PRONUNCIA N. 44/2013
Il Giurì, composto dai Signori:
Prof. Avv. Paolo Spada
Prof. Avv. Anna Genovese
Dr.ssa Carmen Manfredda
Presidente
Relatore
in data 30 aprile 2013 ha pronunciato la seguente decisione nella vertenza promossa da
Comitato di Controllo
contro
Arav Fashion SpA
e nei confronti di
Damir Srl
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1.
Su affissioni nella città di Palermo nel mese di febbraio 2013 è apparso un messaggio
pubblicitario volto a reclamizzare il marchio di abbigliamento “Silvian Heach”. Il messaggio
ritrae una giovane donna, con lo sguardo perso nel vuoto, seduta sul bordo di una vasca da
bagno in cui si trovano due uomini, uno dei quali le bacia il fianco, accarezzandole l’interno
della coscia scoperto, mentre l’altro la immobilizza con una mano per la caviglia, tirando verso
di sé, con l’altra mano, una manica della maglietta della donna.
2.
Il Presidente del Comitato di Controllo, esaminato il messaggio pubblicitario e
ritenutolo manifestamente contrario agli artt. 9 e 10 del CA, con atto del 26 marzo 2013, ha
intimato ai legali rappresentanti della Arav Fashion SpA, titolare del marchio pubblicizzato, e
della Damir Srl, agenzia di pubblicità e affissioni, di desistere dalla diffusione di detta pubblicità
su ogni mezzo, ai sensi dell’art. 39 del CA.
3.
Con atto del 27 marzo 2013 la società di pubblicità Damir Srl comunicava che la
campagna in parola, eseguita secondo le indicazioni del committente, risultava da tempo
cessata.
4.
Con atto del 5 aprile 2013, l’avv. Domenico Ruocco dello Studio Legale Giugliano,
Ruggiero, Ruocco, in nome e per conto della Arav Fashion s.p.a., produceva opposizione
all’ingiunzione di desistenza e, dopo avere evidenziato che l’immagine pubblicitaria in
contestazione era stata ideata e realizzata da un noto fotografo e regista (Terrence
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Richardson), per rappresentare, in modo artistico, una donna libera, consapevole del proprio
fascino e della propria sensualità, capace di manifestare in modo disinibito compiacimento
nell’essere contesa fra due uomini da lei affascinati, respingeva le contestazioni del Comitato
di Controllo come frutto di suggestioni puramente soggettive e chiedeva la modifica del
provvedimento adottato dal Presidente del Comitato di Controllo (di seguito anche CdC).
5.
Con atto del 12 aprile 2013, il CdC riteneva non convincenti le ragioni della suddetta
opposizione e trasmetteva gli atti al Presidente del Giurì, evidenziando che la pubblicità
contestata, integrando comunicazione commerciale, non poteva essere valutata come
espressione artistica fine a sé stessa e doveva sottostare a limiti e controlli, incluso il sindacato
autodisciplinare.
6.
Il Presidente del Giurì, vista la nota del Comitato sopradetta, esaminati gli atti, ritenuto
che l’articolato complessivo dell’opposizione proposta dall’inserzionista facesse apparire
opportuna una pronuncia del Giurì, a norma dell’ultima parte del quarto comma dell’art. 39
del Codice di Autodisciplina, con atto del 15 aprile 2013, convocava le parti davanti al Giurì per
il 30 aprile 2013, revocando frattanto l’ingiunzione di desistenza.
7.
Con atto del 26 aprile 2013 la Arav Fashion SpA chiedeva il rinvio della trattazione della
vertenza fissata per il 30 aprile 2013, adducendo a motivo della richiesta l’impossibilità a
partecipare all’udienza a causa di concomitanti, pregressi e improcrastinabili impegni propri e
del proprio difensore. Il CdC si pronunciava contro l’accoglimento della richiesta e, in base a
quanto stabilito dall’art. 27 del CA, il Presidente del Giurì, respinta l’istanza di rinvio,
confermava la discussione della vertenza nell’udienza del 30 aprile 2013.
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All’udienza del 30 aprile 2013 sono comparsi:
- per l’istante (Comitato di Controllo): il Prof. Avv. Antonio Giovati
- per le parti convenute (Arav Fashion spa): l’Avv. Francesco Frusci
Dopo la relazione svolta dalla Prov. Avv. Anna Genovese, su invito del Presidente, prendono la
parola, illustrando le rispettive tesi:
per il CdC, il Prof. Avv. Antonio Giovati, il quale, richiamando le motivazioni dell’atto di
ingiunzione di desistenza, si sofferma soprattutto a contestare la tesi difensiva secondo la
quale il messaggio pubblicitario in esame, raccontando di una donna vincente e dominante nel
rapporto con l’altro sesso, per ciò stesso non risulterebbe lesivo della dignità della persona o
volgare e violento. A giudizio del CdC, infatti, proprio i dati estetici e oggettivi presenti nel
messaggio - raffigurante in ambiente squallido oltre che disadorno una donna contesa da due
individui di aspetto poco rassicurante, e senza la presenza di elementi di seduzione o gioco, ma
al contrario in una atmosfera di angoscia e costrizione - sarebbero in contrasto con la tesi
difensiva, ammesso e non concesso che il mero rovesciamento dei ruoli (femmina dominante
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sul maschio invece di maschio dominante sulla femmina, come vuole una cultura maschilista
ancora largamente dominante) possa bastare a rendere la rappresentazione utilizzata per una
comunicazione commerciale di per sé idonea a salvaguardare la dignità della persona e
segnatamente la dignità della donna.
