50 S’ODE A DESTRA uno squillo di tromba. «Hello… this is the Minneapolis police... the party is over!». A sinistra risponde un altro squillo: «Hey, fuck you, man!». Tra schiamazzi e urla, il poliziotto insiste imperterrito: «If you, if you all just grab your stuff and leave there won’t be any hassle. The party’s been closed. The party is over with, grab your stuff and go, and nobody goes to jail». E poi: One-twothree-four!, e il gruppo parte come un treno che deraglia a tutta velocità verso il nulla. I resoconti dei testimoni aiutano a tratteggiare vividamente la scena. Minneapolis, gennaio 1982. Il locale è l’Harmony Building tra la 3° e la 2° Avenue North del Warehouse district, nella zona centrale della città, al quinto piano di un palazzone; è in corso un party con tre gruppi rock del posto, e il rumore si sente a isolati di distanza. A fare tutto quel chiasso sono quattro tizi scalmanati e decisamente poco raccomandabili. Il più giovane tra loro ha appena qundici anni. Non sono in molti a poter dire «Io c’ero», quella volta. Lori Barbero delle Babes in Toyland; Dave Pirner dei Soul Asylum (è lui che manda affanculo lo sbirro, tra parentesi); il tecnico del suono Terry Katzman, il benemerito che ha la prontezza di spirito di registrare l’irruzione della polizia. Un’altra ventina di spettatori, o poco più. Eppure, quei trenta secondi catturati all’Harmony Building sono uno dei momenti più entusiasmanti della storia del rock: un’istantanea di vita vissuta che diventa catarsi collettiva e, magia del copia-incolla, introduce e completa il brano che segue. Che, di roberto curti sebbene registrato in altro luogo e altro momento, sembra davvero prendere forma lì, in quell’istante, come un insolente sberleffo all’autorità in forma di musica. «Kids won’t listen / To what you’re sayin’» canta (canta? sbraita!) il frontman, e in sole due frasi chiama a raccolta gli adolescenti di ogni tempo e luogo. Sarebbe potuta diventare un inno, Kids Don’t Follow. E dopotutto lo è stata, anche se solo per alcune migliaia di ragazzotti del Minnesota. E per questi pochi ma agguerriti adepti i Replacements sono stati – e lo spiega bene il bel documentario di Gorman Bechard Color Me Obsessed (vedi “Blow Up” n. 178) – ben più di un semplice gruppo rock di cui cantare a squarciagola i brani. Il culto che ha accompagnato i quattro di Minneapolis è qualcosa di profondamente devoto e irrazionale. Amare i Replacements significa amarne non solo – troppo facile – l’attitudine rock’n’roll e le canzoni uscite dalla penna di un songwriter sopraffino come Paul Westerberg. Amare i Replacements significa anche (anzi, soprattutto) abbracciarne gli eccessi, le bizzarrie, le bestialità autosabotatorie che ne hanno contrassegnato la schizofrenica carriera, dagli esordi fino alle porte del Successo con la “S” maiuscola, quel successo appena sfiorato e brutalmente mancato che è coinciso con una brusca e dolorosa disgregazione. Amare i Replacements significa accettarne in toto l’essenza di cocciuti, irrimediabili perdenti. E andare incontro alla sconfitta assieme a loro, ripetendo a se stessi che in fondo è così che doveva andare. One-two-three-four… 51 Dog’s Breath. Alito di cane. Non quel che si dice un nome elegante, ma forse il più adatto a descrivere il suono di un gruppo che ha in repertorio scombinate cover di Aerosmith, Ted Nugent e Yes suonate a volumi assordanti nel seminterrato di casa. I Dog’s Breath nascono un giorno del 1979 in cui il diciannovenne Robert Neil Stinson decide che la maniera migliore per tenere l’undicenne fratellastro Thomas Eugene fuori dai guai – guai che lui conosce bene, reduce da un’adolescenza turbolenta comprensiva di soggiorno in un penitenziario minorile – è dargli in mano un basso elettrico. Ai due si aggiunge il diciassettenne Chris Mars, che si accomoda dietro alle pelli. I Dog’s Breath fanno rumore. Parecchio. Se ne accorge, tornando dal lavoro, il diciannovenne Paul Westerberg, inserviente negli uffici del senatore repubblicano David Durenberger. Anche lui è uno di quelli a cui la musica ha cambiato la vita: appena quattordicenne, ha imparato i rudimenti della chitarra ed è rimasto folgorato dai… Raspberries di Eric Carmen (Go All the Way). Se come epifania non è delle migliori, nondimeno spiega l’attitudine onnivora di Westerberg, che cresce consumando i dischi di Beatles e Stones, Faces e New York Dolls, il catalogo Motown e i Creedence. Paul canta e suona in una band, i Resister, ma compone pezzi di suo pugno che non fa ascoltare a nessuno. Vuole la leggenda che, incuriosito da quel caos, si nasconda tra i cespugli fuori casa Stinson ad ascoltare cosa combinano quei tizi: «Well Tommy’s too young / Bobby’s too drunk / I can only shout one note / Chris needs a watch to keep time» Avrebbero potuto essere il più grande gruppo rock della loro generazione… se solo avessero voluto. Ma hanno preferito bruciarsi, sabotarsi, autodistruggersi. Diversamente, non sarebbero stati fedeli a se stessi, nel bene e nel male. A oltre vent’anni di distanza dall’ultimo album è uscito l’EP Songs For Slim, registrato per beneficenza. Ladies and gentlemen, meet THE REPLACEMENTS. BASTARDI senza GLORIA poche settimane dopo, grazie al comune amico Mars, inizia a suonare con loro. Se era destino, l’intraprendente Paul gli (e si) dà una mano, confidando al cantante designato che gli altri membri del gruppo (non lui, eh…) lo schifano. E ne prende il posto. Non resta che trovare un nome migliore di Dog’s Breath – non che sia un’impresa presto i tizi della Twin/Tone, Westerberg così difficile. Ed ecco a voi The Impediscrive canzoni a getto continuo. Tra Jements… anzi, come non detto, perché i sperson e il gruppo è amore a prima vista: quattro, ingaggiati per suonare nel seminter- da quel momento, sarà lui il loro padre rato di una chiesa, si fanno cacciare prima putativo, tutore (alla lettera: la madre di ancora di salire sul palco per consumo d’alTommy gli affiderà il figlio minorenne in col e vengono banditi dai locali della città. tour), compagno di viaggio, di sbronze e Urge trovare un’altra sigla per rifarsi una di mattane (e in seguito di sniffate), converginità. E The Replacements è semplicesulente e mentore, spalla su cui piangere, mente perfetta. Sfido il lettore a scovare roadie, tecnico del suono, produttore e fan nella storia del rock un gruppo il cui nome numero uno. si adatti meglio alla natura, alla personalità, Registrato nel corso di sei mesi, tra al destino dei musicisti. Come dire The Lo- l’inverno 1980 e gli inizi del 1981, in uno sers, ma senza un’oncia di romanticismo spartano studio casalingo munito di un perdente a salvarli. The Replacements racotto piste, e prodotto da Steve Fjelstad, chiude in sé la propria critica e il proprio sa- Westerberg e Jesperson, “Sorry Ma, Forbotaggio, azzerando l’irruenza anarchica got To Take Out The Trash” esce nei nedegli intenti (alla domanda «Chi volete rimgozi il 1 settembre ’81, accompagnato dal piazzare?», una volta Westerberg rispose singolo I’m In Trouble / If Only You Were «Tutti») con disincantato realismo. I rimLonely. Diciotto brani, solo un paio sopra piazzi: quelli che vengono dopo i titolari, i tre minuti e molti sotto i due, poco più ma non saranno mai come loro. Questo vo- di mezz’ora in tutto. Sembra hardcore levano essere, questo sarebbero stati. punk, non lo è. Certo, la velocità c’è, e pure l’immediatezza d’esecuzione (anche se «Delivering noise / Real tough boys / What else nient’affatto sciatta come solitamente si dice), ma have I got / Half-priced drugs / Stolen guitars / le strutture, le melodie, gli assoli di chitarra peWhat else is new / It’s somethin to dü / It’s soscano dal più classico rock’n’roll quando non dal methin to dü /We ain’t nothin new» power pop. Non a caso una delle vette dei concerti dal vivo di quel periodo è un’esecuzione Una delle tante storie bizzarre nella biz- mozzafiato di Rock Around the Clock, suonata zarra storia dei Replacements – per i fan più come se fosse a 78 giri. affezionati, ‘Mats, abbreviazione della stor“Power Trash” avrebbero voluto chiamarlo gli piatura Placemats – è quella (narrata da Mi- artefici: e sarebbe stata una definizione perfetta chael Azerrad in Our Band Could Be Your per la musica contenuta in uno dei più grandi diLife) di come il gruppo – che, si badi bene, schi di rock americano degli anni ‘80. «Un Sgt. non ha mai suonato dal vivo, e si fa ancora Pepper’s del punk» chioserà