cap 3 - par 3.1

annuncio pubblicitario
3.
LA FINANZA PUBBLICA
3.1.
I conti pubblici nell’area dell’euro
Nel corso del 2003 le prospettive delle finanze pubbliche dell’area
dell’euro si sono andate progressivamente deteriorando. Francia e
Germania, già sotto procedura per l’eccesso di deficit del 2002,
potrebbero chiudere l’anno con un livello di indebitamento che sfiora il 4%
del Pil e rimanere sopra il 3% anche nel 2004.
A metà luglio il governo francese ha ribadito che la sua principale
priorità di politica economica è il rilancio della crescita e ha sostenuto
l’opportunità di un congelamento provvisorio del Patto di stabilità e
crescita. Nessuno degli altri stati membri ha apertamente appoggiato
questa proposta, che comunque non è stata presentata nelle apposite
sedi istituzionali europee. Il governo tedesco, sempre incline a seguire le
raccomandazioni del Consiglio Ecofin, ha però sottolineato che, in un
momento di netto rallentamento economico, l'andamento a breve dei conti
pubblici diventa di secondaria importanza, purchè si attuino riforme
strutturali che abbiano effetti di consolidamento sui conti pubblici a mediolungo termine.
Francia
Nel primo semestre 2003 il disavanzo francese è stato pari a circa 36
miliardi di euro, circa 10 miliardi in più rispetto allo stesso periodo
dell'anno precedente. Il disavanzo per tre quarti dipende da minori entrate
fiscali: in particolare le entrate tributarie sono diminuite del 6% rispetto allo
stesso periodo del 2002. Le spese sono cresciute sia pure di poco
(+0,5%), grazie alle riduzioni operate in alcuni comparti del bilancio (in
particolare spese generali di funzionamento dello Stato e spese per
interventi economici). Secondo le ultime previsioni ufficiali della
Commissione Europea (che risalgono ormai all’aprile scorso), il disavanzo
2003 dovrebbe attestarsi attorno al 3,7-3,8% del Pil (dopo il 3,1%
raggiunto nel 2002), mentre il debito dovrebbe salire ancora e
oltrepassare il limite di 60% del Pil previsto dal Trattato di Maastricht.
Tuttavia la Commissione rivedrà in autunno questi dati: già adesso il FMI
prevede che la Francia chiuda al 4% del Pil di indebitamento quest’anno e
al 3,5% l’anno prossimo.
Nell’ambito della procedura per il deficit eccessivo del 2002, entro il
prossimo 3 ottobre la Francia dovrebbe presentare all’Ecofin le misure che
intende adottare per riportare il suo deficit sotto la soglia del 3% al piu'
tardi nel 2004. L’obiettivo della politica economica francese è però quello
di rilanciare i consumi interni e il governo è comunque deciso a varare per
il 2004 un’ulteriore riduzione delle imposte dirette, anche se questo
dovesse comportare un saldo di bilancio ancora al di sopra del 3%. Dopo
113
aver già tagliato nel corso degli ultimi due anni le imposte del 6,5% (0,5
punti percentuali di Pil nel 2002) il governo vuole ridurre le imposte di un
ulteriore 3% (invece dell’1% precedentemente ipotizzato). I tagli non sono
stati ancora definiti esattamente: quello di cui si discute è ridurre l’imposta
personale sui redditi e introdurre anche qualche meccanismo per favorire i
giovani al primo impiego. Dal lato delle spese viene prospettato un
congelamento, salvo per i ministeri ritenuti prioritari (Giustizia, Interni, ed
Educazione). Si è inoltre tornati a considerare la possibilità di privatizzare
e di vendere asset non strategici, come ad esempio parte dei beni
immobiliari di proprietà pubblica.
Germania
114
Il Governo tedesco, per stimolare un'economia ormai giunta al terzo
anno di stagnazione, ha presentato al Parlamento un programma di
rilancio economico e un pacchetto di sgravi fiscali, integrati da riforme del
Welfare (pensioni e sanità) e del mercato del lavoro, e ne ha quantificato,
piuttosto ottimisticamente, gli effetti in un punto in più di crescita
dell’economia nel 2004. Dalle analisi empiriche disponibili, anche se le
stime non sono univoche, si ricava che un taglio delle imposte per un
ammontare pari a circa un punto di Pil, se interamente finanziato con
debito, può migliorare la crescita tra un minimo di 0,2 fino ad un massimo
di 0,5 punti percentuali. Senza contare gli eventuali effetti negativi generati
dall’aumento del debito e quindi delle prospettive di lungo periodo.
Il pacchetto prevede l’anticipazione al 2004 di tagli fiscali per 15,6
miliardi di euro, già precedentemente programmati per il 2005, e introduce
una redistribuzione tra le entrate federali e quelle locali. A livello federale,
secondo il Governo, l'indebitamento netto dovrebbe salire da 23,8 a 29
miliardi. Il costo degli sgravi in termini di mancate entrate per il bilancio
federale del 2004 sarà di 7 miliardi, di cui 4,5 coperti con nuovo debito. I
rimanenti 2 miliardi dovrebbero essere finanziati da privatizzazioni, che
riguarderebbero ex monopoli pubblici già parzialmente ceduti a Deutsche
Telekom, Deutsche Post e alla banca pubblica Kreditanstalt fur
Wiederaufbau (KfW). Circa 600 milioni di euro saranno raccolti attraverso
l'abolizione di sussidi all'agricoltura e all'edilizia e la lotta all'evasione
fiscale sull'IVA e serviranno a pagare gli interessi sul maggior
indebitamento.
