Cumerlato Vittorio Riflessioni sul testo: “L’uomo nel campo della responsabilità”. L’incompiuto del Wojtyła. [L’articolo è una riflessione sul valore metodologico del testo incompiuto di Karol Wojtyła: L’uomo nel campo della responsabilità. Il testo, infatti, ci abilita a indagare sulla modalità di procedimento euristico del tutto personale dell’Autore. In particolare: l’essenziale dimensione pratica dell’etica, la normatività della coscienza di fronte all’imperativo del dovere morale, il nesso intimo che lega la moralità con la felicità intesa tomisticamente come perfezione dell’ente. Nell’agire morale, dunque, il soggetto si trova tra l’oggettività della verità espressa nella norma e l’imperatività della coscienza relativa al bene conosciuto. This article is a reflection on the methodological value of the unfinished text of Karol Wojtyla: The man in the field of responsibility. The text, in fact, enables us to investigate the author's very personal heuristics method. In particular: the essential, practical dimension of ethics; the normativity of conscience in the face of moral duty, the intimate connection that links morality with happiness as perfection of entity (ens), as Thomas thought. In the moral act, then, the subject is between the objectivity of truth expressed in the law and the imperative of conscience on the well known]. Il testo L’uomo nel campo della responsabilità1 (ultimo in ordine di tempo tra i lavori di indole accademica) rappresenta a mio avviso il tentativo di sintesi più completo del pensiero del Wojtyła in merito all’uomo, soprattutto sul versante dell’esperienza morale. Esso è frutto di una lunga elaborazione personale e della assidua collaborazione con i suoi più stretti assistenti universitari. Mai portato a termine – probabilmente per ragioni di incompatibilità con i suoi numerosi impegni pastorali – il testo racchiude in sé tutto il fascino dell’incompiuto. In esso emerge l’essenzialità di un progetto dal quale è indubbiamente più facile scovare la struttura originaria del pensiero non ancora limato, nonché gli interessi più immediati dello scrittore, evidenziati da lunghe parentesi digressive ed annotazioni. Il lavoro, in elaborazione nella metà degli anni settanta, è stato pubblicato soltanto nel 1991 da Tadeus Styczeń e Andrzej Szoztek, dirigenti dell’Istituto “Giovanni Paolo” II presso l’Università Cattolica di Lublino, suoi diretti collaboratori negli ultimi anni di insegnamento. In questa opera si può constatare il meglio – in termini di chiarezza di idee – del maestro in dialogo con i suoi discepoli nella formazione di un’opera, nonché la sintesi della sua speculazione filosofica nello specifico della ricerca etica. Per queste ragioni, l’incompiuto è a mio parere il ponte di collegamento più immediato (non solo per ragioni cronologiche, ma soprattutto contenutistiche) tra il Wojtyła filosofo e le opere del pontificato – 1 Cf. Karol Wojtyła, Metafisica della persona. Tutte le opere filosofiche e saggi integrativi, G. Reale – T. Styczen (edd.), Bompiani, Milano 2003, 1217-1301. In seguito, l’opera sarà citata con l’abbreviazione WF. L’analisi del testo è difficoltosa e necessariamente probabilistica. Trattandosi di un testo incompiuto, esso si presenta come la compilazione di riflessioni più o meno sparse, raggruppate secondo un interesse tematico. È, insomma, una compilazione di appunti. La mia riflessione – rimaneggiamento di un testo elaborato per il dottorato di ricerca sugli scritti del Wojtyła – cercherà di trarre dallo scritto gli elementi essenziali per la comprensione dell’intento e del procedimento della riflessione dell’Autore, facendo affidamento anche a quanto già appreso del suo pensiero tramite la lettura e l’analisi di altre opere. Nell’analisi del testo cercherò di soffermarmi sulla sua struttura evolutiva (sul modo in cui l’Autore costruisce gli argomenti), evidenziando elementi di continuità e novità rispetto ad altre sue produzioni scientifiche. Non è mio intento, allora, fare una sintesi del testo, ma una sua rielaborazione in chiave speculativa, con il proposito, in diversa occasione, di indagare non solo i contenuti ma anche le fonti dell’Autore. In continuità con il metodo dialettico-precedurale con il quale sono solito affrontare la lettura di un testo, l’esamina dell’opera incompiuta tenterà più facilmente ad andare ‘oltre’ il testo, aprendo spunti di sviluppo e applicazioni particolari. L’intento, allora, non è di analizzare i contenuti particolari (tutti presenti nella loro essenzialità anche in altre opere), ma – attraverso l’ascolto degli ipotetici interlocutori (dal punto di vista intellettuale ed argomentativo, i termini di confronto possono ridursi sempre a Max Scheler e Immanuel Kant, mentre sul versante ideologico sembra che l’interlocutore sia una visione materialistica dell’uomo che tende a privilegiare l’utile all’onesto) di scendere nel cuore della struttura argomentativa, nella modalità procedurale del Wojtyła. 1 mi riferisco in maniera particolare alle catechesi sull’amore umano, pronunciate tra il 1979 e il 1984 – di modo che si possa più agevolmente tracciare una linea di continuità tra il docente di Lublino e il vescovo di Roma. L’analisi del testo non è una riflessione facile: vuoi per l’incompiutezza del testo, vuoi per la gravosità dei contenuti. Per chi non è addentro alla terminologia wojtyłiana, potrebbe risultare addirittura ostile. L’esposizione dovrà quindi essere lenta, rigorosa, sottintendendo necessariamente – per motivi di brevità – notevoli presupposti filosofici, relativi alle opere precedenti del Wojtyła. Il contributo è suddiviso in tre parti: una prima parte, arida e sintetica, ha lo scopo di richiamare alcuni concetti basilari del testo dell’Autore; la seconda, più discorsiva, è una elaborazione degli stessi; la terza, infine, è una riflessione complessiva sul testo. Nonostante le difficoltà, ritengo che una analisi accurata di questo genere sia comunque proponibile, soprattutto in ragione dell’urgenza con cui la domanda etica si impone costantemente. 