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S’ODE A DESTRA uno squillo di tromba.
«Hello… this is the Minneapolis police... the
party is over!». A sinistra risponde un altro
squillo: «Hey, fuck you, man!». Tra schiamazzi
e urla, il poliziotto insiste imperterrito: «If
you, if you all just grab your stuff and leave
there won’t be any hassle. The party’s been closed. The party is over with, grab your stuff and
go, and nobody goes to jail». E poi: One-twothree-four!, e il gruppo parte come un treno
che deraglia a tutta velocità verso il nulla.
I resoconti dei testimoni aiutano a tratteggiare vividamente la scena. Minneapolis,
gennaio 1982. Il locale è l’Harmony Building tra la 3° e la 2° Avenue North del Warehouse district, nella zona centrale della città,
al quinto piano di un palazzone; è in corso
un party con tre gruppi rock del posto, e il
rumore si sente a isolati di distanza. A fare
tutto quel chiasso sono quattro tizi scalmanati e decisamente poco raccomandabili. Il
più giovane tra loro ha appena qundici anni.
Non sono in molti a poter dire «Io c’ero»,
quella volta. Lori Barbero delle Babes in Toyland; Dave Pirner dei Soul Asylum (è lui che
manda affanculo lo sbirro, tra parentesi); il
tecnico del suono Terry Katzman, il benemerito che ha la prontezza di spirito di registrare l’irruzione della polizia. Un’altra
ventina di spettatori, o poco più.
Eppure, quei trenta secondi catturati
all’Harmony Building sono uno dei momenti più entusiasmanti della storia del rock:
un’istantanea di vita vissuta che diventa catarsi collettiva e, magia del copia-incolla, introduce e completa il brano che segue. Che,
di roberto curti
sebbene registrato in altro luogo e altro momento, sembra davvero prendere forma lì, in
quell’istante, come un insolente sberleffo all’autorità in forma di musica. «Kids won’t listen / To
what you’re sayin’» canta (canta? sbraita!) il frontman, e in sole due frasi chiama a raccolta gli
adolescenti di ogni tempo e luogo.
Sarebbe potuta diventare un inno, Kids
Don’t Follow. E dopotutto lo è stata, anche se
solo per alcune migliaia di ragazzotti del Minnesota. E per questi pochi ma agguerriti adepti
i Replacements sono stati – e lo spiega bene il
bel documentario di Gorman Bechard Color
Me Obsessed (vedi “Blow Up” n. 178) – ben più
di un semplice gruppo rock di cui cantare a
squarciagola i brani. Il culto che ha accompagnato i quattro di Minneapolis è qualcosa di
profondamente devoto e irrazionale. Amare i
Replacements significa amarne non solo –
troppo facile – l’attitudine rock’n’roll e le canzoni uscite dalla penna di un songwriter sopraffino come Paul Westerberg. Amare i
Replacements significa anche (anzi, soprattutto) abbracciarne gli eccessi, le bizzarrie, le
bestialità autosabotatorie che ne hanno contrassegnato la schizofrenica carriera, dagli esordi
fino alle porte del Successo con la “S” maiuscola, quel successo appena sfiorato e brutalmente mancato che è coinciso con una brusca e
dolorosa disgregazione. Amare i Replacements
significa accettarne in toto l’essenza di cocciuti,
irrimediabili perdenti. E andare incontro alla
sconfitta assieme a loro, ripetendo a se stessi
che in fondo è così che doveva andare.
One-two-three-four…
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Dog’s Breath. Alito di cane. Non quel che si
dice un nome elegante, ma forse il più adatto a descrivere il suono di un gruppo che ha in repertorio
scombinate cover di Aerosmith, Ted Nugent e Yes
suonate a volumi assordanti nel seminterrato di
casa. I Dog’s Breath nascono un giorno del 1979
in cui il diciannovenne Robert Neil Stinson decide
che la maniera migliore per tenere l’undicenne fratellastro Thomas Eugene fuori dai guai – guai che
lui conosce bene, reduce da un’adolescenza turbolenta comprensiva di soggiorno in un penitenziario
minorile – è dargli in mano un basso elettrico. Ai
due si aggiunge il diciassettenne Chris Mars, che si
accomoda dietro alle pelli.
