Sped. in Abb. postale 45% - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N. 46) ART. 1, COMMA 1 - FilialeI Padova dcB - Euro 2,50 In caso di mancato recapito rinviare all’ufficio Postale di Padova Cmp detentore del conto per la restituzione al mittente che si impegna a pagare la relativa tariffa Giugno 2008 Periodico di informazione del Consiglio Direttivo dell’Unione Nazionale Imprese di Comunicazione Anno VI - N° 31 L’intervista Davide Rampello. Se la pubblicità va male la colpa è solo nostra uni com UNICOM SOMMARIO EDITORIALE EDITORIALE Essere sè stessi di Pasquale Diaferia Seminari - Il Digital marketing Benvenuti in Unicom 2 3 L’INTERVISTA Rampello. Se la pubblicità va male la colpa è solo nostra di Pasquale Diaferia 5 ALTRI SGUARDI Comunicare condividendo e non imponendo di Renato Sarli 9 OPINIONI Ambiente. La lezione di Federico 11 di Gargamella Fornitori della Real Casa... 12 di Alessandro Colesanti ... o consulenti sull’orlo 13 di una crisi di nervi di Lorenzo Strona Abbiamo toccato il fondo di Renato Sarli DIRITTO E COMUNICAZIONE Parmigiano vs Parmesan di Fiammetta Malagoli 15 CREATIVITA’ Il Made in Italy della comunicazione 16 di Stefania Salucci SCENARI D’IMPRESA Destrutturare. Può essere 21 la soluzione? di Alessandro Colesanti Responsabilità sociale e PMI. 23 di Claudio Avallone MANAGEMENT D’AGENZIA Il mestiere di managerdi Guido Nanni 25 CONSUMI E SOCIETA’ McLuhan. Il padre del villaggio globale di Derrick de Kerckhove 26 Questo numero è stato chiuso il 11/06/2008 NUOVA COMUNICAZIONE Quando la pubblicità inquina 30 di Angela D’Amelio 31 Maledetti SUV di Gargamella Emetrics Summit. Presente e futuro 32 della web analytics di Mauro Canzian Non chiamatela pubblicità occulta 33 di Stefania Salucci Essere sè stessi Questo numero va in distribuzione al Festival Internazionale della Pubblicità di Cannes. E’ stato confezionato pensando a quel gruppo di delegati italiani un po’ snob e parecchio annoiati che tutti gli anni ciabatta sulla Croisette, piagnucolando. Non vinciamo mai niente, dicono. E’ colpa dei clienti, ribadiscono. Saremmo anche bravi, ma non ci danno la possibilità, si giustificano. E’ la cultura delle tv commerciali che ci strangola, azzardano. E poi c’è poco respiro internazionale, concludono con un sospiro. Irrilevante che questa litania venga soprattutto da gente che milita in compagini multinazionali, con ampi margini di autonomia, cresciuta grazie a Mediaset, ma spesso al Martinez a spese di Sipra. Gente che ancor più spesso, quando è in una giuria internazionale, sega senza pietà il lavoro dei compatrioti perché “meglio non vincer niente, che dare un premio a quello lì”. Per questo abbiamo deciso di non lasciare spazio a questi piagnucolosi. Copertina e pezzi portanti sono dedicati ad alcuni italiani che, senza lamentarsi di lavorare in questo paese, sono stati capaci di guadagnarsi reputazione non solo nazionale. Nei rispettivi campi, sono punti di riferimento. Che si tratti del presidente di un ente pubblico che da solo tiene in piedi la cultura del design e dell’immagine tricolore. O di direttori creativi capaci di imporsi come creativi italiani, prima che globali. Piuttosto che produttori che da anni investono solo su nostri talenti registici, e sono riusciti ad imporli non solo da noi, ma anche all’estero. Lo stesso vale per registi, attori, direttori della fotografia, copywriter, art director e, ovviamente, clienti, italianissimi, ma superpremiati negli altri continenti. Sono la dimostrazione pratica che non serve genuflettersi davanti ai finanzieri inglesi, che non si deve soffrire di complessi di inferiorità davanti ai creativi americani, che non servono registi taiwanesi per esprimere i nostri sentimenti. Basta solo essere noi stessi, come splendidamente raccontano quegli italiani che quest’anno hanno vinto valanghe di premi creativi all’estero con il film della Scuola Paolo Grassi. O come ribadisce Davide Rampello, presidente di Triennale Milano. Se la situazione non è bella, è solo colpa è nostra. Se migliora, è solo merito nostro.Vale per la pubblicità. Ma vale per tutto il resto della nostra “coriandolizzata” società. Perchè noi italiani possiamo farcela. Anzi, ce l’abbiamo già fatta. Senza guerre generazionali, scontri globali, povertà locali, contratti truffa, paura del domani. Siamo ottimi creativi, senza scuse di nessun tipo. Dobbiamo solo lavorare, senza pensare ai passeggiatori della Croisette.Anzi, visto che ci siamo, cominciamo a far notare loro che i veri rappresentanti dell’Italia siamo noi indipendenti, gli italiani creativi e pieni di orgoglio, coscienti delle proprie qualità. Probabilmente Impresa di Comunicazione a Cannes sarà l’unico giornale ad affrontare il tema. Ma questo, lasciatemelo dire, non è per niente un male. E’ solo essere Sé Stessi. Pasquale Diaferia HIGH-TEC I nuovi drive da VD VD VelociRaptor di Mario Modica 36 MOSTRE Ornatissimo Codice a Urbino Luciano Ventrone a Chivasso 37 INCONTRI Jorge Luis Borges 38 LETTURE Stefano Livadiotti - L’altra casta 2 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08 39 Associarsi ad Unicom conviene! Contattaci subito: www.unicomitalia.org [email protected] Seminari Unicom. Il Digital Marketing La seconda tappa dei “Seminari di aggiornamento professionale” Unicom è stata dedicata ad uno degli argomenti più dibattuti recentemente nel nostro mondo: il “Digital Marketing”. “New & classic marketing: un’alleanza possibile” è il titolo dell’incontro riservato agli Associati che si è svolto presso la Sede Unicom il 7 maggio scorso. Sotto la brillante conduzione di Sergio Poma e Stefano Saladino – Agenzia 8Com – l’incontro ha visto la partecipazione di numerosi Associati che hanno attentamente seguito gli interventi dei relatori e partecipato al vivace scambio di opinioni che ha concluso la giornata. Il Direttore Claudio Breno e Sergio Poma hanno introdotto i lavori sottolineando che “Web 2.0” è spesso oggetto di interpretazioni e valutazioni entusiastiche oppure denigratorie, in particolare riferendosi ad alcune sue utilizzazioni “modaiole”, ma, comunque, è un mezzo un po’ più complesso dei tradizionali, la cui conoscenza può tuttavia offrire concreti vantaggi competitivi alla Imprese di comunicazione che sanno meglio destreggiarsi nei suoi meandri. La possibilità di interazione “a due vie” tramite Internet, pur se ripulita dai forse eccesivi entusiasmi del recente passato, può infatti aprire modalità nuove di comunicazione applicabili sia a completamento dei metodi classici che a schemi integralmente operanti sul Web. Da qui l’opportunità di conoscere meglio i trends di mercato e le più recenti forme di utilizzo degli strumenti di digital marketing. Il successivo intervento di Andrea Santagata – Responsabile Marketing del Gruppo Banzai – ha presentato importanti, dettagliati ed aggiornati dati sulla diffusione di Internet in Italia, comparandola con quella di altri Paesi, non solo in termini numerici ma, soprattutto, analitici fornendo informazioni sulle tendenze riferite a target differenziati. Dalle informazioni fornite sono emerse indicazioni particolarmente utili all’individuazione dei profili di utenti più sensibili ad essere raggiunti dai messaggi di comunicazione tramite Web ed all’opportunità offerte dalle pianificazioni di campagne di advertising online. Stefano Saladino ha poi illustrato come un corretto utilizzo della “web analitycs”, cioè l’analisi delle principali sorgenti di traffico di un sito (attività di navigazione, transazioni on line, le performance dei server, parametri di usabilità, conversioni, etc.), possa essere utilizzata per l’ottimizzazione delle performance e il miglioramento dell’esperienza di navigazione. Inoltre la web analitycs può essere utilizzata per integrare positivamente anche le campagne advertising classiche consentendo una valutazione oggettiva, e non più solo soggettiva o epidermica, dei risultati e può anche fornire alla agenzie un argomento di vendita professionale ai loro clienti sempre ovviamente sensibili a misurare il ritorno dei loro investimenti. Il momento più simpatico e coinvolgente del Seminario è stato merito di “Bigio l’Ostér”, personaggio gradevolissimo ed esuberante titolare di un ristorante, situato sulle colline di Bergamo in un luogo difficilmente raggiungibile e pressoché sconosciuto, in cui, oltre al menù ricco di vivande rigorosamente genuine e naturali di provenienza autoctona, offre momenti culturali e di intrattenimento che hanno ottenuto riconoscimenti anche internazionali. La sua popolarità ed il suo successo sono dovuti in buona misura anche all’utilizzo di Internet che gli ha consentito di farsi conoscere, di costruire un file di “affezionati” da informare e “convocare” ai suoi “riti” (così li definisce) e di permettere una corretta gestione delle prenotazioni, superando le indubbie grandi difficoltà logistiche che la sua collocazione comporta. Un caso quindi dove una cultura apparentemente lontana dal Web ha trovato nel Web stesso il mezzo idoneo per raggiungere i suoi obiettivi. In conclusione Saladino, oltre a inquadrare le diverse visioni sul termine “Digital Marketing”, ha elencato molte delle ormai innumerevoli applicazioni offerte da “Web 2.0” ed illustrato in dettaglio le più importanti fornendo esempi pratici di possibili loro utilizzi chiarendo peraltro che una loro completa conoscenza è impossibile ma sottolineando anche l’importanza per le Imprese di comunicazione di sapere “quali” funzioni possono essere realizzate piuttosto che “come” realizzarle, attività per cui il rivolgersi ad esperti rimane la soluzione più opportuna. Al termine tutti hanno convenuto che: “Web 2.0 - se lo conosci non lo eviti” è stata la frase sintesi dei lavori del Seminario, un incontro che ha fornito ai partecipanti gli stimoli per aggiungere nuove competenze al loro bagaglio e per presentarsi ai clienti con proposte aggiornate e professionalmente più complete atte a dimostrare la costante volontà di essere riconosciuti come consulenti globali di comunicazione. Il prossimo appuntamento “Sono solo scatolette?”, fissato per il 19 giugno, sarà incentrato sul packaging e sul suo valore in termini di comunicazione. Claudio Breno Benvenuti in Unicom Il Consiglio Direttivo ha accolto la domanda di ammissione di una nuova associata alla quale la redazione de L’Impresa di Comunicazione porge un caloroso benvenuto: STUDIO GHIRETTI & ASSOCIATI (Roberto Ghiretti) Società di consulenza in organizzazione, marketing e comunicazione sportiva. 43100 Parma - Via Emilio Casa, 7/2A - Tel. 05211911411 - Fax 05211911499 [email protected] - www.studioghiretti.biz 3 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 30 / 08 L’INTERVISTA Davide Rampello. Se la pubblicità va male la colpa è solo nostra Il Presidente della Triennale ritiene i pubblicitari “artisti del mondo della merce”, in balia di committenti “presuntuosi che pensano di sapere tutto”. Ma, alla fine, la colpa è di tutti gli attori in scena. Perchè senza responsabilità, non si migliora. Nella vita, come nella pubblicità. Ha portato la creatività italiana nel mondo, fino a Tokio. Ha aperto il Museo del Design a Milano, città che si era dimenticata di esserne la capitale. Si è inventato Triennale Bovisa senza una lira pubblica, e ne ha fatto uno straordinario laboratorio di sperimentazione. Ha appena presentato il progetto per il Museo di Arte Contemporanea che manca da sempre a Milano, meravigliosamente firmato Lieberskind. Partito dalla televisione commerciale, è diventato il colto punto di riferimento di una città ex industriale. Che dovrà diventare luogo di pensiero, sopratutto in prospettiva Expo 2015. Davide Rampello ci riceve nel suo ufficio al terzo piano dello splendido palazzo inizio ‘900 di viale Alemagna. Fuori dalla finestra, Parco Sempione splende in una di quelle giornate in cui Milano rischia di sembrare più bella di qualsiasi altro posto al mondo. Solo per pochi minuti, in verità. Poi arriva e si comincia. Gli chiediamo un’opinione, in tempi di “Magra Cannes”, sul perché il movimento della reclame nazionale non abbia una reputazione all’altezza dei designer italiani, che pure sono cresciuti nella stessa incubatrice ed hanno mangiato lo stesso risotto. Accetta la sfida con il sorriso sornione del cliente che ha approvato la pluripremiata campagna TBV che in queste pagine. E se chiedevamo il parere di uno specialista della cultura dell’immagine, lui ci porta immediatamente a leggere la nostra comunità con un ottica più ampia, dalla prospettiva profondissima, avvolgente come una spirale. “La pubblicità è in difficoltà non per i creativi, ma per la committenza. I clienti italiani sono pressappochisti, dei presuntuosi che pensano di sapere tutto. Questo è un danno perché un creativo in una situazione di dipendenza psicologica non ha libertà. Gli manca il confronto, che è la possibilità data a 2 persone di creare dialetticamente. Quando il committente pensa di sapere tutto, è già un errore. C’è la presunzione, la convinzione di possedere a priori tutte le chiavi. Invece creatività, idee, innovazione sono legate alla tensione quotidiana, alle emozio- ni, alla libertà di pensiero, all’ascolto. È composta dal quotidiano. Noi nasciamo e moriamo tutti i giorni alle cose. In questa rinascita sta il segreto.” Molti dei nostri quaranta lettori penseranno di aver aperto il giornale sbagliato. Ma Rampello queste cose le dice anche agli imprenditori che gli finanziano i musei, le mostre, le missioni all’estero. Quindi seguiamo il flusso delle sue idee. “Per questo ritengo che la formula per migliorare il rapporto clienti/creativi esista: è rinnovare. Che cosa? Prima di tutto noi stessi. Si continua a parlare di innovazione, far rete, sistema. Ma per questo ho bisogno della disponibilità dell’altro. Ho bisogno di un’elemento fondamentale: Generosità! Invece quello che caratterizza questi anni è il suo esatto contrario. Manca slancio, non c’è rete, non funziona nulla, semplicemente perché non ci sono più uomini, solo uomini finti.Tutti interpretano un ruolo: il cliente, il creativo, l’account. Questo determina teatralizzazione che è vecchia già mentre la si mette in scena. In tutte le industrie, come nella vostra, ci si concentra sull’Io, non sul Sé. Prevale l’Egotismo, assieme all’Egoismo. Pochi vanno alla ricerca di sé stessi. Ma qualsiasi disegno progettuale fallisce se non si confronta con un senso profondo di umanità, del sé e dell’altro da sé. Altrimenti ogni forma espressiva si irrigidisce e diventa accademia.” Accademia. Penso ai commenti che, nel corso degli ultimi vent’anni, hanno sempre fatto i colleghi stranieri davanti alle reel tricolori: “Voi italiani siete fantastici nel produrre in modo qualitativamente impeccabile il nulla. Ma quello che conta sono le idee. L’esecuzione viene dopo”. Rampello si aggancia al volo. “Appunto. Succede quando manca Libertà Creativa. La Pubblicità è fatta di Idee Nuove. Per produrle, il pubblicitario deve reinventare in continuazione sé stesso, l’oggetto della sua speculazione, l’immaginario, il mondo. E chi crea nel mondo delle merci è un artista. Come il pittore usa il colore, il pubblicitario ha le merci per esprimersi. Raggiunge, quando glielo si concede, creatività tale da cambiare le cose. Perché l’arte, 5 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08 L’INTERVISTA come la scienza, muta il senso delle cose. Se non ottiene quest’effetto, è solo accademia, smaltata e inefficace.” Verissimo. Basta ripensare a quello che, al contrario, il design italiano ha fatto negli ultimi 50 anni. “Si, ma affrontiamo qualcosa che è precomunicazione. Desing è sopratutto strumento per affrontare i problemi, è essenza della progettazione, è cultura del progetto. Coltiva il modo di approcciare i problemi, è strumento per affrontare e risolvere la realtà, è una mentalità, è prima di tutto un modo d’agire. La pubblicità, la comunicazione commerciale, diventa conseguenza di questa progettualità. Certo è sempre Arte del Fare, dell’Intelligenza che cambia senso del mondo. È una visione religiosa, lo so. Ma se vi prendete la briga di esaminare l’etimo di religione, e quello di sacro e di sacrificio, che dal precedente derivano, capirete che è la tensione alla lontananza, all’arrivare a qualcosa di lontano, di altro da noi, la vera molla di tutte le attività intellettuali e creative, la causa della fatica e del dolore che produce il cambio di senso del mondo. Invece oggi tutti pensano che la vita sia facile, mentre non lo è per niente. Serve generosità, intelligenza, sacrificio. Ma la cultura, quella dei committenti, come della gente normale, è orientata verso il voglio tutto, subito, senza fatica. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.” Mi sembra di risentire Bill Bernbach, che in tempi non sospetti incalzava gli operatori della comunicazione di massa. Non dimenticate che influenzate la società. Potete farla salire ad un livello più alto, o gettarla lì in basso, nel fango. “Ottimo. Questo però genera una riflessione su come si migliora la società. Io penso che esistano gli uomini, non la società. Cominciamo a migliorare sensibilità, intelligenza, preparazione degli uomini. Sviluppare i talenti dei figli di Dio è compito di tutti. E se la situazione è questa, analizziamo le cause, non cerchiamo le colpe. Certo, tra le principali ci sono i mezzi di comunicazione di massa. Ma non dimentichiamo che se da una parte del pendolo c’è la Cultura del Mercato con i suoi danni, dall’altra c’è lo Stato Educatore e Controllore Totale. Prima di cadere nella tentazione dello statalismo e dei suoi pericoli, ricordiamo che dovrebbero essere attive e vive reti come la scuola e la famiglia, che sono fondamentali nella costruzione di uomini migliori, e di conseguenza dei loro valori, delle loro pratiche.Tutto deve cominciare da qui. Gli uomini possono migliorare solo partendo dal senso di responsabilità. Come dice un proverbio veneto che amo sempre citare “il capitan de la nave g’ha sempre torto”, è sempre colpa sua, che ci sia la tempesta, che cada l’albero, che un marinaio finisca in mare. Lui avrebbe dovuto pensarci. Ogni uomo è capitano di sé stesso, quindi è sempre colpa sua. La responsabilità è individuale. Anche qui l’etimo illumina. Responsabilità viene da Res Pondus, il peso delle cose. Essere responsabili significa imparare a portare sacchi sulle spalle, ad Essere Capitani di Sé Stessi. La ricerca del sé è la responsabilità di ognuno di noi. Impariamo questo, e miglioreremo la società. E magari anche la pubblicità.” Insomma, i committenti italiani saranno anche i peggiori del mondo. Ma se non siamo abbastanza bravi da farli crescere assieme a noi, la colpa è nostra. Grazie Davide. Non mi hai regalato solo un titolo d’effetto per la copertina. Anche un proposito per il futuro. Mettersi questo peso sulle spalle, e provare a migliorarsi anche se la fatica è doppia. Come dimostrano alcuni creativi italiani di successo nelle prossime pagine, se si impara a soffrire, a migliorarsi, quando poi arrivano i risultati la soddisfazione è doppia. Senza alibi, è più chiaro l’obiettivo ed il modo di raggiungerlo. Nella pubblicità, come nella vita. Pasquale Diaferia [email protected] 6 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08 ALTRI SGUARDI Comunicare condividendo e non imponendo A colloquio con Elisabetta Brusa, regista teatrale, docente universitaria, eclettica, appassionata e curiosa come devono essere i veri intellettuali. Betta Brusa è una bella signora veneziana che colpisce subito per la freschezza dei suoi modi e per la capacità non comune di sorridere di sé, di mettere e mettersi in discussione. Ho chiesto questo incontro per un motivo semplice: nella ricerca di confronto con professionisti, artisti, imprenditori che siano in grado di fornire spunti al mio lavoro di creativo, ho trovato in Betta Brusa una corrispondenza forte con il mio modo di pormi nei confronti del lavoro che svolgo. “Betta, forse troverai azzardato il paragone, ma secondo me, un copywriter e un regista hanno in comune molto. Entrambi devono immaginare o cercare storie per proporle a un pubblico. Entrambi devono costruire un mondo e far interagire persone, personaggi, situazioni rendendole comprensibili in una sintesi che tenga conto dei linguaggi del pubblico, del tempo a disposizione, creando una messa in scena che sia in grado di affascinare. Cosa ne pensi?” “Occupandomi prevalentemente di teatro, non posso non sottolineare alcune differenze. Certo, entrambi elaboriamo storie, creiamo scene, diamo forma all’invisibile, ma io rispetto a te mi pongo il problema del contatto con il pubblico. Cosa che credo non sia vera per chi fa pubblicità. Poi c’è un altro punto che trovo sostanziale. Il teatro è per sua natura estremamente fragile. Il giorno della prima si può ammalare uno dei protagonisti. Allora debbo sostituirlo. Il pubblico potrebbe non cogliere la differenza, ma il regista sì! Un pubblicitario può correggere, così come può farlo un regista cinematografico, uno scrittore. Hanno il controllo di ciò che realizzano, fin nei dettagli, se vogliono. Un regista teatrale no.” “Tu sei particolarmente attratta dai giovani. Immagino per la capacità di affrontare linguaggi nuovi, di comprendere con maggior velocità, per l’energia che comunicano e assorbono. Molti sui giovani sono pessimisti, dicono che la loro visione è ristretta, che non hanno amore per la cultura, che sono amorfi e passivi. Qual è il tuo parere?” “Per me lavorare con i giovani è essenziale. Mi consentono di dare un senso al mio studio, di tramandare un’esperienza. Quotidianamente mi confronto con giovani, in università e sento una forte differenza tra il mio approccio all’arte e il loro. Io ho nei confronti dell’arte un rapporto sacrale. Se penso all’arte penso a Michelangelo, a Mantegna o alla deposizione del Cristo… Come dicevo prima, l’arte è un modo di dar forma all’invisibile, perché ognuno legga in sé e trovi il proprio invisibile. Riguardo al rapporto dei giovani con l’arte e con la cultura non credo che si possa e debba generalizzare. Molti ragazzi hanno difficoltà a mettersi in relazione con l’arte, a riconoscerne i valori, così come hanno difficoltà a riconoscere anche altri valori. Sicuramente concorrono a questo la quantità di informazioni disponibili, il numero elevato di messaggi che ci aggrediscono da ogni dove e non abbiamo (e non solo i giovani) più il tempo di selezionare, di discutere, di valutare… Il computer è diventato quell’oggetto che separa la nostra storia dalla loro. Tra qualche generazione probabilmente le età si cancelleranno più facilmente e con esse le distanze, le incomprensioni.” “Beh, a questo proposito, mi viene da pensare agli “artisti-opera d’arte”. Penso a Duchamp a Manzoni, a Dalì, che con forte spirito di irrisione hanno creato per primi questo mito, partendo dal far assurgere a opera d’arte gli oggetti comuni, la banalità quotidiana. Per poi arrivare a trasformare essi stessi in opera d’arte…” “Forse la cosa tragica è che oggi che il pubblico ha minore senso critico, ci sono personaggi che si spacciano per artisti giocando su questo aspetto e avvalorando le proprie posizioni urlando. E chi urla di più viene accreditato. Ma io credo che siamo arrivati alla saturazione. Proprio in questo momento bisogna a mio avviso sussurrare, ripensare insieme. Siamo tutti abituati a subire, a essere forzati all’apparenza, a essere in primo piano. In questo modo perdiamo tutte le sfumature, la poetica della parola. Io ad esempio non sento ancora l’esigenza di avere un mio sito. Molti mi chiedono come mai. E io rispondo che mi spaventa la superficialità di internet, dove ognuno può presentare se stesso come vuole ma non necessariamente come è.” “A proposito di Internet: è il nuovo dominus della comunicazione. Leggevo che se una persona volesse esaminare tutti i contenuti presenti in rete dovrebbe avere a disposizione ventitré milioni di anni…Una infinità di 9 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08 ALTRI SGUARDI Renato Sarli - [email protected] nozioni, non credo tutte interessanti. Ormai internet è capace magicamente di propagare stili, notizie informazioni, mode, idee. Personalmente mi sfugge il come… Tu cosa pensa di Internet e come si confronta secondo te con gli altri mezzi di comunicazione.” “Probabilmente, ma è il mio parere, il grande successo di Internet è legato a questa finta voglia di trovare una propria dimensione, di non subire l’informazione gridata, ma di poter scegliere. Poi ovviamente ci sono fenomeni come “you tube” dove tutto si consuma in tre secondi, secondo quella stessa logica dell’urlo e dell’imposizione di uno stile, di un messaggio. Ma credo che sia una dimostrazione di debolezza, di incapacità di esprimersi e comunicare contenuti, ai quali in questo modo sopperisce l’effetto, la sopraffazione urlata.Tornando a parlare di arte, credo che un tempo nuovo stia arrivando e che molti siano i segnali che ce lo comunicano. E mi riaggancio a quello che dicevamo prima, riguardo alla contiguità tra pubblicità e arte. La pubblicità vuole comunicare a un pubblico che nelle intenzioni dei pubblicitari deve ricevere un messaggio. L’arte comunica a chi vuole ricevere. In questa visione c’è il senso dell’ospitalità, dell’accoglienza, del rispetto per l’altro che mi sembra oggi manchi.” “Il teatro. Tu hai una capacità eclettica di affrontare forme di teatro tra loro diversissime. Cito il Rigoletto, che hai recentemente portato a Hong Kong con il Regio di Parma, il complesso lavoro sugli angeli, che l’anno scorso ha itinerato tra monasteri del Veneto, regalando sensazioni ed emozioni e che ti appresti a replicare, il coinvolgimento di ragazzi delle scuole primarie e secondarie in un travolgente allestimento della Tempesta di Shakespeare, la creazione dei percorsi goldoniani interpretati con un attento e sognante impiego della luce… Solo per citare le tue realizzazioni più recenti e solo quelle di cui ho conoscenza! Come ti confronti con questa varietà di attività, come le scegli?” “Mah, sono le storie che ti scelgono, credo. A me piace sperimentare e sperimentarmi. Cerco di studiare molto, leggo, amo le persone con le quali collaboro alla costruzione 10 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08 di un progetto e da questo continuo lavoro nascono idee che spesso si trasformano in esperienza di vita. Alcune sono opere commissionate, altre nascono da mie intuizioni e proposte. L’importante è che io riesca a trovare la strada per esprimere la mia storia all’interno della storia che racconto.” “Mi racconti qualcosa del tuo modo di affrontare il processo creativo?” “Il processo creativo è molto personale e non segue mai gli stessi percorsi. Faccio un lavoro di ricerca al quale cerco di corrispondere con rigore. Creo una vera e propria biblioteca interiore. Da questa biblioteca interiore a un certo punto prendo un libro, lo apro e comincio a far fluire e ordinare le idee. Cerco di dare ordine ad un disordine che si è creato. Del resto tutti i grandi maestri ci inse- gnano che ogni opera d’arte nasce dal caos.” “Scusa se ti interrompo. Ma prima hai parlato della fragilità del tuo lavoro, che è un’immagine molto bella e vivida. Ma sapendo di questa fragilità, come convivi con la certezza di non poter controllare il risultato fino in fondo? Immagino che già in fase di progettazione ti ponga questo problema.” “E’ uno stimolo! Sono consapevole di non poter raggiungere la perfezione. Ciò non toglie che il modo in cui mi pongo ogni volta che inizio un lavoro nuovo sia quello di chi vuole raggiungere la perfezione.” Renato Sarli OPINIONI Ambiente. La lezione di Federico Tra i numerosi effetti determinati dal recente terremoto elettorale, non può essere considerato secondario quello della deideologizzazione del tema dell’ambiente, fino a ieri prigioniero dell’abbraccio mortale con gli apparati ideologici di matrice marxista-leninista e con le più becere istanze terzomondiste e no-global, nel quale era stato confinato da un’inadeguata, improvvida e, per certi versi, improbonibile dirigenza dei movimenti che si sono accreditati come promotori – in larga misura autoreferenziali – delle istanze ecologiche ed ambientaliste. Finalmente anche chi dichiara una contiguità con aree di pensiero di orientamento liberale e conservatoreilluminato, può serenamente manifestare le proprie idee, palesandosi convinto fautore di una cultura mirata alla salvaguardia del pianeta, alla salubrità dell’ambiente, ad uno sviluppo sostenibile e ad una regolamentazione – laddove possibile – della stessa globalizzazione, senza suscitare commenti piccati o sarcastici da parte dell’intellighenzia militante. Gli stessi sorrisetti ironici coi quali i soliti campioni del politically correct hanno accolto le tesi espresse da Giulio Tremonti nel saggio “La paura e la speranza”, si sono, da un giorno all’altro, trasformati in un ghigno, ad inoppugnabile conferma del fatto che il tema della tutela dell’ambiente recupera a pieno titolo la sua oggettiva trasversalità, negata per troppo tempo dall’occupazione manu militari da parte di una certa sinistra di quel territorio ideale e culturale. UNA LEZIONE CHE VIENE DA LONTANO Nei primi decenni del tredicesimo secolo, Federico II, supportato dalle migliori intelligenze giuridiche del tempo, coordinate da Pier delle Vigne, introdusse nelle sue Costituzioni Melfitane (l’opera che innovò il diritto romano e che costituì, fino all’avvento del Codice Napoleonico, il riferimento legislativo per tutti gli ordinamenti giuridici del nostro continente), il reato ecologico, comminando pene severe a coloro che avessero contaminato acqua ed aria e recato nocumento alla natura, considerata, a tutti gli effetti, bene comune. La lezione di Federico, tuttavia, nel tempo, è caduta nell’oblio: il danno più grave all’ambiente, infatti, non è stato provocato – o non solo – da coloro che immettendo nell’aria o nelle acque veleni di ogni sorta, ne hanno compromessa la salubrità, bensì dal degrado della coscienza civica che ha indotto molti, forse inconsapevolmente, a considerare l’ambiente e la natura alla stregua di res nullius e quindi disponibili ed assoggettabili ai propri interessi o, quel che è peggio, ad un totale disinteresse (leggi incuria, lassismo, indifferenza). IL RUOLO DELLA COMUNICAZIONE Su questo terreno la comunicazione (intesa in senso lato: dall’informazione alle attività di marketing communication), può avere un peso determinante, esercitando un ruolo di supplenza rispetto alla latitanza delle istituzioni – la scuola in primis – e favorendo la definitiva messa al bando degli estremismi e delle partigianerie che, sotto l’usbergo delle bandiere ambientaliste, hanno quasi sempre perseguito interessi di bottega, svuotando il messaggio ecologico da ogni credibilità. Oggi che, nel mondo, si tenta di incanalare il progresso della globalizzazione in un sistema di regole condivise che ne riducano, per quanto possibile, l’impatto negativo sul futuro del pianeta (pur non sottacendone le valenze posi- tive, che peraltro esistono), l’impegno di coloro che operano professionalmente in questo ambito, deve essere orientato ad un quotidiano lavoro di ripristino di una sensibilità ecologica autentica a livello individuale. Somministrare ogni giorno, anche subliminalmente, messaggi orientati a far riemergere, dai recessi più nascosti della coscienza di ciascuno, una sensibilità che, pur assopita, è certamente presente, in quanto connaturata all’umana natura, è un impegno gravoso, ma, al tempo stesso, una missione esaltante per tutti coloro che hanno il privilegio – per censo, cultura e ruolo sociale – di potersi considerare classe dirigente. Ma non c’è tempo da perdere: bisogna innanzitutto sgombrare il campo dalle illusioni e dalle leggende metropolitane. Spieghiamo senza mezzi termini, con il supporto di dati scientifici inoppugnabili, che immaginare di poter far fronte alla crescente domanda di energia avvalendosi delle cosiddette fonti rinnovabili (fotovoltaica, eolica…) è una pia illusione. Facciamo capire alle anime belle, abbagliate dalla irruente facondia dei vari Beppegrilli che, in