m Anno 8 - Numero 2 Marzo 2012 u sMagazine i cdell’Orchestra a l mda Camera e ndi Mantova te Fazil Say Un artista poco ortodosso Giovanni Sollima Tra rock e barocco INCROCI VIRTUOSI Tariffa R.O.C. “Poste Italiane Spa” - Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (Conv. In. L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 1, DCB Mantova EDITORIALE di Andrea Zaniboni SUONI vicini e lontani, come un notes della vita Convergenze, sovrapposizioni, influenze: la musica è anche questo. Tutto ciò che assume questa definizione è in qualche modo la traccia, lo specchio o perfino, in qualche caso, il simbolo di un’esperienza umana. E quale uomo, o meglio, quale artista rinuncia ad ascoltare il suono che lo attornia (reale o immaginario che sia) ed a gettare lo sguardo e l’anima là dove non può fisicamente giungere, ma dove, per compenso, il fantasticare non trova più ostacoli, dove l’immaginazione supplisce un imperfetto sapere? Accadde nel passato, ed ancora la storia si ripete, sia pur diversamente. Alcuni musicisti d’oggi – lo leggete in questo numero – intendono il comporre come l’aprire una finestra sull’universo. Se le Voci del mondo – per citare il romanzo di Robert Schneider che scova la musica dell’invisibile – vivono tra noi, è anche per causa d’una società che anche in ogni suo frammento appare sempre più mista, multietnica, con una vicinanza di corpi e di pensieri riflessa in strumenti di comunicazione (e di viaggio) che annullano tempi, spazi, barriere, diversità di linguaggi: una scoperta senza fine di un mondo brulicante di vite, tradizioni, esperimenti creativi. Le influenze, i travasi espressivi non appartengono soltanto all’area colta ma, forse mai come in questi nostri anni, sono visibili ad ogni livello di pensiero creativo: dal pop al rock al jazz e alla classica, non dimenticando che quella che vien definita per convenzione musica di consumo svela personalità forti ed influenti, privilegiando la comunicazione ai contorcimenti intellettuali. Le eccellenze esistono dappertutto, come la moltitudine della mediocrità, dobbiamo ammettere, appartiene anche alla classica. Forse lo sforzo più grande per l’ascoltatore di oggi e dell’immediato futuro potrebbe essere proprio quello di abbandonare gli spazi ultraprotetti della musica che si autodefinisce “impegnata” per aprirsi ad una conoscenza senza preconcetti, categorie annunciate, conflitti competitivi e polemici. Sarebbe magnifico far nostro il solo pensiero che conta, che ci presta la mente eccelsa di Vladimir Jankélévitch: «Siamo passati attraverso la musica – e niente, dopo di essa, sarà mai più come prima». Comporre è aprire il cuore sull’universo, scoprendo le voci del mondo Lo sforzo più grande per l’ascoltatore di oggi? Abbandonare gli spazi ultraprotetti della musica “impegnata” musicalmente 3 IN COPERTINA m Marzo 2012 SOMMARIO 7 10 12 7 Il pianista sul Bosforo Intervista a Fazil Say di Oreste Bossini 10 Che senso ha oggi contaminare? Parola a quattro compositori di Patrizia Luppi 12 “Sporcare” la musica un’arte senza tempo di Gian Paolo Minardi 15 Un artista ba-rock(o) Intervista a Giovanni Sollima di Anna Barina I CONCERTI 15 18 16 20 30 27 16 Doppio Suono e magia alchimia di Marco Bizzarini 18 Arpa, lo strumento di angeli e dei d Arabella Cortese 20 Madama DoRe Piccola grande musica di Giovanni Bietti 25 Alexander Melnikov Il pianista prende il volo di Emanuele Battisti 27 Essere o non essere? Il dilemma dei pianisti-compositori di Luca Ciammarughi IN ORCHESTRA a cura di Valentina Pavesi m usicalmente Magazine dell’Orchestra da Camera di Mantova TIRATURA 4.000 copie DIRETTORE RESPONSABILE: Andrea Zaniboni COORDINAMENTO EDITORIALE: Anna Barina GRAFICA: Elena Avanzini REDAZIONE: Valentina Pavesi HANNO COLLABORATO: Paola Artoni, Michele Ballarini, Emanuele Battisti, Alice Bertolini, Giovanni Bietti, Simonetta Bitasi, Marco Bizzarini, Oreste Bossini, Luca Ciammarughi, Arabella Cortese, Claudio Fraccari, Patrizia Luppi, Gian Paolo Minardi, Stefano Patuzzi, Emanuele Salvato, Luca Segalla, Giorgio Signoretti, Renato Spagnolo EDITRICE: Associazione Orchestra da Camera di Mantova SEDE LEGALE, DIREZIONE, REDAZIONE: MANTOVA, Piazza Sordello, 12 Tel. 0376 368618 - E-mail: [email protected] STAMPA: Sel Srl CREMONA - via De Berenzani, 6 - Tel. 0372-443121. Registrazione al Tribunale di Mantova n. 10/2004 del 29/11/2004 Chiuso in redazione il 20 febbraio 2012 4 musicalmente 30 Con antica, italica maestria di Stefano Patuzzi 32 Futuro prossimo Italia-Germania 3 (trasferte) a 1 AMICI 33 AMICI Parolenote: il microfono a Bossini RUBRICHE 34 COLONNA SONORA Gershwin e il cinema 40 ALTRA MUSICA Contaminazione, virus benefico di Claudio Fraccari di Giorgio Signoretti 35 GRAMMOFONO Orchestre d’antologia 41 QUADERNO DI VIAGGIO Ad Ala un museo inaspettato di Michele Ballarini di Andrea Zaniboni 36 CD - DVD Piazzolla, alle radici del tango 42 IN PLATEA Protti, fra cinema e musica di Luca Segalla di Alice Bertolini 37 MUSICA & ARTE Melotti fra scultura e note di Paola Artoni 38 MUSICA & ACUSTICA Cosa accade negli spazi chiusi di Renato Spagnoli 39 LEGGERE Un pianoforte di ricordi di Simonetta Bitasi Anna Barina Giornalista, musicologa e musicista, dopo il diploma in viola si laurea con il massimo dei voti e la lode in Scienze dell’Educazione ad indirizzo musicale all’Università di Trieste e in Beni Musicali e Musicologia all’Università di Venezia guidata da Quirino Principe e Giovanni Morelli. Collabora come critico musicale con il dorso di Verona del Corriere della Sera e scrive di musica per riviste nazionali. All’attività giornalistica affianca quella di ufficio stampa, comunicazione e pubbliche relazioni. Orchestra da Camera di Mantova Marco Bizzarini Marco Bizzarini insegna e svolge ricerca musicologica all’Università di Padova. Attivo come saggista e critico musicale, ha pubblicato le monografie Luca Marenzio: the Career of a Musician between the Renaissance and the Counter-Reformation (Ashgate, 2003) e Benedetto Marcello (L’Epos, 2006). Collabora con l’Istituto Antonio Vivaldi della Fondazione Cini di Venezia. È autore di saggi pubblicati da Oxford University Press, Accademia Polacca delle Scienze, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Istituto Chopin di Varsavia. Gian Paolo Minardi È nato e ha compiuto i suoi studi a Parma, dove ha insegnato quale professore associato di Storia della musica moderna. Oltre a numerosi articoli su riviste italiane e straniere e collaborazioni alla stesura di enciclopedie musicali, ha pubblicato alcuni volumi. Svolge attività critica per Amadeus, Opéra International, Classic Voice. Dal 1973 è critico musicale della Gazzetta di Parma. È stato consulente artistico di alcune iniziative musicali, tra cui il Festival Mozart di Salsomaggiore. Stefano Patuzzi Stefano Patuzzi è dottore di ricerca in musicologia, laureato in lettere, diplomato in organo. Si è formato nelle università di Londra, Bologna e Parma, dove è stato anche professore a contratto. Ha dato alle stampe un volume su aspetti della Controriforma in Italia, curato con Claudio Gallico un’edizione delle Arie di Frescobaldi e, da ultimo, il libro Ebraismo in musica. Ha pubblicato in Italia e Inghilterra. È quantomai convinto che parlare di musica sia e debba essere fare storia della cultura. musicalmente 5 CONTAMINAZIONI Compositori e interpreti d’oggi a confronto sul tema con i grandi geni di sempre musicalmente 7 Fazil Say mentre compone IN COPERTINA FAZIL SAY il pianista sul Bosforo di Oreste Bossini Instanbul è una metropoli sconfinata, che cresce di giorno in giorno al di fuori di ogni controllo urbanistico e sociale. Le stime ufficiali parlano di 12/13 milioni di abitanti, ma in realtà nessuno sa esattamente quante persone vivano nell’area urbana, anche perché ogni giorno la parte asiatica della città si arricchisce di nuovi immigrati provenienti dalle aree rurali. Nella città di Istanbul si possono trovare dieci, cento città diverse, che s’incastrano l’una nell’altra come in un quadro cubista di Picasso. Sulle rive del Bosforo si affacciano casette di legno dal tetto spiovente tipiche dei fiordi scandinavi, mentre lungo la cinta delle vecchie mura si ammassano vani tirati su con mattoni di tufo come nelle borgate romane di Pasolini. Da una parte il profilo dei grattacieli ricorda lo sky-line delle città americane, dall’altra il reticolo di strade acciottolate attorno alla Torre di Galata evoca la bohème di Montmartre. Sui mezzi pubblici siedono accanto ragazzine in minigonna griffate Abercrombie e donne velate di nero fino agli occhi, a volte 8 musicalmente mescolando in curiose sintesi l’uno e l’altro abbigliamento. Il melting pot del mondo contemporaneo, che mescola insieme linguaggi, religioni, tecnologie e tradizioni diverse, passa oggi per questi nodi nevralgici dei rapporti tra i continenti, come Instanbul, Hong-Kong, Los Angeles. Nell’arte sta avvenendo un processo analogo. La grande tradizione della musica occidentale non è più un patrimonio esclusivo dell’Occidente. La Turchia inoltre è una nazione che ha cominciato da quasi un secolo un percorso di integrazione nel linguaggio della musica europea, con la riforma del Conservatorio impostata addirittura da Paul Hindemith nel 1935. Non è sorprendente dunque che una delle personalità di spicco del pianoforte di oggi, Fazil Say, protagonista il 13 aprile del concerto di chiusura di Tempo d’Orchestra, non solo viva a Istanbul, ma soprattutto scelga il suo repertorio con criteri poco meno ortodossi. «Non compilo il programma di un concerto in base alla celebrità di un pezzo, ma in relazione a quello “Il mio ponte culturale consiste nell’introdurre il pubblico europeo nelle storie che conosco, nelle memorie della mia gente, questa è per me la cosa più importante” che l’autore ha da dire al pubblico. Mi piace suonare la musica di Bernd Alois Zimmer, per esempio. Molte persone non conoscono neppure il nome di questo compositore tedesco del secondo Novecento, ma per me è un genio e la sua musica per pianoforte ha tante cose da raccontare. Questo vale nella stessa misura anche per musiche molto più note, come i Trois mouvements de Petrouchka di Stravinskij o la Sonata op. 111 di Beethoven». IN COPERTINA E il libero processo creativo prende forma Fazil Say riceve la prima lezione di pianoforte da Mithat Fenmen, un pianista che aveva studiato a Parigi con Alfred Cortot. Fenmen, forse intuendo l’enorme talento del giovane, chiede ogni giorno al suo studente di improvvisare sui temi del quotidiano, prima di dedicarsi agli abituali esercizi e studi pianistici. Proprio dal contrasto tra il libero processo creativo e la forma trae origine l’improvvisazione e la visione estetica che tanto caratterizzano oggi il pianista-compositore Say. Il completamento della formazione da pianista classico lo raggiunge con David Levine e successivamente alla Musikhochschule di Duesseldorf e a Berlino. Tecnica eccellente, miscela di raffinata sensibilità e di brillante virtuosismo lo hanno portato, nel 1994, alla vittoria nel concorso Internazionale Young concerts Artist in New York. Il Say compositore ha scritto opere per pianoforte solo, di musica da camera, concerti solistici e importanti brani per orchestra per il Festival di Salisburgo, la WDR di Colonia, la Konzerthaus di Dortmund, lo Schleswig- Holstein Musik Festival, il Festspiele Mecklenburg-Vorpormmern e la Biennale di Monaco. Il pianista turco Fazil Say vive a Istanbul, ponte culturale tra oriente e occidente “Non compilo il programma di un concerto in base alla celebrità di un pezzo, ma in relazione a quello che l’autore ha da dire al pubblico” Dalle sue stesse parole emerge una chiara inclinazione verso la musica del Novecento e oltre. Dipende forse dal fatto che lei stesso è un compositore? «Ho cominciato a scrivere musica fin da ragazzo, e devo ringraziare i miei maestri e i miei genitori per avermi incoraggiato. La mia produzione, soprattutto negli ultimi anni, si è arricchita di parecchi lavori: due Oratori, sette Concerti, musica da camera eccetera. Il pubblico mi conosce già come compositore, perché nei miei recital suono sempre come bis musica scritta da me. C’è un po’ di tutto, dal jazz alle trascrizioni di pezzi come Black Heart, le Variazioni di Paganini o Summertime. Ma spero che prima o poi si possano ascoltare in Italia anche lavori più impegnativi come il Concerto per violino, scritto per Patricia Kopatchinskaja, o quello per clarinetto, scritto per Sabine Mayer. Per me è importante soprattutto raccontare delle storie, che esprimano la mia vita, la cultura del mio paese, racconti che nascono nel mio focolare per così dire. Il mio ponte culturale consiste nell’introdurre il pubblico europeo nelle storie che conosco, nelle memorie della mia gente, questa è per me la cosa più importante». Lei ha scritto una Sinfonia monumentale che ha intitolato Instanbul. Cosa voleva raccontare? «Ogni movimento racconta una storia particolare, che unita alle altre forma una sorta di affresco della mia città. La Sinfonia è divisa in set- te parti, ciascuna delle quali è dedicata a un luogo o a un sentimento (il primo movimento per esempio s’intitola Nostalgia). Ci sono la Moschea Blu, la stazione dei treni verso l’Anatolia, il traghetto che attraverso il Bosforo collega la parte europea a quella asiatica e altre mie impressioni legate a Istanbul. Dal punto di vista sonoro, ho cercato di far dialogare l’orchestra sinfonica occidentale con gli strumenti della tradizione musicale turca. Ho impiegato in particolare uno strumento a fiato della famiglia del flauto che si chiama ney, una sorta di cymbalom di nome kanun, che si suona però con le dita e non con le bacchette, e infine delle percussioni tradizionali». In un certo senso rispecchia la sua stessa storia, no? «La Turchia è in gran parte un paese occidentale, direi che metà della popolazione turca potrebbe essere considerata occidentale. Sono andato in Germania per studiare a 17 anni, a 25 mi sono trasferito negli Stati Uniti, dove sono rimasto per sette anni, a 32 sono tornato in Turchia dopo aver vissuto in Occidente per 15 anni. I tempi sono cambiati. Viviamo nell’epoca di Internet, nella quale chiunque ha a disposizione il mondo nel salotto di casa sua. Il nostro pianeta oggi è così, un mondo globale. È normale vedere un direttore d’orchestra del Venezuela, così come un pianista che viene dalla Cina, dalla Turchia o dal Giappone». musicalmente 9 IN COPERTINA “Se la musica è tradizione, il suono del presente rappresenta sempre più l’incontro di culture” L’ha dichiarato anche Elio, in un’intervista di poche settimane fa: oggi «il confine tra classica e popolare è più sfumato. I due mondi si avvicinano». Le parole del poliedrico leader delle Storie Tese, diplomato in flauto a Milano e protagonista in un paio di occasioni del teatro musicale di Azio Corghi e di Luca Lombardi, toccano un interrogativo molto attuale: ha ancora senso parlare di contaminazione dopo tutta l’acqua che è passata sotto i ponti della musica, soprattutto dagli ultimi decenni del Novecento in poi? L’abbiamo chiesto a quattro autorevoli compositori contemporanei differenti per formazione e linguaggio; pur con tutte le sfumature del caso, le posizioni sull’argomento sono risultate affini. «Credo che siamo