I Dog’s Breath fanno rumore. Parecchio. Se ne
accorge, tornando dal lavoro, il diciannovenne
Paul Westerberg, inserviente negli uffici del senatore repubblicano David Durenberger. Anche lui è
uno di quelli a cui la musica ha cambiato la vita:
appena quattordicenne, ha imparato i rudimenti
della chitarra ed è rimasto folgorato dai… Raspberries di Eric Carmen (Go All the Way). Se
come epifania non è delle migliori, nondimeno
spiega l’attitudine onnivora di Westerberg, che cresce consumando i dischi di Beatles e Stones, Faces
e New York Dolls, il catalogo Motown e i Creedence. Paul canta e suona in una band, i Resister,
ma compone pezzi di suo pugno che non fa ascoltare a nessuno. Vuole la leggenda che, incuriosito
da quel caos, si nasconda tra i cespugli fuori casa
Stinson ad ascoltare cosa combinano quei tizi:
«Well Tommy’s too young / Bobby’s too drunk / I can
only shout one note / Chris needs a watch to keep
time»
Avrebbero potuto essere il più grande gruppo rock della loro generazione… se solo avessero voluto. Ma hanno preferito bruciarsi, sabotarsi, autodistruggersi. Diversamente, non sarebbero stati
fedeli a se stessi, nel bene e nel male. A oltre vent’anni di distanza dall’ultimo album è uscito l’EP
Songs For Slim, registrato per beneficenza. Ladies and gentlemen, meet THE REPLACEMENTS.
BASTARDI
senza
GLORIA
poche settimane dopo, grazie al comune amico
Mars, inizia a suonare con loro. Se era destino,
l’intraprendente Paul gli (e si) dà una mano, confidando al cantante designato che gli altri membri
del gruppo (non lui, eh…) lo schifano. E ne
prende il posto.
Non resta che trovare un nome migliore
di Dog’s Breath – non che sia un’impresa
presto i tizi della Twin/Tone, Westerberg
così difficile. Ed ecco a voi The Impediscrive canzoni a getto continuo. Tra Jements… anzi, come non detto, perché i
sperson e il gruppo è amore a prima vista:
quattro, ingaggiati per suonare nel seminter- da quel momento, sarà lui il loro padre
rato di una chiesa, si fanno cacciare prima
putativo, tutore (alla lettera: la madre di
ancora di salire sul palco per consumo d’alTommy gli affiderà il figlio minorenne in
col e vengono banditi dai locali della città.
tour), compagno di viaggio, di sbronze e
Urge trovare un’altra sigla per rifarsi una
di mattane (e in seguito di sniffate), converginità. E The Replacements è semplicesulente e mentore, spalla su cui piangere,
mente perfetta. Sfido il lettore a scovare
roadie, tecnico del suono, produttore e fan
nella storia del rock un gruppo il cui nome
numero uno.
si adatti meglio alla natura, alla personalità,
Registrato nel corso di sei mesi, tra
al destino dei musicisti. Come dire The Lo- l’inverno 1980 e gli inizi del 1981, in uno
sers, ma senza un’oncia di romanticismo
spartano studio casalingo munito di un
perdente a salvarli. The Replacements racotto piste, e prodotto da Steve Fjelstad,
chiude in sé la propria critica e il proprio sa- Westerberg e Jesperson, “Sorry Ma, Forbotaggio, azzerando l’irruenza anarchica
got To Take Out The Trash” esce nei nedegli intenti (alla domanda «Chi volete rimgozi il 1 settembre ’81, accompagnato dal
piazzare?», una volta Westerberg rispose
singolo I’m In Trouble / If Only You Were
«Tutti») con disincantato realismo. I rimLonely. Diciotto brani, solo un paio sopra
piazzi: quelli che vengono dopo i titolari,
i tre minuti e molti sotto i due, poco più
ma non saranno mai come loro. Questo vo- di mezz’ora in tutto. Sembra hardcore
levano essere, questo sarebbero stati.
