CAPITOLO PRIMO Infanzia, pubblicità e comportamento d’acquisto: analisi delle strategie di comunicazione nel settore dell’infanzia 1 – Le strategie di comunicazione nel settore dell’infanzia In Italia il mercato dei giocattoli raggiunge un valore di circa 826,3 milioni di euro 1. La dinamica dei consumi è in ascesa (+6,1%), ma bisogna operare delle distinzioni all’interno del settore, dal momento che sotto il nome di “giocattoli” è raccolta un’ampia gamma di prodotti molto differenti tra loro. I giocattoli tradizionali rappresentano il 70,3% del volume complessivo, ma i consumi per questo gruppo sono in diminuzione (-1,9%), mentre la parte del leone la fanno i videogames le cui vendite, pur occupando ancora una fetta minoritaria del mercato (29,7%), hanno subito una decisa impennata negli ultimi 5 anni (+31,3 %). Occorre ricordare però che per quest’ultima tipologia di prodotti i bambini non rappresentano il target esclusivo, essendo sempre maggiore il numero degli adulti attratti da questa forma di intrattenimento2. Fino ai 7-8 anni di età il giocattolo tradizionale mantiene un ruolo di primaria importanza, successivamente i bambini iniziano a dedicarsi con maggiore intensità ad attività come lo sport o l'utilizzo delcomputer e subiscono in maniera più forte l'influenza della pubblicità. Altri settori dedicati ai bambini di non trascurabile rilevanza sono quelli relativi a: merendine (con un volume di mercato in Italia di 75.400.000 euro, consumi in aumento del 10%), snacks dolci (41,3 milioni di euro gli snacks da forno, 505,7 milioni quelli al cioccolato, entrambi in aumento e con una forte concentrazione dei consumatori al di sotto dei 34 anni), cartoleria (269,1 milioni di euro complessivi, con la collocazione di alcuni marchi espressamente destinati ai bambini in età scolare – Mattel, 1 I dati inerenti il mercato dei giocattoli, delle merendine, degli snack e dei dolciumi in Italia sono stati reperiti sul sito della Massmarket.it Srl in data 30/09/2007. Indirizzo URL http://www.massmarket.it. 2 D’ALESSANDRO J, “L’impero del gioco. Con l' ingresso sul mercato di Sony e ora di Microsoft cambia anche il linguaggio ludico”, in Domenica – Il Sole 24 Ore del 26/03/2003. Giochi Preziosi – ai primi posti nella classifica delle vendite di astucci e zaini). Tali categorie merceologiche comprendono la quasi totalità dei prodotti reclamizzati durante i programmi televisivi per bambini. Un fenomeno da sottolineare è la stretta relazione che lega i messaggi pubblicitari e il contenuto dei programmi relazione presente anche in altre fasce del palinsesto, ma in misura minore3. L’invadenza della pubblicità già nelle fasi ideazione e realizzazione dei programmi televisivi non costituisce affatto una novità; il fenomeno risale alle origini della storia televisiva, negli Stati Uniti dove le aziende sponsor di alcune serie televisive arrivavano a vietare l’inserimento di elementi che potessero influire negativamente sulle vendite o sull’immagine dell’azienda (valga per tutti l’esempio dell’American Gas Association, che otten ne di far cancellare la parola “Gas” dallo sceneggiato sul processo di Norimberga trasmesso dalla CBS nei primi anni Cinquanta ). In Italia la pubblicità televisiva è stata introdotta nel 1957, a tre anni dall’inizio ufficiale delle trasmissioni. Da quel momento in poi inizia la trasformazione del mezzo televisivo da servizio pubblico di informazione ed intrattenimento a veicolo di messaggi commerciali. Fin dagli esordi della televisione italiana, Calimero pubblicizzava una marca di detersivo in Carosello; vent’anni fa i bambini guardavano cartoni animati come “Gli orsetti del cuore”, “Mio Mini Pony”, “Super Mario”; adesso ci sono “Hamtaro”, “Hulk” e “Beyblade”, per esempio. Abbiamo ragione di supporre che molti di questi programmi siano stati ideati e prodotti quasi esclusivamente allo scopo creare un forte legame emotivo tra lo spettatore e il giocattolo/personaggio. Quest’ultimo si “anima” non più soltanto nelle storie create dalla fantasia del bambino durante il gioco, ma anche sullo schermo, come protagonista di storie che altri hanno creato, disegnato, reso emozionanti e accattivanti. Si ha una situazione analoga quando un’azienda decide di lanciare sul mercato un prodotto (o una linea intera di prodotti) ispirati ad un programma di successo. Il legame D’ALESSANDRO J, “L’impero del gioco. Con l' ingresso sul mercato di Sony e ora di Microsoft cambia anche il linguaggio ludico”, in Domenica – Il Sole 24 Ore del 26/03/2003 3 tra prodotto e programma esiste in entrambi i casi, solo che nel primo è il programma ad essere ispirato al prodotto, è concepito in funzione della vendita. Questo potrebbe implicare un intreccio fortemente influenzato dallo scopo finale della trasmissione, che in definitiva può essere considerata come uno spot lunghissimo (di solito, la puntata di un cartone animato arriva a coprire quasi mezz’ora). È indispensabile che l’attenzione venga catalizzata dal personaggio; la trama, per contro, si appiattisce per non distogliere dall’obiettivo principale l’attenzione e la memorizzazione. Ma quanta e quale televisione guardano oggi i ragazzi? L’indagine “Junior 2006” condotta dalla Doxa su un campione di 2.579 interviste a ragazzi italiani di età compresa tra 5 e 13 anni ci fornisce un quadro abbastanza completo sulle loro abitudini relative alla scuola e al tempo libero, all’uso dei media, alle attività sportive, ai consumi. I committenti dell’indagine sono stati: The Walt Diney Company, Disney Channel, Istituto Geografico De Agostini, Mondadori Pubblicità, Rai – Radiotelevisione Italiana e Vodafone Omnitel. Il primo dato che balza agli occhi è un incontrastato primato della fruizione televisiva tra le altre attività del tempo libero: “I ragazzi tra i 5 e i 13 anni dichiarano di avere in media 4 ore e mezza di tempo libero (…). La televisione occupa la maggior parte del loro tempo libero (il 29%), seguita dal gioco a casa o fuori casa (28%), dallo studio (17%) e dall’uscire (13%). Le altre attività considerate occupano in media un tempo minore: fare sport (6%), giocare con i videogames per console (3%), leggere i giornalini o libri (1%) e usare il computer (2%).” 