Anno 8 | numero 1 - Orchestra da Camera di Mantova

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Anno 8 - Numero 2
Marzo 2012
u sMagazine
i cdell’Orchestra
a l mda Camera
e ndi Mantova
te
Fazil Say
Un artista
poco ortodosso
Giovanni
Sollima Tra rock
e barocco
INCROCI VIRTUOSI
Tariffa R.O.C. “Poste Italiane Spa” - Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (Conv. In. L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 1, DCB Mantova
EDITORIALE
di Andrea Zaniboni
SUONI vicini e lontani,
come un notes della vita
Convergenze, sovrapposizioni, influenze: la musica è anche questo.
Tutto ciò che assume questa definizione è in qualche modo la traccia,
lo specchio o perfino, in qualche
caso, il simbolo di un’esperienza
umana.
E quale uomo, o meglio, quale artista rinuncia ad ascoltare il
suono che lo attornia (reale o immaginario che sia) ed a gettare lo
sguardo e l’anima là dove non può
fisicamente giungere, ma dove,
per compenso, il fantasticare non
trova più ostacoli, dove l’immaginazione supplisce un imperfetto
sapere? Accadde nel passato, ed
ancora la storia si ripete, sia pur
diversamente.
Alcuni musicisti d’oggi – lo leggete in questo numero – intendono
il comporre come l’aprire una finestra sull’universo. Se le Voci del
mondo – per citare il romanzo di
Robert Schneider che scova la musica dell’invisibile – vivono tra noi,
è anche per causa d’una società
che anche in ogni suo frammento
appare sempre più mista, multietnica, con una vicinanza di corpi
e di pensieri riflessa in strumenti
di comunicazione (e di viaggio)
che annullano tempi, spazi, barriere, diversità di linguaggi: una
scoperta senza fine di un mondo
brulicante di vite, tradizioni, esperimenti creativi.
Le influenze, i travasi espressivi non appartengono soltanto
all’area colta ma, forse mai come
in questi nostri anni, sono visibili
ad ogni livello di pensiero creativo:
dal pop al rock al jazz e alla classica, non dimenticando che quella
che vien definita per convenzione
musica di consumo svela personalità forti ed influenti, privilegiando
la comunicazione ai contorcimenti intellettuali.
Le eccellenze esistono dappertutto, come la moltitudine della mediocrità, dobbiamo ammettere,
appartiene anche alla classica.
Forse lo sforzo più grande per
l’ascoltatore di oggi e dell’immediato futuro potrebbe essere proprio quello di abbandonare gli
spazi ultraprotetti della musica che
si autodefinisce “impegnata” per
aprirsi ad una conoscenza senza
preconcetti, categorie annunciate,
conflitti competitivi e polemici.
Sarebbe magnifico far nostro il
solo pensiero che conta, che ci
presta la mente eccelsa di Vladimir
Jankélévitch: «Siamo passati attraverso la musica – e niente, dopo di
essa, sarà mai più come prima».
Comporre
è aprire il cuore
sull’universo,
scoprendo le voci
del mondo
Lo sforzo
più grande
per l’ascoltatore
di oggi?
Abbandonare
gli spazi ultraprotetti
della musica
“impegnata”
musicalmente
3
IN COPERTINA
m
Marzo 2012
SOMMARIO
7
10
12
7
Il pianista sul Bosforo
Intervista a Fazil Say
di Oreste Bossini
10
Che senso ha oggi contaminare?
Parola a quattro compositori
di Patrizia Luppi
12
“Sporcare” la musica
un’arte senza tempo
di Gian Paolo Minardi
15
Un artista ba-rock(o)
Intervista a Giovanni Sollima
di Anna Barina
I CONCERTI
15
18
16
20
30
27
16
Doppio Suono
e magia alchimia
di Marco Bizzarini
18
Arpa, lo strumento
di angeli e dei
d Arabella Cortese
20
Madama DoRe
Piccola grande musica
di Giovanni Bietti
25
Alexander Melnikov
Il pianista prende il volo
di Emanuele Battisti
27
Essere o non essere?
Il dilemma dei pianisti-compositori
di Luca Ciammarughi
IN ORCHESTRA
a cura di Valentina Pavesi
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usicalmente
Magazine dell’Orchestra da Camera di Mantova
TIRATURA 4.000 copie
DIRETTORE RESPONSABILE: Andrea Zaniboni
COORDINAMENTO EDITORIALE: Anna Barina
GRAFICA: Elena Avanzini
REDAZIONE: Valentina Pavesi
HANNO COLLABORATO: Paola Artoni, Michele Ballarini, Emanuele Battisti, Alice Bertolini, Giovanni Bietti, Simonetta Bitasi, Marco Bizzarini, Oreste Bossini, Luca Ciammarughi,
Arabella Cortese, Claudio Fraccari, Patrizia Luppi, Gian Paolo Minardi, Stefano Patuzzi,
Emanuele Salvato, Luca Segalla, Giorgio Signoretti, Renato Spagnolo
EDITRICE: Associazione Orchestra da Camera di Mantova
SEDE LEGALE, DIREZIONE, REDAZIONE: MANTOVA, Piazza Sordello, 12
Tel. 0376 368618 - E-mail: [email protected]
STAMPA: Sel Srl CREMONA - via De Berenzani, 6 - Tel. 0372-443121.
Registrazione al Tribunale di Mantova n. 10/2004 del 29/11/2004
Chiuso in redazione il 20 febbraio 2012
4
musicalmente
30
Con antica, italica maestria
di Stefano Patuzzi
32
Futuro prossimo
Italia-Germania 3 (trasferte) a 1
AMICI
33
AMICI
Parolenote: il microfono a Bossini
RUBRICHE
34
COLONNA SONORA
Gershwin e il cinema
40
ALTRA MUSICA
Contaminazione, virus benefico
di Claudio Fraccari
di Giorgio Signoretti
35
GRAMMOFONO
Orchestre d’antologia
41
QUADERNO DI VIAGGIO
Ad Ala un museo inaspettato
di Michele Ballarini
di Andrea Zaniboni
36
CD - DVD
Piazzolla, alle radici del tango
42
IN PLATEA
Protti, fra cinema e musica
di Luca Segalla
di Alice Bertolini
37
MUSICA & ARTE
Melotti fra scultura e note
di Paola Artoni
38
MUSICA & ACUSTICA
Cosa accade negli spazi chiusi
di Renato Spagnoli
39
LEGGERE
Un pianoforte di ricordi
di Simonetta Bitasi
Anna
Barina
Giornalista, musicologa e
musicista, dopo il diploma in viola si laurea con il
massimo dei voti e la lode
in Scienze dell’Educazione ad indirizzo musicale
all’Università di Trieste e in
Beni Musicali e Musicologia all’Università di Venezia
guidata da Quirino Principe e Giovanni Morelli. Collabora come critico musicale con il dorso di Verona del
Corriere della Sera e scrive di
musica per riviste nazionali.
All’attività giornalistica affianca quella di ufficio stampa, comunicazione e pubbliche relazioni.
Orchestra da Camera di Mantova
Marco
Bizzarini
Marco Bizzarini insegna e
svolge ricerca musicologica all’Università di Padova.
Attivo come saggista e critico musicale, ha pubblicato
le monografie Luca Marenzio: the Career of a Musician
between the Renaissance and the
Counter-Reformation (Ashgate, 2003) e Benedetto Marcello (L’Epos, 2006). Collabora
con l’Istituto Antonio Vivaldi
della Fondazione Cini di Venezia. È autore di saggi pubblicati da Oxford University Press, Accademia Polacca
delle Scienze, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Istituto Chopin di Varsavia.
Gian Paolo
Minardi
È nato e ha compiuto i suoi
studi a Parma, dove ha insegnato quale professore associato di Storia della musica moderna.
Oltre a numerosi articoli su
riviste italiane e straniere
e collaborazioni alla stesura di enciclopedie musicali, ha pubblicato alcuni volumi. Svolge attività critica
per Amadeus, Opéra International, Classic Voice.
Dal 1973 è critico musicale della Gazzetta di Parma.
È stato consulente artistico
di alcune iniziative musicali, tra cui il Festival Mozart di
Salsomaggiore.
Stefano
Patuzzi
Stefano Patuzzi è dottore di
ricerca in musicologia, laureato in lettere, diplomato
in organo. Si è formato nelle università di Londra, Bologna e Parma, dove è stato
anche professore a contratto. Ha dato alle stampe
un volume su aspetti della Controriforma in Italia,
curato con Claudio Gallico un’edizione delle Arie di
Frescobaldi e, da ultimo, il
libro Ebraismo in musica. Ha
pubblicato in Italia e Inghilterra. È quantomai convinto che parlare di musica sia
e debba essere fare storia
della cultura.
musicalmente
5
CONTAMINAZIONI
Compositori e interpreti d’oggi
a confronto sul tema
con i grandi geni
di sempre
musicalmente 7
Fazil Say mentre compone
IN COPERTINA
FAZIL SAY
il pianista
sul Bosforo
di Oreste Bossini
Instanbul è una metropoli sconfinata, che cresce di giorno in giorno al
di fuori di ogni controllo urbanistico
e sociale. Le stime ufficiali parlano di
12/13 milioni di abitanti, ma in realtà nessuno sa esattamente quante
persone vivano nell’area urbana, anche perché ogni giorno la parte asiatica della città si arricchisce di nuovi
immigrati provenienti dalle aree rurali. Nella città di Istanbul si possono
trovare dieci, cento città diverse, che
s’incastrano l’una nell’altra come in
un quadro cubista di Picasso. Sulle
rive del Bosforo si affacciano casette
di legno dal tetto spiovente tipiche
dei fiordi scandinavi, mentre lungo
la cinta delle vecchie mura si ammassano vani tirati su con mattoni
di tufo come nelle borgate romane
di Pasolini. Da una parte il profilo
dei grattacieli ricorda lo sky-line delle città americane, dall’altra il reticolo di strade acciottolate attorno alla
Torre di Galata evoca la bohème di
Montmartre. Sui mezzi pubblici siedono accanto ragazzine in minigonna griffate Abercrombie e donne velate di nero fino agli occhi, a volte
8
musicalmente
mescolando in curiose sintesi l’uno
e l’altro abbigliamento. Il melting
pot del mondo contemporaneo, che
mescola insieme linguaggi, religioni, tecnologie e tradizioni diverse,
passa oggi per questi nodi nevralgici dei rapporti tra i continenti, come
Instanbul, Hong-Kong, Los Angeles.
Nell’arte sta avvenendo un processo
analogo. La grande tradizione della musica occidentale non è più un
patrimonio esclusivo dell’Occidente. La Turchia inoltre è una nazione che ha cominciato da quasi un secolo un percorso di integrazione nel
linguaggio della musica europea,
con la riforma del Conservatorio impostata addirittura da Paul Hindemith nel 1935. Non è sorprendente dunque che una delle personalità
di spicco del pianoforte di oggi, Fazil Say, protagonista il 13 aprile del
concerto di chiusura di Tempo d’Orchestra, non solo viva a Istanbul, ma
soprattutto scelga il suo repertorio con criteri poco meno ortodossi. «Non compilo il programma di
un concerto in base alla celebrità di
un pezzo, ma in relazione a quello
“Il mio ponte culturale
consiste nell’introdurre il
pubblico europeo nelle
storie che conosco, nelle
memorie della mia gente,
questa è per me la cosa
più importante”
che l’autore ha da dire al pubblico.
Mi piace suonare la musica di Bernd Alois Zimmer, per esempio. Molte persone non conoscono neppure
il nome di questo compositore tedesco del secondo Novecento, ma per
me è un genio e la sua musica per
pianoforte ha tante cose da raccontare. Questo vale nella stessa misura
anche per musiche molto più note,
come i Trois mouvements de Petrouchka
di Stravinskij o la Sonata op. 111 di
Beethoven».
IN COPERTINA
E il libero processo creativo prende forma
Fazil Say riceve la prima lezione di pianoforte da Mithat Fenmen, un pianista che aveva studiato a Parigi con Alfred Cortot. Fenmen, forse intuendo l’enorme talento del giovane, chiede ogni giorno al suo studente
di improvvisare sui temi del quotidiano, prima di dedicarsi agli abituali
esercizi e studi pianistici. Proprio dal contrasto tra il libero processo
creativo e la forma trae origine l’improvvisazione e la visione estetica che
tanto caratterizzano oggi il pianista-compositore Say. Il completamento
della formazione da pianista classico lo raggiunge con David Levine
e successivamente alla Musikhochschule di Duesseldorf e a Berlino.
Tecnica eccellente, miscela di raffinata sensibilità e di brillante virtuosismo lo hanno portato, nel 1994, alla vittoria nel concorso Internazionale
Young concerts Artist in New York. Il Say compositore ha scritto opere
per pianoforte solo, di musica da camera, concerti solistici e importanti
brani per orchestra per il Festival di Salisburgo, la WDR di Colonia, la Konzerthaus di Dortmund, lo Schleswig- Holstein Musik Festival, il Festspiele
Mecklenburg-Vorpormmern e la Biennale di Monaco.
Il pianista turco
Fazil Say
vive a Istanbul,
ponte culturale
tra oriente e occidente
“Non compilo
il programma
di un concerto in base
alla celebrità di un pezzo,
ma in relazione a quello
che l’autore ha da dire
al pubblico”
Dalle sue stesse parole emerge una
chiara inclinazione verso la musica del Novecento e oltre. Dipende
forse dal fatto che lei stesso è un
compositore?
«Ho cominciato a scrivere musica
fin da ragazzo, e devo ringraziare i
miei maestri e i miei genitori per
avermi incoraggiato. La mia produzione, soprattutto negli ultimi anni,
si è arricchita di parecchi lavori:
due Oratori, sette Concerti, musica da camera eccetera. Il pubblico
mi conosce già come compositore,
perché nei miei recital suono sempre come bis musica scritta da me.
C’è un po’ di tutto, dal jazz alle trascrizioni di pezzi come Black Heart,
le Variazioni di Paganini o Summertime. Ma spero che prima o poi si
possano ascoltare in Italia anche
lavori più impegnativi come il Concerto per violino, scritto per Patricia
Kopatchinskaja, o quello per clarinetto, scritto per Sabine Mayer. Per
me è importante soprattutto raccontare delle storie, che esprimano
la mia vita, la cultura del mio paese, racconti che nascono nel mio
focolare per così dire. Il mio ponte
culturale consiste nell’introdurre il
pubblico europeo nelle storie che
conosco, nelle memorie della mia
gente, questa è per me la cosa più
importante».
Lei ha scritto una Sinfonia monumentale che ha intitolato Instanbul.
Cosa voleva raccontare?
«Ogni movimento racconta una
storia particolare, che unita alle altre forma una sorta di affresco della
mia città. La Sinfonia è divisa in set-
te parti, ciascuna delle quali è dedicata a un luogo o a un sentimento
(il primo movimento per esempio
s’intitola Nostalgia). Ci sono la Moschea Blu, la stazione dei treni verso l’Anatolia, il traghetto che attraverso il Bosforo collega la parte
europea a quella asiatica e altre
mie impressioni legate a Istanbul.
Dal punto di vista sonoro, ho cercato di far dialogare l’orchestra sinfonica occidentale con gli strumenti della tradizione musicale turca.
Ho impiegato in particolare uno
strumento a fiato della famiglia del
flauto che si chiama ney, una sorta
di cymbalom di nome kanun, che si
suona però con le dita e non con le
bacchette, e infine delle percussioni tradizionali».
In un certo senso rispecchia la sua
stessa storia, no?
«La Turchia è in gran parte un paese occidentale, direi che metà della
popolazione turca potrebbe essere
considerata occidentale. Sono andato in Germania per studiare a 17
anni, a 25 mi sono trasferito negli
Stati Uniti, dove sono rimasto per
sette anni, a 32 sono tornato in Turchia dopo aver vissuto in Occidente
per 15 anni. I tempi sono cambiati. Viviamo nell’epoca di Internet,
nella quale chiunque ha a disposizione il mondo nel salotto di casa
sua. Il nostro pianeta oggi è così,
un mondo globale. È normale vedere un direttore d’orchestra del
Venezuela, così come un pianista
che viene dalla Cina, dalla Turchia
o dal Giappone».
musicalmente
9
IN COPERTINA
“Se la musica
è tradizione,
il suono del presente
rappresenta sempre
più l’incontro
di culture”
L’ha dichiarato anche Elio, in un’intervista di poche
settimane fa: oggi «il confine tra classica e popolare
è più sfumato. I due mondi si avvicinano».