punk, non lo è. Certo, la velocità c’è, e
pure l’immediatezza d’esecuzione (anche se
«Delivering noise / Real tough boys / What else nient’affatto sciatta come solitamente si dice), ma
have I got / Half-priced drugs / Stolen guitars / le strutture, le melodie, gli assoli di chitarra peWhat else is new / It’s somethin to dü / It’s soscano dal più classico rock’n’roll quando non dal
methin to dü /We ain’t nothin new»
power pop. Non a caso una delle vette dei concerti dal vivo di quel periodo è un’esecuzione
Una delle tante storie bizzarre nella biz- mozzafiato di Rock Around the Clock, suonata
zarra storia dei Replacements – per i fan più come se fosse a 78 giri.
affezionati, ‘Mats, abbreviazione della stor“Power Trash” avrebbero voluto chiamarlo gli
piatura Placemats – è quella (narrata da Mi- artefici: e sarebbe stata una definizione perfetta
chael Azerrad in Our Band Could Be Your
per la musica contenuta in uno dei più grandi diLife) di come il gruppo – che, si badi bene,
schi di rock americano degli anni ‘80. «Un Sgt.
non ha mai suonato dal vivo, e si fa ancora
Pepper’s del punk» chioserà qualcuno: e non è
chiamare The Impediments – ottenga un in- male neppure questa. O, per dirla con il cuore in
gaggio discografico. Un bel giorno Westermano delle fanzine dell’epoca, «se dite di amare il
berg porta un demo con quattro canzoni
rock’n’roll e “Sorry Ma” non vi commuove, o siete
(Raised in the City, Shutup, Don’t Turn Me
dei bugiardi o siete in coma». Tertium non datur.
Down e Shape Up) a Peter Jesperson, disc
E il pezzo che apre le ostilità, Takin’ A Ride, col
jockey e proprietario del negozio di dischi
suo drumming trascinante e le entusiasmanti
più in vista di Minneapolis, Oarfolkjokeopennellate chitarristiche di Bob Stinson, mette
pus (immaginatevi una sorta di rifugio per
già le carte in tavola. Il resto non è meno memofanatici e feticisti all’ultimo stadio, tipo Alta rabile. Careless, in soli sessantotto secondi, trifedeltà) nonché cofondatore dell’etichetta
plica in velocità un tipico giro r’n’r e piazza a
indipendente Twin/Tone. L’idea è di tentare, tradimento un ritornello di insidiosa cantabilità,
tramite Jesperson, di strappare un ingaggio
Hangin’ Downtown è un cantilenante power
al Jay’s Longhorn Bar, il locale fulcro della
pop’n’roll frullato e risputato tra cambi di tempo
scena punk delle Twin Cities dove l’altro fa
e una solista dagli svolazzi southern, Rattlesnake
il DJ. Jesperson ascolta il primo pezzo, Raitermina con un beffardo giro blues, I Hate Music
sed in the City, una volta, e poi un’altra, e
un’altra ancora, e ancora, e ancora. Il giorno
dopo richiama il cantante e gli offre la scelta tra registrare un singolo o un album. Opteranno per la
seconda, anche perché, come si accorgono ben
suona come suonerebbe Jerry Lee Lewis dopo aver
fatto comunella coi Ramones, la strepitosa Shiftless
When Idle è un rock da stadio vitaminizzato che
cozza con i classici canoni hardcore, Don’t Ask Why
e I’m In Trouble (Westerberg: «Era una vera canzone,
con un inizio, un centro, una fine e un bridge») nascondono a malapena dietro la furia esecutiva una
spudorata vena pop, More Cigarettes «sarebbe potuta
diventare qualcosa di simile a un rockabilly se ne
avessimo avuto il tempo» e Somethin to Dü è un irresistibile sberleffo ai rivali di sempre («i nostri amici
Hüskers, che non prendono droghe»: oltre il danno, la
beffa…), con Stinson a distillare scale r’n’r nell’assolo.