qualcuno: e non è chiamare The Impediments – ottenga un in- male neppure questa. O, per dirla con il cuore in gaggio discografico. Un bel giorno Westermano delle fanzine dell’epoca, «se dite di amare il berg porta un demo con quattro canzoni rock’n’roll e “Sorry Ma” non vi commuove, o siete (Raised in the City, Shutup, Don’t Turn Me dei bugiardi o siete in coma». Tertium non datur. Down e Shape Up) a Peter Jesperson, disc E il pezzo che apre le ostilità, Takin’ A Ride, col jockey e proprietario del negozio di dischi suo drumming trascinante e le entusiasmanti più in vista di Minneapolis, Oarfolkjokeopennellate chitarristiche di Bob Stinson, mette pus (immaginatevi una sorta di rifugio per già le carte in tavola. Il resto non è meno memofanatici e feticisti all’ultimo stadio, tipo Alta rabile. Careless, in soli sessantotto secondi, trifedeltà) nonché cofondatore dell’etichetta plica in velocità un tipico giro r’n’r e piazza a indipendente Twin/Tone. L’idea è di tentare, tradimento un ritornello di insidiosa cantabilità, tramite Jesperson, di strappare un ingaggio Hangin’ Downtown è un cantilenante power al Jay’s Longhorn Bar, il locale fulcro della pop’n’roll frullato e risputato tra cambi di tempo scena punk delle Twin Cities dove l’altro fa e una solista dagli svolazzi southern, Rattlesnake il DJ. Jesperson ascolta il primo pezzo, Raitermina con un beffardo giro blues, I Hate Music sed in the City, una volta, e poi un’altra, e un’altra ancora, e ancora, e ancora. Il giorno dopo richiama il cantante e gli offre la scelta tra registrare un singolo o un album. Opteranno per la seconda, anche perché, come si accorgono ben suona come suonerebbe Jerry Lee Lewis dopo aver fatto comunella coi Ramones, la strepitosa Shiftless When Idle è un rock da stadio vitaminizzato che cozza con i classici canoni hardcore, Don’t Ask Why e I’m In Trouble (Westerberg: «Era una vera canzone, con un inizio, un centro, una fine e un bridge») nascondono a malapena dietro la furia esecutiva una spudorata vena pop, More Cigarettes «sarebbe potuta diventare qualcosa di simile a un rockabilly se ne avessimo avuto il tempo» e Somethin to Dü è un irresistibile sberleffo ai rivali di sempre («i nostri amici Hüskers, che non prendono droghe»: oltre il danno, la beffa…), con Stinson a distillare scale r’n’r nell’assolo. Al di là dell’incredibile efficacia di queste gemme appena sbozzate, di “Sorry Ma” colpisce il precario equilibrio tra l’innata attitudine melodica di Westerberg e la spinta centrifuga del gruppo: quel caos controllato, come lo definirà Robert Christgau, che del gruppo costituisce l’essenza profonda. Forse Bob Stinson e gli altri non se ne rendono neppure conto, forse pensano davvero di essere un gruppo hardcore. Ma quando i ritmi si fanno appena più radi emerge appieno l’anima romantica di Westerberg: Kick Your Door Down e soprattutto Johnny’s Gonna Die, commosso tributo a Johnny Thunders, hanno un’intensità chiaroscurale inattesa per un gruppo di ragazzotti casinisti. E la seconda, meditazione sul declino dell’ex New York Dolls e Heartbreakers – uno degli eroi di Westerberg, all’epoca già male in arnese – costruita (per caso o per proposito?) sul medesimo giro di accordi di So You Want To Be A Rock’n’Roll Star, è anche un sinistro presagio, la cui ombra lunga scenderà anche sulle vicende future degli stessi Replacements. «Sono giovani. E allora?» si legge nelle note stampa della Twin/Tone. «L’unica cosa che gli manca sono le pretese». In realtà i testi di Westerberg sono mediamente più sofisticati di quel che passa il convento, e denotano la capacità di condensare in pochi versi un’idea, un racconto, un insieme complesso di sensazioni, desideri, speranze, delusioni. Come l’amore frustrato per la commessa di un negozio e gli approcci goffi del cliente-narratore nel quadretto di Customer. Dice bene Jim DeRogatis: «Con gli Hüskers, non hai la sensazione che Bob e Hart parlino per te, con Westerberg sì»: Takin’ A Ride esprime il medesimo cupio dissolvi di certe corse notturne springsteeniane, ma con in più lo spleen post-adolescenziale di chi ha nothin’ to dü se non attaccarsi alla bottiglia o ingozzarsi di pillole («Goin’ real fast, hanging out the window / Drinking in the back seat, half the bottle…»). È la consapevolezza del nulla, la paura di affrontare il domani camuffata da giovanile sfrontatezza («Irresponsability’s my closest friend / I never pay attention, watch my step», in Careless) che affiora in Shiftless When Idle («And I ain’t got no ideals, I ain’t got much taste / I’m shiftless when I’m idle and I got time to waste»). E poi ci sono le note, scritte dal cantante di suo pugno, sardoniche e spesso esilaranti, che formano una parte importante nella mitologia dei Replacements come inguaribili buffoni. A proposito di Customer, Westerberg commenta che «la chitarra di Bob è più calda di un’infezione alle vie urinarie», mentre la goliardica Otto «non fa impazzire neppure noi. Ed è la prova che Chris Mars è uno dei migliori batteristi che potessimo trovare al momento». E della memorabile Kick Your Door Down scrive che è stata «scritta 20 minuti dopo averla registrata». In men che non si dica i Replacements diventano l’altro miglior gruppo di Minneapolis. A contendere loro il titolo c’è un trio hardcore punk che in città è già piuttosto conosciuto, e che l’ingaggio dei ‘Mats con la Twin/Tone fa andare in aceto. È forse la scintilla che fa nascere la rivalità tra i Replacements e gli Hüsker Dü di Bob Mould, Grant Hart e Greg Norton. Una rivalità che si nutre di tanti piccoli aneddoti: a detta di Hart, Mould si sfogherà dello smacco infilando un paio di versi al veleno dedicati alla Twin/Tone in Amusement, il lato B del singolo che gli Hüskers sono costretti a pubblicare in proprio. Di contro, Westerberg opta per lo sfottò vero e proprio («Break the Mould» urla alla fine di Somethin To Dü). Ma accade spesso che i due gruppi si dividano il palco quando si tratta di suonare fuori città e ottimizzare le spese: e i rapporti interpersonali sono cordiali, anche se improntati a una forte competizione. Per dirla con Hart, sono i Beatles e gli Stones delle Twin Cities: ma con la differenza che nel quartier generale dei ‘Mats c’è un solo gallo nel pollaio. Ambedue i gruppi trovano comunque in Jesperson una figura di maestro che fa loro conoscere e apprezzare la musica del passato, e ne plasma il gusto. Collaborazioni? Secondo Mould, lui e Westerberg si ritrovavano spesso a casa del loro mentore, a bere, ascoltare musica, e – come dichiara nell’accorato resoconto di Jim Walsh The Replacements All Over But the Shouting: An Oral History – «scambiarci scampoli di idee». Il commento di Hart è un lapidario «This is bullshit». È tuttavia risaputo che Bob e Paul si ritrovarono a registrare qualcosa insieme, anni dopo, nell’appartamento del primo. Secondo Terry Katzman, il risultato di quella session estemporanea – Westerberg alla chitarra, Mould al sintetizzatore – suona come «blues meets Throbbing Gristle». Pare che non ci siamo persi molto, dopotutto. 53 Quando Jesperson ascolta per la prima volta il riff discendente di Kids Don’t Follow, durante un concerto a Chicago, è letteralmente sbalordito. Decide di farla uscire come singolo, ma i suoi soci sono contrari: per tagliare i costi, la copertina delle prime tre edizioni di “Stink” è stampata a mano, utilizzando, pare, una patata su cui è intagliato al contrario il titolo – i dettagli nel documentario di Bechard – a mo’ di timbro. Originariamente da intitolarsi “Too Poor To Tour”, l’EP uscito nel giugno 1982 – che Steve Albini sintetizza in tre parole: «rough, ugly, funny» – è il disco hardcore punk dei ‘Mats: otto brani, quindici minuti in tutto. Lo registrano in un solo giorno, buona la prima e via: l’unico pezzo regi- «Irresponsibility’s my closest friend / Forget my duty, I could give a shit» 54 strato due volte è Kids Don’t Follow, anche se poi sul disco finisce la take iniziale. Le cadenze sono più esagitate, le invettive (Fuck School) urlate a pieni polmoni. Ma Westerberg gioca con le aspettative del pubblico: cosa può essere tenanny” è un gran disco che fa di tutto per non meno punk di una canzone il cui testo risembrare tale. Non rappresenta il miglior esito dei pete ossessivamente «ho bisogno di un danReplacements, ma più di ogni altro dà l’idea della nato lavoro» (Goddamn Job), e la cui tensione latente che muove il gruppo sul filo del