Annibale Formica In viaggio tra i mille suoni della memoria1 Nelle serate dello scorso agosto, seduti, io e la nipotina in braccio, sul muricciolo di via Morea, alla periferia dell’abitato, ascoltavamo, al buio e in silenzio, i “cri cri” instancabili dei grilli, un vero concerto della natura: il “concerto dei grilli”. In questo villaggio, gli unici rimasti sono i suoni della natura e della civiltà agropastorale. Sono suoni semplici, arcaici, tradizionali e naturali, come i “cri cri” dei grilli, i suoni degli alberi e le voci del bosco. Qui, io ho imparato i suoni dei venti, dei tuoni, dei lampi, dei fulmini, delle piogge e del torrente in piena dopo un temporale estivo. Quei suoni li ho memorizzati come segnali di vita, che mi certificano l’esistenza. All’alba, con il sonno ancora in corpo e la pigrizia del risveglio, da ragazzo ho dovuto subire l’irrompere del “chicchirichi” del gallo nel pollaio e il cinguettio dei passeri, annidati nelle grondaie sopra la finestra della camera da letto. Ho patito, alcune notti, la paura del sinistro verso, "hu-u-ou", della civetta, nascosta tra i rami dell’olmo davanti casa. E, lì, davanti casa, al rientro dei contadini dalla giornata di lavoro nei campi, ho preso familiarità con i rintocchi dei campanacci al collo delle mucche e i ragli degli asini in sosta al vecchio abbeveratoio. Custodisco gelosamente, nel cuore e nella mente, il suono della zampogna, “Karramunxa”, delle campane a festa della chiesa, della “troka”, un rudimentale strumento in legno usato il venerdì santo, in giro per il paese, e la struggente melodia del salmo arbëresh per i defunti. Ricordi ed emozioni mi rinnovano i “vjesh” cantati senza successo, per una intera serata, seguendo i pazienti suggerimenti di zio Francescantonio e di zio Costantino, che mi accompagnavano al ritmo della zampogna nella serenata a mia moglie prima del matrimonio. Zio Francescantonio e zio Costantino 1 Articolo pubblicato su IL QUOTIDIANO del Sud, Edizione Basilicata, di domenica 9 novembre 2014 I “vjesh” sono canti assai difficili; sono eseguiti con “voce molto tesa, quasi lacerata”. Lo spiega Nicola Scaldaferri, studioso ed esperto di etnomusicologia arbëreshë, che nel saggio “Polifonia arbëreshe della Basilicata”, a sua cura, fornisce un prezioso contributo alla conoscenza delle polifonie arbëresh esibite da donne di San Paolo e di San Costantino Albanese, ospiti, il 27 settembre 1992, al Concerto nell’Abbazia di Royaumont. Più armoniose, più modulate e più dolci, cariche di pathos sono le note musicali e le parole di “burra e gra”, la canzone della notte di Natale a San Paolo Albanese. Vale per me quanto “Stille nacht”, il canto natalizio, noto in tutto il mondo, eseguito la prima volta nella chiesa di San Nicola di Oberndorf, presso Salisburgo, durante la Messa di Natale, nella notte del 24 dicembre 1818. I suoni sono il linguaggio capace di farci esprimere, insieme alle parole, quei pensieri, che, diversamente, non troverebbero vita materiale e storia e non riuscirebbero a farci comunicare e interagire con gli altri. Producono emozioni e richiamano ricordi. Come fa la lingua madre. C’è, perciò, assoluto bisogno di educazione ai suoni, alla loro produzione e percezione. E, nell’educarsi e maturare attraverso le percezioni e le esperienze di una intera esistenza, c’è bisogno di unire la musica “alta”, lirica, sinfonica, classica, con la musica popolare, con i suoni della natura, della terra, della campagna. Con la mia generazione di settantenni ed oltre, nata agli inizi degli anni ’40 nel cuore della seconda guerra mondiale, ho percorso gli anni, nella prima infanzia, dei canti popolari in lingua madre arbëreshë, poi delle vecchie canzoni napoletane che mio padre, muratore, durante il lavoro, intonava a gran voce per alleviare, diceva lui, la fatica. Più avanti, ho ascoltato il rock, il jazz, il blues. Ho imparato via via ad ascoltare, anche se con scarsa preparazione, la musica classica, la musica lirica, qualche sinfonia di Beethoven. Ho, addirittura, assistito, in faticoso silenzio, per ore, l’intero Macbeth di Verdi, negli anni universitari, al San Carlo di Napoli. Ho cercato, anche, di informarmi sulla storia culturale della musica, segnata dal genio di Haydn, di Mozart, di Beethoven e da “L’arte della fuga” di Bach. Mi sono lasciato affascinare dalle musiche di George Gershwin, diventando, a mio modo, moderno con la famosa aria “Summertime”. Nel momento più importante della mia esperienza e della mia responsabilità umana, quella di padre, però, non sono riuscito ad avvertire, ascoltare e comprendere i pensieri, i turbamenti, i sentimenti, i gusti dei miei figli, proprio nel loro passaggio dall’adolescenza alla maturità, quando riempivano la casa delle musiche dei Pink Floyd e dei Doors. Partecipando ad uno stage di studio in Francia, dal 23 al 29 giugno 1991, ho portato con me a Aix en Provence, Rocquefort, Millau e Parigi i due figli più grandi, di quindici e di sedici anni, mentre il terzo, il più piccolo, è rimasto a casa a rosicare. Siamo saliti sulla torre Eiffel; abbiamo navigato sulla Senna con il bateau mouche; abbiamo visitato il Louvre; siamo entrati in Notre Dame; abbiamo cenato al quartiere latino. Li ho lasciati, poi, con un