L’altra metà del maggior disavanzo viene posta a carico dei Laender e
dei Comuni. La proposta ha destato varie perplessità a causa delle già
precarie condizioni finanziarie di molte città tedesche. Nel 2002 il deficit
complessivo a livello locale è stato stimato pari a circa di 6,7 miliardi di
euro e potrebbe salire a 9,9 miliardi nel 2003. Il Governo ha però proposto
di finanziare una parte del maggior indebitamento dei Comuni estendendo
l’applicazione dell’imposta comunale sui redditi d’impresa anche ai liberi
professionisti che finora non erano soggetti a questa imposta,
aumentando da 2,2 a 3,6% la quota di gettito fiscale riservata ai Comuni e
infine spostando a carico dello Stato federale il pagamento dei cosiddetti
Arbeitlosenhilfe (aiuti per la disoccupazione). Secondo il ministro delle
Finanze, queste operazioni nel loro complesso dovrebbero consentire alle
città tedesche di aumentare di 4,5 miliardi il gettito fiscale nel 2004 e di 5
miliardi dal 2005.
Contemporaneamente ai tagli fiscali il Governo tedesco ha proposto
anche un piano per ridurre il tasso di disoccupazione gestendo in modo
più efficiente i sussidi di disoccupazione e gli aiuti sociali, riducendo i
disincentivi dei disoccupati a cercare ed accettare un nuovo lavoro. Dal
luglio 2004 il sussidio di disoccupazione, attualmente pari al 53%
dell'ultimo stipendio, dovrebbe essere ancorato a parametri che tengano
conto del numero dei figli, del costo dell'affitto e di altre variabili relative al
costo della vita. Si vogliono inoltre introdurre vincoli più stringenti per il
lavoratore disoccupato il quale ad esempio, se abile al lavoro, non potrà
più rifiutare offerte che implichino mansioni meno qualificate rispetto
all’ultimo ruolo svolto.
Il Governo tedesco sostiene che, se il piano dovesse essere approvato
rapidamente e senza stravolgimenti, il deficit di bilancio della Germania
non dovrebbe superare il 3%. Il progetto verrà però discusso in autunno in
Parlamento e potrebbe essere approvato con modifiche anche sostanziali,
poiché l'opposizione dispone al Bundesrat di una maggioranza di blocco.
Come abbiamo visto le linee delle manovre di bilancio delineate sia
dalla Francia che dalla Germania puntano a sostenere la crescita con
riduzioni del carico fiscale ma anche con tagli delle spese. Mentre le prime
sono già abbastanza chiare i secondi sono ancora piuttosto indefiniti. Si
dovrebbe comunque trattare in entrambi i casi di manovre espansive ma
che nel breve periodo potrebbero peggiorare i saldi di bilancio e quindi lo
stock del debito.
Per dare stimoli all’economia e contemporaneamente continuare il
percorso di risanamento delle finanze pubbliche, l’evidenza empirica
mostra che occorrerebbe puntare su manovre incentrate su riduzioni delle
spese e in particolare di quelle correnti, che comportino una diminuzione
permanente del debito. (cfr. il riquadro: La qualità delle manovre di
bilancio e la crescita economica). La Commissione, comunque, sottolinea
sempre che i tagli delle entrate fiscali, auspicabili visti gli elevati carichi
fiscali caratterizzanti i paesi europei, dovrebbero avvenire una volta
raggiunto l’equilibrio finanziario o perlomeno essere finanziati con tagli
delle spese permanenti e tendenzialmente alleggerire i redditi da lavoro.
Un altro stimolo all’economia europea può venire dall’attuazione del
Piano Europeo per la Crescita (cfr. il riquadro: Regola aurea e Azione
europea per la crescita) presentato dal governo italiano alla Commissione
Europea. Tale Piano prevede il rilancio in primis degli investimenti in
infrastrutture ma in seguito anche degli investimenti immateriali e più in
generale di quelli in ricerca e sviluppo e in capitale umano.
115
Regola aurea e Azione europea per la crescita
Il problema: la bassa crescita potenziale
Da più parti si sostiene che la diminuzione degli investimenti pubblici negli
ultimi trent’anni abbia contribuito alla riduzione del potenziale di crescita dei
paesi europei. Tra le proposte formulate recentemente per rilanciare le
economie dell’Unione europea (UE) spiccano quelle presentate dal Regno Unito
(regola aurea o golden rule) e dall’Italia (Azione europea per la crescita). La
prima, peraltro già bocciata dall’Europarlamento (217 voti contro 233), prevede
il cambiamento delle regole del Patto di Stabilità e Crescita con l’esclusione
delle spese per investimento (al netto del deprezzamento) dal calcolo
dell’indebitamento da considerare ai fini del Patto di Stabilità. La proposta
italiana punta a rilanciare gli investimenti europei in infrastrutture e in ricerca e
sviluppo attraverso un potenziamento delle funzioni della BEI (Banca europea
degli investimenti) che agevoli un maggiore coinvolgimento dei capitali privati
nel finanziamento degli investimenti.