rasostanza fa a pugni con l’orgoglio anarcoide soio tra energia e svacco, intensità e spernacchiadi Kids Don’t Follow? mento. Tutto, in esso, rinvia a una dicotomia L’impressione monolitica dell’insieme è volatile: le immancabili cavalcate scavezzacolo (Run poi contraddetta da cose come l’abrasivo It, You Lose, Hayday) vanno a braccetto con svisate blues con tanto di armonica di White and country (Treatment Bound), scatenati boogie (Take Lazy: e quando le polveri si raffreddano, Me To The Hospital, la loro Baby Please Don’t Go) e prima di ripartire con la micidiale Gimme frammenti strumentali surf (Buck Hill, in cui si riNoise, c’è tempo per una scheggia anomala, cordano d’essere concittadini dei Trashmen); e a inuna dichiarazione d’amore e d’abbandono, termezzi semiparodistici (Mr. Whirly, che prende a la lirica e intensissima Go. Una delle più prestito l’incipit di Strawberry Fields Forever e scimbelle canzoni a nome Replacements, e un miotta Oh! Darling e The Twist di Chubby Checulteriore segnale che nel suo carniere di son- ker) si alternano sorprendenti pause introspettive gwriter, Westerberg ha in serbo parecchie come l’inquietante Willpower (a metà tra “Pornosorprese. graphy” e i R.E.M. più oscuri, tipo Old Man Kensey Nelle intenzioni della Twin/Tone, per intenderci) e la bellissima Within Your Reach, “Stink” dovrebbe essere il trampolino di lan- registrata semiclandestinamente dal solo Paul che cio per far conoscere i ‘Mats fuori dal giro di per l’occasione si fa cura di tutti gli strumenti, inMinneapolis, dove la loro reputazione di clusi synth e drum machine: Bob Stinson non la culto ne ha ormai fatto degli idoli dell’unvoleva neppure nel disco, immaginatevi le facce dei derground, seguiti da un codazzo crescente fan della prima ora, ancora convinti che i ’Mats di fan che non si perdono uno show. Il sefossero un gruppo hardcore… condo album vero e proprio sarà faccenda I testi seguono la medesima falsariga, dai pastipiù meditata dell’EP che lo precede, ma non che situazionisti (Lovelines, assemblata con gli anmeno selvatica nell’essenza. Gran parte delle nunci di un quotidiano locale) alle confessioni a registrazioni, dall’ottobre ’82 al gennaio ’83 cuore aperto («I could live without your touch if I «in un magazzino in un’orribile zona perifecould die within your reach»), dagli assalti screanzati rica a nord di Minneapolis», come recitano le (You Lose) allo sgarbato menefreghismo – che però note di copertina, vengono effettuate su nasconde una certa qual preoccupazione per il fuun’unità mobile a 24 piste, un lussuoso pro- turo – di Treatment Bound («There’ll be no pose togresso rispetto al primitivo otto piste cui i night no money in sight / Label wants a hit and we quattro erano abituati. Il risultato, “Hootedon’t give a shit / First thing we do when we finally nanny”, arriva nei negozi nell’aprile ’83. Spiazzante già dalla copertina (disegnata da “Fake Name Graphx”, ossia Grant Hart), che scippa la grafica di un vecchio album folk “Hoo“Hootenanny” fotografa un’attitudine – che il critico David Ayers sintetizza così: «è come se Westerberg non sopportasse d’essere preso sul serio, così sovverte la propria arte con l’artifizio» – ormai predominante nelle esibizioni live. Non che i Replacements avessero dalla loro la miracolosa intensità degli Hüsker: dal vivo, la precaria, volatile coesione dei quattro è messa continuamente alla prova, canzone dopo canzone, nota dopo nota. Il tour manager Bill Sullivan era solito dire che i loro concerti erano come fiocchi di neve: non ce n’era uno uguale all’altro. Detta così, parrebbe un’esperienza mistica: ma come prendere sul serio un gruppo il cui chitarrista ama presentarsi sul palco con mises, diciamo così, particolari, come una maglietta di Prince di due/tre taglie più stretta e un tutu viola, magari un mantello, a «I hate music / Sometimes I don’t / I hate music / It’s got too many notes» pull up / Get shitfaced drunk tryin’ to sober up»). E per una scintillante Color Me Impressed, che per l’ennesima volta cattura in maniera impeccabile la sbalorditiva capacità di Westerberg di intercettare la teenage angst e metterla in parole e musica (ma con quel pizzico di autoirrisione tipico dei ‘Mats: «intoxicated every minute I French kiss»), e sfoggia in maniera mai prima d’allora così esplicita l’animo power pop dell’autore, c’è il passo ubriaco e claudicante della “canzone” eponima, la cui improvvisata genesi è un altro brandello di leggenda. Per l’occasione, i quattro si scambiano gli strumenti: Westerberg si accomoda alla batteria, Bob cede a Mars l’onere della chitarra solista e acchiappa il basso di Tommy, che imbraccia la ritmica. E se pensate che il risultato sia anche lontanamente paragonabile a gemme come la eleventh untitled song registrata dai R.E.M. in formazione rimescolata per “Green”, beh, allora non avete capito niente dei ‘Mats. 55 volte un sacco della spazzatura con buchi per testa e braccia, o un nastro adesivo da pacchi, e non sempre – no, non sempre – biancheria intima? Il punto, insomma, è che se i normali gruppi rock suonano per un pubblico, per cercare l’ammirazione sui volti degli astanti, per celebrare se stessi attraverso il pubblico, a Westerberg e compari tutto ciò non importa. Loro non sono sul palco per intrattenere – casomai per intrattenersi. Il che spiega certi paradossali tragicomici aneddoti di concerti disastrosi e finanche orripilanti, con i musicisti che si scambiano gli strumenti nel bel mezzo di un brano, o Westerberg che canta il testo di una canzone sulla musica di un’altra, e così via. «I hate music – it’s got too many notes» canta (anzi urla) Westerberg in una delle tracce di “Sorry Ma”. Per i Replacements è vero il contrario. Amano la musica, tutta la musica. La amano persino troppo, senza alcun filtro. Anche quella unore e ore di viaggio su uno sgangherato camioncino cool, che magari altri ascoltano di nascosto e senza aria condizionata (nei giorni caldi lo sportello schifano in pubblico: Roger Miller, Rod Stelaterale viene lasciato aperto per far passare un po’ wart, Gentle Giant, Yes (il chitarrista prefese siete così motivati da recuperarne copia sul d’aria: quando la natura chiama, a Bob Stinson rito di Stinson è Steve Howe…), il pop da web e così votati alla causa dei Replacements (o basta sporgersi…) che fa loro da letto, mensa e Top 40. Lo dimostra l’atteggiamento nei semplicemente masochisti) da ascoltarla dall’inicasa… quando non riescono a elemosinare un diconfronti delle cover. Molti loro contempo- zio alla fine vi imbatterete in frammenti sganghevano o un pavimento a casa di qualcuno dove dorranei mettono in repertorio brani altrui per rati di Lloyd Price, Robyn Hitchcock (Ye Sleeping mire la notte. La popolarità regalata da reinventarli e farne veri e propri manifesti Knights of Jesus, da “I Often Dream Of Trains”, “Hootenanny” è sufficiente a renderli un nome sonori – emblematica la Eight Miles High uno dei dischi in assoluto più amati dalla band), piuttosto conosciuto agli ascoltatori delle stazioni dei concittadini Hüsker Dü. Westerberg e Black Sabbath, Led Zeppelin, Thin Lizzy, Tom radio universitarie, ma non certo a far loro guadacompari invece suonano di tutto, da Johnny Petty, Bachman-Turner Overdrive, R.E.M., U2 gnare granché, e la vita on the road è tanto massaThunders ai Bachman-Turner Overdrive, da (I Will Follow, naturalmente: ma con i versi di crante dal punto di vista fisico quanto logorante da Prince agli Who, dagli Only Ones ai JourKids Don’t Follow…), Stones e Beatles, persino quello psicologico e personale. ney, dai Motorhead a Hello Dolly (!), dai Ge- un’improbabile No More the Moon Shines On LoEppure il “difficile terzo album” (ottobre 1984) orgia Satellites alle musiche del Mago di Oz rena della Carter Family (che Westerberg aveva mostra un gruppo che rispetto ai lavori precedenti (!!). Si dirà: ma almeno li rifanno bene? Discoperto in “Like Flies On Sherbert” dell’adorato ha raggiunto la piena maturità. Westerberg non ha pende. Se il pubblico è fortunato, la canAlex Chilton). Il tutto suonato (si fa per dire) più bisogno di nascondere le proprie invenzioni zone prescelta è suonata dall’inizio alla fine: con un’indole ubriaca che può irritare o far simmelodiche: lo swingante shuffle di I Will Dare, con e se Paul o Tommy o Bob sono in serata, patia, ma non lascia indifferenti. In mezzo al Peter Buck ospite alla dodici corde e Westerberg al senza