IDC 20 - Dic-Gen 07

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Sped. in Abb. postale 45% - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N. 46) ART. 1, COMMA 1 - FilialeI Padova dcB - Euro 2,50
In caso di mancato recapito rinviare all’ufficio Postale di Padova Cmp detentore del conto per la restituzione al mittente che si impegna a pagare la relativa tariffa
Giugno 2008
Periodico di informazione del Consiglio Direttivo dell’Unione Nazionale Imprese di Comunicazione
Anno VI - N° 31
L’intervista
Davide Rampello.
Se la pubblicità va male
la colpa è solo nostra
uni com
UNICOM
SOMMARIO
EDITORIALE
EDITORIALE
Essere sè stessi
di Pasquale Diaferia
Seminari - Il Digital marketing
Benvenuti in Unicom
2
3
L’INTERVISTA
Rampello. Se la pubblicità va male
la colpa è solo nostra
di Pasquale Diaferia
5
ALTRI SGUARDI
Comunicare condividendo
e non imponendo
di Renato Sarli
9
OPINIONI
Ambiente. La lezione di Federico
11
di Gargamella
Fornitori della Real Casa...
12
di Alessandro Colesanti
... o consulenti sull’orlo
13
di una crisi di nervi di Lorenzo Strona
Abbiamo toccato il fondo
di Renato Sarli
DIRITTO E COMUNICAZIONE
Parmigiano vs Parmesan
di Fiammetta Malagoli
15
CREATIVITA’
Il Made in Italy della comunicazione 16
di Stefania Salucci
SCENARI D’IMPRESA
Destrutturare. Può essere
21
la soluzione? di Alessandro Colesanti
Responsabilità sociale e PMI.
23
di Claudio Avallone
MANAGEMENT D’AGENZIA
Il mestiere di managerdi Guido Nanni 25
CONSUMI E SOCIETA’
McLuhan. Il padre del villaggio
globale di Derrick de Kerckhove
26
Questo numero è stato chiuso il 11/06/2008
NUOVA COMUNICAZIONE
Quando la pubblicità inquina
30
di Angela D’Amelio
31
Maledetti SUV di Gargamella
Emetrics Summit. Presente e futuro 32
della web analytics di Mauro Canzian
Non chiamatela pubblicità occulta 33
di Stefania Salucci
Essere sè stessi
Questo numero va in distribuzione al
Festival Internazionale della Pubblicità
di Cannes. E’ stato confezionato pensando a quel gruppo di delegati italiani
un po’ snob e parecchio annoiati che
tutti gli anni ciabatta sulla Croisette,
piagnucolando. Non vinciamo mai
niente, dicono. E’ colpa dei clienti, ribadiscono. Saremmo anche bravi, ma
non ci danno la possibilità, si giustificano. E’ la cultura delle tv commerciali
che ci strangola, azzardano. E poi c’è
poco respiro internazionale, concludono con un sospiro. Irrilevante che questa litania venga soprattutto da gente
che milita in compagini multinazionali, con ampi margini di autonomia, cresciuta grazie a Mediaset, ma spesso al
Martinez a spese di Sipra. Gente che
ancor più spesso, quando è in una giuria internazionale, sega senza pietà il
lavoro dei compatrioti perché “meglio
non vincer niente, che dare un premio
a quello lì”.
Per questo abbiamo deciso di non
lasciare spazio a questi piagnucolosi.
Copertina e pezzi portanti sono dedicati ad alcuni italiani che, senza lamentarsi di lavorare in questo paese, sono
stati capaci di guadagnarsi reputazione
non solo nazionale. Nei rispettivi campi, sono punti di riferimento. Che si
tratti del presidente di un ente pubblico che da solo tiene in piedi la cultura
del design e dell’immagine tricolore. O
di direttori creativi capaci di imporsi
come creativi italiani, prima che globali. Piuttosto che produttori che da anni
investono solo su nostri talenti registici, e sono riusciti ad imporli non solo
da noi, ma anche all’estero.
Lo stesso vale per registi, attori, direttori della fotografia, copywriter, art director e, ovviamente, clienti, italianissimi,
ma superpremiati negli altri continenti.
Sono la dimostrazione pratica che non
serve genuflettersi davanti ai finanzieri
inglesi, che non si deve soffrire di complessi di inferiorità davanti ai creativi
americani, che non servono registi taiwanesi per esprimere i nostri sentimenti. Basta solo essere noi stessi, come
splendidamente raccontano quegli italiani che quest’anno hanno vinto valanghe di premi creativi all’estero con il
film della Scuola Paolo Grassi. O come
ribadisce Davide Rampello, presidente
di Triennale Milano. Se la situazione
non è bella, è solo colpa è nostra. Se
migliora, è solo merito nostro.Vale per
la pubblicità. Ma vale per tutto il resto
della nostra “coriandolizzata” società.
Perchè noi italiani possiamo farcela.
Anzi, ce l’abbiamo già fatta. Senza
guerre generazionali, scontri globali,
povertà locali, contratti truffa, paura del
domani. Siamo ottimi creativi, senza
scuse di nessun tipo. Dobbiamo solo lavorare, senza pensare ai passeggiatori
della Croisette.Anzi, visto che ci siamo,
cominciamo a far notare loro che i veri
rappresentanti dell’Italia siamo noi indipendenti, gli italiani creativi e pieni
di orgoglio, coscienti delle proprie qualità. Probabilmente Impresa di Comunicazione a Cannes sarà l’unico giornale ad affrontare il tema. Ma questo, lasciatemelo dire, non è per niente un
male. E’ solo essere Sé Stessi.
Pasquale Diaferia
HIGH-TEC
I nuovi drive da VD
VD VelociRaptor di Mario Modica
36
MOSTRE
Ornatissimo Codice a Urbino
Luciano Ventrone a Chivasso
37
INCONTRI
Jorge Luis Borges
38
LETTURE
Stefano Livadiotti - L’altra casta
2 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08
39
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Seminari Unicom. Il Digital Marketing
La seconda tappa dei “Seminari di aggiornamento professionale” Unicom è
stata dedicata ad uno degli argomenti
più dibattuti recentemente nel nostro
mondo: il “Digital Marketing”.
“New & classic marketing: un’alleanza
possibile” è il titolo dell’incontro riservato agli Associati che si è svolto presso la Sede Unicom il 7 maggio scorso.
Sotto la brillante conduzione di Sergio
Poma e Stefano Saladino – Agenzia
8Com – l’incontro ha visto la partecipazione di numerosi Associati che
hanno attentamente seguito gli interventi dei relatori e partecipato al vivace
scambio di opinioni che ha concluso la
giornata.
Il Direttore Claudio Breno e Sergio
Poma hanno introdotto i lavori sottolineando che “Web 2.0” è spesso oggetto di interpretazioni e valutazioni
entusiastiche oppure denigratorie, in
particolare riferendosi ad alcune sue
utilizzazioni “modaiole”, ma, comunque, è un mezzo un po’ più complesso
dei tradizionali, la cui conoscenza può
tuttavia offrire concreti vantaggi competitivi alla Imprese di comunicazione
che sanno meglio destreggiarsi nei suoi
meandri. La possibilità di interazione “a
due vie” tramite Internet, pur se ripulita dai forse eccesivi entusiasmi del recente passato, può infatti aprire modalità nuove di comunicazione applicabili
sia a completamento dei metodi classici che a schemi integralmente operanti sul Web. Da qui l’opportunità di
conoscere meglio i trends di mercato e
le più recenti forme di utilizzo degli
strumenti di digital marketing.
Il successivo intervento di Andrea
Santagata – Responsabile Marketing
del Gruppo Banzai – ha presentato
importanti, dettagliati ed aggiornati dati sulla diffusione di Internet in Italia,
comparandola con quella di altri Paesi,
non solo in termini numerici ma, soprattutto, analitici fornendo informazioni sulle tendenze riferite a target
differenziati.
Dalle informazioni fornite sono
emerse indicazioni particolarmente
utili all’individuazione dei profili di
utenti più sensibili ad essere raggiunti
dai messaggi di comunicazione tramite
Web ed all’opportunità offerte dalle
pianificazioni di campagne di advertising online.
Stefano Saladino ha poi illustrato come
un corretto utilizzo della “web analitycs”, cioè l’analisi delle principali sorgenti di traffico di un sito (attività di
navigazione, transazioni on line, le performance dei server, parametri di
usabilità, conversioni, etc.), possa essere
utilizzata per l’ottimizzazione delle
performance e il miglioramento dell’esperienza di navigazione.
Inoltre la web analitycs può essere utilizzata per integrare positivamente anche le campagne advertising classiche
consentendo una valutazione oggettiva, e non più solo soggettiva o epidermica, dei risultati e può anche fornire
alla agenzie un argomento di vendita
professionale ai loro clienti sempre
ovviamente sensibili a misurare il ritorno dei loro investimenti.
Il momento più simpatico e coinvolgente del Seminario è stato merito di
“Bigio l’Ostér”, personaggio gradevolissimo ed esuberante titolare di un
ristorante, situato sulle colline di
Bergamo in un luogo difficilmente
raggiungibile e pressoché sconosciuto,
in cui, oltre al menù ricco di vivande
rigorosamente genuine e naturali di
provenienza autoctona, offre momenti
culturali e di intrattenimento che
hanno ottenuto riconoscimenti anche
internazionali. La sua popolarità ed il
suo successo sono dovuti in buona
misura anche all’utilizzo di Internet
che gli ha consentito di farsi conoscere,
di costruire un file di “affezionati” da
informare e “convocare” ai suoi “riti”
(così li definisce) e di permettere una
corretta gestione delle prenotazioni,
superando le indubbie grandi difficoltà
logistiche che la sua collocazione
comporta.
Un caso quindi dove una cultura apparentemente lontana dal Web ha
trovato nel Web stesso il mezzo idoneo
per raggiungere i suoi obiettivi.
In conclusione Saladino, oltre a inquadrare le diverse visioni sul termine “Digital Marketing”, ha elencato molte
delle ormai innumerevoli applicazioni
offerte da “Web 2.0” ed illustrato in
dettaglio le più importanti fornendo
esempi pratici di possibili loro utilizzi
chiarendo peraltro che una loro completa conoscenza è impossibile ma sottolineando anche l’importanza per le
Imprese di comunicazione di sapere
“quali” funzioni possono essere realizzate piuttosto che “come” realizzarle,
attività per cui il rivolgersi ad esperti
rimane la soluzione più opportuna.
Al termine tutti hanno convenuto che:
“Web 2.0 - se lo conosci non lo eviti”
è stata la frase sintesi dei lavori del Seminario, un incontro che ha fornito ai
partecipanti gli stimoli per aggiungere
nuove competenze al loro bagaglio e
per presentarsi ai clienti con proposte
aggiornate e professionalmente più
complete atte a dimostrare la costante
volontà di essere riconosciuti come
consulenti globali di comunicazione.
Il prossimo appuntamento “Sono solo
scatolette?”, fissato per il 19 giugno,
sarà incentrato sul packaging e sul suo
valore in termini di comunicazione.
Claudio Breno
Benvenuti in Unicom
Il Consiglio Direttivo ha accolto la domanda di ammissione di una nuova associata alla
quale la redazione de L’Impresa di Comunicazione porge un caloroso benvenuto:
STUDIO GHIRETTI & ASSOCIATI (Roberto Ghiretti)
Società di consulenza in organizzazione, marketing e comunicazione sportiva.
43100 Parma - Via Emilio Casa, 7/2A - Tel. 05211911411 - Fax 05211911499
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3 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 30 / 08
L’INTERVISTA
Davide Rampello.
Se la pubblicità va male
la colpa è solo nostra
Il Presidente della Triennale ritiene i pubblicitari
“artisti del mondo della merce”, in balia di committenti
“presuntuosi che pensano di sapere tutto”.
Ma, alla fine, la colpa è di tutti gli attori in scena.
Perchè senza responsabilità, non si migliora.
Nella vita, come nella pubblicità.
Ha portato la creatività italiana nel
mondo, fino a Tokio. Ha aperto il Museo del Design a Milano, città che si era
dimenticata di esserne la capitale. Si è
inventato Triennale Bovisa senza una
lira pubblica, e ne ha fatto uno straordinario laboratorio di sperimentazione. Ha appena presentato il progetto
per il Museo di Arte Contemporanea
che manca da sempre a Milano, meravigliosamente firmato Lieberskind.
Partito dalla televisione commerciale, è
diventato il colto punto di riferimento
di una città ex industriale. Che dovrà
diventare luogo di pensiero, sopratutto
in prospettiva Expo 2015.
Davide Rampello ci riceve nel suo
ufficio al terzo piano dello splendido
palazzo inizio ‘900 di viale Alemagna.
Fuori dalla finestra, Parco Sempione
splende in una di quelle giornate in cui
Milano rischia di sembrare più bella di
qualsiasi altro posto al mondo. Solo per
pochi minuti, in verità. Poi arriva e si
comincia.
Gli chiediamo un’opinione, in tempi di
“Magra Cannes”, sul perché il movimento della reclame nazionale non abbia una reputazione all’altezza dei designer italiani, che pure sono cresciuti
nella stessa incubatrice ed hanno mangiato lo stesso risotto.
Accetta la sfida con il sorriso sornione
del cliente che ha approvato la pluripremiata campagna TBV che in queste
pagine. E se chiedevamo il parere di
uno specialista della cultura dell’immagine, lui ci porta immediatamente a
leggere la nostra comunità con un ottica più ampia, dalla prospettiva profondissima, avvolgente come una spirale.
“La pubblicità è in difficoltà non per i creativi, ma per la committenza. I clienti italiani sono pressappochisti, dei presuntuosi che
pensano di sapere tutto. Questo è un danno
perché un creativo in una situazione di
dipendenza psicologica non ha libertà. Gli
manca il confronto, che è la possibilità data
a 2 persone di creare dialetticamente.
Quando il committente pensa di sapere
tutto, è già un errore. C’è la presunzione, la
convinzione di possedere a priori tutte le
chiavi.
Invece creatività, idee, innovazione sono
legate alla tensione quotidiana, alle emozio-
ni, alla libertà di pensiero, all’ascolto. È
composta dal quotidiano. Noi nasciamo e
moriamo tutti i giorni alle cose. In questa
rinascita sta il segreto.”
Molti dei nostri quaranta lettori penseranno di aver aperto il giornale sbagliato. Ma Rampello queste cose le dice anche agli imprenditori che gli finanziano i musei, le mostre, le missioni all’estero. Quindi seguiamo il flusso
delle sue idee.
“Per questo ritengo che la formula per migliorare il rapporto clienti/creativi esista: è
rinnovare.
Che cosa? Prima di tutto noi stessi. Si continua a parlare di innovazione, far rete, sistema. Ma per questo ho bisogno della disponibilità dell’altro. Ho bisogno di un’elemento fondamentale: Generosità!
Invece quello che caratterizza questi anni è
il suo esatto contrario. Manca slancio, non
c’è rete, non funziona nulla, semplicemente
perché non ci sono più uomini, solo uomini
finti.Tutti interpretano un ruolo: il cliente,
il creativo, l’account. Questo determina teatralizzazione che è vecchia già mentre la si
mette in scena. In tutte le industrie, come
nella vostra, ci si concentra sull’Io, non sul
Sé. Prevale l’Egotismo, assieme all’Egoismo. Pochi vanno alla ricerca di sé stessi.
Ma qualsiasi disegno progettuale fallisce se
non si confronta con un senso profondo di
umanità, del sé e dell’altro da sé.
Altrimenti ogni forma espressiva si irrigidisce e diventa accademia.”
Accademia. Penso ai commenti che,
nel corso degli ultimi vent’anni, hanno
sempre fatto i colleghi stranieri davanti alle reel tricolori: “Voi italiani siete
fantastici nel produrre in modo qualitativamente impeccabile il nulla. Ma
quello che conta sono le idee. L’esecuzione viene dopo”.
Rampello si aggancia al volo.
“Appunto. Succede quando manca Libertà
Creativa. La Pubblicità è fatta di Idee
Nuove. Per produrle, il pubblicitario deve
reinventare in continuazione sé stesso, l’oggetto della sua speculazione, l’immaginario,
il mondo. E chi crea nel mondo delle merci
è un artista. Come il pittore usa il colore, il
pubblicitario ha le merci per esprimersi.
Raggiunge, quando glielo si concede, creatività tale da cambiare le cose. Perché l’arte,
5 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08
L’INTERVISTA
come la scienza, muta il senso delle cose. Se
non ottiene quest’effetto, è solo accademia,
smaltata e inefficace.”
