Principio di Responsabilità Principio di Precauzione

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09/12/2010
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Principio di Responsabilità
Principio di Precauzione
Fondamenti morali o strumenti difensivi?
Raffaella De Franco*
L’
appello alla Responsabilità morale della
professione medica, oggi, è una costante, anzi, la chiave di volta del dibattito pubblico sulla
“buona” o “cattiva” medicina. Ma, effettivamente, di cosa si parla, quando si parla di “responsabilità morale” in medicina? “Responsabilità” è un elemento complesso per senso (generale, specifico...) e per dimensione (etica, giuridica...). In senso generale è il fondamento di un contratto.
Nell’etica tradizionale si può definire la responsabilità come un
vincolo obbligazionario di un soggetto morale nei confronti di
un altro soggetto morale.
Su questa base di senso, generalmente condivisa proprio perché abbastanza generica, possiamo oggi affermare che la responsabilità morale di un comportamento coincide immediatamente e perfettamente con la responsabilità medica?
Personalmente non credo né nella perfetta coincidenza né nella
immediatezza di questa coincidenza che rende omaggio alla
tradizione (e questa è una soluzione di comodo) e non affronta l’estrema complessità della medicina contemporanea.
Nella tradizione, l’elemento critico che identifica la responsabilità è la motivazione dell’agire, è il valore morale che si dà
all’agire nella sua globalità e non solo all’azione compiuta.
È, potrei dire, un valore fondativo, che garantisce l’intenzione
morale di un intero percorso e non si occupa del suo esito perché è già moralmente pre-garantito.
Se applichiamo questo criterio tradizionale in ambito medico
emerge uno scenario che sembrerebbe molto rassicurante ma
che, invece, è contraddittorio:
da un lato il medico (si dice) 1) agisce sempre per il bene
del paziente “in scienza e coscienza” e dunque 2) è moralmente responsabile del suo percorso perchè lo fonda sulla certezza condivisa socialmente e culturalmente del valore “bene”,
dall’altro, però, l’agire del medico (si dice) è 1) un agire circoscritto, 2) al medico si imputa l’azione medica e solo quella
(in altri termini si ritiene il medico responsabile della guarigione o della morte di un paziente).
Con termini più precisi, il medico viene individuato come un
soggetto-agente che determina un’azione eticamente rilevante in un tempo e luogo ben determinati e circoscritti.
Se vogliamo ritenere che la dimensione generale e tradizionale di senso del termine “responsabilità” morale sia sufficiente per descrivere la “responsabilità morale” del medico
non ci resta, allora, che riassumere così:
a) Poiché il modello etico tradizionale generale non prevede
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responsabilità per le conseguenze involontarie di un atto, anche se lesivo, a patto che sia sempre e comunque ben-intenzionato;
b) Poiché nella dimensione medica specifica la buona intenzione è sempre e comunque garantita dal medico stesso (secondo il modello ippocratico fondato sul bene del paziente);
c) L’immediata conseguenza paradossale è che: il medico è
responsabile del suo agire ma non delle sue azioni.
Con buona dose di ironia potrei dire che se il ragionamento
“non fa una piega” vi sono, oggi, tantissime “pieghe” nell’applicarlo. Le “pieghe” nascono, a mio parere, dal cambiamento del criterio tradizionale e, piaccia o no ai filosofi morali,
dalla sua inadeguatezza.
Se potessi scegliere uno slogan direi che oggi non basta il
“ben volere”, si esige anche il “ben fare”.
Stiamo assistendo ad un cambiamento (integrazione di prospettive, forse...) epocale:
elemento critico della responsabilità morale è non più solo
l’intenzionalità (ben-volere) ma anche il riconoscimento del
valore morale delle conseguenze (ben-fare).
In ambito medico ciò significa che si è passati dalla responsabilità del volere alla responsabilità del sapere e del
saper fare.
Che cosa intendiamo per “sapere”, in questo contesto?