attesa di tecnologie che consentano di sfruttare in modo economico e su vasta scala l’energia geotermica, la sola alternativa ai combustibili fossili è il nucleare. Ma cerchiamo anche di promuovere presso le nuove generazioni, cominciando magari dai nostri figli, l’adozione di stili di vita compatibili con il rispetto e la tutela dell’ambiente. Non sarà certamente cosa da poco. La natura ha una straordinaria capacità di rigenerarsi.Anche il mare più inquinato, se liberato da immissioni venefiche, in pochi anni è in grado di ripristinare la primitiva salubrità. Più difficile sarà ovviare al degrado delle coscienze. Ed è su questo terreno che la comunicazione, l’informazione e, più in generale, la cultura, devono assumersi la responsabilità di concentrare grande attenzione e quotidiano impegno. Gargamella [email protected] da “Il Domenicale” - 10/05/2008 - pgc 11 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08 OPINIONI Fornitori della Real Casa... Anche durante la recente Assemblea Unicom di Pescara più di un collega ha lamentato che per la maggior parte dei clienti noi pubblicitari non siamo altro che dei comunissimi fornitori.Tale definizione infatti viene ritenuta a ragione decisamente poco gratificante e riduttiva rispetto al ruolo che hanno, o dovrebbero avere, dei consulenti in una materia così importante e strategica come la comunicazione. Francamente anche a me questo declassamento (e tutto quello che poi ne consegue) non fa piacere, ma mi sforzo da un lato di prenderlo con filosofia e dall’altro di capirne le cause. E qui il discorso si fa complesso e delicato perché nessuna delle parti appare esente da colpe. Lo dico con cognizione di causa, essendo stato cliente,prima di passare dall’altro lato della barricata. E’ fuori discussione che la categoria dei pubblicitari abbia goduto per molti decenni di una situazione assai più privilegiata, se confrontata con quella attuale, in termini di riconoscimento professionale e di guadagni. Se ripenso agli anni ‘70, ma anche a buona parte degli ‘80, account e creativi, tanto per citare le figure più emblematiche, godevano di notevole considerazione agli occhi dei clienti e potevano permettersi, specie i secondi, atteggiamenti e capricci quasi da prima donna. E occorre riconoscere che le imprese di comunicazione non di rado hanno abusato di questa loro condizione, soprattutto non badando a spese (fossero i loro compensi o i costi di realizzazione della pubblicità) con la pretesa di fare gli americani con i soldi degli altri. Questo senza nulla togliere allo straordinario contributo di tanti grandi o piccoli (account, creativi, grafici, uomini dei mezzi, tecnici della produzione) all’affermazione di aziende, prodotti e brand. Il fatto sorprendente però è che quella che oggi verrebbe giudicata eccessiva e ingiustificata condiscendenza verso dei fornitori come tanti altri proveniva da responsabili a tutti i livelli dei marketing aziendali, che allora in fondo si accontentavano di chiedere ai pubblicitari soltanto di trasferire in comunicazione, 12 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08 valorizzandole creativamente, le strategie che loro avevano elaborato. In quegli anni infatti, come ho già ricordato in altra occasione, gli strategic planner di agenzia non erano ancora nati e quelle funzioni e molte altre oggi richieste alle imprese di comunicazione venivano svolte principalmente all’interno delle aziende. Non sono mancati naturalmente i colpi di genio in chiave di strategie di marketing di pubblicitari “monstre”, ma hanno rappresentato delle eccezioni. Non pare logico pertanto che oggi i clienti, mentre pretendono dai pubblicitari un impegno e un contributo sempre maggiori, a tutto campo e talvolta addirittura risolutivo di problemi che travalicano la comunicazione, mostrino di voler riconoscere alla categoria sempre meno in tutti i sensi. Proverò a spiegarlo sulla scorta della mia esperienza, pronto naturalmente a confrontarmi con opinioni diverse. In primo luogo i clienti, stando a contatto da tanti anni con la comunicazione e i suoi creatori, ne hanno metabolizzato tutte le componenti, sottoponendole a una sorta di analisi del valore pro domo loro. In forza di ciò hanno smontato i diversi “prodotti” creati dai pubblicitari (dalla campagna al packaging,all’evento,al catalogo, al sito, ecc.) chiedendo ai loro uffici acquisti di quotarne in modo razionale e competitivo i vari pezzi, come fossero quelli di un qualsiasi manufatto. Un invito a nozze per compratori di professione,ben lieti di estendere il loro potere di intervento dai tondini e dalle viti alla progettazione e alla realizzazione della comunicazione. E qui sono cominciati i dolori perché l’analisi puntuale, pezzo per pezzo, ha portato a ridimensionare il valore finale del “manufatto” di turno, beninteso trascurando o sottovalutando furbescamente tutto quello che ci stava dietro in termini di pensiero, consulenza, creatività, assistenza e quant’altro. Una volta scappati i buoi dalla stalla, il resto lo hanno fatto le gare che, da eccezione, sono diventate regola e sono state estese praticamente a tutto, financo ai dépliant. I pubblicitari retrocessi così a generici fornitori dal canto loro non hanno avuto la forza e la coesione necessarie per opporre resistenza, far emergere a sufficienza il ruolo fondamentale che svolgono al servizio delle aziende e dell’economia e,in ultima analisi, attuare una efficace difesa della categoria (peraltro già penalizzata dalla mancanza di riconoscimento formale). Così si sono visti costretti ad una spietata concorrenza tra di loro, un vero e proprio gioco al massacro che oggi ci vede,chi più chi meno, tutti perdenti, anche se riusciamo a tenere in vita le nostre imprese. A peggiorare ulteriormente le cose si sono poi aggiunti altri fattori: la crescente difficoltà per tutte le aziende di stare sul mercato, mantenersi competitive e produrre utili a fronte delle leve di marketing sempre più spuntate di cui dispongono, si traduce in una pressione fortissima sui responsabili aziendali ad ogni livello, disperatamente alla ricerca di escamotages sempre nuovi per riuscire ad ottenere i risultati richiesti. Questo stato di cose spesso li porta nella comunicazione a sperare nel colpo di coda o nel goal della domenica del pubblicitario di turno, quasi che un’idea o una trovata creativa, non importa se in brief o fuori brief, sia in grado di capovolgere a favore un marketing mix, magari pieno di lacune. Si crea pertanto il paradosso che dalle imprese di comunicazione ci si attendono interventi spesso salvifici e nello stesso tempo le si etichetta come generici fornitori sminuendone il ruolo e i compensi. Quali i rimedi? Sicuramente non piangersi addosso nella speranza di un improbabile ritorno al passato. Piuttosto la presa di coscienza degli effettivi contributi che ciascuna impresa di comunicazione è in grado di dare, una maggiore valorizzazione delle proprie eccellenze, un dosaggio efficace di tutti gli apporti, più strettamente legato ai compensi, il coraggio, in qualche occasione, di resistere alla tentazione di svendersi.Tutta la categoria poi dovrebbe convincersi che una concorrenza troppo basata sul prezzo determina solo una guerra tra poveri che non giova a nessuno (e in prospettiva nemmeno ai clienti). Fornitori sì ma almeno della Real Casa, cioè di prodotti esclusivi, di alta qualità e non di primo prezzo. Alessandro Colesanti ... o consulenti sull’orlo di una crisi di nervi E’ senza dubbio interessante e del tutto condivisibile il parere lucidamente manifestato da Alessandro Colesanti sul progressivo declino della profittabilità della professione. Tuttavia, credo che, all’analisi delle cause che hanno determinato tale situazione, manchi un elemento importante, dal quale, a mio giudizio, si sono originati gran parte dei problemi che affliggono la categoria. E mi riferisco a quell’infausta - e mai abbastanza deprecata - calata di braghe che il nostro sventurato comparto ha effettuato, quando ha consentito che la sacrosanta, e, fino ad allora indiscussa, commissione d’agenzia, fosse trasformata nel cosiddetto “sconto d’agenzia”, concesso a cani e porci, e, soprattutto, ai clienti grandi e piccoli. Me li ricordo gli argomenti dei fautori dell’autocastrazione che allora si esibirono in una performance degna di miglior causa: “i clienti mi devono pagare per il mio lavoro e per quello che effettivamente vale”, oppure “non accetto di essere remunerato come se fossi un mediatore di spazi e di servizi”, e via cazzeggiando... Certo, ricevere un compenso per attività di mediazione (che poi nel caso in ispecie solo mediazione non era), può essere meno gratificante che ricevere il medesimo compenso per una prestazione di carattere creativo o strategico (anche se un vecchio adagio recita pecunia non olet, nonostante che quel denaro al quale faceva riferimento l’imperatore Vespasiano, con l’olezzo avesse in qualche modo a che fare). Altri, probabilmente male informati, portavano acqua al mulino dei fautori dell’illegittimità o, quanto meno, dell’inopportunità di quel compenso, in quanto erogato da un soggetto terzo e non da chi aveva beneficiato in misura prevalente del servizio. Qualcuno poi temeva, nel percepire la commissione, di commettere un illecito fiscale, citando casi di dure sanzioni somministrate dalle Fiamme Gialle ad importanti imprese del settore che si erano “dimenticate” di sottomettere le somme fatturate a titolo di commissioni, alle ritenute previste dalla legge. Qualcuno - ahimè inascoltato - andava dicendo che se ci fossimo autoesclusi dal giro del denaro, avremmo perso ogni potere, oppure che i clienti, una volta messe le mani sul malloppo, ben difficilmente se ne sarebbero separati, alla luce della considerazione, forse non raffinatissima sul piano formale, ma purtroppo pervasa di adamantina evidenza, che chi ha in mano la grana, tiene l’altro per le palle. Ricordo bene le discussioni accanite tra i fautori del cosiddetto accordo (ad onor del vero, a tutti gli effetti, un patto leonino) che guardavano, quasi con commiserazione, coloro che, a denti stretti e a muso duro, cercavano di difendere la pagnotta. (Non faccio nomi, ma le aziende di alcuni di quei paladini della “correttezza formale”, sono, nel frattempo, passate a miglior vita, insieme a molte altre i cui titolari, del tutto incolpevoli, si ritrovarono a subire il medesimo sopruso). Quali possono essere i rimedi allo status quo, si domanda il Vicepresidente di Unicom? Di tutti quelli indicati, uno solo mi pare risolutivo, quello di avere il coraggio di resistere. Certo, non sarà, facile. Siamo pericolosamente in bilico, precariamente in piedi su un viscido piano inclinato e, solo se sapremo tutti quanti - o la gran parte di noi - attestarci dalla parte giusta, potremo tentare, non dico di far pendere il piatto della bilancia dalla nostra parte, ma almeno di rimetterlo in equilibrio. Lo trasformeremmo in una sorta di altalena, soggetta ad inevitabili oscillazioni, ... ma sarà sempre meglio che ritrovarsi stabilmente e desolatamente col sedere per terra. Lorenzo Strona Abbiamo toccato il fondo Sulla quarta di copertina della prestigiosa rivista “Italia a Tavola”, numero di Giugno, diretta da Alberto Lupini, giornalista bergamasco che conosco, ma di cui ignoravo l’attenzione alla qualità delle inserzioni, vedo l’annuncio che allego. Quali commenti fare? Sicuramente l’illustratore si è ispirato a Dudovich, il copy a Pasquale Barbella e l’art mi sembra di scuola Sanniana.Vorrei sapere chi è l’autore di tanta schifezza. Spero si tratti sinceramente di uno sprovveduto, cui un cliente imbizzarrito con gli ormoni elettrizzati dalla visione di Giovannona coscialunga in edizione integrale abbia imposto di realizzare questa cosa che non so come definire. Dove sono la Sacis, la Sacra Rota, la Santa Inquisizione? Esiste ancora un esemplare di ghigliottina funzionante? Fuor di metafora mi si consenta di dire che abbiamo toccato veramente il fondo. Renato Sarli 13 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 30 / 08 DIRITTO E COMUNICAZIONE Fiammetta Malagoli - Consulente Legale Unicom Parmigiano vs Parmesan Una questione annosa che la UE non è ancora riuscita a risolvere in modo soddisfacente. La Corte europea (Grande Sezione) si è pronunciata, in data 26 febbraio 2008, nella causa nata su ricorso della Commissione delle Comunità europee, sostenuta dalla Repubblica italiana e dalla Repubblica ceca, contro la Repubblica federale di Germania, sostenuta dal Regno di Danimarca e dalla Repubblica d’Austria, a proposito dell’utilizzo, da parte della Germania, della denominazione “parmesan” nell’ etichettatura di prodotti non corrispondenti al disciplinare della denominazione d’origine protetta “Parmigiano Reggiano”. Premessa della pronuncia era quella di stabilire se, rispetto a tale DOP, l’uso della denominazione “parmesan” rientrasse in uno dei casi contemplati dall’ art. 13, n.1 del regolamento n. 2081/92, ossia se consistesse in un’ usurpazione, imitazione o evocazione di una denominazione registrata. A proposito di evocazione, in particolare, essa si realizza quando un prodotto incorpori una parte di una denominazione protetta, di modo che il consumatore, in presenza del nome del prodotto, sia indotto ad avere in mente, come immagine di riferimento, la merce che fruisce della denominazione. Indubitabili sono le analogie fonetiche tra “parmesan” e “Parmigiano Reggiano” e, in entrambi i casi, si tratta di formaggi a pasta dura, grattugiati o da grattugiare, pertanto simili nel loro aspetto esterno. Insomma, tra i due termini vi è somiglianza concettuale, che, unita alle somiglianze fonetiche ed ottiche, è idonea ad indurre il consumatore, quando si trova di fronte al “parmesan”, a prendere come immagine di riferimento il formaggio recante la DOP “Parmigiano Reggiano”. Si tratta, per- tanto, indubitabilmente, di un’ ipotesi di evocazione. La Repubblica Federale di Germania, nella sua difesa, ha sostenuto che la denominazione “parmesan” sarebbe divenuta una denominazione generica, che non avrebbe potuto essere registrata ai sensi dell’ art. 3 del regolamento n. 2081/92. Nel valutare la genericità bisogna prendere in considerazione i luoghi di produzione del prodotto considerato (sia all’interno dello Stato membro che ha ottenuto la registrazione, sia all’esterno di questo), il consumo dello stesso, il modo in cui viene percepita dai consumatori la denominazione, l’esistenza di una normativa nazionale specifica relativa al prodotto, il modo in cui tale denominazione è stata utilizzata nella legislazione comunitaria. Tuttavia, la Germania non ha dato prova della genericità ed anzi, dalla documentazione depositata in atti, risulta che alcuni produttori tedeschi di “parmesan” hanno commercializzato il formaggio con etichette, che richiamano tradizioni culturali e paesaggi italiani, dimostrando che i consumatori percepiscono tale prodotto come un formaggio associato all’ Italia, anche se prodotto in altro paese. L’utilizzo del termine “parmesan” per formaggi che non sono conformi al disciplinare della DOP “Parmigiano Reggiano” è stato quindi considerato lesivo della tutela riconosciuta dal regolamento n. 2081/92 alle denominazioni registrate. Secondo la Commissione delle Comunità europee ricorrente, la Germania avrebbe dovuto adottare d’ ufficio tutte le misure necessarie per reprimere i comportamenti lesivi delle DOP, in particolare attraverso un’adeguata prassi amministrativa. Il suo comportamento, quindi, avrebbe dovuto essere assimilato ad una violazione per omissione del diritto comunitario. Secondo la Corte, la facoltà di cui godono i cittadini di far valere le disposizioni di un regolamento comunitario dinanzi ai giudici nazionali non dispensa gli Stati membri dall’adottare misure interne che permettano di assicurare la piena e completa applicazione del regolamento, qualora queste si rendano necessarie. Con questa premessa, tuttavia, la Corte ha ritenuto che la normativa tedesca, fosse idonea a garantire la tutela anche di interessi diversi da quelli dei produttori dei beni protetti dalla DOP, ossia dei consumatori. Inoltre, sempre secondo la Corte, a norma del regolamento n. 2081/92, è vero che gli Stati membri sono tenuti a creare strutture di controllo per assicurare l’efficacia delle disposizioni del regolamento medesimo, ma si tratta degli Stati membri di provenienza delle DOP, e non di quelli nei quali la DOP venga evocata o usurpata, e, quindi, il controllo sul rispetto del disciplinare nell’uso della denominazione “Parmigiano Reggiano” non compete alle autorità tedesche, ma a quelle italiane. La sentenza in esame, come si può vedere, lascia poco soddisfatti perché, pur affermando che il termine “parmesan” evoca la DOP “Parmigiano Reggiano”, non ha, tuttavia, riconosciuto un reale obbligo di controllo da parte dello Stato membro nel quale viene adottata impropriamente la denominazione. In mancanza, quindi, di un intervento statale, la tutela della DOP in altri Stati diventa certamente molto più gravosa per i titolari del diritto. Riferimenti legislativi - Regolamento (CEE) del Consiglio 14/7/1992, n. 2081 relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine del prodotti agricoli e alimentari. - Sentenza della Corte 26/2/2008 nella causa C-132-05. 