Al di là dell’incredibile efficacia di queste
gemme appena sbozzate, di “Sorry Ma” colpisce il
precario equilibrio tra l’innata attitudine melodica
di Westerberg e la spinta centrifuga del gruppo:
quel caos controllato, come lo definirà Robert
Christgau, che del gruppo costituisce l’essenza profonda. Forse Bob Stinson e gli altri non se ne rendono neppure conto, forse pensano davvero di
essere un gruppo hardcore. Ma quando i ritmi si
fanno appena più radi emerge appieno l’anima romantica di Westerberg: Kick Your Door Down e soprattutto Johnny’s Gonna Die, commosso tributo a
Johnny Thunders, hanno un’intensità chiaroscurale
inattesa per un gruppo di ragazzotti casinisti. E la
seconda, meditazione sul declino dell’ex New York
Dolls e Heartbreakers – uno degli eroi di Westerberg, all’epoca già male in arnese – costruita (per
caso o per proposito?) sul medesimo giro di accordi
di So You Want To Be A Rock’n’Roll Star, è anche un
sinistro presagio, la cui ombra lunga scenderà
anche sulle vicende future degli stessi Replacements.
«Sono giovani. E allora?» si legge nelle note
stampa della Twin/Tone. «L’unica cosa che gli
manca sono le pretese». In realtà i testi di Westerberg sono mediamente più sofisticati di quel che
passa il convento, e denotano la capacità di condensare in pochi versi un’idea, un racconto, un
insieme complesso di sensazioni, desideri, speranze, delusioni. Come l’amore frustrato per la
commessa di un negozio e gli approcci goffi del
cliente-narratore nel quadretto di Customer. Dice
bene Jim DeRogatis: «Con gli Hüskers, non hai la
sensazione che Bob e Hart parlino per te, con Westerberg sì»: Takin’ A Ride esprime il medesimo
cupio dissolvi di certe corse notturne springsteeniane, ma con in più lo spleen post-adolescenziale di chi ha nothin’ to dü se non attaccarsi alla
bottiglia o ingozzarsi di pillole («Goin’ real fast,
hanging out the window / Drinking in the back
seat, half the bottle…»). È la consapevolezza del
nulla, la paura di affrontare il domani camuffata
da giovanile sfrontatezza («Irresponsability’s my closest friend / I never pay attention, watch my step»,
in Careless) che affiora in Shiftless When Idle
(«And I ain’t got no ideals, I ain’t got much taste /
I’m shiftless when I’m idle and I got time to waste»).
E poi ci sono le note, scritte dal cantante di suo
pugno, sardoniche e spesso esilaranti, che formano una parte importante nella mitologia dei
Replacements come inguaribili buffoni. A proposito di Customer, Westerberg commenta che «la
chitarra di Bob è più calda di un’infezione alle vie
urinarie», mentre la goliardica Otto «non fa impazzire neppure noi. Ed è la prova che Chris Mars è
uno dei migliori batteristi che potessimo trovare al
momento». E della memorabile Kick Your Door
Down scrive che è stata «scritta 20 minuti dopo
averla registrata».
In men che non si dica i Replacements diventano l’altro miglior gruppo di Minneapolis. A
contendere loro il titolo c’è un trio hardcore
punk che in città è già piuttosto conosciuto, e
che l’ingaggio dei ‘Mats con la Twin/Tone fa andare in aceto. È forse la scintilla che fa nascere la
rivalità tra i Replacements e gli Hüsker Dü di
Bob Mould, Grant Hart e Greg Norton. Una rivalità che si nutre di tanti piccoli aneddoti: a
detta di Hart, Mould si sfogherà dello smacco infilando un paio di versi al veleno dedicati alla
Twin/Tone in Amusement, il lato B del singolo
che gli Hüskers sono costretti a pubblicare in
proprio. Di contro, Westerberg opta per lo sfottò
vero e proprio («Break the Mould» urla alla fine di
Somethin To Dü). Ma accade spesso che i due
gruppi si dividano il palco quando si tratta di
suonare fuori città e ottimizzare le spese: e i rapporti interpersonali sono cordiali, anche se improntati a una forte competizione. Per dirla con
Hart, sono i Beatles e gli Stones delle Twin Cities:
ma con la differenza che nel quartier generale dei
‘Mats c’è un solo gallo nel pollaio. Ambedue i
gruppi trovano comunque in Jesperson una figura
di maestro che fa loro conoscere e apprezzare la
musica del passato, e ne plasma il gusto.