1. Il posto specifico dell’etica tra le discipline umane Sembra che cuore dello scritto sia l’interesse per una collocazione particolare dell’etica tra le discipline umane, in particolar modo quelle filosofiche. Non è chiaro, oltre a questo veloce riferimento, l’intento principale dell’Autore. È evidente, però, che il Wojtyła pone la sua ricerca sul versante di una riflessione filosofica fondamentale sul problema etico e non su casi o circostanze particolari. Si tratta, quindi, del progetto di un testo sull’etica fondamentale. Il ruolo della filosofia etica non poggia per il Wojtyła sul tipo di argomentazione che si va ad affrontare, ma sulla sua peculiarità metodologica dell’indagine. Secondo l’Autore, infatti, l’etica (intesa come riflessione sull’uomo nel suo agire) è essenzialmente una disciplina pratica, finalizzata alla scritturazione di una sorta di grammatica dell’agire umano2. ‘Che cosa devo fare? Qual è il bene e il male per me in questa circostanza?’. Sono queste le domande concrete a cui una riflessione fondamentale sull’etica deve rispondere. Più che normare, quindi, essa deve scoprire – nell’analisi degli atti morali – le ragioni fondamentali che spingono l’uomo alla scelta di un bene particolare ed evidenziare in questo modo la struttura portante dell’agire morale. In questo scritto – inoltre – emerge in una maniera oltremodo palese la volontà da parte dell’Autore di coniugare l’etica come autoteleologia (di matrice aristotelico-tomista) e l’etica come dovere (con chiaro riferimento al sistema kantiano). Qui si può trovare il cuore della questione: l’etica è uno tra i tanti aspetti del problema uomo, o il punto di svolta di qualsiasi riflessione antropologica? Rispetto all’antropologia filosofica, essa vanta una posizione di anteriorità in virtù della sua praticità, cioè della sua scaturigine esperienziale. Nel testo si evidenzia, in questo modo, anche la necessità di distinguere metodologicamente l’etica dall’antropologia filosofica. Il punto di incontro tra le due si trova, per il Wojtyła, nell’esperienza morale attraverso il compimento dell’atto. Dall’atto, infatti, l’uomo percepisce l’esigenza di umanità che egli deve scegliere per costituirsi come persona. Da questa, la riflessione sistematica sul significato dell’essere uomo. La separazione metodologica, allora, non fa che confermare che se esistenzialmente ed ontologicamente le due discipline sono unite (sia in ragione 2 Cf. WF, 1289. L’Autore afferma: “L’etica come scienza non ha lo scopo di creare le norma della moralità. Si può dire che è simile alla grammatica, la quale non ha lo scopo di creare le regole della lingua. La grammatica legge queste regole nella lingua parlata, osserva i fatti in questo campo e definisce le regole che si trovano nella lingua stessa, che vi sono insite in qualche modo ‘per natura’. Così la grammatica acquisisce le caratteristiche della scienza normativa: fa venire alla luce le regole che governano la lingua parlata ed esige poi che esse vengano rispettate”. È chiarissimo il fondamento tomista di questa citazione: la posizione del Wojtyła, infatti, ricalca il realismo epistemologico dell’Aquinate. 2 dell’unità del soggetto che dell’unità dello scopo), sul versante della ricerca esse devono seguire piste diverse. 1.1 Il metodo del Wojtyła Il modo di ‘fare filosofia’ del Wojtyła è ancora quello dettato dai suoi studi antecedenti e dalla formazione accademica di matrice neoscolastica, nonché da una sorta di connaturalità con l’osservazione fenomenologica. Difendere il come le due prospettive possano andare assieme, sarà un argomento di ulteriori approfondimenti. Il risultato, comunque, è positivo. Si tratta di una certa sensibilità al fenomeno (non parlo rigorosamente di metodo fenomenologico perché la ricerca wojtyłiana giunge a considerazioni che di certo non competono all’osservazione fenomenologica), con una evidente apertura alla metafisica. Quest’ultima non viene costruita come raffinata astrazione dalla fenomenologia, ma assume i tratti di un suo naturale compimento. Il concetto di trans-fenomenicità, al quale il Wojtyła dedicò un densissimo articolo, ritorna ancora con maggiore chiarezza e vigore. In continuità con le opere precedenti, il metodo fondamentale è: “il metodo di quella particolare riduzione grazie alla quale constatiamo – soprattutto intuitivamente – in quale misura si realizzi, in una data norma di comportamento (prescrizione, divieto ecc.), il principio dell’essere come buono e dell’agire bene (o non essere cattivo e non agire male)”3. 