Le parole del poliedrico leader delle Storie Tese,
diplomato in flauto a Milano e protagonista in un
paio di occasioni del teatro musicale di Azio Corghi
e di Luca Lombardi, toccano un interrogativo molto
attuale: ha ancora senso parlare di contaminazione
dopo tutta l’acqua che è passata sotto i ponti della
musica, soprattutto dagli ultimi decenni del Novecento in poi? L’abbiamo chiesto a quattro autorevoli
compositori contemporanei differenti per formazione e linguaggio; pur con tutte le sfumature del caso,
le posizioni sull’argomento sono risultate affini.
«Credo che siamo ormai in una fase posteriore rispetto a quella in cui il concetto di contaminazione
cominciò a manifestarsi per esprimere una varietà di
incroci stilistici ed estetici», afferma Ivan Fedele, da poco nominato direttore del Settore Musica
della Biennale di Venezia; «musica etnica, jazz, rock: i compositori manipolavano di tutto con esiti
più o meno convincenti, mentre
le nuove tecnologie e l’elettronica si affacciavano nel campo
della musica pop, operando non
un intreccio di linguaggi, ma solo
una sovrapposizione».
Secondo Adriano Guarnieri, l’autore di Medea e di Pietra di diaspro,
«siamo in una fase di superamento molto importante. Si sta recuperando il senso della pagina che
elabora dal punto di vista colto
di Patrizia Luppi
anche le altre cifre.
Che senso ha oggi
CONTAMINARE?
Quattro autorevoli compositori - Ivan Fedele,
Adriano Guarnieri, Silvia Colasanti
e Fabrizio De Rossi Re - ci raccontano
la loro opinione sull’argomento
10
musicalmente
IN COPERTINA
A sinistra
Silvia Colasanti.
A destra, dall’alto
Adriano Guarnieri,
Ivan Fedele
e Fabrizio De Rossi Re
Oggi non parlerei più di contaminazione, ma di un
travaso che trovo interessantissimo tra un genere e
l’altro, senza più barriere e steccati».
Fabrizio De Rossi Re, autore versatile per preparazione e orientamento, opera dei distinguo: «Altrove, in
particolare nel mondo americano (ma non solo), la
scena musicale è pronta ad appropriarsi di qualunque
linguaggio musicale e a ricodificarlo, dall’improvvisazione al jazz, alla contemporanea, al noise, al rock,
alla musica popolare, alla musica per cartoni animati.
Oggi per fortuna qualche segnale di rinnovamento
si affaccia pian pianino anche nel nostro museale e
sonnolento mondo europeo. Devo dire onestamente
però che l’Italia in questo momento mi pare creativamente più interessante e libera rispetto ad altri paesi europei ancora talvolta profondamente segnati e
mummificati dal dogma della musica contemporanea
“difficile e complessa” dell’immediato dopoguerra».
Silvia Colasanti, la più giovane dei quattro, ha la particolarità di essere una compositrice di sicuro e crescente successo in un mondo ancora dominato da
personalità maschili: «Se la musica è tradizione, il
suono del presente rappresenta sempre più l’incontro di culture», sostiene. «Ci sono compositori che
ne fanno un fondamento estetico e altri che, vivendo
nel presente, proprio per questo assimilano generi
differenti». Lancia però un avvertimento: «Molto
spesso si usano materiali “altri” senza conoscerne la
sostanza e la memoria, con una superficialità che io
trovo abbastanza sterile. Pensiamo invece, per fare
solo un esempio, a un autore come Takemitsu: nel
suo caso, l’uso di certi stilemi occidentali ha un senso
profondissimo. In definitiva, a me interessa la contaminazione, ma solo quando c’è consapevolezza di
ciò che si incontra, della sua cultura e della sua memoria».
Fedele ricorda d’altronde Luciano Berio quando, già
negli anni Cinquanta, si riferiva a «un materiale comune, che è quello che usiamo, ma con obiettivi e
forme che possono essere molto diversi».
E continua: «Per evitare distinzioni che fossero troppo settoriali e discriminanti, si è fatta una confusione
ideologica; ma la musica non è una, le musiche sono
tante e possono servirsi degli stessi suoni. Ogni musica, peraltro, ha dignità e personalità, la diversità non
dovrebbe essere vista in maniera discriminatoria né
fare paura. Per me, anzi, la varietà di stili e orientamenti è molto bella». In ogni caso, dice ancora
Fedele, «eviterei ormai il termine contaminazione,
per usare piuttosto coniugazione o, meglio ancora,
fecondazione: questa fa pensare alla vita, contaminazione invece alla malattia e alla morte».
Il quadro che si compone è nel complesso molto
dinamico e apre orizzonti affascinanti. «Fino a una
decina d’anni fa», rammenta Guarnieri, «ascoltando
certe pagine si avevano dei sussulti, perché ancora
si operavano delle separazioni, delle identificazioni
rigide. Ora invece la percezione è svettata e sta avvenendo una sorta di osmosi linguistica; forse non
è ancora matura, ma la strada verso il sincretismo è
segnata. D’altronde siamo in un passaggio epocale
e la musica rispecchia la nostra società sempre più
globalizzata».
«Personalmente, questa caotica e dissacrante globalizzazione musicale mi esalta, purché sia di qualità»,
conclude De Rossi Re.
«Me ne rendo conto viaggiando in macchina. Programmo anche nello stesso viaggio un pezzo di musica popolare calabrese, poi un paio di Variazioni
Goldberg di Bach, una canzone di Mina e magari un
paio di Cantate di Alessandro Scarlatti… E arrivo a
destinazione».
musicalmente
11
IN COPERTINA
“SPORCARE” la MUSICA
un’arte senza tempo
Il percorso secolare della musica, che nel suo preteso progresso rettilineo
consideriamo colta, ha conosciuto singolari intrecci dove il basso
si è intriso con l’alto. Così Beethoven si ispira a un’aria triviale, Schumann
cita la Marsigliese e Bartok sfoggia una forte tensione nazionalistica
di Gian Paolo Minardi
«Ci furono, e ci sono ancora, malgrado i disordini che arreca la civilizzazione, dei popoli che appresero la musica come si impara a
respirare. Il loro Conservatorio è
il ritmo eterno del mare, il vento
fra le frasche…», così si esprimeva Debussy incantato dalla musica giavanese, che tuttavia sentiva
regolata da «un contrappunto
al confronto del quale quello di
Palestrina non è che un gioco da
bambini».
Se rievochiamo l’opinione di Berlioz, personaggio tutt’altro che
conformista, - «gli orientali chiamano musica ciò che noi chiamiamo baccano, e per loro, come per
le streghe del Macbeth, l’orribile è
il bello» - abbiamo la sensazione di
quale apertura d’orizzonti sia andata svelandosi in pochi decenni.
Non che il percorso secolare del12
musicalmente
la “nostra” musica, quella che nel
suo preteso progresso rettilineo
consideriamo “colta”, non abbia
conosciuto singolari intrecci dove
il “basso” si è intriso con l’“alto”.
I travestimenti spirituali di canti
popolari, spesso trasgressivi, che
hanno innervato la religiosità delle laudi, l’operazione di Lutero e
della Controriforma, le canzoni
popolari su cui è fiorita la nostra
emancipazione strumentale e
così più avanti fino a Beethoven
che in una delle sue ultime Sonate, la spirituale op. 110, dà rilievo
ad un’aria triviale, Ich bin liederlich, o gli echi della Marsigliese che
risuonano nello schumanniano
Faschingsschwank aus Wien per
riaffiorare nei debussyani Feux
d’artefice. Senza dire delle linfe
popolaresche di cui si nutrono le
varie “scuole nazionali”, lo stesso
Čaikovskij che nonostante l’accusa di esterofilia impregna le
sue partiture di melodie ucraine;
senza trascurare, nel suo famoso
Concerto per pianoforte, il ricordo di
quella canzoncina francese Il faut
s’amuser, danser et rire che il piccolo Čaikovskij sentiva cantare dai
fratelli, Modest e Anatol.
Sono certo indizi di quell’esigenza di nuova aria che diventerà
sempre più premente agli inizi
del novecento, l’istanza di libertà dai gorghi sempre più avvolgenti dell’eredità wagneriana.
Ecco allora la forza del primitivo, ritrovato come sorprendente
sfogo liberatorio, provocatorio
anche: Les demoiselles d’Avignon
di Picasso, sfida alle raffinatezze
dell’impressionismo; in musica la
forza panica, barbarica del Sacre
stravinskiano dove l’esaltazione
IN COPERTINA
del ritmo come energia primaria
viene rivissuta in realtà attraverso
un filtro sofisticatissimo, la poliritmia e la politonalità giocate con
diabolica abilità, aspetto questo
che è pressoché inseparabile da
ogni esperienza avanguardistica,
a dire di una visione al quadrato
che sembra insita nell’idea stessa
di modernità.
Bisogno di autenticità, anche, cui
assolve lo sviluppo degli studi etnomusicologici: esemplare il ruolo di Bartok, spinto verso di essi
dalla forte tensione nazionalistica
che lo animava e che lo portò ad
intraprendere un’impresa enorme, nel censire sul campo tutto
un patrimonio di testimonianze
che costituivano le radici di una
civiltà.
Il rigore dello studioso rimarrà
tuttavia separato da quello del
compositore; rari i trapassi di quel
materiale folclorico nell’ambito
creativo, dove quel folclore rivive
– «folclore immaginario» si dirà –
come frutto d’invenzione, attivata
questa da un modo di rileggere la
storia, quella recente segnata da
Debussy che aveva «restaurato il
senso degli accordi», ma pure di
Beethoven «che ci ha rivelato la
forma progressiva, e di Bach che
ci ha introdotto definitivamente
alla trascendenza del contrappunto».
Ma altri venti sospingevano l’ansia
della modernità: «basta con le nuvole, le onde… Abbiamo bisogno
di una musica che se ne stia giù
sulla terra, una musica di tutti i
giorni» proclamava Cocteau, invito che troverà esaltante alimento,
nel clima del dopoguerra, nell’arrivo in Europa del jazz con le sue
poliritmie, le sue sincopi, i timbri
crudi, le sfiancanti dolcezze del
blues, una nuova energia di cui si
approprieranno, come nuovo pimento per la loro tavolozza, tanti
musicisti, dai “Sei” di Cocteau a
Stravinskij, a Hindemith e tanti
altri; una moda, indubbiamente, che lascerà tracce non occasionali, nell’allargare l’orizzonte
europeo: attraverso i filtri sottili,
enigmatici di Ravel che nel tardo Concerto in sol sembra riunire,
nel segno di una inconfessata sfida, tutti gli ingredienti: il sogno
apollineo mozartiano che rivive
nell’Adagio assai fiorito magicamente tra il pulsare dei due altri
movimenti, sempre nel segno di
quella leggerezza che manipola
più stili, memorie basche, disinvolture tonali, modi sprezzanti e
ritegni pudichi, eccitazioni jazzistiche, appunto, persino echi di
quel Gershwin al quale, com’è
noto, aveva negato il proprio insegnamento nella convinzione che
avrebbe finito per frenare quella
così naturale genialità che forse
lui stesso invidiava.
“Abbiamo bisogno
di una musica
che se ne stia giù
sulla terra, una musica
di tutti i giorni”
In apertura
Bela Bartók
con un grammofono
registra melodie popolari
cantate da contadini cechi
(1908). A lato, caricatura
di Beethoven
musicalmente
13
IN COPERTINA
Giovanni Sollima
artista ba-ROCK(o)
interpreti come Gidon Kremer,
Yo-Yo Ma e Mario Brunello, ma
anche Patti Smith, Vinicio Capossela, Edoardo Bennato ed Elisa, mentre non si contano le sue
collaborazioni ‘multimediali’ con
Carolyn Carson, Bob Wilson, Peter Greenaway. «In me convivono
da sempre due anime», racconta, «quella barocca, che respira
all’unisono con la storia e le stratificazioni del mio violoncello datato 1679, e quella più rockettara
di uomo che vive con intensità il
XXI secolo».
Sente appartenerle l’etichetta di
contaminatore?
«È una definizione che associo a
quel processo naturale di curiosità irrefrenabile, direi quasi patologica, che abita
in me sin da bambino Contaminare significa entrare in contatto con la molteplicità dei linguaggi, ma
anche dei mezzi e dei supporti del momento, fermo
restando che alla velocità di ricezione che caratterizza la tecnologia deve corrispondere un giusto e lento
tempo di elaborazione. In realtà, oggi, il nuovo corso della contaminazione è per me andare a ritroso
nelle radici dell’anima del mio violoncello, che ho
usato per avventure diverse. Ad averla vinta, però,
è sempre l’anima cantante di questo strumento che
può ridere, piangere, parlare con le corde moderne
“Contaminatore io? Direi piuttosto
un irrefrenabile curioso”. Così si racconta
l’eclettico violoncellista e compositore
di cui Tempo d’Orchestra propone “Alone”
di Anna Barina
Ha sviluppato sulle quattro corde virtuosismo d’esecutore e creatività di compositore. E per farlo ha compiuto anche azioni estreme come suonare un violoncello
di ghiaccio in un igloo a venti gradi sotto zero. Giovanni Sollima, classe 1962, palermitano, nato come
interprete classico, si è esibito al fianco di artisti come
Claudio Abbado, Riccardo Muti, Bruno Canino, Marta Argerich per poi intraprendere un’attività esecutiva e compositiva fondata sull’esplorazione di generi e
tradizioni diverse, con contaminazioni di rock e jazz,
di minimalismo anglosassone e musica etnica. Il risultato è uno stile inconfondibile, amato ed eseguito da
14
musicalmente
IN COPERTINA
in acciaio come con l’accordatura in
budello nudo, con Bach come con i
Nirvana».
Lei ha vissuto esperienze che attraversano anche altre arti, ad esempio la
danza contemporanea. Quali suggestioni ne ha ricavato?
«Ho scritto le musiche per una coreografia di Carolyn Carson alla Biennale di Venezia del 2001, ma anche per
altre compagnie di ballo e per il teatro. Sono state esperienze interessanti,
che hanno toccato parametri diversi
dell’interpretazione, anche se il diagramma espressivo di un movimento
di danza spesso ha la stessa dinamica
di quello di un’esecuzione musicale,
non solo sul piano gestuale, ma anche
su quello comunicativo e della respirazione. La partitura non era quindi solo suonata, ma
presente nella relazione spazio-temporale dello spettacolo».
“Contaminare” può essere un modo di attualizzare la
musica?
«Per me sì, e lo faccio da anni, anche se in Italia da
poco, di alternare in concerto brani classici e ibridazioni dalla letteratura rock. Se questo abbinamento
può sembrare un contrasto stridente, in realtà l’approccio è molto simile come affini sono i rapporti numerici e architettonici che stanno alla base. È
sorprendente come brani di epoche e stili diametral-
“Se non suonassi
non scriverei musica,
viceversa se non
componessi continuerei
a suonare
il violoncello”
Giovanni Sollima
(foto di Gian
Maria Musarra)
mente opposti possano talvolta specchiarsi e trovare
punti di contatto a prima vista invisibili: un’apparente
incompatibilità che crea un’unione fortissima. Questo accadeva anche in passato. Boccherini ad esempio,
nei suoi viaggi in Spagna e in Francia sperimenta altri
linguaggi portandoli sul violoncello. Unisce fandango
e zarzuela alla tradizione popolare italiana: nei suoi
quintetti c’è un’evocazione continua di elementi stilistici che l’accademismo poteva tenere lontani, invece
lui li ingloba e assimila tecniche nuove. Il suo contatto
con il popolare è l’equivalente di quello che oggi possiamo avere con una musica altra o un’altra cultura.
Ci sono, è vero, situazioni in cui questo accade per
ragioni di mercato o per il piacere di provocare, ma
non è il mio caso».
Un contatto con linguaggi altri che troveremo anche
in Alone, il suo brano che viene eseguito il 9 e il 10
marzo da Stefano Guarino.
«In questo lavoro ci sono echi dalla musica folk con
una ricerca sul suono del violoncello sperimentato
come voce umana e come strumento cantante attraverso tecniche di diverse tradizioni musicali. Ma non
c’è nulla di preorganizzato, mi interessava indagare
altre tecniche. Alone è nato nel 1999 da un paio di
illuminazioni in concerto, e l’ho suonato molte volte
dal vivo prima che prendesse forma sulla carta. L’ispirazione non è altro che una forma di composizione in
tempo reale, di progettualità estemporanea».
Come convivono Sollima interprete e Sollima compositore?
«Il rapporto è stretto, in entrambi i casi sono mosso
dalla stessa forma di curiosità che mi porta ad incamerare, anche solo sul piano dell’assimilazione passiva,
tutto ciò che mi circonda. E non necessariamente riferito alla musica, può essere un’immagine, un paesaggio, uno spazio, il sapore di un piatto particolare.