L’evidenza empirica
La diminuzione degli investimenti pubblici
A partire dagli anni Settanta nei paesi Ue la quota di investimenti pubblici in
percentuale del Pil è diminuita e si è mantenuta relativamente più bassa che in
altre aree industrializzate (fig. 1) 1. Nel periodo considerato in media la spesa
pubblica per investimenti (lordi) dei paesi OCSE è stata al di sotto del 5% del
Pil. Mentre la diminuzione della quota di investimenti sul Pil nella UE è
continuata per tutti gli anni Ottanta e Novanta, per gli Stati Uniti la tendenza si è
invertita dalla metà degli anni Ottanta.
Fig. 1 - Dinamiche degli investimenti pubblici a confronto
(in % del Pil)
6.1
5.6
5.1
4.6
Unione europea
4.1
Stati Uniti
3.6
Giappone
3.1
2.6
2002
2000
1998
1996
1994
1992
1990
1988
1986
1984
1982
1980
1978
1976
1974
1972
1970
2.1
Fonte: Commissione europea.
Tra i paesi dell’UE l’evoluzione degli investimenti pubblici è stata molto
difforme (tab. 1). Solo Austria, Germania e Regno Unito hanno mostrato un
andamento simile alla media dell’area UE. Grecia, Irlanda, Spagna,
Lussemburgo, Portogallo e Finlandia mostrano invece una dinamica molto
diversa dalla media UE tanto che in questi paesi la quota di investimenti pubblici
sul Pil nel 2002 risulta uguale o superiore a quella del 1970.
1
116
Cfr. Commissione europea (2003), Public finances in Emu – 2003, European Economy, 3.
In Italia la spesa pubblica per investimenti si è mantenuta intorno o al di
sopra del 3% fino al 1992, ma ha registrato una repentina riduzione negli anni
successivi (fino all’1,8% del 2002 – tab. 1 e fig. 2). Rimangono tutt’ora marcate
le differenze all’interno dell’area: Belgio, Danimarca, Germania, Austria, Regno
Unito e Italia hanno le quote minori, mentre le più alte sono quelle di
Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Olanda e Portogallo.
)
Fonte: Commissione europea.
Fig. 2 - Investimenti pubblici in Germania, in Italia e nell'Unione
europea
(in % del Pil)
5.0
4.5
4.0
3.5
3.0
2.5
Unione europea
Italia
Germania
2.0
2002
2000
1998
1996
1994
1992
1990
1988
1986
1984
1982
1980
1978
1976
1974
1972
1970
1.5
Fonte: Commissione europea.
117
Come spiegare l’andamento degli investimenti pubblici
Secondo la teoria economica i diversi andamenti degli investimenti pubblici si
spiegano con i divari nei livelli di reddito pro-capite e di sviluppo economico: i
paesi con redditi pro-capite relativamente più elevati si caratterizzano per tassi
d’investimento più bassi.
Nell’ultimo decennio nell’area dell’euro la diminuzione degli investimenti
pubblici è stata anche determinata dalla presenza di vincoli di bilancio
nell’Unione Europea. Dalla fig. 2 si evince che soprattutto nella seconda fase
dell’Uem (1994-98) la disciplina di bilancio impostata dal Trattato di Maastricht
ha avuto un sensibile effetto. La tab. 2 mostra in modo evidente che in tutti i
paesi dell’Ue, eccezion fatta per la Grecia e per il Portogallo, in tutti i periodi di
consolidamento fiscale la diminuzione degli investimenti fissi lordi è stata
superiore alla riduzione della spesa primaria2. L’effetto della seconda e della
terza fase dell’Uem sugli investimenti pubblici è stato però molto differenziato da
paese a paese3: in generale è stato positivo per i paesi con bassi livelli di deficit
e debito pubblico e negativo per quelli con elevati deficit di bilancio.
a
I periodi di consolidamento variano da paese a paese (per gli anni Novanta cfr.
Commissione europea, Public finances in Emu – 2000, European Economy, 3, p. 20; per
i periodi precedenti cfr. Fmi, 1996, World economic outlook, Washington, DC, p. 57). Per
b
l’Italia 1976-77, 1982-83, 1991-97. Ue-15 escluso il Lussemburgo.
Fonte: Commissione europea (2003), p. 88.
118
2
Cfr. il riquadro: La qualità delle manovre di bilancio e la crescita economica.
3
Commissione europea (2003), p.89.
Investimenti pubblici e crescita
L’evidenza empirica mostra che la relazione fra investimenti pubblici e
produttività, anche se positiva, è piuttosto debole e inferiore a quella esistente
tra quest’ultima e il capitale umano; aumenta se si considerano solo gli
investimenti in infrastrutture di trasporto4. Per capire il ruolo giocato dagli
investimenti pubblici sul potenziale di crescita è necessario quantificare anche il
loro contributo indiretto tramite lo stimolo agli investimenti privati. La teoria
economica non fornisce indicazioni univoche: se da un lato gli investimenti
pubblici tolgono risorse potenzialmente utilizzabili dai privati, dall’altro la qualità
delle infrastrutture pubbliche influenza sicuramente la produttività degli
investimenti privati. Dalla citata analisi della Commissione emerge una relazione
positiva tra il tasso di crescita degli investimenti privati e quello degli
investimenti pubblici: a più alte riduzioni degli investimenti pubblici
corrispondono più elevate riduzioni degli investimenti privati, anche se il legame
appare debole. Non è però possibile stabilire il nesso di causalità: per cui in
sostanza non esistono evidenze empiriche che dimostrino che gli investimenti
pubblici abbiano un effetto rilevante e sistematico sugli investimenti privati.