Verissimo. Basta ripensare a quello che,
al contrario, il design italiano ha fatto
negli ultimi 50 anni.
“Si, ma affrontiamo qualcosa che è precomunicazione. Desing è sopratutto strumento per affrontare i problemi, è essenza
della progettazione, è cultura del progetto.
Coltiva il modo di approcciare i problemi, è
strumento per affrontare e risolvere la realtà,
è una mentalità, è prima di tutto un modo
d’agire. La pubblicità, la comunicazione
commerciale, diventa conseguenza di questa
progettualità. Certo è sempre Arte del Fare,
dell’Intelligenza che cambia senso del
mondo. È una visione religiosa, lo so. Ma
se vi prendete la briga di esaminare l’etimo
di religione, e quello di sacro e di sacrificio,
che dal precedente derivano, capirete che è la
tensione alla lontananza, all’arrivare a
qualcosa di lontano, di altro da noi, la vera
molla di tutte le attività intellettuali e creative, la causa della fatica e del dolore che produce il cambio di senso del mondo. Invece
oggi tutti pensano che la vita sia facile, mentre non lo è per niente. Serve generosità,
intelligenza, sacrificio. Ma la cultura, quella
dei committenti, come della gente normale, è
orientata verso il voglio tutto, subito, senza
fatica. I risultati sono sotto gli occhi di
tutti.”
Mi sembra di risentire Bill Bernbach,
che in tempi non sospetti incalzava gli
operatori della comunicazione di massa. Non dimenticate che influenzate la
società. Potete farla salire ad un livello
più alto, o gettarla lì in basso, nel fango.
“Ottimo. Questo però genera una riflessione su come si migliora la società. Io penso
che esistano gli uomini, non la società. Cominciamo a migliorare sensibilità, intelligenza, preparazione degli uomini. Sviluppare i
talenti dei figli di Dio è compito di tutti. E
se la situazione è questa, analizziamo le
cause, non cerchiamo le colpe. Certo, tra le
principali ci sono i mezzi di comunicazione
di massa. Ma non dimentichiamo che se da
una parte del pendolo c’è la Cultura del
Mercato con i suoi danni, dall’altra c’è lo
Stato Educatore e Controllore Totale. Prima
di cadere nella tentazione dello statalismo e
dei suoi pericoli, ricordiamo che dovrebbero
essere attive e vive reti come la scuola e la
famiglia, che sono fondamentali nella costruzione di uomini migliori, e di conseguenza
dei loro valori, delle loro pratiche.Tutto deve
cominciare da qui. Gli uomini possono migliorare solo partendo dal senso di responsabilità. Come dice un proverbio veneto che
amo sempre citare “il capitan de la nave
g’ha sempre torto”, è sempre colpa sua, che
ci sia la tempesta, che cada l’albero, che un
marinaio finisca in mare. Lui avrebbe dovuto pensarci. Ogni uomo è capitano di sé stesso, quindi è sempre colpa sua. La responsabilità è individuale. Anche qui l’etimo illumina. Responsabilità viene da Res Pondus,
il peso delle cose. Essere responsabili significa imparare a portare sacchi sulle spalle, ad
Essere Capitani di Sé Stessi. La ricerca del
sé è la responsabilità di ognuno di noi. Impariamo questo, e miglioreremo la società. E
magari anche la pubblicità.”
Insomma, i committenti italiani saranno anche i peggiori del mondo. Ma se
non siamo abbastanza bravi da farli crescere assieme a noi, la colpa è nostra.
Grazie Davide. Non mi hai regalato
solo un titolo d’effetto per la copertina.
Anche un proposito per il futuro.
Mettersi questo peso sulle spalle, e provare a migliorarsi anche se la fatica è
doppia. Come dimostrano alcuni creativi italiani di successo nelle prossime
pagine, se si impara a soffrire, a migliorarsi, quando poi arrivano i risultati la
soddisfazione è doppia. Senza alibi, è
più chiaro l’obiettivo ed il modo di
raggiungerlo.
Nella pubblicità, come nella vita.
Pasquale Diaferia
[email protected]
6 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08
ALTRI SGUARDI
Comunicare
condividendo
e non imponendo
A colloquio con Elisabetta Brusa, regista teatrale,
docente universitaria, eclettica, appassionata e curiosa
come devono essere i veri intellettuali.
Betta Brusa è una bella signora veneziana che colpisce subito per la freschezza dei suoi modi e per la capacità
non comune di sorridere di sé, di mettere e mettersi in discussione. Ho chiesto questo incontro per un motivo semplice: nella ricerca di confronto con
professionisti, artisti, imprenditori che
siano in grado di fornire spunti al mio
lavoro di creativo, ho trovato in Betta
Brusa una corrispondenza forte con il
mio modo di pormi nei confronti del
lavoro che svolgo.
“Betta, forse troverai azzardato il paragone, ma secondo me, un copywriter e
un regista hanno in comune molto. Entrambi devono immaginare o cercare
storie per proporle a un pubblico.
Entrambi devono costruire un mondo
e far interagire persone, personaggi, situazioni rendendole comprensibili in
una sintesi che tenga conto dei linguaggi del pubblico, del tempo a disposizione, creando una messa in scena
che sia in grado di affascinare. Cosa ne
pensi?”
“Occupandomi prevalentemente di teatro,
non posso non sottolineare alcune differenze. Certo, entrambi elaboriamo storie, creiamo scene, diamo forma all’invisibile, ma io
rispetto a te mi pongo il problema del contatto con il pubblico. Cosa che credo non sia
vera per chi fa pubblicità. Poi c’è un altro
punto che trovo sostanziale. Il teatro è per
sua natura estremamente fragile. Il giorno
della prima si può ammalare uno dei protagonisti. Allora debbo sostituirlo. Il pubblico
potrebbe non cogliere la differenza, ma il
regista sì! Un pubblicitario può correggere,
così come può farlo un regista cinematografico, uno scrittore. Hanno il controllo di ciò
che realizzano, fin nei dettagli, se vogliono.
Un regista teatrale no.”
“Tu sei particolarmente attratta dai
giovani. Immagino per la capacità di
affrontare linguaggi nuovi, di comprendere con maggior velocità, per l’energia che comunicano e assorbono.
Molti sui giovani sono pessimisti, dicono che la loro visione è ristretta, che
non hanno amore per la cultura, che
sono amorfi e passivi. Qual è il tuo parere?”
“Per me lavorare con i giovani è essenziale.
Mi consentono di dare un senso al mio studio, di tramandare un’esperienza. Quotidianamente mi confronto con giovani, in
università e sento una forte differenza tra
il mio approccio all’arte e il loro. Io ho nei
confronti dell’arte un rapporto sacrale. Se
penso all’arte penso a Michelangelo, a Mantegna o alla deposizione del Cristo…
Come dicevo prima, l’arte è un modo di dar
forma all’invisibile, perché ognuno legga in
sé e trovi il proprio invisibile. Riguardo al
rapporto dei giovani con l’arte e con la cultura non credo che si possa e debba generalizzare.
Molti ragazzi hanno difficoltà a mettersi in
relazione con l’arte, a riconoscerne i valori,
così come hanno difficoltà a riconoscere
anche altri valori. Sicuramente concorrono a
questo la quantità di informazioni disponibili, il numero elevato di messaggi che ci
aggrediscono da ogni dove e non abbiamo (e
non solo i giovani) più il tempo di selezionare, di discutere, di valutare…
Il computer è diventato quell’oggetto che
separa la nostra storia dalla loro. Tra qualche generazione probabilmente le età si cancelleranno più facilmente e con esse le
distanze, le incomprensioni.”
“Beh, a questo proposito, mi viene da
pensare agli “artisti-opera d’arte”.
Penso a Duchamp a Manzoni, a Dalì,
che con forte spirito di irrisione hanno
creato per primi questo mito, partendo
dal far assurgere a opera d’arte gli
oggetti comuni, la banalità quotidiana.
Per poi arrivare a trasformare essi stessi in opera d’arte…”
“Forse la cosa tragica è che oggi che il pubblico ha minore senso critico, ci sono personaggi che si spacciano per artisti giocando su
questo aspetto e avvalorando le proprie posizioni urlando. E chi urla di più viene accreditato. Ma io credo che siamo arrivati alla
saturazione. Proprio in questo momento
bisogna a mio avviso sussurrare, ripensare
insieme. Siamo tutti abituati a subire, a
essere forzati all’apparenza, a essere in
primo piano. In questo modo perdiamo tutte
le sfumature, la poetica della parola. Io ad
esempio non sento ancora l’esigenza di
avere un mio sito. Molti mi chiedono come
mai. E io rispondo che mi spaventa la
superficialità di internet, dove ognuno può
presentare se stesso come vuole ma non
necessariamente come è.”
“A proposito di Internet: è il nuovo
dominus della comunicazione. Leggevo che se una persona volesse esaminare tutti i contenuti presenti in rete
dovrebbe avere a disposizione ventitré
milioni di anni…Una infinità di
9 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08
ALTRI SGUARDI
Renato Sarli - [email protected]
nozioni, non credo tutte interessanti.
Ormai internet è capace magicamente
di propagare stili, notizie informazioni,
mode, idee. Personalmente mi sfugge il
come… Tu cosa pensa di Internet e
come si confronta secondo te con gli
altri mezzi di comunicazione.”
“Probabilmente, ma è il mio parere, il grande successo di Internet è legato a questa
finta voglia di trovare una propria dimensione, di non subire l’informazione gridata,
ma di poter scegliere. Poi ovviamente ci sono
fenomeni come “you tube” dove tutto si
consuma in tre secondi, secondo quella stessa logica dell’urlo e dell’imposizione di uno
stile, di un messaggio. Ma credo che sia una
dimostrazione di debolezza, di incapacità
di esprimersi e comunicare contenuti, ai
quali in questo modo sopperisce l’effetto, la
sopraffazione urlata.Tornando a parlare di
arte, credo che un tempo nuovo stia arrivando e che molti siano i segnali che ce lo
comunicano.
E mi riaggancio a quello che dicevamo
prima, riguardo alla contiguità tra pubblicità
e arte. La pubblicità vuole comunicare a un
pubblico che nelle intenzioni dei pubblicitari deve ricevere un messaggio. L’arte comunica a chi vuole ricevere. In questa visione
c’è il senso dell’ospitalità, dell’accoglienza,
del rispetto per l’altro che mi sembra oggi
manchi.”
“Il teatro. Tu hai una capacità eclettica
di affrontare forme di teatro tra loro
diversissime. Cito il Rigoletto, che hai
recentemente portato a Hong Kong
con il Regio di Parma, il complesso
lavoro sugli angeli, che l’anno scorso
ha itinerato tra monasteri del Veneto,
regalando sensazioni ed emozioni e
che ti appresti a replicare, il coinvolgimento di ragazzi delle scuole primarie
e secondarie in un travolgente allestimento della Tempesta di Shakespeare,
la creazione dei percorsi goldoniani
interpretati con un attento e sognante
impiego della luce…
Solo per citare le tue realizzazioni più
recenti e solo quelle di cui ho conoscenza! Come ti confronti con questa
varietà di attività, come le scegli?”
“Mah, sono le storie che ti scelgono, credo.
A me piace sperimentare e sperimentarmi.
Cerco di studiare molto, leggo, amo le persone con le quali collaboro alla costruzione
10 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08
di un progetto e da questo continuo lavoro
nascono idee che spesso si trasformano in
esperienza di vita. Alcune sono opere commissionate, altre nascono da mie intuizioni
e proposte. L’importante è che io riesca a
trovare la strada per esprimere la mia storia
all’interno della storia che racconto.”
“Mi racconti qualcosa del tuo modo di
affrontare il processo creativo?”
“Il processo creativo è molto personale e non
segue mai gli stessi percorsi. Faccio un lavoro di ricerca al quale cerco di corrispondere
con rigore. Creo una vera e propria biblioteca interiore. Da questa biblioteca interiore a
un certo punto prendo un libro, lo apro e
comincio a far fluire e ordinare le idee. Cerco
di dare ordine ad un disordine che si è creato. Del resto tutti i grandi maestri ci inse-
gnano che ogni opera d’arte nasce dal caos.”
“Scusa se ti interrompo. Ma prima hai
parlato della fragilità del tuo lavoro,
che è un’immagine molto bella e vivida. Ma sapendo di questa fragilità,
come convivi con la certezza di non
poter controllare il risultato fino in
fondo? Immagino che già in fase di
progettazione ti ponga questo problema.”
“E’ uno stimolo! Sono consapevole di non
poter raggiungere la perfezione. Ciò non
toglie che il modo in cui mi pongo ogni
volta che inizio un lavoro nuovo sia quello
di chi vuole raggiungere la perfezione.”
Renato Sarli
OPINIONI
Ambiente.
La lezione
di Federico
Tra i numerosi effetti determinati dal
recente terremoto elettorale, non può
essere considerato secondario quello
della deideologizzazione del tema dell’ambiente, fino a ieri prigioniero dell’abbraccio mortale con gli apparati
ideologici di matrice marxista-leninista
e con le più becere istanze terzomondiste e no-global, nel quale era stato
confinato da un’inadeguata, improvvida e, per certi versi, improbonibile dirigenza dei movimenti che si sono accreditati come promotori – in larga misura autoreferenziali – delle istanze ecologiche ed ambientaliste.
Finalmente anche chi dichiara una
contiguità con aree di pensiero di
orientamento liberale e conservatoreilluminato, può serenamente manifestare le proprie idee, palesandosi convinto
fautore di una cultura mirata alla salvaguardia del pianeta, alla salubrità dell’ambiente, ad uno sviluppo sostenibile
e ad una regolamentazione – laddove
possibile – della stessa globalizzazione,
senza suscitare commenti piccati o sarcastici da parte dell’intellighenzia militante.
Gli stessi sorrisetti ironici coi quali i
soliti campioni del politically correct
hanno accolto le tesi espresse da Giulio
Tremonti nel saggio “La paura e la speranza”, si sono, da un giorno all’altro,
trasformati in un ghigno, ad inoppugnabile conferma del fatto che il tema
della tutela dell’ambiente recupera a
pieno titolo la sua oggettiva trasversalità, negata per troppo tempo dall’occupazione manu militari da parte di
una certa sinistra di quel territorio
ideale e culturale.
UNA LEZIONE
CHE VIENE DA LONTANO
Nei primi decenni del tredicesimo
secolo, Federico II, supportato dalle
migliori intelligenze giuridiche del
tempo, coordinate da Pier delle Vigne,
introdusse nelle sue Costituzioni Melfitane (l’opera che innovò il diritto
romano e che costituì, fino all’avvento
del Codice Napoleonico, il riferimento
legislativo per tutti gli ordinamenti
giuridici del nostro continente), il reato
ecologico, comminando pene severe a
coloro che avessero contaminato acqua
ed aria e recato nocumento alla natura,
considerata, a tutti gli effetti, bene
comune. La lezione di Federico, tuttavia, nel tempo, è caduta nell’oblio: il
danno più grave all’ambiente, infatti,
non è stato provocato – o non solo – da
coloro che immettendo nell’aria o
nelle acque veleni di ogni sorta, ne
hanno compromessa la salubrità, bensì
dal degrado della coscienza civica che
ha indotto molti, forse inconsapevolmente, a considerare l’ambiente e la
natura alla stregua di res nullius e quindi disponibili ed assoggettabili ai propri
interessi o, quel che è peggio, ad un
totale disinteresse (leggi incuria, lassismo, indifferenza).
IL RUOLO DELLA COMUNICAZIONE
Su questo terreno la comunicazione
(intesa in senso lato: dall’informazione
alle attività di marketing communication), può avere un peso determinante,
esercitando un ruolo di supplenza
rispetto alla latitanza delle istituzioni –
la scuola in primis – e favorendo la
definitiva messa al bando degli estremismi e delle partigianerie che, sotto l’usbergo delle bandiere ambientaliste,
hanno quasi sempre perseguito interessi di bottega, svuotando il messaggio
ecologico da ogni credibilità.
Oggi che, nel mondo, si tenta di incanalare il progresso della globalizzazione
in un sistema di regole condivise che
ne riducano, per quanto possibile, l’impatto negativo sul futuro del pianeta
(pur non sottacendone le valenze posi-
tive, che peraltro esistono), l’impegno
di coloro che operano professionalmente in questo ambito, deve essere
orientato ad un quotidiano lavoro di
ripristino di una sensibilità ecologica
autentica a livello individuale.