1.2 La normatività della coscienza Prende sempre più corpo, nel corso dell’esposizione degli argomenti nella bozza del testo in esame, l’approfondimento della tematica della coscienza, come l’Autore stesso fece per esteso nel testo Persona e atto, e che culminerà in alcuni spunti della lettera enciclica Veritatis splendor. La forza della coscienza non poggia sulla autorità di un comando altrui, né tanto meno da una sorta di azione imperativa del soggetto su se stesso. Essa ha le sue radici nell’atto della conoscenza in cui l’autonomia del giudizio morale e la trascendenza dei valori convergono e si condizionano a vicenda nella dinamica interiore propria della coscienza. La conoscenza assume, in questo modo, un ruolo sempre più fondamentale nella formazione del sentire interiore, il cui vissuto è testimoniato dalla coscienza. La verità, quindi, non si manifesta in maniera astratta, ma viene vissuta nella coscienza dal soggetto nella medianicità propria di un testimone, non di un ascoltatore occasionale. Se la verità non è conosciuta, non diviene normativa; ma se è conosciuta, la normatività passa all’evidenza di ragione che la coscienza registra, non certo per via di condizionamenti o di forzature estrinseche. È, questo, il potere normativo della verità e, di conseguenza, il dovere normativo della testimonianza. In questo modo il dovere è vissuto come libera risposta alla verità oggettiva, alla verità delle cose stesse. 1.3 La felicità come auto-teleologia Nell’introduzione al testo edito in Metafisica della persona, Alfred Wierzbicki riprende i contenuti essenziali del manoscritto sottolineando un ulteriore aspetto della posizione wojtyłiana, in dialogo con la posizione emozionalistico/eudaimonistica scheleriana e con l’anti-eudaimonismo proprio della posizione kantiana. Se la verità determina la mia coscienza chiedendomi di aderirvi, la felicità dell’uomo come soggetto morale deve porsi nell’atto del compiersi stesso dell’uomo, attraverso l’attualizzazione del bene compiuto, ovvero nella sua naturale struttura auto-teleologica. Il Wierzbicki annota: “Il personalismo wojtyłiano è un personalismo oggettivo […]. Rifiuta l’eudaimonismo come il modo di giustificazione della norma della moralità, ma dall’altra parte accetta il concetto della felicità collegandolo con il nesso che esiste tra l’auto-compimento della persona e l’oggettiva struttura della 3 WF, 1289-1290. 3 persona”4. In questo modo, la felicità dell’uomo non è il fine dell’atto morale, ma si pone (conformemente allo schema di riflessione sul concetto di bene a partire dalla speculazione classica che verteva sull’analisi dell’honestum, utile, delectabile) come conseguenza e/o compimento di un atto buono. 2. Aspetti essenziali della riflessione del Wojtyła Al termine del percorso accademico del Wojtyła, il testo incompiuto L’uomo nel campo della responsabilità sintetizza la struttura del pensiero antropologico dell’Autore in ambito morale, nonostante presenti (per la sua brevità, incompiutezza e consequenziale approssimazione) non poche difficoltà di comprensione. 2.1 La centralità del dovere Cuore dell’argomentazione è l’esperienza morale dell’uomo, vissuta per mezzo dell’esperienza del dovere. Per il Wojtyła, infatti, il punto fondamentale di ogni esperienza etica è il dovere morale. Prima di essere oggetto di una riflessione filosofica che possa motivare un determinato agire in conformità con un principio di bene razionale e non più esperienziale (quale può essere, per esempio, la norma personalistica), il dramma morale dell’uomo si dinamizza nella scelta di un bene che si pone innanzi e nel rifiuto del male5. Contrariamente alle conclusioni della filosofia scheleriana che partiva dal presupposto ideologico secondo cui solamente l’intuizione emozionale poteva essere il movente dell’esperienza morale e non certamente il dovere, e alla posizione kantiana che considerava il dovere nella pura evidenza logica di ragione al di qua dell’esperienza morale (in Kant non si dà l’esperienza della moralità di un atto, bensì quella dell’imperativo etico che precede non tanto l’atto in sé, quanto l’intero agire dell’uomo), il Wojtyła ferma la sua attenzione su un dato di fatto dell’agire morale: l’esperienza della moralità risiede solo nel dovere6. Non interessa quale sia il dovere, o quale sia la fondatezza del dovere stesso; non interessa neppure a quale orizzonte assiologico faccia riferimento. Basta solo l’esperienza vissuta di un bene soggettivo (io compio un bene per me) legato ad una norma oggettiva che indica di quale bene si tratti, perché quando l’uomo è posto di fronte al dovere o al non dover agire, nasce in lui la necessità di scegliere se essere buono (relativamente al valore proposto) o meno. Il dovere, infatti, “nasce sempre in uno stretto legame con la realtà ontica della persona, che è più profonda di esso: ‘l’essere buono o cattivo’”7. Nel dovere l’uomo prende parte al soggettivo essere buono (conforme ad un bene riconosciuto nell’imperativo morale) o all’essere cattivo (il rifiuto di quel bene conosciuto e sperimentato, evidenziato dall’imperativo medesimo)8. La praticità (la pragmaticità nei termini di coinvolgimento 4 WF, 1227. “Il dovere – recita l’Autore – nasce ‘a motivo’ del bene e del male: è ogni volta una particolare attualizzazione spirituale della potenzialità della persona nell’atto”, in: WF, 1242. In questo passo è esplicitato chiaramente quello che potremmo chiamare l’attualismo del Wojtyła. In osservanza alla gnoseologia tomista, secondo la quale l’intelletto consegue la verità nell’adeguamento all’oggetto, la morale wojtyłiana è sempre in contesto, senza per questo negare la possibilità di valori assoluti. Per l’argomento, è utile la lettura dei testi: Valutazioni sulla possibilità di costruire l’etica cristiana sulle basi del sistema di Max Scheler, in: WF, 249-449; Amore e responsabilità. Morale sessuale e vita interpersonale, in: Id., 451-777. 6 Cf. WF, 1233-1234: “Il momento proprio della moralità è contenuto nell’esperienza del dovere […]. Il dovere, l’esperienza del dovere è contenuta in un certo senso nell’operatività e nella sua esperienza”. 