15 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08 CREATIVITA’ Il Made in Italy della comunicazione. Gusto, istinto, passione Un brindisi per ricordare il passato, festeggiare il presente e augurarsi un buon futuro. E’ iniziato così l’incontro con gli autori dello spot tutto italiano “Prova d’Esame”, che sta facendo man bassa di premi internazionali. I clienti lo snobbano, forse non sanno neanche che esiste; i creativi ne parlano in continuazione e si dividono in due schiere: quelli che lo criticano e che, confrontandosi costantemente con i colleghi internazionali, lo evitano e quelli che lo difendono e lo “portano” con orgoglio. È il Made in Italy della comunicazione. Siamo tutti pronti a difendere la creatività italiana nella moda, nel design e nell’enogastronomia, ma quando si parla di creatività italiana in comunicazione, quasi ci vergogniamo. Lo humor e la pulizia inglesi, il coraggio e la perfezione esecutiva americani, la genialità 16 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08 delle idee più semplici dei paesi asiatici o africani. Un safari di eccellenze. E noi italiani? Cosa abbiamo che non va? Una sola cosa: ci manca il coraggio di essere italiani. «Siamo noi i più bravi. In generale siamo i migliori. Mal gestiti, ma i migliori.All’estero quando qualcuno parla del proprio paese, lo fa con orgoglio. Gli italiani no: noi ci critichiamo sempre. È un peccato: all’estero avranno anche il metodo, ma noi italiani abbiamo il talento, quello slancio in più che ci rende potenzialmente imprendibili». Parola di Sergio Rodriguez Group Creative Director di Leo Burnett Italia, che ha una profonda conoscenza della creatività italiana, di quella internazionale e di quella italiana vista con occhi internazionali. I suoi lavori hanno spesso vinto premi internazionali pur essendo sempre molto italiani. Così è anche il suo spot “Prova d’Esame”, che ha vinto un argento all’Epica Award, un argento al Clio Award e l’oro agli ADCI Award 2008. Uno spot completamente italiano non solo nella concezione, ma anche nella produzione della BedeschiFilm, nella regia di Andrea Cecchi, nel cliente, la Scuola D’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano e negli attori, che in quella scuola studiano. È italiana (milanese) la strada in cui si ambienta, il motorino utilizzato (una vespa), che sta per essere rubato proprio nel momento in cui arriva la proprietaria, una giovane che riuscirà a convincere il ladro a desistere raccontandogli una storia fortemente emotiva, basata su valori familiari, tipicamente italiani, e resa credibile dalla sua bravura d’attrice. Alla fine dello spot la ragazza si scopre essere un’attrice del secondo anno della Paolo Grassi. Questo spot è un film tutto italiano anche nei linguaggi: quello verbale (il film è stato presentato ai Clio Awards 2008 di Miami non tradotto, ma sot- totitolato) e quello visivo, un «moderno neorealismo italiano», come lo ha definito Andrea Cecchi, «una storia moderna raccontata in un modo che non cerca di scopiazzare nessuno stile se non il nostro, quello italiano». Andrea Cecchi, che ha passato buona parte della sua vita in America, ritiene che lo stile italiano non sia quello della commedia, ma quello dell’italianità raccontata in un format internazionale e afferma: «C’è qualcosa che noi italiani abbiamo nel momento in cui diventiamo internazionali, che è un’eccellenza: la capacità di emozionare». È proprio sull’italianità come valore positivo che si fonda la casa di produzione a cui appartiene, la BedeschiFilm di Giovanni Bedeschi, che ha identificato la sua casa di produzione a livello internazionale con il tag “Italian directors” e che confessa: «Ogni italiano nasce con il senso del gusto. Negli altri paesi non è lo stesso. Gli americani, ad esempio, devono imparare il buon gusto a scuola e quello dei francesi è elitario. All’estero lo sanno e ci chiamano perché abbiamo buon gusto. L’unica cosa che dobbiamo fare è alzare il nostro standard di lavoro e aprirci la mente attraverso esperienze all’estero». Creatività, gusto, pazzia, istinto, passione, espressività, nessuna vergogna di mostrare i propri sentimenti: questo è lo stile italiano in pubblicità, questi i pregi del Made in Italy della comunicazione. Eppure, nonostante il gusto, il talento e la capacità di cercare e creare emozione, la creatività italiana viene sempre messa in dubbio, in primis dagli stessi italiani. Non è stato sempre così: «Quando si vincevano i Leoni d’oro a Cannes, vincevano lavori molto “italiani”», ricordano Bedeschi e Rodriguez. «Il nostro errore è che andiamo a copiare gli stili degli altri, pecchiamo di esterofilia. Nella classifica Gunn Report degli spot più premiati degli ultimi 8 anni, ci sono ben due spot italiani: “Aqualtis”, di Leo Burnett Milano e “Peugeot The Sculptor”, di Euro RSCG Milano. È un segno che, nonostante abbia una media più bassa che 17 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08 CREATIVITA’ 18 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08 Stefania Salucci e Sergio Rodriguez Ma la comunicazione non è pura arte e il suo bello è proprio questo. Quando si crea una campagna di comunicazione entrano in gioco numerose variabili dettate dal target, il mezzo, il messaggio che si vuole passare, il prodotto o servizio che si deve pubblicizzare. È proprio nel soddisfare queste esigenze trovando la tanto agognata “big idea” che si mostra la vera creatività in comunicazione. C’è un però. Il lavoro dei professionisti della comunicazione deve essere approvato dal cliente, che se da un lato ha il dovere di tutelare il suo prodotto verificando che il messaggio che arriva al proprio target sia corretto, dall’altro spesso non ha la competenza per capire fino in fondo i meccanismi della comunicazione. Non a caso esistono delle professioni per questo. Abbiamo chiesto a Bedeschi, Cecchi e Rodriguez di rivolgersi direttamente ai clienti per chiedere loro qualcosa che aiuti a liberare il Made in Italy della comunicazione, ed ecco cosa hanno detto. Giovanni Bedeschi: «Dateci più tempo per fare i film, vuol dir molto. E abolite i test: sono la morte della creatività, perché la appiattiscono e ammazzano i budget». Andra Cecchi «Abbiate fiducia: troppo spesso si crede che i pubblicitari siano aleatori e i registi dei saltimbanchi. In realtà i pubblicitari sono i dottori della comunicazione: se un medico dice di prendere l’aspirina, non viene messo in discussione. Noi sappiamo fare il nostro mestiere, lo sappiamo fare tutti i giorni» Sergio Rodriguez: «Ai clienti dico: non guardate gli standard esteri, rischiate. Fidatevi del vostro istinto: se una cosa vi piace compratela. Ogni nuova idea prevede implicitamente un rischio, ma poi ha un ritorno. Domani, appena vi svegliate, prendetevi un rischio». Una bottiglia di vino e tarallucci. In quattro attorno a un tavolo.Tra battute, scambi di pareri, teorie e tanta esperienza. Così è nata questa intervista all’italiana. Perché è così che siamo e che dobbiamo essere. Non stereotipi, ma noi stessi. Giovanni Bedeschi altrove, la comunicazione italiana ha dei picchi di eccellenza che fanno impallidire anche l’Inghilterra. Se fossimo noi stessi vinceremo sempre». Stefania Salucci - [email protected] I protagonisti dello spot. Storie di passione e determinazione. Nello scegliere i due protagonisti dello spot, Andrea Cecchi ha colto subito la grande occasione di poter sfruttare un patrimonio che purtroppo non sempre viene utilizzato come dovrebbe: gli attori di teatro. «Il casting è stato molto lungo: ho visto molti giovani attori e attrici e ne sono uscito esaltato per l’incredibile quantità di entusiasmo, cultura, talento e forza che ho trovato». Gli attori di teatro sono, per Andrea Cecchi, «Una risorsa che in Italia c’è e non viene valorizzata, semplicemente perché certi colleghi non sanno che esistono. Quelli che lo sanno e li utilizzano, realizzano dei film straordinari, come quelli con Paolo Sorrentino, cresciuto nei teatri di Napoli che oggi vince i premi a Cannes». Andrea Cecchi ha fatto con i due protagonisti dello spot “Prova d’Esame” un lavoro che pochi registi in pubblicità fanno: ha lavorato con loro in 15 giorni di prove per una sola notte di registrazione. Era il loro primo film e Andrea Cecchi ha voluto fare 4 reading «per cercare i giusti tempi, l’intonazione, la recitazione e ottenere quella credibilità senza la quale questo film non avrebbe avuto senso. Perché, quando lavori con loro, gli attori ti danno sempre qualcosa, anche se devono solo sorridere». Istinto, professionalità e voglia di trovare emozione hanno guidato Andrea Cecchi nella ricerca dei protagonisti, in particolare nella ricerca del ragazzo che doveva interpretare il ladro. «Un ladro non deve avere solo la faccia da ladro, ma lo sguardo da ladro, uno sguardo povero. Roberto Testa, che ama il teatro al punto di lasciare la famiglia, venire a Milano e arruolarsi in polizia per poter seguire le lezioni e pagarsi al scuola, era perfetto. Solo un poliziotto conosce lo sguardo del ladro. Se poi è un bravo attore, si ha un risultato incredibile». La protagonista femminile è invece Eleonora Giovanardi, 25 anni di Reggio Emilia, che abbiamo intervistato perché l’Italia è fatta anche di giovani talenti. Eleonora è una ragazza che ha incontrato il teatro in terza liceo, quando recitava a scuola con un gruppo di amici, e da allora non lo ha più lasciato, anzi. Ha studiato teoricamente il teatro all’Università di Bologna, con la specialistica in discipline teatrali (perché, dice: «basta il mito dell’attore ignorante: l’università serve perché ti dà basi teoriche utili, quali nozioni di storia e organizzazione di eventi»); ha fatto teatro, continuando a recitare con i suoi amici che hanno formato una compagnia stabile; ha vissuto il teatro studiando alla Paolo Grassi. Lo spot “Prova d’Esame” è stata la sua prima esperienza su un set di fronte alla macchina da presa: «È stato bellissimo. Andrea ha fatto provini a tutte, allieve ed ex allieve, tra le quali alcune molto brave. Ha puntato su di me, che non avevo mai lavorato con la macchina da presa e mi ha insegnato molto: come muovermi su un set, ad esempio, e come calibrare la recitazione teatrale, grande ed eccessiva, per la macchina da presa». Eleonora da grande vuole fare l’attrice. Dopo l’esperienza dello spot non esclude di lavorare nuovamente di fronte alla macchina da presa, ma per ora non ha intenzione di lasciare il palcoscenico. «Il teatro è una scelta: permette di fare uno studio e una ricerca approfondita che vorrei continuare. Il cinema mi appassiona come attrice e mi affascina come spettatrice». Passione, energia e talento tutti italiani, che nascono dalle radici dell’arte cinematografica italiana: «Guardo spesso film quali Il caso Mattei, Classe operaia, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, perché sono capaci di insegnarmi qualcosa del nostro passato e mi apportano qualcosa a livello artistico. Il cinema italiano è poetico e vedere un film nato in italiano significa sempre molto in termini tecnici per gli attori». Credits Creative Director: Sergio Rodriguez Director: Andrea Cecchi Sound Designer: Robert Etoll Production Company: Bedeschi Film, Milan Agency Producer: Federica Manera Copywriter: Sergio Rodriguez Producer: Federico Salvi Visual Effects Editor: Luca Angeleri Premi vinti: Epica 2007 - Argento Shark Awards 2007 - Diploma Clio Awards 2008 - Silver ADCI Awards 2008 - Gold 19 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08 SCENARI D’IMPRESA Alessandro Colesanti - [email protected] Destrutturare. Può essere la soluzione? Una recente sentenza della Corte di Giustizia Europea si pone in apparente contrasto con le liberalizzazioni apportate dalla Legge Bersani e la conseguente rimozione del divieto di far ricorso alla comunicazione pubblicitaria anche per le professioni ordinistiche. Quando sento pronunciare il termine “destrutturato”, per prima cosa mi vengono in mente certi stilisti e i loro abiti che hanno infranto le regole tradizionali del taglio e della confezione. Vestiti, è bene osservare, non indossabili da tutti perché stanno bene e piacciono solo a talune persone. Poi il pensiero mi corre anche alla deregulation pur sapendo che non si tratta della stessa cosa. Sta di fatto però che in entrambi i casi ci troviamo di fronte a processi di semplificazione con fuoriuscita da regole e schemi consolidati allo scopo di ottenere prodotti o servizi diversi, più a misura delle esigenze dei loro utilizzatori. DESTRUTTURARE L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE Oggi si parla di destrutturazione con connessa digitalizzazione anche per le agenzie di comunicazione, nell’ottica di svolgere l’attività in modo nuovo rispetto al passato e meglio confacente alla domanda degli utenti, che è profondamente cambiata, a causa delle crescenti difficoltà incontrate sul mercato e vis à vis il consumatore. E’ un tentativo di risposta alla conclamata crisi dell’agenzia tradizionale, attraverso la ricerca di un modello innovativo in grado di consentire una rinnovata soddisfazione del cliente e un recupero di redditività per l’impresa di comunicazione. Destrutturare naturalmente non vuole dire soltanto ridurre o tagliare, ma an- che mutare concezione e modo di operare. Per capire se si può trattare di una soluzione valida occorre saggiarla da diversi punti di vista: come configurarla, se è attuabile, quali vantaggi arreca, se economicamente funziona. Il punto da cui partire è il passaggio epocale che stiamo vivendo, che fa dire a taluni che il marketing convenzionale è una scienza morta, ad altri che bisogna sostituirlo con quello non convenzionale, ad altri ancora, e forse con maggior realismo, che esiste e continuerà ad esistere solo il marketing che funziona. Teorie a parte, comunicare è diventato molto più complesso di una volta (basti pensare al consumatore poligamo come lo ha definito Fabris, ai brand in perenne movimento con lo scenario tecnologico e sociale, alle implicazioni presenti e future del Web 2.0) e l’agenzia di pubblicità classica in molti casi non sembra più in grado di dare in materia un servizio efficiente ed efficace. La crescente complessità/difficoltà del comunicare ha originato un innesto continuo di nuove leve di comunicazione, anche ad elevato contenuto tecnologico, che hanno finito per mettere in discussione la capacità dell’agenzia generalista da un lato di conoscerle e utilizzarle tutte in modo competente e approfondito e dall’altro di riuscire a mantenerne il controllo e coordinarle in modo efficace. Questo ha anche prodotto per le aziende un indesiderato aumento dei costi dovendo affiancare all’agenzia generalista un certo numero di altre strutture specializzate nelle diverse leve di comunicazione. LA SOLUZIONE DELLE MULTINAZIONALI La soluzione