Somministrare ogni giorno, anche
subliminalmente, messaggi orientati a
far riemergere, dai recessi più nascosti
della coscienza di ciascuno, una sensibilità che, pur assopita, è certamente presente, in quanto connaturata all’umana
natura, è un impegno gravoso, ma, al
tempo stesso, una missione esaltante per
tutti coloro che hanno il privilegio –
per censo, cultura e ruolo sociale – di
potersi considerare classe dirigente.
Ma non c’è tempo da perdere: bisogna
innanzitutto sgombrare il campo dalle
illusioni e dalle leggende metropolitane.
Spieghiamo senza mezzi termini, con il
supporto di dati scientifici inoppugnabili, che immaginare di poter far fronte
alla crescente domanda di energia avvalendosi delle cosiddette fonti rinnovabili (fotovoltaica, eolica…) è una pia
illusione. Facciamo capire alle anime
belle, abbagliate dalla irruente facondia
dei vari Beppegrilli che, in attesa di
tecnologie che consentano di sfruttare
in modo economico e su vasta scala l’energia geotermica, la sola alternativa ai
combustibili fossili è il nucleare. Ma
cerchiamo anche di promuovere presso
le nuove generazioni, cominciando
magari dai nostri figli, l’adozione di stili
di vita compatibili con il rispetto e la
tutela dell’ambiente.
Non sarà certamente cosa da poco.
La natura ha una straordinaria capacità
di rigenerarsi.Anche il mare più inquinato, se liberato da immissioni venefiche, in pochi anni è in grado di ripristinare la primitiva salubrità.
Più difficile sarà ovviare al degrado
delle coscienze. Ed è su questo terreno
che la comunicazione, l’informazione
e, più in generale, la cultura, devono
assumersi la responsabilità di concentrare grande attenzione e quotidiano
impegno.
Gargamella
[email protected]
da “Il Domenicale” - 10/05/2008 - pgc
11 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08
OPINIONI
Fornitori
della Real Casa...
Anche durante la recente Assemblea Unicom di Pescara più di un collega ha
lamentato che per la maggior parte dei
clienti noi pubblicitari non siamo altro
che dei comunissimi fornitori.Tale definizione infatti viene ritenuta a ragione
decisamente poco gratificante e riduttiva
rispetto al ruolo che hanno, o dovrebbero
avere, dei consulenti in una materia così
importante e strategica come la comunicazione.
Francamente anche a me questo declassamento (e tutto quello che poi ne consegue) non fa piacere, ma mi sforzo da un
lato di prenderlo con filosofia e dall’altro
di capirne le cause. E qui il discorso si fa
complesso e delicato perché nessuna delle
parti appare esente da colpe.
Lo dico con cognizione di causa, essendo
stato cliente,prima di passare dall’altro lato
della barricata. E’ fuori discussione che la
categoria dei pubblicitari abbia goduto
per molti decenni di una situazione assai
più privilegiata, se confrontata con quella
attuale, in termini di riconoscimento professionale e di guadagni.
Se ripenso agli anni ‘70, ma anche a
buona parte degli ‘80, account e creativi,
tanto per citare le figure più emblematiche, godevano di notevole considerazione
agli occhi dei clienti e potevano permettersi, specie i secondi, atteggiamenti e
capricci quasi da prima donna. E occorre
riconoscere che le imprese di comunicazione non di rado hanno abusato di questa loro condizione, soprattutto non
badando a spese (fossero i loro compensi
o i costi di realizzazione della pubblicità)
con la pretesa di fare gli americani con i
soldi degli altri. Questo senza nulla
togliere allo straordinario contributo di
tanti grandi o piccoli (account, creativi,
grafici, uomini dei mezzi, tecnici della
produzione) all’affermazione di aziende,
prodotti e brand. Il fatto sorprendente
però è che quella che oggi verrebbe giudicata eccessiva e ingiustificata condiscendenza verso dei fornitori come tanti altri
proveniva da responsabili a tutti i livelli dei
marketing aziendali, che allora in fondo si
accontentavano di chiedere ai pubblicitari soltanto di trasferire in comunicazione,
12 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08
valorizzandole creativamente, le strategie
che loro avevano elaborato. In quegli anni
infatti, come ho già ricordato in altra
occasione, gli strategic planner di agenzia
non erano ancora nati e quelle funzioni e
molte altre oggi richieste alle imprese di
comunicazione venivano svolte principalmente all’interno delle aziende.
Non sono mancati naturalmente i colpi di
genio in chiave di strategie di marketing
di pubblicitari “monstre”, ma hanno
rappresentato delle eccezioni. Non pare
logico pertanto che oggi i clienti, mentre
pretendono dai pubblicitari un impegno
e un contributo sempre maggiori, a tutto
campo e talvolta addirittura risolutivo di
problemi che travalicano la comunicazione, mostrino di voler riconoscere alla
categoria sempre meno in tutti i sensi.
Proverò a spiegarlo sulla scorta della mia
esperienza, pronto naturalmente a confrontarmi con opinioni diverse.
In primo luogo i clienti, stando a contatto da tanti anni con la comunicazione e i
suoi creatori, ne hanno metabolizzato
tutte le componenti, sottoponendole a
una sorta di analisi del valore pro domo
loro. In forza di ciò hanno smontato i
diversi “prodotti” creati dai pubblicitari
(dalla campagna al packaging,all’evento,al
catalogo, al sito, ecc.) chiedendo ai loro
uffici acquisti di quotarne in modo razionale e competitivo i vari pezzi, come fossero quelli di un qualsiasi manufatto.
Un invito a nozze per compratori di professione,ben lieti di estendere il loro potere di intervento dai tondini e dalle viti alla
progettazione e alla realizzazione della
comunicazione.
E qui sono cominciati i dolori perché l’analisi puntuale, pezzo per pezzo, ha portato a ridimensionare il valore finale del
“manufatto” di turno, beninteso trascurando o sottovalutando furbescamente
tutto quello che ci stava dietro in termini
di pensiero, consulenza, creatività, assistenza e quant’altro.
Una volta scappati i buoi dalla stalla, il
resto lo hanno fatto le gare che, da eccezione, sono diventate regola e sono state
estese praticamente a tutto, financo ai
dépliant.
I pubblicitari retrocessi così a generici fornitori dal canto loro non hanno avuto la
forza e la coesione necessarie per opporre
resistenza, far emergere a sufficienza il
ruolo fondamentale che svolgono al servizio delle aziende e dell’economia e,in ultima analisi, attuare una efficace difesa della
categoria (peraltro già penalizzata dalla
mancanza di riconoscimento formale).
Così si sono visti costretti ad una spietata
concorrenza tra di loro, un vero e proprio
gioco al massacro che oggi ci vede,chi più
chi meno, tutti perdenti, anche se riusciamo a tenere in vita le nostre imprese.
A peggiorare ulteriormente le cose si sono poi aggiunti altri fattori: la crescente
difficoltà per tutte le aziende di stare sul
mercato, mantenersi competitive e produrre utili a fronte delle leve di marketing
sempre più spuntate di cui dispongono, si
traduce in una pressione fortissima sui
responsabili aziendali ad ogni livello,
disperatamente alla ricerca di escamotages
sempre nuovi per riuscire ad ottenere i
risultati richiesti.
Questo stato di cose spesso li porta nella
comunicazione a sperare nel colpo di coda o nel goal della domenica del pubblicitario di turno, quasi che un’idea o una
trovata creativa, non importa se in brief o
fuori brief, sia in grado di capovolgere a
favore un marketing mix, magari pieno di
lacune.
Si crea pertanto il paradosso che dalle imprese di comunicazione ci si attendono
interventi spesso salvifici e nello stesso
tempo le si etichetta come generici fornitori sminuendone il ruolo e i compensi.
Quali i rimedi? Sicuramente non piangersi addosso nella speranza di un improbabile ritorno al passato. Piuttosto la
presa di coscienza degli effettivi contributi che ciascuna impresa di comunicazione
è in grado di dare, una maggiore valorizzazione delle proprie eccellenze, un
dosaggio efficace di tutti gli apporti, più
strettamente legato ai compensi, il coraggio, in qualche occasione, di resistere alla
tentazione di svendersi.Tutta la categoria
poi dovrebbe convincersi che una concorrenza troppo basata sul prezzo determina solo una guerra tra poveri che non
giova a nessuno (e in prospettiva nemmeno ai clienti). Fornitori sì ma almeno della
Real Casa, cioè di prodotti esclusivi, di
alta qualità e non di primo prezzo.
Alessandro Colesanti
... o consulenti sull’orlo
di una crisi di nervi
E’ senza dubbio interessante e del tutto
condivisibile il parere lucidamente
manifestato da Alessandro Colesanti sul
progressivo declino della profittabilità
della professione.
Tuttavia, credo che, all’analisi delle
cause che hanno determinato tale situazione, manchi un elemento importante, dal quale, a mio giudizio, si sono
originati gran parte dei problemi che
affliggono la categoria.
E mi riferisco a quell’infausta - e mai
abbastanza deprecata - calata di braghe
che il nostro sventurato comparto ha
effettuato, quando ha consentito che la
sacrosanta, e, fino ad allora indiscussa,
commissione d’agenzia, fosse trasformata nel cosiddetto “sconto d’agenzia”, concesso a cani e porci, e, soprattutto, ai clienti grandi e piccoli.
Me li ricordo gli argomenti dei fautori dell’autocastrazione che allora si esibirono in una performance degna di
miglior causa: “i clienti mi devono pagare per il mio lavoro e per quello che
effettivamente vale”, oppure “non
accetto di essere remunerato come se
fossi un mediatore di spazi e di servizi”, e via cazzeggiando...
Certo, ricevere un compenso per attività di mediazione (che poi nel caso in
ispecie solo mediazione non era), può
essere meno gratificante che ricevere
il medesimo compenso per una prestazione di carattere creativo o strategico
(anche se un vecchio adagio recita
pecunia non olet, nonostante che quel
denaro al quale faceva riferimento
l’imperatore Vespasiano, con l’olezzo
avesse in qualche modo a che fare).
Altri, probabilmente male informati,
portavano acqua al mulino dei fautori
dell’illegittimità o, quanto meno, dell’inopportunità di quel compenso, in
quanto erogato da un soggetto terzo e
non da chi aveva beneficiato in misura
prevalente del servizio.
Qualcuno poi temeva, nel percepire la
commissione, di commettere un illecito fiscale, citando casi di dure sanzioni
somministrate dalle Fiamme Gialle ad
importanti imprese del settore che si
erano “dimenticate” di sottomettere le
somme fatturate a titolo di commissioni, alle ritenute previste dalla legge.
Qualcuno - ahimè inascoltato - andava dicendo che se ci fossimo autoesclusi dal giro del denaro, avremmo
perso ogni potere, oppure che i clienti, una volta messe le mani sul malloppo, ben difficilmente se ne sarebbero
separati, alla luce della considerazione,
forse non raffinatissima sul piano formale, ma purtroppo pervasa di adamantina evidenza, che chi ha in mano
la grana, tiene l’altro per le palle.
Ricordo bene le discussioni accanite
tra i fautori del cosiddetto accordo (ad
onor del vero, a tutti gli effetti, un
patto leonino) che guardavano, quasi
con commiserazione, coloro che, a
denti stretti e a muso duro, cercavano
di difendere la pagnotta. (Non faccio
nomi, ma le aziende di alcuni di quei
paladini della “correttezza formale”,
sono, nel frattempo, passate a miglior
vita, insieme a molte altre i cui titolari,
del tutto incolpevoli, si ritrovarono a
subire il medesimo sopruso).
Quali possono essere i rimedi allo status quo, si domanda il Vicepresidente di
Unicom?
Di tutti quelli indicati, uno solo mi pare risolutivo, quello di avere il coraggio
di resistere.
Certo, non sarà, facile. Siamo pericolosamente in bilico, precariamente in
piedi su un viscido piano inclinato e,
solo se sapremo tutti quanti - o la gran
parte di noi - attestarci dalla parte giusta, potremo tentare, non dico di far
pendere il piatto della bilancia dalla
nostra parte, ma almeno di rimetterlo
in equilibrio.
Lo trasformeremmo in una sorta di altalena, soggetta ad inevitabili oscillazioni, ... ma sarà sempre meglio che
ritrovarsi stabilmente e desolatamente
col sedere per terra.
Lorenzo Strona
Abbiamo toccato
il fondo
Sulla quarta di copertina della prestigiosa
rivista “Italia a Tavola”, numero di
Giugno, diretta da Alberto Lupini, giornalista bergamasco che conosco, ma di cui ignoravo l’attenzione alla qualità delle
inserzioni, vedo l’annuncio che allego.
Quali commenti fare? Sicuramente l’illustratore si è ispirato a Dudovich, il copy a
Pasquale Barbella e l’art mi sembra di scuola Sanniana.Vorrei sapere chi è l’autore di
tanta schifezza. Spero si tratti sinceramente
di uno sprovveduto, cui un cliente imbizzarrito con gli ormoni elettrizzati dalla
visione di Giovannona coscialunga in edizione integrale abbia imposto di realizzare
questa cosa che non so come definire. Dove
sono la Sacis, la Sacra Rota, la Santa Inquisizione? Esiste ancora un esemplare di
ghigliottina funzionante? Fuor di metafora
mi si consenta di dire che abbiamo toccato
veramente il fondo.
Renato Sarli
13 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 30 / 08
DIRITTO E COMUNICAZIONE
Fiammetta Malagoli - Consulente Legale Unicom
Parmigiano
vs Parmesan
Una questione annosa che la UE non è ancora riuscita
a risolvere in modo soddisfacente.
La Corte europea (Grande Sezione) si è
pronunciata, in data 26 febbraio 2008,
nella causa nata su ricorso della Commissione delle Comunità europee, sostenuta dalla Repubblica italiana e dalla
Repubblica ceca, contro la Repubblica
federale di Germania, sostenuta dal Regno di Danimarca e dalla Repubblica
d’Austria, a proposito dell’utilizzo, da
parte della Germania, della denominazione “parmesan” nell’ etichettatura di
prodotti non corrispondenti al disciplinare della denominazione d’origine
protetta “Parmigiano Reggiano”.
Premessa della pronuncia era quella di
stabilire se, rispetto a tale DOP, l’uso
della denominazione “parmesan” rientrasse in uno dei casi contemplati dall’
art. 13, n.1 del regolamento n. 2081/92,
ossia se consistesse in un’ usurpazione, imitazione o evocazione di una denominazione registrata.
A proposito di evocazione, in particolare, essa si realizza quando un prodotto
incorpori una parte di una denominazione protetta, di modo che il consumatore, in presenza del nome del prodotto, sia indotto ad avere in mente, come immagine di riferimento, la merce
che fruisce della denominazione.
Indubitabili sono le analogie fonetiche
tra “parmesan” e “Parmigiano Reggiano” e, in entrambi i casi, si tratta di formaggi a pasta dura, grattugiati o da
grattugiare, pertanto simili nel loro
aspetto esterno. Insomma, tra i due termini vi è somiglianza concettuale, che,
unita alle somiglianze fonetiche ed
ottiche, è idonea ad indurre il consumatore, quando si trova di fronte al “parmesan”, a prendere come immagine di
riferimento il formaggio recante la DOP
“Parmigiano Reggiano”. Si tratta, per-
tanto, indubitabilmente, di un’ ipotesi di
evocazione.
La Repubblica Federale di Germania,
nella sua difesa, ha sostenuto che la denominazione “parmesan” sarebbe divenuta una denominazione generica, che
non avrebbe potuto essere registrata ai
sensi dell’ art. 3 del regolamento n.
2081/92.
Nel valutare la genericità bisogna prendere in considerazione i luoghi di produzione del prodotto considerato (sia
all’interno dello Stato membro che ha
ottenuto la registrazione, sia all’esterno
di questo), il consumo dello stesso, il
modo in cui viene percepita dai consumatori la denominazione, l’esistenza
di una normativa nazionale specifica relativa al prodotto, il modo in cui tale
denominazione è stata utilizzata nella
legislazione comunitaria.