Per la società Arav Fashion SpA, l’Avv. Francesco Frusci il quale, richiamandosi alle
argomentazioni difensive agli atti del procedimento, si sofferma soprattutto a respingere,
come puramente soggettiva, la lettura del messaggio proposta dal CdC, posto che invece la
rappresentazione contenuta nella pubblicità rispecchierebbe il comune sentire che attribuisce
alla donna, grazie all’avvenenza, la capacità di attrarre sessualmente l’uomo e quindi
dominarlo. Nel messaggio, il ruolo dominante della donna sull’uomo sarebbe evidenziato dalla
posizioni delle mani della modella, che poggia la propria mano sulla testa di uno degli uomini,
mentre l’espressione del viso della modella “espressione assente” sarebbe del tutto
incompatibile con l’asserita condizione di sofferenza fisica o psicologica che il CdC ascrive alla
figura. La difesa respinge altresì ogni accusa di volgarità o indecenza del messaggio
pubblicitario, che segnala essere stato diffuso solo tramite cartellonistica, anche alla luce di
quello che comunemente sarebbe possibile vedere e ascoltare in televisione. L’Avv. Francesco
Frusci conclude perciò chiedendo che il messaggio pubblicitario sia riconosciuto non in
contrasto con gli artt. 9 e 10 del CA, senza rinunciare a segnalare che le società destinatarie
dell’ingiunzione di desistenza del CdC mai avrebbero, né direttamente né indirettamente,
aderito al CA e non sarebbero perciò tenute e soggette alla giurisdizione del Giurì.
Esaurita la discussione, il Presidente invita le parti a ritirarsi, allo scopo di consentire al Giurì di
deliberare.
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Giova preliminarmente considerare se sia rilevante la generica pregiudiziale sollevata dal
legale della società Arav Fashion SpA in udienza, in merito al presunto difetto di legittimazione
passiva delle società alle quali è stata indirizzata l’ingiunzione di desistenza e a cui operato
pubblicitario il Giurì si deve pronunciare.
In proposito, nel segnalare come l’eccezione sia in ogni caso tardiva e pertanto inammissibile
in quanto prospettata per la prima volta in udienza e dopo che le società hanno accettato il
contradditorio con l’Istituto, producendo comunicazioni e atti difensivi che presuppongono la
competenza del Giurì, si precisa anche che sebbene la Arav Fashion SpA in effetti non aderisca
né direttamente né indirettamente al Codice, la società di affissione Damir Srl vi aderisce.
Pertanto la soggezione all’Autodisciplina pubblicitaria della Damir Srl è fuori discussione e, in
forza del contratto di pubblicità in essere fra le società, son pure certe legittimazione passiva e
soggezione alla giurisdizione del Giurì anche in capo alla Arav Fashion SpA (committente),
posto che il contratto non esclude espressamente l’integrazione del rapporto con la clausola
d’uso d’accettazione dell’ordinamento autodisciplinare (conf. Pronuncia n. 121/2007).
Vi è quindi piena giurisdizione del Giurì sulla conformità o meno della pubblicità contestata al
CA.
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Passando al merito della vertenza, mette conto considerare che il Giurì è più volte intervenuto
– su richiesta del Comitato di Controllo – per contrastare messaggi pubblicitari lesivi della
dignità della persona e, in particolare, della dignità della donna.
In tale azione di contrasto, fermo l’assunto per cui la pubblicità, in quanto comunicazione
commerciale, non inerisce alla sfera della libera manifestazione del pensiero e dell’arte,
tutelata anche dall’art. 21 Cost., ma è soggetta a limiti di legittimità che includono quelli
dell’Autodisciplina (conf., fra le altre, pronuncia Giurì n. 121/07), occorre stabilire quali criteri
valutativi debbano essere seguiti quando la lesione della dignità della persona possa scaturire
da una comunicazione commerciale a sfondo sessuale.