proposta dai grandi gruppi multinazionali della comunicazione o dalle ricorrenti joint venture tentate da imprese di comunicazione indipendenti, consistente in più strutture specializzate che si coordinano tra di loro o vengono coordinate da una capofila, nella pratica non ha quasi mai funzionato né sul piano del coordinamento né nell’evitare duplicazioni dei costi. L’obiettivo deve essere di avere un approccio creativo e culturalmente attuale a tutti gli aspetti della comunicazione, di passare da strutture pesanti e rigide a strutture più leggere, flessibili e versatili che consentano di sfruttare, di volta in volta senza preferenze precostituite, l’apporto di competenze diverse, di favorire punte di creatività, di assicurare maggiore reattività, di contenere i costi di struttura e, naturalmente, di garantire sempre il rispetto di un pensiero strategico univoco. In altri termini l’impresa di comunicazione destrutturata deve assicurarsi l’accesso potenziale a tante leve e risorse diverse e saperlo dosare e gestire nel miglior modo possibile. Deve operare come una sorta di task force illuminata, composta da professionisti facilitatori che padroneggiano più funzioni e competenze, i quali sono in grado di “pescare” qua e là il meglio di quello che serve e di declinarlo e assemblarlo curando la coerenza delle parti con il tutto. Aiutata, nel liberare risorse, dalla digitalizzazione di molte funzioni e attività. Ricorda un po’ il modello organizzativo hollywoodiano a rete come risposta al bisogno di disporre di professionalità diverse per ciascun progetto, citato da Jeremy Rifkin nel suo libro del 2000 “L’era dell’accesso”. Assemblando le competenze di diversi specialisti si può trovare l’esatta combinazione di talenti e capacità necessaria per affrontare con successo uno specifico progetto. L’idea, piccola o grande, ma in grado di fare la differenza, può venire fuori an21 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08 SCENARI D’IMPRESA che da chi non è creativo per definizione, ma meglio del creativo di professione conosce a fondo un determinato argomento o una determinata materia o è capace di stabilire determinate connessioni. Sta poi appunto ai facilitatori riportare l’idea nei binari di una comunicazione corretta ed efficace. Può funzionare, non può funzionare? Bisogna provare, a patto che ci siano le condizioni da entrambe le parti. Dalla parte dell’agenzia destrutturata facilitatori strateghi davvero polivalenti, di elevata professionalità ed esperienza e con spiccate doti relazionali ed organizzative. Dalla parte del cliente la disponibilità ad una maggiore collaborazione, rinunciando a vieti rituali burocratici cliente-fornitore ed accettando una più ampia digitalizzazione dei rapporti e delle comunicazioni. Quest’ultimo non è un aspetto da poco Responsabilità sociale e PMI. Un business possibile Il tema della Corporate Social Responsibility (CSR) è stato oggetto, negli ultimi dieci anni, di forte attenzione da parte delle imprese e delle istituzioni, anche a livello internazionale. Lo spazio che abbiamo dedicato a questo tema all’interno dell’Impresa di Comunicazione ha seguito, quindi, un andamento che ha visto crescere iniziative di studio e di riflessione sulla responsabilità sociale d’impresa. Nel 2001, la Commissione Europea definì la CSR come “l’integrazione, da parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali ed ecologiche nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”. Da allora molti passi in avanti sono stati fatti, sia in termini di comprensione del fenomeno che di promozione di iniziative a sostegno di una cultura della responsabilità a tutti i livelli. La sensibilità sul versante della CSR è stata, in un primo momento, appannaggio delle grandi imprese, soprattutto di tipo industriale, fortemente coinvolte dai problemi della sostenibilità e dell’eco-compatibilità e interessate a valorizzare l’attenzione all’ambiente e al sociale, almeno in chiave tattica. Con il passare del tempo il fenomeno CSR ha ampliato il suo raggio d’azione, andando a toccare il grande tema del rapporto tra imprenditorialità e sostegno della collettività, di sviluppo del business e impegno etico, assumendo progressivamente una importanza di tipo strategico. Oggi, i contenuti della CSR sono molti e interessano non solo le grandi aziende ma anche le PMI. UNA RICERCA AD HOC Una recente indagine esplorativa condotta da ricercatori dell’Università “La Sapienza” di Roma ha messo a confronto il codice etico e la carta dei valori di 90 imprese, suddividendo il campione tra imprese internazionali e imprese italiane di grandi e medie dimensioni. La comparazione è stata condotta attraverso l’analisi del contenuto dei testi selezionati. Questa ricerca ha mostrato che le aziende di medie dimensioni dedicano un’ampia attenzione alla CSR e, pur mutuando dalle grandi organizzazioni una comune struttura dei documenti e un simile stile di comunicazione, dimostrano d’intendere la responsabilità sociale in modo diverso dalle aziende di grandi dimensioni. Le grandi imprese, sia italiane che internazionali, infatti, tendono a trattare la responsabilità sociale in termini di sviluppo del brand e della reputazione ovvero come strumento di relazione e di pressione. Le medie imprese, invece, sono più orientate a concepire la responsabilità sociale come attenzione verso i propri dipendenti e come strumento di tutela della comunità. Il fatto che il concetto di CSR sia inteso e declinato diversamente, secondo la cultura organizzativa di riferimento e il contesto di appartenenza, non è di per sé stupefacente ma apre nuove prospettive di sviluppo per la cultura della responsabilità, anche nella direzione delle PMI. perché ricordo il caso di un’agenzia che già parecchi anni fa aveva pensato di risolvere molti suoi problemi azzerando o quasi i contatti di persona e sostituendoli con quelli via web e non mi risulta che abbia incontrato molto successo presso i clienti. L’agenzia destrutturata infatti, proprio come l’abito di cui ho parlato all’inizio, non potrà mai andare bene per tutti. Alessandro Colesanti Come testimoniato dal rapporto 2007 di Unioncamere – intitolato “Le attività del sistema camerale sulla Responsabilità Sociale” – le aziende che si rivolgono maggiormente ai 61 sportelli camerali presenti sul territorio nazionale e dedicati alla CSR, sono piccole imprese e, in misura minore, medie imprese; pressoché assenti le grandi imprese. L’attenzione delle PMI al perseguimento di comportamenti responsabili è ormai un dato di fatto e spesso richiama un interesse sincero, non strumentale, per quella dimensione sostanziale e profonda della responsabilità che, in alcuni casi, le grandi aziende sembrano dimenticare. Le PMI avranno sempre più bisogno di trovare interlocutori, non solo a livello istituzionale ma anche imprenditoriale, in grado di supportarli nei processi di sviluppo delle politiche di CSR. La necessità delle imprese di adeguarsi a prassi consolidate, di promuovere la responsabilità sociale dell’impresa e di comunicarla in maniera adeguata coinvolgerà inevitabilmente le competenze di numerose imprese di comunicazione, chiamate a intervenire con la propria professionalità in un campo delicato e promettente. Claudio Avallone [email protected] 23 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08 MANAGEMENT D’AGENZIA Domande, osservazioni, dubbi sul mestiere di manager In questa rubrica Guido Nanni dà il proprio parere su alcuni argomenti che gli vengono posti durante la sua attività di consulente e considera anche problemi che si è trovato ad affrontare durante la sua esperienza di manager d’agenzia. Se volete porre delle questioni o dare il vostro contributo a questo “Forum” scrivete a: [email protected] Lavoro con persone poco motivate, insoddisfatte dei progetti che seguono. D’altra parte campagne di grossa visibilità non ce ne sono, clienti stimolanti neppure e l’orgoglio di far parte del mondo della comunicazione non è sufficiente a contenere la noia della routine. Nulla da dire sulla serietà e l’applicazione, ma vorrei più partecipazione ed entusiasmo. Che fare? La motivazione genera energia, convinzione, determinazione. Ed è vero che senza la motivazione è difficile uscire dalla routine e dalla norma, garantire validi contributi intellettuali, dare impegno e disponibilità senza mugugni e musi lunghi. Ognuno di noi deve fare i conti con la motivazione, la propria e quella degli altri e quasi quotidianamente, sul lavoro, ci si chiede come cercare la motivazione e come generarla. Per cercare qualche risposta, è utile considerare questi meccanismi alla base della motivazione. 1) Le persone soddisfatte (ovvero, contente perchè hanno raggiunto le mete prefissate) non necessariamente sono motivate (ovvero, disponibili a impegnarsi per nuove mete). In altre parole: la motivazione è un orientamento al futuro, non al presente. Ricordiamoci di questa dinamica se dobbiamo decidere, ad esempio, quando, come e con quali argomentazioni aumentare stipendi, dare bonus, collegare incentivi a risultati e distilliamo queste decisioni, senza abusarne in una direzione o in un'altra. 2) La motivazione non può essere richiesta in modo generico, solo enfatico, occasionale. Occorre scambiarla secondo dei piani precisi con i fattori che generano auto-motivazione nelle persone. A tal proposito è importante sapere che questi fattori sono soggettivi. Ovvero, ciò che motiva me non è detto che motivi il mio collega o il mio collaboratore. Il richiamo alla “passione per il lavoro”, ad esempio, può risultare importante per qualcuno e indifferente per altri. Lo stesso vale per i temi a cui si ricorre abitualmente per motivare le persone: la solidarietà di squadra, l’immagine dell’agenzia, la visibilità personale, l’acquisizione di un cliente, l’incentivo economico, l’apprendimento, i vari benefit, la riduzione dell’orario, la formazione ecc. La soggettività della motivazione obbliga a ricercare “incentivi selettivi” adatti ad ogni singola persona e situazione. Come è illustrato nel box, Frederick Herzberg già nel 1974 aveva individuato le categorie dei fattori “igienici” della soddisfazione, ovvero i prerequisiti, e le categorie dei fattori davvero motivanti. 3) E’ l’autostima di ciascuno che può aprire o bloccare l’ingresso dei fattori di motivazione. Ad esempio, i giudizi assoluti sul valore delle persone (“Sei un incapace!”,“Non hai fantasia!”, “Non sai fare il tuo lavoro!”), che a volte rasentano l’insulto, disincentivano l’entusiasmo e, oltretutto, non aiutano a crescere professionalmente. L’arte del “coaching” e del feedback sulle prestazioni, che va oltre il rispetto e la doverosa educazione, dovrebbe essere parte essenziale del bagaglio di ogni buon manager. 4) Infine, ricordiamoci che la motivazione non è disponibile in quantità illimitata: si consuma come la benzina (bene prezioso!) e quindi bisogna sapere anche quando è il caso di accelerare, per richiamare più energia, senza pretendere che tutti abbiano sempre, costantemente, in tutte le circostanze, entusiasmo ai massimi livelli. Ma è inutile parlare di motivazione, se il clima interno del luogo di lavoro è cupo e pieno di diffidenza, se non è aperto e disteso, in grado di generare le fonti a cui ognuno poi accede per la propria motivazione (vedi box). E ancor prima di pensare al clima, consideriamo se, ognuno nel proprio ruolo, sa attivare una leadership chiara e risonante. Troppo difficile? Forse, ma niente paura: abbiamo provato tutti, magari durante una gara, che la motivazione e la mobilitazione delle persone sa alimentarsi e diffondersi in modo esponenziale, come un contagio positivo. Basta avviarla. Guido Nanni ha lavorato in aziende (Henkel, ABB) e in agenzie di pubblicità nazionali e internazionali (Grey, BBDO, BGS D’Arcy) in ruoli direttivi. Da sei anni è consulente. Oggi, con la società Platypus, di cui è partner, conduce progetti di sviluppo organizzativo e di formazione alle persone e ai team. Prerequisiti della motivazione (Fattori “igienici”) Fattori di motivazione • Condizioni fisiche/ambientali • Relazioni interpersonali • Status garantito dal ruolo • Sicurezza del posto di lavoro • Politiche e procedure •Meccanismi di controllo • • • • • • Raggiungimento obiettivi Riconoscimento ottenuto Contenuti presenti nel lavoro Grado di responsabilità Promozioni in termini di carriera Crescita professionale Motivazione e “clima” interno Cosa dovrebbe garantire un ambiente di lavoro aperto e disteso • • • • • Lealtà (fiducia e appartenenza) Energia (realizzazione e tenacia) Identificazione (coinvolgimento) Competenza (capacità e apprendimento) Innovazione (creatività e cambiamento) 25 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08 CONSUMI E SOCIETA’ McLuhan. Il padre del villaggio globale Il geniale sociologo canadese vide e comprese per primo quanti e quali cambiamenti i nuovi mezzi di comunicazione avrebbero apportato alla socialità umana. La sua lezione si applica anche a internet & C. Per anni, o almeno fino a quando non ho terminato la traduzione di “Dal cliché all’archetipo”, non ho capito fino in fondo il pensiero di Marshall McLuhan. Tuttavia, molto prima che ne ascoltassi le parole, già conoscevo il Villaggio Globale: mi ero avvicinato con prudenza a “Il fenomeno umano”di Pierre Teilhard de Chardin, che parlava di come la noosfera si stesse rapidamente intessendo intorno al pianeta. Forse crescere per alcuni anni in India e Pakistan era stata un’esperienza chiave che mi portò a immaginare, fin dall’adolescenza, la periodicità dello sviluppo e la relatività delle culture. Anche il senso della globalità del genere umano che riscoprii con McLuhan veniva da lì. Non è ancora chiaro se e quanto McLuhan sia stato influenzato da Teilhard e anche se, come Tom Wolfe sembra pensare, fosse andata veramente così, McLuhan non lo avrebbe riconosciuto. Quando gli chiesi che cosa pensasse di Teilhard, fece una smorfia e disse: «è 26 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08 tutta fantascienza». Fu una grande delusione ma rimasi con McLuhan perché stava dando ai suoi allievi qualcosa che nessun altro insegnante prima mi aveva dato: il senso di insegnare e vivere in tempo reale. Il modo di parlare e di scrivere di Mc Luhan godeva dell’autorità della percezione diretta, e in quel tempo ciò si coglieva in modo particolarmente acuto, così come portava con sé la sensazione della novità, della conoscenza profonda e della comprensione. Anche oggi, leggere McLuhan significa essere in simbiosi con la realtà emergente, la cui superficie e le fondamenta sono rese visibili attraverso dei flash di luce. McLuhan sviluppò in me una sensibilità per l’emergente, una maniera di essere connesso permanentemente in una più vasta dimensione spaziotemporale. McLuhan è uno di quei rari intellettuali in grado di darci il senso del dell’immanenza del mondo. È stato l’intellettuale canadese a dire per primo che nell’epoca dei media elettronici «ognuno è un creativo». McLuhan, a ben vedere, si è sbilanciato in modo ancora più azzardato, specie per essere un autore che ha scritto tra gli anni Sessanta e i Settanta, affermando che l’umanità stessa diventa una forma d’arte. IL PRIMO POSTMODERNO Ventotto anni dopo la sua morte, che cosa ne è quindi della sua eredità? Questa discussione è stata sollevata in una raccolta di saggi sulla “Scuola di Toronto” che è stata da poco pubblicata dalla University of Toronto Press. Prima di tutto occorre dire che McLuhan non si è curato della sua eredità più di quanto non abbia fatto dei suoi critici. Parafrasando Oscar Wilde, un giorno disse: «per quanto riguarda i critici, non preoccuparti neanche d’ignorarli». Il libro è scritto da accademici per altri accademici, dando la priorità ai critici e agli altri intellettuali che hanno accolto positivamente o contestato alcune delle intuizioni migliori di Marshall McLuhan. La lista è molto ampia e include alcuni nomi prestigiosi (fra gli altri, Jonathan Mugnaio, Susan Sontag, Frank Kermode, George Steiner, Elizabeth Eisenstein, Walter Ong, Paul