Non nascondo però che nel comporre è fondamentale il mio legame fortissimo con il violoncello e la sua
letteratura, quella ufficiale e quella nascosta. Se non
suonassi non scriverei musica, viceversa se non componessi continuerei a suonare il violoncello».
musicalmente
15
Tempo d’Orchestra ai tempi della crisi è una stagione costretta a ripensarsi in corso d’opera. Accade che
contributi promessi arrivino pesantemente decurtati, che sovvenzioni
ventilate non arrivino per nulla, che
realtà propense a sostenere l’attività
con convinzione escano, anche loro
malgrado, di scena. E allora non resta che correre a quei ripari a lungo
dilazionati nella vana speranza che
qualcosa ancora potesse evolvere diversamente. Ne deriva la scelta che la
direzione artistica si è trovata a dover
compiere a cartellone annunciato: la
sostituzione di un concerto in abbonamento e il conseguente
cambio di sede di un
altro. Così venerdì 2 marzo non si
darà l’occasione di ascoltare il violinista Marco Rizzi con l’Orchestra I
Pomeriggi Musicali al Teatro Sociale,
mentre il 9 marzo non si andrà nella
Sala Consiliare del Palazzo Comunale di Ostiglia. Annullato il primo
appuntamento, il secondo raddoppierà trasferendo, però, la propria
sede al Teatro Bibiena di Mantova,
così da accogliere gli abbonati della
serie Ostiglia – venerdì 9, come previsto e per i quali verrà predisposto un
Music bus gratuito – ma anche Amici
Sostenitori (sabato 10), Orfeo (sabato 10) e Apollo (venerdì 9). Coloro
che a inizio stagione sottoscrissero
tessere Prime Note potranno invece
accedere al concerto conclusivo della
stagione, con Fazil Say e l’Orchestra
da Camera di Mantova, in programma al Teatro Sociale di Mantova venerdì 13 aprile.
Variazioni e FUGA
(dalla CRISI)
16 musicalmente
Stefano Guarino al violoncello
I CONCERTI
DOPPIO SUONO
e magica alchimia
Nei secoli passati non era infrequente trovare muStefano Guarino combina
sicisti altamente versatili, in grado di suonare e di
comporre, di leggere la musica e di improvvisare,
fisicità del suono con ampiezza
di passare dagli strumenti a fiato a quelli a corda,
di sguardo. Ascoltare per credere,
di cantare in modo espressivo e con intonazione
impeccabile. Il Novecento, con la sua accentuata
in due serate
tendenza alle specializzazioni per lo più dovute a mutati fattori socioeconomici, ci ha abituati ad un panorama ben diverso, con scelte di
al Teatro Bibiena
campo che normalmente implicano molteplici rinunce. Ascoltare in
di Mantova venerdì 9
concerto un musicista come Stefano Guarino, rarissimo esempio di
virtuoso che possiede in pari grado la tecnica del violoncello e quele sabato 10 marzo
la del pianoforte (eloquenti i due diplomi di Conservatorio, con il
di Marco Bizzarini
Il concerto dell’ensemble
Vox Secreta, inizialmente
in programma sabato 11
febbraio e rinviato per
neve, sarà recuperato
sabato 31 marzo
(Auditorium di Suzzara,
ore 20.45)
massimo dei voti, in entrambe le discipline), dimostra come il talento
umano possa ancora svilupparsi ai massimi livelli in più direzioni.
Per fare un paragone con il mondo dello sport, essere in grado di suonare perfettamente il violoncello e il pianoforte è come per un atleta
vincere nei duecento metri piani e poi essere altrettanto competitivo
nel salto con l’asta. Ben pochi, oggi, accetterebbero la sfida di impegnarsi in due discipline così diverse. Eppure la versatilità, in musica
come in altri settori, non è solo un fenomeno raro, e come tale oggetto di stupore, ma anche qualcosa che offre indubbi vantaggi. Infatti,
al di là dell’oggettiva eccellenza tecnica che Guarino dimostra nello
strumento ad arco come in quello a tastiera, nelle sue interpretazioni
si nota una musicalità più completa di quella che potrebbe offrire,
nella maggior parte dei casi, un buon concertista specializzato in uno
solo dei due strumenti. Da un lato, quindi, si può assistere a spettacolari esecuzioni di pezzi notoriamente molto difficili, come il Mephisto
Walzer di Liszt o i tre Preludi di Gershwin per pianoforte, accanto alla
Suite di Cassadò e allo spettacolare Alone per violoncello solo di Giovanni Sollima; ma dall’altro lato – ed è l’aspetto più importante – si
vede in opera un’intelligenza musicale che ben comprende la musica di Liszt perché arricchita dall’esperienza violoncellistica, e che
valorizza i pezzi per violoncello solo perché corroborata dalla visione
armonica e formale propria dello strumento da tasto.
Ecco allora la fisicità del suono integrata dall’ampiezza dello sguardo, l’intensità del cantabile compenetrata dalla dimensione ritmica
e polifonica. Una lezione d’altri tempi, forse, ma proprio per questo
motivo anche di grande attualità.
CHI, DOVE E QUANDO
Stefano Guarino è volto noto al pubblico di Tempo d’Orchestra, che non di rado lo ha visto (e ascoltato) come primo violoncello dell’Orchestra da Camera di Mantova e che
ora - venerdì 9 (abbonati Ostiglia e Apollo) e sabato 10
marzo (abbonati Amici Sostenitori e Orfeo), al Teatro Bibiena (ore 20.45) - ha occasione di scoprirlo anche pianista.
Diplomato con il massimo dei voti in ambedue le discipline,
ha studiato con Sergio Torri, Piero Guarino, Piernarciso Masi,
Donna Magendanz, Mario Brunello, Enrico Dindo. Guarino è
vincitore in ambito solistico e cameristico, sia col pianoforte
che con il violoncello, di numerosi premi nazionali ed internazionali. European Union Youth Orchestra e Gustav Mahler
Jugendorchester, Camerata Academica Salzburg, Mahler
Chamber Orchestra, Lucerne Festival orchestra sono solo
alcune delle prestigiose collaborazioni che ne arricchiscono
il curriculum aristico.
musicalmente
17
I CONCERTI
L’arpista Isabelle Moretti e, in questa foto,
la suggestiva sala del Castello di Dachau
Il fascino che in molti producono il suono e l’estetica
dell’arpa è probabilmente da ricercare nelle parole di
un’interprete come Isabelle Moretti: «chi suona abbraccia l’arpa, instaura un rapporto intimo con lei, le
dita toccano direttamente la fonte sonora dando vita
a vibrazioni ed emozioni né troppo intime né troppo invadenti; nell’immaginario collettivo l’arpa è
associata a strumento degli dei e degli angeli, al re
Davide e a Orfeo, nella simbologia africana è lo
strumento che collega la terra al cielo».
Conosciuta fin dagli antichi Egizi,
l’arpa ha subito grandi trasformazioni lungo i secoli, dai 50 cm di altezza dell’arpa gotica ai 180 odierni, e la sua estensione di poco più
di tre ottave oggi conta sei ottave e
mezzo. Il problema maggiore che
si presentò con lo sviluppo della
scrittura musicale a cavallo tra il
XVI e il XVII secolo consisteva
nell’avere uno strumento diatonico, cioè che non permetteva di
suonare passaggi cromatici, così si
cominciò ad intervenire.
Dapprima con l’arpa doppia, formata da due cordiere: nella prima
erano disposti i suoni naturali,
nella seconda i diesis e i bemolle.
Era però molto ingombrante e
di Arabella Cortese
scomoda e cadde in disuso.
Lo STRUMENTO
di angeli e dei
L’arpa ha subito nella storia grandi trasformazioni.
Di pari passo si sono evolute le composizioni a essa
dedicate tra cui spiccano le opere di Parish-Alvars
e Debussy proposte da Isabelle Moretti
18
musicalmente
I CONCERTI
“Suonando si abbraccia
l’arpa, s’instaura un
rapporto intimo con lei,
le dita toccano la fonte
sonora dando vita
a vibrazioni ed emozioni
“Nell’immaginario
collettivo è associata
al re Davide e a Orfeo,
nella simbologia africana
è lo strumento che
collega la terra al cielo”
Grazie a Jacob Hochbrucker, nel 1720 iniziò la vera rivoluzione dell’arpa: egli realizzò il primo meccanismo a pedali. Il sistema non era ancora
preciso, la corda infatti veniva tirata dal gancio (crochet) uscendo però dal
piano delle altre corde e spesso succedeva che era troppo o troppo poco
stretta e si rompeva oppure la vacillazione del punto di attacco dava al
suono una cattiva qualità. È grazie a Sébastien Érard, già noto per i suoi
pianoforti, che i ganci furono sostituiti da fourchettes (forchette), ovvero
dischi in ottone con due bottoni sporgenti entro i quali passa ciascuna
delle 47 corde che vengono accorciate in modo preciso attraverso un
movimento di rotazione. I pedali sono sette, ognuno di essi corrisponde
a una delle sette note. Azionando questi pedali a doppio movimento,
l’esecutore è in grado di alzare o abbassare l’intonazione di ciascuna
nota, rendendo finalmente possibile suonare in tutte le tonalità ed eseguire le alterazioni. Siamo nel 1811.
Da qui la letteratura arpistica conobbe una strada in discesa e numerosi
furono i virtuosi e i compositori che si dedicarono a questo strumento
affascinante. Tra di essi va ricordato Elias Parish Alvars, che ascolteremo a
Quistello il prossimo 16 marzo, considerato il Liszt e il Paganini dell’arpa,
musicista e compositore stimato da Czerny, Mendelssohn, Berlioz e dallo
stesso Liszt. Alvars sviluppò nell’arpa moderna Erard nuove tecniche quali accordi glissati, effetti enarmonici, étouffées, note suonate alle estremità
della cordiera, tecnica “a 3 mani”.
Sarà la Moretti a introdurci nella musica coinvolgente e intensa di Alvars
col suo suono caldo, passionale, malinconico, deciso e ben sgranato nei
passaggi virtuosistici, nondimeno che in quella di un altro nome che non
ha bisogno di presentazioni, ossia di Claude Debussy con le Danses sacrée
et profane, esotiche, brillanti e ricche di effetti.
DA QUISTELLO A DACHAU
Isabelle Moretti è una delle interpreti più
accreditate e seducenti del mondo musicale di oggi. La sua arte nobile e raggiante
e il suo temperamento l’hanno portata
alla vittoria di numerosi premi (Concorsi Internazionali di Ginevra, Monaco e
Israele) e ad essere ospite in grandi sale
da concerto sia con importanti orchestre,
tra cui l’Ensemble Orchestral di Parigi, la
Israel Philharmonic Orchestra, la Symphonieorchester des Bayerischer Rundfunks,
la National Simphonie di Varsavia, che in
formazioni cameristiche, alla cui musica
è molto affezionata. Il suo repertorio
abbraccia la produzione musicale dal XVIII
secolo fino a creazioni contemporanee
eseguite in prima assoluta. Numerose e di
successo sono le incisioni discografiche.
Nella sua prima collaborazione con l’Orchestra da Camera di Mantova, venerdì 16
marzo (ore 20.45) inaugura il Teatro Lux di
Quistello quale sede della manifestazione
Tempo d’Orchestra. Un mese o poco più
e il sodalizio debutterà sulla scena internazionale con un concerto in programma
sabato 21 aprile nel Castello di Dachau
(Germania). In programma anche musiche
di Haydn, Elgar e Mendelssohn.
musicalmente
19
I CONCERTI
“MADAMA DoRe, LE TANTE RAGIONI DI UN SUCCESSO”
Madama DoRe oltre le più rosee aspetta-
tive. Il pubblico ha risposto numerosissimo, gli abbonati sono stati davvero tanti
e il teatro si è sempre presentato gremito.
L’iniziativa ha saputo conquistare persino
il pubblico dei quarantenni, per la classica
arduo da raggiungere. Da dietro le quinte
bilancio, dunque, pienamente positivo.
Dal palcoscenico? La parola a Giovanni
Bietti, comunicatore e musicista protagonista di tre su cinque degli appuntamenti
in cui si è articolata la prima edizione
della rassegna.
«Direi altrettanto positivo, e del resto
il palcoscenico dipende direttamente
dalla sala, chi suona musica dal vivo deve
interagire con chi ascolta. Il pubblico era
vivace e curioso, e questo aiuta, sia a
parlare che a suonare».
Il segreto di questo successo?
«Cominciamo dai quarantenni, qui così
numerosi: questi spettacoli hanno un’aura
meno “sacrale”, non c’è problema se si
tossisce o se un bambino parla durante l’esecuzione; in più la musica viene
spiegata, si è accompagnati e non lasciati
Goethe la definiva «una raffinata conversazione attraverso i suoni»: è la musica da camera, genere a cui è
dedicato il quinto ed ultimo appuntamento (in programma domenica 18 marzo al Teatro Bibiena di Mantova) di Madama DoRe - Musica Formato Famiglia, rassegna di concerti della domenica mattina che concorre alla definizione del diciannovesimo cartellone della stagione concertistica dell’Orchestra da Camera di
Mantova, Tempo d’Orchestra 2011/2012.
Il titolo di questo incontro, Quando la musica si fa piccina, si riferisce alle particolari caratteristiche della musica da camera: scritta per ambienti piccoli e raccolti,
molto spesso per il piacere di fare musica in famiglia
(una pratica che tutti noi, musicisti e non, rimpiangiamo molto!).
La musica da camera è quindi da sempre più intima,
meno estroversa nel carattere rispetto all’opera o alla
musica sinfonica; ma tale minore spettacolarità è compensata dalla ricchezza, dalla complessità dei
dettagli, dallo spirito di ricerca che la anima.
Una legge dell’arte (non scritta) ci dice infatti
che maggiore è il numero di persone che devono usufruire dell’opera d’arte, minore dovrà
essere la complessità, la ricchezza di dettagli e
di sfumature: e scrivendo per un uditorio raccolto il compositore può quindi “guardare negli occhi” il suo ascoltatore, confidargli segreti
più misteriosi, svelargli bellezze più nascoste. In
alcuni casi un brano musicale può addirittura
essere composto senza avere in mente un pubblico: esso è destinato al singolo individuo, va
suonato, meditato, risuonato e rimeditato nella
quiete della propria stanza.
Immaginate che Beethoven, scrivendo al proprio editore per proporgli l’acquisto di un nuovo
Quartetto per archi (l’op. 95, una delle sue miniature più squisite e complesse) diceva che «il Quartetto è scritto per una limitata cerchia di intenditori,
e non dovrà mai essere eseguito in pubblico»! Per
nostra fortuna i musicisti non hanno seguito la sua
indicazione…
L’incontro, che coordinerò e condurrò domenica 18
20
musicalmente
da soli al cospetto delle note. Logico che
una generazione che ha un po’ “saltato”
l’esperienza della musica dal vivo, si
senta meno a disagio. Inoltre credo che
siamo tutti un po’ più consapevoli, giorno
dopo giorno, di quanto ai nostri figli non
siano oggi offerti strumenti adeguati di
crescita e di conoscenza. Credo quindi
che occasioni come Madama DoRe, che
tra l’altro è molto accessibile anche dal
punto di vista economico, siano sentite
come importanti e necessarie. Finalmente». (v.p.)
Piccola GRANDE
musica da camera
Goethe la definì “una raffinata
conversazione tra suoni”. L’ultimo
dei 5 concerti per il pubblico delle
famiglie la elegge a protagonista
di Giovanni Bietti
puntando a mostrare al pubblico
le caratteristiche
dei brani eseguiti
per andare a scoprirne i segreti,
è affidato agli allievi del prestigioso Corso di perfezionamento in
musica da cameAMadama DoRe,
ra dell’Accademia
quarto atto
Nazionale di Santa Cecilia di Roma
(Raffaele Fuccilli, violino, Samuele Danese, viola, Luca Russo Rossi, violoncello, Patrizia Salvini, pianoforte,
Giuseppe Rossi, pianoforte). Tra i brani in programma ci sono alcuni dei massimi capolavori cameristici di
ogni tempo: la Sonata per violino e pianoforte di Maurice
Ravel, il Trio “Gli spettri” di Ludwig van Beethoven, il
Trio “Racconti di fiaba” di Schumann ed il Quartetto per
pianoforte e archi op. 25 di Johannes Brahms.