Sembra in proposito meritevole di essere confermato un indirizzo interpretativo del Giurì
secondo cui, nel tentativo di suscitare il desiderio di un oggetto o di un servizio, la pubblicità
può fare leva sul desiderio sessuale come su altri appetiti, e può quindi contenere anche
messaggi sessuali più o meno espliciti rivolti al pubblico maschile o femminile. Ciò posto, si
deve in tali casi valutare la modalità concreta del trattamento iconografico e verbale
dell’appetito sessuale in seno alla pubblicità, per verificare se la sua strumentale utilizzazione
risulti in concreto degradante e lesiva della dignità della persona, uomo o donna che sia.
Occorre in particolare stabilire se la condotta, la postura della modella o dei modelli o il
contesto narrativo in cui è inserito il richiamo sessuale finalizzato a scopi pubblicitari siano
degradanti e tali da qualificare come illegittima (o meno) la traslazione del desiderio di
appagamento dalla sfera sessuale a quella commerciale (conf. Pronunce n. 80/10 e n. 133/10).
Nella fattispecie il messaggio pubblicitario appare seguire tale schema e utilizzare il desiderio
di gratificazione sessuale maschile e femminile per suscitare nel pubblico (femminile) a cui si
rivolge interesse e desiderio per il prodotto reclamizzato (capo di abbigliamento femminile a
marchio Silvian Heach). Tale desiderio di gratificazione derivante da una relazione sessuale,
peraltro, viene rappresentato secondo modalità che contemplano la donna come un oggetto
conteso e come strumento - passivo e indifferente - dell’altrui piacere (maschile), piuttosto che
come co-protagonista della relazione. La rappresentazione pubblicitaria perciò si rifà a un
cliché di considerazione del piacere sessuale di per sé degradante e tale da penalizzare la
dignità di genere della donna, in un contesto culturale e sociale nel quale essa fa fatica ad
affermarsi.
Nei confronti di simili utilizzazioni dell’immagine della donna nella pubblicità si rende
necessario perciò un “contro-regolamento”, ossia un intervento correttivo di una riprovevole
sintesi culturale che nella autodisciplina pubblicitaria si può opportunamente fondare sul
disposto dell’art. 10 del CA il quale recita che “la comunicazione commerciale non deve
offendere le convinzioni morali, civili, religiose. Essa deve rispettare la dignità della persona in
tutte le sue forme ed espressioni e deve evitare ogni forma di discriminazione, compresa quella
di genere”; il quale risulta frequentemente applicato a tale scopo (conf., fra le altre, pronuncia
n. 26/11; 133/10, 128 11).
Nell’ambito del messaggio esaminato infatti la connotazione degradante della
rappresentazione della donna è presente e da ascrivere a diversi elementi oggettivi della
rappresentazione, fra cui mette conto segnalare, come particolarmente eloquenti,
l’espressione assente (né sofferente, ma neppure partecipe) del viso della donna fatta oggetto
di contesa sessuale fra due uomini; la postura dei protagonisti della scena - che vede i modelli
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maschi attivi e partecipi nella ricerca del piacere sessuale che può dare un corpo femminile e la
modella femmina statica e passivamente esposta alle “attenzioni”, se non alle coercizioni
violente, dei due maschi; il contesto narrativo in cui è inserita la scena che è squallido (si
intravede nello sfondo dell’immagine una parete di piastrelle annerite dallo sporco e uno
sgabello di metallo bianco arrugginito) e angosciante (anche per le fredde tonalità cromatiche
utilizzate e per il muro chiuso di sfondo), contribuendo a dare una rappresentazione della
relazione sessuale uomo -donna in cui il maschio ha un ruolo attivo e la femmina un ruolo
passivo, quale corpo - oggetto asservito all’altrui piacere o per via dalla situazione (che non
offre vie d’uscita, come lascia intendere il muro di fondo della rappresentazione) o per il
divario di forze (due uomini da una parte e una donna dall’altra).
Tale messaggio, pertanto, pur senza arrivare a veicolare un’idea di gratificazione sessuale
connessa all’esercizio di violenza fisica o psicologica del partner maschio sulla femmina,
presenta una immagine della donna degradante perché ridotta ad oggetto di una contesa fisica
e sessuale di cui è succube e non parte attiva.
Inoltre il messaggio risulta tanto più offensivo della dignità della persona in quanto veicolato
da cartellonistica che è mezzo di diffusione privo di filtri e tale da enfatizzare, con l’utilizzo
delle grandi dimensioni, la portata negativa della comunicazione veicolata per il concetto di
dignità della persona e dignità della donna nel rapporto con l’altro sesso.
P.Q.M.
Il Giurì, esaminati gli atti e sentite le parti, dichiara che il messaggio contestato non è conforme
all’art. 10 del CA e ne ordina la cessazione.
Milano, 30 aprile 2013
f.to Il Relatore
Prof. Avv. Anna Genovese
f.to Il Presidente
Prof. Avv. Paolo Spada
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