4 I bambini dunque seguono i cartoni animati, ma anche trasmissioni destinate agli adulti, in particolare programmi di intrattenimento musicale (“Amici” ) e il tg satirico “Striscia la notizia” sono i più amati dai ragazzi di entrambi i sessi. Non mancano tuttavia i programmi per i quali esistono delle forti differenze tra maschi e femmine: “…eventi sportivi e trasmissioni sportive sono i generi TV più seguiti dai maschi, con percentuali rispettivamente del 52% per i maschi e dal 16% per le femmine nel caso di eventi sportivi e per le trasmissioni sportive il 33% dei maschi e il 9% delle femmine. Per i 4 Istituto Doxa, “Junior 2006: indagine sui comportamenti dei ragazzi 5-13 anni”. programmi di intrattenimento e per i telefilm a puntate, invece, prevalgono le ragazze, ma con differenze contenute.” Sono in maggioranza ragazzi più grandi a guardare i telegiornali, i telefilm a puntate e i programmi sportivi. Tale riflessione è importante in quanto qualsiasi strategia di comunicazione orientata alla commercializzazione di prodotti deve individuare un target di riferimento al quale orientarsi. L’individuazione del target assume un’enorme importanza nella pianificazione di una campagna pubblicitaria, poiché, come ci ricorda G. Fabris “..un messaggio ben recepito da un certo tipo di target può ricevere un’accoglienza completamente diversa da un target diverso”5. Esistono vari tipi di indicatori per l’individuazione del target, vale a dire elementi che permettano di raggruppare una porzione di pubblico che abbia un numero sufficiente di caratteristiche comuni. Molto usati, specie in passato, gli indicatori demografici, vale a dire il sesso, l’età, il reddito, la provenienza geografica. In realtà, come nota Fabris, questi criteri sono del tutto insufficienti a determinare una segmentazione valida ai fini pubblicitari, perché “… sempre meno appaiono in grado di definire una realtà tanto articolata e complessa quanto quella dei consumi”6. L’approccio che negli ultimi anni sta raccogliendo maggiori consensi è quello basato sugli “stili di vita”, definiti come “insiemi di persone che,per loro libera scelta, adottano modi di comportarsi (in tutti i campi della vita sociale ed individuale) simili, condividono gli stessi valori ed esprimono opinioni ed atteggiamenti omogenei” 7. Il vantaggio di questo modello è la maggiore trasparenza con cui mette a fuoco i comportamenti dei consumatori uscendo dalla trappola dei cliché ideologici secondo cui persone appartenenti ad una determinata “classe” socio-economica presentino caratteristiche omogenee. In realtà, come spiega Fabris, “agli stili di vita non si viene assegnati per il fatto di essere nati all’interno di uno FABRIS G, La pubblicità. Teorie e Prassi, Milano, Franco Angeli, 1997, p.427. BRIGIDA F., La pubblicità in Italia. Il mercato, i mezzi, le ricerche, Milano, Lupetti 1993. 7 SALEM E., Che cos’è la comunicazione d’impresa, Lupetti, Milano,1998, p. 25 e ss.. 5 6 di essi, né essi vengono conseguiti per ciò che si è fatto o per l’utilità sociale delle attività che si svolgono. Gli stili di vita vengono invece elettivamente, cioè liberamente (consapevolmente o no), “scelti”, adottati dai singoli. È vero che la provenienza dei soggetti da certi ambienti familiari piuttosto che da altri ed il sistema educativo istituzionale possono predisporre in misura minore o maggiore un determinato stile di vita. Ma è anche vero che questo tipo di influenze, determinanti nei primissimi stadi della vita dei singoli, perdono via via la loro importanza durante le fasi successive e normalmente divengono del tutto irrilevanti durante la vita adulta”. Di grande importanza per gli ideatori di una pubblicità sono le motivazioni, vale a dire “le forze che spingono l’individuo in una certa direzione, verso determinati fini o scopi o, all’opposto, lo distolgono da determinate azioni. Rappresentano una risposta alla domanda “perché?” (perché ha agito in una determinata maniera, perché ha acquistato quel prodotto o quella marca, o ha fruito di quel servizio, perché ha adottato determinati modelli di consumo) e si manifestano come tendenze alla soddisfazione o tendenze rivolte ad annullare l’insoddisfazione” 8. Il bisogno, determinato da una situazione di mancanza dal punto di vista fisico o psicologico, “causa una tensione che – mettendo in dubbio le possibilità future del soggetto – produce un’attività da parte dell’organismo che viene mantenuta sino a quando la situazione organismo-ambiente non si sia modificata” 9. Al centro della campagna di marketing si colloca quindi il consumatore con i suoi bisogni diretti o indotti, sia nel caso di bambini che nel caso di adulti. Accanto (o intorno, se dobbiamo interpretare la visualizzazione grafica di questo schema come una “strategia di accerchiamento” ad opera del venditore) al consumatore, bisogna considerare il prodotto, con il suo punto di vista, 8 Sulle origini delle motivazioni esistono varie scuole di pensiero, alcune orientate ad attribuire maggior rilievo a fattori biologici, altre a fattori ambientali, altre ancora alle pulsioni inconsce all’interno dell’individuo. Come ricorda Fabris, nessuna delle ricerche ispirate a queste scuole di pensiero ha prodotto risultati concordi, validi per una proficua applicazione in pubblicità. 9 CAMAIONI L., Manuale di psicologia dello Sviluppo, Bologna, il Mulino 1993, p . 