ormai in una fase posteriore rispetto a quella in cui il concetto di contaminazione cominciò a manifestarsi per esprimere una varietà di incroci stilistici ed estetici», afferma Ivan Fedele, da poco nominato direttore del Settore Musica della Biennale di Venezia; «musica etnica, jazz, rock: i compositori manipolavano di tutto con esiti più o meno convincenti, mentre le nuove tecnologie e l’elettronica si affacciavano nel campo della musica pop, operando non un intreccio di linguaggi, ma solo una sovrapposizione». Secondo Adriano Guarnieri, l’autore di Medea e di Pietra di diaspro, «siamo in una fase di superamento molto importante. Si sta recuperando il senso della pagina che elabora dal punto di vista colto di Patrizia Luppi anche le altre cifre. Che senso ha oggi CONTAMINARE? Quattro autorevoli compositori - Ivan Fedele, Adriano Guarnieri, Silvia Colasanti e Fabrizio De Rossi Re - ci raccontano la loro opinione sull’argomento 10 musicalmente IN COPERTINA A sinistra Silvia Colasanti. A destra, dall’alto Adriano Guarnieri, Ivan Fedele e Fabrizio De Rossi Re Oggi non parlerei più di contaminazione, ma di un travaso che trovo interessantissimo tra un genere e l’altro, senza più barriere e steccati». Fabrizio De Rossi Re, autore versatile per preparazione e orientamento, opera dei distinguo: «Altrove, in particolare nel mondo americano (ma non solo), la scena musicale è pronta ad appropriarsi di qualunque linguaggio musicale e a ricodificarlo, dall’improvvisazione al jazz, alla contemporanea, al noise, al rock, alla musica popolare, alla musica per cartoni animati. Oggi per fortuna qualche segnale di rinnovamento si affaccia pian pianino anche nel nostro museale e sonnolento mondo europeo. Devo dire onestamente però che l’Italia in questo momento mi pare creativamente più interessante e libera rispetto ad altri paesi europei ancora talvolta profondamente segnati e mummificati dal dogma della musica contemporanea “difficile e complessa” dell’immediato dopoguerra». Silvia Colasanti, la più giovane dei quattro, ha la particolarità di essere una compositrice di sicuro e crescente successo in un mondo ancora dominato da personalità maschili: «Se la musica è tradizione, il suono del presente rappresenta sempre più l’incontro di culture», sostiene. «Ci sono compositori che ne fanno un fondamento estetico e altri che, vivendo nel presente, proprio per questo assimilano generi differenti». Lancia però un avvertimento: «Molto spesso si usano materiali “altri” senza conoscerne la sostanza e la memoria, con una superficialità che io trovo abbastanza sterile. Pensiamo invece, per fare solo un esempio, a un autore come Takemitsu: nel suo caso, l’uso di certi stilemi occidentali ha un senso profondissimo. In definitiva, a me interessa la contaminazione, ma solo quando c’è consapevolezza di ciò che si incontra, della sua cultura e della sua memoria». Fedele ricorda d’altronde Luciano Berio quando, già negli anni Cinquanta, si riferiva a «un materiale comune, che è quello che usiamo, ma con obiettivi e forme che possono essere molto diversi». E continua: «Per evitare distinzioni che fossero troppo settoriali e discriminanti, si è fatta una confusione ideologica; ma la musica non è una, le musiche sono tante e possono servirsi degli stessi suoni. Ogni musica, peraltro, ha dignità e personalità, la diversità non dovrebbe essere vista in maniera discriminatoria né fare paura. Per me, anzi, la varietà di stili e orientamenti è molto bella». In ogni caso, dice ancora Fedele, «eviterei ormai il termine contaminazione, per usare piuttosto coniugazione o, meglio ancora, fecondazione: questa fa pensare alla vita, contaminazione invece alla malattia e alla morte». Il quadro che si compone è nel complesso molto dinamico e apre orizzonti affascinanti. «Fino a una decina d’anni fa», rammenta Guarnieri, «ascoltando certe pagine si avevano dei sussulti, perché ancora si operavano delle separazioni, delle identificazioni rigide. Ora invece la percezione è svettata e sta avvenendo una sorta di osmosi linguistica; forse non è ancora matura, ma la strada verso il sincretismo è segnata. D’altronde siamo in un passaggio epocale e la musica rispecchia la nostra società sempre più globalizzata». «Personalmente, questa caotica e dissacrante globalizzazione musicale mi esalta, purché sia di qualità», conclude De Rossi Re. «Me ne rendo conto viaggiando in macchina. Programmo anche nello stesso viaggio un pezzo di musica popolare calabrese, poi un paio di Variazioni Goldberg di Bach, una canzone di Mina e magari un paio di Cantate di Alessandro Scarlatti… E arrivo a destinazione». musicalmente 11 IN COPERTINA “SPORCARE” la MUSICA un’arte senza tempo Il percorso secolare della musica, che nel suo preteso progresso rettilineo consideriamo colta, ha conosciuto singolari intrecci dove il basso si è intriso con l’alto. Così Beethoven si ispira a un’aria triviale, Schumann cita la Marsigliese e Bartok sfoggia una forte tensione nazionalistica di Gian Paolo Minardi «Ci furono, e ci sono ancora, malgrado i disordini che arreca la civilizzazione, dei popoli che appresero la musica come si impara a respirare. Il loro Conservatorio è il ritmo eterno del mare, il vento fra le frasche…», così si esprimeva Debussy incantato dalla musica giavanese, che tuttavia sentiva regolata da «un contrappunto al confronto del quale quello di Palestrina non è che un gioco da bambini». Se rievochiamo l’opinione di Berlioz, personaggio tutt’altro che conformista, - «gli orientali chiamano musica ciò che noi chiamiamo baccano, e per loro, come per le streghe del Macbeth, l’orribile è il bello» - abbiamo la sensazione di quale apertura d’orizzonti sia andata svelandosi in pochi decenni. Non che il percorso secolare del12 musicalmente la “nostra” musica, quella che nel suo preteso progresso rettilineo consideriamo “colta”, non abbia conosciuto singolari intrecci dove il “basso” si è intriso con l’“alto”. I travestimenti spirituali di canti popolari, spesso trasgressivi, che hanno innervato la religiosità delle laudi, l’operazione di Lutero e della Controriforma, le canzoni popolari su cui è fiorita la nostra emancipazione strumentale e così più avanti fino a Beethoven che in una delle sue ultime Sonate, la spirituale op. 110, dà rilievo ad un’aria triviale, Ich bin liederlich, o gli echi della Marsigliese che risuonano nello schumanniano Faschingsschwank aus Wien per riaffiorare nei debussyani Feux d’artefice. Senza dire delle linfe popolaresche di cui si nutrono le varie “scuole nazionali”, lo stesso Čaikovskij che nonostante l’accusa di esterofilia impregna le sue partiture di melodie ucraine; senza trascurare, nel suo famoso Concerto per pianoforte, il ricordo di quella canzoncina francese Il faut s’amuser, danser et rire che il piccolo Čaikovskij sentiva cantare dai fratelli, Modest e Anatol. Sono certo indizi di quell’esigenza di nuova aria che diventerà sempre più premente agli inizi del novecento, l’istanza di libertà dai gorghi sempre più avvolgenti dell’eredità wagneriana. Ecco allora la forza del primitivo, ritrovato come sorprendente sfogo liberatorio, provocatorio anche: Les demoiselles d’Avignon di Picasso, sfida alle raffinatezze dell’impressionismo; in musica la forza panica, barbarica del Sacre stravinskiano dove l’esaltazione IN COPERTINA del ritmo come energia primaria viene rivissuta in realtà attraverso un filtro sofisticatissimo, la poliritmia e la politonalità giocate con diabolica abilità, aspetto questo che è pressoché inseparabile da ogni esperienza avanguardistica, a dire di una visione al quadrato che sembra insita nell’idea stessa di modernità. Bisogno di autenticità, anche, cui assolve lo sviluppo degli studi etnomusicologici: esemplare il ruolo di Bartok, spinto verso di essi dalla forte tensione nazionalistica che lo animava e che lo portò ad intraprendere un’impresa enorme, nel censire sul campo tutto un patrimonio di testimonianze che costituivano le radici di una civiltà. Il rigore dello studioso rimarrà tuttavia separato da quello del compositore; rari i trapassi di quel materiale folclorico nell’ambito creativo, dove quel folclore rivive – «folclore immaginario» si dirà – come frutto d’invenzione, attivata questa da un modo di rileggere la storia, quella recente segnata da Debussy che aveva «restaurato il senso degli accordi», ma pure di Beethoven «che ci ha rivelato la forma progressiva, e di Bach che ci ha introdotto definitivamente alla trascendenza del contrappunto». Ma altri venti sospingevano l’ansia della modernità: «basta con le nuvole, le onde… Abbiamo bisogno di una musica che se ne stia giù sulla terra, una musica di tutti i giorni» proclamava Cocteau, invito che troverà esaltante alimento, nel clima del dopoguerra, nell’arrivo in Europa del jazz con le sue poliritmie, le sue sincopi, i timbri crudi, le sfiancanti dolcezze del blues, una nuova energia di cui si approprieranno, come nuovo pimento per la loro tavolozza, tanti musicisti, dai “Sei” di Cocteau a Stravinskij, a Hindemith e tanti altri; una moda, indubbiamente, che lascerà tracce non occasionali, nell’allargare l’orizzonte europeo: attraverso i filtri sottili, enigmatici di Ravel che nel tardo Concerto in sol sembra riunire, nel segno di una inconfessata sfida, tutti gli ingredienti: il sogno apollineo mozartiano che rivive nell’Adagio assai fiorito magicamente tra il pulsare dei due altri movimenti, sempre nel segno di quella leggerezza che manipola più stili, memorie basche, disinvolture tonali, modi sprezzanti e ritegni pudichi, eccitazioni jazzistiche, appunto, persino echi di quel Gershwin al quale, com’è noto, aveva negato il proprio insegnamento nella convinzione che avrebbe finito per frenare quella così naturale genialità che forse lui stesso invidiava. “Abbiamo bisogno di una musica che se ne stia giù sulla terra, una musica di tutti i giorni” In apertura Bela Bartók con un grammofono registra melodie popolari cantate da contadini cechi (1908). A lato, caricatura di Beethoven musicalmente 13 IN COPERTINA Giovanni Sollima artista ba-ROCK(o) interpreti come Gidon Kremer, Yo-Yo Ma e Mario Brunello, ma anche Patti Smith, Vinicio Capossela, Edoardo Bennato ed Elisa, mentre non si contano le sue collaborazioni ‘multimediali’ con Carolyn Carson, Bob Wilson, Peter Greenaway. «In me convivono da sempre due anime», racconta, «quella barocca, che respira all’unisono con la storia e le stratificazioni del mio violoncello datato 1679, e quella più rockettara di uomo che vive con intensità il XXI secolo». Sente appartenerle l’etichetta di contaminatore? «È una definizione che associo a quel processo naturale di curiosità irrefrenabile, direi quasi patologica, che abita in me sin da bambino Contaminare significa entrare in contatto con la molteplicità dei linguaggi, ma anche dei mezzi e dei supporti del momento, fermo restando che alla velocità di ricezione che caratterizza la tecnologia deve corrispondere un giusto e lento tempo di elaborazione. In realtà, oggi, il nuovo corso della contaminazione è per me andare a ritroso nelle radici dell’anima del mio violoncello, che ho usato per avventure diverse. Ad averla vinta, però, è sempre l’anima cantante di questo strumento che può ridere, piangere, parlare con le corde moderne “Contaminatore io? Direi piuttosto un irrefrenabile curioso”. Così si racconta l’eclettico violoncellista e compositore di cui Tempo d’Orchestra propone “Alone” di Anna Barina Ha sviluppato sulle quattro corde virtuosismo d’esecutore e creatività di compositore. E per farlo ha compiuto anche azioni estreme come suonare un violoncello di ghiaccio in un igloo a venti gradi sotto zero. Giovanni Sollima, classe 1962, palermitano, nato come interprete classico, si è esibito al fianco di artisti come Claudio Abbado, Riccardo Muti, Bruno Canino, Marta Argerich per poi intraprendere un’attività esecutiva e compositiva fondata sull’esplorazione di generi e tradizioni diverse, con contaminazioni di rock e jazz, di minimalismo anglosassone e musica etnica. Il risultato è uno stile inconfondibile, amato ed eseguito da 14 musicalmente IN COPERTINA in acciaio come con l’accordatura in budello nudo, con Bach come con i Nirvana». Lei ha vissuto esperienze che attraversano anche altre arti, ad esempio la danza contemporanea. Quali suggestioni ne ha ricavato? «Ho scritto le musiche per una coreografia di Carolyn Carson alla Biennale di Venezia del 2001, ma anche per altre compagnie di ballo e per il teatro. Sono state esperienze interessanti, che hanno toccato parametri diversi dell’interpretazione, anche se il diagramma espressivo di un movimento di danza spesso ha la stessa dinamica di quello di un’esecuzione musicale, non solo sul piano gestuale, ma anche su quello comunicativo e della respirazione. La partitura non era quindi solo suonata, ma presente nella relazione spazio-temporale dello spettacolo». “Contaminare” può essere un modo di attualizzare la musica? «Per me sì, e lo faccio da anni, anche se in Italia da poco, di alternare in concerto brani classici e ibridazioni dalla letteratura rock. Se questo abbinamento può sembrare un contrasto stridente, in realtà l’approccio è molto simile come affini sono i rapporti numerici e architettonici che stanno alla base. È sorprendente come brani di epoche e stili diametral- “Se non suonassi non scriverei musica, viceversa se non componessi continuerei a suonare il violoncello” Giovanni Sollima (foto di Gian Maria Musarra) mente opposti possano talvolta specchiarsi e trovare punti di contatto a prima vista invisibili: un’apparente incompatibilità che crea un’unione fortissima. Questo accadeva anche in passato. Boccherini ad esempio, nei suoi viaggi in Spagna e in Francia sperimenta altri linguaggi portandoli sul violoncello. Unisce fandango e zarzuela alla tradizione popolare italiana: nei suoi quintetti c’è un’evocazione continua di elementi stilistici che l’accademismo poteva tenere lontani, invece lui li ingloba e assimila tecniche nuove. Il suo contatto con il popolare è l’equivalente di quello che oggi possiamo avere con una musica altra o un’altra cultura. Ci sono, è vero, situazioni in cui questo accade per ragioni di mercato o per il piacere di provocare, ma non è il mio caso». Un contatto con linguaggi altri che troveremo anche in Alone, il suo brano che viene eseguito il 9 e il 10 marzo da Stefano Guarino. «In questo lavoro ci sono echi dalla musica folk con una ricerca sul suono del violoncello sperimentato come voce umana e come strumento cantante attraverso tecniche di diverse tradizioni musicali. Ma non c’è nulla di preorganizzato, mi interessava indagare altre tecniche. Alone è nato nel 1999 da un paio di illuminazioni in concerto, e l’ho suonato molte volte dal vivo prima che prendesse forma sulla carta. L’ispirazione non è altro che una forma di composizione in tempo reale, di progettualità estemporanea». Come convivono Sollima interprete e Sollima compositore? «Il rapporto è stretto, in entrambi i casi sono mosso dalla stessa forma di curiosità che mi porta ad incamerare, anche solo sul piano dell’assimilazione passiva, tutto ciò che mi circonda. E non necessariamente riferito alla musica, può essere un’immagine, un paesaggio, uno spazio, il sapore di un piatto particolare. Non