L'ESAME DI FEDE DI DANTE Intervento del Cardinal G ianfranco Rava si alla serata a tema "La Fede di Dante - il Ca nto XXIV del P aradiso" Joseph Ratzinger nell ’ Introduzione al Crist ia nesimo, la sua opera più nota prima di diventare Benedetto X VI, evoca un par ticola re ritratto di Dante, quello che è delineato n ella «commovente conclusione della Divina Co mme dia, allorché egli, contemplando il miste ro di Dio, scorg e con est atico rapimen to la pro pria immagine, un volto umano, al ce ntro dell’abbagliant e cerchio di fiamme form at e d a “l’Amor che move il sole e l’altre stelle”» . In realtà il passo a cui si fa cenno («d en tr o da sé, del suo colore stesso / mi parve pin ta de la nostr a e ff ige; / per che ’l mio viso in lei t ut to era messo», Paradiso XXXIII, 130-1 3 2) rimanda all’Incarnazione di Cristo e q ue lla « no stra effige» è il volto umano di Gesù, che è contemplata dal nostro «viso», cioè d alla nost ra visione, dal nostro sguardo. Sta di fatto , però, che in questi versi, citati da Rat zin ge r, si ha anche il profilo ideale autentico del poeta e della sua f ede. Le cin qu e domande di Pietro Egli è, infatti , un grande e appassionato cr edente e testimone della fede crist iana . L’attestazione più alta e nitida è nel can to XXIV del Paradiso, dedicato proprio alla fed e , il primo di un tri tt ico che – sotto la volta de l cielo stellato – vede sfilare le virtù teolog a li. Dante, quindi, vi ene sottoposto a un e sam e teologico da tre apostoli, Pietro, Giacomo e Giovanni – i tre testimoni privilegiati de i mo menti più segreti della vita terrena di Gesù – rispettivame nte sulla fede, sulla sp er anza e sulla carità. Il nostro ideale pellegrinagg io al seguito del poet a si fermerà alla pr ima tappa, quella dell’esame di fede di Dan te . Naturalm ente la nost ra non sarà un’e seg esi critica dei 154 versi di questo origin a le canto spir itua le, ma sarà solo la test imo nianza di una sintonia tra teologo e teo logo . Sì, perché Da nte rivel a, intimamente in tr ecciata con la sua arte, proprio la sua fed e e l’approfondimento a cui si è votato n ella sua r icerca teologica. Come è stato scritto d a una com mentatrice, A nna Maria Chiavacci Leonardi, in questo canto «la teologia non è p iù esposta da altri, ma diventa fatto perso na le, la ragione stessa della vita di chi parla». Una prem essa è necessaria e riguarda il genere che Dante impone al suo canto teologico : in esso la pro fessi one di fede adotta un im pianto drammatico, quasi da canto amebe o , perché si snoda att raverso un dialogo f at t o di domande e risposte che intercorrono tra il «gran viro a cui Nostro S egnor lasciò le chiavi» (vv. 34-35), cioè san Pietro, e Dante stesso interpellato sulle quest ioni «lievi e gra vi» de l credere, i levia et gravia del tradizion ale dibattito teologico della Scolastica. L ’aspett o rigoroso del confronto è esplicitato d a l poeta stesso che ricorre a un’immagin e accademica, comparandosi al «baccialier», al -1- baccelliere ne ll a tensione della vigilia dell’esame universitario (v. 46). Un’esperienza , quindi, dinamica e qualificata che sar à confe rmata dal contenuto stesso della verifica a cui l’alunno si sottoporrà. Entriamo, allo ra, anche noi nell’aula cele ste fattasi silenziosa ove Dante emoziona to è davanti al «sodalizio eletto» (v. 1), all’a ccolta dei santi e al suo esaminatore, l’apostolo Pietro. Eccoci dunque al dialogo-interr ogazio ne. Esso si apre con la domanda di ba se , radicale e fondament ale: «fede che è ?» ( v. 5 3) , qual è la sua «quiditate» (v. 66), la su a essenza? La risposta è formulata att ra ver so la citazione della definizione offerta d alla Lettera agli Ebrei (11, 1) che la tradizione r it eneva fosse dell’apostolo Paolo, anche se in realtà questa, che è una sorta di gr an diosa omelia, è da assegnare a un autore e a un orizzonte letterario e teologico differe nt e. « Fede è sustanza di cose sperate / e argomento delle non parventi» (vv. 64-65): è la re