85 e ss. vale a dire la sua “filosofia”, l’immagine del prodotto o del marchio che si intende promuovere; il tipo di contenuti, incentrati su un impatto maggiormente “visivo” o “verbale”; il contesto, la realtà sociale, cultura, geografica di riferimento; il tipo di rapporto che lega il prodotto al consumatore (per quale tipo di uso è concepito); le caratteristiche dei personaggi eventualmente abbinati al prodotto; lo“stile” (innovativo, tradizionale…). Altre variabili di cui tener conto sono inoltre: l’essenza (idea centrale o caratteristica principale); l’elemento distintivo che rende il prodotto unico nel suo genere; la differenza tra efficacia presunta ed effettiva; la promessa, il vantaggio che il prodotto vuole fornire; la presenza di prodotti simili già piazzati sul mercato dalla concorrenza; il posizionamento del prodotto all’interno di una specifica nicchia di mercato e in relazione ad un target particolare. La fascia di età dai 3 ai 7 anni, ad esempio, è detta “età magica” 10, perché i bambini trascorrono la maggior parte del loro tempo a giocare,fantasticare, ma anche perché si tratta di un periodo cruciale per il successivo sviluppo cognitivo ed affettivo. Anche se, rispetto alla prima infanzia, il loro pensiero è già in una fase di maggiore autonomia, non si può ancora parlare di un vero e proprio pensiero logico. Dominano un approccio ancora basato sul qui ed ora, un’elaborazione degli stimoli legata più all’impulso che al ragionamento, una percezione ancora tutta centrata su un unico oggetto per volta, una predilezione per gli stimoli visivi rispetto a quelli verbali. L’approccio del bambino di questa età con il mondo è ancora molto intuitivo, le classificazioni sono basate su semplici dicotomie e non sono ancora eseguite operazioni logiche reversibili. Si tratta, insomma, di un periodo dominato dalla fantasia più che dalla logica razionale; ogni cosa è possibile. Ogni aspetto del profilo di questi consumatori ha delle conseguenze sul piano del marketing. La percezione orientata sugli stimoli visivi più che verbali e la tendenza a concentrarsi su un elemento escludendo gli altri influenza il confezionamento del prodotto LUMBELLI, L. La comunicazione filmica. Ricerche psicopedagogiche. Firenze, la Nuova Italia 1974, p. 87 e ss. 10 (il packaging): la presenza di un simbolo o di un personaggio capaci di attirare l’attenzione del bambino sarà più efficace di qualsiasi altro elemento particolare. Inoltre c’è una predilezione per le forme arrotondate, poco complesse e dai contorni ben definiti; per le grandi dimensioni, anche in proporzione alle altreparti del corpo (ad esempio, in un personaggio come He-Man sonomolto apprezzati i muscoli sviluppati a dismisura rispetto alla statura tra le bambole, sono preferite quelle con la testa più grande in proporzione al resto del corpo)11. Le capacità di categorizzazione ancora poco sviluppate portano il bambino ad accumulare oggetti più che a collezionarli secondo un criterio preciso. È inutile, quindi, puntare su oggetti “da collezionare”. La dominanza dell’immaginazione sul pensiero logico porta, tra l’altro, ad attribuire pensieri e volontà umane anche ad animali ed oggetti inanimati; una particolare attrazione lega i bambini di questa età agli animali. I bisogni fondamentali del bambino a questa età sono: - essere stimolato: un bisogno insaziabile di essere impegnato in qualche attività, di esplorare il mondo circostante, di scoprire nuove cose. - essere amato, ricevere cure e affetto da persone o animali. - essere protetto: una predilezione per ambienti familiari, in cui possa sentirsi a proprio agio. - essere autonomo: emerge il desiderio di indipendenza rispetto all’età precedente. Dal punto di vista dello sviluppo morale, Acuff segue la suddivisione di Kohlberg secondo cui in questo periodo il bambino si troverebbe nella fase “preconvenzionale”. Il bambino non sarebbe capace di elaborare delle opinioni realmente proprie, si limiterebbe invece ad accettare ciò che gli adulti gli indicano di volta in volta come “giusto” o “sbagliato”. Il loro forte bisogno di identificazione spingerebbe i bambini di questa età ad assimilare facilmente i comportamenti dei loro personaggi preferiti o a considerarli comunque moralmente accettabili. I personaggi vengono suddivisi in due grandi 11 LUMBELLI, L. La comunicazione filmica. Ricerche psicopedagogiche. Firenze, la Nuova Italia 1974, p. 87 e ss. categorie, i “buoni” e i “cattivi”, senza sfumature intermedie e soprattutto senza un criterio universalmente valido per attribuire tali giudizi. È stata osservata la tendenza – soprattutto nei più piccoli - a considerare un personaggio “buono” o “cattivo” a seconda delle caratteristiche fisiche, in particolare delle forme più o meno arrotondate e semplici. L’autore cita ad esempio i personaggi della Walt Disney, dai lineamenti tondi e semplici, cui vengono attribuite immediatamente caratteristiche di “bontà” e “innocenza”. In un periodo ancora dominato dal pensiero egocentrico, l’interazione sociale riveste una discreta importanza solo alla fine, verso i 6/7 anni; fino ad allora l’incapacità ad assumere il punto di vista dell’altro determina la predilezione per il gioco parallelo piuttosto che interattivo. Il senso dell’umorismo è ancora grossolano, non vengono colte sottigliezze, allusioni sarcastiche; è giocato tutto su azioni eclatanti, il cui effetto si deve alla sorpresa e all’azione fisica: il cosiddetto “umorismo da torte in faccia” 12. Le strategie vincenti per il marketing rivolto a questa età (con alcune differenze importanti rispetto al sesso: ad esempio, i maschi sarebbero maggiormente attratti da personaggi caratterizzati da una certa dose di aggressività e di mistero, mentre le bambine preferirebbero personaggi inoffensivi, bisognosi di affetto e tenerezza) fanno leva:sull’identificazione; su un’interazione fisica gratificante con l’oggetto; sulla personalizzazione (“questa bambola è la mia ed è diversa da tutte le altre”); sull’uso di poteri fuori dal comune – soprattutto riguardo la forza fisica – da parte dei personaggi; su effetti speciali o “magici”; sulla trasformazione degli oggetti. L’utilizzo dei giochi dovrà essere semplice da apprendere e da ripetere; anche per i programmi televisivi e gli spot pubblicitari si dovrà puntare su strutture narrative semplici, prive di salti logici o di riferimenti a situazioni e contesti lontani nel tempo e nello spazio. 