Tuttavia, la Germania non ha dato prova della genericità ed anzi, dalla documentazione depositata in atti, risulta
che alcuni produttori tedeschi di “parmesan” hanno commercializzato il formaggio con etichette, che richiamano
tradizioni culturali e paesaggi italiani,
dimostrando che i consumatori percepiscono tale prodotto come un formaggio associato all’ Italia, anche se prodotto in altro paese. L’utilizzo del termine
“parmesan” per formaggi che non sono
conformi al disciplinare della DOP
“Parmigiano Reggiano” è stato quindi
considerato lesivo della tutela riconosciuta dal regolamento n. 2081/92
alle denominazioni registrate. Secondo
la Commissione delle Comunità europee ricorrente, la Germania avrebbe dovuto adottare d’ ufficio tutte le misure
necessarie per reprimere i comportamenti lesivi delle DOP, in particolare
attraverso un’adeguata prassi amministrativa. Il suo comportamento, quindi,
avrebbe dovuto essere assimilato ad una
violazione per omissione del diritto
comunitario. Secondo la Corte, la facoltà di cui godono i cittadini di far
valere le disposizioni di un regolamento comunitario dinanzi ai giudici nazionali non dispensa gli Stati membri
dall’adottare misure interne che permettano di assicurare la piena e completa
applicazione del regolamento, qualora
queste si rendano necessarie. Con questa premessa, tuttavia, la Corte ha ritenuto che la normativa tedesca, fosse idonea a garantire la tutela anche di interessi diversi da quelli dei produttori dei
beni protetti dalla DOP, ossia dei consumatori.
Inoltre, sempre secondo la Corte, a norma del regolamento n. 2081/92, è vero
che gli Stati membri sono tenuti a creare strutture di controllo per assicurare
l’efficacia delle disposizioni del regolamento medesimo, ma si tratta degli Stati
membri di provenienza delle DOP, e
non di quelli nei quali la DOP venga
evocata o usurpata, e, quindi, il controllo sul rispetto del disciplinare nell’uso della denominazione “Parmigiano
Reggiano” non compete alle autorità
tedesche, ma a quelle italiane.
La sentenza in esame, come si può vedere, lascia poco soddisfatti perché, pur
affermando che il termine “parmesan”
evoca la DOP “Parmigiano Reggiano”,
non ha, tuttavia, riconosciuto un reale
obbligo di controllo da parte dello Stato
membro nel quale viene adottata impropriamente la denominazione. In
mancanza, quindi, di un intervento statale, la tutela della DOP in altri Stati
diventa certamente molto più gravosa
per i titolari del diritto.
Riferimenti legislativi
- Regolamento (CEE) del Consiglio
14/7/1992, n. 2081 relativo alla
protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine
del prodotti agricoli e alimentari.
- Sentenza della Corte 26/2/2008
nella causa C-132-05.
15 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08
CREATIVITA’
Il Made in Italy
della comunicazione.
Gusto, istinto, passione
Un brindisi per ricordare il passato,
festeggiare il presente e augurarsi un buon futuro.
E’ iniziato così l’incontro con gli autori dello spot
tutto italiano “Prova d’Esame”, che sta facendo
man bassa di premi internazionali.
I clienti lo snobbano, forse non sanno
neanche che esiste; i creativi ne parlano
in continuazione e si dividono in due
schiere: quelli che lo criticano e che,
confrontandosi costantemente con i
colleghi internazionali, lo evitano e
quelli che lo difendono e lo “portano”
con orgoglio.
È il Made in Italy della comunicazione.
Siamo tutti pronti a difendere la creatività italiana nella moda, nel design e
nell’enogastronomia, ma quando si parla di creatività italiana in comunicazione, quasi ci vergogniamo. Lo humor
e la pulizia inglesi, il coraggio e la perfezione esecutiva americani, la genialità
16 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08
delle idee più semplici dei paesi asiatici
o africani. Un safari di eccellenze. E noi
italiani? Cosa abbiamo che non va?
Una sola cosa: ci manca il coraggio di
essere italiani.
«Siamo noi i più bravi. In generale siamo i migliori. Mal gestiti, ma i migliori.All’estero quando qualcuno parla del
proprio paese, lo fa con orgoglio. Gli
italiani no: noi ci critichiamo sempre. È
un peccato: all’estero avranno anche il
metodo, ma noi italiani abbiamo il talento, quello slancio in più che ci rende
potenzialmente imprendibili».
Parola di Sergio Rodriguez Group
Creative Director di Leo Burnett Italia,
che ha una profonda conoscenza della
creatività italiana, di quella internazionale e di quella italiana vista con
occhi internazionali. I suoi lavori hanno spesso vinto premi internazionali
pur essendo sempre molto italiani. Così
è anche il suo spot “Prova d’Esame”,
che ha vinto un argento all’Epica Award, un argento al Clio Award e l’oro
agli ADCI Award 2008.
Uno spot completamente italiano non
solo nella concezione, ma anche nella
produzione della BedeschiFilm, nella
regia di Andrea Cecchi, nel cliente, la
Scuola D’Arte Drammatica Paolo
Grassi di Milano e negli attori, che in
quella scuola studiano.
È italiana (milanese) la strada in cui si
ambienta, il motorino utilizzato (una
vespa), che sta per essere rubato proprio
nel momento in cui arriva la proprietaria, una giovane che riuscirà a convincere il ladro a desistere raccontandogli una storia fortemente emotiva,
basata su valori familiari, tipicamente italiani, e resa credibile dalla sua bravura
d’attrice.
Alla fine dello spot la ragazza si scopre
essere un’attrice del secondo anno della
Paolo Grassi.
Questo spot è un film tutto italiano
anche nei linguaggi: quello verbale (il
film è stato presentato ai Clio Awards
2008 di Miami non tradotto, ma sot-
totitolato) e quello visivo, un «moderno neorealismo italiano», come lo ha
definito Andrea Cecchi, «una storia
moderna raccontata in un modo che
non cerca di scopiazzare nessuno stile
se non il nostro, quello italiano».
Andrea Cecchi, che ha passato buona
parte della sua vita in America, ritiene
che lo stile italiano non sia quello della
commedia, ma quello dell’italianità
raccontata in un format internazionale
e afferma: «C’è qualcosa che noi italiani
abbiamo nel momento in cui diventiamo internazionali, che è un’eccellenza:
la capacità di emozionare».
È proprio sull’italianità come valore
positivo che si fonda la casa di produzione a cui appartiene, la BedeschiFilm di Giovanni Bedeschi, che ha
identificato la sua casa di produzione a
livello internazionale con il tag “Italian
directors” e che confessa: «Ogni italiano nasce con il senso del gusto. Negli
altri paesi non è lo stesso. Gli americani, ad esempio, devono imparare il
buon gusto a scuola e quello dei francesi è elitario. All’estero lo sanno e ci
chiamano perché abbiamo buon gusto.
L’unica cosa che dobbiamo fare è alzare
il nostro standard di lavoro e aprirci la
mente attraverso esperienze all’estero».
Creatività, gusto, pazzia, istinto, passione, espressività, nessuna vergogna di
mostrare i propri sentimenti: questo è
lo stile italiano in pubblicità, questi i
pregi del Made in Italy della comunicazione.
Eppure, nonostante il gusto, il talento e
la capacità di cercare e creare emozione, la creatività italiana viene sempre
messa in dubbio, in primis dagli stessi
italiani.
Non è stato sempre così: «Quando si
vincevano i Leoni d’oro a Cannes, vincevano lavori molto “italiani”», ricordano Bedeschi e Rodriguez.
«Il nostro errore è che andiamo a copiare gli stili degli altri, pecchiamo di esterofilia. Nella classifica Gunn Report
degli spot più premiati degli ultimi 8
anni, ci sono ben due spot italiani:
“Aqualtis”, di Leo Burnett Milano e
“Peugeot The Sculptor”, di Euro
RSCG Milano. È un segno che, nonostante abbia una media più bassa che
17 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08
CREATIVITA’
18 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08
Stefania Salucci e Sergio Rodriguez
Ma la comunicazione non è pura arte e
il suo bello è proprio questo. Quando si
crea una campagna di comunicazione
entrano in gioco numerose variabili
dettate dal target, il mezzo, il messaggio
che si vuole passare, il prodotto o servizio che si deve pubblicizzare. È proprio nel soddisfare queste esigenze trovando la tanto agognata “big idea” che
si mostra la vera creatività in comunicazione. C’è un però. Il lavoro dei professionisti della comunicazione deve essere approvato dal cliente, che se da un
lato ha il dovere di tutelare il suo prodotto verificando che il messaggio che
arriva al proprio target sia corretto, dall’altro spesso non ha la competenza per
capire fino in fondo i meccanismi della
comunicazione. Non a caso esistono
delle professioni per questo.
Abbiamo chiesto a Bedeschi, Cecchi e
Rodriguez di rivolgersi direttamente ai
clienti per chiedere loro qualcosa che
aiuti a liberare il Made in Italy della
comunicazione, ed ecco cosa hanno
detto.
Giovanni Bedeschi: «Dateci più tempo
per fare i film, vuol dir molto. E abolite
i test: sono la morte della creatività,
perché la appiattiscono e ammazzano i
budget».
Andra Cecchi «Abbiate fiducia: troppo
spesso si crede che i pubblicitari siano
aleatori e i registi dei saltimbanchi. In
realtà i pubblicitari sono i dottori della
comunicazione: se un medico dice di
prendere l’aspirina, non viene messo in
discussione. Noi sappiamo fare il nostro
mestiere, lo sappiamo fare tutti i giorni»
Sergio Rodriguez: «Ai clienti dico: non
guardate gli standard esteri, rischiate.
Fidatevi del vostro istinto: se una cosa
vi piace compratela. Ogni nuova idea
prevede implicitamente un rischio, ma
poi ha un ritorno. Domani, appena vi
svegliate, prendetevi un rischio».
Una bottiglia di vino e tarallucci. In
quattro attorno a un tavolo.Tra battute,
scambi di pareri, teorie e tanta esperienza. Così è nata questa intervista
all’italiana. Perché è così che siamo e
che dobbiamo essere. Non stereotipi,
ma noi stessi.
Giovanni Bedeschi
altrove, la comunicazione italiana ha dei
picchi di eccellenza che fanno impallidire anche l’Inghilterra. Se fossimo
noi stessi vinceremo sempre».
Stefania Salucci - [email protected]
I protagonisti dello spot.
Storie di passione e
determinazione.
Nello scegliere i due protagonisti dello spot, Andrea
Cecchi ha colto subito la grande occasione di poter
sfruttare un patrimonio che purtroppo non sempre
viene utilizzato come dovrebbe: gli attori di teatro.
«Il casting è stato molto lungo: ho visto molti giovani
attori e attrici e ne sono uscito esaltato per l’incredibile quantità di entusiasmo, cultura, talento e forza
che ho trovato».
Gli attori di teatro sono, per Andrea Cecchi, «Una risorsa che in Italia c’è e non viene valorizzata, semplicemente perché certi colleghi non sanno che esistono.
Quelli che lo sanno e li utilizzano, realizzano dei film
straordinari, come quelli con Paolo Sorrentino, cresciuto nei teatri di Napoli che oggi vince i premi a
Cannes».
Andrea Cecchi ha fatto con i due protagonisti dello
spot “Prova d’Esame” un lavoro che pochi registi in
pubblicità fanno: ha lavorato con loro in 15 giorni di
prove per una sola notte di registrazione. Era il loro
primo film e Andrea Cecchi ha voluto fare 4 reading
«per cercare i giusti tempi, l’intonazione, la recitazione e ottenere quella credibilità senza la quale
questo film non avrebbe avuto senso. Perché, quando
lavori con loro, gli attori ti danno sempre qualcosa,
anche se devono solo sorridere».
Istinto, professionalità e voglia di trovare emozione
hanno guidato Andrea Cecchi nella ricerca dei protagonisti, in particolare nella ricerca del ragazzo che
doveva interpretare il ladro.
«Un ladro non deve avere solo la faccia da ladro, ma
lo sguardo da ladro, uno sguardo povero. Roberto Testa, che ama il teatro al punto di lasciare la famiglia,
venire a Milano e arruolarsi in polizia per poter seguire
le lezioni e pagarsi al scuola, era perfetto. Solo un
poliziotto conosce lo sguardo del ladro. Se poi è un
bravo attore, si ha un risultato incredibile».
La protagonista femminile è invece Eleonora Giovanardi, 25 anni di Reggio Emilia, che abbiamo intervistato perché l’Italia è fatta anche di giovani talenti.
Eleonora è una ragazza che ha incontrato il teatro in
terza liceo, quando recitava a scuola con un gruppo di
amici, e da allora non lo ha più lasciato, anzi.
Ha studiato teoricamente il teatro all’Università di
Bologna, con la specialistica in discipline teatrali
(perché, dice: «basta il mito dell’attore ignorante: l’università serve perché ti dà basi teoriche utili, quali
nozioni di storia e organizzazione di eventi»); ha fatto
teatro, continuando a recitare con i suoi amici che
hanno formato una compagnia stabile; ha vissuto il
teatro studiando alla Paolo Grassi.
Lo spot “Prova d’Esame” è stata la sua prima esperienza su un set di fronte alla macchina da presa: «È
stato bellissimo. Andrea ha fatto provini a tutte, allieve ed ex allieve, tra le quali alcune molto brave. Ha
puntato su di me, che non avevo mai lavorato con la
macchina da presa e mi ha insegnato molto: come
muovermi su un set, ad esempio, e come calibrare la
recitazione teatrale, grande ed eccessiva, per la macchina da presa».
Eleonora da grande vuole fare l’attrice. Dopo l’esperienza dello spot non esclude di lavorare nuovamente
di fronte alla macchina da presa, ma per ora non ha
intenzione di lasciare il palcoscenico.
«Il teatro è una scelta: permette di fare uno studio e
una ricerca approfondita che vorrei continuare. Il cinema mi appassiona come attrice e mi affascina come
spettatrice».
Passione, energia e talento tutti italiani, che nascono
dalle radici dell’arte cinematografica italiana:
«Guardo spesso film quali Il caso Mattei, Classe operaia, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni
sospetto, perché sono capaci di insegnarmi qualcosa
del nostro passato e mi apportano qualcosa a livello
artistico. Il cinema italiano è poetico e vedere un film
nato in italiano significa sempre molto in termini tecnici per gli attori».
Credits
Creative Director: Sergio Rodriguez
Director: Andrea Cecchi
Sound Designer: Robert Etoll
Production Company: Bedeschi Film, Milan
Agency Producer: Federica Manera
Copywriter: Sergio Rodriguez
Producer: Federico Salvi
Visual Effects Editor: Luca Angeleri
Premi vinti:
Epica 2007 - Argento
Shark Awards 2007 - Diploma
Clio Awards 2008 - Silver
ADCI Awards 2008 - Gold
19 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08
SCENARI D’IMPRESA
Alessandro Colesanti - [email protected]
Destrutturare.
Può essere
la soluzione?
Una recente sentenza della Corte di Giustizia Europea
si pone in apparente contrasto con le liberalizzazioni
apportate dalla Legge Bersani
e la conseguente rimozione del divieto
di far ricorso alla comunicazione pubblicitaria
anche per le professioni ordinistiche.
Quando sento pronunciare il termine
“destrutturato”, per prima cosa mi
vengono in mente certi stilisti e i loro
abiti che hanno infranto le regole tradizionali del taglio e della confezione.
Vestiti, è bene osservare, non indossabili da tutti perché stanno bene e piacciono solo a talune persone.
Poi il pensiero mi corre anche alla deregulation pur sapendo che non si tratta della stessa cosa. Sta di fatto però che
in entrambi i casi ci troviamo di fronte
a processi di semplificazione con fuoriuscita da regole e schemi consolidati
allo scopo di ottenere prodotti o servizi diversi, più a misura delle esigenze
dei loro utilizzatori.
DESTRUTTURARE L’IMPRESA
DI COMUNICAZIONE
Oggi si parla di destrutturazione con
connessa digitalizzazione anche per le
agenzie di comunicazione, nell’ottica di
svolgere l’attività in modo nuovo rispetto al passato e meglio confacente
alla domanda degli utenti, che è profondamente cambiata, a causa delle crescenti difficoltà incontrate sul mercato
e vis à vis il consumatore.
E’ un tentativo di risposta alla conclamata crisi dell’agenzia tradizionale, attraverso la ricerca di un modello innovativo in grado di consentire una rinnovata soddisfazione del cliente e un
recupero di redditività per l’impresa di
comunicazione.
Destrutturare naturalmente non vuole
dire soltanto ridurre o tagliare, ma an-
che mutare concezione e modo di operare. Per capire se si può trattare di una
soluzione valida occorre saggiarla da
diversi punti di vista: come configurarla, se è attuabile, quali vantaggi arreca,
se economicamente funziona.
Il punto da cui partire è il passaggio
epocale che stiamo vivendo, che fa dire
a taluni che il marketing convenzionale è una scienza morta, ad altri che bisogna sostituirlo con quello non convenzionale, ad altri ancora, e forse con
maggior realismo, che esiste e continuerà ad esistere solo il marketing che
funziona.