7 WF, 1241. In seguito, il Wojtyła chiarisce: “L’aspetto dell’esperienza vissuta del dovere […] è organicamente radicata in tutta la realtà dell’essere e del divenire buono o cattivo mediante l’atto. Non si tratta di un dovere oggettivato ma dell’esperienza vissuta del dovere come un chiaro fatto soggettivo”, in: WF, 1247. 8 L’Autore sostiene: “La comprensione originaria della morale come realtà data nell’esperienza è la comprensione del dovere. Il dovere in sé è dato nell’esperienza interiore e si rende visibile come un fatto o fenomeno chiaro, come un 5 4 interiore che determina una sorta di discernimento, di crisi, di un processo di decisione) della riflessione etica vuol sottolineare proprio il fatto che l’esperienza del valore non proviene da una riflessione assiologia previa (io rifletto su ciò che è bene, quindi lo compio), cui segue una normativa morale come frutto di elaborazione personale. Essa nasce dalla esperienza concreta dell’essere posti nella condizione di dover decidere. Il dovere, allora, sentito soggettivamente e legato alla propria autodeterminazione nei termini di conformità o rifiuto di un valore che si pone nel suo essere in potenza, fa in modo che una esperienza diventi morale. Nell’atto da compiersi l’uomo non decide su una cosa, né su un valore particolare che non potrebbe dipendere dall’approvazione dell’individuo. Nell’esperienza morale, infatti, l’uomo decide di se stesso. Per questa ragione, l’esperienza morale centrata sul dovere non può essere frutto di sperimentazione alcuna, né può essere analizzata se non a partire da o nell’atto compiuto. 2.2 Negazione dell’utilitarismo Contrariamente all’esperienza morale fondata sul dovere, l’utilitarismo propone la libera sperimentazione di qualsiasi possibilità, lasciando al singolo non solo l’esperienza morale, ma anche il discernimento libero del bene in ragione di un utile soggettivo. Per il Wojtyła, invece, “l’esperienza della moralità deve essere accolta, non la si può creare”; in ambito etico, infatti, “l’esperimento, nel senso in cui esso è alla base delle altre scienze, è escluso”9. L’utilitarismo, dunque, non può assolutamente aprire l’atto umano alla dimensione di per sé trascendente della moralità perché nell’utilitarismo l’uomo, agendo, non sceglie di determinare se stesso! Nell’utilizzo delle esperienze, infatti, non si dà per l’Autore moralità alcuna. Nell’atto morale, invece, si presenta al soggetto l’esigenza di fatto di inserire la sua azione in un orizzonte di verità o menzogna la quale non fa parte della materialità dell’atto, ma, procedendo dall’atto, apre ad una considerazione metafisica. L’agire morale non è, quindi, sperimentale nel senso che l’uomo può liberamente far esperienza d’essere buono o cattivo secondo un giudizio soggettivo, ma è l’esperienza del dovere in se stesso che si propone come ‘specchio’ dell’uomo, immagine di ciò che egli decide di essere. In questo modo, il dovere è realmente la porta della verità morale, senza la quale non si ha esperienza etica. La differenza essenziale tra il personalismo wojtyłiano e qualsiasi forma di materialismo dialettico (o utilitarismo10 pratico, più che ideologico) risiede proprio nel fatto che nell’esperienza del dovere non è lecito all’uomo ‘inventare’ la verità di quanto ha conosciuto, perché è la verità che apre al senso dell’atto, non l’uomo che impone un senso a quanto compie. È, insomma, la verità a ‘conoscere’ l’uomo e a far in modo che egli si ri-conosca in essa, non il contrario. Si stabilisce in questo modo nesso imprescindibile tra la dimensione etica dell’agire e la verità ontologica dell’agente. 2.3 Il fondamento del dovere Ora, che tipo di legame crea con l’ontologia la scelta di un bene morale? In altri termini, si tratta di una morale che proviene dall’essere (secondo lo schema deduzionistico della filosofia scolastica) o di una fatto che è ‘nella persona’”, in: WF, 1241. Quanto al legame del dovere con l’aspetto metafisico dell’essere buono/cattivo, l’Autore afferma: “L’aspetto metafisico è insito in tutta l’esperienza della moralità, che è l’esperienza dell’essere e del divenire buono o cattivo mediante questo o quell’atto”, in: WF, 1246. 9 WF, 1236. 10 Cf. WF, 1265: “L’utilitarismo moderno implica il disfacimento totale di questo modo di vedere e ciò non soltanto nella sfera dell’assiologia ma ancora più in profondità […]. Infatti, nell’ottica dell’utilitarismo, l’uomo si manifesta soprattutto come soggetto che sperimenta e non come persona con una propria struttura di auto-possesso e di autodominio […]. La cosa fondamentale per l’uomo è sperimentare il piacere o il dispiacere ed è soprattutto questo sperimentare il motore di tutta l’attività del soggetto”. 5 morale legata al riconoscimento del valore11 (secondo il metodo fenomenologico)? Nel pensiero del Wojtyła, il dovere è legato uniformemente e senza forzatura sia all’ontologia12 che all’assiologia fenomenologica. Ciò che io devo per ragioni di ontologia, insomma, è un bene reale (cioè oggettivamente vero) per il mio bene soggettivo. La verità che si pone imperativamente nell’esperienza del dovere non ha, tuttavia, inizialmente la forma di un principio morale, né quella di una verità metafisica. Essa, infatti, si propone come verità dell’uomo nell’atto, dell’io nel concreto compimento di sé. A partire da questa evidenza, qualsiasi riflessione sulla bontà dell’atto in sé (sul valore che l’atto evidenzia) e sulla verità dell’uomo che lo compie (la dimensione antropologicometafisica dell’agente) svolge il suo corso in un fitto intreccio, ma senza legami di dipendenza. Non è, allora, né l’assiologia, tanto meno la metafisica a godere del primato, ma l’uomo che agisce: nell’atto si apre la possibilità dell’integrazione dell’una e dell’altra. Rimane fermo, nel pensiero del Wojtyła, il principio dello stato di fatto: con l’atto buono l’uomo compie una riduzione metafisica del suo agire (auto-trascendenza) in ragione del fatto che egli stesso diventa buono13 nel compierlo. Ontologia, assiologia e teleologia si pongono in questo modo in un nuovo rapporto: con il superamento dell’apriorismo non teleologico kantiano e della negazione della teleologia scheleriana, il Wojtyła scopre l’essenza della moralità nell’esperienza soggettiva del dovere che dischiude un orizzonte sia alla metafisica che all’assiologia, e concede al soggetto di autodeterminarsi (la dimensione teleologica dell’atto). Il dovere predispone così ad un ampliamento notevole di conoscenza che la coscienza non può eludere e lega, in questo modo, l’atto alla qualità dell’agente gettando un ponte tra l’etica e l’ontologia. 