Il punto più rilevante da fare su questo tema è che l’apporto pubblico di fatto
si concretizza non solo attraverso quelli che vengono classificati dalla contabilità
nazionale come “investimenti pubblici fissi lordi” ma anche tramite una parte dei
cosiddetti “contributi agli investimenti”.
Soluzioni prospettate per rilanciare la crescita economica
La regola aurea
Una delle giustificazioni che si danno alla presenza di vincoli di bilancio, quali
quelli del Patto di Stabilità e crescita, è che l’indebitamento netto comporta una
redistribuzione del carico fiscale sulle generazioni future che saranno chiamate
a ripagare il debito accumulato dalle passate generazioni. Viene così giustificato
l’utilizzo dell’indebitamento solo per finanziare gli investimenti pubblici: in questo
caso infatti, oltre al carico fiscale, viene trasferito alle generazioni future anche
una parte dei benefici derivanti dall’aumento del capitale pubblico. In altre
parole, visto che l’utilità degli investimenti pubblici non si esaurisce nell’anno in
cui vengono realizzati, si argomenta che anche il loro costo dovrebbe essere
“spalmato” nel tempo. Secondo i sostenitori della golden rule, l’introduzione di
questa regola eliminerebbe il disincentivo (che si presenta soprattutto nei
periodi di consolidamento fiscale) ad investire in progetti che generano flussi di
cassa differiti nel tempo.
Regno Unito e Germania costituiscono due esempi di paesi che hanno
adottato la golden rule. Il Regno Unito dal 1997, con l’istituzione del Codice per
la Stabilità fiscale, ha introdotto la regola aurea applicata agli investimenti netti
affiancata però da un vincolo molto stringente sul debito pubblico (che non può
superare il 40% del Pil). La Germania in base all’art.115 della Costituzione5 può
finanziare con deficit unicamente spese per investimenti. Teoricamente questa
“doppia regola” avrebbe potuto spingere il Governo tedesco a effettuare nel
corso degli anni Novanta il consolidamento tramite una diminuzione delle spese
correnti. In realtà la Germania è tra i paesi della Ue in cui si è verificata la
maggior diminuzione degli investimenti pubblici (tab. 1 e fig. 2).
4
Cfr. Commissione europea (2003) p. 82 per una rassegna dell’evidenza empirica.
5
Art. 115: L'assunzione di crediti, così come quella di fideiussioni, o malleverie, o simili
garanzie, che possono comportare spese per i successivi anni finanziari, necessita di
una autorizzazione certa, o accertabile in relazione all'importo, da concedersi con legge
federale. Le entrate provenienti da crediti non possono superare la somma delle spese
previste nel bilancio per gli investimenti. Eccezioni sono ammissibili solo per eliminare
distorsioni dell'equilibrio economico generale. I dettagli sono disciplinati da una legge
federale.
119
La proposta italiana: Azione europea per la crescita
Dove investire. Tra le priorità indicate dal Governo italiano nel semestre di
presidenza della Ue vi è la proposta di rilanciare gli investimenti infrastrutturali a
livello europeo (in particolare di quelli transnazionali) nonché gli investimenti
nelle cosiddette infrastrutture immateriali (capitale umano, ricerca, tecnologia).
L’Azione europea per la crescita (Action Plan) 6 si propone di aumentare gli
investimenti pubblici in infrastrutture nell’ordine dello 0,5-1 per cento del Pil
europeo all’anno. Al momento gli Stati membri investono meno dell’1% del loro
Pil nella realizzazione di infrastrutture di trasporto (la media degli anni Ottanta
era pari all’1,5%). Di queste risorse solo una piccola parte viene investita nella
rete transeuropea (circa lo 0,3% del Pil); la parte restante viene spesa per
progetti di trasporto nazionali e regionali. Il punto di partenza dell’Action Plan è il
Piano Delors del 1993. Le aree di intervento sono quelle definite nella relazione
High level group on the Trans-European Transport Network del 27 giugno 2003
dal Gruppo Van Miert che, su incarico della Commissione europea, ha
identificato i progetti prioritari della rete transeuropea di trasporto (TENs) fino al
20207.
Le fonti di finanziamento. Il Piano italiano punta a potenziare le funzioni della
BEI8 per sviluppare uno strumento finanziario europeo in grado di raccogliere
(direttamente o indirettamente) 48-96 miliardi di euro l’anno per finanziare gli
investimenti infrastrutturali9.
6
Cfr. Presidenza Italiana del Consiglio dell’Unione Europea, 2003, Le priorità della
Presidenza italiana del Consiglio Ecofin e A European Action for Growth.