NOTE ALL’ASCOLTO
a cura di Andrea Zaniboni
Stefano
Guarino
Mantova | Teatro Bibiena
Venerdì 9 marzo 2012, ore 20.45
(abbonati Ostiglia e Apollo)
Sabato 10 marzo 2012, ore 20.45
(abbonati Amici, Orfeo, Ouverture)
G. Cassadò, Suite per violoncello
F. Liszt, Méphisto Walzer per pianoforte
N. Paganini, Capricci op.1 n.14, 16,
19 per violoncello (trasc. Luigi Silva)
G. Gershwin, Tre preludi per pianoforte
“Rhapsody in Blue”, per pianoforte solo
(rielaborazione S.Guarino
G. Sollima, “Alone” per violoncello
violoncello solo e pianoforte solo
INSERTO ESTRAIBILE
Gaspar Cassadò, nato a Barcellona nel
1897, studiò violoncello a Parigi con il
suo compatriota Pablo Casals. Iniziò la
sua brillante carriera nel 1918, diventando uno dei solisti più apprezzati del
suo tempo. Morì a Madrid nel 1966.
Come compositore fu fortemente influenzato a Parigi dai suoi contemporanei Maurice Ravel e Manuel de
Falla. La sua Suite per violoncello contiene la più caratteristica delle danze
catalane, la “Sardana”.
Le forti soggettività creative dei due
autori ottocenteschi in programma
inaugurano il virtuosismo trascendentale. Niccolò Paganini (1782-1840) agisce al principio dell’Ottocento da catalizzatore di un nuovo pubblico e di un
nuovo modo di intendere il rapporto
con la creazione e la comunicazione.
Ed è proprio l’ungherese-tedesco Liszt
(1811-1886) a Parigi, insieme a Chopin, ad assumere dal virtuoso italiano
il nuovo look del musicista, trasferendo sul pianoforte la ricerca tecnica ed
espressiva fiorita sul violino. Ed il demoniaco lì apparso passa nella pagina
lisztiana ispirata alle liriche del Faust
di Lenau: la Danza all’osteria del villaggio, mefistofelico invito al piacere, appartiene alle più profetiche intuizioni
della maturità del compositore, preannunciando esiti linguistici novecenteschi. Dal violino del genovese, Luigi
Silva ha trascritto invece i Capricci: in
programma tre dei ventiquattro prodigiosi esperimenti, in un gioco d’azzardo che non può non tentare, nel
confronto con una costellazione di
emblematici pezzi di bravura.
George Gershwin (1898-1937) è stato
un compositore, pianista e direttore
d’orchestra statunitense. La sua opera spazia dalla musica classica al jazz.
È considerato l’iniziatore del musi-
Gershwin
cal americano e le sue composizioni
sono la chiara testimonianza dell’entrata degli Stati Uniti nel panorama
della grande musica internazionale.
Fu Paul Whiteman, uno dei premièr
più importanti dell’epoca, a commissionare a Gershwin una “canzone” di
jazz sinfonico da eseguire all’Aeolian
Hall di New York. Era il 1924, e, si dice
in meno di tre settimane, egli riuscì a
comporre il suo lavoro più apprezzato: Rhapsody in Blue, per pianoforte
e orchestra ovvero una composizione
classica che combina cinque melodie
differenti e alterna il classicismo al
jazz. La Rapsodia in Blu (le cosiddette
“blue notes” erano la terza e la settima della scala jazz) è tuttora uno dei
pezzi più eseguiti dai pianisti e dalle
orchestre di tutto il mondo. I tre Preludi sono del 1926, altra chiara espressione della sua principale innovazione
compositiva: la combinazione dei tipici elementi classici (ad esempio perfezione nello stile, rigidezza dello schema) con i ritmi e le melodie jazz che
erano già fortemente radicate nella
musica nera americana.
Palermitano, nato nel 1962, Giovanni
Sollima (si veda l’intervista a pag. 14,
ndr) è oggi uno dei talenti più origina-
li ed eclettici del panorama musicale
contemporaneo. Figlio di una famiglia
di musicisti, il padre anch’egli compositore di indubbia maestria, si diploma
al Conservatorio della sua città, per poi
perfezionarsi alla Musikhochschule di
Stoccarda, allievo di maestri quali Antonio Janigro per il violoncello e Milko
Kelemen per la composizione. La sua
innata e vivace curiosità lo porta ancora giovanissimo a scoprire e sperimentare sonorità sempre nuove, a cercare
nella mescolanza dei generi più disparati, dal rock al jazz, dal minimalismo
anglosassone alla musica popolare della Sicilia, con l’occhio creativo fisso su
etnie lontane, ma spiritualmente affini
alla sua terra, come l’Africa, il Medio
Oriente e l’India. Il tempo e il talento
gli permettono sì di affermarsi come
solista, ma soprattutto come compositore, dimostrando uno stile marcato e
multiforme, fatto di esperienze e culture raccolte dal mondo, confermandosi in una sempre più manifesta idea
di musica globale.
La solitudine esistenziale è l’espressione primaria del brano per violoncello
solo Alone, composizione di particolare
e rara bellezza per la sua alternanza di
momenti statici di intimismo e di guizzi di virtuosismo pirotecnico.
musicalmente
21
m
NOTE ALL’ASCOLTO
Orchestra da Camera
di Mantova
Isabelle MORETTI, arpa
Fra il 1821 e il 1823, anni durante i
quali Mendelssohn si dedicò alle sue
prime sinfonie per archi, egli era un
ragazzino adolescente di notevole natura. Si diceva che egli possedesse il
segreto di amalgamare due nature
contrapposte: «quella di un bambino pieno di vita e di felicità e quella
di un artista già maturo che sa quello
che fa», secondo la testimonianza di
un conoscente. Le dodici Sinfonie per
archi – per molto tempo rimaste quasi sconosciute, e pubblicate soltanto
negli anni Sessanta del Novecento –
esprimono in qualche modo il clima
di maturazione e ricerca del giovane,
precoce maestro: un clima esplicito
nelle svariate soluzioni formali che
vi si ritrovano e nella compresenza di
influenze diverse, nel caso della Decima Sinfonia richiamate, secondo il
parere del musicologo Eric Werner,
a Gluck e Dussek e cioè ad esperienze trascorse o in via di esaurimento,
benché illustri.
Pagine comunque esemplari di un
genio in formazione che andava predisponendo, con metodico studio ed
intuito formidabile, l’ingresso nel
mondo della grande sinfonia, che
non a caso sarebbe avvenuto di lì a
poco.
Le due Danses per arpa e archi, brevi pagine debussiane, si dovettero
alla commissione della casa Pleyel,
la famosa azienda costruttrice di pianoforti. In particolare a Debussy fu
richiesto di stendere un lavoro destinato ad un nuovo strumento ideato
da Gustave Lyon, direttore della “Manufacture” francese e notevole ingegno di inventore e studioso: si trattava
dell’arpa “cromatica”, concorrenziale
con l’arpa “diatonica” di Erard, una
novità realizzata un decennio prima,
nel 1894, che nell’intento dell’inven-
22
musicalmente
Quistello | Teatro Lux
Venerdì 16 marzo 2012
ore 20.45
E. Elgar, Serenata per archi op.20
E. Parish-Alvars, Concertino in mi min. per arpa
e orchestra d’archi op.34
C. Debussy, Danse sacrée et Danse profane per arpa e archi
F. Mendelssohn-Bartholdy, Sinfonia n.10 in si minore per archi
tore e del costruttore avrebbe dovuto
risolvere i problemi esecutivi senza la
necessità dei pedali.
Tuttavia, caduta disgraziatamente in
disuso l’arpa cromatica, le due pagine debussiane sfruttano pienamente, oggi, le caratteristiche tecniche e
timbriche dello strumento moderno
realizzando mirabilmente le minute
intenzioni compositive e la raffinata
ricerca timbrica che ne costituisce
spina dorsale.
Le due pagine, da eseguirsi concatenate, hanno per titolo Danse sacrée e
Danse profane: due facce contrastanti,
ma entrambe suggestive, di un’ispirazione delicatamente arcaica. Le Danses vennero eseguite per la prima volta il 6 novembre del 1904 a Parigi.
«Quest’uomo è un mago. Nelle sue
mani l’arpa diventa una sirena, con
l’amabile collo inclinato ed i capelli
selvaggi e fluenti, mossi dal suo appassionato abbraccio che pronuncia
la musica di un altro mondo».
Così diceva Hector Berlioz di Elias
Parish Alvars, un musicista che non
troverete facilmente citato dagli studiosi nei libri di storia, mentre invece è noto a chi approfondisce la letteratura per arpa. Un caso come ve ne
sono altri: la musica entra in qualche
compartimento stagno e vi rimane.
Parish Alvars (1808-1849) fu, come si
può intuire, un arpista di grande vaglia: la sua produzione risente fortemente della formazione strumentale
e dunque abbonda proprio in quel
settore. Pagine solistiche, cameristiche e con orchestra compongono
la quasi interezza del suo catalogo,
pubblicato da case di solida tradizione. Egli nacque in Inghilterra, ma
divenne presto un artista europeo,
trovando la stima di Berlioz che lo
considerava, letteralmente, il «Liszt
dell’arpa».
Il Concertino in mi minore, per arpa
e orchestra (o arpa e quartetto d’archi) è una delle sue pagine tipiche:
amabilità e virtuosismo, aristocratica
liricità e varietà di scrittura convivono in serena e convincente armonia.
Il lavoro fu pubblicato a Vienna nel
1838 dall’editore d’origine italiana
Mechetti.
A chi esamina il catalogo di Edward
Elgar non sfugge il fatto che praticamente tutta la produzione che gli
diede fama a partire dagli ultimi anni
dell’Ottocento, è opera della maturità. Del 1899 (Elgar aveva già 42 anni)
sono le celebri Variazioni Enigma, del
1908 la sua Prima Sinfonia, del 1910
il Concerto per violino commissionatogli da Fritz Kreisler. In sostanza il maestro inglese ricevette riconoscimenti nazionali ed internazionali soltanto
tardi, e del resto la sua formazione e
gli inizi della carriera non seguirono
tappe classiche e progressive.
La Serenata op.20 per soli archi è una
delle sue prime opere universalmente conosciute. Sebbene sia un lavoro
di piccole proporzioni, s’impone per
chiarezza e charme, giocando fra contenuta, vellutata brillantezza e nobile
intimismo. Le origini di questo lavoro vengono fatte risalire ad una suite
per archi presentata nel 1888, ma la
Serenata apparve, nella sua interezza,
soltanto nel 1896 ad Anversa, in Belgio, intrecciando mirabilmente naturalezza ed intensità di eloquio.
Stampata nel 1893, realizzata anche
in una trascrizione per duo pianistico, la Serenata fu un lavoro che Elgar
non cessò mai di apprezzare, anche
decenni dopo, quando i numeri della
sua produzione divennero consistenti, al punto di inserirla nell’ultima
delle sue registrazioni discografiche
con la London Philharmonic Orchestra nell’agosto del 1933.
Gonzaga | Teatro Comunale
Martedì 27 marzo 2012
ore 20.45
J. Brahms, Quartetto in do minore
per pianoforte e archi op. 60
F. Schubert, Quintetto in la maggiore
per pianoforte e archi D. 667 “La trota”
Pubblicato tardivamente, nel 1875,
dall’editore Simrock di Berlino, il
Quartetto in do minore, terzo ed ultimo della serie di Brahms, in realtà
rigenera materiali giovanili, risalenti,
pare, almeno al 1856, anno cruciale
segnato dall morte precoce dell’amico Robert Schumann.
Fu una partitura che si definì per tappe, attraverso uno di quegli interminabili processi di maturazione caratteristici di Brahms; tuttavia raggiunse
esiti altissimi, di grande equilibrio tra
essenzialità di scrittura ed eloquenza
espressiva. L’atmosfera predominante è tesa, drammatica, dolorosamente
intensa.
Lo stesso Brahms in più occasioni
ebbe a segnalare l’analogia di caratteri
tra la sua musica e il romanzo goethiano I dolori del giovane Werther (1774),
dove si narra l’amore impossibile di
un giovane per una donna sentimentalmente già impegnata, concluso con
il suicidio: non difficile ravvisarvi un
riferimento a Clara Schumann.
I movimenti di questo Quartetto, vibrante di emozioni, sono quattro: un
Allegro non troppo, cupo e ansimante, uno Scherzo-Allegro, di incontenibile vigore, quindi un Andante in mi
maggiore, lieve e teneramente affettuoso, di contrasto, e un Finale-Allegro comodo in forma-sonata, dal tono
ora appassionato ora tormentato da
un’angoscia che si stempera nella serenità della conclusione.
La prima esecuzione di quest’opera
risale al 1876.
«21 febbraio 1818, verso mezzanotte. Amico carissimo, sono felice che i
miei lieder siano piaciuti a te e a tuo
fratello. Ve ne invio un altro che ho
terminato di comporre a mezzanotte.
Mi auguro di meglio celebrare la nostra amicizia davanti ad un buon bic-
Solisti della Mahler
Chamber Orchestra
Alexander MELNIKOV, pianoforte
chiere di punch». Quell’ultimo Lied
che il ventunenne Schubert dedicava
al compagno di studi di qualche anno
più anziano, Anselm Hüttenbrenner,
era Die Forelle (La trota, poesia del tedesco Christina Schubart, scomparso poco meno di trent’anni prima)
una pagina che cantava l’innocenza
e il dramma, il tradimento della natura ad opera dell’uomo, originando
da una linea di canto quasi banale
nella sua semplicità. Quel canto candido e struggente avrebbe poi dato
origine un anno dopo, con una mutazione di tonalità (dall’originario re
bemolle maggiore, a re maggiore) al
quarto movimento, in forma di variazioni, del Quintetto in la maggiore, lavoro ben più complesso ed esteso, ma
confortato da una gioiosità solare. Il
Quintetto, che accanto al pianoforte
pone un singolare quartetto d’archi
costituito da violino, viola, violoncello
e contrabbasso, vide la luce nell’estate del 1819 a Steyr, piccola cittadina
dell’Alta Austria, su commissione del
violoncellista dilettante nonché mecenate Sylvester Paumgartner: vi è perseguito, pur fra le increspature e le
sfumature della sensibilità schubertiana, un ideale di serenità che si rivela
anche nella mancanza di antagonismi
strumentali, nella rinuncia totale ad
una scrittura spettacolare (pur se le
difficoltà esecutive appaiono tutt’altro che modeste): dall’Allegro vivace
iniziale, d’un’eleganza estroversa al
colloquiale Andante, sfiorato da ombre drammatiche; dallo spumeggiante Scherzo alle cinque variazioni sul
tema liederistico, al lieto, sorridente,
giocoso Finale di coinvolgente brillantezza.
Si svela così un clima di familiarità
con le altezze siderali della bellezza,
che lascia sbigottiti, illudendoci – nel
gioco dell’immediatezza comunicati-
Brahms
Schubert
va – di poterne essere tutti attori.
Ma, per dirlo con una frase di Thomas Mann «è la grandezza che s’intenerisce su ciò che è piccolo».
musicalmente
23
m
NOTE ALL’ASCOLTO
Orchestra da
Camera di Mantova
Fazil SAY, pianoforte
Philippe von STEINAECKER, direttore
Approdato al servizio dei principi
Esterházy nel 1761, Joseph Haydn vi
rimase alcuni decenni lasciando vasta
testimonianza di sé e della sua evoluzione di musicista. Basti dire che la quasi
intera produzione sinfonica si riferisce
a questa lunga e fortunata stagione produttiva, fertile per molti generi diversi:
dalla cameristica all’opera, dalle pagine
sacre a quelle d’intrattenimento.
La Sinfonia n.48, che viene collocata dal
Dalla Croce nel “periodo romantico” di
Haydn, e dal Robbins Landon inserita
fra quelle “estroverse” in do maggiore
con ottoni e timpani obbedisce ad entrambe queste coordinate: da un lato
assolve perfettamente ai suoi obblighi
di rappresentanza, con tono celebrativo, abbondanza di tinte luminose, chiarezza di eloquio; dall’altro evidenzia
nei suoi quattro movimenti un approfondimento espressivo che arricchisce
le formule del linguaggio di sfumature
patetiche o drammatiche, come di esuberanza festosa.
Il titolo “Maria Theresia” aggiunto a
questa partitura si deve all’ipotesi a
lungo sostenuta, ma più recentemente
dubitativa, che il lavoro fosse stato presentato nell’occasione della importante
visita, durata tre giornate, dell’imperatrice ad Esterháza, nel settembre del
1773. In ogni caso, il ritrovamento di un
manoscritto della Sinfonia, datato 1769,
ha escluso che la composizione sia nata
per l’occasione.