neppure troppe stecche. Altrimenti – è caos, spiccano un trio di originali – Sixteen Blue, mandolino (!), è un prodigio pop degno dei maestri il caso di Hey, Good Lookin’ di Hank WilI Will Dare e un’embrionale Can’t Hardly Wait – di Athens, Sixteen Blue una ballata vagamente velliams, sul lato B del singolo I Will Dare – che fanno toccare con mano come però, dietro vetiana (i Velvet del terzo album, però) che svela in può capitare che il chitarrista suoni l’assolo alle pagliacciate, vi sia un autore di prima granmaniera disarmante le inquietudini dell’adoletotalmente fuori chiave: ragione in più per dezza. scenza («Everything is sexually vague / Now you’re immortalare la performance su nastro, sewondering to yourself / If you might be gay / Your age «One foot in the door / The other one in the gutter» condo i bizzarri schemi di pensiero del is the hardest age / Everything drags and drags»), gruppo. Altrimenti, si passa da un brano mentre Androgynous riprende il tema dell’ambiguità all’altro senza costrutto, metà canzone (o Eccoli lì, seduti sul tetto di casa Stinson, soin forma di frammento da piano bar tra il Bowie di anche solo una strofa e ritornello) e via alla lite facce da schiaffi (e da doposbronza) e “Hunky Dory” e il Chilton di “Third/Sister Losuccessiva. E accade che sul palco, in quall’espressione di chi non ci pensa nemmeno a vers”. Le radici hardcore sono esibite e sminuzzate che serata eccessivamente alcolica o in cui la mettersi in posa per il fotografo. Se è vero, come nella tonitruante We’re Coming Out, che parte a componente cazzara è più marcata del solito scrive Michael Azerrad, che la copertina di quel cento all’ora per poi imprevedibilmente rallentare a (come negli show al CBGB’s di fine ’84, disco è di per sé «un piccolo grande tassello nella metà corsa e reinventarsi in un sincopato interdove si presentano col nome Gary & The formazione del loro mito», è il titolo a completare mezzo jazzato, prima di riprendere la corsa a perdiBoners), la scaletta del concerto sia compol’opera. “Let It Be”, come l’ultimo album uffifiato: è il suono di un gruppo che pare sul punto di sta quasi esclusivamente da brani altrui. ciale dei Fab Four: l’insolenza di un titolo così andare a pezzi a ogni nota, e invece si regge miracoA testimonianza di tutto ciò c’è “The pesante – scelto, pare, per far imbufalire Jesperlosamente insieme. Di contro, la caciarona cover di Shit Hits The Fans”, l’unico manufatto live son, fan terminale di Lennon & Macca, anche se Black Diamond dei Kiss (!) è uno schiaffo ai puristi del gruppo: una cassettina (confiscata a un una delle tante leggende attorno ai ‘Mats vuole che all’epoca vedevano come fumo negli occhi il fan che stava registrando un bootleg) distri- che i quattro alludessero a un imminente progruppo di Simmons e Stanley. buita in 10mila copie nel gennaio 1985 che grammato scioglimento. Quando registrano documenta un’esibizione in una chiesa scon- quello che viene unanimemente ritenuto il loro sacrata a Oklahoma City, l’anno precedente: capolavoro, i ‘Mats sono reduci dall’annata più turbolenta della loro giovane vita: una tournée di spalla ai R.E.M. più ricca di eccessi alcolici e chimici che di gloria e vil pecunia, 56 bero cadere a pezzi – cadere e sbattere il muso, cadere giù dal palco, cadere mentre tentano di librarsi in volo». Finire sulla copertina di una delle maggiori riviste del paese potrebbe essere il primo passo verso la gloria: e forse è invece l’inizio della E poi c’è quella Unsatisfied su cui è stato versato inchiostro a fiumi: canzone dalla struttura insolita e apparentemente irrisolta, costruita sulla ripetizione di un giro arpeggiato sulla dodici corde dai marcati rimandi R.E.M., che punta a un climax emotivo continuamente rilanciato. Per molti, la più bella melodia uscita dalla penna dell’ex inserviente: da parte mia, lasciatemi preferire il congedo di Answering Machine, con quella chitarra solitaria, scorticata e fragilissima, e Westerberg che spreme ogni oncia di dolore e rimpianto in un grido d’aiuto che si frange contro la segreteria telefonica della persona amata. Il bastardello arrogante di Kids Don’t Follow e Fuck School è diventato uomo. Si dirà: eppure “Let It Be” è anche l’album di Gary’s Got A Boner, Seen Your Video, Tommy Gets His Tonsils Out: che, lungi dall’essere riempitivi o divertimenti estemporanei, svelano qui più che mai l’essenza dell’”idea” Replacements. Prendiamo Tommy Got His Tonsils Out, dedicata al «little brat» del gruppo. Cosa fa una rock band se non suonare per gli adolescenti che loro stessi furono? Ecco, nei Replacements l’adolescente è ancora nel gruppo. La presenza di Tommy dà alla loro musica una genuinità che altrove sarebbe impossibile da ottenere, e fa da cassa di risonanza ai testi di Westerberg. Tommy che odia la musica, fine. «Non c’è un occhio dell’uragano nei ReplaTommy che alla fine di Treatment Bound cements, solo quattro forze che spingono in quatsfotte Paul per avere sbagliato accordi, tro direzioni diverse» scrive Smith. E di quelle Tommy che, “salvato” dal rock’n’roll, ha molquattro forze, una è ormai preponderante, lato la scuola a 15 anni per andarsene in giro mentre un’altra si fa sempre più irregolare, epicol gruppo, facendo ciò che i suoi coetanei sodica, debole. possono solo sognare tra un’interrogazione di Fin dall’inizio Westerberg è il leader: commatematica e un compito in classe. Tommy a cui Westerberg si rivolge idealmente in Sixteen pone le canzoni, canta, canalizza in sé la rabbia, l’energia, il divertimento. Eppure la sua Blue: «Your age is the hardest age / Everything drags and drags / You’re lookin’ funny / You ain’t non pare una monarchia assoluta: i tentativi di uscire dal seminato – come la ballata acustica laughing, are you?». Di rado il rock ha saputo You’re Getting Married, risalente ai tempi di essere così diretto, così sincero. “Stink” e scartata perché, come gli dice sul muso Bob Stinson, «questi non sono i Replace«God, what a mess, on the ladder of success / Where you take one step and miss the whole first ments» – sono neutralizzati dagli anticorpi interni al gruppo. Ma già con “Let It Be” gli rung» equilibri sono saltati. Un pezzo come I Will Dopo “Let It Be” i Replacements sono fi- Dare è un Rubicone oltrepassato il quale non si può tornare indietro. E il fatto è che, ubriaco nalmente considerati dalla stampa nazionale o no, strafatto o no, Bob Stinson ha sempre come una delle promesse più fulgide della meno posto nelle nuove composizioni di Wescena indipendente. Robert Christgau del sterberg. «Village Voice» affibbia all’album un A+, il Secondo alcuni fan di vecchia data – memassimo dei voti, e RJ Smith, una delle firme glio prenderla con il beneficio del dubbio – è di punta del settimanale, si unisce a loro in anche il momento in cui la genuina impreveditournée per una settimana: il risultato sarà bilità degli esordi live lascia trapelare la rouuna cover story che mette nero su bianco quella tradizione orale sugli eccessi alcolici del tine. D’altro canto, dopo l’articolo del “Village gruppo che a Minneapolis e dintorni tutti ben Voice” e la pletora di aneddoti sulle stramberie live dei ‘Mats, molti vanno ai loro show come conoscono: «Parte del brivido in ogni show dei Replacements è che in qualsiasi momento potreb- se andassero al circo, e restano delusi quando il gruppo offre loro un “normale” concerto rock, senza eccessi, sbronze, canzoni interrotte a metà e risse tra Paul e Bob. È quel che accade al Grey Gardens di Trenton, New Jersey, nell’agosto ’85 (quello dell’impagabile aneddoto su Bob Stinson che gioca a flipper nel locale durante i primi tre pezzi e sale sul palco alla fine di I Will Dare, raccontato in Color Me Obsessed): molti spettatori intasano i centralini delle stazioni radio locali con le loro proteste – lo fa persino il promoter Randy Ellis (e Westerberg si vendicherà col fiele di Shooting Dirty Pool, a lui “dedicata”). Nonostante i ‘Mats facciano di tutto per non farsi accalappiare, arriva la firma con una major: la Warner, tramite la sussidiaria Sire di Seymour Stein. Ancora una volta hanno battuto sul tempo gli Hüsker Dü. “Tim” (ottobre 1985) dovrebbe segnare la definitiva consacrazione. Copertina – orrida! – di Robert Longo, produzione affidata a Tommy Erdelyi alias Tommy Ramone (delle sessioni con Alex Chilton resteranno solo una manciata di demo e le backing vocals dell’ex Big Star su Left of the Dial), una