7
Il gruppo Van Miert ha individuato, oltre ai cinque progetti detti “di Essen” da terminare
entro il 2010, 22 nuovi progetti prioritari da completare entro il 2020, comprese alcune
autostrade del mare. Il gruppo ha anche proposto la realizzazione di progetti per
migliorare la gestione della rete. Il costo dei progetti prioritari selezionati dal gruppo sono
stimati a circa 235 miliardi di euro fino al 2020. I progetti prioritari rappresentano solo una
parte degli investimenti necessari per costruire una rete transeuropea di trasporti: il costo
totale della rete (progetti prioritari e non) pare superi i 600 miliardi di euro. Per un
approfondimento cfr. Commissione europea, 2003, High level group on the transEuropean transport network.
8
La BEI, creata nel 1958 con il Trattato di Roma, è l'istituzione di finanziamento a lungo
termine della Ue: concede crediti ai suoi membri oppure a imprese pubbliche o private
per progetti di investimento da attuare nei territori europei degli Stati membri (salvo
deroghe accordate all’unanimità dal Consiglio dei governatori). Essa sostiene i progetti
d'investimento, soprattutto quelli nelle regioni europee più in ritardo di sviluppo, ed è uno
dei principali finanziatori delle TENs. L’Istituto concede prestiti a tasso agevolato ma non
accorda mai aiuti a fondo perduto. La Banca può anche garantire prestiti contratti da
imprese pubbliche o private per l’attuazione delle operazioni previste dall’art. 267 del
Trattato istitutivo della Comunità europea. Gli Stati membri della Ue-15 sono gli azionisti
della BEI e sono responsabili soltanto fino a concorrenza dell’ammontare della loro quota
di capitale sottoscritto o versato. La BEI raccoglie le risorse essenzialmente attraverso
emissione di prestiti obbligazionari.
9
Le cifre sono state calcolate moltiplicando il Pil a prezzi correnti dell’Ue-25 nel 2002 per
il range di investimento (0,5-1%) indicato dal Governo italiano.
120
In sostanza si vuole aumentare la capacità di raccogliere risorse finanziarie
dal mercato dei capitali privati10, senza intaccare (se non parzialmente) le
finanze pubbliche nazionali o comunitarie. Gli strumenti finanziari proposti sono
svariati: dall’aumento dei prestiti alla concessione di garanzie speciali da parte
della BEI.
La proposta italiana nasce dalla considerazione che, alla luce dei vincoli di
bilancio che pesano sugli Stati membri e in vista dell’allargamento, il fabbisogno
di nuove infrastrutture di trasporto individuato dal gruppo Van Miert non possa
essere finanziato esclusivamente con fondi pubblici. D’altro canto, vi sono
anche aspetti problematici di un finanziamento interamente privato degli
investimenti in infrastrutture: i costi elevati, i rischi nella fase di costruzione e in
quella di esercizio, la durata d’ammortamento dell’infrastruttura, la redditività
aleatoria e a lungo termine.
L’iniziativa italiana ha avuto il consenso del Consiglio europeo e sarà ora
sottoposta all’analisi della Commissione europea e della BEI. Queste due
istituzioni dovranno fornire delle proposte che, tenendo anche conto dei lavori
del gruppo Van Miert, aumentino gli investimenti globali e il coinvolgimento del
settore privato nelle TENs e nei progetti di R&S. Commissione Ue e BEI
dovranno in particolare valutare: l’impatto della proposta italiana sui bilanci
nazionali e comunitario e la compatibilità con il Patto di stabilità e crescita; il
grado di realizzazione delle TENs prioritarie; le risorse pubbliche disponibili
nonché la capacità di attrarre finanziamenti privati per le TENs e i progetti di
R&S; l’impatto sulla produttività e sulla crescita potenziale dell’Ue. Commissione
e BEI dovranno predisporre individualmente una relazione preliminare, da
discutere durante i consigli Ecofin ed europeo di ottobre, e una relazione finale,
soggetta alla valutazione del Comitato economico e finanziario, da presentare al
Consiglio Ecofin del 25 novembre e alla riunione del Consiglio europeo del 1213 dicembre.
Regola aurea o Azione europea per la crescita?
Esistono varie difficoltà all’applicazione della regola aurea. A parte il
problema, concettualmente non banale e sul piano politico ostico, di che valore
dare al benessere delle generazioni future rispetto a quello delle generazioni
presenti, una applicazione ristretta della golden rule rischia di provocare
distorsioni dell’allocazione delle risorse a favore degli investimenti in capitale
fisico. Ad esempio mentre la costruzione di laboratori di R&S e l’acquisto di
computer sono considerati investimenti, gli stipendi corrisposti ai ricercatori
sono valutate alla stregua delle spese correnti (consumi pubblici). Quest’ultime
sono in realtà forme di investimento in capitale umano che favoriscono lo
sviluppo di lavori ad alto valore aggiunto e ad alta intensità di conoscenza e,
quindi, notevoli incrementi di produttività. La soluzione di ampliare le voci del
bilancio dello Stato da includere nella golden rule implica problemi definitori e
contabili e aumenta le possibilità di manipolazioni dei dati, con il rischio di
vanificare la credibilità del Patto di stabilità.
Una corretta applicazione della golden rule richiede di considerare gli
investimenti al netto del deprezzamento economico. La quantificazione di
quest’ultimo è difficile e, molto spesso, di limitata attendibilità. Serve infatti
stimare il valore economico nonché l’arco di vita del bene. Anche in questo caso
si corre il rischio di aprire nuove strade alla manipolazione dei dati.