Levinson, Joshua Meyrowitz, Neil Postman, e così via). Uno degli autori del libro, James Carey, definisce McLuhan come «il primo Postmoderno» e fornisce una delle spiegazioni migliori dell’aforisma più famoso di McLuhan, «il mezzo è il messaggio». Secondo Carey, «Il messaggio è il complesso di abitudini, tendenze, estensioni, metafore e riproduzioni immaginarie che il medium genera e lo sfondo di conoscenze e attività create intorno ad esso». Ma l’eredità di McLuhan va ben oltre la creazione di una specifica scuola di pensiero. Le sue idee possono essere oscure, ma hanno cambiato in qualche modo la nostra mente collettiva. McLuhan, più di qualunque altro studioso di cultura, compresi Harold Innis, Eric Havelock e Lewis Mumford, e perfino i suoi (quasi) contemporanei, quali Raymond Williams, Herbert Marcuse, Jurgen Habermas o Fredric Jameson ha sostenuto tra il grande pubblico, come pure nel commercio, nell’amministrazione e nell’educazione, l’importanza dei mezzi di comunica- zione e della loro influenza sul nostro modo di percepire il mondo. La gente difficilmente associa il suo nome con il cliché del Villaggio Globale, ma ha interiorizzato quella nozione e s’identifica culturalmente e socialmente con essa. Un conto è attirare l’attenzione su un oggetto significativo in un campo, altra cosa è attirare l’attenzione sul campo intero, “la terra”, come egli l’ha definito. McLuhan ha attirato l’attenzione sull’opposizione tra oralità e scrittura come linea guida della sensibilità occidentale. Tutto si riduce a come la tecnologia tratta la lingua. Le parole che sono pronunciate oralmente controllano l’ascoltatore (come abbiamo imparato dai capi tribali e dai dittatori nell’era radiofonica), ma quando le parole sono scritte, il lettore e lo scrittore esercitano entrambi un controllo su esse. Galassia Gutenberg mostra che, attraverso la scrittura, la gente prende il controllo della lingua e l’adatta alle proprie necessità provocando così un aumento del livello di individualismo. Allo stesso tempo, a livello collettivo, rendendo le lingue locali visibili e standardizzate, la scrittura ha condotto al nazionalismo. Ancora, con l’invenzione del torchio tipografico, si è consentito, a chiunque sapesse leggere, di poter creare un pensiero personale circa gli argomenti religiosi più profondi, accelerando il processo delle culture orali verso il loro punto di catastrofe e provocando sanguinose guerre di religione. La stabilizzazione sociale ed etica dei privati cittadini avrebbe preso più di duecento anni. La globalizzazione sta sfidando ancora una volta questo equilibrio ed è l’approccio di McLuhan all’“avvicendamentdo dei media” che ci fornisce gli strumenti per comprendere dove stiamo andando. GLI STRUMENTI DEL COMUNICARE Fu scrivendo un rapporto sugli effetti della televisione e degli altri media elettronici per la National Association of Educational Broadcaster che McLuhan si accorse che l’elettricità era diventata la base della cultura e un fattore sempre più significativo nella vita della gente, più dell’alfabeto e della stampa. Il titolo del rapporto era quello che tre anni più tardi gli avrebbe dato una grande fama a livello internazionale, “Gli stru- menti del comunicare” (1963). Vide che gli effetti dell’elettricità stavano rovesciando quelli precedentemente osservati nella scrittura. La sua metafora preferita per descriverlo era la storia di Humpty Dumpty, “rimettere insieme”. Come riavvolgere la bobina di un film consente di ricostruire esattamente le parti di un uovo rotto, così l’elettricità stava riportando il mondo a uno stato precedente, una nuova condizione orale, ma globalizzata, transnazionale e multiculturale soggetta a un “effetto farfalla” in cui ogni cosa ovunque essa accada interessa ogni altra cosa in ogni altro luogo, in cui «la metà degli affari nel mondo consiste nello spiare l’altra metà», dove l’identità privata si fonde in folle, reti e gruppi infiniti di pettegolezzo (blogs?). Un villaggio, in altre parole, ma elettronico, in cui la prossimità può diventare occasionalmente scomoda. Mc Luhan ha osservato la natura implosiva dell’elettricità e potrebbe aver predetto il terrorismo come condizione «dell’uomo orale, per il quale tutto è improvviso». Ha temuto la perdita totale dell’identità privata nella raccolta di dati elettronici che ha previsto all’inizio degli anni Sessanta: «più si conosce di voi, meno esistete». Abbiamo discusso sovente a tal proposito. Continuo a pensare (o a sperare?) che i computer ci permetteranno di riconquistare parte del controllo su noi stessi che avevamo perso con l’avvento della tv. Marshall pensava che l’elettricità ci avrebbe spazzati via come individui, come un’onda della marea. «Non preoccuparti di nuotare», avrebbe aggiunto ironicamente. Come Vannevar Bush e Ted Nelson, rifletteva su cosa le nuove tecnologie provocavano al nostro modo di pensare: «La copertura quasi completa del globo nel tempo e nello spazio ha reso il libro una forma sempre più obsoleta di comunicazione. Il movimento lento dell’occhio lungo le linee di caratteri, il lento processo degli oggetti organizzati dalla mente per adattarsi a queste sterminate colonne orizzontali – questi procedimenti non possono restare in piedi di fronte alle pressioni della copertura istantanea della terra». Altrove egli apre la questione delle conseguenze sociali e politiche della cospicua accelerazione dei flussi delle informazioni: «è la quantità pura di informazioni che ci ha allontanati dalla realtà politica e sociale. La grande città isola il singolo cittadino, ma le prospettive multiculturali della stampa hanno isolato lo spirito umano da qualunque ambiente». Internet può forse essere la soluzione a questo problema. Oggi, infatti, nell’era 2.0, con il social software si creano in tempo reale delle comunità come le pratiche del blogging o il social tagging. Già prima dell’ipertesto McLuhan scriveva in forma ipertestuale. Anche questo lo aiutava a leggerlo in quel senso. I suoi scritti sembravano sempre fare delle connessioni tra chiasmi logici e incongruità. Al modo di Edward De Bono, ma molto prima, aveva inventato il gioco delle 52 carte in cui ognuna di esse conteneva una dichiarazione (spesso divertente). Il ruolo del giocatore consisteva nel selezionare alcune schede a caso e collegarne il contenuto alle domande o ai problemi che in quel momento gli passavano per la testa. Provando a collegarle a qualsiasi domanda che abbiamo in mente, si scoprirà che pensiamo nella stessa maniera in cui navighiamo sul web, passando da un sito a un altro. UN POETA DELL’ELETTRICITÀ Certamente, potremmo derubricare questa tecnica come l’ennesimo tentativo di self-help del pensiero laterale. Con McLuhan esso diviene l’innesco per una rivoluzione epistemologica. A mio avviso il nuovo modo di pensare in forma ipertestuale è legato a qualche cosa di molto più antico, più 27 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08 CONSUMI E SOCIETA’ efficace e durevole, la pratica millenaria dello “I Ching” (Yijing), il libro delle divinazioni creato dai cinesi quattrocento anni fa. Funziona come l’oroscopo, con una scommessa. Con un tiro di dadi, o l’equivalente cinese, si ottiene una serie di dichiarazioni che bisogna collegare alla propria situazione vista come una totalità comprendente passato, presente e futuro. McLuhan chiamava questa specie di pratica «predire il presente». È il tipo di spazio mentale che giovani surfer del web, wikipediani e networking taggers stanno oggi sviluppando. McLuhan era senza dubbio un poeta dell’elettricità e ha dato grandissima importanza e rispetto all’arte e alla sensibilità artistica. La sua comprensione del potere retorico della pubblicità e dei media derivava dall’aver studiato la poesia. Edgar Allan Poe gli insegnò a iniziare dagli effetti dei media piuttosto che dalle loro cause. Quello che affascinava McLuhan nei simbolisti francesi era una speciale cornice mentale che egli paragonava a un effetto dell’elettricità. Sinestesia che punta all’invisibile e alla magia dell’azione a distanza, il simbolismo è un movimento che McLuhan esplicitamente associava all’elettricità, con Baudelaire e Mallarmé, e nella cultura anglosassone con Eliot, Pound, e Joyce. Come James Joyce, egli considerava gli artisti come persone che «forgiano l’innata consapevolezza della propria specie». Aiutandosi con le grandi intuizioni contenute in Finnegans Wake di Joyce, ha reso evidente e palpabile che i cambiamenti nel nostro modo di sentire e di pensare provengono dai mezzi di comunicazione elettronici che vanno dal telegrafo al computer. Occupandosi degli effetti dei media sui sensi, McLuhan si è rivolto verso altre arti nella ricerca di spunti sulla sensibilità. L’elettricità, dando una nuova sensorialità al linguaggio, ha rivoluzionato la nostra vita sensoriale, e convenendo con McLuhan, sono solo gli artisti le persone «dalla consapevolezza totale». Gli artisti studiano gli effetti, non le cause, della situazione contemporanea e dei nuovi media; quindi sono gli unici in grado di predire con sincerità le conseguenze psicologiche di questi media. McLuhan insisteva sul fatto che il mondo elettronico non è visuale ma tattile. Egli sosteneva che ci sono un collegamento e una continuità fluida tra le correnti organiche del corpo e quelle tecniche nella griglia elettronica della Terra. I media elettronici coinvolgono profondamente le persone nelle vite di tutti gli altri. Tutti i mezzi di comunicazione interattivi e le interfacce in generale possono essere utilmente visti come estensioni tattili della mano e del corpo. Essi modulano gli intervalli tra i nostri corpi e il mondo, come la musica o la danza. È anche possibile immaginare il cursore, il mouse, il touchpad e la tastiera come una modalità tattile di navigare nelle informazioni, cliccando, trascinando e muovendo le acque dello schermo. UN TERRENO DI EVENTI INTERATTIVI McLuhan oggi è a mio avviso hypertinente, iper-pertinente. Certamente non ha predetto internet, ma egli ha osservato che, dopo aver esteso i nostri sensi e il nostro sistema nervoso centrale, «sarebbe stato un piccolo passo esternalizzare anche la nostra coscienza». La cosa sorprendente è che mentre egli non aveva idea di cosa fosse un computer, internet o persino i telefoni portatili, ciò che indicava in ogni suo scritto, da “Gli strumenti del comunicare” in avanti, sembra sempre includere questi mezzi di comunicazione, e aiuta ancora oggi a comprenderli. Sebbene lo stato del Mondo oggi sia lontano dall’essere roseo come al tempo di McLuhan nonostante in quegli anni ci fosse la minaccia nucleare, la sua instancabile indagine sulla polverizzazione della nostra condizione presente ci aiuta a riconoscere che questa è una transizione, e ci aiuta a vedere i contorni del genere umano elettronico. Uno dei pensieri più stimolanti e belli di McLuhan è a mio avviso: «nell’era elettronica, indossiamo l’umanità intera come la nostra pelle». Egli faceva anche un’importante connessione tra questa consapevolezza del mondo e la conoscenza di noi stessi: «siamo costretti a reagire al mondo come ad una totalità… perché i media elettronici creano in maniera istantanea un terreno di eventi interattivi in cui ciascuno partecipa». In questo senso siamo connessi psico- logicamente per sempre con l’intera scena contemporanea.Vi è qui una fine percezione di ciò che oggi appare come un total surround, la profonda comprensione dell’intimità e dell’immediatezza della tecnologia elettronica, delle nostre interfacce con il mondo come, per esempio, la prossimità che intratteniamo con i nostri telefoni mobili. Alla fine, l’elettricità produrrà trasparenza e determinerà una nuova etica globale per garantire la coabitazione pacifica. L’elettricità è talmente più veloce della scrittura che tutto ciò potrebbe accadere prima di quanto pensiamo. È questa speranza, per me, l’eredità pubblica di Marshall Herbert McLuhan. Derrick de Kerckhove Direttore del McLuhan Program in Culture and Technology dell’Università di Toronto. Testo della conferenza “Ognuno è creativo. Sull’eredità di Marshall McLuhan” organizzata dall’Istituto di Comunicazione dell’Università IULM di Milano. Traduzione dall’inglese di Tito Vagni. Da “Il Domenicale” del 10.05.2008 - pgc 29 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08 NUOVA COMUNICAZIONE Quando la pubblicità inquina il mondo Greenwashing, una modalità di comunicare per “rinverdire” l’immagine di prodotti e di aziende. Qualcuno tuttavia vigila e denuncia il fenomeno indicandone i sei peccati capitali. Con qualche esagerazione. Si chiama “greenwashing” ed è l’ultima ricetta segreta per “lavarsi la coscienza”. Questo curioso neologismo si utilizza ogni qual volta un’azienda si appropria (abusivamente) di un’immagine ambientalista. Questa operazione permette di presentarsi al pubblico come paladini della natura, anche se magari si producono detersivi inquinanti o alimenti poco salutari. Secondo il sito greenwashing.net, questa pratica è aumentata in modo esponenziale da circa 20 anni, man mano che i problemi dell’ambiente hanno iniziato ad interessare (e a preoccupare) il grande pubblico. I grandi marchi hanno imparato ad allettare quella fetta di consumatori più attenta al rispetto della natura, e hanno di conseguenza modificato il loro modo di fare comunicazione. I SEI PECCATI CAPITALI DEL GREENWASHING TerraChoice, società specializzata in “environmental marketing”, ha stilato alcuni mesi fa una lista dei peccati mortali della comunicazione che farebbero piombare qualsiasi azienda nei gironi infernali del “greenwashing”. 1) Peccato del Trade-Off Nascosto Commettono questo peccato il 57% di tutti i prodotti pubblicizzati come “verdi”, per esempio apparecchiature elettroniche a basso consumo, ma che contengono materiali nocivi. 2) Peccato della Nessuna Prova Si forniscono dati scientifici comprovanti la bio-compatibilità del prodotto, ma non supportati da alcuna prova. (26% di peccati commessi). 30 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08 3) Peccato della Nebulosità Si usano affermazioni tipo “naturale al 100%” senza specificare che molte sostanze naturali sono velenose (confermato nell’11% dei casi esaminati). 4) Peccato dell’Irrilevanza Quando si vantano plus inutili come “senza CFC” che sono stati banditi 20 anni fa (rilevato nel 4% dei prodotti esaminati). 5) Peccato del Contaballe Consiste nell’esibire certificazioni internazionali (come EcoLogo o Energy Star) senza averne i requisiti. 