Come è noto, fra il 1929 ed il 1931 Ravel diede corpo ad entrambi i concerti
per pianoforte e orchestra che figurano
nel suo catalogo. Il pensiero di Ravel
al riguardo dei concerti “gemelli” lo si
trova esposto in un’intervista pubblicata
sul Daily Telegraph, dove in particolare
riferimento a quello in Sol maggiore
egli dice che “è un Concerto nel senso più
preciso della parola, scritto nello spirito di
quelli di Mozart o di Saint-Saëns. Io penso
24
musicalmente
effettivamente che la musica di un Concerto
possa essere gaia o brillante e che non sia necessario protenda alla profondità o miri ad
effetti drammatici. (…) Al principio avevo
avuto l’intenzione d’intitolare la mia opera
Divertissement, poi ho pensato che non ce ne
fosse bisogno, ritenendo il titolo di Concerto
sufficientemente esplicito per ciò che riguarda
il carattere della musica di cui essa è formata. Da certi punti di vista il mio Concerto
dimostra qualche relazione con la mia Sonata per violino e pianoforte: contiene alcuni
elementi tratti dal jazz, ma con moderazione”. Ravel stesso diresse la “prima”, con
al pianoforte la fidata Marguerite Long,
nel gennaio del 1932 a Parigi. Sarebbe
stato il primo di una serie interminabile
di successi, tuttora inconclusa.
«L’Incompiuta – ha scritto Paolo Petazzi
con efficacia – ci conduce al cuore della
poetica schubertiana, al suo nucleo di
desolazione e confidenza con la morte,
tra vagheggiamenti del sogno e della
memoria e lo schiudersi improvviso di
angoscianti abissi». Su una tale lettura
della celeberrima sinfonia schubertiana
gli studiosi sono in generale tutti d’accordo. La “Incompiuta” rappresenta uno
dei riusciti tentativi, da parte del suo
ancor giovane autore che all’epoca, nel
1822, non contava che venticinque anni,
di esporre una via alternativa a quella
maestra indicata da Beethoven: risolvendo i problemi attinenti ad una grande forma (la sinfonia, appunto) con lo
sfruttamento di elementi tematici poeticamente autosufficienti, non progettati
espressamente per vaste architetture formali. Donata da Schubert all’amico musicista Anselm Hüttenbrenner (due soli
movimenti, più un terzo iniziato e non
completato) questa sinfonia fu conservata con eccessiva segretezza fino al 1860;
soltanto alla fine del 1865 se ne ebbe la
prima esecuzione pubblica alla Gesellschaft der Musikfreunde di Vienna con
la direzione di Johann von Herbeck.
Mantova | Teatro Sociale
Venerdì 13 aprile 2012
ore 20.45
F. J. Haydn, Sinfonia n. 48
in do maggiore “Maria Theresia”
M. Ravel, Concerto in sol
per pianoforte e orchestra
F. Schubert, Sinfonia n.8
in si minore D. 759 “Incompiuta”
F. Mendelssohn-Bartholdy, Le Ebridi.
Ouverture op.26
Mendelssohn
Fra le quasi cinquecento isole che affollano l’Atlantico ad occidente della costa
scozzese, le Ebridi, si trova la piccola
Isola di Staffa, disabitata ma famosa per
la grotta che si apre sul mare tra alte colonne di basalto, grotta intitolata all’antico eroe irlandese Fingal, protagonista
di un celebre poema apparso nella seconda metà del Settecento e falsamente attribuito ad Ossian (suo figlio) per
cura di James Mac Pherson. La scoperta
della grotta avvenne in quegli stessi anni
(1772), e l’atmosfera cupa e grandiosa
del poema, suscitante grandi passioni,
diede un’impronta avventurosa al luogo, che non mancò di affascinare molti
illustri viaggiatori tra cui Mendelssohn,
che lo visitò nell’estate del 1829.
La partitura de Le Ebridi, che ebbe prima esecuzione nel maggio del 1832 a
Londra, venne intesa dall’autore come
“Ouverture da concerto”, dunque come
lavoro perfettamente autonomo, seppure originato da un’intenzione descrittiva. L’Ouverture in realtà sembra fondere mirabilmente la solidità della forma
con lo spirito evocativo, continuamente
sospinta in avanti dalle meraviglie della
scrittura orchestrale, e perfettamente
trattenuta fra vasti scenari dipinti con
pochi elementi tematici d’intenso carattere, variamente trattati.
I CONCERTI
Ahss, Muthelet,
Pfiz e Murlali:
i Solisti della
Mahler
Cambio di programma per motivi di forza maggiore: la stagione
2011/2012 deve fare i conti con un inatteso forfait. «A causa di
un infortunio Louis Lortie ha dovuto cancellare tutti i suoi impegni fino a fine marzo, inclusi quindi purtroppo i concerti con i
Mahler Chamber Soloists», si legge in una note dell’agenzia rappresentante l’artista per l’Italia e giunta all’Orchestra da Camera
di Mantova solo la mattina di sabato 18 febbraio. «Il concerto può
essere tuttavia ripreso - garantisce la stessa agenzia - con Alexander
Melnikov ed il programma verrebbe solo parzialmente modificato,
diventando: Schubert, Quintetto La Trota D667; Brahms, Quartetto in
do minore».
E allora la programmazione di Tempo d’Orchestra prende atto. Lo fa,
certo, un po’ dispiaciuta: Lortie è un grande pianista, già in passato
ospite della stagione dell’Orchestra da Camera di Mantova, e in tanti attendevano certamente di riascoltarlo, a maggior ragione se in
un concerto di musica da camera - genere che lui ha più volte dichiarato di prediligere. Ma nel prendere atto e nell’augurare al
maestro la più pronta ripresa, insieme, Tempo d’Orchestra accoglie
con entusiasmo la prospettiva di
offrire al proprio pubblico un’occasione di scoperta di un altro
eccellente pianista, per la prima
volta a Mantova: quell’Alexander
Melnikov, che, insieme con i Solisti della Mahler Chamber Orchestra (Gregory Ahss, violino, Béatrice Muthelet, viola, Konstantin
Pfiz, violoncello, Burak Marlali,
contrabbasso) darà vita martedì
27 marzo, nell’accogliente Teatro Comunale di Gonzaga (ore
20.45), a una serata di raffinata
qualità. Programma e interpreti
autorizzano aspettative tra le più
di Valentina Pavesi
importanti.
Melnikov
(foto di Marco Borggreve)
Sostituzione
in zona CESARINI
A causa di un infortunio Loius Lortie cancella tutti
gli impegni del mese di marzo. Alexander Melnikov
al suo posto con i Solisti della Mahler Chamber
Orchestra martedì 27 al Comunale di Gonzaga
musicalmente
25
I CONCERTI
La notizia del forfait di Louis Lortie è giunta a due giorni dall’invio al centro stampa del presente numero di Musicalmente e con con un interessante ritratto dell’artista predisposto
dal nostro collaboratore Emanuele Battisti. Ringraziamo qui pubblicamente l’autore del
pezzo che, capiti imbarazzo e difficoltà con cui la redazione si trovava a fare i conti, non
solo ha accettato di buon grado la mancata pubblicazione, ma, in assenza di materiali ufficiali d’agenzia, cercando tra testi e Internet e trovando il tempo dove il tempo non c’era,
ha costruito per noi un nuovo ritratto. Quello di Melnikov, che vi apprestate a leggere.
ALEXANDER MELNIKOV
E il pianista prende il volo
Allievo del celebre Lev
Naumov, debutta come
solista a soli 12 anni.
Filologo appassionato,
quando non suona
pilota aerei
di Emanuele Battisti
Nato nel 1973, il moscovita Alexander Melnikov ha
iniziato lo studio del pianoforte all’età di sei anni,
per poi venir ammesso al Conservatorio della sua città, dove si è diplomato a 24 anni.
Ha avuto come principale insegnante il celebre Lev
Naumov, a sua volta discepolo del leggendario Heinrich Neuhaus. Il suo punto di riferimento artistico è
un’altra leggenda del pianismo sovietico, pure allievo di Neuhaus: Sviatoslav Richter.
Un ruolo pedagogico a sua volta molto importante è attribuibile al cembalista e fortepianista Andreas Staier, con cui ha studiato e
poi collaborato, e che lo ha guidato in direzione di un’esecuzione filologicamente avveduta del repertorio.
L’uscita relativamente tarda dal Conservatorio non tragga in inganno, la carriera internazionale di Melnikov è infatti cominciata ben
prima, all’età di 15 anni. A soli 12 anni la prima esperienza con orchestra, nel Primo Concerto di Rachmaninov.
Le prime affermazioni importanti risalgono
invece ai primi anni Novanta. La sua carriera è equamente distribuita tra attività solistica, con orchestra, e da camera.
L’incisione dell’integrale delle Sonate per pianoforte e violino di Beethoven con la violinista
Isabelle Faust gli ha fruttato, nel 2010, il premio della rivista Gramophone e l’Echo Klassik, oltre a far sì che venisse nominato per un
Grammy.
Come solista, è stato premiato, tra gli altri,
dalla BBC per la registrazione dei 24 Preludi e
Fuga di Shostakovich, opera che attualmente
sta eseguendo in concerto in Europa, America e Asia.
Melnikov con la
Una curiosità: la grande passione di Melniviolinista Isabelle
kov, nel tempo libero dalla musica, è l’aviazioFaust, con cui suona
abitualmente in duo
ne. Ha il brevetto di pilota privato.
26
musicalmente
I CONCERTI
Cesare Picco
(foto di Alberto Giuliani)
Il Novecento colto ci ha abituati a pensare alla figura del compositore come a una sorta di filosofo dei
suoni che plasma la materia sonora all’interno della propria mente, spesso lungi da un rapporto fisico con lo strumento. Da SchÖnberg a Boulez, fino
ad alcuni dei guru dell’avantgarde, il “secolo breve”
ha visto succedersi una serie di maestri del pensiero
per i quali dedicarsi alla pratica strumentale avrebbe significato probabilmente sporcarsi le mani con
qualcosa di alternativo alla creazione: la mera riproduzione fisica del suono. Faceva parziale eccezione
la figura del direttore-compositore (come Boulez,
appunto, o in parte Berio o Stockhausen), ma dirigere significava mettere mano al suono in maniera
indiretta, e da una posizione di leader intellettuale
indiscusso, poco incline ad agire direttamente sulla
materia: alla maniera del grande avo Gustav Mahler.
Eppure, questa preminenza dello spirito, non è forse un fatto prevalentemente novecentesco? È
vero, certamente, che nell’Ottocento Brahms
diceva che la migliore esecuzione di una sua
Sinfonia era quella che egli produceva nella
pura immaginazione, sfogliandone le pagine
prima di andare a dormire, ma nel contempo
portava avanti un’attività di pianista concertista
che lo obbligava al contatto quotidiano con la
tastiera, a quel “fare il suono” in prima persona
che in tutta la storia della musica sembra essere stato una costante dei massimi compositori.
Johann Sebastian Bach, mitizzato dai cultori
della “musica delle sfere” e delle più astratte
geometrie, era altrettanto tastierista che compositore, tanto da proporre perfino duelli
all’organo. Venendo al pianoforte, il concertismo e la
pratica quotidiana erano costanti nella vita di Mozart
e Beethoven, così come di Saint-Saëns o di Rachmaninov. Il pianista-compositore per eccellenza, Franz
Liszt, costituì in realtà un caso speciale: rifiutando negli ultimi anni il lato mondano e frivolo dell’attività di
concertista osannato, e ritirandosi invece nella meditazione religiosa e nella composizione, egli fu un pre-
ESSERE o
non essere?
Si assiste a un prepotente ritorno
alla figura del pianista-compositore.
Per un rinnovato e fruttuoso
compenetrarsi di spirito e materia
di Luca Ciammarughi
Francesco Libetta
(foto di Fabiana Rossi)
cedente importante (e per certi versi pericoloso) di
una tendenza novecentesca a svalutare l’esecuzione
rispetto alla creazione. Il resto, lo ha fatto la spiccata
propensione del XX secolo alla specializzazione: da
un lato l’interprete, riproduttore del suono e medium
il più possibile oggettivo di un testo; dall’altro il compositore, creatore del suono e fautore dell’idea. Fortunatamente, la frattura non sempre si è verificata: la
musicalmente
27
I CONCERTI
TRIS D’ASSI
PER IL GRAN FINALE DI STAGIONE
La presenza di Fazil Say, giovane pianista
turco di vasta notorietà e di vivacissima,
singolare personalità che qui esegue il brillante Concerto di Ravel, costituisce uno
dei motivi di interesse della serata conclusiva della stagione Tempo d’Orchestra
2011/2012, affidata alla bacchetta emergente di Philipp von Steinaecker, già violoncellista della Mahler Chamber Orchestra
e dell’Orchestra del Festival di Lucerna ed
in tempi più recenti assistente direttore di
Gardiner, Harding, Rattle, Jurowski. L’Orchestra da Camera di Mantova, chiamata
ad una delle sue prove più impegnative, si
cimenta con una nuova Sinfonia di Haydn,
la n.48 “Maria Theresia”, gemma del periodo Sturm und Drang, e soprattutto con le
profondità dell’Incompiuta di Schubert,
uno dei più emozionanti capolavori del
viennese. L’evocativa ouverture Le Ebridi
di Mendelssohn, eco di un viaggio memorabile del compositore, chiude la ricca locandina. Appuntamento al Teatro Sociale
di Mantova, venerdì 13 aprile (ore 20.45).
Informazioni e prevendita biglietti: T. 0376
1961640,
[email protected],
www.ocmantova.com, www.vivaticket.it).
In alto
l’Orchestra da
Camera
di Mantova,
sotto a destra
Fazil Say
e a sinistra
Philipp von
Steinaecker
Oggi sono numeorsi
i pianisti di qualità che
come Say, Libetta,
Padova, Lorenzini o
Picco, creano e ricreano
Franz Liszt
figura del pianista-compositore sopravviveva grazie a
musicisti della portata di Leonard Bernstein, Francis
Poulenc o Nino Rota, che con la massima nonchalance continuavano a godere in prima persona della musica propria e altrui sentendo il suono sotto le proprie
dita. Non bisogna stupirsi, quindi, che il XXI secolo
sia iniziato proprio sotto il segno di un prepotente riemergere della figura del pianista-compositore: nulla
28
musicalmente
di nuovo - in realtà - sotto il sole, ma solo il perpetuarsi
di un antico e forse necessario contatto fra la spiritualità e la matericità del far musica. Questo fenomeno
spiega tra l’altro gli entusiasmi del pubblico per pianisti-compositori di qualità musicale molto discutibile:
come se l’importante fosse innanzitutto il ricongiungersi della dimensione mentale e fisica in un unicum.
Oggi che certi cerebralismi novecenteschi, per quanto
necessari, sono stati archiviati, possiamo guardare con
ammirazione a quei musicisti di alta qualità che non
si vergognano di creare e di ricreare (poiché anche
l’interpretazione è una creazione): pianisti come Fazil
Say, che di suo ci mette anche la divorante passione
per il jazz (intervista a pag. 8, ndr), o come gli italiani
Francesco Libetta, Andrea Padova, Danilo Lorenzini o
Cesare Picco. Per tutti loro, rimarrà il dilemma che ha
sempre accompagnato ogni musicista vero, quell’essere conteso fra spirito e materia, fra idealismo e fisicità,
che è però dilemma fra i più fruttuosi in tutta la storia
dell’umanità.
Domenica 8 gennaio 2012, ore 11, Grote Zaal,Concertgebouw, Amsterdam
Diario di bordo:
in VIAGGIO con l’Ocm
musicalmente
29
IN ORCHESTRA
a cura di Valentina Pavesi
Con antica,
italica
MAESTRIA
Da città d’acqua a città d’acqua.
Da Mantova ad Amsterdam.
Cronaca di un viaggio in musica
di Stefano Patuzzi
Un volo, si sa, non fa vivere lo spazio. Pagine e pagine sono state scritte da geografi acuti sul sottile straniamento generato da un balzo aereo da un luogo a
un altro. In auto, in moto, e giù giù fino al viaggio a
piedi, lo spazio lo vivi, lo percorri, lo osservi, lo gusti.
Cambia e muta a una velocità accettabile, comprensibile, e lo sforzo – se ti ascolti attentamente – è commisurato a quanto ne percorri.
In aria no. In aria si oltrepassano montagne torreggianti e innevate, si sorvolano laghi e fiumi e – quando non si sia avvolti da una bianca coltre di nubi,
segno tangibile del proprio momentaneo angelicarsi
– si possono persino scorgere città e villaggi in miniatura e intere regioni srotolarsi come in un film
accompagnato dal bordone monotono, a suo modo
piacevolmente ipnotico, del ronzio dei motori e del
rassicurante chiacchiericcio che satura la fusoliera. Di
ciò che accade là sotto, noi non abbiamo idea. Non
ci riguarda, in fondo. Un po’ come se, viaggiando ai
limiti delle leggi della fisica, ci guadagnassimo per
qualche ora un dolce, anestetico distacco dal mondo
terrestre, dalla nostra vita di laggiù, persino.