12 BERGLER R. “Les effets de la publicité commerciale sur les enfants”, Commissione Europea, Commercial Communication Newsletter n. 16- 17, p. 34 e ss. Le cose cambiano nel periodo successivo, quando un maggiore sviluppo del linguaggio e del pensiero analitico porta il bambino ad abbandonare gradualmente il mondo della fantasia (almeno quello “magico” delle creature fiabesche, di Babbo Natale…) e a preferire giochi e giocattoli più “realistici”. Emerge il bisogno di distaccarsi dal periodo precedente e di proiettarsi verso l’età adulta. Di qui il successo di bambole o pupazzi dalle sembianze “adulte” come Barbie e Action Man. Una maggiore capacità di classificazione porta i ragazzini tra gli 8 e i 12 anni ad amare le collezioni di carte, figurine, gadget da comperare, scambiare, vendere. Vengono apprezzati anche fumetti o altri periodici che oltre a coinvolgere abilità logico-verbali superiori rispetto al periodo precedente, forniscono una quantità di modelli da imitare (eroi, personaggi del mondo dello spettacolo e campioni dello sport). Viene attribuita maggiore importanza alla marca, attraverso la quale si può mostrare uno status sociale, ci si può integrare in un gruppo. Grande successo hanno i giochi elettronici caratterizzati da vari livelli di difficoltà, che implicano la sfida di abilità tra pari. È il periodo in cui dominano il gioco interattivo, il confronto, lo scambio di opinioni su argomenti di interesse comune, la condivisione di hobby e pratiche sportive. Le ragazzine sono attente a ciò che è “di moda”, tengono molto al loro aspetto esteriore e provano un’attrazione irresistibile per gli accessori, da indossare o da far indossare alle proprie bambole. Iniziano a svilupparsi forme più evolute del senso morale, viene messa in discussione l’autorità, ma si tratta ancora di una visione conformistica, legata ai valori affermatisi all’interno del gruppo13. I bisogni essenziali a questa età sono: - essere accettati: la loro autostima è ancora piuttosto fragile, hanno un continuo bisogno di conferme da parte degli altri; - avere successo: mettersi alla prova, dimostrare le proprie abilità, conoscere le regole della società in cui si vive e i modelli da imitare per potersi adeguare. 13 GALAN J.P., “Musique de publicité: une approche expérientielle”, Actes du 15Congrès International de l’Association Française du Marketing, 1999,p. 551-553. A questa età divengono ancora più marcate le differenze sessuali – prima forma di determinazione del proprio ruolo all’interno della società, di riconoscimento in un gruppo, di consapevolezza della propria identità. Una particolare attenzione è rivolta ai personaggi, vero elemento chiave per elaborare una strategia di marketing rivolta ai più giovani. Ogni stadio di sviluppo ha la sua tipologia di personaggio “vincente”. Nella prima infanzia si osserva una predilezione per animali dalle forme arrotondate, ricoperti da soffici piume o da pelo, dotati di un carattere mite e gentile; il loro aspetto innocuo e tenero infonde sicurezza sia nei bambini che nei genitori che scelgono i prodotti da acquistare per loro. Nella fascia 3-7 anni abbiamo una iniziale persistenza nelle scelte dello stadio precedente, con uno spostamento, nell’ultimo periodo, verso personaggi dall’aspetto e dalla personalità più complessa, talvolta aggressiva (specie per i maschi). Dagli 8 anni in poi i personaggi che vengono scelti dai ragazzi diventano sempre più complessi, anche in relazione alle storie di cui sono protagonisti; essi tendono sempre più ad assumere le fattezze ed i comportamenti delle persone reali 14. Tra i vari strumenti illustrati da Acuff per analizzare un personaggio, vale la pena di accennare ad una scheda che permette di rilevarne l’identikit completo, attraverso una ventina di voci che spaziano dalle informazioni generali (sesso, nome, stadio di sviluppo, forma umana o animale, etc.) fino ad arrivare al suo grado di emotività, aggressività, eccitabilità, al tipo di umorismo, ai suoi bisogni essenziali, al suo carattere e al ruolo o allo stereotipo sociale che rappresenta. Ciascuna voce prevede una gamma piuttosto ampia di scelte ed alcune di esse sono a risposta aperta, permettendo di realizzare un profilo davvero “su misura”, fedele alla natura del personaggio, permettendo anche a chi non lo abbia mai visto di farsi un’idea sufficientemente precisa su di esso. Perfino l’identità sessuale è definita sia attraverso la voce “genere” (maschile/femminile), 14 KOTLER P., Il marketing che cambia, Il Sole 24 Ore, Milano, 2002, p. 52 e ss. sia attraverso una scala a cinque gradi di “femminilità/mascolinità”. La gran parte dei personaggi dei cartoni animati, così come le mascotte che popolano moltissime sponsorizzazioni di prodotti (dagli animatori in costume dei parchi di divertimenti alle merendine, dalle mascotte dei mondiali di calcio agli “omini” del detersivo) sono studiati a tavolino e concepiti per evocare precise sensazioni da associare al prodotto. La tigre di Kellogg’s Frosties conferisce ai cereali la capacità di infondere forza fisica, coraggio, grinta; la mucca di Fruttolo con i frutti disegnati sulla pancia suggerisce l’idea che lo snack al formaggio e frutta sia già pronto da mungere; il coniglio di Nesquick, della stessa statura dei ragazzini, è “uno di loro” ma ha anche quel “qualcosa in più” che lo rende indispensabile nel gruppo per uscire dalle situazioni difficili: l’agilità, l’astuzia, l’ingegno. È più facile trasferire le qualità di un personaggio alle qualità di un prodotto piuttosto che utilizzare qualsiasi altra strategia comunicativa; questo vale sia per gli spot per adulti che per bambini, ma è su questi ultimi che i personaggi esercitano un fascino particolare. 