10
Finora i finanziamenti di progetti mediante le PPPs hanno riguardato essenzialmente
investimenti contenuti e, comunque, inferiori a quelli previsti dai grandi progetti di
infrastruttura transeuropei.
121
L’Azione europea per la crescita evita parte delle controindicazioni della
golden rule: si propone di incentivare gli investimenti infrastrutturali ma anche
quelli in capitale umano; non richiede di stimare gli investimenti netti.
Una valutazione esaustiva della proposta del Governo italiano potrà essere
fatta solo dopo aver analizzato il suo impatto sui bilanci nazionali e comunitari.
Gli aspetti cruciali per l’operatività del Piano sono la capacità effettiva di
“attivare” finanziamenti privati e di “potenziare” la BEI. Nella situazione attuale la
possibilità di ampliare gli impieghi della BEI è limitata: il portafoglio prestiti BEI
può al momento salire fino a 375 miliardi di euro11 e attualmente ne sono già
stati erogati 234. Se si considerata che dei 140 miliardi disponibili circa 40
dovrebbero essere destinati a prestiti accesi mediamente in un anno12 per il
piano italiano, che prevede investimenti aggiuntivi per un minimo di 48 e un
massimo di 96 miliardi di euro l’anno, rimarrebbero disponibili 100 miliardi di
euro. Se non interverranno consistenti aumenti di capitale, in meno di due anni
le risorse disponibili per finanziare il piano italiano si esaurirebbero.
11
Il totale degli impegni derivanti dai prestiti e dalle garanzie accordati dalla Banca non
deve essere in alcun momento superiore al 250% del capitale sottoscritto, attualmente
pari a 150 miliardi di euro. La quota di capitale sottoscritta da ciascun paese non va a
gravare sul debito pubblico in quanto partecipazione finanziaria. I conti pubblici vengono
interessati dai conferimenti solo dal lato del fabbisogno di cassa.
12
Nel 2002 la BEI ha concesso prestiti per circa 40 miliardi di euro destinati in buona
parte, ma non solo, alle infrastrutture (prestiti a piccole e medie imprese, innovazione,
ecc).
122
La qualità delle manovre di bilancio e la crescita economica
Le difficoltà in cui si dibattono le economie europee hanno riacceso la
discussione sulla congruità dei vincoli esistenti sulle politiche di bilancio. Come
emerge chiaramente dai fatti, l’azione preventiva del Patto di stabilità e crescita,
che dovrebbe impedire il verificarsi di situazioni di deficit eccessivo, non ha
funzionato. Sono infatti tre i paesi che sono sotto procedura per deficit
eccessivo di cui due, Francia e Germania, rappresentano all’incirca il 50% del
1
Pil dell’area dell’euro .
La questione da più parti sollevata è che nei periodi di rallentamento
economico vincoli di finanza pubblica troppo stringenti possono generare effetti
negativi nei paesi che non hanno ancora completato il loro processo di
consolidamento. In quest’ottica è stata sottolineata la necessità di attribuire,
nella valutazione degli aggiornamenti dei Programmi di stabilità, maggior rilievo
di quanto non sia stato fatto finora ai problemi della crescita economica. In
questo modo, le politiche di bilancio avrebbero una duplice connotazione:
servirebbero come strumento di stabilizzazione del ciclo, compito precipuo della
2
politica monetaria , nonché come strumento per potenziare lo sviluppo
economico di lungo periodo.
Uno dei principali scopi del Patto di stabilità e crescita è garantire che le
scelte di bilancio del breve periodo (livello di indebitamento) siano coerenti con
finanze pubbliche sostenibili nel lungo periodo (livello di debito adeguato). Il
perseguimento di questo obiettivo è stato però affidato unicamente al
raggiungimento di target quantitativi: gli stati membri sono infatti tenuti a
raggiungere nel medio periodo un saldo di bilancio al netto del ciclo economico
prossimo al pareggio o in attivo, ma non vi sono regole specifiche su come
raggiungere la situazione di pareggio. Ma il semplice raggiungimento del saldo
di bilancio in pareggio non garantisce di per sè la sostenibilità delle finanze
pubbliche. A questo scopo quello che conta è che la riduzione
dell’indebitamento porti a una riduzione permanente del debito. L’analisi
economica mostra che gli effetti delle manovre di riduzione del saldo di bilancio
sui livelli del debito e quindi sulla crescita economica dipendono in modo
cruciale, oltre che dalla dimensione della manovra, dalle modalità di attuazione
del risanamento. Una data riduzione del rapporto indebitamento/Pil può, nella
pratica, essere effettuata tramite un aumento delle entrate, una riduzione delle
spese o con una strategia mista: si inizia con un aumento delle imposte, seguito
da tagli alle spese. Una consistente letteratura economica, teorica ed applicata,
ha analizzato le condizioni che rendono possibile il fatto che manovre di bilancio
di consolidamento abbiano, contemporaneamente, effetti espansivi
sull’economia: sono le manovre incentrate sulle spese ad essere quelle di
maggior successo su entrambi i fronti, quello delle finanze pubbliche e quello
della crescita.