Può dunque succedere di partire da una piccola città d’acqua come Mantova e, con qualche passaggio
intermedio, atterrare poche ore dopo in una grande
città d’acqua come Amsterdam. Il volo dura poco, tutto sommato, e d’un balzo ci si ritrova in un mondo
diverso, dove suona una lingua diversa (e rocciosa, al
nostro melodioso orecchio neolatino, avvezzo a ben
30
musicalmente
altre, rotonde sonorità), in una cornice di consuetudini musicali simili eppur differenti rispetto a quelle
di partenza, senza averne avuto un sentore precedente, senza un preavviso di qualsiasi natura.
È quanto è accaduto all’Orchestra da Camera di Mantova lo scorso 7 gennaio, volando verso Amsterdam,
con meta ultima il tempio del Concertgebouw, sala
da concerto fra le più importanti al mondo per storia
e qualità, costruita a partire dal 1883. In programma,
domenica 8, per la diretta dell’emittente olandese
nazionale Radio4, il Concerto per violino e orchestra in
la maggiore KV 219 di Wolfgang Amadé Mozart per
l’archetto della violinista scozzese Nicola Benedetti;
poi la Sinfonia “Trauer” di Franz Joseph Haydn. Due
i bis, un movimento dall’Inverno delle Quattro stagioni
di Antonio Vivaldi e uno dalla Sinfonia “La casa del
diavolo” di Luigi Boccherini.
Un suono teso e terso, luminoso e preciso come un
laser eppure caldo, corposo promana dallo Stradivari della Benedetti, classe 1987 e figlia di padre italiano, che in Mozart dà oltretutto una lezione di storia,
come gli interpreti di razza non sanno non fare. Il
carattere della sua interpretazione nel concerto di
Amsterdam – così come quello dell’Orchestra da Camera di Mantova, del resto – è infatti intriso del Settecento europeo e delle prassi esecutive di quel periodo
e (cosa storicamente ovvia, meno ovvia in sede interpretativa) apparentemente inconsapevole di tutto
l’Ottocento che verrà. E poi la Benedetti parla assen-
IN ORCHESTRA
IN ATTESA DEL BIS NEL 2014
Oltre 2000 persone hanno assistito al
concerto dell’Orchestra da Camera di
Mantova con Nicola Benedetti, al Concertgebouw di Amsterdam: la meravigliosa Grote Zaal si presentava gremita in
ogni ordine di posti, allo scoccare delle
ore 11 di domenica 8 gennaio 2012.
All’entusiasmo del pubblico si sarebbe
presto unito il plauso degli organizzatori
L’Ocm in prova
poco prima
del concerto,
nella Grote Zaal
del Concertgebouw
di Amsterdam
Nicola Benedetti struttura
con l’Ocm un discorso
ben articolato, ricco di
nuances, con grande senso
del ritmo di declamazione,
in una cornice
di generale raffinatezza
natamente, attraverso il suo strumento, e
nel corso della sua performance struttura
insieme all’Ocm (che poi prosegue sola,
nella sinfonia, su questa stessa linea) un
discorso ben articolato, ricco di nuances,
con grande senso del ritmo di declamazione, in una cornice di generale raffinatezza. Un esempio di eccellente retorica
musicale insomma, non così frequente.
Dal canto suo l’Orchestra da Camera di
Mantova non solo sostiene e accompagna
in un ruolo di intelligente, discreto, signorile supporto ma – quando Mozart lo richiede – dialoga da
pari a pari, opponendo le proprie argomentazioni
sonore, confermando, esponendo con una compat-
che, in contatto con la direzione artistica
dell’Ocm, stanno ipotizzando a breve
– si parla del 2014 - un ritorno dell’Orchestra nel prestigioso auditorium di
Amsterdam. Il concerto, trasmesso in diretta radiofonica dall’emittente nazionale
Radio4 Olanda, è ascoltabile su Internet
al seguente link:
http://player.omroep.nl/?aflID=13637688
tezza esecutiva che gli olandesi sanno apprezzare e
che emerge con pari nitidezza anche in Haydn.
La standing ovation finale è una dichiarazione di consapevolezza, da parte di uno dei pubblici più esigenti
al mondo, figlio di una storia musicale e musicologica luminosissima: questa piccola orchestra, volata
ad Amsterdam partendo da una piccola città italiana,
non ha attraversato lo spazio alla leggera, portando
anzi in dono un’antica, italica maestria orchestrale
che, per sopravvivere, è costretta a lottare sotto un
cielo minacciato da spettrali, tristi nuvole nere.
L’Auditorium: programmatico il nome dato
alla prestigiosa sala di Amsterdam
musicalmente
31
IN ORCHESTRA
P
I PROSSIMI
CONCERTI DELL’OCM
Sabato 14 aprile 2012
Cremona, Teatro Ponchielli, ore 20.45
Venerdì 16 Marzo 2012
Quistello, Teatro Lux, ore 20.45
Orchestra da Camera di Mantova
Fazil Say, pianoforte
Musiche di F.J. Haydn, M. Ravel,
F. Schubert, F. Mendelssohn-Bartholdy
Venerdì 21 aprile 2012
Dachau, Castello, ore 20
Orchestra da Camera di Mantova
Isabelle Moretti, arpa
Musiche di F. Mendelssohn,
E. Parish-Alvars, C. Debussy, F.J. Haydn
Martedì 20 Marzo 2012
Pavia, Teatro Fraschini, ore 21.00
Giovedì 19 aprile 2012
Vicenza, Teatro Comunale, ore 20.45
Orchestra da Camera di Mantova
Viktoria Mullova, violino
Musiche di L.v. Beethoven, W.A. Mozart
Orchestra da Camera di Mantova
Kolja Blacher, violino
Musiche di L. v. Beethoven
«È l’Orchestra da Camera di Mantova a chiudere la
102esima stagione concertistica del Quartetto, così
come l’aveva aperta sei mesi fa assieme al pianoforte di
Lonquich. Lo strumento solista, questa volta, è il violino. Non un violino qualsiasi, ma lo Stradivari “Tritton”
del 1730 imbracciato da Kolja Blacher, musicista berlinese di fama mondiale entrato nella storia dei prestigiosi Berliner Philharmoniker per esserne stato il più
giovane Primo violino di tutti i tempi. Un concerto per
salutare la primavera sulle note di Ludwig van Beethoven».
Leggiamo e trascriviamo dal sito del Teatro Comunale
di Vicenza, in procinto d’affidare la scena, nell’ambito del cartellone 2011/2012 della gloriosa Società del
Quartetto, la sera del prossimo 19 aprile, agli artisti
menzionati.
Leggiamo e trascriviamo per raccontarvi della primavera 2012 dell’Orchestra da Camera di
Mantova, stagione che prevede anche altre due
tappe italiane e una oltreconfine, in Germania.
Martedì 20 marzo, si rinsalderà il sodalizio, lanciato con ottimi esiti lo scorso anno, con la violinista Viktoria Mullova. Il Concerto per violino e
orchestra di Beethoven e la Sinfonia “Jupiter” di
Mozart costituiranno i cardini del programma.
Sabato 14 aprile, invece, a Cremona (Teatro
Ponchielli), l’Ocm sarà in compagnia del pianista Fazil Say, per la seconda di due date che vedono gli artisti collaborare per la prima volta.
Quattro i capolavori in locandina: Sinfonia n.48
“Maria Theresia” di Haydn, Concerto in sol per pianoforte e orchestra di Ravel, Sinfonia “Incompiuta”
di Schubert e Ouverture “Le Ebridi” di Mendelssohn. Dopo Sciaffusa, Amsterdam, Coira ed Ennenda, la stagione 2011/2012 segna un ulteriore appuntamento all’estero per l’Orchestra da Camera
di Mantova, che venerdì 21 aprile, al fianco dell’arpista
francese Isabelle Moretti, si esibirà a Dachau, nel suggestivo Castello della cittadina situata a pochi chilometri da Monaco di Baviera.
Pagine di Mendelssohn (Sinfonia n. 10 in si minore per
archi), di Elgar (Serenata per archi op. 20) e Haydn (Sinfonia n.48 “Maria Theresia”) per sola orchestra «incorniciano - e qui le parole le prendiamo a prestito dal no-
32
musicalmente
FUTURO PROSSIMO
Italia-Germania
3 (trasferte) a 1
Marzo porta l’Ocm a Pavia con
Viktoria Mullova. Mentre aprile
ha nel cassetto date a Cremona,
a Vicenza, e nella tedesca Dachau
In alto l’Orchestra da Camera
di Mantova con Viktoria Mullova. Sopra Kolja Blacher
stro direttore responsabile - un appuntamento che vede,
centrale, la presenza della famosa solista, per le bellissime, delicate Danze sacra e profana per arpa e archi di Debussy, con le quali si ribadisce la suprema sensibilità del
compositore, ed il Concertino in mi minore per arpa e orchestra d’archi op. 34 del maestro britannico Parish-Alvars,
artista rilevante della prima metà dell’Ottocento, soprattutto per la storia della letteratura arpistica, che Berlioz
considerava addirittura “prodigioso”».
AMICI
Annullato l’incontro del
1° marzo, il ciclo d’appuntamenti
prosegue e si conclude
il prossimo giovedì 12 aprile
Oreste Bossini firma, su questo numero di Musicalmente, l’intervista a Fazil Say che probabilmente avrete già letto nell’affrontare il servizio di copertina dedicato alle contaminazioni. Scritta, come si suol dire,
in punta di penna e ricca di spunti significativi e originali suggestioni, ci pare il miglior biglietto da visita
cui affidare la presentazione del prossimo relatoreospite del ciclo d’incontri Parolenote.
La cancellazione del concerto dei Pomeriggi Musicali dal cartellone Tempo d’Orchestra 2011/2012 ha infatti comportato l’annullamento dell’appuntamento
originariamente programmato per giovedì 1° marzo,
dedicato a BartÓk e affidato ad Angelo Foletto.
Così, la rassegna a cura dell’Associazione Amici
dell’Ocm fissa la prossima data in giovedì 12 aprile,
quando in Sala Norlenghi (ore 18, ingresso libero,
Mantova, corso Vittorio Emanuele II, 13) approderà,
appunto, Oreste Bossini, per una conversazione pensata come avvicinamento all’ascolto del concerto conclusivo della stagione musicale, che vedrà protagonisti Orchestra da Camera di Mantova, Fazil Say (pianoforte) e Philipp von Steinaecker (direttore). L’incontro potrebbe riservare una piacevole sorpresa, su cui,
però, al momento d’andare in stampa, non ci è dato
di sbilanciarci, ma che ci convince ancor più che l’intervista di pagina 8 meriti un’attenta lettura...
Parolenote:
il microfono a
Oreste BOSSINI
Oreste Bossini
Intanto, alla sede dell’Orchestra da Camera di Mantova, prosegue il tesseramento 2012 (al costo immutato di 10 euro): il rinnovo dell’adesione, magari coinvolgendo amici e conoscenti, o facendo un regalo
intelligente a baso costo, è vitale per l’Associazione.
PAROLA D’AMICO
Concertgebouw, gennaio 2012: orgogliosi di dire “noi c’eravamo”
Eccezionale, meraviglioso, commovente:
quale aggettivo usare per descrivere il
concerto tenuto ad Amsterdam l’ 8 gennaio 2012 al Concertgebouw dalla nostra
Orchestra da Camera di Mantova e dalla
solista Nicola Benedetti?
Noi eravamo in questa prestigiosa sala,
quando dopo ripetuti bis, più di duemila persone, felici di aver potuto ascoltare
musica così magistralmente eseguita, si
sono alzate in piedi per un lunghissimo
applauso.
Ci siamo sentiti orgogliosi di essere mantovani ed italiani.
Grazie.
Carla, Nerina e Roberto
musicalmente
33
COLONNA SONORA
di Claudio Fraccari
GERSHWIN e il cinema
amore a prima vista
Al cinema è onnipresente la musica di George Gershwin, nonostante
la sua breve vita (1898-1937). Non
solo perché egli firmò alcune colonne sonore quando negli anni
Trenta passò da Broadway ad Hollywood (l’ultima fu per The Goldwyn
Follies di George Marshall, 1938);
inserti di suoi pezzi o di sue canzoni, citazioni dirette o indirette alla persona o all’opera pullulano ovunque. Non
c’è da stupirsene: americano
di origine ebraica, egli fu un
profondo conoscitore della
musica colta europea del primo Novecento (Ravel, Poulenc, Stravinskij) e ne trasse spunti per la produzione
personale; inoltre, amò sempre contaminare la tradizione musicale classica e quella popolare, fosse folk, jazz o leggera. Si
prenda il cartoon Disney Fantasia
2000, ove la sua celeberrima Rapsodia in blu fa da sottofondo non per
caso all’episodio animato più raffinato e insieme coinvolgente, una
vicenda dalla parte dei vinti. E poteva Woody Allen ignorare l’illustre
concittadino? No di certo; in Manhattan (1979) la colonna sonora è
costituita interamente da una una
sorta di compilation di canzoni di
Gershwin che funge da contrappunto alla messa in scena, fin quasi
da personaggio virtuale. Fra i molti altri esempi recenti che contengono prelievi dal repertorio di Gershwin si può indicare il noir L. A.
Confidential (Curtis Hanson 1997):
nella serie di brani che servono a
ricreare l’atmosfera ‘d’antan’ spicca But Not for Me nell’esecuzione di
Jackie Gleason. Oppure, c’è la commedia Prova a prendermi (Steven
Spielberg 2001), in cui compare la
canzone Embraceable You cantata da
Judy Garland. Tornando a stagioni
lontane, agli Oscar del 1938 Gershwin ricevette la nomination per
il singolo They Can’t Take That Away
34
musicalmente
UN AMERICANO A PARIGI
di Vincent Minnelli
Un artista americano
in trasferta a Parigi
s’innamora, ricambiato, di una commessa
locale (Leslie Caron),
ma al coronamento
dell’amore ostano rispettivi impegni di matrimonio contratti in
precedenza. Notevole la prova del protagonista Gene Kelly, anche autore delle
splendide coreografie ispirate a quadri
impressionisti. Ovviamente fondamentale
l’omonima sinfonia di Gershwin che costituisce la colonna sonora. Il musical ottenne ben cinque Oscar.
(Usa 1951)
BACIAMI STUPIDO
George
Gershwin
from Me, inserito in Voglio danzare con
te di Mark Sendrich. Solo a beneficio d’inventario si segnala il biopic
su di lui, Rapsodia in blu (Irving Rapper ‘45), perché il film è mediocre
e vale solo per le musiche, naturalmente appartenenti allo stesso dedicatario. Meritano appieno invece la menzione i validi musical Un
americano a Parigi (Vincent Minnelli
‘51) e Porgy and Bess (Otto Preminger 1959), costruiti sulle acclamate
partiture di Gershwin che prestano
ai film anche il titolo; altrettanto doveroso ricordare il brillante Baciami
stupido di Billy Wilder (‘64), alla cui
riuscita certo non è estranea la presenza di brani del Nostro. La musica
di Gershwin, insomma, fu ed è consustanziale alla rappresentazione cinematografica: entrambe si pongono come un fatto sociale totale,
perché vi si coinvolge un pubblico
assai vasto, di variegata estrazione,
dalla cultura e dal gusto eterogenei.
Per ottenere questa diffusione, è indispensabile l’oscillazione fra l’alto
e il basso, fra la camera e la platea,
fra il sentire individuale e l’auscultazione collettiva. Proprio come in
una rapsodia, magari in blu.
di Billy Wilder
Un maestro di musica
ospita un cantante di
successo; per evitare
che costui gliela possa sedurre, costringe
la moglie a scambiarsi
di ruolo con una cameriera dai facili costumi. Rischia grosso.
Da una piéce di Anna Bonacci, Wilder ricava una sceneggiatura sapidissima e cinica,
che si costituisce a paradigma della commedia sofisticata hollywoodiana. L’inserto
di brani di Gershwin ne conferma la volontà di combinare acume e umorismo, leggerezza e profondità.
(Usa 1964)
MANHATTAN
di Woody Allen
Un omaggio a New
York, set ideale per
Woody Allen, attraverso le traversie sentimentali di uno sceneggiatore televisivo
lasciato dalla moglie
(Meryl Streep) per una donna. Sintesi perfetta della poetica alleniana che ama risolvere il dramma in commedia, il film si vale
dell’ottima fotografia (in bianco e nero) di
Gordon Willis e delle canzoni di Gershwin,
indispensabili all’atmosfera. Da brivido l’incipit: la voce fuori campo dell’autore duetta con le note di Rapsodia in blu.