2 - La pubblicità versoi bambini effetti non gradevoli. I bambini, come è stato spiegato nel primo capitolo, hanno un bisogno innato di conoscere il mondo, di imparare le regole secondo cui muoversi in esso: per questi motivi fanno facilmente propri quei modelli di vita che possono dare loro delle risposte. La TV in particolare rappresenta quindi una delle fonti preferite da cui attingerle: fa infatti vedere loro il mondo e fornisce soluzioni ai bisogni di felicità e divertimento facili da comprendere e da raggiungere; tutto questo inoltre in modo gradevole e senza fatica, assecondando i loro desideri, a differenza degli insegnamenti dei genitori e della scuola stessa. E’ per questo motivo che i bambini sono uno dei target su cui la pubblicità investe più risorse e riesce ad ottenere anche i maggiori risultati: sfrutta la loro ovvia situazione di “debolezza” sul piano cognitivo ed esperienziale nonché la capacità della TV di attrarli per proporre loro prodotti sempre nuovi. I bambini vengono infatti esposti ad una quantità notevole di spot: da una recentissima ricerca effettuata dalla Società Italiana di Pediatria è risultato che “se un bambino guardasse per due ore al giorno Italia 1 nella fascia oraria compresa tra le 15 e le 18, durante la quale è trasmessa una programmazione specificatamente destinata all'infanzia, quel bambino rischierebbe di vedere in un anno 31.500 spot pubblicitari. […] La situazione non migliora se si prendono in considerazione i tempi: su 15 ore di programmazione di Italia1, 4 sono di pubblicità” 15. Rispetto agli adulti, i bambini hanno poca esperienza diretta del mondo, sono privi di pregiudizi e hanno difficoltà nel distinguere la realtà dalla finzione; verso la pubblicità non hanno quindi un atteggiamento negativo di insofferenza e diffidenza, al contrario: essendo cresciuti con TV e spot pubblicitari questa è sempre stata presente nella loro vita ed ai loro occhi appare quindi come “naturale”. I messaggi poco realistici da essa trasmessi, combinati con la capacità della TV di fornire una rappresentazione distorta della realtà, sui bambini hanno delle conseguenze notevoli. La pubblicità però non si pone tali interrogativi (esiste un Codice di autodisciplina, ma solo in riferimento ai messaggi esplicitamente nocivi) e continua a costruire i suoi spot in modo da venire sempre più incontro ai desideri profondi (e inconsci) del bambino: secondo Marina D’Amato «la pubblicità piace ai bambini perché risponde alle loro 15 CONTE M, Bambini e televisione, 30mila spot all'anno, da “Repubblica” del 29/04/05, p. 74 e ss. esigenze affettive o cognitive primarie. […] Gli spot influiscono sui bambini almeno a due livelli: da un alto esasperano l’egocentrismo e l’individualismo, dall’altro costituiscono un fattore rassicurante di uniformità»16. Infatti, se il mondo reale è fatto di moniti, divieti, richieste d’impegno e di pazienza, di difficoltà e momenti di noia, la TV per i bambini rappresenta un luogo dove rifugiarsi in quanto tutto lì è invece rivolto all’assecondare i loro desideri e le loro fantasie: il mondo, dall’iniezione che non fa male alla famiglia sempre felice, spesso inquadrata in improbabili sfondi agresti, ha i nonni sorridenti, lo scintillio della casa di Barbie, ha le tavole bene imbandite, ha l’intimità della famiglia, ha l’immagine edulcorata di un paese dei balocchi. Più la vita reale è difficile e piena di momenti negativi, più la pubblicità lavora per contrasto e propone un mondo paradisiaco, dove tutto è perfetto. I prodotti pubblicizzati diventano quindi agli occhi dei bambini il mezzo attraverso cui realizzare i propri sogni e riuscire a portare nella vita quotidiana quel mondo; inoltre per far ciò non serve aspettare o fare fatica: è sufficiente andare in un negozio ed acquistare. Nella pubblicità tale messaggio è esplicito e non sottointeso, come può essere negli spot destinati agli adulti: a chi consuma questo prodotto è data la possibilità di entrare in una dimensione della vita altrimenti raggiungibile solo attraverso l’immaginazione. Se nei casi specifici soddisfare il desiderio di un bambino per un prodotto pubblicizzato può sembrare innocuo, col tempo nella sua mente diventa sempre più consapevole l’idea che il fatto di vivere bene, il venir accettato dagli amici sia possibile solo se possiede “quella cosa”. La pubblicità quindi solo apparentemente vende “merce”, in realtà offre rassicurazioni: il prodotto specifico diventa un simbolo, è la chiave d’accesso ad un mondo a parte, «non solo quello del benessere, ma quello che offre una possibilità di appartenenza» 17. I bambini hanno la continua necessità di definire la propria individualità attraverso il confronto con gli altri e si può quindi capire quanto il sentirsi 16 17 KOTLER P., Il marketing che cambia, Il Sole 24 Ore, Milano, 2002, p. 52 e ss. CONTE M, Bambini e televisione, 30mila spot all'anno, da “Repubblica” del 29/04/05, p. 74 e ss. accettati nel gruppo sia importante per loro per non sentirsi “anormali”. Il messaggio che viene dato da tutto il mondo della pubblicità quindi è chiaro: la felicità è qualcosa che si può comprare. Per questo motivo è fondamentale educare i bambini a smontare gli spot pubblicitari, affinché diventino consapevoli del loro fine esclusivamente commerciale: infatti, se vengono abituati a basare la propria esistenza solo sui valo ri della pubblicità, a cercare una gratificazione esclusivamente in quel mondo, la vita reale apparirà sempre più difficile e negativa per loro, con la conseguenza che se prima ricercano una felicità apparente attraverso i prodotti pubblicizzati in seguito potrebbero trovare come risposte altre realtà apparenti quali la droga, l’alcool, le ideologie; la pubblicità contribuisce a mascherare quindi la vera e inesorabile positività del reale, la quale può essere nascosta, ma esiste e va ricercata con fatica e pazienza. I bambini sono in grado di porsi con un atteggiamento attivo verso la TV, e «del flusso televisivo questi giovani consumatori smaliziati salvano solo la pubblicità […] I ragazzi non sono vittime inconsapevoli del mercato: la pubblicità è percepita come un prodotto audiovisivo che ha una dignità espressiva e creativa autonoma, indipendentemente dagli intenti persuasori dei singoli messaggi»18. Premesso che fra le varie forme di pubblicità quella che attira di più l’attenzione dei bambini sono gli spot televisivi, le ragioni che determinano la sua capacità d’influenza e per le quali essa piace, si contraddistingue