nascondo però che nel comporre è fondamentale il mio legame fortissimo con il violoncello e la sua letteratura, quella ufficiale e quella nascosta. Se non suonassi non scriverei musica, viceversa se non componessi continuerei a suonare il violoncello». musicalmente 15 Tempo d’Orchestra ai tempi della crisi è una stagione costretta a ripensarsi in corso d’opera. Accade che contributi promessi arrivino pesantemente decurtati, che sovvenzioni ventilate non arrivino per nulla, che realtà propense a sostenere l’attività con convinzione escano, anche loro malgrado, di scena. E allora non resta che correre a quei ripari a lungo dilazionati nella vana speranza che qualcosa ancora potesse evolvere diversamente. Ne deriva la scelta che la direzione artistica si è trovata a dover compiere a cartellone annunciato: la sostituzione di un concerto in abbonamento e il conseguente cambio di sede di un altro. Così venerdì 2 marzo non si darà l’occasione di ascoltare il violinista Marco Rizzi con l’Orchestra I Pomeriggi Musicali al Teatro Sociale, mentre il 9 marzo non si andrà nella Sala Consiliare del Palazzo Comunale di Ostiglia. Annullato il primo appuntamento, il secondo raddoppierà trasferendo, però, la propria sede al Teatro Bibiena di Mantova, così da accogliere gli abbonati della serie Ostiglia – venerdì 9, come previsto e per i quali verrà predisposto un Music bus gratuito – ma anche Amici Sostenitori (sabato 10), Orfeo (sabato 10) e Apollo (venerdì 9). Coloro che a inizio stagione sottoscrissero tessere Prime Note potranno invece accedere al concerto conclusivo della stagione, con Fazil Say e l’Orchestra da Camera di Mantova, in programma al Teatro Sociale di Mantova venerdì 13 aprile. Variazioni e FUGA (dalla CRISI) 16 musicalmente Stefano Guarino al violoncello I CONCERTI DOPPIO SUONO e magica alchimia Nei secoli passati non era infrequente trovare muStefano Guarino combina sicisti altamente versatili, in grado di suonare e di comporre, di leggere la musica e di improvvisare, fisicità del suono con ampiezza di passare dagli strumenti a fiato a quelli a corda, di sguardo. Ascoltare per credere, di cantare in modo espressivo e con intonazione impeccabile. Il Novecento, con la sua accentuata in due serate tendenza alle specializzazioni per lo più dovute a mutati fattori socioeconomici, ci ha abituati ad un panorama ben diverso, con scelte di al Teatro Bibiena campo che normalmente implicano molteplici rinunce. Ascoltare in di Mantova venerdì 9 concerto un musicista come Stefano Guarino, rarissimo esempio di virtuoso che possiede in pari grado la tecnica del violoncello e quele sabato 10 marzo la del pianoforte (eloquenti i due diplomi di Conservatorio, con il di Marco Bizzarini Il concerto dell’ensemble Vox Secreta, inizialmente in programma sabato 11 febbraio e rinviato per neve, sarà recuperato sabato 31 marzo (Auditorium di Suzzara, ore 20.45) massimo dei voti, in entrambe le discipline), dimostra come il talento umano possa ancora svilupparsi ai massimi livelli in più direzioni. Per fare un paragone con il mondo dello sport, essere in grado di suonare perfettamente il violoncello e il pianoforte è come per un atleta vincere nei duecento metri piani e poi essere altrettanto competitivo nel salto con l’asta. Ben pochi, oggi, accetterebbero la sfida di impegnarsi in due discipline così diverse. Eppure la versatilità, in musica come in altri settori, non è solo un fenomeno raro, e come tale oggetto di stupore, ma anche qualcosa che offre indubbi vantaggi. Infatti, al di là dell’oggettiva eccellenza tecnica che Guarino dimostra nello strumento ad arco come in quello a tastiera, nelle sue interpretazioni si nota una musicalità più completa di quella che potrebbe offrire, nella maggior parte dei casi, un buon concertista specializzato in uno solo dei due strumenti. Da un lato, quindi, si può assistere a spettacolari esecuzioni di pezzi notoriamente molto difficili, come il Mephisto Walzer di Liszt o i tre Preludi di Gershwin per pianoforte, accanto alla Suite di Cassadò e allo spettacolare Alone per violoncello solo di Giovanni Sollima; ma dall’altro lato – ed è l’aspetto più importante – si vede in opera un’intelligenza musicale che ben comprende la musica di Liszt perché arricchita dall’esperienza violoncellistica, e che valorizza i pezzi per violoncello solo perché corroborata dalla visione armonica e formale propria dello strumento da tasto. Ecco allora la fisicità del suono integrata dall’ampiezza dello sguardo, l’intensità del cantabile compenetrata dalla dimensione ritmica e polifonica. Una lezione d’altri tempi, forse, ma proprio per questo motivo anche di grande attualità. CHI, DOVE E QUANDO Stefano Guarino è volto noto al pubblico di Tempo d’Orchestra, che non di rado lo ha visto (e ascoltato) come primo violoncello dell’Orchestra da Camera di Mantova e che ora - venerdì 9 (abbonati Ostiglia e Apollo) e sabato 10 marzo (abbonati Amici Sostenitori e Orfeo), al Teatro Bibiena (ore 20.45) - ha occasione di scoprirlo anche pianista. Diplomato con il massimo dei voti in ambedue le discipline, ha studiato con Sergio Torri, Piero Guarino, Piernarciso Masi, Donna Magendanz, Mario Brunello, Enrico Dindo. Guarino è vincitore in ambito solistico e cameristico, sia col pianoforte che con il violoncello, di numerosi premi nazionali ed internazionali. European Union Youth Orchestra e Gustav Mahler Jugendorchester, Camerata Academica Salzburg, Mahler Chamber Orchestra, Lucerne Festival orchestra sono solo alcune delle prestigiose collaborazioni che ne arricchiscono il curriculum aristico. musicalmente 17 I CONCERTI L’arpista Isabelle Moretti e, in questa foto, la suggestiva sala del Castello di Dachau Il fascino che in molti producono il suono e l’estetica dell’arpa è probabilmente da ricercare nelle parole di un’interprete come Isabelle Moretti: «chi suona abbraccia l’arpa, instaura un rapporto intimo con lei, le dita toccano direttamente la fonte sonora dando vita a vibrazioni ed emozioni né troppo intime né troppo invadenti; nell’immaginario collettivo l’arpa è associata a strumento degli dei e degli angeli, al re Davide e a Orfeo, nella simbologia africana è lo strumento che collega la terra al cielo». Conosciuta fin dagli antichi Egizi, l’arpa ha subito grandi trasformazioni lungo i secoli, dai 50 cm di altezza dell’arpa gotica ai 180 odierni, e la sua estensione di poco più di tre ottave oggi conta sei ottave e mezzo. Il problema maggiore che si presentò con lo sviluppo della scrittura musicale a cavallo tra il XVI e il XVII secolo consisteva nell’avere uno strumento diatonico, cioè che non permetteva di suonare passaggi cromatici, così si cominciò ad intervenire. Dapprima con l’arpa doppia, formata da due cordiere: nella prima erano disposti i suoni naturali, nella seconda i diesis e i bemolle. Era però molto ingombrante e di Arabella Cortese scomoda e cadde in disuso. Lo STRUMENTO di angeli e dei L’arpa ha subito nella storia grandi trasformazioni. Di pari passo si sono evolute le composizioni a essa dedicate tra cui spiccano le opere di Parish-Alvars e Debussy proposte da Isabelle Moretti 18 musicalmente I CONCERTI “Suonando si abbraccia l’arpa, s’instaura un rapporto intimo con lei, le dita toccano la fonte sonora dando vita a vibrazioni ed emozioni “Nell’immaginario collettivo è associata al re Davide e a Orfeo, nella simbologia africana è lo strumento che collega la terra al cielo” Grazie a Jacob Hochbrucker, nel 1720 iniziò la vera rivoluzione dell’arpa: egli realizzò il primo meccanismo a pedali. Il sistema non era ancora preciso, la corda infatti veniva tirata dal gancio (crochet) uscendo però dal piano delle altre corde e spesso succedeva che era troppo o troppo poco stretta e si rompeva oppure la vacillazione del punto di attacco dava al suono una cattiva qualità. È grazie a Sébastien Érard, già noto per i suoi pianoforti, che i ganci furono sostituiti da fourchettes (forchette), ovvero dischi in ottone con due bottoni sporgenti entro i quali passa ciascuna delle 47 corde che vengono accorciate in modo preciso attraverso un movimento di rotazione. I pedali sono sette, ognuno di essi corrisponde a una delle sette note. Azionando questi pedali a doppio movimento, l’esecutore è in grado di alzare o abbassare l’intonazione di ciascuna nota, rendendo finalmente possibile suonare in tutte le tonalità ed eseguire le alterazioni. Siamo nel 1811. Da qui la letteratura arpistica conobbe una strada in discesa e numerosi furono i virtuosi e i compositori che si dedicarono a questo strumento affascinante. Tra di essi va ricordato Elias Parish Alvars, che ascolteremo a Quistello il prossimo 16 marzo, considerato il Liszt e il Paganini dell’arpa, musicista e compositore stimato da Czerny, Mendelssohn, Berlioz e dallo stesso Liszt. Alvars sviluppò nell’arpa moderna Erard nuove tecniche quali accordi glissati, effetti enarmonici, étouffées, note suonate alle estremità della cordiera, tecnica “a 3 mani”. Sarà la Moretti a introdurci nella musica coinvolgente e intensa di Alvars col suo suono caldo, passionale, malinconico, deciso e ben sgranato nei passaggi virtuosistici, nondimeno che in quella di un altro nome che non ha bisogno di presentazioni, ossia di Claude Debussy con le Danses sacrée et profane, esotiche, brillanti e ricche di effetti. DA QUISTELLO A DACHAU Isabelle Moretti è una delle interpreti più accreditate e seducenti del mondo musicale di oggi. La sua arte nobile e raggiante e il suo temperamento l’hanno portata alla vittoria di numerosi premi (Concorsi Internazionali di Ginevra, Monaco e Israele) e ad essere ospite in grandi sale da concerto sia con importanti orchestre, tra cui l’Ensemble Orchestral di Parigi, la Israel Philharmonic Orchestra, la Symphonieorchester des Bayerischer Rundfunks, la National Simphonie di Varsavia, che in formazioni cameristiche, alla cui musica è molto affezionata. Il suo repertorio abbraccia la produzione musicale dal XVIII secolo fino a creazioni contemporanee eseguite in prima assoluta. Numerose e di successo sono le incisioni discografiche. Nella sua prima collaborazione con l’Orchestra da Camera di Mantova, venerdì 16 marzo (ore 20.45) inaugura il Teatro Lux di Quistello quale sede della manifestazione Tempo d’Orchestra. Un mese o poco più e il sodalizio debutterà sulla scena internazionale con un concerto in programma sabato 21 aprile nel Castello di Dachau (Germania). In programma anche musiche di Haydn, Elgar e Mendelssohn. musicalmente 19 I CONCERTI “MADAMA DoRe, LE TANTE RAGIONI DI UN SUCCESSO” Madama DoRe oltre le più rosee aspetta- tive. Il pubblico ha risposto numerosissimo, gli abbonati sono stati davvero tanti e il teatro si è sempre presentato gremito. L’iniziativa ha saputo conquistare persino il pubblico dei quarantenni, per la classica arduo da raggiungere. Da dietro le quinte bilancio, dunque, pienamente positivo. Dal palcoscenico? La parola a Giovanni Bietti, comunicatore e musicista protagonista di tre su cinque degli appuntamenti in cui si è articolata la prima edizione della rassegna. «Direi altrettanto positivo, e del resto il palcoscenico dipende direttamente dalla sala, chi suona musica dal vivo deve interagire con chi ascolta. Il pubblico era vivace e curioso, e questo aiuta, sia a parlare che a suonare». Il segreto di questo successo? «Cominciamo dai quarantenni, qui così numerosi: questi spettacoli hanno un’aura meno “sacrale”, non c’è problema se si tossisce o se un bambino parla durante l’esecuzione; in più la musica viene spiegata, si è accompagnati e non lasciati Goethe la definiva «una raffinata conversazione attraverso i suoni»: è la musica da camera, genere a cui è dedicato il quinto ed ultimo appuntamento (in programma domenica 18 marzo al Teatro Bibiena di Mantova) di Madama DoRe - Musica Formato Famiglia, rassegna di concerti della domenica mattina che concorre alla definizione del diciannovesimo cartellone della stagione concertistica dell’Orchestra da Camera di Mantova, Tempo d’Orchestra 2011/2012. Il titolo di questo incontro, Quando la musica si fa piccina, si riferisce alle particolari caratteristiche della musica da camera: scritta per ambienti piccoli e raccolti, molto spesso per il piacere di fare musica in famiglia (una pratica che tutti noi, musicisti e non, rimpiangiamo molto!). La musica da camera è quindi da sempre più intima, meno estroversa nel carattere rispetto all’opera o alla musica sinfonica; ma tale minore spettacolarità è compensata dalla ricchezza, dalla complessità dei dettagli, dallo spirito di ricerca che la anima. Una legge dell’arte (non scritta) ci dice infatti che maggiore è il numero di persone che devono usufruire dell’opera d’arte, minore dovrà essere la complessità, la ricchezza di dettagli e di sfumature: e scrivendo per un uditorio raccolto il compositore può quindi “guardare negli occhi” il suo ascoltatore, confidargli segreti più misteriosi, svelargli bellezze più nascoste. In alcuni casi un brano musicale può addirittura essere composto senza avere in mente un pubblico: esso è destinato al singolo individuo, va suonato, meditato, risuonato e rimeditato nella quiete della propria stanza. Immaginate che Beethoven, scrivendo al proprio editore per proporgli l’acquisto di un nuovo Quartetto per archi (l’op. 95, una delle sue miniature più squisite e complesse) diceva che «il Quartetto è scritto per una limitata cerchia di intenditori, e non dovrà mai essere eseguito in pubblico»! Per nostra fortuna i musicisti non hanno seguito la sua indicazione… L’incontro, che coordinerò e condurrò domenica 18 20 musicalmente da soli al cospetto delle note. Logico che una generazione che ha un po’ “saltato” l’esperienza della musica dal vivo, si senta meno a disagio. Inoltre credo che siamo tutti un po’ più consapevoli, giorno dopo giorno, di quanto ai nostri figli non siano oggi offerti strumenti adeguati di crescita e di conoscenza. Credo quindi che occasioni come Madama DoRe, che tra l’altro è molto accessibile anche dal punto di vista economico, siano sentite come importanti e necessarie. Finalmente». (v.p.) Piccola GRANDE musica da camera Goethe la definì “una raffinata conversazione tra suoni”. L’ultimo dei 5 concerti per il pubblico delle famiglie la elegge a protagonista di Giovanni Bietti puntando a mostrare al pubblico le caratteristiche dei brani eseguiti per andare a scoprirne i segreti, è affidato agli allievi del prestigioso Corso di perfezionamento in musica da cameAMadama DoRe, ra dell’Accademia quarto atto Nazionale di Santa Cecilia di Roma (Raffaele Fuccilli, violino, Samuele Danese, viola, Luca Russo Rossi, violoncello, Patrizia Salvini, pianoforte, Giuseppe Rossi, pianoforte). Tra i brani in programma ci sono alcuni dei massimi capolavori cameristici di ogni tempo: la Sonata per violino e pianoforte di Maurice Ravel, il Trio “Gli spettri” di Ludwig van Beethoven, il Trio “Racconti di fiaba” di Schumann ed il Quartetto per pianoforte e archi op. 25 di Johannes Brahms. NOTE ALL’ASCOLTO a cura di Andrea Zaniboni Stefano Guarino Mantova | Teatro Bibiena Venerdì 9 marzo 2012, ore 20.45 (abbonati Ostiglia e Apollo) Sabato 10 marzo 2012, ore 20.45 (abbonati Amici, Orfeo, Ouverture) G. Cassadò, Suite per violoncello F. Liszt, Méphisto Walzer per pianoforte N. Paganini, Capricci