Non solo ricognizione della situazione contingente (agire circoscritto, azione circoscritta fondata sulla volontà di fare il
bene del paziente, quel bene che il medico ritiene essere
tale) ma anche appropriazione, presa in carico morale dell’orizzonte delle conseguenze morali, dilatate nel tempo e nello
spazio, dell’agire terapeutico.
La responsabilità di costruire, gestire, farsi carico delle conseguenze dell’agire pone il medico in una prospettiva nuova
e ben più complessa, insicura e drammatica rispetto alla tradizione ippocratica: questa è la sfida, ancora più affascinante e rischiosa di tutte le sfide (e sono tante) che la medicina
oggi pone a se stessa e alla comunità morale cui appartiene.
In questo nuovo contesto di responsabilità fondativa, strutturale dall’inizio alla fine (quale che sia!) della relazione terapeutica, il “sapere” deve essere consapevole delle motivazioni etiche dell’agire ma deve essere anche coerente con l’eticità delle conseguenze (certe o incerte che possano essere)
dell’azione.
La responsabilità, intesa così, può generare nel medico diffidenza e timore nei confronti delle scelte terapeutiche, generando il bisogno di strumenti di difesa molto articolati e com-
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plessi? Certamente, per una serie di obblighi molto articolati
e complessi:
 Obbliga ad essere e sentirsi responsabili
 Obbliga ad essere capaci di esercitare la responsabilità
 Obbliga ad essere messi in condizione di essere responsabili.
Come in una dimensione etica generale si è “responsabili di”
e “responsabili per” un altro soggetto morale, così nella dimensione etico-medica si è “responsabili di” e “responsabili
per” il paziente perché 1) l’agire medico è un agire morale 2)
fondato sul principio di Responsabilità del sapere e del saper
fare. È un peso enorme che genera paura di sbagliare e suscita difese per le quali potremmo dire, citando un detto anglosassone: Better safe than sorry, oppure: “Si deve prestare
più ascolto alla profezia di sventura che non a quella di salvezza”, o ancora:“Sappiamo molto meglio ciò che non vogliamo che ciò che vogliamo”.
Uno strumento di difesa, nato dall’ampliamento della responsabilità del sapere e saper fare, è il cosiddetto Principio di
Precauzione (che qui riassumo così: “Nel dubbio astieniti!”).
Nasce dalla consapevolezza di un “sapere” colto come insufficiente rispetto al rischio di una scelta, dalla paura dell’errore e delle conseguenze dell’errore, ha fondamenti etico-politici, rispecchia la necessità di affiancare alla gestione di un
“rischio certo” la prevenzione di un “rischio incerto”.
Di quale “incertezza” stiamo parlando in questo contesto?
Sembra ovvio che facciamo riferimento all’incertezza delle
caratteristiche e cause di un danno dovuto all’incertezza
scientifica di un’azione da compiere. Sembra ovvio, ma non
lo è affatto. Anzi, è un riferimento illogico. Sarebbe ovvio se,
e solo se, si avesse una visione certa del danno. Ma questa
certezza si potrebbe avere solo dopo che il danno è stato causato. E allora come uscire dall’ovvietà e, se possibile, dalla
paura di correre un rischio? Uscire dalla trappola dell’ovvio è
un bisogno irrinunciabile perché la medicina ed il medico, da
sempre, fronteggiano l’incertezza, la “fatica del dubbio della
scelta”, ancora più gravosa perché il medico non sceglie per
sé ma per un altro, il paziente, e, cosa ancora più significativa, “non può non scegliere”, non può astenersi, deve affrontare “il dubbio”.
Una possibile soluzione, forse, è riconoscere che il rischio è
una scelta morale irrinunciabile, chiederci se e quanto si può
controllare il rischio, renderci conto che possiamo essere
informati del rischio (che sia io medico o paziente) e delle sue
probabilità, in modo inadeguato o parziale, e, tuttavia, essere consapevoli che, talora, solo rischiando si può ottenere un
vantaggio.