dai normali programmi, sono molteplici: · la brevità dei messaggi: allo spettatore è richiesta una disponibilità d’attenzione molto breve, ma allo stesso tempo non dà ad esso la possibilità di poter riflettere su ciò che ha appena visto perché ogni spot è seguito subito da un altro; · la semplicità ; · la proposta di situazioni familiari e facilmente riconoscibili: agevola l’identificazione e la riproducibilità dei modelli di comportamento proposti; 18 CONTE M, Bambini e televisione, 30mila spot all'anno, da “Repubblica” del 29/04/05, p. 74 e ss. · la ripetitività: agisce come rinforzo, facilita la memorizza zione e il senso di familiarità; inoltre è il modo tramite cui un messaggio riesce a superare le barriere difensive poste dallo spettatore o la sua disattenzione; · il forte carattere emotivo : poiché ha solo pochi secondi a disposizione, più che far ragionare sul prodotto lo spot deve colpire lo spettatore, facendo leva sulle emozioni, perché quello che conta è la prima impressione; · l’uso di testimonial: danno rilevanza e fiducia al prodotto, attirano l’attenzione; · la tendenza a creare dei mini racconti divertent i e seriali: mantengono costantemente alta l’attenzione verso lo spot, che si guarda più per vedere il seguito della storia o per venir divertiti, ma il messaggio riesce a passare comunque. Non bisogna dimenticare la continua innovazione e la sperimentazione a cui è già stato accennato: in un contesto televisivo all’incirca sempre uguale e ripetitivo, legato a schemi comunicativi già conosciuti e privi di sorprese, la pubblicità si pone come momento in cui l’unica regola è quella di non seguire regole, andando contro le aspettative, gli standard, utilizzando i luoghi comuni per stravolgerli e mostrarli sotto una nuova luce. Il pubblicitario parte dalla società per trasferire negli spot tutti i tic, le nevrosi, le manie collettive, gli atteggiamenti che la caratterizzano: gli spettatori ritrovano quindi parti di se stessi di cui magari non si rendevano conto, ma spostati su un piano più generale ed ironico. «Il repertorio pubblicitario televisivo è un immenso riciclatore di immagini, miti, formule linguistiche.[…] La pubblicità è stata definita “gazza ladra” 19 La gazza ladra s’impossessa di tutto ciò che nel sociale assume o può assumere una qualche brillantezza. Scaglie di stereotipi vecchi e nuovi, schegge di codici e linguaggi, frammenti di valori e modelli di riferimento, purché scintillino, finiscono irrimediabilmente nel colorato sacco della pubblicità. Ma solo per essere restituiti più lustri che mai ai mezzi ci comunicazione di massa. 19 KOTLER P., Il marketing che cambia, Il Sole 24 Ore, Milano, 2002, p. 52 e ss. Perciò la pubblicità allo stesso tempo modifica la società e la rispecchia; esteriorizza il nostro inconscio, anticipa i nostri desideri e per questo è difficile difendersi da essa: riesce sempre a trovare una via per raggiungerci. I giovani sono attratti dagli spot in sé perché piace loro venir continuamente sorpresi, spiazzati dall’ultima idea creativa dei pubblicitari; questo però non significa che il messaggio commerciale di fondo non abbia successo. E’ interessante studiare il linguaggio utilizzato nelle pubblicità perché in esso nulla viene lasciato al caso, ma tutto ha un senso e una sua precisa funzione nella costruzione del messaggio finale. Le tecniche principali di cui i pubblicitari si servono di solito sono 20: · le figure retoriche (artifizi linguistici dove le parole, le immagini, i colori vengono utilizzati con significati diversi da quello letterale) : rima, iperbole, onomatopea, personificazione, sinestesia, neologismi, sillogismi ecc… rendono i messaggi unici e ricchi di significato, creano sorpresa e spiazzamento nello spettatore; · l’uso del colore: ogni colore ha un suo significato simbolico e può suscitare idee e stati d’animo diversi; · le regole del codice visivo : punti, linee, forme, luci, ombre, disposizione delle figure, piani di inquadratura contribuiscono a creare significato; · il rapporto immagine- musica- testo scritto- testo parlato: questi elementi possono rafforzarsi l’un l’altro, contrastarsi, completarsi, ripetersi; · la scelta di locations, attori, abbigliamento: creano identificazione, riconoscimento nonché l’atmosfera emotiva generale dello spot; · l’uso di stereotipi: in poco tempo riescono a caricare di significati un personaggio, un oggetto, una situazione lasciando però che tale operazione venga svolta inconsciamente dallo spettatore Tutti questi elementi vengono combinati fra loro in modo da lasciare un messaggio che più di convincere deve attrarre, deve far coinvolgere i sentimenti, incidere sul ricordo, 20 KOTLER P., Il marketing che cambia, Il Sole 24 Ore, Milano, 2002, p. 52 e ss. dando alla marca un’immagine che diventi sua peculiare, naturale21. Lo scopo ultimo della pubblicità infatti non è tanto quello di riuscire a vendere in grandi quantità un certo prodotto, ma di lavorare sull’immagine della marca, dandole una “personalità” che la contraddistingua dalle altre anche in caso di prodotti simili: negli spot viene quindi fatta leva più su elementi di natura affettiva ed emozionale quali l’affidabilità, la naturalità, la sicurezza, la serietà ecc…, che inizialmente vengono attribuiti alla marca e poi da questa passano naturalmente al prodotto. I pubblicitari realizzano ciò attraverso le cosiddette “campagne”, cioè un insieme programmato e coordinato di iniziative a più o meno lungo termine da attuare servendosi dei vari media e delle tecniche di comunicazione più disparate (spot, promozioni, sponsorizzazio ni, passaparola, sconti…). In riferimento alle pubblicità direttamente rivolte ai bambini si possono ritrovare delle tecniche che le caratterizzano: ad esempio il loro legame con i cartoni animati o i film. L’industria cinematografica e d’animazione lavora infatti a stretto contatto con i produttori di prodotti per bambini (dai giocattoli agli alimentari all’abbigliamento) creando dei mondi, dei personaggi che poi diventeranno “reali” grazie