Teorie a parte, comunicare è diventato
molto più complesso di una volta (basti
pensare al consumatore poligamo come
lo ha definito Fabris, ai brand in perenne movimento con lo scenario tecnologico e sociale, alle implicazioni presenti e future del Web 2.0) e l’agenzia
di pubblicità classica in molti casi non
sembra più in grado di dare in materia
un servizio efficiente ed efficace.
La crescente complessità/difficoltà del
comunicare ha originato un innesto
continuo di nuove leve di comunicazione, anche ad elevato contenuto tecnologico, che hanno finito per mettere in discussione la capacità dell’agenzia
generalista da un lato di conoscerle e utilizzarle tutte in modo competente e
approfondito e dall’altro di riuscire a
mantenerne il controllo e coordinarle
in modo efficace.
Questo ha anche prodotto per le aziende un indesiderato aumento dei costi
dovendo affiancare all’agenzia generalista un certo numero di altre strutture
specializzate nelle diverse leve di comunicazione.
LA
SOLUZIONE DELLE
MULTINAZIONALI
La soluzione proposta dai grandi gruppi multinazionali della comunicazione
o dalle ricorrenti joint venture tentate
da imprese di comunicazione indipendenti, consistente in più strutture specializzate che si coordinano tra di loro
o vengono coordinate da una capofila,
nella pratica non ha quasi mai funzionato né sul piano del coordinamento
né nell’evitare duplicazioni dei costi.
L’obiettivo deve essere di avere un
approccio creativo e culturalmente attuale a tutti gli aspetti della comunicazione, di passare da strutture pesanti e
rigide a strutture più leggere, flessibili e
versatili che consentano di sfruttare, di
volta in volta senza preferenze precostituite, l’apporto di competenze diverse, di favorire punte di creatività, di
assicurare maggiore reattività, di contenere i costi di struttura e, naturalmente, di garantire sempre il rispetto di
un pensiero strategico univoco.
In altri termini l’impresa di comunicazione destrutturata deve assicurarsi l’accesso potenziale a tante leve e risorse
diverse e saperlo dosare e gestire nel
miglior modo possibile. Deve operare
come una sorta di task force illuminata, composta da professionisti facilitatori che padroneggiano più funzioni e
competenze, i quali sono in grado di
“pescare” qua e là il meglio di quello
che serve e di declinarlo e assemblarlo
curando la coerenza delle parti con il
tutto. Aiutata, nel liberare risorse, dalla
digitalizzazione di molte funzioni e
attività.
Ricorda un po’ il modello organizzativo hollywoodiano a rete come risposta
al bisogno di disporre di professionalità
diverse per ciascun progetto, citato da
Jeremy Rifkin nel suo libro del 2000
“L’era dell’accesso”.
Assemblando le competenze di diversi
specialisti si può trovare l’esatta combinazione di talenti e capacità necessaria
per affrontare con successo uno specifico progetto.
L’idea, piccola o grande, ma in grado di
fare la differenza, può venire fuori an21 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08
SCENARI D’IMPRESA
che da chi non è creativo per definizione, ma meglio del creativo di professione conosce a fondo un determinato argomento o una determinata materia o
è capace di stabilire determinate connessioni.
Sta poi appunto ai facilitatori riportare
l’idea nei binari di una comunicazione
corretta ed efficace.
Può funzionare, non può funzionare?
Bisogna provare, a patto che ci siano le
condizioni da entrambe le parti. Dalla
parte dell’agenzia destrutturata facilitatori strateghi davvero polivalenti, di
elevata professionalità ed esperienza e
con spiccate doti relazionali ed organizzative. Dalla parte del cliente la disponibilità ad una maggiore collaborazione, rinunciando a vieti rituali burocratici cliente-fornitore ed accettando
una più ampia digitalizzazione dei rapporti e delle comunicazioni.
Quest’ultimo non è un aspetto da poco
Responsabilità sociale e PMI.
Un business possibile
Il tema della Corporate Social Responsibility (CSR) è stato oggetto, negli
ultimi dieci anni, di forte attenzione da
parte delle imprese e delle istituzioni,
anche a livello internazionale. Lo spazio
che abbiamo dedicato a questo tema all’interno dell’Impresa di Comunicazione ha seguito, quindi, un andamento
che ha visto crescere iniziative di studio
e di riflessione sulla responsabilità sociale d’impresa.
Nel 2001, la Commissione Europea
definì la CSR come “l’integrazione, da
parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali ed ecologiche nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti
con le parti interessate”. Da allora molti
passi in avanti sono stati fatti, sia in termini di comprensione del fenomeno
che di promozione di iniziative a
sostegno di una cultura della responsabilità a tutti i livelli.
La sensibilità sul versante della CSR è
stata, in un primo momento, appannaggio delle grandi imprese, soprattutto di
tipo industriale, fortemente coinvolte
dai problemi della sostenibilità e dell’eco-compatibilità e interessate a valorizzare l’attenzione all’ambiente e al sociale, almeno in chiave tattica.
Con il passare del tempo il fenomeno
CSR ha ampliato il suo raggio d’azione, andando a toccare il grande tema del
rapporto tra imprenditorialità e sostegno della collettività, di sviluppo del
business e impegno etico, assumendo
progressivamente una importanza di tipo strategico. Oggi, i contenuti della
CSR sono molti e interessano non solo
le grandi aziende ma anche le PMI.
UNA RICERCA AD HOC
Una recente indagine esplorativa condotta da ricercatori dell’Università “La
Sapienza” di Roma ha messo a confronto il codice etico e la carta dei valori di 90 imprese, suddividendo il campione tra imprese internazionali e imprese italiane di grandi e medie dimensioni. La comparazione è stata condotta
attraverso l’analisi del contenuto dei testi selezionati.
Questa ricerca ha mostrato che le aziende di medie dimensioni dedicano
un’ampia attenzione alla CSR e, pur
mutuando dalle grandi organizzazioni
una comune struttura dei documenti e
un simile stile di comunicazione, dimostrano d’intendere la responsabilità sociale in modo diverso dalle aziende di
grandi dimensioni.
Le grandi imprese, sia italiane che internazionali, infatti, tendono a trattare la
responsabilità sociale in termini di
sviluppo del brand e della reputazione
ovvero come strumento di relazione e
di pressione. Le medie imprese, invece,
sono più orientate a concepire la
responsabilità sociale come attenzione
verso i propri dipendenti e come strumento di tutela della comunità.
Il fatto che il concetto di CSR sia inteso e declinato diversamente, secondo la
cultura organizzativa di riferimento e il
contesto di appartenenza, non è di per sé
stupefacente ma apre nuove prospettive di
sviluppo per la cultura della responsabilità,
anche nella direzione delle PMI.
perché ricordo il caso di un’agenzia
che già parecchi anni fa aveva pensato
di risolvere molti suoi problemi azzerando o quasi i contatti di persona e sostituendoli con quelli via web e non mi
risulta che abbia incontrato molto successo presso i clienti.
L’agenzia destrutturata infatti, proprio
come l’abito di cui ho parlato all’inizio,
non potrà mai andare bene per tutti.
Alessandro Colesanti
Come testimoniato dal rapporto 2007
di Unioncamere – intitolato “Le attività
del sistema camerale sulla Responsabilità Sociale” – le aziende che si rivolgono maggiormente ai 61 sportelli
camerali presenti sul territorio nazionale
e dedicati alla CSR, sono piccole imprese e, in misura minore, medie imprese;
pressoché assenti le grandi imprese.
L’attenzione delle PMI al perseguimento di comportamenti responsabili è ormai un dato di fatto e spesso richiama
un interesse sincero, non strumentale,
per quella dimensione sostanziale e profonda della responsabilità che, in alcuni
casi, le grandi aziende sembrano dimenticare.
Le PMI avranno sempre più bisogno di
trovare interlocutori, non solo a livello
istituzionale ma anche imprenditoriale,
in grado di supportarli nei processi di
sviluppo delle politiche di CSR.
La necessità delle imprese di adeguarsi a
prassi consolidate, di promuovere la responsabilità sociale dell’impresa e di comunicarla in maniera adeguata coinvolgerà inevitabilmente le competenze di
numerose imprese di comunicazione,
chiamate a intervenire con la propria
professionalità in un campo delicato e
promettente.
Claudio Avallone
[email protected]
23 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08
MANAGEMENT D’AGENZIA
Domande, osservazioni, dubbi
sul mestiere di manager
In questa rubrica Guido Nanni dà il proprio
parere su alcuni argomenti che gli vengono
posti durante la sua attività di consulente e
considera anche problemi che si è trovato ad
affrontare durante la sua esperienza di manager d’agenzia. Se volete porre delle questioni o dare il vostro contributo a questo
“Forum” scrivete a:
[email protected]
Lavoro con persone poco motivate, insoddisfatte dei progetti che seguono.
D’altra parte campagne di grossa visibilità non ce ne sono, clienti stimolanti
neppure e l’orgoglio di far parte del
mondo della comunicazione non è sufficiente a contenere la noia della routine. Nulla da dire sulla serietà e l’applicazione, ma vorrei più partecipazione
ed entusiasmo.
Che fare?
La motivazione genera energia, convinzione,
determinazione. Ed è vero che senza la motivazione è difficile uscire dalla routine e dalla norma, garantire validi contributi intellettuali, dare impegno e disponibilità senza mugugni e musi lunghi.
Ognuno di noi deve fare i conti con la motivazione, la propria e quella degli altri e quasi quotidianamente, sul lavoro, ci si chiede
come cercare la motivazione e come generarla. Per cercare qualche risposta, è utile considerare questi meccanismi alla base della motivazione.
1) Le persone soddisfatte (ovvero, contente
perchè hanno raggiunto le mete prefissate)
non necessariamente sono motivate (ovvero,
disponibili a impegnarsi per nuove mete). In
altre parole: la motivazione è un orientamento al futuro, non al presente.
Ricordiamoci di questa dinamica se dobbiamo decidere, ad esempio, quando, come e con
quali argomentazioni aumentare stipendi,
dare bonus, collegare incentivi a risultati e
distilliamo queste decisioni, senza abusarne
in una direzione o in un'altra.
2) La motivazione non può essere richiesta
in modo generico, solo enfatico, occasionale.
Occorre scambiarla secondo dei piani precisi
con i fattori che generano auto-motivazione
nelle persone.
A tal proposito è importante sapere che
questi fattori sono soggettivi. Ovvero, ciò che
motiva me non è detto che motivi il mio collega o il mio collaboratore. Il richiamo alla
“passione per il lavoro”, ad esempio, può
risultare importante per qualcuno e indifferente per altri.
Lo stesso vale per i temi a cui si ricorre abitualmente per motivare le persone: la solidarietà di squadra, l’immagine dell’agenzia, la
visibilità personale, l’acquisizione di un cliente, l’incentivo economico, l’apprendimento,
i vari benefit, la riduzione dell’orario, la formazione ecc.
La soggettività della motivazione obbliga a
ricercare “incentivi selettivi” adatti ad ogni
singola persona e situazione. Come è illustrato nel box, Frederick Herzberg già nel
1974 aveva individuato le categorie dei fattori “igienici” della soddisfazione, ovvero i
prerequisiti, e le categorie dei fattori davvero
motivanti.
3) E’ l’autostima di ciascuno che può aprire
o bloccare l’ingresso dei fattori di motivazione. Ad esempio, i giudizi assoluti sul valore delle persone (“Sei un incapace!”,“Non
hai fantasia!”, “Non sai fare il tuo lavoro!”), che a volte rasentano l’insulto, disincentivano l’entusiasmo e, oltretutto, non aiutano a crescere professionalmente.
L’arte del “coaching” e del feedback sulle
prestazioni, che va oltre il rispetto e la doverosa educazione, dovrebbe essere parte essenziale del bagaglio di ogni buon manager.
4) Infine, ricordiamoci che la
motivazione non è disponibile
in quantità illimitata: si consuma come la benzina (bene
prezioso!) e quindi bisogna sapere anche quando è il caso di
accelerare, per richiamare più energia, senza
pretendere che tutti abbiano sempre, costantemente, in tutte le circostanze, entusiasmo ai
massimi livelli.
Ma è inutile parlare di motivazione, se il
clima interno del luogo di lavoro è cupo e
pieno di diffidenza, se non è aperto e disteso, in grado di generare le fonti a cui ognuno
poi accede per la propria motivazione (vedi
box). E ancor prima di pensare al clima, consideriamo se, ognuno nel proprio ruolo, sa attivare una leadership chiara e risonante.
Troppo difficile? Forse, ma niente paura:
abbiamo provato tutti, magari durante una
gara, che la motivazione e la mobilitazione
delle persone sa alimentarsi e diffondersi in
modo esponenziale, come un contagio positivo. Basta avviarla.
Guido Nanni ha lavorato in aziende
(Henkel, ABB) e in agenzie di pubblicità
nazionali e internazionali (Grey, BBDO,
BGS D’Arcy) in ruoli direttivi. Da sei anni è
consulente. Oggi, con la società Platypus,
di cui è partner, conduce progetti di sviluppo organizzativo e di formazione alle persone e ai team.
Prerequisiti della motivazione
(Fattori “igienici”)
Fattori di motivazione
• Condizioni fisiche/ambientali
• Relazioni interpersonali
• Status garantito dal ruolo
• Sicurezza del posto di lavoro
• Politiche e procedure
•Meccanismi di controllo
•
•
•
•
•
•
Raggiungimento obiettivi
Riconoscimento ottenuto
Contenuti presenti nel lavoro
Grado di responsabilità
Promozioni in termini di carriera
Crescita professionale
Motivazione e “clima” interno
Cosa dovrebbe garantire un ambiente di lavoro aperto e disteso
•
•
•
•
•
Lealtà (fiducia e appartenenza)
Energia (realizzazione e tenacia)
Identificazione (coinvolgimento)
Competenza (capacità e apprendimento)
Innovazione (creatività e cambiamento)
25 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08
CONSUMI E SOCIETA’
McLuhan.
Il padre
del villaggio globale
Il geniale sociologo canadese vide e comprese per primo
quanti e quali cambiamenti i nuovi mezzi
di comunicazione avrebbero apportato alla socialità
umana. La sua lezione si applica anche a internet & C.
Per anni, o almeno fino a quando non
ho terminato la traduzione di “Dal cliché all’archetipo”, non ho capito fino in
fondo il pensiero di Marshall McLuhan. Tuttavia, molto prima che ne ascoltassi le parole, già conoscevo il
Villaggio Globale: mi ero avvicinato
con prudenza a “Il fenomeno umano”di
Pierre Teilhard de Chardin, che parlava
di come la noosfera si stesse rapidamente intessendo intorno al pianeta.
Forse crescere per alcuni anni in India
e Pakistan era stata un’esperienza chiave che mi portò a immaginare, fin dall’adolescenza, la periodicità dello sviluppo e la relatività delle culture.
Anche il senso della globalità del genere umano che riscoprii con McLuhan
veniva da lì. Non è ancora chiaro se e
quanto McLuhan sia stato influenzato
da Teilhard e anche se, come Tom Wolfe
sembra pensare, fosse andata veramente
così, McLuhan non lo avrebbe riconosciuto.
Quando gli chiesi che cosa pensasse di
Teilhard, fece una smorfia e disse: «è
26 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08
tutta fantascienza». Fu una grande delusione ma rimasi con McLuhan perché
stava dando ai suoi allievi qualcosa che
nessun altro insegnante prima mi aveva
dato: il senso di insegnare e vivere in
tempo reale.
Il modo di parlare e di scrivere di Mc
Luhan godeva dell’autorità della percezione diretta, e in quel tempo ciò si
coglieva in modo particolarmente acuto, così come portava con sé la sensazione della novità, della conoscenza
profonda e della comprensione.
Anche oggi, leggere McLuhan significa
essere in simbiosi con la realtà emergente, la cui superficie e le fondamenta
sono rese visibili attraverso dei flash di
luce. McLuhan sviluppò in me una sensibilità per l’emergente, una maniera di
essere connesso permanentemente in
una più vasta dimensione spaziotemporale.
McLuhan è uno di quei rari intellettuali in grado di darci il senso del dell’immanenza del mondo.
È stato l’intellettuale canadese a dire
per primo che nell’epoca dei media elettronici «ognuno è un creativo».
McLuhan, a ben vedere, si è sbilanciato
in modo ancora più azzardato, specie
per essere un autore che ha scritto tra
gli anni Sessanta e i Settanta, affermando che l’umanità stessa diventa una forma d’arte.
IL PRIMO POSTMODERNO
Ventotto anni dopo la sua morte, che
cosa ne è quindi della sua eredità?