In medicina il rischio clinico, certo o incerto che sia, non è
definitivamente eliminabile perché è parte costitutiva di qualsiasi scelta terapeutica.
Può essere, però, ridotto con una politica scientifica ed organizzativa che lo pre-veda.
Prevenzione è altro da Precauzione e va ben oltre la pura e
semplice difesa precauzionale perchè se è vero che in ambedue i principi ci si fonda sul grado di incertezza del calcolo
probabilistico del rischio vi è una differenza radicale: si previene il “rischio certo”, ci si “cautela” nel “rischio incerto”.
Il principio di Precauzione non si applica a rischi già identificati (in tal caso parleremmo di Prevenzione), ma a rischi ipotetici o basati su indizi di cui non si ha ancora conoscenza
piena o parziale che sia. (Dichiarazione di Wingspread, (28-
06-1991) “Quando un’attività crea possibilità di fare male alla
salute umana o all’ambiente, misure precauzionali dovrebbero essere prese anche se alcune relazioni di causa-effetto non
sono stabilite dalla scienza.”)
Il principio di Prevenzione si pone, invece, come obiettivo la
limitazione di rischi oggettivi e provati. Tuttavia, per poter
essere applicato su larga scala ed essere sempre più valido
ed efficace, paradossalmente, bisogna pure che la medicina
provi ed oggettivi i rischi, assumendosene pienamente la responsabilità, dunque, bisogna che la medicina non applichi
difensivisticamente il principio di Precauzione.
Elementi-chiave del processo di responsabilità consapevole
che va oltre la precauzione difensiva potrebbero essere: l’identificazione dei potenziali rischi, la valutazione scientifica
realizzata in modo rigoroso e completo sulla base di tutti i
dati esistenti, la presa d’atto della mancanza di una certezza
scientifica che permetta di escludere ragionevolmente la presenza dei rischi identificati.
Il principio di precauzione, inteso, come comunemente si intende, come uno strumento di difesa dal rischio dell’errore,
non serve ed è letale per la medicina perché non si basa sulla
disponibilità di dati che provino la presenza di un rischio, ma
sull’assenza di dati che assicurino il contrario. Genera, inoltre, il gravissimo problema di identificare con chiarezza la
quantità di dati necessaria a dimostrare l’assenza di rischio,
soprattutto alla luce dell’impossibilità della scienza di dare
certezze ultimative e definitive.
L’applicazione indiscriminata del principio di precauzione finisce per bloccare la ricerca scientifica e la
libertà della relazione terapeutica, più che preservare
la salute dei cittadini
Quando il principio è stato inserito a livello legislativo, è stato
strutturalmente modificato tenendo conto della necessità economica di un’analisi costi-benefici, che, se è una “voce” che
deve essere ascoltata, non è una “voce” che può mettere a
tacere la libertà e la responsabilità del medico di scegliere di
agire. In sintesi, non è un metodo di ricerca né un principio
scientifico, e neppure una efficace difesa dal rischio, bensì
uno strumento politico di gestione del rischio
Tutto questo basta a chiarire i termini ed i confini del rischio,
inteso come possibile/probabile errore per incertezza delle
conseguenze di un atto in una relazione terapeutica?
Tutto questo basta a rigettare il Principio Responsabilità che,
invece, si fonda anche sulla presa in carico morale del percorso della cura, compresa l’assunzione di rischio delle conseguenze?
Forse sì dal punto di vista meramente difensivo.
Sicuramente no dal punto di vista strutturale della medicina
che, mi si permetta di ricordarlo a tutti noi, ricercando da
sempre il bene della salute, è la più “morale” delle scienze
dell’uomo.
*Ordinario di Bioetica e di Etica della Medicina e della Biologia Dipartimento Scienze Filosofiche Università “Aldo Moro” Bari.
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