1
Un recente studio ha stimato che la probabilità di violare il tetto del 3% sia all’incirca
pari all’8%. Ciò significa che in media ciascun paese violerà il Patto una volta ogni 12
anni o che in un gruppo di 12 paesi ogni anno ci si può attendere che un paesi superi il
tetto. Poiché questo è il quarto anno di funzionamento e sono 4 i paesi a rischio, l’8%
pare una buona stima. Hughes Hallett, Andrei, e P. McAdam (2003) – Deficit targeting
strategies: fiscal coordination and the probability distribution of deficit under the stability
pact”. Journal of Common Market Studies, 41, pp.421-444.
2
Le politiche di bilancio, in realtà, poco si prestano a svolgere un’attività anti-ciclica: si
pensi alla lentezza con cui sono attuate le manovre di bilancio (ad esempio agli iter
parlamentari di attuazione delle leggi che riguardano il bilancio dello Stato) ma si pensi
all’incertezza e all’instabilità che si creerebbe se la normativa fiscale venisse utilizzata a
fini congiunturali. La pianificazione fiscale infatti richiede, soprattutto per le imprese, di
poter contare sulla certezza del diritto.
123
La teoria economica. Secondo la teoria macroeconomica classica, nella
tradizione Keynesiana, il risanamento delle posizioni di bilancio avviene solo a
costo di una riduzione del Pil e dell’occupazione. Ridurre il disavanzo pubblico
significa ridurre la domanda per beni e servizi che, in presenza di prezzi rigidi, si
traduce in una riduzione della produzione reale. A ciò si aggiungono altri effetti
negativi dal lato dell’offerta nel caso in cui il risanamento avvenga tramite un
incremento delle imposte che comporti un aumento del costo del lavoro.
La teoria macroeconomica sviluppatasi negli anni Ottanta, rivalutando il ruolo
delle aspettative, ha cambiato radicalmente le conclusioni di politica economica.
Le scelte degli operatori economici (consumatori e imprenditori) sono
influenzate non solo dalla situazione economica corrente ma anche da quanto si
attendono per il futuro. Di fronte a manovre di finanza pubblica che possano
ragionevolmente portare ad una stabile diminuzione dello stock del debito nel
medio/lungo termine, gli operatori economici si aspettano una diminuzione del
costo del servizio per il debito e in prospettiva una diminuzione delle imposte.
Se il consumo dipende non dal reddito corrente ma dal reddito permanente e se
gli investimenti sono forward looking, consumo e investimenti potrebbero
risultare più elevati rispetto al caso in cui il governo non intraprendesse la via
del risanamento (effetti non-Keynesiani). Inoltre, una riduzione dei salari e/o dei
livelli occupazionali del settore pubblico potrebbe determinare un shock positivo
nel settore privato inducendo una diminuzione del costo del lavoro e facendo
crescere gli investimenti privati (supply-side effects). Affinché si possano
verificare i cosiddetti effetti non-Keynesiani un’ipotesi cruciale è che gli operatori
considerino preoccupante la situazione delle finanze pubbliche e avvertano
fortemente la necessità di manovre di consolidamento che consentano di
migliorare le prospettive economiche del paese.
L’analisi empirica. Le verifiche empiriche hanno confermato che, a date
condizioni, le politiche di consolidamento fiscale possono generare i cosiddetti
effetti non-Keynesiani, ovvero il loro costo in termini di perdita di Pil è ridotto
dagli effetti positivi sulla domanda interna del settore privato derivanti da un
miglioramento delle aspettative degli agenti economici. Gli studi hanno
3
sottolineato l’importanza delle dimensioni della manovra di consolidamento e
4
della composizione della manovra .
3
Cfr. Giavazzi, F. e M. Pagano (1990) – Can Severe Fiscal Contractions be
Expansionary?, NBER Macroeconomics Annual, 75-116; Giavazzi, F. e M. Pagano
(1995) – Non-Keynesian Effects of Fiscal Policy Changes: International Evidence and the
Swedish Experience, CEPR Discussion Paper, 1284, Londra. Vedi anche Giavazzi, F., T.
Jappelli e M. Pagano (1999) – Searching for Non-Keynesian Effects of Fiscal Policy:
Evidence From Industrial and Developing Countries, NBER Working Paper, 7460.
4
Cfr. Alesina, A. e S. Ardagna (1998) – Tales of Fiscal Contrations, Economic Policy,
27; Alesina, A.e R.Perotti (1995) – Fiscal Expansions and Fiscal Adjustment in OECD
Countries, Economic Policy 21, 205-48, Alesina, A. e R. Perotti (1997) – Fiscal
Adjustments in OECD Countries: Compositions and Macroeconomic Effects, IMF Staff
papers 44, 210-48.
124
Le probabilità che le manovre di consolidamento fiscale abbiano effetti
espansivi sull’economia risultano più elevate se le condizioni economiche che
precedono la manovra sono caratterizzate da una bassa crescita e da output
5
gap negativi e sono tipicamente associate a situazioni di alto debito. Questi
risultati sono pertanto in linea con la teoria: è infatti la presenza di alto debito a
creare l’aspettativa che in futuro lo Stato dovrà attuare delle politiche molto
drastiche (aumenti delle imposte o tagli delle spese) per ripagare il debito
accumulatosi nel tempo.
Nell’interpretare i risultati, vanno anche tenuti presenti alcuni limiti di queste
analisi. Innanzitutto nel breve periodo è difficile capire quanto sia il
consolidamento fiscale a condizionare la crescita e quanto invece sia la crescita
reale e attesa a condizionare le politiche di bilancio e quindi il saldo di bilancio.