Questa discussione è stata sollevata in
una raccolta di saggi sulla “Scuola di
Toronto” che è stata da poco pubblicata dalla University of Toronto Press.
Prima di tutto occorre dire che McLuhan non si è curato della sua eredità più
di quanto non abbia fatto dei suoi critici. Parafrasando Oscar Wilde, un giorno disse: «per quanto riguarda i critici, non
preoccuparti neanche d’ignorarli».
Il libro è scritto da accademici per altri
accademici, dando la priorità ai critici e
agli altri intellettuali che hanno accolto
positivamente o contestato alcune delle
intuizioni migliori di Marshall McLuhan. La lista è molto ampia e include
alcuni nomi prestigiosi (fra gli altri, Jonathan Mugnaio, Susan Sontag, Frank
Kermode, George Steiner, Elizabeth
Eisenstein, Walter Ong, Paul Levinson,
Joshua Meyrowitz, Neil Postman, e così
via). Uno degli autori del libro, James
Carey, definisce McLuhan come «il primo Postmoderno» e fornisce una delle
spiegazioni migliori dell’aforisma più
famoso di McLuhan, «il mezzo è il messaggio».
Secondo Carey, «Il messaggio è il complesso di abitudini, tendenze, estensioni, metafore e riproduzioni immaginarie che il medium genera e lo sfondo di conoscenze e attività create intorno ad esso».
Ma l’eredità di McLuhan va ben oltre
la creazione di una specifica scuola di
pensiero. Le sue idee possono essere oscure, ma hanno cambiato in qualche
modo la nostra mente collettiva.
McLuhan, più di qualunque altro studioso di cultura, compresi Harold Innis, Eric Havelock e Lewis Mumford, e
perfino i suoi (quasi) contemporanei,
quali Raymond Williams, Herbert
Marcuse, Jurgen Habermas o Fredric
Jameson ha sostenuto tra il grande pubblico, come pure nel commercio, nell’amministrazione e nell’educazione,
l’importanza dei mezzi di comunica-
zione e della loro influenza sul nostro
modo di percepire il mondo.
La gente difficilmente associa il suo nome con il cliché del Villaggio Globale,
ma ha interiorizzato quella nozione e
s’identifica culturalmente e socialmente con essa. Un conto è attirare l’attenzione su un oggetto significativo in un
campo, altra cosa è attirare l’attenzione
sul campo intero, “la terra”, come egli
l’ha definito.
McLuhan ha attirato l’attenzione sull’opposizione tra oralità e scrittura come linea guida della sensibilità occidentale. Tutto si riduce a come la tecnologia tratta la lingua. Le parole che
sono pronunciate oralmente controllano l’ascoltatore (come abbiamo imparato dai capi tribali e dai dittatori nell’era radiofonica), ma quando le parole
sono scritte, il lettore e lo scrittore esercitano entrambi un controllo su esse.
Galassia Gutenberg mostra che, attraverso la scrittura, la gente prende il controllo della lingua e l’adatta alle proprie
necessità provocando così un aumento
del livello di individualismo.
Allo stesso tempo, a livello collettivo,
rendendo le lingue locali visibili e standardizzate, la scrittura ha condotto al
nazionalismo. Ancora, con l’invenzione
del torchio tipografico, si è consentito, a
chiunque sapesse leggere, di poter creare un pensiero personale circa gli argomenti religiosi più profondi, accelerando il processo delle culture orali verso il
loro punto di catastrofe e provocando
sanguinose guerre di religione.
La stabilizzazione sociale ed etica dei
privati cittadini avrebbe preso più di
duecento anni. La globalizzazione sta
sfidando ancora una volta questo equilibrio ed è l’approccio di McLuhan all’“avvicendamentdo dei media” che ci fornisce gli strumenti per comprendere
dove stiamo andando.
GLI STRUMENTI DEL COMUNICARE
Fu scrivendo un rapporto sugli effetti
della televisione e degli altri media elettronici per la National Association of
Educational Broadcaster che McLuhan
si accorse che l’elettricità era diventata
la base della cultura e un fattore sempre
più significativo nella vita della gente,
più dell’alfabeto e della stampa. Il titolo del rapporto era quello che tre anni
più tardi gli avrebbe dato una grande
fama a livello internazionale, “Gli stru-
menti del comunicare” (1963).
Vide che gli effetti dell’elettricità stavano rovesciando quelli precedentemente
osservati nella scrittura.
La sua metafora preferita per descriverlo era la storia di Humpty Dumpty,
“rimettere insieme”. Come riavvolgere la
bobina di un film consente di ricostruire esattamente le parti di un uovo
rotto, così l’elettricità stava riportando
il mondo a uno stato precedente, una
nuova condizione orale, ma globalizzata, transnazionale e multiculturale soggetta a un “effetto farfalla” in cui ogni
cosa ovunque essa accada interessa ogni
altra cosa in ogni altro luogo, in cui «la
metà degli affari nel mondo consiste nello
spiare l’altra metà», dove l’identità privata si fonde in folle, reti e gruppi infiniti di pettegolezzo (blogs?). Un villaggio,
in altre parole, ma elettronico, in cui la
prossimità può diventare occasionalmente scomoda.
Mc Luhan ha osservato la natura
implosiva dell’elettricità e potrebbe
aver predetto il terrorismo come condizione «dell’uomo orale, per il quale tutto
è improvviso». Ha temuto la perdita totale dell’identità privata nella raccolta di
dati elettronici che ha previsto all’inizio
degli anni Sessanta: «più si conosce di voi,
meno esistete».
Abbiamo discusso sovente a tal proposito. Continuo a pensare (o a sperare?)
che i computer ci permetteranno di riconquistare parte del controllo su noi
stessi che avevamo perso con l’avvento
della tv. Marshall pensava che l’elettricità ci avrebbe spazzati via come individui, come un’onda della marea.
«Non preoccuparti di nuotare», avrebbe
aggiunto ironicamente.
Come Vannevar Bush e Ted Nelson,
rifletteva su cosa le nuove tecnologie
provocavano al nostro modo di pensare: «La copertura quasi completa del globo
nel tempo e nello spazio ha reso il libro una
forma sempre più obsoleta di comunicazione. Il movimento lento dell’occhio lungo le
linee di caratteri, il lento processo degli
oggetti organizzati dalla mente per adattarsi a queste sterminate colonne orizzontali –
questi procedimenti non possono restare in
piedi di fronte alle pressioni della copertura
istantanea della terra».
Altrove egli apre la questione delle
conseguenze sociali e politiche della
cospicua accelerazione dei flussi delle
informazioni: «è la quantità pura di informazioni che ci ha allontanati dalla realtà
politica e sociale. La grande città isola il singolo cittadino, ma le prospettive multiculturali della stampa hanno isolato lo spirito
umano da qualunque ambiente». Internet
può forse essere la soluzione a questo
problema.
Oggi, infatti, nell’era 2.0, con il social
software si creano in tempo reale delle
comunità come le pratiche del blogging
o il social tagging.
Già prima dell’ipertesto McLuhan
scriveva in forma ipertestuale. Anche
questo lo aiutava a leggerlo in quel
senso. I suoi scritti sembravano sempre
fare delle connessioni tra chiasmi logici e incongruità.
Al modo di Edward De Bono, ma
molto prima, aveva inventato il gioco
delle 52 carte in cui ognuna di esse
conteneva una dichiarazione (spesso
divertente). Il ruolo del giocatore consisteva nel selezionare alcune schede a
caso e collegarne il contenuto alle
domande o ai problemi che in quel
momento gli passavano per la testa.
Provando a collegarle a qualsiasi domanda che abbiamo in mente, si scoprirà che pensiamo nella stessa maniera in cui navighiamo sul web, passando
da un sito a un altro.
UN POETA DELL’ELETTRICITÀ
Certamente, potremmo derubricare
questa tecnica come l’ennesimo tentativo di self-help del pensiero laterale.
Con McLuhan esso diviene l’innesco
per una rivoluzione epistemologica.
A mio avviso il nuovo modo di pensare in forma ipertestuale è legato a
qualche cosa di molto più antico, più
27 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08
CONSUMI E SOCIETA’
efficace e durevole, la pratica millenaria
dello “I Ching” (Yijing), il libro delle
divinazioni creato dai cinesi quattrocento anni fa. Funziona come l’oroscopo, con una scommessa. Con un tiro di
dadi, o l’equivalente cinese, si ottiene
una serie di dichiarazioni che bisogna
collegare alla propria situazione vista
come una totalità comprendente passato, presente e futuro.
McLuhan chiamava questa specie di
pratica «predire il presente». È il tipo di
spazio mentale che giovani surfer del
web, wikipediani e networking taggers
stanno oggi sviluppando.
McLuhan era senza dubbio un poeta
dell’elettricità e ha dato grandissima importanza e rispetto all’arte e alla sensibilità artistica. La sua comprensione del
potere retorico della pubblicità e dei
media derivava dall’aver studiato la poesia. Edgar Allan Poe gli insegnò a iniziare dagli effetti dei media piuttosto
che dalle loro cause.
Quello che affascinava McLuhan nei
simbolisti francesi era una speciale cornice mentale che egli paragonava a un
effetto dell’elettricità. Sinestesia che
punta all’invisibile e alla magia dell’azione a distanza, il simbolismo è un
movimento che McLuhan esplicitamente associava all’elettricità, con Baudelaire e Mallarmé, e nella cultura anglosassone con Eliot, Pound, e Joyce.
Come James Joyce, egli considerava gli
artisti come persone che «forgiano l’innata consapevolezza della propria specie».
Aiutandosi con le grandi intuizioni
contenute in Finnegans Wake di Joyce,
ha reso evidente e palpabile che i cambiamenti nel nostro modo di sentire e
di pensare provengono dai mezzi di
comunicazione elettronici che vanno
dal telegrafo al computer.
Occupandosi degli effetti dei media sui
sensi, McLuhan si è rivolto verso altre
arti nella ricerca di spunti sulla sensibilità. L’elettricità, dando una nuova sensorialità al linguaggio, ha rivoluzionato la
nostra vita sensoriale, e convenendo con
McLuhan, sono solo gli artisti le persone «dalla consapevolezza totale».
Gli artisti studiano gli effetti, non le
cause, della situazione contemporanea e
dei nuovi media; quindi sono gli unici in
grado di predire con sincerità le conseguenze psicologiche di questi media.
McLuhan insisteva sul fatto che il
mondo elettronico non è visuale ma
tattile. Egli sosteneva che ci sono un
collegamento e una continuità fluida
tra le correnti organiche del corpo e
quelle tecniche nella griglia elettronica
della Terra. I media elettronici coinvolgono profondamente le persone nelle
vite di tutti gli altri.
Tutti i mezzi di comunicazione interattivi e le interfacce in generale possono
essere utilmente visti come estensioni
tattili della mano e del corpo. Essi modulano gli intervalli tra i nostri corpi e
il mondo, come la musica o la danza. È
anche possibile immaginare il cursore, il
mouse, il touchpad e la tastiera come
una modalità tattile di navigare nelle informazioni, cliccando, trascinando e
muovendo le acque dello schermo.
UN TERRENO
DI EVENTI
INTERATTIVI
McLuhan oggi è a mio avviso hypertinente, iper-pertinente. Certamente
non ha predetto internet, ma egli ha
osservato che, dopo aver esteso i nostri
sensi e il nostro sistema nervoso centrale, «sarebbe stato un piccolo passo esternalizzare anche la nostra coscienza».
La cosa sorprendente è che mentre egli
non aveva idea di cosa fosse un computer, internet o persino i telefoni portatili, ciò che indicava in ogni suo scritto,
da “Gli strumenti del comunicare” in avanti, sembra sempre includere questi
mezzi di comunicazione, e aiuta ancora oggi a comprenderli.
Sebbene lo stato del Mondo oggi sia
lontano dall’essere roseo come al tempo di McLuhan nonostante in quegli
anni ci fosse la minaccia nucleare, la sua
instancabile indagine sulla polverizzazione della nostra condizione presente
ci aiuta a riconoscere che questa è una
transizione, e ci aiuta a vedere i contorni del genere umano elettronico.
Uno dei pensieri più stimolanti e belli
di McLuhan è a mio avviso: «nell’era
elettronica, indossiamo l’umanità intera come la nostra pelle».
Egli faceva anche un’importante connessione tra questa consapevolezza del
mondo e la conoscenza di noi stessi:
«siamo costretti a reagire al mondo come ad
una totalità… perché i media elettronici
creano in maniera istantanea un terreno di
eventi interattivi in cui ciascuno partecipa».
In questo senso siamo connessi psico-
logicamente per sempre con l’intera
scena contemporanea.Vi è qui una fine
percezione di ciò che oggi appare come un total surround, la profonda comprensione dell’intimità e dell’immediatezza della tecnologia elettronica, delle
nostre interfacce con il mondo come,
per esempio, la prossimità che intratteniamo con i nostri telefoni mobili. Alla
fine, l’elettricità produrrà trasparenza e
determinerà una nuova etica globale
per garantire la coabitazione pacifica.
L’elettricità è talmente più veloce della
scrittura che tutto ciò potrebbe accadere prima di quanto pensiamo. È questa
speranza, per me, l’eredità pubblica di
Marshall Herbert McLuhan.
Derrick de Kerckhove
Direttore del McLuhan Program in Culture and Technology
dell’Università di Toronto.
Testo della conferenza “Ognuno è creativo.
Sull’eredità di Marshall McLuhan” organizzata dall’Istituto di
Comunicazione dell’Università IULM di Milano.
Traduzione dall’inglese di Tito Vagni.
Da “Il Domenicale” del 10.05.2008 - pgc
29 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08
NUOVA COMUNICAZIONE
Quando la pubblicità
inquina il mondo
Greenwashing, una modalità di comunicare
per “rinverdire” l’immagine di prodotti e di aziende.
Qualcuno tuttavia vigila e denuncia il fenomeno
indicandone i sei peccati capitali.
Con qualche esagerazione.
Si chiama “greenwashing” ed è l’ultima
ricetta segreta per “lavarsi la coscienza”. Questo curioso neologismo si utilizza ogni qual volta un’azienda si appropria (abusivamente) di un’immagine ambientalista. Questa operazione
permette di presentarsi al pubblico come paladini della natura, anche se magari si producono detersivi inquinanti
o alimenti poco salutari.
Secondo il sito greenwashing.net, questa pratica è aumentata in modo esponenziale da circa 20 anni, man mano
che i problemi dell’ambiente hanno
iniziato ad interessare (e a preoccupare)
il grande pubblico.
I grandi marchi hanno imparato ad
allettare quella fetta di consumatori più
attenta al rispetto della natura, e hanno
di conseguenza modificato il loro modo di fare comunicazione.
I
SEI PECCATI CAPITALI
DEL GREENWASHING
TerraChoice, società specializzata in
“environmental marketing”, ha stilato
alcuni mesi fa una lista dei peccati mortali della comunicazione che farebbero
piombare qualsiasi azienda nei gironi
infernali del “greenwashing”.
1) Peccato del Trade-Off Nascosto
Commettono questo peccato il 57% di
tutti i prodotti pubblicizzati come “verdi”, per esempio apparecchiature elettroniche a basso consumo, ma che contengono materiali nocivi.
2) Peccato della Nessuna Prova
Si forniscono dati scientifici comprovanti la bio-compatibilità del prodotto,
ma non supportati da alcuna prova.
(26% di peccati commessi).
30 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08
3) Peccato della Nebulosità
Si usano affermazioni tipo “naturale al
100%” senza specificare che molte sostanze naturali sono velenose (confermato nell’11% dei casi esaminati).
4) Peccato dell’Irrilevanza
Quando si vantano plus inutili come
“senza CFC” che sono stati banditi 20
anni fa (rilevato nel 4% dei prodotti esaminati).
5) Peccato del Contaballe
Consiste nell’esibire certificazioni internazionali (come EcoLogo o Energy
Star) senza averne i requisiti.
6) Peccato del Minore dei due mali
Viene commesso quando si spaccia per
“ecologico” un prodotto di per sé nocivo (per esempio, una sigaretta realizzata con tabacco “organico”).
GREENWASHING A TUTTO GAS
Le automobili ci offrono un esempio
lampante del fenomeno “greenwashing”. SUV e fuoristrada, in pubblicità, sono tutto fuorché le ingombranti
presenze sulle nostre strade. Mastodontici 4x4 sono rappresentati sempre
come animali in libertà in un ambiente naturale incontaminato. Predatori al
vertice della “catena alimentare”, tanto
nel panorama automobilistico, come in
quello dei consumi.