Collaborazioni? Secondo Mould, lui e Westerberg si ritrovavano spesso a casa del loro mentore,
a bere, ascoltare musica, e – come dichiara nell’accorato resoconto di Jim Walsh The Replacements All Over But the Shouting: An Oral History –
«scambiarci scampoli di idee». Il commento di Hart
è un lapidario «This is bullshit». È tuttavia risaputo
che Bob e Paul si ritrovarono a registrare qualcosa
insieme, anni dopo, nell’appartamento del primo.
Secondo Terry Katzman, il risultato di quella session estemporanea – Westerberg alla chitarra,
Mould al sintetizzatore – suona come «blues meets
Throbbing Gristle». Pare che non ci siamo persi
molto, dopotutto.
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Quando Jesperson ascolta per la prima
volta il riff discendente di Kids Don’t Follow,
durante un concerto a Chicago, è letteralmente sbalordito. Decide di farla uscire
come singolo, ma i suoi soci sono contrari:
per tagliare i costi, la copertina delle prime
tre edizioni di “Stink” è stampata a mano,
utilizzando, pare, una patata su cui è intagliato al contrario il titolo – i dettagli nel
documentario di Bechard – a mo’ di timbro.
Originariamente da intitolarsi “Too
Poor To Tour”, l’EP uscito nel giugno 1982
– che Steve Albini sintetizza in tre parole:
«rough, ugly, funny» – è il disco hardcore
punk dei ‘Mats: otto brani, quindici minuti
in tutto. Lo registrano in un solo giorno,
buona la prima e via: l’unico pezzo regi-
«Irresponsibility’s my closest friend / Forget my
duty, I could give a shit»
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strato due volte è Kids Don’t Follow, anche se poi
sul disco finisce la take iniziale. Le cadenze sono
più esagitate, le invettive (Fuck School) urlate a
pieni polmoni. Ma Westerberg gioca con le
aspettative del pubblico: cosa può essere
tenanny” è un gran disco che fa di tutto per non
meno punk di una canzone il cui testo risembrare tale. Non rappresenta il miglior esito dei
pete ossessivamente «ho bisogno di un danReplacements, ma più di ogni altro dà l’idea della
nato lavoro» (Goddamn Job), e la cui
tensione latente che muove il gruppo sul filo del rasostanza fa a pugni con l’orgoglio anarcoide soio tra energia e svacco, intensità e spernacchiadi Kids Don’t Follow?
mento. Tutto, in esso, rinvia a una dicotomia
L’impressione monolitica dell’insieme è
volatile: le immancabili cavalcate scavezzacolo (Run
poi contraddetta da cose come l’abrasivo
It, You Lose, Hayday) vanno a braccetto con svisate
blues con tanto di armonica di White and
country (Treatment Bound), scatenati boogie (Take
Lazy: e quando le polveri si raffreddano,
Me To The Hospital, la loro Baby Please Don’t Go) e
prima di ripartire con la micidiale Gimme
frammenti strumentali surf (Buck Hill, in cui si riNoise, c’è tempo per una scheggia anomala,
cordano d’essere concittadini dei Trashmen); e a inuna dichiarazione d’amore e d’abbandono,
termezzi semiparodistici (Mr. Whirly, che prende a
la lirica e intensissima Go. Una delle più
prestito l’incipit di Strawberry Fields Forever e scimbelle canzoni a nome Replacements, e un
miotta Oh! Darling e The Twist di Chubby Checulteriore segnale che nel suo carniere di son- ker) si alternano sorprendenti pause introspettive
gwriter, Westerberg ha in serbo parecchie
come l’inquietante Willpower (a metà tra “Pornosorprese.