(Usa 1979)
GRAMMOFONO
di Michele Ballarini
Orchestre d’ANTOLOGIA
Mondo discografico
in crisi, i grandi
ensemble puntano
su raccolte
della loro attività
Da qualche tempo il mondo discografico sta attraversando una grave crisi, vuoi per la saturazione del
repertorio inciso che per la sempre
più marcata tendenza – soprattutto nel settore non classico – ad eseguire download dalla rete, e questo non sempre nei limiti imposti
dalle leggi vigenti; nascono così altre strategie di mercato, atte a proporre all’ascoltatore nuove possibilità d’interesse. Una di queste è la
creazione di antologie spesso molto nutrite che ripercorrono la storia
interpretativa di una grande orchestra; la cosa è di facile attuazione in
quanto un complesso sinfonico di
questo tipo ha inevitabilmente formato un archivio di proprie registrazioni dal quale si possono individuare i migliori concerti registrati
nell’arco di un sessantennio. Alcune
orchestre pubblicano queste antologie costituendo addirittura una propria etichetta, anche se accade spesso che il tutto sia disponibile per
il download a pagamento dai propri siti web. Orchestre come la Royal Concertgebouw di Amsterdam,
la New York Philharmonic, la Bayerischen Rundfunk di Monaco, la
Boston Symphony e tante altre vantano una lunghissima serie di collaborazioni tra direttori e solisti di
fama spesso imperitura, per cui tanti incontri tra grandi artisti vengono preservati e riproposti coglien-
do a volte quell’attimo fuggente che
può testimoniare esiti di valore altissimo. D’altro canto è di estremo interesse notare anche il mutamento
e lo sviluppo di diversi stili esecutivi, essendo le compagini orchestrali organismi che sotto la stessa denominazione subiscono nel giro di un
trentennio il ricambio pressoché totale dei loro componenti. Per non
parlare anche – fatto già menzionato nell’articolo dedicato alle registrazioni dal vivo – della possibilità
di ascoltare interpreti liberi da quegli obblighi contrattuali o da esigenze di mercato che li costringevano
a incidere solo determinati autori o
repertori, limitando così inevitabilmente le loro scelte e il loro talento.
Altro aspetto utile per queste pubblicazioni è costituito dalla presenza
di innumerevoli registrazioni presso
le emittenti radiofoniche che trasmettono spesso i concerti, e succede anche qui che siano le emittenti
stesse a organizzare queste testimonianze in collane discografiche; la
BBC, come vedremo, ha al suo attivo una grande mole di registrazioni pubblicate in cd, mentre dispiace
che la nostra RAI non si sia dimostrata altrettanto sensibile, pubblicando solo una parte del suo sterminato archivio in modo saltuario
e sotto etichette diversissime la cui
esistenza spesso piuttosto effimera
ne limita molto la reperibilità.
STORIA DELLA MUSICA INGLESE
LSO E RCO LIVE
SANTA CECILIA IN OTTO CD
La collana BBC Legends propone attraverso più di 200 cd
uno spaccato della
vita musicale inglese
dal 1950 all’inizio
di questo secolo:
concerti sinfonici,
recital solistici, complessi da camera di
eccezionale livello si avvicendano in un repertorio vastissimo che va da autori come
Monteverdi al novecento storico. A volte
ci sono anche le interviste fatte agli artisti
in occasione del concerto, documenti per
conoscere più a fondo grandi interpreti
come Ansermet, Giulini o Horenstein.
LSO live (London
Symphony) e RCO
live (Concertgebouworkest), due
etichette che pubblicano registrazioni
dell’ultimo decennio
acquistabili on-line sui
rispettivi siti web oppure nei normali negozi. La RCO live ha anche pubblicato un’importante antologia storica in 6 cofanetti (83
cd) che propone una scelta di concerti dal
1935 al 2000, vero universo di compositori
e grandi interpreti anche se la reperibilità di
questa emissione è oggi difficile in quanto
alcuni volumi sono fuori catalogo.
Dal sito dell’Orchestra dell’Accademia di Santa
Cecilia è ordinabile
la raccolta Dagli
Orchestra Rai
Pappano
Santa Cecilia
archivi – 1937-2010
cofanetto di 8 cd
a tiratura limitata
che contiene testimonianze importantissime dell’attività della più importante
orchestra italiana, con esecuzioni dirette
da maestri come De Sabata, Cantelli
e Markevich fino a Sinopoli, Prêtre e
Pappano, oltre a un rarissimo documento di Franco Ferrara che dirige l’Ottava
Sinfonia di Beethoven.
musicalmente
35
CD - DVD
di Luca Segalla
Astor Piazzolla
alle radici del tango
Quando il trentatreenne Astor Piazzolla arrivò a Parigi dall’Argentina per studiare con Nadia Boulanger
era semplicemente un musicista di tango che voleva
imparare la musica classica. La Boulanger, però, lo
convinse a non ripudiare le sue radici. L’eclettismo
di Piazzolla - tutto il contrario dell’eclettismo di chi
mescola i generi per compiacere il pubblico - nasce
da qui. Dall’innesto delle armonie e dei ritmi della
tradizione colta del Novecento europeo sulla musica dei bordelli di Buenos Aires. Musica spuria fin
Astor Piazzolla
dalle origini, fatta dagli emigranti europei con uno
in Portrait. 1
strumento, il bandoneon, nato in Germania per suoDVD Opus Arte
nare in chiesa. Il risultato non fu semplicemente un
(OA 0905 D)
tango eclettico, un compromesso tra due culture. Fu
qualcosa di nuovo. La “sua” musica. Piazzolla la trovò
seguendo un percorso opposto a quello dei musicisti europei avidi di evadere dalla gabbia dorata della
tradizione classico-romantica occidentale attraverso il contatto con altre culture. Lo racconta questo documentario, un po’ didattico, di Mike
Dibb, presentato insieme all’ultima registrazione in studio del compositore argentino, Tango Nuevo. Realizzato nel 1989, tre anni prima della
morte, Tango Nuevo è un brivido lungo quaranta minuti. Alcuni classici,
da Milonga del Angel ad Adiós Nonino, si alternano a brani meno noti ma
altrettanto straordinari. Come il surreale Zero Hour, ispirato alle strade
deserte delle notti di un’allucinata Buenos Aires.
LEONARD BERNSTEIN, L’ECLETTICO
Eclettico nella vita e nell’arte, nel 1976 Leonard
Bernstein si era concesso una Rapsodia in blu nella
doppia veste di pianista e direttore, con la sua New
York Orchestra. Lo aspettiamo graffiante, invece fa il
sornione. È fantastico nell’altra interpretazione storica qui riproposta, la Seconda sinfonia di Ives con l’Orchestra della Radio Bavarese (1987). Dirige anche
con la mimica del volto: i puristi storcono il naso, ma
in video funziona.
Bernstein, Gershwin ed Ives. 1 DVD Deutsche Grammophon
(00440 073 4513)
Keith Jarrett: un musicista transgenico
Keith Jarrett. Con i miti fare i conti è difficile. Soprattutto se sono jazzisti e poi incidono anche Bach,
Mozart e Shostakovich. Un musicista transgenico, verrebbe da dire. Apparso qualche anno fa, questo documentario firmato Mike Dibb è forse il migliore ritratto
in video del grande e bizzoso musicista americano. In
aggiunta c’è un breve live (Tokyo, 1993) insieme ai
compagni storici, Gary Peacock e Jack DeJohnnette.
Keith Jarrett. The Art of Improvvisation.
1 DVD EuroArts (2054119)
36
musicalmente
INVITO ALL’ASCOLTO
Tutto quello che
c’è da sapere
su Liszt in 10 cd
Il bicentenario
della nascita
di Franz Liszt è
appena stato
archiviato, ma
non si può
certo affermare che la
produzione di questo compositore
goda oggi, presso il grande pubblico,
di una conoscenza diversa o maggiore
rispetto al passato. Alcuni luoghi comuni perdurano, ed il mito del grande
virtuoso, del demoniaco inventore
dell’eccesso pianistico, continua ad
avere la meglio su qualsiasi altra valutazione. Per chi volesse avvicinare senza
pregiudizi l’opera per tastiera di Liszt
viene l’economico, recente cofanetto
confezionato da EMI: 10 compact-disc che toccano tutto quello che di essenziale c’è da conoscere, con l’aiuto
di registrazioni datate e più recenti
(dalla fine degli anni Cinquanta agli anni
Novanta del secolo scorso), di alta
qualità tecnica e musicale. La pattuglia
di questi interpreti lisztiani comprende
nomi celebri: primo fra tutti György
Cziffra, a cui il talento tecnico concesse un’estrosità assai discussa (sue qui
le Rapsodie Ungheresi, le Polonaises e
il Grand galop choromatique), quindi
Aldo Ciccolini (Années de pèlerinage
ed Harmonies poétiques et religeuses, Consolations, Deux Légendes,
Deux Ballades e altro), il russo Vladimir
Ovchinnikov (Studi trascendentali), il
russo-francese Mikhail Rudy (Valses
oubliées e Due Studi da concerto), lo
statunitense André Watts, il norvegese
Leif Ove Andsnes, i francesi JeanneMarie Darré e Mathieu Papadiamandis,
gli inglesi John Ogdon (Sonata in si
minore), Stephen Hough (Rapsodia
spagnola e La lugubre gondola), Wayne Marshall, lo spagnolo Jose Abel
Gonzales. Voci internazionali per un
maestro dai mille volti. (a.z.)
MUSICA & ARTE
di Paola Artoni
FAUSTO MELOTTI
la scultura si mescola
alla musica
Una miscela
di tradizione rinascimentale,
scienza e conoscenza
musicale
Da sinistra,
Melotti con una sua opera;
Scultura n.11 (1934),
esposta al Madre di Napoli;
Scultura n. 21 (1983),
esposta al mart di Rovereto
Nella biografia di Fausto Melotti
si riassumono le correnti di un secolo, in una vita che è stata vissuta
come un autentico crocevia d’arte,
di poesia e di scienza, dove la scultura si è sempre liberamente mescolata alla musica senza alcuna
barriera. Quando egli nasce a Rovereto il Novecento è appena iniziato e la sua città gravita ancora nella dimensione austro-ungarica; nel
1915 i tumulti della prima Guerra Mondiale lo portano a Firenze,
dove conclude il liceo e ha modo di
appassionarsi al Rinascimento italiano, senza che mai vengano meno
i contatti con il conterraneo Depero, l’architetto Pollini e il compositore Riccardo Zandonai. Nel 1918
si trasferisce a Pisa dove studia fisica e matematica ma dove si avvicina anche alle forme del Romanico e del Gotico. Nel 1924 si laurea
in ingegneria elettrotecnica a Milano e, contemporaneamente, si diploma in pianoforte studiando anche organo e contrappunto. Come
sculture si forma a Torino con Pietro Canonica e nel 1928 si diplo-
ma all’Accademia di Brera di Milano con Adolfo Wildt. Sempre più
la sua ricerca plastica si fonde con
la musica, in una dimensione vicina alla metafisica e alle ricerche
dell’amico Lucio Fontana, tra l’altro compagno di lavoro di Melotti alla Richard-Ginori di Giò Ponti.
Di Melotti si ricordano le leggiadre
sculture in acciaio che lo avvicinano, oltre che a Fontana, anche agli
esiti di Alexander Calder, Alberto
Giacometti e Louise Bourgeois e,
già dagli anni Trenta, il suo linguaggio riesce a miscelare con sapiente
intelligenza la tradizione rinascimentale, l’apporto della scienza e
la conoscenza musicale. Nel 1935
aderisce sia al movimento parigino Abstraction-Création (del quale fanno parte Herbin, Vantongerloo, Hellion, Arp, Gleizes, Kupka,
Tutundjian e Volnier), sia al gruppo degli Astrattisti milanesi. L’idea
di fondo è che la scultura si debba
nutrire di linee, geometrie, purezza delle forme e leggerezza, sino a
perdere il proprio peso. Gli esiti degli anni Settanta sono all’insegna di
DA VEDERE E ASCOLTARE
Per chi desidera avvicinarsi in prima persona all’arte di Fausto Melotti (1901-1986) si segnala che
sino al 9 aprile 2012 il Madre di
Napoli ospita un’antologica curata da Germano Celant, organizzata in collaborazione con l’Archivio Fausto Melotti (che ha sede
a Milano e tutela l’opera dell’artista promuovendo mostre e studi
scientifici in ambito internazionale). Opere di Melotti sono presenti anche in Arte Povera International, l’importante collettiva in corso
sino al 19 febbraio al Castello di
Rivoli mentre fanno alcuni pezzi
storici fanno parte della collezione del Mart di Rovereto.
quest’ultima declinazione, realizzata grazie all’utilizzo di fili metallici e impalpabili tessuti, come per
la Scultura G (Nove Cerchi) del 1967,
Il Vento nel capanno; la Scultura A (I
Pendoli) del 1968; A piombo del 1968
realizzata in acciaio; Il suono del corno nella foresta del 1970; La luna e il
vento; La Neve; l’Arte del contrappunto
plastico n. 1 del 1970, Contrappunto
IX (1972), Canone variato III (1972),
Bestia politica (1972), Scala musicale
(1974), Controcanto (1975), Lazzaro
(1980), I Lunari (1981) dove Melotti riesce ad esprimere sonorità, ritmo e armonia.
musicalmente
37
MUSICA & ACUSTICA
di Renato Spagnolo
Cosa accade in spazi CHIUSI
La percezione di un suono in uno
spazio chiuso, completamente o in
gran parte delimitato da superfici,
è ben diversa da quella indotta dallo stesso suono in un luogo aperto,
privo di superfici. E lo è perché il
suono, per quanto semplice (come
quello periodico prodotto da un
singolo strumento musicale, contenente una serie di componenti di
frequenza in relazione armonica),
è oggettivamente modificato, si potrebbe dire “trasformato”, almeno
in parte, dall’ambiente in cui viene
generato e si propaga. In un campo
acustico virtualmente libero (come
ad esempio quello creato artificiosamente nelle cosiddette “camere
anecoiche”), il suono generato in
un certo punto dello spazio giunge nel punto di ricezione o di ascolto esclusivamente per via diretta (in
linea retta), solo più o meno attenuato in intensità, in ragione della
distanza che separa i due punti. In
un campo acustico chiuso, nel punto di ricezione il suono può essere invece anche significativamente
condizionato dal contributo delle
riflessioni che le onde acustiche subiscono sulle superfici che delimitano lo spazio e non solo. E qui entra in gioco una delle proprietà che
caratterizzano le superfici: il “coefficiente di assorbimento acustico”.
Superfici con basso coefficiente
di assorbimento riflettono in gran
parte l’energia associata ai suoni
che incidono su di esse (come la
luce su uno specchio), mentre ad
un elevato coefficiente di assorbimento corrisponde un’alta percentuale di energia assorbita che viene
dissipata, persa, quindi non restituita all’ambiente. Le cose in pratica
sono complicate dal fatto che negli spazi reali ogni superficie, ogni
sotto-elemento di superficie o altre
strutture presenti, le stesse persone,
se ve ne sono, hanno ciascuno un
proprio coefficiente di assorbimento. Il risultato netto, tuttavia, è che
solo a distanze molto brevi dalla
sorgente (nei posti più prossimi al
palco in teatro ad esempio), ciò che
38
musicalmente
Berliner
Philharmonie
Per un suono
che entra ne esce
un altro che
gli somiglia,
ma che non è più
esattamente lo stesso
viene percepito o rilevato è scarsamente influenzato dalle riflessioni
che giungono dopo aver compiuto percorsi diversi, mentre a distanze via via crescenti il loro contributo al campo acustico cresce fino a
divenire, sotto certe condizioni, addirittura prevalente. In questo senso, il comportamento acustico di
un ambiente chiuso dipende allora
in gran parte dalle proprietà assorbenti delle superfici che lo delimitano o dei corpi o elementi presenti al suo interno. Estremizzando, si
può affermare che uno spazio molto assorbente presenta un’acustica
“sorda”, “povera”, in cui è privilegiata e sfruttata solo l’energia che
si propaga per via diretta, mentre
uno spazio con superfici o elementi molto riflettenti determina un
campo maggiormente “riverberante” e con molta più energia acustica
disponibile. Tra i due casi, ci sono
tutte le altre possibilità di comportamento, da definire e controllare
accuratamente in base alle destina-
zioni d’uso dell’ambiente. Poi però
non si può non menzionare un altro aspetto, tutt’altro che trascurabile, e cioè la dipendenza dell’assorbimento acustico dalla frequenza:
qualitativamente, vengono più facilmente assorbiti i suoni ad alta frequenza e meno, molto meno, quelli a bassa frequenza. Ne consegue
che un suono, avente all’origine
una certa distribuzione in frequenza, subisce una modificazione più
o meno importante legata al fatto
che ciascuna sua componente può
aver perso una diversa quantità di
energia sulle superfici di incidenza.