Il tentativo è di presentare l’auto come
un prodotto in armonia con la natura,
anche senza affermare direttamente che
l’auto “non inquina”. La General Motors è finita per questo motivo nella
lista nera di greenwashing.net.
In Europa qualcuno pensa di arginare il
fenomeno. In Norvegia sono da poco
entrate in vigore nuove norme per
regolamentare la pubblicità delle auto-
mobili. Il difensore civico dei consumatori norvegese (ombudsman) ha bollato come pubblicità ingannevole qualsiasi tentativo di dare all’automobile
l’immagine di “amica dell’ambiente”.
Il giudizio delle autorità è perentorio:
“Le auto non possono fare niente di
buono per l’ambiente, a parte arrecare
un minor danno rispetto ad altre auto.”
Al massimo si può affermare che un
modello inquini di meno; in Norvegia
hanno infatti tenuto conto di tutto il
ciclo di vita di un’auto dalla nascita fino
allo smaltimento: produzione, emissioni,
consumo energetico e parti riciclabili.
Ma il greenwashing, per quanto riguarda le automobili, è il piccolo sintomo
di un male ben più grave. Di recente,
associazioni ambientaliste come Amici
della Terra e WWF Italia hanno presentato la prima indagine nazionale sul
ruolo del marketing pubblicitario delle
auto nella riduzione delle emissioni di
CO2. Il risultato è sconfortante: le auto
più inquinanti sono anche quelle più
pubblicizzate.Tutto questo, in barba agli
accordi comunitari per la riduzione dell’inquinamento da anidride carbonica.
La ricerca è stata effettuata su un campione rappresentativo di media a diffusione nazionale (stampa e TV) da novembre 2007 ad aprile 2008.
E’ interessante l’analisi delle principali
leve emozionali utilizzate per indurre
all’acquisto. Sulla carta stampata, per il
67% si fa riferimento al basso costo (e
solo l’1% ai bassi consumi). Seguono il
comfort e il piacere di guida (49%), le
prestazioni (26%) e la sicurezza (23%).
Angela d’Amelio - [email protected]
Solo l’8% degli annunci sottolineava le
basse emissioni di gas nocivi per
l’atmosfera. Nelle campagne stampa,
inoltre, è necessario inserire le dovute
informazioni sui consumi e sulla produzione di CO2. Tuttavia questi messaggi sono stati posti in secondo piano:
le informazioni sono risultate ben leggibili e in evidenza – rispetto agli altri
testi dell’annuncio – solo nel 6,4% dei
casi esaminati.
La situazione non migliora nella pubblicità televisiva, dove i concetti di sicurezza (96%), prestazioni (94%) e piacere di guida (93%) dominano incontrastati, oltre a indicare un incredibile uniformità dei messaggi da comunicare.
La leva dell’ecologia è utilizzata solo nel
27% dei casi, con appena il 3% riguardanti le minori emissioni di anidride
carbonica.
Fulco Pratesi, presidente del WWF Italia, tuona contro i grandi marchi di automobili e i pubblicitari: “[…] le case
automobilistiche non stanno pubblicizzando in maniera prevalente quei modelli che, già oggi disponibili presso i
concessionari, consentirebbero il rispetto degli obiettivi comunitari in anticipo sui tempi previsti, anzi: stanno
continuando a promuovere modelli ad
alte emissioni, secondo un trend che
impedirà il raggiungimento degli
obiettivi di riduzione formulati dalla
Commissione. Obiettivi che peraltro
noi riteniamo ancora insufficienti per
fare in modo che anche il settore dei
trasporti contribuisca in modo significativo a una riduzione europea che deve essere del 30%, per stare al passo con
gli obiettivi internazionali e con gli
allarmi degli scienziati”.
Questi anatemi trovano eco in un’intensa attività di controinformazione
nella rete. Il sito “The Unsuitablog”
(http://thesietch.org/mysietch/keith),
scritto dall’ambientalista Keith Farnish,
è tutto dedicato a “smascherare ovunque le ipocrisie sull’ambiente).Tra i casi
denunciati da Farnish, quello del SUV
ibrido Chevy Tahoe, “auto verde
2008”. Una vettura che, a dispetto dei
titoli conquistati, consuma un litro di
benzina ogni 5 chilometri nel ciclo urbano. La penna caustica di Farnish non
risparmia nessuno, dai grandi marchi
automobilistici, ai produttori di computer, alle compagnie di telefonia mobile. È una lettura disarmante che, comunque la si pensi, dovrebbe far riflettere sul nostro ruolo di comunicatori.
E cioè di comunicare bene, senza ingannare il prossimo.
Angela D’Amelio
Maledetti SUV
Condivido senza riserve l’invito finale
di Angela D’Amelio a comunicare bene
senza ingannare il prossimo. Ma credo
che questa sollecitazione vada rivolta
anche ai paladini del “no, sempre e
comunque” che con il loro oltranzismo
integralista si sono giocati ogni residuo
di credibilità.
Qualche esempio: nell’articolo si afferma
che non vengono pubblicizzati, o quantomeno, non come tali, veicoli meno inquinanti. E l’advertising di Toyota Yaris
che fa dei bassi consumi il suo cavallo di
battaglia? E quella delle auto ibride
Prius, sempre di Toyota, Lexus 400 e di
molte “piccole risparmiose”? E, sempre
a proposito di automobili, che dire della
stucchevole polemica e degli anatemi scagliati contro i cosiddetti SUV, definiti
mastodontici ed inquinanti? Questo è
un caso lampante di disinformazione: i
SUV che circolano sulle strade europee
(di produzione continentale, coreana e
giapponese), non hanno niente a che vedere con quelli d’oltre Atlantico, assetati
e realizzati a misura delle highways americane: il loro ingombro (inteso come
impronta al suolo) non supera quello
delle berline, per la semplice ragione che
quasi sempre ne condividono i pianali, e,
quanto a consumi, non eccedono, se non
marginalmente, quelli delle berline stesse. Di contro, sono più spaziosi, consentono un carico maggiore e sono infinitamente più sicuri di molte di quelle scatolette di latta che sfrecciano a centosessanta all’ora in autostrada. Ma tant’è: i professionisti nostrani del “no, sempre e
comunque”, hanno fatto propria la polemica anti-SUV d’oltreoceano, senza
neppure prendersi il disturbo di fare le
necessarie verifiche, con il risultato di
disinformare e di coprirsi di ridicolo.
Come sostengo nel pezzo “La lezione
di Federico” (vedi a pag. 15), sono state
proprio le esagerazioni ed i reiterati no,
uniti alla evidente incapacità di formulare proposte alternative praticabili, ad
allontanare dai movimenti verdi le persone ragionevoli, con le conseguenze che
la recente tornata elettorale ha determinato.
Direte, ma perchè s’incazza Gargamella? Facile. E’ il felice proprietario di
un ottimo SUV (BMW), che, guarda
caso, ha le stesse misure e gli stessi consumi di una berlina Serie 5.
Provare per credere.
Gargamella
31 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08
NUOVA COMUNICAZIONE
Emetrics Summit.
Presente e futuro
della web analytics
Monitorare con precisione il comportamento degli utenti
è una necessità vitale per chi investe sul web.
Si è svolto a fine maggio a Londra l’Emetrics Marketing Optimization Summit, il
più importante evento europeo sul tema
della misurazione dei dati nel web.
Si tratta di uno dei temi caldi del momento: al costante incremento dei budget
pubblicitari destinati all’on-line consegue
la necessità per gli investitori di valutare
quali siano i risultati ottenuti.
Il web, a differenza di altri mezzi di comunicazione, è misurabile, è infatti possibile monitorare con una certa precisione
il comportamento degli utenti di un sito.
Nei due giorni dell’Emetrics di Londra si
è cercato di disegnare quale sia lo stato
dell’arte in Europa della web analytics: è
stata ribadita più volte la necessità per le
aziende di adottare una filosofia in cui le
scelte strategiche per il canale web siano
motivate delle evidenze delle analisi sui
dati.
STRUMENTI E COMPETENZE
La aziende hanno dunque la necessità di
dotarsi di strumenti, ma soprattutto di
competenze per analizzare in dettaglio
l’utenza del proprio sito.All’evento londi-
nese è stata evidenziata la tendenza ad
integrare i dati del traffico web con gli
altri dati in possesso dell’azienda, per tracciare un profilo completo dell’utente.
Esemplare il caso del New York Times
che ha monitorato il comportamento degli utenti che avevano fatto una registrazione per l’acquisto dell’abbonamento al
giornale cartaceo. Sulla base della registrazione sono stati raccolti dati di carattere
socio demografico dei visitatori, valutando poi il loro comportamento sul sito e
quindi l’interesse per le varie notizie.
Sono così emerse importanti indicazioni
di carattere editoriale, per esempio su
quali fossero le tematiche più lette da un
determinato profilo di utenza.
E’ stato poi affrontato il tema dei social
media (YouTube, Facebook, LinkedIn,
etc.) come strumento per generare traffico sul sito ma non solo: Nissan Europa ha
utilizzato una sorta di spider in grado di
rilevare nei vari social media i contenuti
riguardanti il brand e in generale l’automobile.
Sulla base di questa raccolta di contenuti
è stato possibile capire i punti di forza e di
debolezza del brand e i temi a cui gli
utenti sono più sensibili (spaziosità dell’abitacolo, comodità del posto di guida,
prestazioni dell’automobile,etc).Lo scopo
della web analytics è infatti quello di ottimizzare i risultati del web, si tratta di un
perfezionamento continuo, in cui ad una
fase di misurazione del comportamento
degli utenti segue la ridefinizione delle
strategie e quindi un ulteriore monitoraggio volto a capire se le nuove decisioni
hanno effettivamente generato dei miglioramenti.
L’Emetrics ha messo in luce una forte
attenzione per la web analytics soprattutto negli Stati Uniti, nella Gran Bretagna e
nei più evoluti paesi europei. In Italia è
solo una questione di tempo, intanto le
aziende che per prime iniziano ad investire in questo settore hanno una marcia
in più per il successo nel web.
Mauro Canzian
Web Analytics Manager di TSW
Who’s Who in Italy Gold Edition 2008
A partire dal mese di maggio, è disponibile
presso l’editore e nelle librerie specializzate
la nuova edizione di “Who’s Who in Italy”, la prestigiosa pubblicazione che puntualmente fornisce un attento ed accurato
ritratto delle imprese, istituzioni e classe dirigente del nostro Paese e che racconta come
e con chi sta crescendo il “sistema Italia”.
Indispensabile per quanti si occupano di business e di comunicazione, “Who’s Who in
Italy” in ogni nuova edizione aggiorna infatti il quadro dell’Italia, calibrando con attenzione nuovi “ingressi”: presenta le imprese ed i personaggi emergenti, monitora
con scrupolo i settori dell’economia e della fi32 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08
nanza, segue con costanza lo sviluppo delle
aziende che si confermano leader di mercato.
Affidabilità, selezione rigorosa, aggiornamento costante dei dati, certezza dell’informazione, accuratezza della comunicazione,
ritratti ad hoc per uomini, istituzioni e società: sono queste le caratteristiche che da sempre distinguono questo strumento di lavoro,
indispensabile per orientarsi e per capire cosa
accade in Italia e quali sono i protagonisti
del cambiamento.
“Who’s Who in Italy Gold Edition” mette
a disposizione, anche in questa edizione, un
patrimonio ricchissimo di dati ed informazioni: 7000 profili personali di perso-
naggi di rilievo in Italia, di cui vengono indicati il percorso professionale e l’incarico attuale, e 4500 profili di banche, istituzioni,
strutture finanziare ed aziende di tutti i settori merceologici con
testi che mettono in luce
strategie, obiettivi, presenza internazionale.
Per informazioni:
Enrica Vigato
Tel. 0266503014
[email protected]
NUOVA COMUNICAZIONE
Stefania Salucci - [email protected]
Non chiamatelo
pubblicità occulta
Se non viene usato in maniera indiscriminata
il Product placement è uno strumento efficace
di comunicazione aziendale:
è il vero “Consiglio per gli acquisti”.
Con la nascita del Product Placement
sono nate professioni, agenzie specializzate e tecniche di comunicazione che
hanno contribuito a istituzionalizzare
questa attività. Una delle prime case di
produzione a gestire il Product Placement
in Italia è stata Cattleya con il film L’uomo Perfetto (Luca Lucini, 2005), grazie al
quale ha vinto la “Grolle d’oro per il
product placement” per il posizionamento di Coca-Cola light.
“La Cattleya è una bellissima orchidea, un
tempo selvatica,oggi coltivata in serra con
molta cura e tecnica: un po' come dovrebbe succedere per il cinema”.
Così si presenta questa casa di produzione
fondata nel settembre 1997 da Riccardo
Tozzi, allora Capo delle Produzioni di
Mediaset.
Oggi conta tre soci maggioritari, Riccardo Tozzi, Giovanni Stabilini (ex direttore generale di Mediaset) e Marco Chi-
menz (ex Vice Presidente Medusa) che,
grazie al loro know-how in materia di
produzione, distribuzione e finanziamento internazionale, hanno creato l'unica
società di produzione cinematografica italiana con un approccio di tipo industriale.
Questo approccio pragmatico è stato
condiviso, nel 2000, dall'ingresso in Cattleya di due soci minoritari:il gruppo editoriale De Agostini e il fondo di investimento San Paolo IMI Private Equity.
Tra i metodi che Cattleya utilizza per aiutare economicamente e quindi qualitativamente la produzione c’è proprio il
Product Placement.
Abbiamo intervistato la responsabile del
Product Placement di Cattleya, Elisa
Boltri, per avere da lei uno scenario attuale di quella che è la situazione del Product Placement in Italia.
C’è chi accusa il Product Placement di
essere pubblicità occulta: come risponde?
«Ritengo che definire il Product Placement
pubblicità occulta sia un atteggiamento anacronistico. Il cinema, e non solo, racconta la nostra
realtà e riflette il mondo in cui viviamo, che è
un mondo fatto di bisogni, prodotti, marchi e
beni di consumo di ogni sorta.Lo spettatore,ma
anche il consumatore, ha ormai sviluppato una
capacità critica rispetto a ciò che vede o ciò che
acquista».
Ci dà una Sua breve definizione di Product Placement?
«Il Product Placement andrebbe semplicemente
considerato come uno strumento efficace di
comunicazione. Io lo definisco il vero “consiglio
per gli acquisti” perché, diversamente dalla pubblicità che porta un modello di comportamento
esasperato ed esasperante nella sua perfezione,
perfezione in cui difficilmente una persona si
può identificare,il Product Placement inserisce il
marchio o il prodotto in una situazione di
realtà, all’interno di un flusso narrativo dove i
personaggi oltre al uso o al consumo hanno una
storia da raccontare e condividere con lo spettatore».
Ci può delineare un piccolo scenario del
Product Placement in Italia?
«Il product placement può essere verbale, visuale
e integrato.A ogni tipo di placement corrisponde
una cifra in termini economici che varia a seconda della presenza del prodotto o del marchio
in una o più scene. Se il product è integrato e
coerente alla sceneggiatura è difficile trovare
resistenze da parte dei registi che anzi lo vivono
come un elemento caratterizzante del personaggio. Se invece vengono fatte delle “forzature” il
risultato è spesso deludente, sia per l’azienda
che per lo spettatore perché l’inserimento viene
percepito come un elemento di intrusione».
Il Product Placement può davvero essere
la soluzione al problema dei finanziamenti statali? Di che cifre si parla?
«Il Product Placement può essere un elemento
di supporto per il finanziamento di un film,ma
non ritengo che vada percepito come la
soluzione al problema dei finanziamenti
statali. Il rischio che si corre è che per sopperire
alla carenza di fondi si debbano inserire troppi
marchi all’interno del film. Il Product
Placement aiuta il cinema italiano, ma non si
può farne un utilizzo eccessivo solo per far
fronte ad esigenze di budget».
Dal 26 al 29 giugno 2008 si terrà a Ischia
il primo Festival europeo dedicato alla
pubblicità indiretta a cura dell'Associazione Culturale Art Movie e Music.Credi
33 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08
NUOVA COMUNICAZIONE
che questi festival aiuteranno a sdoganare
il Product Placement?
«Penso che sia importante parlare del Product
Placement e che ogni occasione vada sfruttata al
meglio, sia che si tratti di un premio che di seminari, congressi, tavole rotonde in cui le aziende,
i produttori e le agenzie si confrontino per stabilire una linea comune di collaborazione».
Come si realizza un buon Product
Placement?