po’ di franchi in tasca e tanti bigliettini addosso con i loro nomi e l’indirizzo dell’albergo dove alloggiavamo, completamente liberi, un intero giorno. Ritrovandoci la sera, sono rimasto ad ascoltare per ore, stupìto, il loro racconto da favola. In giro una intera giornata, da soli, a Parigi, erano rientrati estasiati ed orgogliosi, non di essere riusciti a districarsi perfettamente con le strade, i monumenti e il metrò, ma di aver passato tutto il loro tempo nel cimitero parigino di Père Lachaise, sulla tomba di Jim Morrison, la voce e l'anima dei Doors, morto il 3 luglio 1971 e sepolto lì, in uno dei grandi luoghi di pellegrinaggio del rock, vicino a Wilde, Balzac, Proust. Non sono stato capace di capire il fascino e l’attrattiva che quel personaggio inquieto, complesso, anticonformista, esercitava sui miei figli adolescenti e su una nuova generazione di giovani, nella loro età di trasformazione più difficile, innamorati della sua musica, della sua poesia, del suo carisma. Recensendo “La verità che si sente”, un saggio del critico musicale Federico Capitoni, Leonetta Bentivoglio esamina “la musica come strumento di conoscenza”; mette in evidenza l'ipotesi di una “traduzione oggettiva dei significati della musica”, “la ricerca di una verità di senso” e “la concezione del suono come fenomeno puro”. Parla della “importanza - nel saggio di Capitoni - dell'intercettazione affettiva della musica, la cui ˂verità˃, senza prescindere dall'intelletto, vive nel mondo delle emozioni. Da tale profonda essenza affettiva scaturisce la forza comunicativa di un'arte capace di condurre l'individuo all'autoconsapevolezza”. Dentro al suono c’è un fenomeno misterioso, un linguaggio nel quale si nasconde l’unità di un universo fatto di vibrazioni, che il nostro orecchio traduce in emozione. Per questo si parla di ecologia della mente attraverso il suono e della pratica terapeutica della musica, capace di guarire gli stati d’animo delle persone, restituendo loro armonia e ordine mentale. Anish Kapoor ha creato una “Nuova Arca”, come quella biblica di Noè: un teatro gonfiabile itinerante da trasportare in giro per il mondo per grandi eventi di musica e arte. Per gli amanti della natura e della montagna, sulle Dolomiti, ogni anno, nella stagione estiva, si organizzano appuntamenti serali, fra musica e arte ecologica, che mettono insieme melodie, creatività, sogni e memoria, passioni, “spaziando dal jazz alla world music, dal soul alla musica classica”. Nello scenario del sacrario di Redipuglia, al concerto delle vie dell’amicizia 2014, dedicato quest’anno al 1914, Muti ha suonato, con strumentisti provenienti da tutto il mondo, il “Requiem per le vittime di tutte le guerre”. I suonatori ambulanti, gli artisti di strada con le loro musiche, spesso dolorose, raccontano le loro storie e tracciano la loro geografia della “immigrazione” e la via della loro speranza nell'integrazione. In un piccolo paese austriaco di appena un migliaio di abitanti, del Tirolo Orientale, vicinissimo all'autostrada per Salisburgo, giganteggia “L'astronave della musica nella foresta” (Cfr.: sezione viaggi di Repubblica del 18 dicembre 2013). È il teatro del festival di Erl. In un paesaggio di prati innevati e di boschi sorgono, affiancati, due splendidi edifici che sembrano due astronavi. In uno, il Passionspielhaus, costruito dagli abitanti nel 1959, va in scena ogni sei anni, in estate, dal 1613 la Passione. L’altro è il Festspielhaus: una delle più belle e moderne sale da concerti d'Europa. Auditorium di Erl (foto da internet) L’arte contemporanea sta gridando da anni che la sua proposta è in realtà un’esperienza totale, che chiama in causa, oltre la vista, il tatto, il gusto, l’olfatto e, forse, prima di tutto l’udito. Ed è ciò che vuol ricordare la mostra “Art or Sound”, di Germano Celant, inaugurata a giugno a Venezia dalla Fondazione Prada. Nel mio percorso scolastico sono stato istruito ai sonetti di Petrarca, ai “Sepolcri” di Foscolo, all’Infinito di Leopardi, ma mai educato al suono della poesia. Leggo, perciò, con piacere che nel film "Il giovane favoloso" di Mario Martone, presentato al recente Festival del cinema di Venezia e ora, con grande successo, nelle sale cinematografiche, l’interprete di Leopardi “riesce a far ascoltare l'assoluta poesia dell'Infinito e della Ginestra”. Condivido ancora meglio l’emozione intellettuale e psichica raccontata dalla musica dell’”infinito”, la “breve, intima, di contatto con la natura” poesia del giovanissimo Leopardi, come è descritta da Walter Siti nella sua rubrica domenicale “La poesia del mondo”. Lo stesso Walter Siti, in “Da Petrarca a Neruda tutta la poesia del mondo”, richiama “La lingua speciale della poesia”, “il rapporto della poesia con la metrica”, “il bisogno inesauribile di musica verbale, di rimare e ritmare le emozioni” e segnala “il bisogno di parole che significhino non soltanto per il senso attestato dai vocabolari ma anche per il loro suono”. Mille suoni in memoria, che ricordo e che mi fanno ricordare; tutti, compresi i più recenti, compreso il “jingle” di apertura del computer con il quale sto scrivendo; suoni scritti su uno spartito insolito, personale, destinato a comporre la colonna sonora della mia vita.