2.4 Oggettività del dovere e della verità Il pensiero dell’Autore – attraverso una notevole valutazione della esperienza concreta della moralità – sembrerebbe cedere ad una posizione di soggettivismo etico, se non altro per il fatto che il soggetto agente sembra porsi nei confronti dell’atto non solo come attore della decisione, ma anche come ‘gestore’ del senso. Parrebbe – in altri termini – che l’assolutizzazione della coscienza nell’atto morale dovesse corrispondere alla assolutizzazione del bene del soggetto agente, e non di un bene in sé che il soggetto scopre nella propria vicenda morale. La dimensione metafisica dell’assiologia (ovvero il fatto che dei valori si possa parlare per quello che sono al di là del modo in cui sono stati vissuti nello specifico dal soggetto agente) si limiterebbe così anche ad una metafisica del soggetto. Nonostante i pericoli avvertiti, i fatti non stanno così. Alla domanda ‘Cos’è il bene?’14, l’Autore risponderebbe che il bene è contenuto nell’oggetto intenzionale del dovere (ovvero nel valore cui la norma del dovere tende). Il riferimento ad un bene oggettivo, infatti, è strenuamente difeso e proposto, nonostante non 11 Cf. WF, 1244: “La controversia fondamentale rimane: l’interpretazione della morale deve avvenire attraverso l’essere o attraverso la morale”. Il testo esplicita una domanda, nonostante non ci siano segni di interpunzione particolari. Il tenore del testo conduce, infatti, ad una interpretazione interrogativa dell’affermazione. Il conflitto tra la posizione deduttivistica di una certa impostazione scolastica e la sensibilità fenomenologica assunta dalla lettura di Scheler. 12 Cf. WF, 1241. Il Wojtyła sostiene: “La comprensione del dovere non è altro che la definizione del suo vero significato, e questo significato non può essere definito al di fuori del legame reale fra il dovere e il soggetto o persona”. Anche in questo caso, il testo è stilato velocemente e non è di facile comprensione. Il contesto, tuttavia, aiuta ad una corretta ermeneutica. 13 Cf. WF, 1244. Ancora come appunto, il Wojtyła si chiede ragione della possibilità di legare il dovere morale alla teleologia dell’uomo: “La seconda tematica della controversia sull’interpretazione della morale è il problema della possibilità o dell’impossibilità di legare il dovere morale (e quindi anche il bene ed il male in quanto valori morali) alla teleologia […]. Bisogna aggiungere che il problema deve la sua nascita alla posizione di Kant, il quale esclude in un modo particolare la teleologia della morale”. 14 Cf. WF, 1253ss. 6 venga esplicitato se non per mezzo e attraverso la norma personalistica15. In questo modo, se l’esperienza morale ha luogo solamente attraverso il dovere, ecco che il dovere non può generare solamente una verità soggettivamente sentita (in questo caso non si potrebbe neppure parlare di dovere, ma di opportunità o di sentire interiore), ma la verità dell’esperienza morale stessa (che il Wojtyła chiama norma personalistica), la quale attraverso quel particolare imperativo morale prende volto. Nel dovere che si impone l’uomo sperimenta che la natura oggettiva del bene (e quindi la sua stessa verità di uomo) gli viene proposta nel momento specifico dell’agire: non semplicemente come possibilità di scelta particolare, bensì come potenzialità di autorealizzazione. 2.5 L’etica come filosofia pratica In questo senso, quella del Wojtyła è una filosofia essenzialmente pratica16, concreta: non sul versante utilitaristico (una praticità soggettiva), ma su quello oggettivistico (dall’esperienza pratica si giunge alla verità oggettiva di quel particolare bene, del bene in sé e quindi della struttura oggettiva dell’esperienza morale). L’oggettività, in questo modo (come anche la verità), si pone più sul piano della struttura dell’esperienza morale che su quello dei contenuti! La norma morale (la quale di per sé è oggettivazione del bene nell’atto concreto) si pone ora come pieno compimento di me perché non allude più ad un bene particolare, ma nell’atto dice per me (limitatamente alla mia esperienza) e non di me (ovvero non esclusivamente per me, come vorrebbe qualsiasi posizione utilitaristica) il bene oggettivo. Il pericolo del soggettivismo sarebbe possibile solo se all’esperienza concreta succedesse anche un bene soggettivo concreto. Tuttavia, dal momento in cui l’esperienza del dovere mi pone di fronte alla natura oggettiva del bene attraverso quel particolare bene di cui il soggetto sta facendo esperienza attraverso il dovere, il soggettivismo viene superato. In questo modo, l’etica (nonostante evidenzi il suo profondo legame con l’ontologia a motivo dell’oggettività del bene) non è più prodotto di un processo logico di sinderesi da una metafisica (deduzione da rigorosi principi logici astratti), ma è