op.1 n.14, 16, 19 per violoncello (trasc. Luigi Silva) G. Gershwin, Tre preludi per pianoforte “Rhapsody in Blue”, per pianoforte solo (rielaborazione S.Guarino G. Sollima, “Alone” per violoncello violoncello solo e pianoforte solo INSERTO ESTRAIBILE Gaspar Cassadò, nato a Barcellona nel 1897, studiò violoncello a Parigi con il suo compatriota Pablo Casals. Iniziò la sua brillante carriera nel 1918, diventando uno dei solisti più apprezzati del suo tempo. Morì a Madrid nel 1966. Come compositore fu fortemente influenzato a Parigi dai suoi contemporanei Maurice Ravel e Manuel de Falla. La sua Suite per violoncello contiene la più caratteristica delle danze catalane, la “Sardana”. Le forti soggettività creative dei due autori ottocenteschi in programma inaugurano il virtuosismo trascendentale. Niccolò Paganini (1782-1840) agisce al principio dell’Ottocento da catalizzatore di un nuovo pubblico e di un nuovo modo di intendere il rapporto con la creazione e la comunicazione. Ed è proprio l’ungherese-tedesco Liszt (1811-1886) a Parigi, insieme a Chopin, ad assumere dal virtuoso italiano il nuovo look del musicista, trasferendo sul pianoforte la ricerca tecnica ed espressiva fiorita sul violino. Ed il demoniaco lì apparso passa nella pagina lisztiana ispirata alle liriche del Faust di Lenau: la Danza all’osteria del villaggio, mefistofelico invito al piacere, appartiene alle più profetiche intuizioni della maturità del compositore, preannunciando esiti linguistici novecenteschi. Dal violino del genovese, Luigi Silva ha trascritto invece i Capricci: in programma tre dei ventiquattro prodigiosi esperimenti, in un gioco d’azzardo che non può non tentare, nel confronto con una costellazione di emblematici pezzi di bravura. George Gershwin (1898-1937) è stato un compositore, pianista e direttore d’orchestra statunitense. La sua opera spazia dalla musica classica al jazz. È considerato l’iniziatore del musi- Gershwin cal americano e le sue composizioni sono la chiara testimonianza dell’entrata degli Stati Uniti nel panorama della grande musica internazionale. Fu Paul Whiteman, uno dei premièr più importanti dell’epoca, a commissionare a Gershwin una “canzone” di jazz sinfonico da eseguire all’Aeolian Hall di New York. Era il 1924, e, si dice in meno di tre settimane, egli riuscì a comporre il suo lavoro più apprezzato: Rhapsody in Blue, per pianoforte e orchestra ovvero una composizione classica che combina cinque melodie differenti e alterna il classicismo al jazz. La Rapsodia in Blu (le cosiddette “blue notes” erano la terza e la settima della scala jazz) è tuttora uno dei pezzi più eseguiti dai pianisti e dalle orchestre di tutto il mondo. I tre Preludi sono del 1926, altra chiara espressione della sua principale innovazione compositiva: la combinazione dei tipici elementi classici (ad esempio perfezione nello stile, rigidezza dello schema) con i ritmi e le melodie jazz che erano già fortemente radicate nella musica nera americana. Palermitano, nato nel 1962, Giovanni Sollima (si veda l’intervista a pag. 14, ndr) è oggi uno dei talenti più origina- li ed eclettici del panorama musicale contemporaneo. Figlio di una famiglia di musicisti, il padre anch’egli compositore di indubbia maestria, si diploma al Conservatorio della sua città, per poi perfezionarsi alla Musikhochschule di Stoccarda, allievo di maestri quali Antonio Janigro per il violoncello e Milko Kelemen per la composizione. La sua innata e vivace curiosità lo porta ancora giovanissimo a scoprire e sperimentare sonorità sempre nuove, a cercare nella mescolanza dei generi più disparati, dal rock al jazz, dal minimalismo anglosassone alla musica popolare della Sicilia, con l’occhio creativo fisso su etnie lontane, ma spiritualmente affini alla sua terra, come l’Africa, il Medio Oriente e l’India. Il tempo e il talento gli permettono sì di affermarsi come solista, ma soprattutto come compositore, dimostrando uno stile marcato e multiforme, fatto di esperienze e culture raccolte dal mondo, confermandosi in una sempre più manifesta idea di musica globale. La solitudine esistenziale è l’espressione primaria del brano per violoncello solo Alone, composizione di particolare e rara bellezza per la sua alternanza di momenti statici di intimismo e di guizzi di virtuosismo pirotecnico. musicalmente 21 m NOTE ALL’ASCOLTO Orchestra da Camera di Mantova Isabelle MORETTI, arpa Fra il 1821 e il 1823, anni durante i quali Mendelssohn si dedicò alle sue prime sinfonie per archi, egli era un ragazzino adolescente di notevole natura. Si diceva che egli possedesse il segreto di amalgamare due nature contrapposte: «quella di un bambino pieno di vita e di felicità e quella di un artista già maturo che sa quello che fa», secondo la testimonianza di un conoscente. Le dodici Sinfonie per archi – per molto tempo rimaste quasi sconosciute, e pubblicate soltanto negli anni Sessanta del Novecento – esprimono in qualche modo il clima di maturazione e ricerca del giovane, precoce maestro: un clima esplicito nelle svariate soluzioni formali che vi si ritrovano e nella compresenza di influenze diverse, nel caso della Decima Sinfonia richiamate, secondo il parere del musicologo Eric Werner, a Gluck e Dussek e cioè ad esperienze trascorse o in via di esaurimento, benché illustri. Pagine comunque esemplari di un genio in formazione che andava predisponendo, con metodico studio ed intuito formidabile, l’ingresso nel mondo della grande sinfonia, che non a caso sarebbe avvenuto di lì a poco. Le due Danses per arpa e archi, brevi pagine debussiane, si dovettero alla commissione della casa Pleyel, la famosa azienda costruttrice di pianoforti. In particolare a Debussy fu richiesto di stendere un lavoro destinato ad un nuovo strumento ideato da Gustave Lyon, direttore della “Manufacture” francese e notevole ingegno di inventore e studioso: si trattava dell’arpa “cromatica”, concorrenziale con l’arpa “diatonica” di Erard, una novità realizzata un decennio prima, nel 1894, che nell’intento dell’inven- 22 musicalmente Quistello | Teatro Lux Venerdì 16 marzo 2012 ore 20.45 E. Elgar, Serenata per archi op.20 E. Parish-Alvars, Concertino in mi min. per arpa e orchestra d’archi op.34 C. Debussy, Danse sacrée et Danse profane per arpa e archi F. Mendelssohn-Bartholdy, Sinfonia n.10 in si minore per archi tore e del costruttore avrebbe dovuto risolvere i problemi esecutivi senza la necessità dei pedali. Tuttavia, caduta disgraziatamente in disuso l’arpa cromatica, le due pagine debussiane sfruttano pienamente, oggi, le caratteristiche tecniche e timbriche dello strumento moderno realizzando mirabilmente le minute intenzioni compositive e la raffinata ricerca timbrica che ne costituisce spina dorsale. Le due pagine, da eseguirsi concatenate, hanno per titolo Danse sacrée e Danse profane: due facce contrastanti, ma entrambe suggestive, di un’ispirazione delicatamente arcaica. Le Danses vennero eseguite per la prima volta il 6 novembre del 1904 a Parigi. «Quest’uomo è un mago. Nelle sue mani l’arpa diventa una sirena, con l’amabile collo inclinato ed i capelli selvaggi e fluenti, mossi dal suo appassionato abbraccio che pronuncia la musica di un altro mondo». Così diceva Hector Berlioz di Elias Parish Alvars, un musicista che non troverete facilmente citato dagli studiosi nei libri di storia, mentre invece è noto a chi approfondisce la letteratura per arpa. Un caso come ve ne sono altri: la musica entra in qualche compartimento stagno e vi rimane. Parish Alvars (1808-1849) fu, come si può intuire, un arpista di grande vaglia: la sua produzione risente fortemente della formazione strumentale e dunque abbonda proprio in quel settore. Pagine solistiche, cameristiche e con orchestra compongono la quasi interezza del suo catalogo, pubblicato da case di solida tradizione. Egli nacque in Inghilterra, ma divenne presto un artista europeo, trovando la stima di Berlioz che lo considerava, letteralmente, il «Liszt dell’arpa». Il Concertino in mi minore, per arpa e orchestra (o arpa e quartetto d’archi) è una delle sue pagine tipiche: amabilità e virtuosismo, aristocratica liricità e varietà di scrittura convivono in serena e convincente armonia. Il lavoro fu pubblicato a Vienna nel 1838 dall’editore d’origine italiana Mechetti. A chi esamina il catalogo di Edward Elgar non sfugge il fatto che praticamente tutta la produzione che gli diede fama a partire dagli ultimi anni dell’Ottocento, è opera della maturità. Del 1899 (Elgar aveva già 42 anni) sono le celebri Variazioni Enigma, del 1908 la sua Prima Sinfonia, del 1910 il Concerto per violino commissionatogli da Fritz Kreisler. In sostanza il maestro inglese ricevette riconoscimenti nazionali ed internazionali soltanto tardi, e del resto la sua formazione e gli inizi della carriera non seguirono tappe classiche e progressive. La Serenata op.20 per soli archi è una delle sue prime opere universalmente conosciute. Sebbene sia un lavoro di piccole proporzioni, s’impone per chiarezza e charme, giocando fra contenuta, vellutata brillantezza e nobile intimismo. Le origini di questo lavoro vengono fatte risalire ad una suite per archi presentata nel 1888, ma la Serenata apparve, nella sua interezza, soltanto nel 1896 ad Anversa, in Belgio, intrecciando mirabilmente naturalezza ed intensità di eloquio. Stampata nel 1893, realizzata anche in una trascrizione per duo pianistico, la Serenata fu un lavoro che Elgar non cessò mai di apprezzare, anche decenni dopo, quando i numeri della sua produzione divennero consistenti, al punto di inserirla nell’ultima delle sue registrazioni discografiche con la London Philharmonic Orchestra nell’agosto del 1933. Gonzaga | Teatro Comunale Martedì 27 marzo 2012 ore 20.45 J. Brahms, Quartetto in do minore per pianoforte e archi op. 60 F. Schubert, Quintetto in la maggiore per pianoforte e archi D. 667 “La trota” Pubblicato tardivamente, nel 1875, dall’editore Simrock di Berlino, il Quartetto in do minore, terzo ed ultimo della serie di Brahms, in realtà rigenera materiali giovanili, risalenti, pare, almeno al 1856, anno cruciale segnato dall morte precoce dell’amico Robert Schumann. Fu una partitura che si definì per tappe, attraverso uno di quegli interminabili processi di maturazione caratteristici di Brahms; tuttavia raggiunse esiti altissimi, di grande equilibrio tra essenzialità di scrittura ed eloquenza espressiva. L’atmosfera predominante è tesa, drammatica, dolorosamente intensa. Lo stesso Brahms in più occasioni ebbe a segnalare l’analogia di caratteri tra la sua musica e il romanzo goethiano I dolori del giovane Werther (1774), dove si narra l’amore impossibile di un giovane per una donna sentimentalmente già impegnata, concluso con il suicidio: non difficile ravvisarvi un riferimento a Clara Schumann. I movimenti di questo Quartetto, vibrante di emozioni, sono quattro: un Allegro non troppo, cupo e ansimante, uno Scherzo-Allegro, di incontenibile vigore, quindi un Andante in mi maggiore, lieve e teneramente affettuoso, di contrasto, e un Finale-Allegro comodo in forma-sonata, dal tono ora appassionato ora tormentato da un’angoscia che si stempera nella serenità della conclusione. La prima esecuzione di quest’opera risale al 1876. «21 febbraio 1818, verso mezzanotte. Amico carissimo, sono felice che i miei lieder siano piaciuti a te e a tuo fratello. Ve ne invio un altro che ho terminato di comporre a mezzanotte. Mi auguro di meglio celebrare la nostra amicizia davanti ad un buon bic- Solisti della Mahler Chamber Orchestra Alexander MELNIKOV, pianoforte chiere di punch». Quell’ultimo Lied che il ventunenne Schubert dedicava al compagno di studi di qualche anno più anziano, Anselm Hüttenbrenner, era Die Forelle (La trota, poesia del tedesco Christina Schubart, scomparso poco meno di trent’anni prima) una pagina che cantava l’innocenza e il dramma, il tradimento della natura ad opera dell’uomo, originando da una linea di canto quasi banale nella sua semplicità. Quel canto candido e struggente avrebbe poi dato origine un anno dopo, con una mutazione di tonalità (dall’originario re bemolle maggiore, a re maggiore) al quarto movimento, in forma di variazioni, del Quintetto in la maggiore, lavoro ben più complesso ed esteso, ma confortato da una gioiosità solare. Il Quintetto, che accanto al pianoforte pone un singolare quartetto d’archi costituito da violino, viola, violoncello e contrabbasso, vide la luce nell’estate del 1819 a Steyr, piccola cittadina dell’Alta Austria, su commissione del violoncellista dilettante nonché mecenate Sylvester Paumgartner: vi è perseguito, pur fra le increspature e le sfumature della sensibilità schubertiana, un ideale di serenità che si rivela anche nella mancanza di antagonismi strumentali, nella rinuncia totale ad una scrittura spettacolare (pur se le difficoltà esecutive appaiono tutt’altro che modeste): dall’Allegro vivace iniziale, d’un’eleganza estroversa al colloquiale Andante, sfiorato da ombre drammatiche; dallo spumeggiante Scherzo alle cinque variazioni sul tema liederistico, al lieto, sorridente, giocoso Finale di coinvolgente brillantezza. Si svela così un clima di familiarità con le altezze siderali della bellezza, che lascia sbigottiti, illudendoci – nel gioco dell’immediatezza comunicati- Brahms Schubert va – di poterne essere tutti attori. Ma, per dirlo con una frase di Thomas Mann «è la grandezza che s’intenerisce su ciò che è piccolo». musicalmente 23 m NOTE ALL’ASCOLTO Orchestra da Camera di Mantova Fazil SAY, pianoforte Philippe von STEINAECKER, direttore Approdato al servizio dei principi Esterházy nel 1761, Joseph Haydn vi rimase alcuni decenni lasciando vasta testimonianza di sé e della sua evoluzione di musicista. Basti dire che la quasi intera produzione sinfonica si riferisce a questa lunga e fortunata stagione produttiva, fertile per molti generi diversi: dalla cameristica all’opera, dalle pagine sacre a quelle d’intrattenimento. La Sinfonia n.48, che viene collocata dal Dalla Croce nel “periodo romantico” di Haydn, e dal Robbins Landon inserita fra quelle “estroverse” in do maggiore con ottoni e timpani obbedisce ad entrambe queste coordinate: da un lato assolve perfettamente ai suoi obblighi di rappresentanza, con tono celebrativo, abbondanza di tinte luminose, chiarezza di eloquio; dall’altro evidenzia nei suoi quattro movimenti un approfondimento espressivo che arricchisce le formule del linguaggio di sfumature patetiche o drammatiche, come di esuberanza festosa. Il titolo “Maria Theresia” aggiunto a questa partitura si deve all’ipotesi a lungo sostenuta, ma più recentemente dubitativa, che il lavoro fosse stato presentato nell’occasione della importante visita, durata tre giornate, dell’imperatrice ad Esterháza, nel settembre del 1773. In ogni caso, il ritrovamento di un manoscritto della Sinfonia, datato 1769, ha escluso che la composizione sia nata per l’occasione. Come è noto, fra il 1929 ed il 1931 Ravel diede corpo ad entrambi i concerti per pianoforte e orchestra che figurano nel suo catalogo. Il pensiero di Ravel al riguardo dei concerti “gemelli” lo si trova esposto in un’intervista pubblicata sul Daily Telegraph, dove in particolare riferimento a quello in Sol maggiore egli dice che “è un Concerto nel senso più preciso della