6) Peccato del Minore dei due mali Viene commesso quando si spaccia per “ecologico” un prodotto di per sé nocivo (per esempio, una sigaretta realizzata con tabacco “organico”). GREENWASHING A TUTTO GAS Le automobili ci offrono un esempio lampante del fenomeno “greenwashing”. SUV e fuoristrada, in pubblicità, sono tutto fuorché le ingombranti presenze sulle nostre strade. Mastodontici 4x4 sono rappresentati sempre come animali in libertà in un ambiente naturale incontaminato. Predatori al vertice della “catena alimentare”, tanto nel panorama automobilistico, come in quello dei consumi. Il tentativo è di presentare l’auto come un prodotto in armonia con la natura, anche senza affermare direttamente che l’auto “non inquina”. La General Motors è finita per questo motivo nella lista nera di greenwashing.net. In Europa qualcuno pensa di arginare il fenomeno. In Norvegia sono da poco entrate in vigore nuove norme per regolamentare la pubblicità delle auto- mobili. Il difensore civico dei consumatori norvegese (ombudsman) ha bollato come pubblicità ingannevole qualsiasi tentativo di dare all’automobile l’immagine di “amica dell’ambiente”. Il giudizio delle autorità è perentorio: “Le auto non possono fare niente di buono per l’ambiente, a parte arrecare un minor danno rispetto ad altre auto.” Al massimo si può affermare che un modello inquini di meno; in Norvegia hanno infatti tenuto conto di tutto il ciclo di vita di un’auto dalla nascita fino allo smaltimento: produzione, emissioni, consumo energetico e parti riciclabili. Ma il greenwashing, per quanto riguarda le automobili, è il piccolo sintomo di un male ben più grave. Di recente, associazioni ambientaliste come Amici della Terra e WWF Italia hanno presentato la prima indagine nazionale sul ruolo del marketing pubblicitario delle auto nella riduzione delle emissioni di CO2. Il risultato è sconfortante: le auto più inquinanti sono anche quelle più pubblicizzate.Tutto questo, in barba agli accordi comunitari per la riduzione dell’inquinamento da anidride carbonica. La ricerca è stata effettuata su un campione rappresentativo di media a diffusione nazionale (stampa e TV) da novembre 2007 ad aprile 2008. E’ interessante l’analisi delle principali leve emozionali utilizzate per indurre all’acquisto. Sulla carta stampata, per il 67% si fa riferimento al basso costo (e solo l’1% ai bassi consumi). Seguono il comfort e il piacere di guida (49%), le prestazioni (26%) e la sicurezza (23%). Angela d’Amelio - [email protected] Solo l’8% degli annunci sottolineava le basse emissioni di gas nocivi per l’atmosfera. Nelle campagne stampa, inoltre, è necessario inserire le dovute informazioni sui consumi e sulla produzione di CO2. Tuttavia questi messaggi sono stati posti in secondo piano: le informazioni sono risultate ben leggibili e in evidenza – rispetto agli altri testi dell’annuncio – solo nel 6,4% dei casi esaminati. La situazione non migliora nella pubblicità televisiva, dove i concetti di sicurezza (96%), prestazioni (94%) e piacere di guida (93%) dominano incontrastati, oltre a indicare un incredibile uniformità dei messaggi da comunicare. La leva dell’ecologia è utilizzata solo nel 27% dei casi, con appena il 3% riguardanti le minori emissioni di anidride carbonica. Fulco Pratesi, presidente del WWF Italia, tuona contro i grandi marchi di automobili e i pubblicitari: “[…] le case automobilistiche non stanno pubblicizzando in maniera prevalente quei modelli che, già oggi disponibili presso i concessionari, consentirebbero il rispetto degli obiettivi comunitari in anticipo sui tempi previsti, anzi: stanno continuando a promuovere modelli ad alte emissioni, secondo un trend che impedirà il raggiungimento degli obiettivi di riduzione formulati dalla Commissione. Obiettivi che peraltro noi riteniamo ancora insufficienti per fare in modo che anche il settore dei trasporti contribuisca in modo significativo a una riduzione europea che deve essere del 30%, per stare al passo con gli obiettivi internazionali e con gli allarmi degli scienziati”. Questi anatemi trovano eco in un’intensa attività di controinformazione nella rete. Il sito “The Unsuitablog” (http://thesietch.org/mysietch/keith), scritto dall’ambientalista Keith Farnish, è tutto dedicato a “smascherare ovunque le ipocrisie sull’ambiente).Tra i casi denunciati da Farnish, quello del SUV ibrido Chevy Tahoe, “auto verde 2008”. Una vettura che, a dispetto dei titoli conquistati, consuma un litro di benzina ogni 5 chilometri nel ciclo urbano. La penna caustica di Farnish non risparmia nessuno, dai grandi marchi automobilistici, ai produttori di computer, alle compagnie di telefonia mobile. È una lettura disarmante che, comunque la si pensi, dovrebbe far riflettere sul nostro ruolo di comunicatori. E cioè di comunicare bene, senza ingannare il prossimo. Angela D’Amelio Maledetti SUV Condivido senza riserve l’invito finale di Angela D’Amelio a comunicare bene senza ingannare il prossimo. Ma credo che questa sollecitazione vada rivolta anche ai paladini del “no, sempre e comunque” che con il loro oltranzismo integralista si sono giocati ogni residuo di credibilità. Qualche esempio: nell’articolo si afferma che non vengono pubblicizzati, o quantomeno, non come tali, veicoli meno inquinanti. E l’advertising di Toyota Yaris che fa dei bassi consumi il suo cavallo di battaglia? E quella delle auto ibride Prius, sempre di Toyota, Lexus 400 e di molte “piccole risparmiose”? E, sempre a proposito di automobili, che dire della stucchevole polemica e degli anatemi scagliati contro i cosiddetti SUV, definiti mastodontici ed inquinanti? Questo è un caso lampante di disinformazione: i SUV che circolano sulle strade europee (di produzione continentale, coreana e giapponese), non hanno niente a che vedere con quelli d’oltre Atlantico, assetati e realizzati a misura delle highways americane: il loro ingombro (inteso come impronta al suolo) non supera quello delle berline, per la semplice ragione che quasi sempre ne condividono i pianali, e, quanto a consumi, non eccedono, se non marginalmente, quelli delle berline stesse. Di contro, sono più spaziosi, consentono un carico maggiore e sono infinitamente più sicuri di molte di quelle scatolette di latta che sfrecciano a centosessanta all’ora in autostrada. Ma tant’è: i professionisti nostrani del “no, sempre e comunque”, hanno fatto propria la polemica anti-SUV d’oltreoceano, senza neppure prendersi il disturbo di fare le necessarie verifiche, con il risultato di disinformare e di coprirsi di ridicolo. Come sostengo nel pezzo “La lezione di Federico” (vedi a pag. 15), sono state proprio le esagerazioni ed i reiterati no, uniti alla evidente incapacità di formulare proposte alternative praticabili, ad allontanare dai movimenti verdi le persone ragionevoli, con le conseguenze che la recente tornata elettorale ha determinato. Direte, ma perchè s’incazza Gargamella? Facile. E’ il felice proprietario di un ottimo SUV (BMW), che, guarda caso, ha le stesse misure e gli stessi consumi di una berlina Serie 5. Provare per credere. Gargamella 31 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08 NUOVA COMUNICAZIONE Emetrics Summit. Presente e futuro della web analytics Monitorare con precisione il comportamento degli utenti è una necessità vitale per chi investe sul web. Si è svolto a fine maggio a Londra l’Emetrics Marketing Optimization Summit, il più importante evento europeo sul tema della misurazione dei dati nel web. Si tratta di uno dei temi caldi del momento: al costante incremento dei budget pubblicitari destinati all’on-line consegue la necessità per gli investitori di valutare quali siano i risultati ottenuti. Il web, a differenza di altri mezzi di comunicazione, è misurabile, è infatti possibile monitorare con una certa precisione il comportamento degli utenti di un sito. Nei due giorni dell’Emetrics di Londra si è cercato di disegnare quale sia lo stato dell’arte in Europa della web analytics: è stata ribadita più volte la necessità per le aziende di adottare una filosofia in cui le scelte strategiche per il canale web siano motivate delle evidenze delle analisi sui dati. STRUMENTI E COMPETENZE La aziende hanno dunque la necessità di dotarsi di strumenti, ma soprattutto di competenze per analizzare in dettaglio l’utenza del proprio sito.All’evento londi- nese è stata evidenziata la tendenza ad integrare i dati del traffico web con gli altri dati in possesso dell’azienda, per tracciare un profilo completo dell’utente. Esemplare il caso del New York Times che ha monitorato il comportamento degli utenti che avevano fatto una registrazione per l’acquisto dell’abbonamento al giornale cartaceo. Sulla base della registrazione sono stati raccolti dati di carattere socio demografico dei visitatori, valutando poi il loro comportamento sul sito e quindi l’interesse per le varie notizie. Sono così emerse importanti indicazioni di carattere editoriale, per esempio su quali fossero le tematiche più lette da un determinato profilo di utenza. E’ stato poi affrontato il tema dei social media (YouTube, Facebook, LinkedIn, etc.) come strumento per generare traffico sul sito ma non solo: Nissan Europa ha utilizzato una sorta di spider in grado di rilevare nei vari social media i contenuti riguardanti il brand e in generale l’automobile. Sulla base di questa raccolta di contenuti è stato possibile capire i punti di forza e di debolezza del brand e i temi a cui gli utenti sono più sensibili (spaziosità dell’abitacolo, comodità del posto di guida, prestazioni dell’automobile,etc).Lo scopo della web analytics è infatti quello di ottimizzare i risultati del web, si tratta di un perfezionamento continuo, in cui ad una fase di misurazione del comportamento degli utenti segue la ridefinizione delle strategie e quindi un ulteriore monitoraggio volto a capire se le nuove decisioni hanno effettivamente generato dei miglioramenti. L’Emetrics ha messo in luce una forte attenzione per la web analytics soprattutto negli Stati Uniti, nella Gran Bretagna e nei più evoluti paesi europei. In Italia è solo una questione di tempo, intanto le aziende che per prime iniziano ad investire in questo settore hanno una marcia in più per il successo nel web. Mauro Canzian Web Analytics Manager di TSW Who’s Who in Italy Gold Edition 2008 A partire dal mese di maggio, è disponibile presso l’editore e nelle librerie specializzate la nuova edizione di “Who’s Who in Italy”, la prestigiosa pubblicazione che puntualmente fornisce un attento ed accurato ritratto delle imprese, istituzioni e classe dirigente del nostro Paese e che racconta come e con chi sta crescendo il “sistema Italia”. Indispensabile per quanti si occupano di business e di comunicazione, “Who’s Who in Italy” in ogni nuova edizione aggiorna infatti il quadro dell’Italia, calibrando con attenzione nuovi “ingressi”: presenta le imprese ed i personaggi emergenti, monitora con scrupolo i settori dell’economia e della fi32 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08 nanza, segue con costanza lo sviluppo delle aziende che si confermano leader di mercato. Affidabilità, selezione rigorosa, aggiornamento costante dei dati, certezza dell’informazione, accuratezza della comunicazione, ritratti ad hoc per uomini, istituzioni e società: sono queste le caratteristiche che da sempre distinguono questo strumento di lavoro, indispensabile per orientarsi e per capire cosa accade in Italia e quali sono i protagonisti del cambiamento. “Who’s Who in Italy Gold Edition” mette a disposizione, anche in questa edizione, un patrimonio ricchissimo di dati ed informazioni: 7000 profili personali di perso- naggi di rilievo in Italia, di cui vengono indicati il percorso professionale e l’incarico attuale, e 4500 profili di banche, istituzioni, strutture finanziare ed aziende di tutti i settori merceologici con testi che mettono in luce strategie, obiettivi, presenza internazionale. Per informazioni: Enrica Vigato Tel. 0266503014 [email protected] NUOVA COMUNICAZIONE Stefania Salucci - [email protected] Non chiamatelo pubblicità occulta Se non viene usato in maniera indiscriminata il Product placement è uno strumento efficace di comunicazione aziendale: è il vero “Consiglio per gli acquisti”. Con la nascita del Product Placement sono nate professioni, agenzie specializzate e tecniche di comunicazione che hanno contribuito a istituzionalizzare questa attività. Una delle prime case di produzione a gestire il Product Placement in Italia è stata Cattleya con il film L’uomo Perfetto (Luca Lucini, 2005), grazie al quale ha vinto la “Grolle d’oro per il product placement” per il posizionamento di Coca-Cola light. “La Cattleya è una bellissima orchidea, un tempo selvatica,oggi coltivata in serra con molta cura e tecnica: un po' come dovrebbe succedere per il cinema”. Così si presenta questa casa di produzione fondata nel settembre 1997 da Riccardo Tozzi, allora Capo delle Produzioni di Mediaset. Oggi conta tre soci maggioritari, Riccardo Tozzi, Giovanni Stabilini (ex direttore generale di Mediaset) e Marco Chi- menz (ex Vice Presidente Medusa) che, grazie al loro know-how in materia di produzione, distribuzione e finanziamento internazionale, hanno creato l'unica società di produzione cinematografica italiana con un approccio di tipo industriale. Questo approccio pragmatico è stato condiviso, nel 2000, dall'ingresso in Cattleya di due soci minoritari:il gruppo editoriale De Agostini e il fondo di investimento San Paolo IMI Private Equity. Tra i metodi che Cattleya utilizza per aiutare economicamente e quindi qualitativamente la produzione c’è proprio il Product Placement. Abbiamo intervistato la responsabile del Product Placement di Cattleya, Elisa Boltri, per avere da lei uno scenario attuale di quella che è la situazione del Product Placement in Italia. C’è chi accusa il Product Placement di essere pubblicità occulta: come risponde? «Ritengo che definire il Product Placement pubblicità occulta sia un atteggiamento anacronistico. Il cinema, e non solo, racconta la nostra realtà e riflette il mondo in cui viviamo, che è un mondo fatto di bisogni, prodotti, marchi e beni di consumo di ogni sorta.Lo spettatore,ma anche il consumatore, ha ormai sviluppato una capacità critica rispetto a ciò che vede o ciò che acquista». Ci dà una Sua breve definizione di Product Placement? «Il Product Placement andrebbe semplicemente considerato come uno strumento efficace di comunicazione. Io lo definisco il vero “consiglio per gli acquisti” perché, diversamente dalla pubblicità che porta un modello di comportamento esasperato ed esasperante nella sua perfezione, perfezione in cui difficilmente una persona si può identificare,il Product Placement inserisce il marchio o il prodotto in una situazione di realtà, all’interno di un flusso narrativo dove i personaggi oltre al uso o al consumo hanno una storia da raccontare e condividere con lo spettatore». Ci può delineare un piccolo scenario del Product Placement in Italia? «Il product placement può essere verbale, visuale e integrato.A ogni tipo di placement corrisponde una cifra in termini economici che varia a seconda della presenza del prodotto o del marchio in una o più scene. Se il product è integrato e coerente alla sceneggiatura è difficile trovare resistenze da parte dei registi che anzi lo vivono come un elemento caratterizzante del personaggio. Se invece vengono fatte delle “forzature” il risultato è spesso deludente, sia per l’azienda che per lo spettatore perché l’inserimento viene percepito come un elemento di intrusione». Il Product Placement può davvero essere la soluzione al problema dei finanziamenti statali? Di che cifre si parla? «Il Product Placement può essere un elemento di supporto per il finanziamento di un film,ma non ritengo che vada percepito come la soluzione al problema dei finanziamenti statali. Il rischio che si corre è che per sopperire alla carenza di fondi si debbano inserire troppi marchi all’interno del film. Il Product Placement aiuta il cinema italiano, ma non si può farne un utilizzo eccessivo solo per far fronte ad esigenze di budget». Dal 26 al 29 giugno 2008 si terrà a Ischia il primo Festival europeo dedicato alla pubblicità indiretta a cura dell'Associazione Culturale Art Movie e Music.Credi 33 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08 NUOVA COMUNICAZIONE che questi festival aiuteranno a sdoganare il Product Placement? «Penso che sia importante parlare del Product Placement e che ogni occasione vada sfruttata al meglio, sia che si tratti di un premio che di seminari, congressi, tavole rotonde in cui le aziende, i produttori e le agenzie si confrontino per stabilire una linea comune di collaborazione». Come si realizza un buon Product Placement? «Un buon Product Placement si realizza quando il prodotto è presente all’interno del film senza che venga percepito come un messaggio pubblicitario. Un esempio lampante è sicuramente la pellicola Juno di Jason Reitman,dove i Tic Tac,associati al personaggio di Paulie interpretato da Michael Cera, sono protagonisti senza che lo spettatore li percepisca in modo invasivo.Anzi il prodotto caratterizza sia il personaggio che la narrazione della storia arricchendola di contenuti. La dimostrazione più evidente del buon esito di questo Placement è il premio che ha ricevuto il film, non un premio specifico sull’inserimento, ma un premio, il premio per eccellenza per i film: l’Oscar (miglior sceneggiatura)». Quando il product placement può diventare dannoso per il film? Oltre quali confini non dovrebbe mai andare? «I confini sono quelli del buon gusto, non