scrittura che ha ormai abbandonato le ultime scorie hardcore e si è assestata su un rock classico dalla disarmante orecchiabilità. Il produttore evita quel suono di batteria radiofonico ed effettato che in quel periodo ammorba la gran parte dei dischi rock mainstream: ma cade nell’eccesso opposto, castrando la batteria di Mars e riducendola a un tintinnio sottile e sordo troppo basso nel missaggio. La pulizia del suono, per quanto esalti il songwriting di Westerberg – mai così a fuoco e quadrato – sembra in qualche modo andare a detrimento del “concetto” Replacements. Di fatto, “Tim” è già un disco senza Bob Stinson. Racconterà Erdelyi che alle sessioni di registrazioni il chitarrista non si presenta mai: tocca portarlo in studio quasi a forza e fargli di uno stereo zooma indietro sulla stanza di un registrare tutte le sue parti soliste in un tizio – Westerberg, di cui vediamo solo le gambe, giorno: l’assolo in stile Chuck Berry in Kiss il dettaglio di una mano che regge una sigaretta, Me On The Bus in realtà è suonato dallo un piede… – intento ad ascoltare il brano sul suo stesso Erdelyi, ma il pregevole staccato alla giradischi, spaparanzato sul divano. E che alla Duane Eddy di Swingin’ Party è farina del fine si alza e piglia a calci la suddetta cassa, prima sacco di Bob. di andarsene. Qualcosa a metà tra Michael Snow Tra le pieghe di una scrittura sempre più e l’Andy Warhol degli esordi, insomma: proprio levigata, emergono influenze più (Hold My quello di cui il pubblico di MTV ha bisogno, no? Life, che pare di presa da “Radio City”) o meno risapute: Roy Orbison o, perché no, «One more chance to get it all wrong / One more Frank e Nancy Sinatra – Something Stupid – night to do it all wrong / One more warning / One per Swingin’ Party, mentre l’irresistibile Kiss more warning sound» Me On The Bus, reinventata rispetto alle grezze versioni demo, è un quasi-rockabilly Una delle cose che rendono unici i Replacestriato da cascate di rivoli chitarristici. Ma ments è il modo di suonare di Bob Stinson. Non non sono da meno altri gioielli come la sto- certo un virtuoso dello strumento, sia chiaro: nesiana Little Mascara (che avrebbe meritato qualcuno ha detto che la sua maggiore abilità era la gloria del 45 giri) dall’epico incipit e di tirar fuori le note sbagliate al momento giusto. quella Left of the Dial, dedicata a Angie Car- Eppure, i suoi assoli pazzoidi, sghembi e non di lson dei Let’s Active, all’epoca fiamma di rado brillanti – quando gliene riusciva qualcuno Paul, che diventerà un classico nelle stazioni particolarmente bene, Bob si congratulava danradio di college rock cui fa riferimento il tidosi una pacca sulla spalla – sono parte essenziale tolo. del suono Replacements. Lo Stinson che emerge Ci sono molte chitarre acustiche, in dalle tante storie sui ‘Mats – sorta di gigante “Tim”, e i ritmi calano spesso: non c’è più tonto appassionato di pesca e il cui passatempo da vergognarsi a inserire qualche ballata acu- preferito è guardare i treni passare al tramonto stica come la splendida Here Comes A Regubevendosi una birra – è una specie di idiot savant. lar, amara confessione dei problemi con Si dice che una sera, appena prima di salire sul l’alcol di Westerberg. Di contro, sono i mo- palco, Westerberg gli dipinga per scherzo altri menti più rock a risultare in qualche modo pallini bianchi sul manico dello strumento, oltre forzati: come se l’autore sentisse il dovere di a quelli degli armonici, mandandolo in confuprovvedere quel minimo sindacale di irsione: quella volta Bob non azzecca un assolo. E ruenza richiesto per contratto. Per questo, a detta di Paul Stark della Twin/Tone, Stinson forse, pezzi dignitosissimi quali Dose of comincia a ingranare con la chitarra dopo cinque Thunder e Lay It Down Clown suonano un birre, e diventa davvero scarso dopo la settima. pizzico artificiosi rispetto al resto. Lo stesso non si può dire – e ci mancherebbe – per quello che diventerà l’inno per eccellenza dei ‘Mats. Bastano esattamente sette secondi per fare di Bastards of Young un classico del rock americano di sempre: un riff che è una chiamata alle armi, a introdurre una mirabile fusione di umori stonesiani, glam e punk che condensa in un pugno di versi memorabili l’aspirazione al successo e la consapevolezza del fallimento, evocata simbolicamente da una chiusa – appiccicata da Erdelyi dalla versione demo – in cui il pezzo si sgretola in una serie di epilettiche rullate mentre Westerberg urla «take it, it’s yours». È Bastards of Young il brano che la Sire sceglie per lanciare il gruppo su MTV. I discografici non hanno però fatto i conti con l’indole dispettosa dei quattro, e con una falla nel contratto che non specifica la presenza del gruppo nel videoclip: ragion per cui, il video ufficiale è un’inquadratura fissa in bianco e nero di tre minuti e mezzo che dalla cassa 57 Col tempo, le birre diventano sempre di più, e non solo quelle. Non che gli altri si facciano mancare alcunché: l’esibizione al “Saturday Night Live” del 18 gennaio 1986, che l’intera scena di Minneapolis accoglie come se fosse il Superbowl, è un altro tassello nella loro discutibile parata di eccessi. Introdotti da Harry Dean Stanton, attaccano una versione velocizzata, stonata e fragorosa – e per i primi secondi praticamente irriconoscibile – di Bastards of Young. Mars, infilato in una salopette, pare la versione rock di Charlot in Tempi moderni, a mulinare le bacchette come chiavi inglesi, al punto che ci si stupisce non sfondi le pelli dopo due battute. Tommy, giubbotto di pelle alla Sid Vicious, sembra in preda alle convulsioni da quanto salta e rimbalza in giro, e pesta i piedi sul palco come a volerci scavare un buco. Bob, che sfoggia una sobria tutina femminile a strisce multicolori aperta sul petto fino all’ombelico e i cui pantaloni gli arrivano al polpaccio, per una volta pare – solo un filino, eh! – meno sbronzo di Westerberg. Che vaga per il palco con passo malfermo, gioca ad atteggiarsi a rockstar, ammicca alla telecamera, non sta nemmeno a cantare tutte le parole, e a metà del secondo ritornello smette proprio. E quando il chitarrista è pronto e carico per lanciarsi nell’assolo, borbotta un audibilissimo «C’mon fucker!» che fa drizzare i capelli all’eminenza grigia de SNL, Lorne Michaels. Indimenticabile. Tornano sul palco per una Kiss Me On The Bus sensibilmente più rumorosa (e stonata) che su disco: tutti, eccetto Bob, si sono scambiati i vestiti, e con un tipico tocco di finezza replacementsiana, Westerberg sostituisce un paio di volte la parola “bus” con “butt” (che poi era il titolo originario del pezzo). Che poi alla fine del pezzo Stinson lanci la chitarra a terra dietro di sé con aria da monello che l’ha fatta grossa, è la cicliegina sulla torta. E una volta conclusa l’esibizione i quattro procedono a spalmare sistematicamente i cestini della cena of- 58 Per i sostenitori della prima ora che non hanno mai digerito appieno Within Your Reach, figuriamoci il passaggio alla Sire, l’ammorbidimento del suono e men che meno la cacciata del membro fondatore, i Replacements sono ormai diventati un gruppo college rock per il grande pubblico. Westerberg non fa nulla perché cambino idea. Sceglie come produttore Jim Dickinson, registra il nuovo disco a Memphis, include addirittura una sezione fiati. “Pleased To Meet Me” (luglio 1987) è un lavoro estremamente autoconsapevole, già dalla copertina con quella stretta di mano interclassista che a prima vista sembra una citazione da “Wish You Were Here” e forse è invece non una dichiarazione d’intenti – ne hanno mai avuti, i ‘Mats? – ma un’ammissione sarcastica del patto faustiano stretto con l’etichetta. L’iniziale, muscolare I.O.U. si fa carico di metterlo in chiaro («One foot in the door / The other one in the gutter») e sembra voler pareggiare i conti con Jesperson, al quale Westerberg sibila «I owe you nothing» (non ti devo nulla). Su disco si occupa lui di tutte le parti di chitarra. Ma l’ombra di Stinson aleggia come un convitato di pietra. «Volevo che intitolassero il disco “Where’s Bob?”, ma nessuno pensava «Someone take the wheel / And I don’t know where I’m going» ferti dalla NBC su muri, soffitto e mobilio del camerino, a ficcare sandwich giù per lo sciacquone, e a distruggere più o meno tutto quel che rimane intatto. Raggiungendo così Elvis Costello e i Fear nella breve ma significativa lista degli artisti banditi dal “Saturday Night