parola, scritto nello spirito di quelli di Mozart o di Saint-Saëns. Io penso 24 musicalmente effettivamente che la musica di un Concerto possa essere gaia o brillante e che non sia necessario protenda alla profondità o miri ad effetti drammatici. (…) Al principio avevo avuto l’intenzione d’intitolare la mia opera Divertissement, poi ho pensato che non ce ne fosse bisogno, ritenendo il titolo di Concerto sufficientemente esplicito per ciò che riguarda il carattere della musica di cui essa è formata. Da certi punti di vista il mio Concerto dimostra qualche relazione con la mia Sonata per violino e pianoforte: contiene alcuni elementi tratti dal jazz, ma con moderazione”. Ravel stesso diresse la “prima”, con al pianoforte la fidata Marguerite Long, nel gennaio del 1932 a Parigi. Sarebbe stato il primo di una serie interminabile di successi, tuttora inconclusa. «L’Incompiuta – ha scritto Paolo Petazzi con efficacia – ci conduce al cuore della poetica schubertiana, al suo nucleo di desolazione e confidenza con la morte, tra vagheggiamenti del sogno e della memoria e lo schiudersi improvviso di angoscianti abissi». Su una tale lettura della celeberrima sinfonia schubertiana gli studiosi sono in generale tutti d’accordo. La “Incompiuta” rappresenta uno dei riusciti tentativi, da parte del suo ancor giovane autore che all’epoca, nel 1822, non contava che venticinque anni, di esporre una via alternativa a quella maestra indicata da Beethoven: risolvendo i problemi attinenti ad una grande forma (la sinfonia, appunto) con lo sfruttamento di elementi tematici poeticamente autosufficienti, non progettati espressamente per vaste architetture formali. Donata da Schubert all’amico musicista Anselm Hüttenbrenner (due soli movimenti, più un terzo iniziato e non completato) questa sinfonia fu conservata con eccessiva segretezza fino al 1860; soltanto alla fine del 1865 se ne ebbe la prima esecuzione pubblica alla Gesellschaft der Musikfreunde di Vienna con la direzione di Johann von Herbeck. Mantova | Teatro Sociale Venerdì 13 aprile 2012 ore 20.45 F. J. Haydn, Sinfonia n. 48 in do maggiore “Maria Theresia” M. Ravel, Concerto in sol per pianoforte e orchestra F. Schubert, Sinfonia n.8 in si minore D. 759 “Incompiuta” F. Mendelssohn-Bartholdy, Le Ebridi. Ouverture op.26 Mendelssohn Fra le quasi cinquecento isole che affollano l’Atlantico ad occidente della costa scozzese, le Ebridi, si trova la piccola Isola di Staffa, disabitata ma famosa per la grotta che si apre sul mare tra alte colonne di basalto, grotta intitolata all’antico eroe irlandese Fingal, protagonista di un celebre poema apparso nella seconda metà del Settecento e falsamente attribuito ad Ossian (suo figlio) per cura di James Mac Pherson. La scoperta della grotta avvenne in quegli stessi anni (1772), e l’atmosfera cupa e grandiosa del poema, suscitante grandi passioni, diede un’impronta avventurosa al luogo, che non mancò di affascinare molti illustri viaggiatori tra cui Mendelssohn, che lo visitò nell’estate del 1829. La partitura de Le Ebridi, che ebbe prima esecuzione nel maggio del 1832 a Londra, venne intesa dall’autore come “Ouverture da concerto”, dunque come lavoro perfettamente autonomo, seppure originato da un’intenzione descrittiva. L’Ouverture in realtà sembra fondere mirabilmente la solidità della forma con lo spirito evocativo, continuamente sospinta in avanti dalle meraviglie della scrittura orchestrale, e perfettamente trattenuta fra vasti scenari dipinti con pochi elementi tematici d’intenso carattere, variamente trattati. I CONCERTI Ahss, Muthelet, Pfiz e Murlali: i Solisti della Mahler Cambio di programma per motivi di forza maggiore: la stagione 2011/2012 deve fare i conti con un inatteso forfait. «A causa di un infortunio Louis Lortie ha dovuto cancellare tutti i suoi impegni fino a fine marzo, inclusi quindi purtroppo i concerti con i Mahler Chamber Soloists», si legge in una note dell’agenzia rappresentante l’artista per l’Italia e giunta all’Orchestra da Camera di Mantova solo la mattina di sabato 18 febbraio. «Il concerto può essere tuttavia ripreso - garantisce la stessa agenzia - con Alexander Melnikov ed il programma verrebbe solo parzialmente modificato, diventando: Schubert, Quintetto La Trota D667; Brahms, Quartetto in do minore». E allora la programmazione di Tempo d’Orchestra prende atto. Lo fa, certo, un po’ dispiaciuta: Lortie è un grande pianista, già in passato ospite della stagione dell’Orchestra da Camera di Mantova, e in tanti attendevano certamente di riascoltarlo, a maggior ragione se in un concerto di musica da camera - genere che lui ha più volte dichiarato di prediligere. Ma nel prendere atto e nell’augurare al maestro la più pronta ripresa, insieme, Tempo d’Orchestra accoglie con entusiasmo la prospettiva di offrire al proprio pubblico un’occasione di scoperta di un altro eccellente pianista, per la prima volta a Mantova: quell’Alexander Melnikov, che, insieme con i Solisti della Mahler Chamber Orchestra (Gregory Ahss, violino, Béatrice Muthelet, viola, Konstantin Pfiz, violoncello, Burak Marlali, contrabbasso) darà vita martedì 27 marzo, nell’accogliente Teatro Comunale di Gonzaga (ore 20.45), a una serata di raffinata qualità. Programma e interpreti autorizzano aspettative tra le più di Valentina Pavesi importanti. Melnikov (foto di Marco Borggreve) Sostituzione in zona CESARINI A causa di un infortunio Loius Lortie cancella tutti gli impegni del mese di marzo. Alexander Melnikov al suo posto con i Solisti della Mahler Chamber Orchestra martedì 27 al Comunale di Gonzaga musicalmente 25 I CONCERTI La notizia del forfait di Louis Lortie è giunta a due giorni dall’invio al centro stampa del presente numero di Musicalmente e con con un interessante ritratto dell’artista predisposto dal nostro collaboratore Emanuele Battisti. Ringraziamo qui pubblicamente l’autore del pezzo che, capiti imbarazzo e difficoltà con cui la redazione si trovava a fare i conti, non solo ha accettato di buon grado la mancata pubblicazione, ma, in assenza di materiali ufficiali d’agenzia, cercando tra testi e Internet e trovando il tempo dove il tempo non c’era, ha costruito per noi un nuovo ritratto. Quello di Melnikov, che vi apprestate a leggere. ALEXANDER MELNIKOV E il pianista prende il volo Allievo del celebre Lev Naumov, debutta come solista a soli 12 anni. Filologo appassionato, quando non suona pilota aerei di Emanuele Battisti Nato nel 1973, il moscovita Alexander Melnikov ha iniziato lo studio del pianoforte all’età di sei anni, per poi venir ammesso al Conservatorio della sua città, dove si è diplomato a 24 anni. Ha avuto come principale insegnante il celebre Lev Naumov, a sua volta discepolo del leggendario Heinrich Neuhaus. Il suo punto di riferimento artistico è un’altra leggenda del pianismo sovietico, pure allievo di Neuhaus: Sviatoslav Richter. Un ruolo pedagogico a sua volta molto importante è attribuibile al cembalista e fortepianista Andreas Staier, con cui ha studiato e poi collaborato, e che lo ha guidato in direzione di un’esecuzione filologicamente avveduta del repertorio. L’uscita relativamente tarda dal Conservatorio non tragga in inganno, la carriera internazionale di Melnikov è infatti cominciata ben prima, all’età di 15 anni. A soli 12 anni la prima esperienza con orchestra, nel Primo Concerto di Rachmaninov. Le prime affermazioni importanti risalgono invece ai primi anni Novanta. La sua carriera è equamente distribuita tra attività solistica, con orchestra, e da camera. L’incisione dell’integrale delle Sonate per pianoforte e violino di Beethoven con la violinista Isabelle Faust gli ha fruttato, nel 2010, il premio della rivista Gramophone e l’Echo Klassik, oltre a far sì che venisse nominato per un Grammy. Come solista, è stato premiato, tra gli altri, dalla BBC per la registrazione dei 24 Preludi e Fuga di Shostakovich, opera che attualmente sta eseguendo in concerto in Europa, America e Asia. Melnikov con la Una curiosità: la grande passione di Melniviolinista Isabelle kov, nel tempo libero dalla musica, è l’aviazioFaust, con cui suona abitualmente in duo ne. Ha il brevetto di pilota privato. 26 musicalmente I CONCERTI Cesare Picco (foto di Alberto Giuliani) Il Novecento colto ci ha abituati a pensare alla figura del compositore come a una sorta di filosofo dei suoni che plasma la materia sonora all’interno della propria mente, spesso lungi da un rapporto fisico con lo strumento. Da SchÖnberg a Boulez, fino ad alcuni dei guru dell’avantgarde, il “secolo breve” ha visto succedersi una serie di maestri del pensiero per i quali dedicarsi alla pratica strumentale avrebbe significato probabilmente sporcarsi le mani con qualcosa di alternativo alla creazione: la mera riproduzione fisica del suono. Faceva parziale eccezione la figura del direttore-compositore (come Boulez, appunto, o in parte Berio o Stockhausen), ma dirigere significava mettere mano al suono in maniera indiretta, e da una posizione di leader intellettuale indiscusso, poco incline ad agire direttamente sulla materia: alla maniera del grande avo Gustav Mahler. Eppure, questa preminenza dello spirito, non è forse un fatto prevalentemente novecentesco? È vero, certamente, che nell’Ottocento Brahms diceva che la migliore esecuzione di una sua Sinfonia era quella che egli produceva nella pura immaginazione, sfogliandone le pagine prima di andare a dormire, ma nel contempo portava avanti un’attività di pianista concertista che lo obbligava al contatto quotidiano con la tastiera, a quel “fare il suono” in prima persona che in tutta la storia della musica sembra essere stato una costante dei massimi compositori. Johann Sebastian Bach, mitizzato dai cultori della “musica delle sfere” e delle più astratte geometrie, era altrettanto tastierista che compositore, tanto da proporre perfino duelli all’organo. Venendo al pianoforte, il concertismo e la pratica quotidiana erano costanti nella vita di Mozart e Beethoven, così come di Saint-Saëns o di Rachmaninov. Il pianista-compositore per eccellenza, Franz Liszt, costituì in realtà un caso speciale: rifiutando negli ultimi anni il lato mondano e frivolo dell’attività di concertista osannato, e ritirandosi invece nella meditazione religiosa e nella composizione, egli fu un pre- ESSERE o non essere? Si assiste a un prepotente ritorno alla figura del pianista-compositore. Per un rinnovato e fruttuoso compenetrarsi di spirito e materia di Luca Ciammarughi Francesco Libetta (foto di Fabiana Rossi) cedente importante (e per certi versi pericoloso) di una tendenza novecentesca a svalutare l’esecuzione rispetto alla creazione. Il resto, lo ha fatto la spiccata propensione del XX secolo alla specializzazione: da un lato l’interprete, riproduttore del suono e medium il più possibile oggettivo di un testo; dall’altro il compositore, creatore del suono e fautore dell’idea. Fortunatamente, la frattura non sempre si è verificata: la musicalmente 27 I CONCERTI TRIS D’ASSI PER IL GRAN FINALE DI STAGIONE La presenza di Fazil Say, giovane pianista turco di vasta notorietà e di vivacissima, singolare personalità che qui esegue il brillante Concerto di Ravel, costituisce uno dei motivi di interesse della serata conclusiva della stagione Tempo d’Orchestra 2011/2012, affidata alla bacchetta emergente di Philipp von Steinaecker, già violoncellista della Mahler Chamber Orchestra e dell’Orchestra del Festival di Lucerna ed in tempi più recenti assistente direttore di Gardiner, Harding, Rattle, Jurowski. L’Orchestra da Camera di Mantova, chiamata ad una delle sue prove più impegnative, si cimenta con una nuova Sinfonia di Haydn, la n.48 “Maria Theresia”, gemma del periodo Sturm und Drang, e soprattutto con le profondità dell’Incompiuta di Schubert, uno dei più emozionanti capolavori del viennese. L’evocativa ouverture Le Ebridi di Mendelssohn, eco di un viaggio memorabile del compositore, chiude la ricca locandina. Appuntamento al Teatro Sociale di Mantova, venerdì 13 aprile (ore 20.45). Informazioni e prevendita biglietti: T. 0376 1961640, [email protected], www.ocmantova.com, www.vivaticket.it). In alto l’Orchestra da Camera di Mantova, sotto a destra Fazil Say e a sinistra Philipp von Steinaecker Oggi sono numeorsi i pianisti di qualità che come Say, Libetta, Padova, Lorenzini o Picco, creano e ricreano Franz Liszt figura del pianista-compositore sopravviveva grazie a musicisti della portata di Leonard Bernstein, Francis Poulenc o Nino Rota, che con la massima nonchalance continuavano a godere in prima persona della musica propria e altrui sentendo il suono sotto le proprie dita. Non bisogna stupirsi, quindi, che il XXI secolo sia iniziato proprio sotto il segno di un prepotente riemergere della figura del pianista-compositore: nulla 28 musicalmente di nuovo - in realtà - sotto il sole, ma solo il perpetuarsi di un antico e forse necessario contatto fra la spiritualità e la matericità del far musica. Questo fenomeno spiega tra l’altro gli entusiasmi del pubblico per pianisti-compositori di qualità musicale molto discutibile: come se l’importante fosse innanzitutto il ricongiungersi della dimensione mentale e fisica in un unicum. Oggi che certi cerebralismi novecenteschi, per quanto necessari, sono stati archiviati, possiamo guardare con ammirazione a quei musicisti di alta qualità che non si vergognano di creare e di ricreare (poiché anche l’interpretazione è una creazione): pianisti come Fazil Say, che di suo ci mette anche la divorante passione per il jazz (intervista a pag. 8, ndr), o come gli italiani Francesco Libetta, Andrea Padova, Danilo Lorenzini o Cesare Picco. Per tutti loro, rimarrà il dilemma che ha sempre accompagnato ogni musicista vero, quell’essere conteso fra spirito e materia, fra idealismo e fisicità, che è però dilemma fra i più fruttuosi in tutta la storia dell’umanità. Domenica 8 gennaio 2012, ore 11, Grote Zaal,Concertgebouw, Amsterdam Diario di bordo: in VIAGGIO con l’Ocm musicalmente 29 IN ORCHESTRA a cura di Valentina Pavesi Con antica, italica MAESTRIA Da città d’acqua a città d’acqua. Da Mantova ad Amsterdam. Cronaca di un viaggio in musica di Stefano Patuzzi Un volo, si sa, non fa vivere lo spazio. Pagine e pagine sono state scritte da geografi acuti sul sottile straniamento generato da un balzo aereo da un luogo a un altro. In auto, in moto, e giù giù fino al viaggio a piedi, lo spazio lo vivi, lo percorri, lo osservi, lo gusti. Cambia e muta a una velocità accettabile, comprensibile, e lo sforzo – se ti ascolti attentamente – è commisurato a quanto ne percorri. In aria no. In aria si oltrepassano montagne torreggianti e innevate, si sorvolano laghi e fiumi e – quando non si sia avvolti da una bianca coltre di nubi, segno tangibile del proprio momentaneo angelicarsi – si possono persino scorgere città e villaggi in miniatura e intere regioni srotolarsi come in un film accompagnato dal bordone monotono, a suo modo piacevolmente ipnotico, del ronzio dei motori e del rassicurante chiacchiericcio che satura la fusoliera. Di ciò che accade là sotto, noi non abbiamo idea. Non ci riguarda, in fondo. Un po’ come se, viaggiando ai limiti delle leggi della fisica, ci guadagnassimo per qualche ora un dolce, anestetico distacco dal mondo terrestre, dalla nostra vita di laggiù, persino. Può dunque