sineidesis (visione di insieme di una situazione, epopea – lo sguardo dall’alto, cioè dal di dentro, come direbbe il Wojtyła - della coscienza), ovvero giudizio concreto della coscienza soggettiva17 su di un atto specifico da compiere o da evitare. È così che tutte le norme che regolano il vivere sociale (le norme tecniche, etiche, di adattamento o giuridiche) e a maggior ragione le norme morali (le quali più vistosamente racchiudono in sé la possibilità di una riduzione metafisica nell’agente) si rivelano al contempo convenzionali (legate ad una situazione concreta, quindi soggettive) e analogiche18 di un valore oggettivo (cioè legate alla verità del bene e, quindi, dell’uomo che le compie). Per quanto concerne la dimensione della moralità, 15 L’Autore è molto preciso in merito: “Da un punto di vista generale è infatti moralmente buono ciò che è conforme alla norma della moralità ed è moralmente cattivo ciò che è contrario ad essa [...]. Quindi […] non è possibile alcuna costatazione del bene, del male o del valore morale senza un riferimento all’ordine normativo, senza entrare in questo ordine. Tale opinione è confortata sia dall’esperienza della moralità che dal fatto che il momento centrale di questa esperienza è proprio il dovere – e il dovere rende sempre presente una norma”, in: WF, 1255. 16 Cf. WF, 1278: “La subordinazione della pratica alla normatività doveva implicare non tanto la negazione, come in Kant, ma il trasferimento su un altro piano di tutta la struttura teleologica, che prima era dominante. La dominante della teleologia è pienamente comprensibile, se si parte dalla premessa che l’etica è soprattutto una filosofia pratica e che la praxis, l’agire si svolge in relazione ad un fine”. 17 Cf. WF, 1270. Il Wojtyła afferma: “La verità sul bene assume la forma di un giudizio concretizzato, che in un certo senso sta al di sopra di tutto il dinamismo dell’azione-tensione ma in un altro senso lo penetra in profondità, influenzandone pienamente l’orientamento”. 18 Cf. WF, 1255ss. Il concetto di analogia al vero è molto interessante. Al termine di una lunga riflessione, l’Autore conclude: “Tutto ciò è sufficiente per affermare che il mondo delle norme, fra le quali prende forma tutto l’agire umano, possiede un carattere analogico, come è analogico anche il carattere dei doveri che vi corrispondono”. Analogia dell’ente all’essere, chiaramente. Il bene, infatti, è nella teologia tomista uno dei trascendentali dell’essere. 7 l’analogia è in particolar modo evidente perché orientata alla dignità dell’uomo come fondamento della norma personalistica19. 3. La dinamica euristica del Wojtyła Il pensiero fin qui espresso non si concede facilmente ad una riduzione concettuale, ma risulta più agevole alla comprensione se affrontato nella sua dinamica euristica. Ciò che interessa nel percorso filosofico del Wojtyła non sono le conclusioni ma il procedimento di ricerca e di analisi. Ed è quello che, tutto sommato, interessa anche me al fine di evidenziare l’utilità di questo testo come ponte di lancio per una corretta interpretazione della struttura ermeneutica degli scritti precedenti e successivi (in particolare delle Catechesi sull’amore umano e delle encicliche Fides et ratio e Veritatis splendor). Per questa ragione, ritengo che non crei imbarazzo il fatto che la posizione dell’Autore sembri divagare liberamente tra una sorta di empirismo e un rigoroso razionalismo aprioristico20. L’empirismo è dovuto al fatto che non si dà moralità se non nell’esperienza concreta (materiale, come sosteneva Scheler). Non c’è altro modo per analizzare il problema morale se non raccogliendo gli elementi dell’esperienza dell’uomo che agisce nei confronti di un valore ri-conosciuto nel dovere. È empirismo, quindi, perché non prevede una riflessione previa, cioè non costruisce un’idea di esperienza o di bene se non dai dati del vissuto. Analogamente, nei confronti dell’esperienza morale l’uomo non si prepara, ma vive il dramma della decisione. Il razionalismo aprioristico risiede, invece, sia nella naturale attitudine dell’uomo al trascendimento (la riduzione eidetica, secondo il metodo fenomenologico) per il fatto che la conoscenza, anche di una verità parziale, è pur sempre un’opera di trascendenza che si pone sul piano trans-fenomenico; sia nella pre-comprensione wojtyłiana in merito ad un palese ottimismo gnoseologico di matrice tomistica, secondo cui l’uomo può conoscere, nel suo bene particolare, anche il bene oggettivo21. Non manca, inoltre, una naturale apertura metafisica dell’uomo stesso nel suo agire: attraverso l’atto, il soggetto inserisce non solo le cose conosciute (le realtà fenomeniche), ma addirittura se stesso in un orizzonte di verità/giustizia o menzogna/errore. Egli decide, in qualche modo, delle sorti del mondo in se stesso. In altri termini, attraverso l’esperienza concreta di un dovere, l’uomo da un lato è posto di fronte alla possibilità di scegliere il suo bene particolare, dall’altro genera la possibilità di scegliere la propria auto-determinazione nell’orizzonte del bene meta-soggettivo. Il procedimento logico che permette all’Autore di arrivare a queste conclusioni è ancora quello della riduzione. A guisa dell’induzione aristotelica, la riduzione cerca di cogliere l’essenza non da principi metafisici, ma dall’esperienza dell’uomo che si apre alla verità ontologica di sé22. I significati permanenti tra esperienze diverse sono in questo modo la pista da percorrere per far parlare il 19 Cf. WF, 1260ss. Il concetto base è quello di ‘dignità dell’uomo’. Su di esso fonda norma della moralità: “La ‘dignità’ dell’uomo come persona è soprattutto una proprietà o una qualità fondamentale, e da questo punto di vista è il ‘valore’ della persona in quanto tale: un valore che spetta all’uomo per il fatto di essere persona ed al quale l’uomo, proprio per questo motivo, deve dipendere […]. La tensione alla dignità […] propria dell’uomo in quanto persona, è un dinamismo potente e fondamentale, la cui forza è dimostrata da tutta l’intensità dell’esperienza vissuta del bene e del male e soprattutto di quest’ultimo”, in: WF, 1262. 