sa puntuale della versione latina della Vu lgata che Dante possiede, Est autem fides sp er andarum substantia rerum, argumentum no n apparentium . Quest a resa ha i due card ini nelle parole «sustanza» (nell’originale gre co hypòstasis ) e «argomento» (élenchos ) . Ed è appunto sul valore di questi due term ini che si sviluppa la seconda interrogazione d i Pietro, ed è int eressante notare che Dante a nt icipa quanto è stato ribadito da Benede tto XVI nella sua Enci cli ca Spe Salvi , al n um ero 7, proprio riguardo al passo della Le ttera agli Ebrei: «sustanza» non è tanto il princip io fondante per sperare, la sorgente e la spinta verso la speranza, bensì il cont enuto st esso, l’“ipostasi” della speranza. La r ealtà della glor ia sperata è anticipata e sve lata g ià nella fede, come commentava san Giova n ni Crisostomo nel la sua X omelia sulla Let tera agli Ebrei : «Poiché le cose che speria mo non sembrano possano avere consistenza, la fede dà ad esse sostanza, anzi e ssa stessa costituisce la loro essenza» ( Pat ro logia Graeca 63, 451). La fede, poi, è anch e «argomento», cioè dimostrazione (coe rent e al suo interno) delle realtà sperate che n o n sono «parven ti » al mero percorso razionale. Si delinea, così, la logica interna alla fed e, il suo statuto epistemologi co proprio, il suo «silogizzar» (v. 77) nel cuore stesso del crede re. Fiorisce a questo punto la terza domanda: qu al è la base sulla quale esercitare la rice rca argomentativa della fede così da aver e la r ivelazione della realtà delle «cose sperate »? La r iposta di Dant e è netta: è la Paro la d i Dio che è presente «in su le vecchie e ’n su le nuove cuoia» (v. 93), cioè nelle pergame ne della Bibbia. Al loro interno deve svilupp a rsi l’analisi teolo gica, il «silogismo» (v. 94) che le è proprio: essa si svolge su un altro livello rispetto a quello strettamente razion ale la cui «dimostrazion» risulta in que sto orizzonte «ottusa» (v.96), cioè spunta ta e debole. Dante rivela un’altissima conosce nza delle Sacre Scri tt ure, che costituiscono il suo retroterra spirituale e culturale, come è stato dimostrat o da un’ormai antica e inint er rotta bibliografia (la più recente è l’accurata recensione condotta da Carolynn Lund -Me ad e Amilcare Iannucci su Dante and the Vulg a te Bible, edita da B ulzoni nel 2012). Ba sti solo pensare allo stesso incipit della Divina Commedia ove echeggia la voce del r e Ezech ia in Isaia: «A metà dei miei giorni me ne vado alle porte degli inferi» (38, 10). Ma procediamo alla quarta interroga zione, squisitamente consequenziale: chi assicu ra che le Scritture at test ino veramente la Paro la di Dio, la «divina favella» (v. 99)? L a risposta di Dant e si col loca nell’alveo della tr adizione apologetica: la prova della veridicità divina è nelle «opere seguite», cioè i m ira coli che le costellano, atti trascendenti le leggi della nat ura. Pietro, però, non allen ta il morso della dialettica e prosegue con la quinta interpellanza, anch’essa conse qu en ziale: chi ti assicura sull’autenticità stori ca d i questi eventi miracol osi? La replica da nt esca è classica e affiora già in Agostino, ad esempio nel De ci vit ate Dei (XXII, 5) e in alt ri Padri della Chiesa fino allo stesso Tommaso d’Aquino. Quand’anche non fossero ver ificab ili quei miracoli, ce n’è uno che indirettame nte li convalida e d è lo st raordinario pro digio d ella conversione dell’intero mondo pag a no avvenuto con l’evangelizzazione condott a da un pugno di persone deboli e marginali come era lo stesso Pietro, «povero» di mezzi economici e «digiuno» di cultura (v. 109). -2- Il Cred o d i Dante Dante ha superato tut ta la batteria di doma nd e del suo esame di fede, il silenzio cele ste s’infrange e s’ int ona un solenne Te Deum (v. 113). Ma il sipario non cala su que sta scena “accademica”. Anzi si ha uno svilu pp o inatteso e grandioso. Pietro invita Da nte a professare il contenuto della sua fe de att ra verso il Credo, così da intrecciare le d