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Nuove cartografie
Domenico Quaranta
Published in: Around Photography, anno II numero 06, lugliosettembre 2005.
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L’arte contemporanea ha dimostrato precocemente una notevole attenzione nei
confronti di sistemi iconografici e descrittivi come la mappa e il grafico. Una
fascinazione di natura, di volta in volta, estetica, poetica o politica. Estetica, nel senso
della scelta di un mezzo rappresentativo freddo, inerte, per Picabia, per il Duchamp
del Grande Vetro, così come per la prima generazione concettuale e per la giovane
Jenny Holzer. Estetica e poetica, nell’evocazione di viaggi immaginari, di geografie
sognate, di storie e ricordi, come negli interni metafisici di De Chirico o nelle
fotografie di Luigi Ghirri. Estetica, poetica e politica, come nelle mappe di Alighiero
Boetti tessute dalle mani esperte delle donne afgane.
Nell’era della globalizzazione, del crollo di vecchie e dell’erezione di nuove
frontiere, il fascino dell’Atlante, lungi dal venir meno, riemerge prepotente nelle
opere di molti artisti. Un elenco decisamente incompleto potrebbe comprendere
Deborah Ligorio e Jota Castro, Luca Vitone, Aleksandra Mir e le passeggiate di Janet
Cardiff, mappature sonore di un territorio. Ma è nei nuovi media in genere, e nella
Rete in particolare, che la “cartografia” ritorna prepotentemente come nuovo sistema
di linguaggio. Perché Internet, come dice Miltos Manetas, non è solo un altro
medium, «quanto piuttosto uno “spazio”, simile al continente americano
immediatamente dopo la sua scoperta»: provvisto quindi di mappature parziali, come
quelle mappe del Cinquecento che registravano solo la frastagliata costa occidentale,
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cui facevano seguire un immenso, bellissimo vuoto. Non si tratta di una metafora:
Internet è letteralmente un luogo, meglio ancora un luogo pubblico, con strade e
autostrade, abitazioni e spazi di ritrovo, popolato da oggetti e da tanta, tantissima
gente.
Ma c’è di più: in un sistema disordinato – o diversamente ordinato – di dati, che
non sono comprensibili se non vengono tradotti in una interfaccia, la mappa è sempre
la struttura, e a volte anche il volto, dell’interfaccia. In questo senso Internet, come
tutti i nuovi media, è un territorio che non esiste fino a che non viene mappato: in
altre parole, la mappa coincide col territorio, e il territorio non esiste senza la mappa.
Non deve dunque stupire che uno dei primi interessi degli artisti attivi in rete sia
stato proprio la mappatura del cyberspazio o di una sua parte: spesso, proprio quel
reticolo di Zone Temporaneamente Autonome che venivano a costituire la contro-rete
(Hakim Bey) da cui sono scaturite net art e net culture. Alcuni esempi ormai storici
sono archiviati nella sezione CyberAtlas del sito del Guggenheim Museum, curata da
Jon Ippolito. In altri casi, come nelle Alt.Interface di Rhizome.org, la mappa è solo
un altro modo di dare accesso a un database esistente, un modo per navigarlo
alternativo a tipologie più tradizionali. Per esempio, StarryNight di Alex Galloway,
Mark Tribe e Martin Wattemberg visualizza i testi dell’archivio di Rhizome come
un cielo stellato, in cui gli astri che brillano di più sono quelli più frequentati dai
lettori, e quindi più vitali.
Utilizzando criteri di archiviazione diversi da quelli tradizionali, le Alt.Interface
di Rhizome dimostrano che a un insieme di dati possono corrispondere diverse
interfacce, e nessuna di esse è neutrale. Un’interfaccia presuppone sempre un sistema
culturale e ideologico, con cui bisogna fare i conti. Nel 1997, il collettivo londinese
I/O/D lancia The Web Stalker, che inaugura una lunga tradizione di interfacce
alternative. Se i browser commerciali come Netscape o Internet Explorer danno per
scontata la metafora della finestra, e ci mostrano, di un sito, quello che di sé ci vuole
mostrare, il Web Stalker ce ne restituisce una visualizzazione spazializzata, che dà
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importanza alla struttura più che al contenuto, alle relazioni più che alle informazioni,
allo scheletro più che alla pelle. Rivelando, in questo modo, anche la forma mentis di
chi l’ha creato, i modelli culturali che lo condizionano.
Come abbiamo visto, la Rete – come tutti i nuovi media – può essere descritta
come un insieme disordinato di dati che hanno bisogno di un’interfaccia per acquisire
significato. In questo senso, Internet non è soltanto un territorio inesplorato che
necessita di una mappatura, ma anche una fonte inesauribile di dati su territori “altri”.
Con They Rule(2001), l’artista americano Josh On ha sviluppato per esempio un
database online che raccoglie le informazioni reperibili in rete relative a 100 grandi
multinazionali e ai loro “boards”. Al database si può accedere tramite una interfaccia
in flash in grado di mostrare la rete di legami che, attraverso i membri dei consigli di
amministrazione, si viene a creare tra le varie corporation, e che disegna un’unica,
compatta e tentacolare classe dirigente. Al di la del territorio mappato, è interessante
notare come nascono le mappe. Nota l’artista che «Internet può raccogliere, elaborare
e mostrare dei dati servendosi, per farlo, sia di mezzi informatici che sociali». In altre
parole, le mappe di They Rule sono frutto senz’altro della modalità di inserimento dei
dati, della struttura e dei metodi di ricerca dell’interfaccia: ma anche degli interessi
specifici dello spettatore, e delle informazioni – e della disinformazione – con cui
arricchisce il database. Anche qui, il paesaggio non esiste se non nelle sue linee
fondamentali, ma viene disegnato, di volta in volta, da chi lo esplora.