«Un buon Product Placement si realizza quando il prodotto è presente all’interno del film
senza che venga percepito come un messaggio
pubblicitario. Un esempio lampante è sicuramente la pellicola Juno di Jason Reitman,dove
i Tic Tac,associati al personaggio di Paulie interpretato da Michael Cera, sono protagonisti
senza che lo spettatore li percepisca in modo
invasivo.Anzi il prodotto caratterizza sia il personaggio che la narrazione della storia arricchendola di contenuti. La dimostrazione più
evidente del buon esito di questo Placement è il
premio che ha ricevuto il film, non un premio
specifico sull’inserimento, ma un premio, il premio per eccellenza per i film: l’Oscar (miglior
sceneggiatura)».
Quando il product placement può
diventare dannoso per il film? Oltre quali
confini non dovrebbe mai andare?
«I confini sono quelli del buon gusto, non
bisogna mai sovresporre il prodotto o il marchio
all’interno del film, bisogna sempre trovare l’equilibrio tra la sua visibilità e una presenza
troppo invasiva all’interno della scena.
Un buon risultato si ottiene quando l’azienda
si ritiene soddisfatta dell’inserimento e lo spettatore percepisce la partecipazione del marchio
senza fastidio».
Quando consigliare il Product Placement
(a registi e aziende)? E quando sconsigliarlo?
«Il Placement è sempre consigliabile: ogni prodotto può avere la sua collocazione all’interno
della pellicola, l’importante è che sia coerente
con i personaggi.
Alle aziende consiglio di valutare ogni singolo
caso, anche quando viene loro proposto un uso
non convenzionale del prodotto, purché naturalmente non rasenti il limite del denigratorio».
Ora proviamo ad andare oltre: in USA il
Product Placement viene fatto a teatro, al
cinema, in televisione, nei video musicali,
nei video games e nei libri.
Quali applicazioni reali e a breve termine
potrebbe avere il Product Placement in
Italia?
«Ritengo che il cinema, ad oggi in Italia, sia
ancora lo strumento più efficace per il Product
Placement. Certamente quando sarà possibile
fare Product Placement anche nelle serie tv si
aprirà un mercato interessante anche se il rischio, come sempre, è quello di fare del Product
Placement un uso indiscriminato».
Stefania Salucci
35 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08
HIGH-TEC
Nuovi drive da WD
Il massimo delle prestazioni
La nuova linea My Book Studio Edition II,
composta da sistemi di storage dual-drive
sono progettati per operare in maniera ottimale con computer Mac e fornire il mix
ideale tra risparmi energetici e prestazioni
elevate. Già disponibili presso i migliori
rivenditori, i nuovi sistemi storage dualdrive My Book Studio Edition II sono
disponibili nella capacità di 1TB e 2TB.
I nuovi sistemi storage esterni dual-drive
ed ecocompatibili My Book Studio
Edition II utilizzano dischi WD GreenPower per garantire risparmi energetici e
operazioni silenziose e fresche. Il doppio
drive del sistema, la configurazione RAID
0 ed interfacce ad alta velocità garantiscono
le elevate prestazioni richieste da professionisti della creatività, gruppi di lavoro,
piccoli uffici e da chiunque abbia necessità
di elevati valori di data transfer.
Formattati per Mac, questi nuovi sistemi
storage offrono: prestazioni estremamente
veloci con quattro interfacce (Firewire
400/800, e SATA, USB 2.0); una configurazione RAID 0 (Striped) predefinita, che
può essere portata a RAID 1 (Mirrored);
operatività fresca ed ecocompatibile grazie
ai dischi WD GreenPower, che consumano
circa un terzo di energia in meno rispetto
ai sistemi dual-drive esterni standard e
dispongono di modalità efficienti di raffreddamento e di riduzione dei consumi;
una garanzia di 5 anni; software di backup
continuo e automatizzato; un indicatore di
capacità per vedere a colpo d’occhio quanto spazio rimane disponibile sul sistema;
funzionalità di gestione intelligente del
drive, che comprendono power-up automatico, Safe Shutdown, LED e indicatori di
attività: possibilità di operare sul dispositivo,
che offre all’utente la possibilità di aprire la
confezione e sostituire uno dei drive; e un
design argento metallico che si sposa perfettamente con altri prodotti Mac.
“WD ha sviluppato i dischi esterni My
Book Studio Edition II per rispondere alle
necessità di entusiasti del Mac e professionisti della creatività che richiedono prestazioni estremamente elevate, ma vogliono
avere sull’ambiente il minore impatto possibile”, spiega Jim Welsh, vice president and
general manager branded product e consumer electronic group di WD.
“Con drive già configurati RAID 0, fotografi, artisti, grafici e tutti coloro che richiedono grandi quantità di storage potranno avere grandi prestazioni abbinate a
36 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08
risparmi energetici ed alla massima silenziosità delle operazioni grazie ai nuovi sistemi storage My Book Studio Edition II.”
vataggio di enormi blocchi di dati in tempi
record. Con RAID 0 gli utenti dispongono
di 2TB di storage in un formato contenuto ed elegante che offre spazio a sufficienza per archiviare un’intera libreria di
fotografie digitali e centinaia di ore di film
o video digitali HD (i risultati variano in
base a formato e dimensioni, setting, caratteristiche, software e altri elementi del file).
Il massimo delle prestazioni con RAID 0
Interfacce eSATA o FireWire 800 ad alta
velocità associate a RAID 0 (Striped) soddisfano le necessità degli utenti esigenti
legate a video editino, rendering di oggetti
3D complessi o di effetti speciali, e sal-
Prezzo e disponibilità
I sistemi di storage dual-drive MyBook
Studio Edition II sono già disponibili presso i migliori rivenditori al prezzo indicativo di 289 Euro per la versione da 1 TB e di
569 Euro per quella da 2 TB.
WD VelociRaptor
Il più veloce al mondo
WD® annuncia la disponibilità dei drive
WD VelociRaptor™, la nuova generazione
di dischi SATA da 10.000 RPM della serie
“Raptor”.
Progettato per offrire prestazioni di livello
enterprise, il nuovo WD VelociRaptor è
stato pensato appositamente per utenti PC
e Mac e di workstation professionali.
Destinato a divenire l’hard disk di riferimento per questa tipologia di utenza,
l’hard drive WD VelociRaptor offre il
doppio della capacità e prestazioni del 35%
superiori rispetto alla generazione precedente.
Come il WD Raptor, il più diffuso hard
drive per coloro che richiedono il massimo dal proprio disco SATA, WD
VelociRaptor è realizzato con una meccanica di livello enterprise e offre 300 GB di
capacità in un formato da 2,5 pollici. WD
VelociRaptor è inserito nell’IcePack™,
una struttura da 3,5 pollici con heat sink
integrato – personalizzazione che permette l’inserimento del drive in uno slot standard da 3,5 pollici e ne mantiene bassa la
temperatura se installato in uno chassis
desktop ad alte prestazioni.
WD VelociRaptor rappresenta la novità
per gli amanti di PC in cerca di velocità e,
come per tutti i drive WD, l’attenzione al
dettaglio in termini di funzionalità,
prestazioni e affidabilità rimane una priorità.
cia SATA 3 Gb/s e 16 MB di cache, assicurano prestazioni senza eguali.
• Massima affidabilità
I drive WD VelociRaptor sono progettati e
realizzati nel rispetto di standard businesscritical di livello enterprise al fine di
fornire la massima affidabilità in ambienti
high duty. Il disco assicura la più elevata
disponibilità rispetto a ogni altro drive
SATA con un valore di MTBF pari a 1,4
milioni di ore.
• Struttura IcePack
I drive da 2,5 pollici WD VelociRaptor
sono integrati in una cornice da 3,5 pollici dotata di heat sink integrato, che
mantiene bassa la temperatura quando
installati in chassis desktop ad alte
prestazioni.
• Rotary Acceleration Feed Forward
(RAFF™)
Ottimizza le performance quando i drive
vengono impiegati in chassis multi-drive a
prova di vibrazioni.
• SecurePark™
Parcheggia le testine al di fuori della superficie del disco in fase di spin up, spin
down e quando il drive è spento garantendo così che la testina di registrazione non
tocchi mai la superficie e assicurando maggiore affidabilità sul lungo termine e protezione del drive quando lo chassis viene
spostato.
Tra le nuove caratteristiche del WD
VelociRaptor vi sono:
• Massima velocità
Costruiti sulle prestazioni del WD Raptor,
questi drive da 10.000 RPM, con interfac-
Prezzo e disponibilitá
Gli hard drive WD VelociRaptor (modello
WD3000GLFS) sono disponibili in Italia a
partire al prezzo indicativo di 300 Euro, Iva
compresa.
MOSTRE
Ornatissimo Codice
La biblioteca
di Federico da
Montefeltro
a Urbino
Urbino - Palazzo Ducale
Galleria Nazionale delle Marche
info: tel. 0722/322625
www.bibliotecafederico.it
La mostra è aperta fino al 27 luglio
Alla morte di Federico da Montefeltro
la collezione di manoscritti e di codici
del Quattrocento, superava in qualità
quelle dei Medici e degli Sforza.
“Ornatissimo Codice”, la mostra allestita presso il Palazzo Ducale, rappresenta
un’occasione unica per ammirare straordinarie testimonianze di quella irripetibile fucina culturale che fu la corte
urbinate.
Luciano Ventrone
a Chivasso
Palazzo Luigi Einaudi
Piazza D'Armi, 6 - 10034 Chivasso (To)
Tel. 3394673821, 011.9103591
Orario: martedì, giovedì e venerdì: 16-19
mercoledì: 10-12,
sabato e domenica: 10-12 e 16-19
email: [email protected]
Cinquanta rare opere del celebre artista
noto al mondo soprattutto per le sue
nature morte. Quella di Ventrone è una
passione autentica e tenace per l’arte
classicamente intesa, un sentimento che
lo spinge al di fuori delle regole del
mercato e al di là delle mode del momento. Un artista senza tempo che
guarda con occhio grato ai grandi artisti del passato, a Caravaggio per primo, ma che si compiace di esprimere,
col silenzio straniante tipico di ogni
composizione iperrealista, la realtà del
nostro secolo, di cui si vede l’apparenza
ma se ne subodora lo spirito.
37 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08
INCONTRI
Jorge Luis Borges
Jorge Luis Borges
Istanti
Se potessi vivere di nuovo la mia vita,
nella prossima cercherei di commettere più errori.
Non cercherei di essere così perfetto, mi rilasserei di più.
Sarei più sciocco di quanto non lo sia già stato,
di fatto prenderei ben poche cose sul serio.
Sarei meno igienico.
Correrei più rischi,
farei più viaggi,
contemplerei più tramonti,
salirei più montagne,
nuoterei in più fiumi.
Andrei in più luoghi dove mai sono stato,
mangerei più gelati e meno fave,
avrei più problemi reali, e meno problemi immaginari.
Io fui uno di quelli che vissero ogni minuto
della loro vita sensati e con profitto;
certo che mi sono preso qualche momento di allegria.
Ma se potessi tornare indietro, cercherei
di avere soltanto momenti buoni.
Chè, se non lo sapete, di questo è fatta la vita,
di momenti: non perdere l'adesso.
Io ero uno di quelli che mai
andavano da nessuna parte senza un termometro,
una borsa dell'acqua calda,
un ombrello e un paracadute;
se potessi tornare a vivere, vivrei più leggero.
Se potessi tornare a vivere
comincerei ad andare scalzo all'inizio della primavera
e resterei scalzo fino alla fine dell'autunno.
Farei più giri in calesse,
guarderei più albe,
e giocherei con più bambini,
se mi trovassi di nuovo la vita davanti.
Ma vedete, ho 85 anni e so che sto morendo.
Gauchos
Come potevano sapere che i loro antenati
erano venuti su un mare,
come potevano sapere cosa sono un mare
e le sue acque.
Meticci dell'uomo bianco, lo stimarono poco
meticci dell'uomo rosso gli furono nemici.
Molti di essi non avranno mai udito
la parola Gaucho
o l'avranno sentita come un'ingiuria.
Impararono le vie delle stelle,
le usanze del vento e dell'uccello,
le profezie delle nubi del Sud
e della luna alonata.
Furono pastori di bestie selvagge,
saldi sul cavallo del deserto, domato al mattino,
veloci a prendere il lazo,
marchiatori, mandriani, capiguardiani,
talvolta banditi,
qualcuno, quello che si ascoltava fu il payador.
Cantava senza fretta, perche' l'alba tarda
a far chiaro,
e non alzava la voce.
38 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08
Jorge Francisco Isidoro Luis Borges
Acevedo è ritenuto uno dei più importanti e influenti scrittori del XX
secolo. Narratore, poeta e saggista, è
famoso per i suoi racconti, nei quali
ha saputo coniugare idee filosofiche
e metafisiche con i classici temi del
fantastico (quali: il doppio, le realtà
parallele del sogno, i libri misteriosi e
magici, gli slittamenti temporali).
Oggi l'aggettivo «borgesiano» definisce una concezione della vita come
storia (fiction), come menzogna, come opera contraffatta spacciata per
veritiera (come nelle sue famose recensioni di libri immaginari).
Sebbene la poesia fosse uno dei fondamenti della sua opera letteraria, il
saggio e la narrativa furono i generi
che gli procurarono il riconoscimento internazionale.
Dotato di una vasta cultura, costruì
un'opera di grande solidità intellettuale sull'andamento di una prosa
precisa e austera, attraverso la quale
poté manifestare un distacco talora
ironico dalle cose del mondo, senza
per questo rinunciare al suo delicato
lirismo. Le sue strutture narrative
alterano le forme convenzionali del
tempo e dello spazio per creare altri
mondi di grande contenuto simbolico, costruiti a partire da riflessi, inversioni, parallelismi. Gli scritti di
Borges prendono spesso la forma di
artifici o di potenti metafore con
sfondo metafisico.
Ricevette innumerevoli riconoscimenti, ma, sorprendentemente, non
il Premio Nobel.
Borges, nato nel 1899 a Buenos Aires,
morì a Ginevra nel 1986.
(da Wikipedia)
LETTURE
a cura di Paolo Romoli
Periodico di informazione
del Consiglio Direttivo
dell'Unione Nazionale Imprese
di Comunicazione - UNICOM
Anno VI - n. 31
Giugno 2008
L’altra casta
Stefano Livadiotti
Direttore Responsabile
Lorenzo Strona
Bompiani - pp. 240 - Euro 15,00
Comitato di Redazione
Claudio Breno
Alessandro Colesanti
Pasquale Diaferia
Angela D’Amelio
Renato Sarli
Comitato Scientifico
Antonio Acampora
Claudio Avallone
Nicola Bovoli
Renato Camposano
Donatella Consolandi
Federico Crespi
Francesco Ferro
Francesco Miscioscia
Rossella Tosto
Giorgio Tramontini
Biagio Vanacore
Ivano Villani
I sindacati sono oggi nel pieno di una
profonda crisi di legittimità, che rischia
di cancellare anche i loro meriti storici.
Lo strapotere e l’invadenza delle tre
grandi centrali confederali hanno prodotto nel Paese un diffuso senso di rigetto. Lo documentano tutti i più recenti sondaggi d’opinione: solo un italiano su venti si sente rappresentato dalle sigle sindacali. L’immagine del sindacato come soggetto responsabile, capace
di interpretare gli interessi generali, si è
dunque dissolta. Ed ha lasciato il posto a
quella di una casta iperburocratizzata ed
autoreferenziale che ha perso via via il
contatto con il paese reale, quello delle
buste paga sempre più leggere e delle
fabbriche dove si muore troppo spesso.
Oggi il sindacato appare come una realtà che, in nome di una concertazione
degenerata in diritto di veto, pretende
di avere l’ultima parola, sempre e su ogni cosa; che si presenta come il legittimo rappresentante di tutti i lavoratori,
ma bada solo agli interessi dei suoi iscritti (in maggioranza pensionati e
pubblici dipendenti). E perciò si mette
puntualmente di traverso a qualunque
riforma in grado di mettere in discussione uno status quo fatto soprattutto
di privilegi.
Stefano Livadiotti è una delle firme più prestigiose de “L’Espresso”: da oltre vent’anni
si occupa di economia e di politica con inchieste, interviste e reportage.
Hanno collaborato a questo numero:
Claudio Avallone
Claudio Breno
Mauro Canzian
Alessandro Colesanti
Angela D’Amelio
Derrick de Kerckhove
Pasquale Diaferia
Fiammetta Malagoli
Mario Modica
Guido Nanni
Stefania Salucci
Renato Sarli
Immagini:
TIPS images (per gentile concessione)
Copertina: Carlo Cerchioli/Grazia Neri
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