bisogna mai sovresporre il prodotto o il marchio all’interno del film, bisogna sempre trovare l’equilibrio tra la sua visibilità e una presenza troppo invasiva all’interno della scena. Un buon risultato si ottiene quando l’azienda si ritiene soddisfatta dell’inserimento e lo spettatore percepisce la partecipazione del marchio senza fastidio». Quando consigliare il Product Placement (a registi e aziende)? E quando sconsigliarlo? «Il Placement è sempre consigliabile: ogni prodotto può avere la sua collocazione all’interno della pellicola, l’importante è che sia coerente con i personaggi. Alle aziende consiglio di valutare ogni singolo caso, anche quando viene loro proposto un uso non convenzionale del prodotto, purché naturalmente non rasenti il limite del denigratorio». Ora proviamo ad andare oltre: in USA il Product Placement viene fatto a teatro, al cinema, in televisione, nei video musicali, nei video games e nei libri. Quali applicazioni reali e a breve termine potrebbe avere il Product Placement in Italia? «Ritengo che il cinema, ad oggi in Italia, sia ancora lo strumento più efficace per il Product Placement. Certamente quando sarà possibile fare Product Placement anche nelle serie tv si aprirà un mercato interessante anche se il rischio, come sempre, è quello di fare del Product Placement un uso indiscriminato». Stefania Salucci 35 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08 HIGH-TEC Nuovi drive da WD Il massimo delle prestazioni La nuova linea My Book Studio Edition II, composta da sistemi di storage dual-drive sono progettati per operare in maniera ottimale con computer Mac e fornire il mix ideale tra risparmi energetici e prestazioni elevate. Già disponibili presso i migliori rivenditori, i nuovi sistemi storage dualdrive My Book Studio Edition II sono disponibili nella capacità di 1TB e 2TB. I nuovi sistemi storage esterni dual-drive ed ecocompatibili My Book Studio Edition II utilizzano dischi WD GreenPower per garantire risparmi energetici e operazioni silenziose e fresche. Il doppio drive del sistema, la configurazione RAID 0 ed interfacce ad alta velocità garantiscono le elevate prestazioni richieste da professionisti della creatività, gruppi di lavoro, piccoli uffici e da chiunque abbia necessità di elevati valori di data transfer. Formattati per Mac, questi nuovi sistemi storage offrono: prestazioni estremamente veloci con quattro interfacce (Firewire 400/800, e SATA, USB 2.0); una configurazione RAID 0 (Striped) predefinita, che può essere portata a RAID 1 (Mirrored); operatività fresca ed ecocompatibile grazie ai dischi WD GreenPower, che consumano circa un terzo di energia in meno rispetto ai sistemi dual-drive esterni standard e dispongono di modalità efficienti di raffreddamento e di riduzione dei consumi; una garanzia di 5 anni; software di backup continuo e automatizzato; un indicatore di capacità per vedere a colpo d’occhio quanto spazio rimane disponibile sul sistema; funzionalità di gestione intelligente del drive, che comprendono power-up automatico, Safe Shutdown, LED e indicatori di attività: possibilità di operare sul dispositivo, che offre all’utente la possibilità di aprire la confezione e sostituire uno dei drive; e un design argento metallico che si sposa perfettamente con altri prodotti Mac. “WD ha sviluppato i dischi esterni My Book Studio Edition II per rispondere alle necessità di entusiasti del Mac e professionisti della creatività che richiedono prestazioni estremamente elevate, ma vogliono avere sull’ambiente il minore impatto possibile”, spiega Jim Welsh, vice president and general manager branded product e consumer electronic group di WD. “Con drive già configurati RAID 0, fotografi, artisti, grafici e tutti coloro che richiedono grandi quantità di storage potranno avere grandi prestazioni abbinate a 36 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08 risparmi energetici ed alla massima silenziosità delle operazioni grazie ai nuovi sistemi storage My Book Studio Edition II.” vataggio di enormi blocchi di dati in tempi record. Con RAID 0 gli utenti dispongono di 2TB di storage in un formato contenuto ed elegante che offre spazio a sufficienza per archiviare un’intera libreria di fotografie digitali e centinaia di ore di film o video digitali HD (i risultati variano in base a formato e dimensioni, setting, caratteristiche, software e altri elementi del file). Il massimo delle prestazioni con RAID 0 Interfacce eSATA o FireWire 800 ad alta velocità associate a RAID 0 (Striped) soddisfano le necessità degli utenti esigenti legate a video editino, rendering di oggetti 3D complessi o di effetti speciali, e sal- Prezzo e disponibilità I sistemi di storage dual-drive MyBook Studio Edition II sono già disponibili presso i migliori rivenditori al prezzo indicativo di 289 Euro per la versione da 1 TB e di 569 Euro per quella da 2 TB. WD VelociRaptor Il più veloce al mondo WD® annuncia la disponibilità dei drive WD VelociRaptor™, la nuova generazione di dischi SATA da 10.000 RPM della serie “Raptor”. Progettato per offrire prestazioni di livello enterprise, il nuovo WD VelociRaptor è stato pensato appositamente per utenti PC e Mac e di workstation professionali. Destinato a divenire l’hard disk di riferimento per questa tipologia di utenza, l’hard drive WD VelociRaptor offre il doppio della capacità e prestazioni del 35% superiori rispetto alla generazione precedente. Come il WD Raptor, il più diffuso hard drive per coloro che richiedono il massimo dal proprio disco SATA, WD VelociRaptor è realizzato con una meccanica di livello enterprise e offre 300 GB di capacità in un formato da 2,5 pollici. WD VelociRaptor è inserito nell’IcePack™, una struttura da 3,5 pollici con heat sink integrato – personalizzazione che permette l’inserimento del drive in uno slot standard da 3,5 pollici e ne mantiene bassa la temperatura se installato in uno chassis desktop ad alte prestazioni. WD VelociRaptor rappresenta la novità per gli amanti di PC in cerca di velocità e, come per tutti i drive WD, l’attenzione al dettaglio in termini di funzionalità, prestazioni e affidabilità rimane una priorità. cia SATA 3 Gb/s e 16 MB di cache, assicurano prestazioni senza eguali. • Massima affidabilità I drive WD VelociRaptor sono progettati e realizzati nel rispetto di standard businesscritical di livello enterprise al fine di fornire la massima affidabilità in ambienti high duty. Il disco assicura la più elevata disponibilità rispetto a ogni altro drive SATA con un valore di MTBF pari a 1,4 milioni di ore. • Struttura IcePack I drive da 2,5 pollici WD VelociRaptor sono integrati in una cornice da 3,5 pollici dotata di heat sink integrato, che mantiene bassa la temperatura quando installati in chassis desktop ad alte prestazioni. • Rotary Acceleration Feed Forward (RAFF™) Ottimizza le performance quando i drive vengono impiegati in chassis multi-drive a prova di vibrazioni. • SecurePark™ Parcheggia le testine al di fuori della superficie del disco in fase di spin up, spin down e quando il drive è spento garantendo così che la testina di registrazione non tocchi mai la superficie e assicurando maggiore affidabilità sul lungo termine e protezione del drive quando lo chassis viene spostato. Tra le nuove caratteristiche del WD VelociRaptor vi sono: • Massima velocità Costruiti sulle prestazioni del WD Raptor, questi drive da 10.000 RPM, con interfac- Prezzo e disponibilitá Gli hard drive WD VelociRaptor (modello WD3000GLFS) sono disponibili in Italia a partire al prezzo indicativo di 300 Euro, Iva compresa. MOSTRE Ornatissimo Codice La biblioteca di Federico da Montefeltro a Urbino Urbino - Palazzo Ducale Galleria Nazionale delle Marche info: tel. 0722/322625 www.bibliotecafederico.it La mostra è aperta fino al 27 luglio Alla morte di Federico da Montefeltro la collezione di manoscritti e di codici del Quattrocento, superava in qualità quelle dei Medici e degli Sforza. “Ornatissimo Codice”, la mostra allestita presso il Palazzo Ducale, rappresenta un’occasione unica per ammirare straordinarie testimonianze di quella irripetibile fucina culturale che fu la corte urbinate. Luciano Ventrone a Chivasso Palazzo Luigi Einaudi Piazza D'Armi, 6 - 10034 Chivasso (To) Tel. 3394673821, 011.9103591 Orario: martedì, giovedì e venerdì: 16-19 mercoledì: 10-12, sabato e domenica: 10-12 e 16-19 email: [email protected] Cinquanta rare opere del celebre artista noto al mondo soprattutto per le sue nature morte. Quella di Ventrone è una passione autentica e tenace per l’arte classicamente intesa, un sentimento che lo spinge al di fuori delle regole del mercato e al di là delle mode del momento. Un artista senza tempo che guarda con occhio grato ai grandi artisti del passato, a Caravaggio per primo, ma che si compiace di esprimere, col silenzio straniante tipico di ogni composizione iperrealista, la realtà del nostro secolo, di cui si vede l’apparenza ma se ne subodora lo spirito. 37 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08 INCONTRI Jorge Luis Borges Jorge Luis Borges Istanti Se potessi vivere di nuovo la mia vita, nella prossima cercherei di commettere più errori. Non cercherei di essere così perfetto, mi rilasserei di più. Sarei più sciocco di quanto non lo sia già stato, di fatto prenderei ben poche cose sul serio. Sarei meno igienico. Correrei più rischi, farei più viaggi, contemplerei più tramonti, salirei più montagne, nuoterei in più fiumi. Andrei in più luoghi dove mai sono stato, mangerei più gelati e meno fave, avrei più problemi reali, e meno problemi immaginari. Io fui uno di quelli che vissero ogni minuto della loro vita sensati e con profitto; certo che mi sono preso qualche momento di allegria. Ma se potessi tornare indietro, cercherei di avere soltanto momenti buoni. Chè, se non lo sapete, di questo è fatta la vita, di momenti: non perdere l'adesso. Io ero uno di quelli che mai andavano da nessuna parte senza un termometro, una borsa dell'acqua calda, un ombrello e un paracadute; se potessi tornare a vivere, vivrei più leggero. Se potessi tornare a vivere comincerei ad andare scalzo all'inizio della primavera e resterei scalzo fino alla fine dell'autunno. Farei più giri in calesse, guarderei più albe, e giocherei con più bambini, se mi trovassi di nuovo la vita davanti. Ma vedete, ho 85 anni e so che sto morendo. Gauchos Come potevano sapere che i loro antenati erano venuti su un mare, come potevano sapere cosa sono un mare e le sue acque. Meticci dell'uomo bianco, lo stimarono poco meticci dell'uomo rosso gli furono nemici. Molti di essi non avranno mai udito la parola Gaucho o l'avranno sentita come un'ingiuria. Impararono le vie delle stelle, le usanze del vento e dell'uccello, le profezie delle nubi del Sud e della luna alonata. Furono pastori di bestie selvagge, saldi sul cavallo del deserto, domato al mattino, veloci a prendere il lazo, marchiatori, mandriani, capiguardiani, talvolta banditi, qualcuno, quello che si ascoltava fu il payador. Cantava senza fretta, perche' l'alba tarda a far chiaro, e non alzava la voce. 38 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08 Jorge Francisco Isidoro Luis Borges Acevedo è ritenuto uno dei più importanti e influenti scrittori del XX secolo. Narratore, poeta e saggista, è famoso per i suoi racconti, nei quali ha saputo coniugare idee filosofiche e metafisiche con i classici temi del fantastico (quali: il doppio, le realtà parallele del sogno, i libri misteriosi e magici, gli slittamenti temporali). Oggi l'aggettivo «borgesiano» definisce una concezione della vita come storia (fiction), come menzogna, come opera contraffatta spacciata per veritiera (come nelle sue famose recensioni di libri immaginari). Sebbene la poesia fosse uno dei fondamenti della sua opera letteraria, il saggio e la narrativa furono i generi che gli procurarono il riconoscimento internazionale. Dotato di una vasta cultura, costruì un'opera di grande solidità intellettuale sull'andamento di una prosa precisa e austera, attraverso la quale poté manifestare un distacco talora ironico dalle cose del mondo, senza per questo rinunciare al suo delicato lirismo. Le sue strutture narrative alterano le forme convenzionali del tempo e dello spazio per creare altri mondi di grande contenuto simbolico, costruiti a partire da riflessi, inversioni, parallelismi. Gli scritti di Borges prendono spesso la forma di artifici o di potenti metafore con sfondo metafisico. Ricevette innumerevoli riconoscimenti, ma, sorprendentemente, non il Premio Nobel. Borges, nato nel 1899 a Buenos Aires, morì a Ginevra nel 1986. (da Wikipedia) LETTURE a cura di Paolo Romoli Periodico di informazione del Consiglio Direttivo dell'Unione Nazionale Imprese di Comunicazione - UNICOM Anno VI - n. 31 Giugno 2008 L’altra casta Stefano Livadiotti Direttore Responsabile Lorenzo Strona Bompiani - pp. 240 - Euro 15,00 Comitato di Redazione Claudio Breno Alessandro Colesanti Pasquale Diaferia Angela D’Amelio Renato Sarli Comitato Scientifico Antonio Acampora Claudio Avallone Nicola Bovoli Renato Camposano Donatella Consolandi Federico Crespi Francesco Ferro Francesco Miscioscia Rossella Tosto Giorgio Tramontini Biagio Vanacore Ivano Villani I sindacati sono oggi nel pieno di una profonda crisi di legittimità, che rischia di cancellare anche i loro meriti storici. Lo strapotere e l’invadenza delle tre grandi centrali confederali hanno prodotto nel Paese un diffuso senso di rigetto. Lo documentano tutti i più recenti sondaggi d’opinione: solo un italiano su venti si sente rappresentato dalle sigle sindacali. L’immagine del sindacato come soggetto responsabile, capace di interpretare gli interessi generali, si è dunque dissolta. Ed ha lasciato il posto a quella di una casta iperburocratizzata ed autoreferenziale che ha perso via via il contatto con il paese reale, quello delle buste paga sempre più leggere e delle fabbriche dove si muore troppo spesso. Oggi il sindacato appare come una realtà che, in nome di una concertazione degenerata in diritto di veto, pretende di avere l’ultima parola, sempre e su ogni cosa; che si presenta come il legittimo rappresentante di tutti i lavoratori, ma bada solo agli interessi dei suoi iscritti (in maggioranza pensionati e pubblici dipendenti). E perciò si mette puntualmente di traverso a qualunque riforma in grado di mettere in discussione uno status quo fatto soprattutto di privilegi. Stefano Livadiotti è una delle firme più prestigiose de “L’Espresso”: da oltre vent’anni si occupa di economia e di politica con inchieste, interviste e reportage. Hanno collaborato a questo numero: Claudio Avallone Claudio Breno Mauro Canzian Alessandro Colesanti Angela D’Amelio Derrick de Kerckhove Pasquale Diaferia Fiammetta Malagoli Mario Modica Guido Nanni Stefania Salucci Renato Sarli Immagini: TIPS images (per gentile concessione) Copertina: Carlo Cerchioli/Grazia Neri UNICOM Unione Nazionale Imprese di Comunicazione 20122 Milano - Piazza Bertarelli, 1 tel. +39.02.863815 r.a. - Fax +39.02.809636 e-mail: [email protected] www.unicomitalia.org Editore incaricato: LS&P srl - Viale Marazza, 30 28021 Borgomanero (No) Iscrizione al ROC n. 1348 Concessionario di Pubblicità: Mario Modica Editore Via Cascina Spelta, 24/D 27100 Pavia Stampa: Mediagraf srl Viale della Navigazione interna, 89 35027 Noventa Padovana (PD) Periodico mensile registrato presso il Tribunale di Milano n. 656 con Decreto del 17-11-2003 Distribuzione: 8.000 copie Sped. in Abb. postale 45% - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1 Filiale di Padova DCB Costo copia Euro 2,50 Abbonamento annuale (11 numeri) Euro 20,00 Pagamento anticipato a mezzo Bonifico Bancario intestato a: UNICOM - P.za Bertarelli, 1- 20122 Milano IBAM IT52-U-03336-01600-000000038603 Ai sensi del d.lgs. 196/2003 si informa che l'Editore incaricato tratta i dati forniti da Unicom. Nei confronti dell'Editore e di Unicom sarà quindi possibile esercitare i diritti di cui alla suddetta legge (cancellazione, rettifica, aggiornamento, integrazione). 39 / L’IMPRESA DI COMUNICAZIONE / N. 31 / 08