In un certo senso, They Rule ci insegna così che la pletora di informazioni di cui
disponiamo, e di cui i media ci inondano quotidianamente, non ci aiuta a disegnare
cartografie attendibili del reale: quello che riusciamo a mappare sono al massimo le
nostre geografie mentali, o i sistemi di valore che governano i media. A questa
mappatura si dedicano due progetti recenti, molto diversi nello spirito e negli esiti.
Infowarmation (2004), del collettivo italiano K-Hello, è un sito web in cui l’utente,
dopo aver visto un telegiornale o letto un quotidiano, può inserire i dati relativi allo
spazio concesso agli stati di cui si parla. L’output è una mappa del mondo in cui gli
stati di cui si parla di più conquistano quello con più bassa copertura mediatica. La
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mappa generata può essere aggiornata a ogni fruizione del flusso informativo. Il
risultato è una mappa mentale, che visualizza, con semplicità e ironia, gli squilibri
introdotti nella nostra percezione del mondo dai media, e ci invita implicitamente a
ristabilire l’equilibrio: «Nella guerra dell’informazione, in cui il campo di battaglia
sono le nostre menti, la conclusione sembra essere “l’unico modo per vincere è
continuare a pensare”».
Meno ironico e visivamente pregnante, ma ugualmente incisivo, Newsmap di
Marcos Weskamp e Dan Albritton, segnalato per la sezione “Net Vision” ad Ars
Electronica 2004, è un’applicazione che ripropone in una mappa i titoli delle notizie
proposte da Google News: consentendo di visualizzare l’importanza data alle notizie,
e alle loro diverse tipologie, a livello globale e locale. Il rigore del progetto ne fa un
ottimo strumento di monitoraggio del flusso informativo globale: il che, unito al fatto
che gli autori non sono artisti di professione, contribuisce a collocarlo in una zona di
confine di un territorio, quello dell’arte, fra i più difficili da mappare. Una liminarità
molto comune a chi utilizza i nuovi media, e a cui il concettuale ha aperto solo
parzialmente la strada. In questa zona di confine si colloca anche Earth (2001),
dell’americano Jon Klima. Presentato alla Whitney Biennal del 2002, Earth è un
software che convoglia in un unico display, una rappresentazione tridimensionale
della Terra, informazioni recuperate dalla rete, trasmesse dal satellite e dalla stazione
meteorologica più vicina al luogo in cui viene installato. Descritto da Christiane Paul
come «una investigazione estetica del mondo così come esiste in forma di dati»,
Earth adotta la metafora tradizionale delle mappe terrestri per descrivere, sotto
mentite spoglie, un altro universo, quello appunto dell’informazione. Viceversa, in
Apartment (2001), Martin Wattenberg e Marek Walczak ‘spazializzano’ le frasi
inserite dagli utenti, trasformandole in appartamenti che vanno a formare isolati,
quartieri e intere città, e dimostrando, con una metafora aliena al contenuto, il
carattere fondamentalmente sociale del linguaggio. Del resto, questa violazione
semantica si inserisce in una lunga tradizione, che procede addirittura dal “palazzo
della memoria” di Cicerone, divenuto uno dei pilastri della mnemotecnica occidentale
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e rivitalizzata oggi dalla virtualizzazione dello spazio, dalla città dell’informazione in
cui trova sede legittima anche la Biblioteca di Babele di Borges.
Anche Valence (1999), dell’americano Benjamin Fry, nasce per dare una
visualizzazione spaziale di un corpo complesso di informazione, sia esso un testo
narrativo o la struttura di un sito; la sua versione più recente, proposta anch’essa alla
Whitney Biennal del 2002, si appoggia a un database genetico, e visualizza il
funzionamento dell’algoritmo utilizzato per costruire il genoma di un organismo
attraverso dei punti luminosi collegati da un nastro. Fry, che ha studiato al MIT
Media Laboratory, è un information designer le cui interfacce uniscono la
funzionalità a una straordinaria forza di suggestione, che le ha fatte comparire in
blockbuster come Minority Report e Hulk. Si potrebbe discutere se sia un artista, uno
scienziato o un designer, ma forse è giunta l’ora di ipotizzare che sia tutte e tre le
cose: come gli artisti del Rinascimento, che dipingevano Gioconde e disegnavano
cartografie.
Links
Jon Ippolito: Cyberatlas
Rhizome alt.interface
I/O/D: The Web Stalker, 1997
Josh On: They Rule, 2001
K-Hello: Infowarmation, 2004
Marcos Weskamp e Dan Albritton: Newsmap, 2004
Jon Klima: Earth, 2001
Martin Wattenberg e Marek Walczak: Apartment, 2001
Benjamin Fry: Valence, 1999 – 2002