Sotto questo punto di vista, è facile
immaginare lo spazio chiuso come
una scatola nera in cui per un suono che entra ne esce un altro che
ancora gli assomiglia, ma che non
è più esattamente lo stesso. Con
un pizzico di rigore in più, tecnicamente si parla di “funzione di trasferimento” dello spazio o dell’ambiente come di quell’algoritmo che
si deve applicare al segnale acustico in ingresso per ritrovare quello
in uscita. L’acustica architettonica
è il filone che tratta specificatamente di queste (e molte altre) cose, di
quali sono i criteri, gli accorgimenti da adottare, gli errori da evitare e
gli equilibri da ricercare perché un
luogo d’ascolto “suoni bene”, per le
finalità per cui è stato pensato; e a
questo punto inizierebbe tutto un
altro lungo discorso.
LEGGERE
di Simonetta Bitasi
I MUSICISTI CHE ROMPONO
DA BEETHOVEN A LADY GAGA
Orfeo, Monteverdi, Rossini, Beethoven,
ma anche Battisti e
Tommy Riccio: questa guida ci propone
un viaggio che attraversa i generi musicali classica, jazz, rock,
contemporanea,
rap, sottolineando le
rotture decisive, ma a volte trascurate e
che magari molti anni e secoli dopo hanno rivelato la loro importanza per la storia
della musica (Guida ai musicisti che rompono da Beethoven a Lady Gaga di Massimo Balducci e Federico Capitoni, Giudizio
universale, pp. 160, 15 euro).
ECCO COME FUNZIONA
LA SCIENZA DEI SUONI
«Penso sia un peccato che a una cosa
popolare qual è la
musica sia stato associato tanto mistero.
Nella stesura del libro
non ho fatto alcun ricorso a matematica,
diagrammi o musica
scritta, e ho mantenuto uno stile colloquiale»: ecco la lettura
ideale per chi vorrebbe imparare a suonare
uno strumento; per l’ascoltatore di vari generi musicali che vuole conoscere meglio
l’oggetto della propria passione (Come
funziona la musica. La scienza dei suoni
bellissimi, da Beethoven ai Beatles e oltre di
John Powell, Salani, pp. 317, 18 euro).
MEZZO SECOLO DI ITALIANO
IMPARATO DALLE CANZONI
Questo libro riconsidera i testi delle mille canzoni italiane
più vendute negli
ultimi cinquant’anni,
nell’intento di ricostruire - attraverso
le parole - mezzo
secolo di storia della
nostra lingua. Mille
testi spogliati della musica e fatti a brani;
mille testi scrostati dalla vernice dello stile
e della retorica e raccontati da un linguista appassionato di canzonette (Ma cosa
vuoi che sia una canzone. Mezzo secolo
di italiano cantato di Giuseppe Antonelli,
il Mulino, pp.264, 16 euro).
Il corpo estraneo?
Un pianoforte di RICORDI
«Il
coperchio
del Bluthner era
chiuso. Lei lo sollevò e guardò i tasti. Comprendeva
che stava osservando la Storia,
la Verità, il potente Sublime?
Era troppo sorda
per vedere. Stava
aprendo le dita
della mano sinistra, quella destra chiusa in un
nodo. La sinistra
affondò come le fauci di un
leone sui bassi. Il pugno si
schiantò sugli alti. Il suono
fu tremendo, il suono fu maestoso, un tuono, un coro di
dei tragici, usciva dalle profondità, usciva dal cielo, era
grandine, era una granata di
sassi, era grandezza! Erano le
battute iniziali della sinfonia
che lui doveva ancora scrivere. Pestò col piede per scacciare il dolore. Ora era lui a vergognarsi». Perché Bea dopo la
traumatica separazione da Leo
non si è liberata del suo pianoforte che incombe e riempie il suo minuscolo monolocale? Cosa significa ancora per lei, lo strumento per
il quale ha abbandonato le sue ambizioni, per permettere al marito di
scrivere le sue sinfonie ed esprimere
così il suo talento? E perché non disfarsene, dopo che Leo l’ha lasciata
per una vita e un pianoforte migliore? «Bea faceva parte di quella categoria di ridicole e ben riconoscibili insegnanti donne di mezza età
che mettono da parte i risparmi per
le vagheggiate vacanze estive nelle
più romantiche capitali europee».
In realtà la protagonista del nuovo
romanzo di Cynthia Ozick nasconde un matrimonio fallito, un fratello ricco e che la ignora da vent’anni
e una sottile insoddisfazione che co-
Corpi estranei
di Cynthia Ozick,
traduzione
di Simona Vinci
Bompiani,
pp. 322,
18 euro
mincia a pungerla quando meno se
lo aspetta. Anche verso il pianoforte che le è costato così caro. Ma l’incontro con il nipote, che fugge da
un padre opprimente e con il quale
ravvisa una certa somiglianza di indole, sembra poterle regalare una
nuova occasione di vita. Tanto che
quando rivede l’ex marito, diventato un famoso compositore di colonne sonore a Hollywood, decide finalmente di liberarsi del piano e
dei rimpianti per il passato. Anche
se scoprirà che pure con le migliori
intenzioni si può sbagliare, e quindi
soffrire e creare sofferenza.
Cynthia Ozick conferma con questo romanzo intenso e dal sapore
retrò di essere davvero un classico
contemporaneo della letteratura statunitense.
musicalmente
39
ALTRA MUSICA
di Giorgio Signoretti
PFM E BMS, IL ROCK CAMBIA FACCIA
MARC TURNER, JAZZ PER LA MENTE
Quarant’anni fa, nel 1972, la scena
del rock italiano sembra esplodere di nuovi fermenti. Premiata
Forneria Marconi e Banco Del
Mutuo Soccorso sono i leader
di un movimento che farà della
contaminazione con alcune
suggestioni classiche la chiave per
il superamento della forma-canzone. Affrontando con successo sfide impegnative come quelle della forma estesa, delle innovazioni
armoniche tardo-romantiche e del rigonfiamento dinamico mutuato
dalle poetiche dell’orchestra sinfonica ottocentesca, le due band
condurranno la scena italiana lontano dalle stanche liturgie sanremesi. Il 1972 in negozio: Storia di Un Minuto, Per Un Amico (PFM);
Banco Del Mutuo Soccorso, Darwin (BMS)
Dopo il travolgente ritorno in
famiglia di Mauro Negri col suo
European Quartet, a Mantova
il Festival Chiozzini 2012 entra
nella sua sensazionale sezione
newyorchese con un altro grande
quartetto “pianoless”, quello di
Marc Turner, l’attuale prodigio del
sax tenore, col fantastico Avishai Cohen alla tromba. Un Arci Tom
gremito e bellissimo accoglie con un’acustica perfetta e col calore
del suo pubblico le cinetiche sperimentazioni del quarantaseienne musicista trapiantato a New York. Della California nella quale è
cresciuto, Turner sembra volersi portare appresso un approccio
levigato e anti-romantico che fa arrivare la sua stordente musica più
dalle parti della mente che da quelle dello stomaco.
Contaminazione
VIRUS benefico
L’idea di contaminazione ha avuto in anni recenti un’enorme fortuna, specie da quando l’estetica
postmoderna ne ha fatto un feticcio. In realtà non esiste linguaggio musicale che non definisca se
stesso attraverso un costante processo di interazione, di negoziato, di scambio con altri linguaggi. Il jazz, come è noto, nasce da
un complesso intreccio di suggestioni che possono dialogare reciprocamente grazie alla flessibilità
insita nella pratica della trasmissione orale.
La vicenda del rock non è diversa.
New Orleans e rock’n’roll sono le
rispettive entusiasmanti fasi iniziali nelle quali le radici delle due
musiche sono completamente visibili.
E, lezione da mandare a memoria,
lo scambio non è minimamente
ostacolato dal diverso colore della pelle dei musicisti o dalle differenti appartenenze sociali e geografiche. Jazz e rock, all’alba delle
rispettive vicende, sono musiche
sostanzialmente folk non meno
di quanto lo sia il blues: strutture
economiche, convenzioni sociali (e scrittura) non hanno ancora cristallizzato i comportamenti
creativi.
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musicalmente
L’evoluzione del linguaggio è contemporaneamente vernacolare e reticolare: accanto
ai vari sotto-linguaggi regionali, cioè, si
va definendo una rete
più generale di similitudini fondamentali
che costituisce i caratteri distintivi del linguaggio stesso. Questo
vale tanto per il 1927
di Armstrong, Beiderbecke, Ellington o Bechet quanto per il 1955
di Elvis Presley, Chuck
Berry, Bo Diddley e Little Richard.
Le avventure dei due
linguaggi saranno destinate a caratterizzare tanto in
profondità il Novecento musicale da arrivare a dettare timbri, ritmi e strutture al mercato del pop,
pronto a lasciarsi contaminare da
qualsiasi cosa possa far tintinnare il registratore di cassa. Dalla
parte povera della strada, tra baracche e slums di ogni latitudine,
la danza vitalistica e il canto straziante dei non garantiti ricordano ai più attenti di che materiale
sono fatti i nostri sogni.
Chuck
Berry
Jazz, rock: non esiste
linguaggio musicale
che non definisca
se stesso attraverso
un costante processo
di scambio e negoziazione
QUADERNO DI VIAGGIO
di Andrea Zaniboni
Il museo del PIANOFORTE
che non t’aspetti
Temenuschka Vesselinova,
proprietaria del Museo di Ala
PER VISITARE IL MUSEO DI ALA
Dalla primavera inoltrata a ottobre
Prenotazioni: Ufficio Cultura e Turismo
del Comune di Ala (Trento).
Tel. 0464 674068 oppure Museo
del Pianoforte antico tel. 348 2280500
Accesso consentito solo a gruppi,
massimo 25 persone
Prezzo del biglietto euro 20
La prima domenica del mese, a partire
da aprile Comune di Ala propone visita
del Museo e della città al costo di soli
5 euro.
Nel centro della cittadina trentina
di Ala in val d’Adige, c’è un piccolo
museo allestito dalla pianista e studiosa di origine bulgara Temenuschka Vesselinova (il suo cognome si
pronuncia accentando la “i”), nato
come collezione privata ma da molti
anni aperto alle visite del pubblico.
La rara raccolta di tastiere antiche
ha un suo fascino estetico indubitabile, però è anche un’occasione non
comune per confrontare dal vivo, in
rapida successione, il suono degli
strumenti esposti e per ricongiungersi idealmente con un mondo
scomparso che sopravvive nelle musiche di Mozart, Beethoven, Schubert o Chopin. Da parecchio tempo
i cartelloni concertistici ci pongono davanti al “suono d’epoca” ed a
modi esecutivi informati da ricerche
musicologiche; ma sul fronte delle
tastiere, almeno in Italia, le occasioni sono ancora davvero poche, a
differenza di quanto avviene per gli
strumenti ad arco od a fiato. La Vesselinova, che è una valente pianista
(si è formata a Firenze con Maria
Tipo ed ha insegnato al Conservatorio di Vicenza per oltre due decenni
la prassi esecutiva su pianoforti antichi) accompagna il visitatore non
soltanto con le parole, ma anche
esemplificando e facendo conoscere
Un prestigioso Bechstein
arricchisce l’itinerario
di visita del Museo
del pianoforte antico
Un caratteristico piano giraffa
della collezione Vesselinova
la “voce” di quanto esposto: un arricchimento che diremmo “necessario”
nel caso di oggetti costruiti per far
musica, soggetti a progressivi perfezionamenti e mutamenti sotto l’influenza dell’incessante fiorire delle
idee compositive e dell’evoluzione
rapida della tecnica pianistica. La
collezione completa assomma ad
una cinquantina di esemplari diversi, ma quella esposta, pur di dimensioni inferiori, è in perfetto stato di
manutenzione ed assolve ogni curiosità del visitatore ed ogni esigenza
esecutiva: “da concerto”, sottolinea
la Vesselinova. Le scuole costruttive
rappresentate danno una panoramica piuttosto interessante: i nomi,
nelle sale dell’antico palazzo De’
Pizzini, sono quelli di Bertsh, Beyer,
Graf, Pleyel, Stein, fino a Bechstein
e Steinway secondo un itinerario
atto a sottolineare le diverse scuole
europee, dal 1760 fino all’Ottocento
inoltrato. L’accesso alla collezione
per un quindicennio s’è appoggiato
alla disponibilità della proprietaria
(ogni domenica pomeriggio chiunque poteva presentarsi ed entrare),
oggi invece c’è un accordo con il
Comune di Ala per visite organizzate per soli gruppi, che rimangono
possibili nei migliori mesi dell’anno,
dalla tarda primavera fino all’autunno. Peccato per questa limitazione,
il Museo tuttavia vale una breve attesa. È anche l’occasione per conoscere la piccola città un tempo celebre
per le sete e i velluti.
musicalmente
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IN PLATEA
Appena ho conosciuto Paolo Protti, ho pensato che
ci sarebbe voluto Claudio Fraccari – il collega titolare della interessantissima rubrica “Colonna sonora”, qualche pagina prima di questa – per intervistarlo. Le due grandi passioni di Protti, mantovano, 60
anni, sono infatti il cinema e la musica. Nel cinema
ci è nato: la sua famiglia se ne occupa da oltre un secolo e lui, oltre a essere il gestore di due multisala,
è stato a lungo presidente dell’Associazione nazionale esercenti cinema (Anec) e da due anni ricopre
lo stesso incarico all’Associazione generale italiana
dello spettacolo (Agis). La musica – come racconta
in questa intervista – è stata una scoperta personale,
maturata da adolescente insieme a una invidiabile
collezione di vinili custodita ancora gelosamente.
Dottor Protti, come è iniziata l’avventura della sua
famiglia nel cinema?
«Merito di mio nonno Otorino, che nel 1904 fu il
primo a portare in Italia i proiettori creati dai Fratelli Lumière. Era un’epoca di pionieri, che oggi,
nell’era del 3D, sembra lontanissima».
Il suo primo ricordo legato al mondo della celluloide?
«Quando da piccolo mi accompagnavano a vedere
i film di Stanlio e Onlio al cinema Bios di Mantova.
Prima entrare in sala si faceva tappa nella storica pasticceria Moretti».
La passione per la musica invece quando è nata?
«Da ragazzo, quando ho cominciato a collezionare
dischi di Toscanini e di altri grandi direttori, ai quali
tengo ancora moltissimo».
Gusti musicali?
«Amo la musica romantica, da Beethoven a Brahms,
e le proposte originali: di recente ho apprezzato un
concerto di tamburi giapponesi a Roma e una performance del gruppo di musicisti funamboli Le Quatuor a Parigi».
Quali sono i più bei film sulla musica?
«L’altra faccia dell’amore di Ken Russell, che racconta
in modo molto romanzato la vita di Ciaikovskij. Poi
Il Concerto di Radu Mihaileanu: una commedia brillante e insieme commovente. Infine un titolo da cinefili: Storia di un peccato del polacco Walerian Borowczyk».
Si dice sempre che la colonna sonora è un ingrediente fondamentale dei film, lei è d’accordo?
«Non sempre, ma in alcuni casi è davvero determinante. Un esempio recente? The artist (pellicola che
rivisita il cinema muto, pluricandidata agli Oscar
2012, ndr): senza la musica non avrebbe ragione di
esistere».
In Italia la situazione è difficile sia per il cinema sia
per la musica: come uscire dalla crisi?
«Con una politica più lungimirante, come accade
per esempio in Francia. È proprio nei momenti di
crisi che bisogna investire nella cultura e riconoscerne il ruolo fondamentale per lo sviluppo sociale ed
economico di una nazione».
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musicalmente
di Alice Bertolini
Paolo
Protti
Cinema e musica
matrimonio
PERFETTO
Paolo Protti - gestore di due multisala
e presidente dell’Agis - racconta come
è nata la sua passione per la classica:
“Ho cominciato collezionando dischi di
Toscanini ai quali tengo ancora molto”
UNA VITA DA GRANDE SCHERMO
Paolo Protti, 60 anni, mantovano, è discendente di una
famiglia che da oltre un secolo si occupa di esercizio
cinematografico.
Gestore dei multisala Multiplex Cinecity (di cui è anche proprietario) e Ariston di Mantova, dal 2005 al 2011 è stato
presidente dell’Anec (Associazione Nazionale Esercenti Cinema) ed è il presidente dell’Agis (Associazione Generale
Italiana dello Spettacolo) da giugno 2010.
Al momento del suo insediamento ha sottolineato:
«Il mondo delle imprese dello spettacolo riveste un ruolo
determinante nella vita culturale del Paese e la cultura è
un fondamento della ragione di una società e delle sue
istituzioni».
Appassionato anche di musica, fa parte del Consiglio direttivo del Teatro Sociale di Mantova ed è Commendatore
Ordine al Merito della Repubblica Italiana.