20 È l’Autore stesso a definirsi in questa posizione: “Si potrebbe presentare questa situazione […] come un allontanamento o un avvicinamento fra due poli opposti: l’empirismo (il fenomenismo, il sensualismo) e il razionalismo (l’apriorismo)”, in: WF, 1237. 21 Cf. WF, 1237-1238. 22 Cf. WF, 1238-1239: “La riduzione è soprattutto di per sé un’induzione in senso aristotelico. La comprensione dell’essenza – in questo caso dell’essenza della morale – non ci allontana da tutta la ricchezza dell’esperienza, della descrizione e, forse, anche della statistica […]. Questo superamento consiste nel cogliere l’esperienza della ‘morale in quanto tale’ nel suo insieme, nel comprendere l’essenza stessa della morale”. 8 vissuto. Qui fonda la possibilità di una metafisicità dei valori23: nella coscienza, infatti, c’è sempre un dinamismo che va al di sopra del dinamismo naturale di utilità, uno sguardo al mondo ideale dei valori (coscienza assiologia ideale). A partire dalle esperienze concrete, allora, matura nel soggetto un orizzonte di valori concreti e metafisici al contempo: concreti perché parti del vissuto, ma anche metafisici perché nella loro osservanza l’uomo diviene buono (dimensione metafisica soggettiva) e contribuisce a svelare per sé e per gli altri un aspetto della bontà morale (dimensione metafisica oggettiva). Allo stesso modo, il concetto di verità prende dimora nell’atto dell’uomo: non come principio da cui dedurre le norme morali (l’apriorismo wojtyłiano non è di questa natura), bensì come dimensione metafisica delle norme morali stesse che nel concreto rivelano un contenuto che è paradossalmente anteriore. È oltremodo sottolineata la centralità dell’esperienza, nonché l’interesse dell’Autore per il processo dell’agire morale più che per il suoi contenuti. 3.1 Oggettività dei valori I valori sperimentati e vissuti vengono scoperti nella loro vera natura aprioristica (cioè nella loro essenza oggettiva): quanto il soggetto sperimenta come bene per sé (verità di sé), si rivela come bene per l’uomo (verità dell’uomo) nella misura in cui la decisione del soggetto si conforma alla verità del dinamismo morale (oggettività della auto-determinazione) descritto dalla norma personalistica stessa. Se la verità della persona nell’auto-determinazione si radica non solo nella scelta di un qualsiasi bene concreto (come vorrebbe l’utilitarismo), ma nella partecipazione ad una verità personale oggettiva e comune che il bene concreto mi abilita a riconoscere, allora si ha che quando il soggetto agisce, scopre inevitabilmente il bene in sé nella misura in cui il bene per me (l’atto concreto) è orientato alla verità della propria persona e, quindi, inevitabilmente a quella di tutti gli uomini. Se, in altri termini, l’essere persona che si attua nell’auto-trascendimento mi conduce alla scoperta della verità personalistica (aspetto metafisico) che mi precede, analogamente anche i valori possono essere oggetto del pensiero logicamente prima di divenire concreti24 (cioè esistono come verità oggettiva), mentre possono esser vissuti come tali solamente con/nella esperienza soggettiva. 3.2 Valori e norma personalistica La norma personalistica – fondamento oscuro, non pienamente esplicitato del sistema morale wojtyłiano – si rivela come la chiave ermeneutica del tutto particolare per giustificare le norme morali su un piano comune che garantisca sia la validità dell’esperienza soggettiva che l’oggettività del bene conosciuto e scelto. Il legame delle norme morali con la verità25 (luogo in cui l’assiologia si lega all’ontologia), esplicitato nella norma personalistica, non conduce però ad alcuna definizione. I valori hanno soltanto la funzione di predisporre l’uomo alla verità personalistica, ma non alla sua definizione. Il legame con le strutture ontiche (metafisiche) sembra interessare più la dinamica dell’agire morale (il 23 Cf. WF, 1271.1273: “Nella coscienza morale – sostiene il Wojtyła – è sempre insito un elevarsi al di sopra del dinamismo ‘naturale’ del soggetto, uno sguardo fisso al mondo ‘ideale’ dei valori […]. Ci riferiamo […] allo studio sul dinamismo del dovere, basato sulla verità del bene. Questa verità […] si forma sempre in rapporto a una sorta di sguardo fisso al valore ideale, che deve essere realizzato nell’atto che ci si riferisce”. Nel testo su Max Scheler, questo dinamismo era descritto dal Wojtyła come coscienza assiologia ideale, ovvero come strutturale intensione al trascendimento morale verso un ideale. 24 Cf. WF, 1273. Il passo è molto forte, ed esprime chiaramente l’oggettività dei valori per il pensiero del Wojtyła: “La posizione ideale dei valori rispetto alla norma ed alla formazione della norma, significa soltanto che essi sono oggetto del pensiero, sono pensati prima di divenire peculiarità di un soggetto reale. Ciò non significa tuttavia che questi valori siano ‘inventati’, essi sono pensati come elementi del compimento del soggetto ‘uomo’ nell’atto della persona ed indicano pertanto questo soggetto come una realtà in corso di sviluppo, di attualizzazione e di perfezionamento”. 