della BCE nello stimolare la crescita e l’emissione di Eurobond,
misure entrambe osteggiate dal governo di Berlino.
A ben vedere, in ogni caso, questa tardiva presa di coscienza del fatto che le politiche di rigore
deprimono l’economia appare ben poco credibile. Come venne ripetuto fino alla nausea dopo lo
scoppio della crisi globale nell’autunno del 2008, infatti, praticamente tutti i politici e gli
economisti hanno assimilato la lezione della Grande Depressione degli anni Trenta del secolo
scorso negli Stati Uniti, aggravata proprio quando il governo americano interruppe
precocemente le politiche di deficit spending provocando un nuovo rallentamento
dell’economia.
Anche per questo motivo, appare dunque chiaro che quella in corso si tratta di una strategia
ben orchestrata da parte delle élite politiche e finanziarie internazionali, secondo la quale sono
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stati dapprima implementati tagli selvaggi alla spesa pubblica per ridimensionarla drasticamente
nel medio e lungo periodo, senza scrupolo alcuno per le conseguenze sull’economia e sulle
condizioni di vita della maggior parte della popolazione, mentre in questa nuova fase l’obiettivo
principale è la deregolamentazione del mercato del lavoro, così da creare una vasta
manodopera a basso costo e senza diritti. Il tutto, com’è ovvio, propagandato come manovra
indispensabile per stimolare la crescita economica.
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