graphy” e i R.E.M. più oscuri, tipo Old Man Kensey
Nelle intenzioni della Twin/Tone,
per intenderci) e la bellissima Within Your Reach,
“Stink” dovrebbe essere il trampolino di lan- registrata semiclandestinamente dal solo Paul che
cio per far conoscere i ‘Mats fuori dal giro di per l’occasione si fa cura di tutti gli strumenti, inMinneapolis, dove la loro reputazione di
clusi synth e drum machine: Bob Stinson non la
culto ne ha ormai fatto degli idoli dell’unvoleva neppure nel disco, immaginatevi le facce dei
derground, seguiti da un codazzo crescente
fan della prima ora, ancora convinti che i ’Mats
di fan che non si perdono uno show. Il sefossero un gruppo hardcore…
condo album vero e proprio sarà faccenda
I testi seguono la medesima falsariga, dai pastipiù meditata dell’EP che lo precede, ma non che situazionisti (Lovelines, assemblata con gli anmeno selvatica nell’essenza. Gran parte delle nunci di un quotidiano locale) alle confessioni a
registrazioni, dall’ottobre ’82 al gennaio ’83 cuore aperto («I could live without your touch if I
«in un magazzino in un’orribile zona perifecould die within your reach»), dagli assalti screanzati
rica a nord di Minneapolis», come recitano le (You Lose) allo sgarbato menefreghismo – che però
note di copertina, vengono effettuate su
nasconde una certa qual preoccupazione per il fuun’unità mobile a 24 piste, un lussuoso pro- turo – di Treatment Bound («There’ll be no pose togresso rispetto al primitivo otto piste cui i
night no money in sight / Label wants a hit and we
quattro erano abituati. Il risultato, “Hootedon’t give a shit / First thing we do when we finally
nanny”, arriva nei negozi nell’aprile ’83.
Spiazzante già dalla copertina (disegnata
da “Fake Name Graphx”, ossia Grant Hart), che
scippa la grafica di un vecchio album folk “Hoo“Hootenanny” fotografa un’attitudine – che
il critico David Ayers sintetizza così: «è come se
Westerberg non sopportasse d’essere preso sul serio,
così sovverte la propria arte con l’artifizio» – ormai
predominante nelle esibizioni live. Non che i Replacements avessero dalla loro la miracolosa intensità degli Hüsker: dal vivo, la precaria, volatile
coesione dei quattro è messa continuamente alla
prova, canzone dopo canzone, nota dopo nota. Il
tour manager Bill Sullivan era solito dire che i
loro concerti erano come fiocchi di neve: non ce
n’era uno uguale all’altro. Detta così, parrebbe
un’esperienza mistica: ma come prendere sul
serio un gruppo il cui chitarrista ama presentarsi
sul palco con mises, diciamo così, particolari,
come una maglietta di Prince di due/tre taglie
più stretta e un tutu viola, magari un mantello, a
«I hate music / Sometimes I don’t / I hate music /
It’s got too many notes»
pull up / Get shitfaced drunk tryin’ to sober up»).
E per una scintillante Color Me Impressed, che per
l’ennesima volta cattura in maniera impeccabile
la sbalorditiva capacità di Westerberg di intercettare la teenage angst e metterla in parole e musica
(ma con quel pizzico di autoirrisione tipico dei
‘Mats: «intoxicated every minute I French kiss»), e
sfoggia in maniera mai prima d’allora così esplicita l’animo power pop dell’autore, c’è il passo
ubriaco e claudicante della “canzone” eponima,
la cui improvvisata genesi è un altro brandello di
leggenda. Per l’occasione, i quattro si scambiano
gli strumenti: Westerberg si accomoda alla batteria, Bob cede a Mars l’onere della chitarra solista
e acchiappa il basso di Tommy, che imbraccia la
ritmica. E se pensate che il risultato sia anche
lontanamente paragonabile a gemme come la eleventh untitled song registrata dai R.E.M. in formazione rimescolata per “Green”, beh, allora non
avete capito niente dei ‘Mats.
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volte un sacco della spazzatura con buchi per testa
e braccia, o un nastro adesivo da pacchi, e non
sempre – no, non sempre – biancheria intima?
Il punto, insomma, è che se i normali gruppi
rock suonano per un pubblico, per cercare l’ammirazione sui volti degli astanti, per celebrare se stessi
attraverso il pubblico, a Westerberg e compari
tutto ciò non importa. Loro non sono sul palco
per intrattenere – casomai per intrattenersi. Il che
spiega certi paradossali tragicomici aneddoti di
concerti disastrosi e finanche orripilanti, con i musicisti che si scambiano gli strumenti nel bel mezzo
di un brano, o Westerberg che canta il testo di una
canzone sulla musica di un’altra, e così via.