succedere di partire da una piccola città d’acqua come Mantova e, con qualche passaggio intermedio, atterrare poche ore dopo in una grande città d’acqua come Amsterdam. Il volo dura poco, tutto sommato, e d’un balzo ci si ritrova in un mondo diverso, dove suona una lingua diversa (e rocciosa, al nostro melodioso orecchio neolatino, avvezzo a ben 30 musicalmente altre, rotonde sonorità), in una cornice di consuetudini musicali simili eppur differenti rispetto a quelle di partenza, senza averne avuto un sentore precedente, senza un preavviso di qualsiasi natura. È quanto è accaduto all’Orchestra da Camera di Mantova lo scorso 7 gennaio, volando verso Amsterdam, con meta ultima il tempio del Concertgebouw, sala da concerto fra le più importanti al mondo per storia e qualità, costruita a partire dal 1883. In programma, domenica 8, per la diretta dell’emittente olandese nazionale Radio4, il Concerto per violino e orchestra in la maggiore KV 219 di Wolfgang Amadé Mozart per l’archetto della violinista scozzese Nicola Benedetti; poi la Sinfonia “Trauer” di Franz Joseph Haydn. Due i bis, un movimento dall’Inverno delle Quattro stagioni di Antonio Vivaldi e uno dalla Sinfonia “La casa del diavolo” di Luigi Boccherini. Un suono teso e terso, luminoso e preciso come un laser eppure caldo, corposo promana dallo Stradivari della Benedetti, classe 1987 e figlia di padre italiano, che in Mozart dà oltretutto una lezione di storia, come gli interpreti di razza non sanno non fare. Il carattere della sua interpretazione nel concerto di Amsterdam – così come quello dell’Orchestra da Camera di Mantova, del resto – è infatti intriso del Settecento europeo e delle prassi esecutive di quel periodo e (cosa storicamente ovvia, meno ovvia in sede interpretativa) apparentemente inconsapevole di tutto l’Ottocento che verrà. E poi la Benedetti parla assen- IN ORCHESTRA IN ATTESA DEL BIS NEL 2014 Oltre 2000 persone hanno assistito al concerto dell’Orchestra da Camera di Mantova con Nicola Benedetti, al Concertgebouw di Amsterdam: la meravigliosa Grote Zaal si presentava gremita in ogni ordine di posti, allo scoccare delle ore 11 di domenica 8 gennaio 2012. All’entusiasmo del pubblico si sarebbe presto unito il plauso degli organizzatori L’Ocm in prova poco prima del concerto, nella Grote Zaal del Concertgebouw di Amsterdam Nicola Benedetti struttura con l’Ocm un discorso ben articolato, ricco di nuances, con grande senso del ritmo di declamazione, in una cornice di generale raffinatezza natamente, attraverso il suo strumento, e nel corso della sua performance struttura insieme all’Ocm (che poi prosegue sola, nella sinfonia, su questa stessa linea) un discorso ben articolato, ricco di nuances, con grande senso del ritmo di declamazione, in una cornice di generale raffinatezza. Un esempio di eccellente retorica musicale insomma, non così frequente. Dal canto suo l’Orchestra da Camera di Mantova non solo sostiene e accompagna in un ruolo di intelligente, discreto, signorile supporto ma – quando Mozart lo richiede – dialoga da pari a pari, opponendo le proprie argomentazioni sonore, confermando, esponendo con una compat- che, in contatto con la direzione artistica dell’Ocm, stanno ipotizzando a breve – si parla del 2014 - un ritorno dell’Orchestra nel prestigioso auditorium di Amsterdam. Il concerto, trasmesso in diretta radiofonica dall’emittente nazionale Radio4 Olanda, è ascoltabile su Internet al seguente link: http://player.omroep.nl/?aflID=13637688 tezza esecutiva che gli olandesi sanno apprezzare e che emerge con pari nitidezza anche in Haydn. La standing ovation finale è una dichiarazione di consapevolezza, da parte di uno dei pubblici più esigenti al mondo, figlio di una storia musicale e musicologica luminosissima: questa piccola orchestra, volata ad Amsterdam partendo da una piccola città italiana, non ha attraversato lo spazio alla leggera, portando anzi in dono un’antica, italica maestria orchestrale che, per sopravvivere, è costretta a lottare sotto un cielo minacciato da spettrali, tristi nuvole nere. L’Auditorium: programmatico il nome dato alla prestigiosa sala di Amsterdam musicalmente 31 IN ORCHESTRA P I PROSSIMI CONCERTI DELL’OCM Sabato 14 aprile 2012 Cremona, Teatro Ponchielli, ore 20.45 Venerdì 16 Marzo 2012 Quistello, Teatro Lux, ore 20.45 Orchestra da Camera di Mantova Fazil Say, pianoforte Musiche di F.J. Haydn, M. Ravel, F. Schubert, F. Mendelssohn-Bartholdy Venerdì 21 aprile 2012 Dachau, Castello, ore 20 Orchestra da Camera di Mantova Isabelle Moretti, arpa Musiche di F. Mendelssohn, E. Parish-Alvars, C. Debussy, F.J. Haydn Martedì 20 Marzo 2012 Pavia, Teatro Fraschini, ore 21.00 Giovedì 19 aprile 2012 Vicenza, Teatro Comunale, ore 20.45 Orchestra da Camera di Mantova Viktoria Mullova, violino Musiche di L.v. Beethoven, W.A. Mozart Orchestra da Camera di Mantova Kolja Blacher, violino Musiche di L. v. Beethoven «È l’Orchestra da Camera di Mantova a chiudere la 102esima stagione concertistica del Quartetto, così come l’aveva aperta sei mesi fa assieme al pianoforte di Lonquich. Lo strumento solista, questa volta, è il violino. Non un violino qualsiasi, ma lo Stradivari “Tritton” del 1730 imbracciato da Kolja Blacher, musicista berlinese di fama mondiale entrato nella storia dei prestigiosi Berliner Philharmoniker per esserne stato il più giovane Primo violino di tutti i tempi. Un concerto per salutare la primavera sulle note di Ludwig van Beethoven». Leggiamo e trascriviamo dal sito del Teatro Comunale di Vicenza, in procinto d’affidare la scena, nell’ambito del cartellone 2011/2012 della gloriosa Società del Quartetto, la sera del prossimo 19 aprile, agli artisti menzionati. Leggiamo e trascriviamo per raccontarvi della primavera 2012 dell’Orchestra da Camera di Mantova, stagione che prevede anche altre due tappe italiane e una oltreconfine, in Germania. Martedì 20 marzo, si rinsalderà il sodalizio, lanciato con ottimi esiti lo scorso anno, con la violinista Viktoria Mullova. Il Concerto per violino e orchestra di Beethoven e la Sinfonia “Jupiter” di Mozart costituiranno i cardini del programma. Sabato 14 aprile, invece, a Cremona (Teatro Ponchielli), l’Ocm sarà in compagnia del pianista Fazil Say, per la seconda di due date che vedono gli artisti collaborare per la prima volta. Quattro i capolavori in locandina: Sinfonia n.48 “Maria Theresia” di Haydn, Concerto in sol per pianoforte e orchestra di Ravel, Sinfonia “Incompiuta” di Schubert e Ouverture “Le Ebridi” di Mendelssohn. Dopo Sciaffusa, Amsterdam, Coira ed Ennenda, la stagione 2011/2012 segna un ulteriore appuntamento all’estero per l’Orchestra da Camera di Mantova, che venerdì 21 aprile, al fianco dell’arpista francese Isabelle Moretti, si esibirà a Dachau, nel suggestivo Castello della cittadina situata a pochi chilometri da Monaco di Baviera. Pagine di Mendelssohn (Sinfonia n. 10 in si minore per archi), di Elgar (Serenata per archi op. 20) e Haydn (Sinfonia n.48 “Maria Theresia”) per sola orchestra «incorniciano - e qui le parole le prendiamo a prestito dal no- 32 musicalmente FUTURO PROSSIMO Italia-Germania 3 (trasferte) a 1 Marzo porta l’Ocm a Pavia con Viktoria Mullova. Mentre aprile ha nel cassetto date a Cremona, a Vicenza, e nella tedesca Dachau In alto l’Orchestra da Camera di Mantova con Viktoria Mullova. Sopra Kolja Blacher stro direttore responsabile - un appuntamento che vede, centrale, la presenza della famosa solista, per le bellissime, delicate Danze sacra e profana per arpa e archi di Debussy, con le quali si ribadisce la suprema sensibilità del compositore, ed il Concertino in mi minore per arpa e orchestra d’archi op. 34 del maestro britannico Parish-Alvars, artista rilevante della prima metà dell’Ottocento, soprattutto per la storia della letteratura arpistica, che Berlioz considerava addirittura “prodigioso”». AMICI Annullato l’incontro del 1° marzo, il ciclo d’appuntamenti prosegue e si conclude il prossimo giovedì 12 aprile Oreste Bossini firma, su questo numero di Musicalmente, l’intervista a Fazil Say che probabilmente avrete già letto nell’affrontare il servizio di copertina dedicato alle contaminazioni. Scritta, come si suol dire, in punta di penna e ricca di spunti significativi e originali suggestioni, ci pare il miglior biglietto da visita cui affidare la presentazione del prossimo relatoreospite del ciclo d’incontri Parolenote. La cancellazione del concerto dei Pomeriggi Musicali dal cartellone Tempo d’Orchestra 2011/2012 ha infatti comportato l’annullamento dell’appuntamento originariamente programmato per giovedì 1° marzo, dedicato a BartÓk e affidato ad Angelo Foletto. Così, la rassegna a cura dell’Associazione Amici dell’Ocm fissa la prossima data in giovedì 12 aprile, quando in Sala Norlenghi (ore 18, ingresso libero, Mantova, corso Vittorio Emanuele II, 13) approderà, appunto, Oreste Bossini, per una conversazione pensata come avvicinamento all’ascolto del concerto conclusivo della stagione musicale, che vedrà protagonisti Orchestra da Camera di Mantova, Fazil Say (pianoforte) e Philipp von Steinaecker (direttore). L’incontro potrebbe riservare una piacevole sorpresa, su cui, però, al momento d’andare in stampa, non ci è dato di sbilanciarci, ma che ci convince ancor più che l’intervista di pagina 8 meriti un’attenta lettura... Parolenote: il microfono a Oreste BOSSINI Oreste Bossini Intanto, alla sede dell’Orchestra da Camera di Mantova, prosegue il tesseramento 2012 (al costo immutato di 10 euro): il rinnovo dell’adesione, magari coinvolgendo amici e conoscenti, o facendo un regalo intelligente a baso costo, è vitale per l’Associazione. PAROLA D’AMICO Concertgebouw, gennaio 2012: orgogliosi di dire “noi c’eravamo” Eccezionale, meraviglioso, commovente: quale aggettivo usare per descrivere il concerto tenuto ad Amsterdam l’ 8 gennaio 2012 al Concertgebouw dalla nostra Orchestra da Camera di Mantova e dalla solista Nicola Benedetti? Noi eravamo in questa prestigiosa sala, quando dopo ripetuti bis, più di duemila persone, felici di aver potuto ascoltare musica così magistralmente eseguita, si sono alzate in piedi per un lunghissimo applauso. Ci siamo sentiti orgogliosi di essere mantovani ed italiani. Grazie. Carla, Nerina e Roberto musicalmente 33 COLONNA SONORA di Claudio Fraccari GERSHWIN e il cinema amore a prima vista Al cinema è onnipresente la musica di George Gershwin, nonostante la sua breve vita (1898-1937). Non solo perché egli firmò alcune colonne sonore quando negli anni Trenta passò da Broadway ad Hollywood (l’ultima fu per The Goldwyn Follies di George Marshall, 1938); inserti di suoi pezzi o di sue canzoni, citazioni dirette o indirette alla persona o all’opera pullulano ovunque. Non c’è da stupirsene: americano di origine ebraica, egli fu un profondo conoscitore della musica colta europea del primo Novecento (Ravel, Poulenc, Stravinskij) e ne trasse spunti per la produzione personale; inoltre, amò sempre contaminare la tradizione musicale classica e quella popolare, fosse folk, jazz o leggera. Si prenda il cartoon Disney Fantasia 2000, ove la sua celeberrima Rapsodia in blu fa da sottofondo non per caso all’episodio animato più raffinato e insieme coinvolgente, una vicenda dalla parte dei vinti. E poteva Woody Allen ignorare l’illustre concittadino? No di certo; in Manhattan (1979) la colonna sonora è costituita interamente da una una sorta di compilation di canzoni di Gershwin che funge da contrappunto alla messa in scena, fin quasi da personaggio virtuale. Fra i molti altri esempi recenti che contengono prelievi dal repertorio di Gershwin si può indicare il noir L. A. Confidential (Curtis Hanson 1997): nella serie di brani che servono a ricreare l’atmosfera ‘d’antan’ spicca But Not for Me nell’esecuzione di Jackie Gleason. Oppure, c’è la commedia Prova a prendermi (Steven Spielberg 2001), in cui compare la canzone Embraceable You cantata da Judy Garland. Tornando a stagioni lontane, agli Oscar del 1938 Gershwin ricevette la nomination per il singolo They Can’t Take That Away 34 musicalmente UN AMERICANO A PARIGI di Vincent Minnelli Un artista americano in trasferta a Parigi s’innamora, ricambiato, di una commessa locale (Leslie Caron), ma al coronamento dell’amore ostano rispettivi impegni di matrimonio contratti in precedenza. Notevole la prova del protagonista Gene Kelly, anche autore delle splendide coreografie ispirate a quadri impressionisti. Ovviamente fondamentale l’omonima sinfonia di Gershwin che costituisce la colonna sonora. Il musical ottenne ben cinque Oscar. (Usa 1951) BACIAMI STUPIDO George Gershwin from Me, inserito in Voglio danzare con te di Mark Sendrich. Solo a beneficio d’inventario si segnala il biopic su di lui, Rapsodia in blu (Irving Rapper ‘45), perché il film è mediocre e vale solo per le musiche, naturalmente appartenenti allo stesso dedicatario. Meritano appieno invece la menzione i validi musical Un americano a Parigi (Vincent Minnelli ‘51) e Porgy and Bess (Otto Preminger 1959), costruiti sulle acclamate partiture di Gershwin che prestano ai film anche il titolo; altrettanto doveroso ricordare il brillante Baciami stupido di Billy Wilder (‘64), alla cui riuscita certo non è estranea la presenza di brani del Nostro. La musica di Gershwin, insomma, fu ed è consustanziale alla rappresentazione cinematografica: entrambe si pongono come un fatto sociale totale, perché vi si coinvolge un pubblico assai vasto, di variegata estrazione, dalla cultura e dal gusto eterogenei. Per ottenere questa diffusione, è indispensabile l’oscillazione fra l’alto e il basso, fra la camera e la platea, fra il sentire individuale e l’auscultazione collettiva. Proprio come in una rapsodia, magari in blu. di Billy Wilder Un maestro di musica ospita un cantante di successo; per evitare che costui gliela possa sedurre, costringe la moglie a scambiarsi di ruolo con una cameriera dai facili costumi. Rischia grosso. Da una piéce di Anna Bonacci, Wilder ricava una sceneggiatura sapidissima e cinica, che si costituisce a paradigma della commedia sofisticata hollywoodiana. L’inserto di brani di Gershwin ne conferma la volontà di combinare acume e umorismo, leggerezza e profondità. (Usa 1964) MANHATTAN di Woody Allen Un omaggio a New York, set ideale per Woody Allen, attraverso le traversie sentimentali di uno sceneggiatore televisivo lasciato dalla moglie (Meryl Streep) per una donna. Sintesi perfetta della poetica alleniana che ama risolvere il dramma in commedia, il film si vale dell’ottima fotografia (in bianco e nero) di Gordon Willis e delle canzoni di Gershwin, indispensabili all’atmosfera. Da brivido l’incipit: la voce fuori campo dell’autore duetta con le note di Rapsodia in blu. (Usa 1979) GRAMMOFONO di Michele Ballarini Orchestre d’ANTOLOGIA Mondo discografico in crisi, i grandi ensemble puntano su raccolte della loro attività Da qualche tempo il mondo discografico sta attraversando una grave crisi, vuoi per la saturazione del repertorio inciso che per la sempre più marcata tendenza – soprattutto nel settore non classico – ad eseguire download dalla rete, e questo non sempre nei limiti imposti dalle leggi vigenti; nascono così altre strategie di mercato, atte a proporre all’ascoltatore nuove possibilità d’interesse. Una di queste è la creazione di antologie