In sostanza non è facile stabilire il nesso di causalità. Inoltre è sempre molto
difficile isolare gli effetti sulla crescita dei cambiamenti di altre variabili
economiche. I principali risultati a cui giunge la letteratura economica su questo
6
tema possono essere così sintetizzati :
- la crescita nei paesi europei è risultata accelerata in circa la metà dei casi
in cui si sono portate avanti manovre di consolidamento fiscale. In un quarto dei
casi le politiche di bilancio non erano accompagnate da politiche monetarie di
tipo espansivo (ovvero non vi erano stati tagli dei tassi d’interesse), per cui gli
effetti sono più chiaramente imputabili alle manovre di bilancio;
- l’accelerazione nella crescita che segue il consolidamento fiscale può avere
7
sia natura strutturale (viene modificato l’output trend ) che ciclica o ambedue. La
componente del Pil che maggiormente reagisce agli impulsi derivanti dalle
politiche economiche sembrano essere gli investimenti;
- nel lungo periodo gli effetti delle manovre si osservano sia sull’andamento
dello stock del debito che sull’output trend. Esiste una correlazione negativa tra
spese per trasferimenti in rapporto al Pil e crescita del Pil di lungo periodo.
Questo perché la presenza di sistemi di sicurezza sociale molto forti creerebbe
disincentivi che indeboliscono la crescita;
- si hanno probabilità più elevate di ottenere una riduzione permanente del
debito se il consolidamento avviene tramite una riduzione delle spese piuttosto
8
che con un aumento delle imposte . In particolare, i tagli delle spese che danno
9.
i migliori risultati riguardano trasferimenti, sussidi e salari del pubblico impiego
- la credibilità del Governo e la confidence giocano un ruolo importante: gli
indicatori di household e business confidence sono al di sotto della media prima
che inizi il consolidamento e tendono a migliorare nei casi in cui al
consolidamento di bilancio segua un’accelerazione della crescita.
5
. Cfr. Rapporto annuale Public Finances in EMU 2003.
Se non diversamente specificato riportiamo i risultati richiamati nel Rapporto annuale
Public Finances in EMU 2003.
6.
7
L’output trend si distingue dall’output potenziale per il metodo di calcolo: l’uno viene
stimato con il metodo di’Hodrick-Prescott e l’altro della funzione di produzione.
8
Cfr. von Hagen, J.; A.H. Hallett e R. Strauch, (2001) - Budgetary Consolidation in EMU,
Economic Papers, CEPR.
9
Fatas, A.; J. von Hagen; A.H. Hallett; R.R. Strauch e A. Sibert (2003) – Stability and
Growth in Europe: Towards a Better Pact, Monitoring European Integration 13, Mimeo.
Questi risultati confermano nella sostanza quanto già rilevato da Von
Hagen/Hallett/Strauch (2001) con uno studio econometrico effettuato su 20 paesi
dell’Ocse, relativamente al periodo 1973-1998.
125
Gli studi più consolidati riguardano i periodi precedenti alla terza fase
10
dell’Unione Monetaria. Particolarmente interessante è l’analisi degli anni
Novanta durante i quali si può dire si sia verificato un vero e proprio break
strutturale. In quegli anni, infatti, le politiche di bilancio rispondevano quasi
unicamente alla necessità di soddisfare i criteri fissati dal Trattato di Maastricht
per entrare nella Unione Monetaria Europea, indipendentemente dalle manovre
di politica monetaria e anche in modo abbastanza slegato agli andamenti
dell’economia. Il cosiddetto “effetto Maastricht” ha spinto i governi a perseguire
il consolidamento facendo leva maggiormente sulle entrate, che consentono di
conseguire risultati tangibili più rapidamente ma con effetti non permanenti.
Le analisi empiriche confermano però l’importanza delle aspettative: negli
anni Novanta il costo dei risanamenti fiscali compiuti è infatti risultato minore
rispetto a quelli avvenuti in anni precedenti. Probabilmente gli agenti economici
hanno percepito che l’andamento del debito e dell’indebitamento fossero lo
specchio di una posizione di bilancio non sostenibile. Il miglioramento delle
aspettative non è stato però sufficientemente forte da creare un effetto
espansivo sull’economia: in estrema sintesi negli anni Novanta, gli effetti
negativi sull’output sono stati fondamentalmente bilanciati dagli effetti positivi
sulla domanda.
In conclusione, il funzionamento del Patto di Stabilità e crescita potrebbe
sensibilmente migliorare se i Programmi pluriennali fossero corredati da
indicatori della qualità degli aggiustamenti prospettati. Sembra infatti
controproducente richiedere un consolidamento della finanza pubblica basato
unicamente sui livelli, visto che in molti casi questo ha spinto i governi a seguire
politiche di bilancio che nel breve periodo consentono di raggiungere risultati
discreti ma che in realtà rinviano la soluzione dei problemi. Le strategie di
bilancio che producono i migliori risultati sono infatti basate su tagli delle spese
correnti, seguite da riduzioni del carico fiscale (in particolare dai redditi da
lavoro), manovre che tipicamente incontrano forti resistenze politiche.
10.
126
Cfr. von Hagen/Hallett/Strauch, (2001) op. cit.
Scarica