Live” (cui si aggiungeranno Sinead o’Connor e i Cypress Hill). Durante il tour di “Tim” le tensioni interne al gruppo si fanno insostenibili: all’ego di Westerberg, che non sopporta più gli eccessi e i conseguenti rovinosi blackout del chitarrista, ormai incapace di suonare dal vivo, fanno eco le pressioni dell’etichetta, che non vede certo di buon occhio le loro esuberanze. Stinson cerca di disintossicarsi, ma trova un muro di gomma nei compagni di gruppo: «friends without no guts, friends that never ache», come quelli contro cui Westerberg si scagliava in Johnny’s Gonna Die. Racconta l’ex moglie di Bob che una sera, prima di un concerto, Westerberg arriva con una bottiglia di champagne, intimando al chitarrista, reduce da un periodo di disintossicazione ordinatogli dal giudice: «O bevi, figlio di puttana, o scendi dal mio palco». Un paio di settimane dopo accade l’inevitabile. Nel maggio 1986, concluso il tour di “Tim”, Stinson è fuori dal gruppo. E con lui Jesperson. C’è chi parla di tradimento, di pugnalata alle spalle, di capri espiatori in un momento in cui all’interno del gruppo i cervelli erano obnubilati da spiriti e bianche polveri. Altri, come Robert Christgau, sono più realisti del re: «Fanculo l’arte. Anche voi avreste cacciato Bob Stinson a calci dal vostro gruppo». fosse divertente. Chiamai il loro management e chiesi loro di riportarlo lì. Volevo Bob. Quelli si fecero il segno della croce e se ne andarono» sputa fuori Jim Dickinson. Ma le canzoni sono solide almeno quanto quelle del disco precedente, se non di più. Dal repertorio live arriva Can’t Hardly Wait, che Westerberg priva delle asperità punk della versione registrata e scartata per “Tim” e Dickinson impreziosisce nel finale con i fiati che doppiano il riff di chitarra, mentre The Ledge è sorretta da un arpeggio che ricorda Don’t Fear the Reaper dei Blue Öyster Cult. Avrebbe potuto essere la hit che il produttore si lamenterà di non avere avuto da Westerberg, non fosse per quei riferimenti al suicidio che fanno inarcare il sopracciglio ai caporioni di MTV. O avrebbe potuto in sua vece toccare a quel cristallino tributo al proprio nume tutelare che è Alex Chilton (gli Stones non hanno mai scritto una Chuck Berry, per dire), che all’epoca apriva gli show dei ‘Mats. Avrebbe dovuto. Ma in fondo è appropriato che il tributo a uno dei grandi perdenti del rock’n’roll – il cui spirito aleggia anche su Never Mind e Valentine – abbia avuto un destino analogo, idolatrato da pochi e sconosciuto ai più. E se in Shooting Dirty Pool Westerberg fa la voce grossa, è chiaro che si sente ormai più a proprio agio nel pigro lounge-jazz di Nightclub Jitters o, meglio ancora, tra le acustiche tintinnanti e il mellotron dell’incantevole miniatura acustica Skyway. In “Pleased to Meet Me” Westerberg si guarda allo specchio, e quel che vede non gli piace: un tizio che beve troppo (Red Red Wine), che ha paura del domani (Never Mind), che non sa cosa fare del proprio futuro (I Don’t Know). E che condensa le proprie angosce nell’aneddoto del ragazzo in piedi su un corniPer Bill Holdship, che su «Creem» li definisce «la più grande rock band del mondo, in questo momento», “Pleased To Meet Me” è nientemeno che «il miglior disco rock del 1987, se non degli ‘80». Il che però non basta a spingerlo in classifica: venderà un po’ meno di “Tim”, ottenendo un magro centotrentunesimo posto nella classifica di “Billboard”. Non aiuta nemmeno un’altra famigerata apparizione televisiva, nel programma di MTV I.R.S. Presents The Cutting Edge condotto da Peter Zaremba, in cui i quattro si presentano con le sopracciglia completamente rasate per l’occasione. Nel frattempo ha fatto il suo ingresso nel gruppo il nuovo chitarrista Bob “Slim” Dunlap: con una di quelle mosse tipiche del gruppo, anziché rimpiazzare Stinson con un chitarrista giovane e di bella presenza, Westerberg e soci hanno pescato un macilento veterano della scena delle Twin Cities che potrebbe far loro da chioccia. Don’t Tell A Soul” (febbraio 1989) è, nelle intenzioni della rinata Reprise, il disco che dovrebbe fare dei ‘Mats delle star. La scelta del produttore la dice lunga sulle difficoltà e le pressioni cui il gruppo è sottoposto: scartati per impraticabilità Pete Townshend e John Fogerty, licenziato (o cacciato?) Tony Berg, tiratosi in- «We’re gettin’ no place fast as we can / Get a noseful from our so-called friends / Gettin’ nowhere as quick as we know how» cione, assediato dai media e sul punto di buttarsi, di The Ledge: «All eyes look up to me / High above the filthy streets /… I’m the boy they can’t ignore / For the first time in my life, I’m sure». Ecco, un ragazzo Westerberg non lo è più, come non lo è più Tommy: il trauma maggiore è affrontare questa verità. 59 Better Than Here, uno dei pochi brani dove fumidietro Scott Litt, tocca al giovane ed entusiasta gano le ceneri dell’irruenza di un tempo. Matt Wallace. Che non ha idea di quel che lo atTutto ciò, per nulla, o quasi. Certo, “Musician” tende. Le registrazioni sono un’ordalia, e la tenli mette in copertina (ottobre ’89) e li definisce sione si taglia con il coltello. Il dilungarsi delle “The Last Best Band of the ‘80s” (e il mese dopo session losangeline – con Tommy che torna a casa Bon Jovi scrive alla redazione: «come possono i Reper sposarsi e Westerberg e Dunlap che esaTom Petty farà proprio in Into the Great Wide gerano con gli overdub, snaturando la semplacements essere il miglior gruppo degli anni ’80 se Open), mentre la tanto vituperata dai fan Asking plicità del suono Replacements – produce non li ho mai nemmeno sentiti nominare?»…). Treun risultato che lascia di stucco un po’ tutti. Me Lies, con il suo ritmo quasi funk e la chitarra centomila copie e un cinquantatreesimo posto in Tra le tante assurdità che circondano le regi- alla Nile Rodgers, è un esercizio pop che tanti fa- classifica sono troppo poco per la Warner, e l’album rebbero carte false per scrivere. Eppure, nascoste strazioni c’è anche un’apparizione di Tom finisce presto tra i forati. Per un nuovo adepto guatra le pieghe di “Don’t Tell A Soul” ci sono Waits, che capita in zona con Kathleen dagnato alla causa, uno di lungo corso getta la spugrandi canzoni. Non sono sicuro che lo sia Achin’ gna. Anche dal vivo le stupidaggini di un tempo Brennan: le abbondanti libagioni produrTo Be, per molti la pietra fondante dell’alt-counranno una manciata di brani uno dei quali, suonano sempre più forzate, come quelle di un cotry o Americana che dir si voglia, che pure suona mico che ripete per l’ennesima volta, senza più il gospel-boogie chiesastico di Date to già di maniera: di certo, invece, lo è la quasi imChurch, finirà sul lato B del singolo I’ll Be verve, la medesima barzelletta. Durante uno show a palpabile Rock’n’Roll Ghost, che mostra come You e nella compilation postuma “All For Nashville, di spalla a Tom Petty, salgono sul palco ormai Westerberg abbia trovato la propria diNothing / Nothing For All” (Reprise, con gli abiti delle mogli degli Heartbreakers (e Mars mensione ideale con la spina dell’amplificatore 1997), mentre gli altri verranno riesumati ha un paio di corna di cervo attaccate alla testa con staccata. una ventina d’anni dopo da Westerberg in nastro adesivo), suonano una Walk On The Wild È vero, come scriverà Ira Robbins su «Rolling Side strumentale di nove minuti e si congedano “3oclockreep”. Stone», che “Don’t Tell A Soul” «reclama la pro“Don’t Tell A Soul” – originariamente, mandando affanculo Petty e, intanto che ci sono, pria indipendenza confondendo le aspettative del“Dead Man’s Pop”: gran titolo – soffre di pure Nashville e lo stato del Tennessee. l’ascoltatore», ma l’audacia della mossa del cavallo una produzione imbarazzante, figlia delle Se quelli di “Don’t Tell A Soul” non sono più i peggiori mode degli anni ’80, gravato com’è cozza contro il muro di un album disperatamente veri Replacements, “All Shook Down” (settembre adulto. Una bruciante consapevolezza che emerge 1990) è a tutti gli effetti un disco solista di Westerda diavolerie assortite in sovraincisione, dal dall’iniziale Talent Show – molto migliore nella riverbero alla batteria da stadio, che semberg. Che si fa produrre da Scott Litt e si circonda veste elettrica che si può ascoltare nei bonus della di un nugolo di ospiti di rango, da Steve Berlin a brano dare ragione a chi parla di comproristampa Rhino – dove Westerberg sintetizza in messo a fini di lucro, per non