alla pubblicità; il palinsesto televis ivo dei canali che trasmettono cartoni animati è costruito in modo che nelle pause pubblicitarie vengano trasmessi degli spot in cui si vedano dei bambini che giocano con i personaggi del cartone animato appena visto: in questo modo la storia pare continui ancora e, anzi, diventa realtà concreta, acquistabile, rendendo assai labile il confine fra “realtà” e finzione ; se tale coincidenza temporale non è possibile vengono utilizzate nello spot brevissime sequenze tratte dal cartone di riferimento 22. Analizzando queste pubblicità si nota la strettissima interconnessione tra i due: gli spot presi da soli infatti sono assai scarni, non hanno una particolare ricchezza emotiva, ENZENBERGER H.N, Per non morire di televisione, Milano, Lupetti 1991, p. 78 e MORCELLINI M., “La tv fa bene ai bambini”, Meltemi, Roma, 1999, p. 178 e ss. 21 22 d’informazione o anche solo creativa e il motivo sta nel fatto che ciò lo si può già ritrovare nel cartone animato; lo spot cioè non deve convincere della “grandezza” di un personaggio, ma solo renderlo concreto. Questa tecnica rientra nella strategia pubblicitaria accennata nel paragrafo precedente: come viene fatto con la marca, sfrutta infatti la capacità del cartone animato di creare emozioni per trasferirle nel prodotto senza che lo spettatore se ne renda conto, sempre basandosi su quell’effetto di “naturalezza”. 3 – I bambini: comportamenti d’acquisto ed effetti non gradevoli. La diffusione di un mezzo di comunicazione tanto potente come la televisione genera, dapprima negli Stati Uniti, in cui la diffusione degli apparecchi televisivi è più capillare e successivamente nel resto del mondo, un interesse senza precedenti circa le conseguenze del suo uso (e abuso) sui processi cognitivi, sulla formazione delle credenze, sulle modificazioni indotta nei costumi e nei valori, sui rapporti interpersonali, sulle modificazioni nella percezione della realtà 23. L’idea di uno spettatore passivo e malleabile di fronte a qualsiasi tipo di messaggio, purché quest’ultimo sia veicolato dallo schermo, trova terreno fertile sia negli ambienti 23 PUGGELLI F., “Spot generation. I bambini e la pubblicità”, FrancoAngeli, Milano, 2002, p.45 accademici, sia nell’opinione comune. Se l’informazione intesa come servizio - quella giornalistica, per intenderci - è considerata (almeno teoricamente e, senz’altro, con una buona dose di ingenuità) obiettiva, realistica, garantita da una serie di regolamentazioni e dall’etica professionale di chi la produce e diffonde, l’informazione commerciale, per sua natura “di parte”, è fin dal principio oggetto di pesanti denunce sotto il profilo etico-educativo, molto più di quanto non lo siano state in passato le réclames dei manifesti o le inserzioni sulla stampa periodica. Eszenberger 24 nel 1991 ha elaborato una sintesi delle critiche rivolte alla pubblicità riconducendole a quattro varianti fondamentali: tesi della manipolazione (con argomentazioni simili a quelle appena ricordate di Packard); tesi dell’imitazione, che accusa la pubblicità di essere responsabile della perdita dei valori morali da parte della società; tesi della simulazione, che attribuisce alla televisione il potere di confondere verità e finzione agli occhi dello spettatore; tesi dell’istupidimento, che ipotizza uno spettatore ormai spogliato della propria identità e incapace di reagire autonomamente agli stimoli 25. In realtà queste varianti si assomigliano molto, se non fosse per un diverso grado di intensità attribuito al potere alienante della pubblicità sulle facoltà critiche dell’individuo. Potremmo tentare un altro tipo di suddivisione, altrettanto generica ma forse più efficace, tra le tesi che riguardano la manipolazione della società e quelle che riguardano gli effetti sull’individuo. Sull’influsso della pubblicità sui bambini è stato scritto moltissimo, essendo opinione diffusa che essi costituiscano la porzione di pubblico più vulnerabile, dunque da proteggere. Riassumiamo qui le principali tesi riguardanti il rapporto tra i piccoli spettatori e il potere persuasorio dei media, riportando all’inizio di ogni paragrafo una frase che sintetizzi l’idea centrale, esaminando poi le varie implicazioni di ciascuna. ENZENBERGER H.N, Per non morire di televisione, Milano, Lupetti 1991, p. 78 e ss. ZANACCHI A., “Vent’anni di ministorie: il caso Carosello”, Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 1986, p.132 24 25 Secondo questa tesi, prima di aver raggiunto una certa soglia di sviluppo i bambini non sarebbero in grado di rendersi conto se ciò che stanno guardando sia un programma televisivo o uno spot pubblicitario. Goldstein26 sostiene che non esista un’età critica dopo la quale il soggetto è in grado finalmente di comprendere la pubblicità ed arriva ad affermare che, sotto certi punti di vista, neppure molti adulti ne siano capaci. Comprendere le intenzioni comunicative di qualcun altro implica anzitutto la consapevolezza dell’altro, in altre parole il superamento di quella che Piaget ha definito “fase egocentrica” in cui il bambino non riesce ancora a separare il proprio punto di vista da quello delle persone che lo circondano 27. La capacità di rendersi conto che l’intento della pubblicità è quello di persuaderci a comprare qualcosa è di solito collocata in una fase successiva a quella in cui semplicemente si distingue lo spot dal programma. Esiste 26 GOLDSTEIN J, Children and television advertising. The research. UE, Commissione Europea, luglio 1998, p. 78 e ss. 27 L’accezione piagetiana di egocentrismo ha un significato differente da quello normalmente attribuito a questa parola nel linguaggio comune. La sua specificità non è determinata dal comportamento sociale che ne consegue, né dalla mancanza di consapevolezza del sé; si tratta di “una sorta di illusione inconscia e di prospettiva” di natura puramente cognitiva. Alla base di questa incapacità di relativizzare la realtà ci sarebbe da un lato (per così dire “esterno”) un’“ignoranza” del bambino rispetto al mondo