u e dimensioni de ll a fede: «espremer quel che cr edi, / e onde a la credenza tua s’offerse» (vv. 122-123) . Si ha, così, secondo il ling ua gg io teologico, sia la fides quae cioè il conten uto della fede ( «q uel che credi»), sia la fides q ua , l’adesione fiduciale («la credenza» ). E d ecco Dante ini ziare in modo quasi lit ur gico la sua professione di fede: «Io credo in u no Dio…» (v. 13 0). È una proclamazio ne com mentata dei due articoli capitali della fede cristiana. Il pr imo riguarda il Di o unico creatore , «ch e tutto ’l ciel move, / non moto, con amore e disio» (v. 131-132). E vidente è il rimando a lla trilogia di parole - «move, amore, disio » - che aprono (I , 1) e chiudono (XXXII I , 14 3- 145) la cantica paradisiaca. Suggestivo è anche l’incrocio tra la riflessione filosof ica aristotelica della divinità come Mo tore immobile («move, non moto») e la visio ne per sonalistica cristiana del Dio amore («con amore e disio »). Una verità che si aliment a, quindi, alla filosofia, alle «prove fisi ce e metafisice» (vv. 133-134), ma che attinge sopra ttutto alla luce delle Scritture, «per M oïsè, per profeti e per sal mi, per l’Evangelio e per voi che scriveste», cioè per le Lettere apostoliche ispi rate dallo Spirito (vv. 136-1 38 ). Si compie, così, il legame dinamico tra ragione e fede, un alt ro dei capisaldi de lla te ologia cristiana. Il secondo arti colo di fede è trinitar io: « Cre do in tre persone etterne» che sono «u n a essenza sì un a e sì trina», per cui – con tinu a il poeta in modo molto originale – il discorso su di esse può essere condotto sia con il «sono» (la terza persona plurale) sia co n l’«este», cioè l’ “è” della terza singolar e ( vv.139-141). La Trinità, per altro, sarà a nche l’ultima teofania del poema allorché si acce nd er anno nel cielo tre arcobaleni «di tre colori e d’una contenenza» (X X XIII, 117), diver si e id en tici nella trinità della persone e nell’unicità dell’essenza divina. A nche ora, adottando un ’altra metafora luminosa, Dante conclude che queste due veri tà, l ’uni cità e la trinità divina, sono simile a una «favilla», a una scintilla di luce «che si dilata in fiamma poi vivace», in un fiammeggiare che illumina e riscalda, fino a diventare «come stella in cielo» che « in m e scintilla», un astro che rischiara il firmame n to dell’anima (vv.145-147). Un crescend o di lu ce, quindi, che trapassa da favilla a fiamma e a stella. Si chiude qui il nost ro itinerario minimo ed essenziale nella fede di Dante, una fede arde n te e motivata, a ppassionata e rigorosa. Con lui si riesce a comprendere – come afferme rà secoli dopo il filosofo credente Soeren Kierke gaard in un testo interamente dedicato al credere, T imo re e tremore (1843) – c he «la fe de è la più alta passione dell’uomo. Ci so n o forse in ogni generazi one molti uomin i che non arrivano fino ad essa, ma nessuno va oltre». Il poeta non esita a presentar si come chi vive questa passione alta e profond a , potendo così vedere «perfettamente» ciò che la pura razionalità riesce appena a intu ire «con ombr a di oscuritade» (Convivio II , 8 , 15). Ed è proprio in questo canto XXIV che e gli senza r iserva si autodefinisce così: « sì ho sì lucida e sì tonda / che nel suo conio n ulla mi si i nforsa» (vv. 86-87). In altri termini , con questa orgogliosa a ffe rma zione della sua identità di credente, Dan te dichiara di possedere l a «moneta» della f ed e, cioè il tesoro prezioso evocato prima da sa n Pietro (vv. 84-85), e di averla nella pien ezza della sua brillantezza e perfezione («lucid a e tonda»), così da non mettere in forse ( «s’inf or sa») in nessun modo la sua piena e tota le autenticità (« conio»). Il suo sguardo, inf att i, è sempre stato fisso a quel cielo ove b rilla la luce della t rascendenza. Come scrive va Oscar Wilde, «siamo tutti nati nel fango, ma alcuni di noi guardano alle stelle». E Dant e è uno di costoro, anzi, una delle guide che ci conduce a contemplare l’infinito e l’etern o. -3- -4-