parlare di un John Cale, da Johnette Napolitano a Benmont pochi versi i compromessi affrontati («Well we got Tench. L’immagine di copertina, due cani randagi missaggio che, a detta dello stesso Wallace, our guitars and we got thumb picks / And we go on suona come «la fine degli anni ‘80». Di in una strada piovosa, dice già tutto. E il retro – un after some lip-synch chicks / We’re feelin’ good from certo, I’ll Be You è finalmente un singolo (e cartello dedicato a un cucciolo scomparso, Have the pills we took») e l’inevitabile esito («Well it’s the un video) che è possibile programmare su biggest thing in my life I guess / Look at us all, we’re MTV (e contiene uno dei versi più memorabili di Paul, quel «rebel without a clue» che nervous wrecks»), o da titoli emblematici quali Anywhere’s 60 Dopo essere stato allontanato dal gruppo che aveva fondato, Robert Neil Stinson suona saltuariamente in altri gruppi di Minneapolis, come gli Static Taxi e i Bleeding Hearts. Ma anziché sul palco, lo si vede più spesso al bar, a cercare di scroccare una bevuta gratis o un cheeseburger. C’è chi lo tratta come lo scemo del villaggio, invitandolo sul palco quando a malapena si regge in piedi, per farsi due risate. È praticamente un senzatetto, e spesso si arrangia come può sul divano o nel seminterrato di qualcuno che si prenda a cuore la sua sorte. Muore, a soli 35 anni, il 18 febbraio 1995. Accanto al corpo viene ritrovata una siringa, ma non si tratta di overdose: Stinson non ha fatto in tempo a iniettarsi l’eroina. Il suo organismo era così debilitato dagli abusi che, semplicemente, ha ceduto. Una fine triste, squallida e solitaria, senza ombra di poesia o redenzione. Del tipo riservato ai veri perdenti, quelli che la gloria l’hanno solo vista da lontano, come un treno che passa sferragliante al tramonto – il tempo di un sorso, e non c’è più. «Gonna last for always / It’s gotta last for always…» lascia paralizzato. Il 3 ottobre Westerberg e Stinson si chiudono in studio assieme a Kevin Bowe e al batterista Peter Anderson, e mettono su nastro cinque brani per il progetto di beneficenza “Songs For Slim”. Nessun originale: due pezzi dal repertorio solista di Dunlap (il blues diddleyano Busted Up e la fragorosa Radio Hook Word Hit), I’m Not Sayin’ di Gordon Lightfoot, una robusta versione di Lost Highway di Leon Payne e – in accordanza con le bizzarre abitudini dei ‘Mats in fatto di cover – una saltellante Everything’s Coming Up Roses dal musical Gypsy, dal fragrante aroma roots. Il tutto con piglio da buona la prima, come ai vecchi tempi, e una verve più che discreta per dei signori di mezz’età. Le 250 copie del 10” in vinile vengono vendute all’asta lo scorso gennaio, raccogliendo la bella cifra di oltre 105 mila dollari. foto Greg Helgeson DISCOGRAFIA ESSENZIALE Sorry Ma, Forgot To Take Out The Trash (LP Twin/Tone, 1981; CD Twin/Tone 1991; CD Rhino, 2008) Stink (EP Twin/Tone, 1982; CD Restless, 2002; CD Rhino, 2008) Hootenanny (LP Twin/Tone, 1983; CD Restless, 2002; CD Rhino, 2008) Let It Be (LP Twin/Tone 1984; CD Twin/Tone 1993; CD Restless 2002; CD Rhino) The Shit Hits The Fans (Cassetta Twin/Tone, 1985) Tim (LP Sire, 1985; CD Sire, 1993; CD Rhino, 2008) Pleased To Meet Me (LP/CD Sire, 1987; CD Rhino, 2008) Don’t Tell A Soul (LP/CD Sire/Reprise, 1989; CD Rhino, 2008) All Shook Down (LP/CD Sire/Reprise, 1990; CD Rhino, 2008) Songs for Slim (EP/MP3 New West Records, 2013) You Seen Lucky? – affonda il dito nella piaga. A dispetto dei toni ingannevolmente leggeri dell’iniziale Merry Go Round, l’essenza è di una cupezza ottundente. Difficile dare torto a Kevin Bowe quando definisce “All Shook Down” «la colonna sonora della morte di una band, e forse del leader di quella band». In Someone Take The Wheel Westerberg confessa «I don’t know where we’re going», ed è uno dei pochi sprazzi in cui emerge l’«io» in un disco dove la seconda persona è il viatico per le ammissioni più amare. In Attitude – l’unico brano in cui i ‘Mats, o quel che ne rimane, suonano insieme, e uno dei pochi in cui ancora v’è traccia degli antichi fuochi punk – Paul parla ancora una volta apertamente del suo alcolismo («Well when you open that bottle of wine / You open a can of worms ever time»), e in Happy Town riconosce il proprio fallimento («The plan was to set the world on its ear / and I’m willing to bet you don’t last a year / the plan was to set the world on fire / but it rains every day on the liar»). È un disco controverso, “All Shook Down”. Odiato da molti fan della prima ora, più per i sentimenti che contiene e provoca che per le canzoni in sé. Ha anche fan insospettabili, come Elvis Costello. Non certo Robert Christgau, che sul «Village Voice» salva appena un paio di brani: forse è troppo severo, ma neppure «All over but the shouting, just a waste of time / lui può fare a meno di amare il congedo Never mind / All over but the shouting, it’s a waste of in sordina ma di gran classe della pianitime». stica The Last. O quella Sadly Beautiful, carezzata dalla viola di John Cale, che si Dopo i Replacements, Tommy Stinson forma incammina sul medesimo sentiero di It’s altri due gruppi: Bash & Pop (in cui suona anche All Over Now, Baby Blue. Foley), con cui pubblica “Friday Night Is Killing Sia come sia, è iniziato il conto alla ro- Me” (1993), e Perfect (due dischi all’attivo, l’EP vescia. Chris Mars esce dal gruppo nel no- “When Squirrels Play Chicken”, del ’96, e “Once, vembre ’90, rimpiazzato da Steve Foley: Twice, Three Times a Maybe”, del 2004). Nel secondo Tommy, «ha deciso di andarsene, e 1998 entra nei Guns ‘n’ Roses. Nel 2004 pubblica noi abbiamo deciso di aiutarlo ad il suo primo disco solista, “Village Gorilla Head”, andarsene». Gli ultimi mesi sono una triste seguito nel 2011 da “One Man Mutiny”. Nel fratconsunzione, che si completa il 4 luglio tempo suona anche con i Soul Asylum in “The Sil1991 all’annuale festival gratuito organiz- ver Lining”. Chris Mars pubblica quattro album zato dalla radio WXRT al Grant Park di solisti di scarso interesse prima di mollare tutto e Chicago. Davanti a 50.000 persone, ha dedicarsi alla pittura. Steve Foley muore nel 2008 luogo la definitiva dissoluzione del per un’overdose accidentale di un farmaco prescritgruppo, quando Westerberg, Stinson e gli togli. Di Paul Westerberg solista si dirà in altra ocaltri due apportano una variante alla con- casione, su queste pagine. sumata prassi di scambiarsi gli strumenti Gli ex compagni si ritrovano occasionalmente durante una canzone: stavolta li passano ai in studio: nel 2006 per due nuovi pezzi (Pool & roadie durante l’esecuzione di Hootenanny. Dive e Message To The Boys) registrati dai tre memNon avrebbero potuto scegliere un pezzo bri originari e inseriti nella compilation Rhino più indicato. “Don’t You Know Who I Think I Was?”, lo scorso ottobre per’occasione più triste. Il 21 febbraio 2012 Slim Dunlap ha un colpo apoplettico che lo COLOR ME INDEPENDENT Come ti è venuto in mente di fare un documentario sui Replacements senza mai mostrare loro immagini, e soprattutto senza una singola nota della loro musica? Sei stato ispirato dalla biografia di Jim Walsh All Over But the Shouting? A dire la verità, per niente. Stavo cercando un approccio diverso al genere del documentario rock ’n roll. E, letteralmente, ero sdraiato sul letto una notte a pensare: non credo in Dio, ma credo nei Replacements. E quello mi ha portato a capire che la gente crede in Dio senza vederlo o sentirlo. Sarei stato in grado di far sì che la gente credesse a questo gruppo allo stesso modo, attravero le storie e DEL SUO BELLISSIMO documentario sui Replacements, Color Me Obsessed, s’è detto nel n. 178. Ora Gorman Bechard sta ultimando Every Everything: The Music, Life & Times of Grant Hart, che se possibile si annuncia ancora più succoso. Bizzarra davvero, la carriera di questo filmmaker del Connecticut. Esordisce con Disconnected (1983), storia di due gemelle coinvolte negli omicidi di un maniaco. Azzecca il cult con Psychos In Love (1987), stralunata commediaccia splatter (girata nei fine settimana nel suo appartamento con avanzi di pellicola) su una coppia di serial killer a metà tra John Waters e i Monty Python. Firma un contratto con la Empire Pictures di Charles Band, stracciato dopo un micidiale uno-due – il demenziale sci-fi Galactic Gigolo (1987) e Cemetery High (1989), storia di un gruppo di vittime di stupro che si organizzano in un commando