che lo circonda, una mancanza di conoscenze adeguate (Piaget fa l’esempio di un uomo che, essendo sempre vissuto nello stesso luogo, si rappresenti il mondo come un sistema che abbia lui stesso per centro); dall’altro, all’interno, esisterebbe “una sorta di centrazione primaria del pensiero” derivante dall’ignoranza sopra descritta ma riguardante un sistema di interpretazione all’interno delle strutture mentali del soggetto. Quello che Piaget chiama “egocentrismo intellettuale” è “un atteggiamento spontaneo che domina l’attività psichica del bambino ai suoi inizi e che sussiste tutta la vita [corsivo nostro] durante gli stati di inerzia mentale”. All’incapacità di dissociare ciò che è s oggettivo in lui dall’oggetto (sia esso un elemento inanimato o un’altra persona) deriva una spiegazione del mondo basata sulla sua ercezione (fenomenismo) e sulle sue caratteristiche personali (animismo, finalismo). Egli attribuisce alle cose gli stessi sentimenti e motivazioni che attribuisce a se stesso. L’egocentrismo sociale è descritto da Piaget come “un caso particolare dell’egocentrismo epistemico [detto anche intellettuale]” per cui il bambino “mescola il suo io con la rappresentazione degli altri”. Questo non impedisce al bambino di interagire con le altre persone, soltanto che lo fa esclusivamente dalla sua prospettiva, senza sapere in effetti cosa sia una prospettiva, concetto che non può esistere in chi non ha idea del fatto che qualcun altro possa pensare e sentire diversamente da lui. Perciò “lo spirito egocentrico è molto più accessibile alle suggestioni ambientali e alle costrizioni del gruppo che non lo spirito disciplinato dalla cooperazione: in quanto si ignora lui stesso, infatti, lo spirito egocentrico non giunge alla coscienza della sua personalità. Così vediamo che il bambino presenta il massimo di suggestibilità alla stessa età in cui presenta il massimo di egocentrismo”. La fase egocentrica secondo Piaget durerebbe fino all’età di circa 7 anni. tuttavia una notevole confusione su come questa capacità debba essere definita. Jarlbro ne cita alcune più o meno generiche, tra cui “comprendere che le persone che producono la pubblicità hanno interessi differenti da quelli delle persone a cui si rivolgono”; “comprendere che la pubblicità non è obiettiva”; “capire che la pubblicità ha il fine di persuadere”; “trattare le informazioni ricavate dalle pubblicità in maniera differente rispetto a quelle trasmesse dai programmi”. 4 - Un caso: Carosello , storia e tecniche utilizzate. Ragazzi e bambini erano tra i maggiori sostenitori del Carosello, molto attenti a ciò che lo show televisivo offriva loro. I personaggi, accompagnati ognuno dalle sue storie, riuscivano a far innamorare ogni piccolo spettatore. Le componenti di così grande successo del “Carosello” furono proprio la formalità, la brevità, la semplicità, la ripetitività ed il tradizionale lieto fine; questo schema, facilmente comprensibile anche ai più piccoli fruitori, facilitava i processi di esposizione e di memorizzazione. Come osserva Calabrese28 furono proprio i limiti tecnici a decretare il successo del Carosello tra i più piccoli: “estrema rigidità e stereotipicità della formula, e reale iterazione del racconto” riprendendo gli aspetti ripetitivi della fiaba, tanto cara ai bambini. Sono proprio i cento secondi senza la pubblicità (cioè senza il codino), che costringevano i realizzatori all’invenzione di brevi ma efficaci racconti, che dovevano rassicurare il 28 CALABRESE O., “Il fenomeno Carosello”, in “Sipra” num 6, 1999, p. 45 e ss. bambino, soprattutto attraverso la ripetitività, proiettandolo in una dimensione ludica Nel piccolo mondo del Carosello erano rappresentati i due tipi di spettacoli più amati dal pubblico: gli sketch comici con personaggi noti ed i cartoni animati; furono proprio quest’ultimi, ad entusiasmare maggiormente i più piccoli. Questi personaggi inventati o presi in prestito da altri paesi, diventarono così popolari che i realizzatori decisero di far loro prendere forma, diventando pupazzi in “lattice ed ossa” e concretizzando così il messaggio pubblicitario, che trasformava in oggetto di consumo. Il segreto del successo di “Carosello” può essere attribuito alla capacità di comprimere, in un piccolo racconto d’autore, messaggi e storie di senso compiuto, spesso non pertinentirispetto alla proposta pubblicitaria del codino, ma affini alla programmazione teatrale. Il Carosello per vent’anni è riuscito ad attrarre grandissime masse di pubblico; era un’arma potentissima, ma non sfruttata al meglio sotto l’aspetto dell’efficacia sul mercato. L’attenzione era incentrata sullo spettacolo che produceva il “Carosello”, trascurando così quello che era il vero messaggio pubblicitario (il codino): questo provocò un malcontento generale tra le imprese che non avevano alcun beneficio in termini d’incremento di vendite. Un esempio eclatante è rappresentato dal personaggio più famoso di Carosello: Calimero, il pulcino nero. Quest’ultimo ha fornito un forte contributo all’identità della marca del detersivo “Ava”, ma non al suo mercato di allora, fortemente sconfitto dai concorrenti, anche se con campagne meno famose. La “Mira Lanza”, infatti, vendeva abbastanza bene non in merito alla pubblicità, ma grazie a massicce promozioni nei negozi, agganciate ad una raccolta di “figurine”. Negli ultimi tempi Calimero è riapparso nelle trasmissioni televisive e negli spot perché, secondo ricerche di mercato effettuate tra il 2006 ed il 2007, il pubblico vuole ritrovare i personaggi disegnati che ricordano con simpatia e nostalgia. Oltre a questo lato malinconico, esiste una chiara strategia di posizionamento della marca nella rappresentazione di valori come la tradizione e la continuità negli anni. L’attuale ricorso a personaggi come Calimero o Carmencita presumibilmente nasconde però una crisi di creatività dei pubblicitari, che cercano di nascondersi dietro ai legami profondi che alcune generazioni di attuali potenziali consumatori hanno ancora con i personaggi di Carosello.