25 Ancora il legame tra ontologia e assiologia. Il Wojtyła afferma: “Ma se ‘essere buono moralmente’ è lo stesso che ‘essere buono come uomo’, ed ‘essere cattivo moralmente’ è lo stesso che ‘essere cattivo come uomo’, la morale contiene una particolare congiunzione fra l’assiologia e l’ontologia”, in: WF, 1247. 9 suo dinamismo di trascendenza) che determinati contenuti morali o metafisici definibili. Siamo ancora di fronte ad una certa ‘vacuità del pensiero’. Nella disamina del problema, l’Autore riesce infatti a dire il come della verità, non certo il che cosa. Risultato che, da un lato, gli fa onore ma che, dall’altro, crea innumerevoli problemi. Sarebbe, comunque, oltremodo inammissibile una soluzione diversa. Se la verità dell’uomo è la partecipazione alla verità della norma personalistica, non c’è altro modo per definirla che l’esserlo appieno! La praticità del pensiero etico sembra avere ancora la meglio. Di conseguenza, se la verità non è dicibile (ma si dice nell’atto, cioè si dice nell’uomo che agisce), l’etica non può essere che grammatica, non certo una teoria sull’agire morale: non crea le regole, ma le mette in luce26 (con una buona dose di ottimismo gnoseologico). La norma del bene e del male come constatazione intuitiva fondamentale (secondo una particolare intenzionalità personalistica di matrice wojtyłiana) è infine l’unico orientamento certo della coscienza. Rimarrebbe infine da soffermarsi sui risvolti antropologici di una posizione etica di tal genere. Non ne otterremmo, tuttavia, altro che una trasposizione terminologica dal versante morale a quello antropologico, mentre la struttura rimarrebbe analoga. In una espressione oltremodo sintetica, l’Autore chiarisce la sua posizione in materia antropologica, ovvero il suo particolare realismo gnoseologico e assiologico con priorità ontologica della libertà soggettiva a partire dalla esperienza del dovere, riassumendo sommariamente quanto detto: “La capacità di conoscere, di scegliere e di realizzare il bene onesto costituisce il fondamento della norma etica e della formazione dell’uomo […]. Essa [la norma] corrisponde alla (sua) autorealizzazione, serve al compimento della persona”27. La dinamica dell’agire morale si fonda chiaramente nell’atto: qui antropologia, assiologia e ontologia si fondono in un unico intreccio. 3.3 Uomo: verità senza contenuti Le ragioni del titolo: L’uomo nel campo della responsabilità, mi sembrano ora evidenti. L’essere uomo è consegnato alla sua coscienza, relativamente alla naturale capacità di porsi di fronte alla verità oggettivata nei propri atti28. Allo stesso modo, nelle Catechesi, l’essere uomo sarà consegnato al suo corpo. È, questa, una verità senza contenuti, perché è atto di se stessa. È assenza di una oggettivazione in favore della autenticità di un dinamismo, senza cedere al soggettivismo morale o al relativismo gnoseologico. L’apriorismo razionalistico gioca qui una carta fondamentale: il Wojtyła è dell’opinione che nell’esperienza concreta (tramite le norme morali che egli vive e che ogni uomo – relativamente alla sua cultura – vive) l’uomo può giungere alla verità di sé come suo naturale compimento (autoteleologia). Una verità che non si dice, perché è unica e non teme svilimenti; non si indaga, perché affiora spontaneamente in superficie; non si cerca, perché abita nel dinamismo morale della norma personalistica. Questo è quanto nel Wojtyła potremmo chiamare il positivo attualismo, unito ad una sviscerata fiducia nella possibilità per l’uomo di giungere alla verità. L’esperienza della verità rimane ancora da un lato un concetto vuoto (non è dicibile, perché è esperienza dell’essere, non del sapere), mentre sul versante esperienziale corrisponde alla propria autodeterminazione. Si riferisce non tanto ad un punto di arrivo, quanto ad una modalità di relazione con il reale, una progressiva autoconoscenza nel continuo confronto con le norme morali. In questo modo, anche la spiritualità è dovere: intesa come auto-trascendimento attraverso la norma personalistica, la spiritualità realizza il progressivo perfezionamento della conoscenza e dei desideri 26 Cf. WF, 1289. WF, 1268. 28 Quanto al problema della conoscenza, il Wojtyła si basa su una “generale convinzione della giustezza della posizione realistica della conoscenza”, in: WF, 1237. 27 10 secondo le esigenze della natura personale del soggetto. L’agire morale, allora, è qualificato non per mezzo della bontà o malizia di un atto, ma in virtù della sua dinamica euristica. Il testo incompiuto conclude i lavori di indole accademico/scientifica del Wojtyła ed apre (proprio in ragione della sua incompiutezza) al risvolto teologico del pensiero dello stesso. Dal pontificato in poi, l’analisi filosofica su questioni antropologiche sembrerà esser tenuta volutamente in sordina, per privilegiare la riflessione teologica. Tuttavia, nonostante non sia mai stato espresso chiaramente dall’Autore stesso, ritengo che proprio quest’ultima fase – quella della speculazione teologica – sia il vero fondamento della riflessione filosofica dell’Autore. Il Wojtyła in questo modo sarebbe filosofo perché teologo e il suo pensiero entrerebbe a pieno diritto nel solco della filosofia cristiana tanto dibattuta nel corso del primo novecento, o in quello della philosophia perennis, ultima spiaggia del pensiero di Edith Stein! La non dicibilità della verità, infatti, nonché la struttura euristica dell’agire morale dettato dalla norma personalistica, fanno presagire che la piena realizzazione della persona non è un ideale, ma una persona. In questa prospettiva, l’enciclica programmatica del suo pontificato Redemptor hominis assume una luce del tutto particolare. 11