vendicativo – che stroncherebbe lo spettatore più bendisposto. Si ricicla scrittore: nel suo primo romanzo, The Second Greatest Story Ever Told, Dio invia la figlia teenager sulla terra per salvare il mondo: perfetto se Kevin Smith decidesse di dare un seguito a Dogma. Torna al cinema negli anni 2000, ancora da indipendente duro e puro, tra fiction e documentario (come il recentissimo What Did You Expect?, film concerto sulla reunion degli Archers of Loaf ). Più motivato e grintoso che mai. la passione altrui? Quasi come una specie di Bibbia del rock’n’roll… In più, stiamo parlando di un gruppo che per il suo primo videoclip aveva scelto di mostrare la cassa di uno stereo per quattro minuti. Non farli mai vedere e non fare mai sentire la loro musica nel film mi è sembrato straordinariamente appropriato. Era decisamente nello spirito dei Replacements. Mi ha colpito il fatto che in Color Me Obsessed hai scelto di dare ampio spazio a ogni sorta di punto di vista e opinioni da musicisti, artisti, amici del gruppo e semplici fan, di modo che il risultato è una visione molto più intricata e stimolante del solito documentario celebrativo… Non sono un fan di quei documentari rock che passano tutto il tempo a baciare il culo del loro soggetto. Queste sono persone reali, con lati buoni e lati cattivi, ed entrambi i lati sono responsabili della grande musica che hanno fatto. E mi piace molto il fatto che alcuni degli intervistati ritenessero che il gruppo si fosse praticamente sciolto quando Bob Stinson fu cacciato. O che delle 145 persone che ho intervistato, solo uno abbia accettato di parlare del loro ultimo album. Cos’hanno detto del film i membri del gruppo? Gli è piaciuto il risultato? Peter Jesperson, il “quinto Replacement”, ha amato il film. Sua moglie mi ha detto che ha pianto, la prima volta che lo ha visto. In quanto ai membri del gruppo, diciamo che tutto ciò che ho sentito è in via ufficiosa. Ma in ogni caso mi ha fatto sorridere. Ovviamente sei un grande fan del gruppo. Qual è il tuo punto di vista sui Replacements? A metà degli anni ’70 il rock ‘n roll stava morendo. Gruppi come gli Eagles e gente come Billy Joel lo stavano uccidendo in fretta. E poi è arrivato il punk, con tutto quel che sappiamo. Ma nel 1981, il punk sarebbe potuto diventare new-wave. E ancora una volta il rock era sul punto d’essere strangolato dalla mosciaggine e dalle tastiere. E questi due gruppi di Minneapolis cambiarono completamente il modo con cui ascoltiamo il rock ’n roll – e sto parlando ovviamente dei Replacements e degli Hüsker Dü. Non credo che il rock ‘n roll come lo conosciamo oggi esisterebbe senza questi due gruppi. Niente scena di Seattle. Niente emo. Niente Green Day. Niente se non robaccia senza palle come Vampire Weekend e Fun. Quanto tempo ti ci è voluto per finire il film? Al di là delle interviste integrali a Robert Christgau, Grant Hart e Quattro chiacchiere con GORMAN BECHARD di Roberto Curti 61 Gorman Bechard 62 Jim De Rogatis che troviamo come extra nel DVD, c’è altro materiale interessante rimasto fuori? Ci abbiamo messo otto mesi a montarlo. E avevamo 250 ore di materiale. Così ci sono molti altri spezzoni interessanti che abbiamo dovuto lasciare fuori. Ma i migliori sono finiti tra gli extra del DVD. Album e canzone preferita dei ‘Mats? “Tim” e Here Comes a Regular. Una presenza che non passa inosservata è quella di un tizio di nome Robert Voedisch, un fan stralunato del gruppo che nel tuo film ha parecchio spazio… A dire la verità non so molto di Robert. Mi ha scritto dicendomi che aveva una storia interessante sulle sue conversazioni immaginarie con Tommy [Stinson] quando era un adolescente nella sua fattoria nel nord del Minnesota. Lo abbiamo intervistato e siamo usciti pensando che fosse lui la star del film. Ho capito subito che sarebbe stata la migliore intervista che avremmo avuto. Si è letteralmente messo a nudo. Ed è strano, perché molti spettatori maschi hanno avuto problemi con le scene di Robert. Credo che sia perché ricorda loro chi erano quando avevano 14 anni. Ma hanno paura di ammetterlo. Tra gli intervistati, mi ha colpito la presenza di Grant Hart. Non sembra passarsela molto bene, a essere sinceri, e tuttavia è tra le voci più affascinanti e acute del film, e i suoi ricordi e pensieri sul gruppo non sono mai banali. L’idea di fare un documentario su di lui ti è venuta durante le riprese di Color Me Obsessed? Grant è stato uno dei miei preferiti tra gli intervistati nel film. Ma l’idea di Every Everything è uscita fuori dopo una serata in cui abbiamo presentato Color Me Obsessed a Bruxelles in Belgio. Abbiamo Durante le registrazioni di Every Everything al vecchio Cheapo Records di St. Paul, dove Grant Hart (seduto, di fronte) incontrò per la prima volta Bob Mould (di spalle da sinistra: Gorman Bechard, Jan Radder (in piedi), Taryn Welker e Sarah Hajtol parlato parecchio in quei due giorni. E ho capito che sarebbe stato il soggetto perfetto per l’idea che avevo in mente. Ossia di fare un Fog of War [celebre documentario di Errol Morris del 2003 su Robert McNamara, segretario alla Difesa sotto John Kennedy e Lyndon Johnson, NdA] rock ’n roll. Un solo soggetto, una sola persona che parla, un solo punto di vista per l’intero film. Hai iniziato la carriera di regista negli anni ’80 con film dell’orrore come Psychos In Love, poi sei passato alla scrittura dopo una brutta esperienza con la Empire Pictures. Che è successo di preciso? Ha a che fare con il modo di lavorare della Empire. Niente anima, niente intelligenza, niente originalità. È stata una delle peggiori esperienze che abbia mai avuto nella mia carriera. Erano come papponi. E non avevo nessun interesse a diventare la loro puttana. Ci sono fin troppi registi che accettano quel ruolo gioiosamente. Come descriveresti la tua esperienza nel mondo del cinema indipendente nell’ultimo quarto di secolo? Credo che fare un film sia la cosa più difficile a questo mondo. E fare un buon film è dieci volte più difficile. Il problema è che troppa gente non lo prende sul serio o non ha la minima idea di quanto sia duro. Mi uccide vedere persone che sprecano il budget di un film ingaggiando i loro amici o famigliari. O gente che non ha idea di come si scrive una sceneggiatura, o di come la gente parla nella vita vera. Quest’anno completerò quattro film, lavoro dodici ore al giorno e sette giorni alla settimana, e di rado mi prendo un giorno di riposo. E i tuoi romanzi? So che per The Second Greatest Story Ever Told s’era parlato di un adattamento cinematografico… Un giorno ci sarà. Ma dovrà essere perfetto. Ho tolto i diritti del libro dal mercato dodici anni fa, e sto aspettando che le stelle si allineino. Il tuo nuovo progetto, Every Everything, è stato finanziato con il crowfunding, e la raccolta di fondi è stata un successo. Credi che sia questo il futuro del cinema e della musica indipendenti? Sì, è questo il futuro del vero cinema indipendente. È una barzelletta che ci sia gente che spende 15 milioni di dollari in un film e poi lo definisce “indipendente”. Non c’è nulla di indipendente in 15 milioni di dollari. Il mio ultimo film a soggetto, Broken Side of Time, è costato 15 mila dollari. È un road movie lungo due ore e sei minuti. Ed è indipendente in ogni suo aspetto. È probabilmente il film più indipendente che si possa trovare in giro quest’anno. E, sì, il crowdfunding permette a un artista di raggiungere direttamente i fan, o comunque persone che siano interessate in ciò che sta facendo. È forse la cosa più grossa che sia mai accaduta al cinema indipendente. Qual è l’obiettivo che vuoi raggiungere con Every Everything, rispetto a Color Me Obsessed? A che punto è il film? Stiamo per iniziare il sound mix. L’obiettivo è di farlo girare per i festival, organizzare qualche proiezione speciale, e poi preparare una buona edizione in DVD. Come mai un documentario su Grant Hart? Forse per il suo status di “figlio di un dio minore” rispetto alla carriera solista di successo di Bob Mould? A dire il vero è venuto prima il concetto di base. Come dicevo prima, l’idea di un Fog of War in chiave rock ‘n roll. Con una sola persona intervistata per tutto il film. E dopo una serie di conversazioni con Grant, ho capito che lui sarebbe stato la persona adatta. È un uomo affascinante, intelligente, divertente, stizzoso e sarcastico. E ha una storia incredibile da raccontare, la storia di come sia vivere una vita rock ‘n roll.