spesso molto nutrite che ripercorrono la storia interpretativa di una grande orchestra; la cosa è di facile attuazione in quanto un complesso sinfonico di questo tipo ha inevitabilmente formato un archivio di proprie registrazioni dal quale si possono individuare i migliori concerti registrati nell’arco di un sessantennio. Alcune orchestre pubblicano queste antologie costituendo addirittura una propria etichetta, anche se accade spesso che il tutto sia disponibile per il download a pagamento dai propri siti web. Orchestre come la Royal Concertgebouw di Amsterdam, la New York Philharmonic, la Bayerischen Rundfunk di Monaco, la Boston Symphony e tante altre vantano una lunghissima serie di collaborazioni tra direttori e solisti di fama spesso imperitura, per cui tanti incontri tra grandi artisti vengono preservati e riproposti coglien- do a volte quell’attimo fuggente che può testimoniare esiti di valore altissimo. D’altro canto è di estremo interesse notare anche il mutamento e lo sviluppo di diversi stili esecutivi, essendo le compagini orchestrali organismi che sotto la stessa denominazione subiscono nel giro di un trentennio il ricambio pressoché totale dei loro componenti. Per non parlare anche – fatto già menzionato nell’articolo dedicato alle registrazioni dal vivo – della possibilità di ascoltare interpreti liberi da quegli obblighi contrattuali o da esigenze di mercato che li costringevano a incidere solo determinati autori o repertori, limitando così inevitabilmente le loro scelte e il loro talento. Altro aspetto utile per queste pubblicazioni è costituito dalla presenza di innumerevoli registrazioni presso le emittenti radiofoniche che trasmettono spesso i concerti, e succede anche qui che siano le emittenti stesse a organizzare queste testimonianze in collane discografiche; la BBC, come vedremo, ha al suo attivo una grande mole di registrazioni pubblicate in cd, mentre dispiace che la nostra RAI non si sia dimostrata altrettanto sensibile, pubblicando solo una parte del suo sterminato archivio in modo saltuario e sotto etichette diversissime la cui esistenza spesso piuttosto effimera ne limita molto la reperibilità. STORIA DELLA MUSICA INGLESE LSO E RCO LIVE SANTA CECILIA IN OTTO CD La collana BBC Legends propone attraverso più di 200 cd uno spaccato della vita musicale inglese dal 1950 all’inizio di questo secolo: concerti sinfonici, recital solistici, complessi da camera di eccezionale livello si avvicendano in un repertorio vastissimo che va da autori come Monteverdi al novecento storico. A volte ci sono anche le interviste fatte agli artisti in occasione del concerto, documenti per conoscere più a fondo grandi interpreti come Ansermet, Giulini o Horenstein. LSO live (London Symphony) e RCO live (Concertgebouworkest), due etichette che pubblicano registrazioni dell’ultimo decennio acquistabili on-line sui rispettivi siti web oppure nei normali negozi. La RCO live ha anche pubblicato un’importante antologia storica in 6 cofanetti (83 cd) che propone una scelta di concerti dal 1935 al 2000, vero universo di compositori e grandi interpreti anche se la reperibilità di questa emissione è oggi difficile in quanto alcuni volumi sono fuori catalogo. Dal sito dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia è ordinabile la raccolta Dagli Orchestra Rai Pappano Santa Cecilia archivi – 1937-2010 cofanetto di 8 cd a tiratura limitata che contiene testimonianze importantissime dell’attività della più importante orchestra italiana, con esecuzioni dirette da maestri come De Sabata, Cantelli e Markevich fino a Sinopoli, Prêtre e Pappano, oltre a un rarissimo documento di Franco Ferrara che dirige l’Ottava Sinfonia di Beethoven. musicalmente 35 CD - DVD di Luca Segalla Astor Piazzolla alle radici del tango Quando il trentatreenne Astor Piazzolla arrivò a Parigi dall’Argentina per studiare con Nadia Boulanger era semplicemente un musicista di tango che voleva imparare la musica classica. La Boulanger, però, lo convinse a non ripudiare le sue radici. L’eclettismo di Piazzolla - tutto il contrario dell’eclettismo di chi mescola i generi per compiacere il pubblico - nasce da qui. Dall’innesto delle armonie e dei ritmi della tradizione colta del Novecento europeo sulla musica dei bordelli di Buenos Aires. Musica spuria fin Astor Piazzolla dalle origini, fatta dagli emigranti europei con uno in Portrait. 1 strumento, il bandoneon, nato in Germania per suoDVD Opus Arte nare in chiesa. Il risultato non fu semplicemente un (OA 0905 D) tango eclettico, un compromesso tra due culture. Fu qualcosa di nuovo. La “sua” musica. Piazzolla la trovò seguendo un percorso opposto a quello dei musicisti europei avidi di evadere dalla gabbia dorata della tradizione classico-romantica occidentale attraverso il contatto con altre culture. Lo racconta questo documentario, un po’ didattico, di Mike Dibb, presentato insieme all’ultima registrazione in studio del compositore argentino, Tango Nuevo. Realizzato nel 1989, tre anni prima della morte, Tango Nuevo è un brivido lungo quaranta minuti. Alcuni classici, da Milonga del Angel ad Adiós Nonino, si alternano a brani meno noti ma altrettanto straordinari. Come il surreale Zero Hour, ispirato alle strade deserte delle notti di un’allucinata Buenos Aires. LEONARD BERNSTEIN, L’ECLETTICO Eclettico nella vita e nell’arte, nel 1976 Leonard Bernstein si era concesso una Rapsodia in blu nella doppia veste di pianista e direttore, con la sua New York Orchestra. Lo aspettiamo graffiante, invece fa il sornione. È fantastico nell’altra interpretazione storica qui riproposta, la Seconda sinfonia di Ives con l’Orchestra della Radio Bavarese (1987). Dirige anche con la mimica del volto: i puristi storcono il naso, ma in video funziona. Bernstein, Gershwin ed Ives. 1 DVD Deutsche Grammophon (00440 073 4513) Keith Jarrett: un musicista transgenico Keith Jarrett. Con i miti fare i conti è difficile. Soprattutto se sono jazzisti e poi incidono anche Bach, Mozart e Shostakovich. Un musicista transgenico, verrebbe da dire. Apparso qualche anno fa, questo documentario firmato Mike Dibb è forse il migliore ritratto in video del grande e bizzoso musicista americano. In aggiunta c’è un breve live (Tokyo, 1993) insieme ai compagni storici, Gary Peacock e Jack DeJohnnette. Keith Jarrett. The Art of Improvvisation. 1 DVD EuroArts (2054119) 36 musicalmente INVITO ALL’ASCOLTO Tutto quello che c’è da sapere su Liszt in 10 cd Il bicentenario della nascita di Franz Liszt è appena stato archiviato, ma non si può certo affermare che la produzione di questo compositore goda oggi, presso il grande pubblico, di una conoscenza diversa o maggiore rispetto al passato. Alcuni luoghi comuni perdurano, ed il mito del grande virtuoso, del demoniaco inventore dell’eccesso pianistico, continua ad avere la meglio su qualsiasi altra valutazione. Per chi volesse avvicinare senza pregiudizi l’opera per tastiera di Liszt viene l’economico, recente cofanetto confezionato da EMI: 10 compact-disc che toccano tutto quello che di essenziale c’è da conoscere, con l’aiuto di registrazioni datate e più recenti (dalla fine degli anni Cinquanta agli anni Novanta del secolo scorso), di alta qualità tecnica e musicale. La pattuglia di questi interpreti lisztiani comprende nomi celebri: primo fra tutti György Cziffra, a cui il talento tecnico concesse un’estrosità assai discussa (sue qui le Rapsodie Ungheresi, le Polonaises e il Grand galop choromatique), quindi Aldo Ciccolini (Années de pèlerinage ed Harmonies poétiques et religeuses, Consolations, Deux Légendes, Deux Ballades e altro), il russo Vladimir Ovchinnikov (Studi trascendentali), il russo-francese Mikhail Rudy (Valses oubliées e Due Studi da concerto), lo statunitense André Watts, il norvegese Leif Ove Andsnes, i francesi JeanneMarie Darré e Mathieu Papadiamandis, gli inglesi John Ogdon (Sonata in si minore), Stephen Hough (Rapsodia spagnola e La lugubre gondola), Wayne Marshall, lo spagnolo Jose Abel Gonzales. Voci internazionali per un maestro dai mille volti. (a.z.) MUSICA & ARTE di Paola Artoni FAUSTO MELOTTI la scultura si mescola alla musica Una miscela di tradizione rinascimentale, scienza e conoscenza musicale Da sinistra, Melotti con una sua opera; Scultura n.11 (1934), esposta al Madre di Napoli; Scultura n. 21 (1983), esposta al mart di Rovereto Nella biografia di Fausto Melotti si riassumono le correnti di un secolo, in una vita che è stata vissuta come un autentico crocevia d’arte, di poesia e di scienza, dove la scultura si è sempre liberamente mescolata alla musica senza alcuna barriera. Quando egli nasce a Rovereto il Novecento è appena iniziato e la sua città gravita ancora nella dimensione austro-ungarica; nel 1915 i tumulti della prima Guerra Mondiale lo portano a Firenze, dove conclude il liceo e ha modo di appassionarsi al Rinascimento italiano, senza che mai vengano meno i contatti con il conterraneo Depero, l’architetto Pollini e il compositore Riccardo Zandonai. Nel 1918 si trasferisce a Pisa dove studia fisica e matematica ma dove si avvicina anche alle forme del Romanico e del Gotico. Nel 1924 si laurea in ingegneria elettrotecnica a Milano e, contemporaneamente, si diploma in pianoforte studiando anche organo e contrappunto. Come sculture si forma a Torino con Pietro Canonica e nel 1928 si diplo- ma all’Accademia di Brera di Milano con Adolfo Wildt. Sempre più la sua ricerca plastica si fonde con la musica, in una dimensione vicina alla metafisica e alle ricerche dell’amico Lucio Fontana, tra l’altro compagno di lavoro di Melotti alla Richard-Ginori di Giò Ponti. Di Melotti si ricordano le leggiadre sculture in acciaio che lo avvicinano, oltre che a Fontana, anche agli esiti di Alexander Calder, Alberto Giacometti e Louise Bourgeois e, già dagli anni Trenta, il suo linguaggio riesce a miscelare con sapiente intelligenza la tradizione rinascimentale, l’apporto della scienza e la conoscenza musicale. Nel 1935 aderisce sia al movimento parigino Abstraction-Création (del quale fanno parte Herbin, Vantongerloo, Hellion, Arp, Gleizes, Kupka, Tutundjian e Volnier), sia al gruppo degli Astrattisti milanesi. L’idea di fondo è che la scultura si debba nutrire di linee, geometrie, purezza delle forme e leggerezza, sino a perdere il proprio peso. Gli esiti degli anni Settanta sono all’insegna di DA VEDERE E ASCOLTARE Per chi desidera avvicinarsi in prima persona all’arte di Fausto Melotti (1901-1986) si segnala che sino al 9 aprile 2012 il Madre di Napoli ospita un’antologica curata da Germano Celant, organizzata in collaborazione con l’Archivio Fausto Melotti (che ha sede a Milano e tutela l’opera dell’artista promuovendo mostre e studi scientifici in ambito internazionale). Opere di Melotti sono presenti anche in Arte Povera International, l’importante collettiva in corso sino al 19 febbraio al Castello di Rivoli mentre fanno alcuni pezzi storici fanno parte della collezione del Mart di Rovereto. quest’ultima declinazione, realizzata grazie all’utilizzo di fili metallici e impalpabili tessuti, come per la Scultura G (Nove Cerchi) del 1967, Il Vento nel capanno; la Scultura A (I Pendoli) del 1968; A piombo del 1968 realizzata in acciaio; Il suono del corno nella foresta del 1970; La luna e il vento; La Neve; l’Arte del contrappunto plastico n. 1 del 1970, Contrappunto IX (1972), Canone variato III (1972), Bestia politica (1972), Scala musicale (1974), Controcanto (1975), Lazzaro (1980), I Lunari (1981) dove Melotti riesce ad esprimere sonorità, ritmo e armonia. musicalmente 37 MUSICA & ACUSTICA di Renato Spagnolo Cosa accade in spazi CHIUSI La percezione di un suono in uno spazio chiuso, completamente o in gran parte delimitato da superfici, è ben diversa da quella indotta dallo stesso suono in un luogo aperto, privo di superfici. E lo è perché il suono, per quanto semplice (come quello periodico prodotto da un singolo strumento musicale, contenente una serie di componenti di frequenza in relazione armonica), è oggettivamente modificato, si potrebbe dire “trasformato”, almeno in parte, dall’ambiente in cui viene generato e si propaga. In un campo acustico virtualmente libero (come ad esempio quello creato artificiosamente nelle cosiddette “camere anecoiche”), il suono generato in un certo punto dello spazio giunge nel punto di ricezione o di ascolto esclusivamente per via diretta (in linea retta), solo più o meno attenuato in intensità, in ragione della distanza che separa i due punti. In un campo acustico chiuso, nel punto di ricezione il suono può essere invece anche significativamente condizionato dal contributo delle riflessioni che le onde acustiche subiscono sulle superfici che delimitano lo spazio e non solo. E qui entra in gioco una delle proprietà che caratterizzano le superfici: il “coefficiente di assorbimento acustico”. Superfici con basso coefficiente di assorbimento riflettono in gran parte l’energia associata ai suoni che incidono su di esse (come la luce su uno specchio), mentre ad un elevato coefficiente di assorbimento corrisponde un’alta percentuale di energia assorbita che viene dissipata, persa, quindi non restituita all’ambiente. Le cose in pratica sono complicate dal fatto che negli spazi reali ogni superficie, ogni sotto-elemento di superficie o altre strutture presenti, le stesse persone, se ve ne sono, hanno ciascuno un proprio coefficiente di assorbimento. Il risultato netto, tuttavia, è che solo a distanze molto brevi dalla sorgente (nei posti più prossimi al palco in teatro ad esempio), ciò che 38 musicalmente Berliner Philharmonie Per un suono che entra ne esce un altro che gli somiglia, ma che non è più esattamente lo stesso viene percepito o rilevato è scarsamente influenzato dalle riflessioni che giungono dopo aver compiuto percorsi diversi, mentre a distanze via via crescenti il loro contributo al campo acustico cresce fino a divenire, sotto certe condizioni, addirittura prevalente. In questo senso, il comportamento acustico di un ambiente chiuso dipende allora in gran parte dalle proprietà assorbenti delle superfici che lo delimitano o dei corpi o elementi presenti al suo interno. Estremizzando, si può affermare che uno spazio molto assorbente presenta un’acustica “sorda”, “povera”, in cui è privilegiata e sfruttata solo l’energia che si propaga per via diretta, mentre uno spazio con superfici o elementi molto riflettenti determina un campo maggiormente “riverberante” e con molta più energia acustica disponibile. Tra i due casi, ci sono tutte le altre possibilità di comportamento, da definire e controllare accuratamente in base alle destina- zioni d’uso dell’ambiente. Poi però non si può non menzionare un altro aspetto, tutt’altro che trascurabile, e cioè la dipendenza dell’assorbimento acustico dalla frequenza: qualitativamente, vengono più facilmente assorbiti i suoni ad alta frequenza e meno, molto meno, quelli a bassa frequenza. Ne consegue che un suono, avente all’origine una certa distribuzione in frequenza, subisce una modificazione più o meno importante legata al fatto che ciascuna sua componente può aver perso una diversa quantità di energia sulle superfici di incidenza. Sotto questo punto di vista, è facile immaginare lo spazio chiuso come una scatola nera in cui per un suono che entra ne esce un altro che ancora gli assomiglia, ma che non è più esattamente lo stesso. Con un pizzico di rigore in più, tecnicamente si parla di “funzione di trasferimento” dello spazio o dell’ambiente come di quell’algoritmo che si deve applicare al segnale acustico in ingresso per ritrovare quello in uscita. L’acustica architettonica è il filone che tratta specificatamente di queste (e molte altre) cose, di quali sono i criteri, gli accorgimenti da adottare, gli errori da evitare e gli equilibri da ricercare perché un luogo d’ascolto “suoni bene”, per le finalità per cui è stato pensato; e a questo punto inizierebbe tutto un altro lungo discorso. LEGGERE di Simonetta Bitasi I MUSICISTI CHE ROMPONO DA BEETHOVEN A LADY GAGA Orfeo, Monteverdi, Rossini, Beethoven, ma anche Battisti e Tommy Riccio: questa guida ci propone un viaggio che attraversa i generi musicali classica, jazz, rock, contemporanea, rap, sottolineando le rotture decisive, ma a volte trascurate e che magari molti anni e secoli dopo hanno rivelato la loro importanza per la storia della musica (Guida ai musicisti che rompono da Beethoven a Lady Gaga di Massimo Balducci e Federico Capitoni, Giudizio universale, pp. 160, 15 euro). ECCO COME FUNZIONA LA SCIENZA DEI SUONI «Penso sia un peccato che a una cosa popolare qual è la musica sia stato associato tanto mistero. Nella stesura del libro non ho fatto alcun ricorso a matematica, diagrammi o musica scritta, e ho mantenuto uno stile colloquiale»: ecco la lettura ideale per chi vorrebbe imparare a suonare uno strumento; per l’ascoltatore di vari generi musicali che vuole conoscere meglio l’oggetto della propria passione (Come funziona la musica. La scienza dei suoni bellissimi, da Beethoven ai Beatles e oltre di John Powell, Salani, pp. 317, 18 euro). MEZZO SECOLO DI ITALIANO IMPARATO DALLE CANZONI Questo libro riconsidera i testi delle mille canzoni italiane più vendute negli ultimi cinquant’anni, nell’intento di ricostruire - attraverso le parole - mezzo secolo di storia della nostra lingua. Mille testi spogliati della musica e fatti a brani; mille testi scrostati dalla vernice dello stile e della retorica e raccontati da un linguista appassionato di canzonette (Ma cosa vuoi che sia una canzone. Mezzo secolo di italiano cantato di Giuseppe Antonelli, il Mulino, pp.264, 16 euro). Il corpo estraneo? Un pianoforte di RICORDI «Il coperchio del Bluthner era chiuso. Lei lo sollevò e guardò i tasti. Comprendeva che stava osservando la Storia, la Verità, il potente Sublime? Era troppo sorda per vedere. Stava aprendo le dita della mano sinistra, quella destra chiusa in un nodo. La sinistra affondò come le fauci di un leone sui bassi. Il pugno si schiantò sugli alti. Il suono fu tremendo, il suono fu maestoso, un tuono, un coro di dei tragici, usciva dalle profondità, usciva dal cielo, era grandine, era una granata di sassi, era grandezza! Erano le battute iniziali della sinfonia che lui doveva ancora scrivere. Pestò col piede per scacciare il dolore. Ora era lui a vergognarsi». Perché Bea dopo la traumatica separazione da Leo non si è liberata del suo pianoforte che incombe e riempie il suo minuscolo monolocale? Cosa significa ancora per lei, lo strumento per il quale ha abbandonato le sue ambizioni, per permettere al marito di scrivere le sue sinfonie ed esprimere così il suo talento? E perché non disfarsene, dopo che Leo l’ha lasciata per una vita e un pianoforte migliore? «Bea faceva parte di quella categoria di ridicole e ben riconoscibili insegnanti donne di mezza età che mettono da parte i risparmi per le vagheggiate vacanze estive nelle più romantiche capitali europee». In realtà la protagonista del nuovo romanzo di Cynthia Ozick nasconde un matrimonio fallito, un fratello ricco e che la ignora da vent’anni e una sottile insoddisfazione che co- Corpi estranei di Cynthia Ozick, traduzione di Simona Vinci Bompiani, pp. 322, 18 euro mincia a pungerla quando meno se lo aspetta. Anche verso il pianoforte che le è costato così caro. Ma l’incontro con il nipote, che fugge da un padre opprimente e con il quale ravvisa una certa somiglianza di indole, sembra poterle regalare una nuova occasione di vita. Tanto che quando rivede l’ex marito, diventato un famoso compositore di colonne sonore a Hollywood, decide finalmente di liberarsi del piano e dei rimpianti per il passato. Anche se scoprirà che pure con le migliori intenzioni si può sbagliare, e quindi soffrire e creare sofferenza. Cynthia Ozick conferma con questo romanzo intenso e dal sapore retrò di essere davvero un classico contemporaneo della letteratura statunitense. musicalmente 39 ALTRA MUSICA di Giorgio Signoretti PFM E BMS, IL ROCK CAMBIA FACCIA MARC TURNER, JAZZ PER LA MENTE Quarant’anni fa, nel 1972, la scena del rock italiano sembra esplodere di nuovi fermenti. Premiata Forneria Marconi e Banco Del Mutuo Soccorso sono i leader di un movimento che farà della contaminazione con alcune suggestioni classiche la chiave per il superamento della forma-canzone. Affrontando con successo sfide impegnative come quelle della forma estesa, delle innovazioni armoniche tardo-romantiche e del rigonfiamento dinamico mutuato dalle poetiche dell’orchestra sinfonica ottocentesca, le due band condurranno la scena italiana lontano dalle stanche liturgie sanremesi. Il 1972 in negozio: Storia di Un Minuto, Per Un Amico (PFM); Banco Del Mutuo Soccorso, Darwin (BMS) Dopo il travolgente ritorno in famiglia di Mauro Negri col suo European Quartet, a Mantova il Festival Chiozzini 2012 entra nella sua sensazionale sezione newyorchese con un altro grande quartetto “pianoless”, quello di Marc Turner, l’attuale prodigio del sax tenore, col fantastico Avishai Cohen alla tromba. Un Arci Tom gremito e bellissimo accoglie con un’acustica perfetta e col calore del suo pubblico le cinetiche sperimentazioni del quarantaseienne musicista trapiantato a New York. Della California nella quale è cresciuto, Turner sembra volersi portare appresso un approccio levigato e anti-romantico che fa arrivare la sua stordente musica più dalle parti della mente che da quelle dello stomaco. Contaminazione VIRUS benefico L’idea di contaminazione ha avuto in anni recenti un’enorme fortuna, specie da quando l’estetica postmoderna ne ha fatto un feticcio. In realtà non esiste linguaggio musicale che non definisca se stesso attraverso un costante processo di interazione, di negoziato, di scambio con altri linguaggi. Il jazz, come è noto, nasce da un complesso intreccio di suggestioni che possono dialogare reciprocamente grazie alla flessibilità insita nella pratica della trasmissione orale. La vicenda del rock non è diversa. New Orleans e rock’n’roll sono le rispettive entusiasmanti fasi iniziali nelle quali le radici delle due musiche sono completamente visibili. E, lezione da mandare a memoria, lo scambio non è minimamente ostacolato dal diverso colore della pelle dei musicisti o dalle differenti appartenenze sociali e geografiche. Jazz e rock, all’alba delle rispettive vicende, sono musiche sostanzialmente folk non meno di quanto lo sia il blues: strutture economiche, convenzioni sociali (e scrittura) non hanno ancora cristallizzato i comportamenti creativi. 40 musicalmente L’evoluzione del linguaggio è contemporaneamente vernacolare e reticolare: accanto ai vari sotto-linguaggi regionali, cioè, si va definendo una rete più generale di similitudini fondamentali che costituisce i caratteri distintivi del linguaggio stesso. Questo vale tanto per il 1927 di Armstrong, Beiderbecke, Ellington o Bechet quanto per il 1955 di Elvis Presley, Chuck Berry, Bo Diddley e Little Richard. Le avventure dei due linguaggi saranno destinate a caratterizzare tanto in profondità il Novecento musicale da arrivare a dettare timbri, ritmi e strutture al mercato del pop, pronto a lasciarsi contaminare da qualsiasi cosa possa far tintinnare il registratore di cassa. Dalla parte povera della strada, tra baracche e slums di ogni latitudine, la danza vitalistica e il canto straziante dei non garantiti ricordano ai più attenti di che materiale sono fatti i nostri sogni. Chuck Berry Jazz, rock: non esiste linguaggio musicale che non definisca se stesso attraverso un costante processo di scambio e negoziazione QUADERNO DI VIAGGIO di Andrea Zaniboni Il museo del PIANOFORTE che non t’aspetti Temenuschka Vesselinova, proprietaria del Museo di Ala PER VISITARE IL MUSEO DI ALA Dalla primavera inoltrata a ottobre Prenotazioni: Ufficio Cultura e Turismo del Comune di Ala (Trento). Tel. 0464 674068 oppure Museo del Pianoforte antico tel. 348 2280500 Accesso consentito solo a gruppi, massimo 25 persone Prezzo del biglietto euro 20 La prima domenica del mese, a partire da aprile Comune di Ala propone visita del Museo e della città al costo di soli 5 euro. Nel centro della cittadina trentina di Ala in val d’Adige, c’è un piccolo museo allestito dalla pianista e studiosa di origine bulgara Temenuschka Vesselinova (il suo cognome si pronuncia accentando la “i”), nato come collezione privata ma da molti anni aperto alle visite del pubblico. La rara raccolta di tastiere antiche ha un suo fascino estetico indubitabile, però è anche un’occasione non comune per confrontare dal vivo, in rapida successione, il suono degli strumenti esposti e per ricongiungersi idealmente con un mondo scomparso che sopravvive nelle musiche di Mozart, Beethoven, Schubert o Chopin. Da parecchio tempo i cartelloni concertistici ci pongono davanti al “suono d’epoca” ed a modi esecutivi informati da ricerche musicologiche; ma sul fronte delle tastiere, almeno in Italia, le occasioni sono ancora davvero poche, a differenza di quanto avviene per gli strumenti ad arco od a fiato. La Vesselinova, che è una valente pianista (si è formata a Firenze con Maria Tipo ed ha insegnato al Conservatorio di Vicenza per oltre due decenni la prassi esecutiva su pianoforti antichi) accompagna il visitatore non soltanto con le parole, ma anche esemplificando e facendo conoscere Un prestigioso Bechstein arricchisce l’itinerario di visita del Museo del pianoforte antico Un caratteristico piano giraffa della collezione Vesselinova la “voce” di quanto esposto: un arricchimento che diremmo “necessario” nel caso di oggetti costruiti per far musica, soggetti a progressivi perfezionamenti e mutamenti sotto l’influenza dell’incessante fiorire delle idee compositive e dell’evoluzione rapida della tecnica pianistica. La collezione completa assomma ad una cinquantina di esemplari diversi, ma quella esposta, pur di dimensioni inferiori, è in perfetto stato di manutenzione ed assolve ogni curiosità del visitatore ed ogni esigenza esecutiva: “da concerto”, sottolinea la Vesselinova. Le scuole costruttive rappresentate danno una panoramica piuttosto interessante: i nomi, nelle sale dell’antico palazzo De’ Pizzini, sono quelli di Bertsh, Beyer, Graf, Pleyel, Stein, fino a Bechstein e Steinway secondo un itinerario atto a sottolineare le diverse scuole europee, dal 1760 fino all’Ottocento inoltrato. L’accesso alla collezione per un quindicennio s’è appoggiato alla disponibilità della proprietaria (ogni domenica pomeriggio chiunque poteva presentarsi ed entrare), oggi invece c’è un accordo con il Comune di Ala per visite organizzate per soli gruppi, che rimangono possibili nei migliori mesi dell’anno, dalla tarda primavera fino all’autunno. Peccato per questa limitazione, il Museo tuttavia vale una breve attesa. È anche l’occasione per conoscere la piccola città un tempo celebre per le sete e i velluti. musicalmente 41 IN PLATEA Appena ho conosciuto Paolo Protti, ho pensato che ci sarebbe voluto Claudio Fraccari – il collega titolare della interessantissima rubrica “Colonna sonora”, qualche pagina prima di questa – per intervistarlo. Le due grandi passioni di Protti, mantovano, 60 anni, sono infatti il cinema e la musica. Nel cinema ci è nato: la sua famiglia se ne occupa da oltre un secolo e lui, oltre a essere il gestore di due multisala, è stato a lungo presidente dell’Associazione nazionale esercenti cinema (Anec) e da due anni ricopre lo stesso incarico all’Associazione generale italiana dello spettacolo (Agis). La musica – come racconta in questa intervista – è stata una scoperta personale, maturata da adolescente insieme a una invidiabile collezione di vinili custodita ancora gelosamente. Dottor Protti, come è iniziata l’avventura della sua famiglia nel cinema? «Merito di mio nonno Otorino, che nel 1904 fu il primo a portare in Italia i proiettori creati dai Fratelli Lumière. Era un’epoca di pionieri, che oggi, nell’era del 3D, sembra lontanissima». Il suo primo ricordo legato al mondo della celluloide? «Quando da piccolo mi accompagnavano a vedere i film di Stanlio e Onlio al cinema Bios di Mantova. Prima entrare in sala si faceva tappa nella storica pasticceria Moretti». La passione per la musica invece quando è nata? «Da ragazzo, quando ho cominciato a collezionare dischi di Toscanini e di altri grandi direttori, ai quali tengo ancora moltissimo». Gusti musicali? «Amo la musica romantica, da Beethoven a Brahms, e le proposte originali: di recente ho apprezzato un concerto di tamburi giapponesi a Roma e una performance del gruppo di musicisti funamboli Le Quatuor a Parigi». Quali sono i più bei film sulla musica? «L’altra faccia dell’amore di Ken Russell, che racconta in modo molto romanzato la vita di Ciaikovskij. Poi Il Concerto di Radu Mihaileanu: una commedia brillante e insieme commovente. Infine un titolo da cinefili: Storia di un peccato del polacco Walerian Borowczyk». Si dice sempre che la colonna sonora è un ingrediente fondamentale dei film, lei è d’accordo? «Non sempre, ma in alcuni casi è davvero determinante. Un esempio recente? The artist (pellicola che rivisita il cinema muto, pluricandidata agli Oscar 2012, ndr): senza la musica non avrebbe ragione di esistere». In Italia la situazione è difficile sia per il cinema sia per la musica: come uscire dalla crisi? «Con una politica più lungimirante, come accade per esempio in Francia. È proprio nei momenti di crisi che bisogna investire nella cultura e riconoscerne il ruolo fondamentale per lo sviluppo sociale ed economico di una nazione». 42 musicalmente di Alice Bertolini Paolo Protti Cinema e musica matrimonio PERFETTO Paolo Protti - gestore di due multisala e presidente dell’Agis - racconta come è nata la sua passione per la classica: “Ho cominciato collezionando dischi di Toscanini ai quali tengo ancora molto” UNA VITA DA GRANDE SCHERMO Paolo Protti, 60 anni, mantovano, è discendente di una famiglia che da oltre un secolo si occupa di esercizio cinematografico. Gestore dei multisala Multiplex Cinecity (di cui è anche proprietario) e Ariston di Mantova, dal 2005 al 2011 è stato presidente dell’Anec (Associazione Nazionale Esercenti Cinema) ed è il presidente dell’Agis (Associazione Generale Italiana dello Spettacolo) da giugno 2010. Al momento del suo insediamento ha sottolineato: «Il mondo delle imprese dello spettacolo riveste un ruolo determinante nella vita culturale del Paese e la cultura è un fondamento della ragione di una società e delle sue istituzioni». Appassionato anche di musica, fa parte del Consiglio direttivo del Teatro Sociale di Mantova ed è Commendatore Ordine al Merito della Repubblica Italiana.