«I hate music – it’s got too many notes» canta
(anzi urla) Westerberg in una delle tracce di “Sorry
Ma”. Per i Replacements è vero il contrario.
Amano la musica, tutta la musica. La amano persino troppo, senza alcun filtro. Anche quella unore e ore di viaggio su uno sgangherato camioncino
cool, che magari altri ascoltano di nascosto e
senza aria condizionata (nei giorni caldi lo sportello
schifano in pubblico: Roger Miller, Rod Stelaterale viene lasciato aperto per far passare un po’
wart, Gentle Giant, Yes (il chitarrista prefese siete così motivati da recuperarne copia sul
d’aria: quando la natura chiama, a Bob Stinson
rito di Stinson è Steve Howe…), il pop da
web e così votati alla causa dei Replacements (o
basta sporgersi…) che fa loro da letto, mensa e
Top 40. Lo dimostra l’atteggiamento nei
semplicemente masochisti) da ascoltarla dall’inicasa… quando non riescono a elemosinare un diconfronti delle cover. Molti loro contempo- zio alla fine vi imbatterete in frammenti sganghevano o un pavimento a casa di qualcuno dove dorranei mettono in repertorio brani altrui per
rati di Lloyd Price, Robyn Hitchcock (Ye Sleeping
mire la notte. La popolarità regalata da
reinventarli e farne veri e propri manifesti
Knights of Jesus, da “I Often Dream Of Trains”,
“Hootenanny” è sufficiente a renderli un nome
sonori – emblematica la Eight Miles High
uno dei dischi in assoluto più amati dalla band),
piuttosto conosciuto agli ascoltatori delle stazioni
dei concittadini Hüsker Dü. Westerberg e
Black Sabbath, Led Zeppelin, Thin Lizzy, Tom
radio universitarie, ma non certo a far loro guadacompari invece suonano di tutto, da Johnny Petty, Bachman-Turner Overdrive, R.E.M., U2
gnare granché, e la vita on the road è tanto massaThunders ai Bachman-Turner Overdrive, da (I Will Follow, naturalmente: ma con i versi di
crante dal punto di vista fisico quanto logorante da
Prince agli Who, dagli Only Ones ai JourKids Don’t Follow…), Stones e Beatles, persino
quello psicologico e personale.
ney, dai Motorhead a Hello Dolly (!), dai Ge- un’improbabile No More the Moon Shines On LoEppure il “difficile terzo album” (ottobre 1984)
orgia Satellites alle musiche del Mago di Oz
rena della Carter Family (che Westerberg aveva
mostra un gruppo che rispetto ai lavori precedenti
(!!). Si dirà: ma almeno li rifanno bene? Discoperto in “Like Flies On Sherbert” dell’adorato
ha raggiunto la piena maturità. Westerberg non ha
pende. Se il pubblico è fortunato, la canAlex Chilton). Il tutto suonato (si fa per dire)
più bisogno di nascondere le proprie invenzioni
zone prescelta è suonata dall’inizio alla fine: con un’indole ubriaca che può irritare o far simmelodiche: lo swingante shuffle di I Will Dare, con
e se Paul o Tommy o Bob sono in serata,
patia, ma non lascia indifferenti. In mezzo al
Peter Buck ospite alla dodici corde e Westerberg al
senza neppure troppe stecche. Altrimenti – è caos, spiccano un trio di originali – Sixteen Blue,
mandolino (!), è un prodigio pop degno dei maestri
il caso di Hey, Good Lookin’ di Hank WilI Will Dare e un’embrionale Can’t Hardly Wait –
di Athens, Sixteen Blue una ballata vagamente velliams, sul lato B del singolo I Will Dare –
che fanno toccare con mano come però, dietro
vetiana (i Velvet del terzo album, però) che svela in
può capitare che il chitarrista suoni l’assolo
alle pagliacciate, vi sia un autore di prima granmaniera disarmante le inquietudini dell’adoletotalmente fuori chiave: ragione in più per
dezza.
scenza («Everything is sexually vague / Now you’re
immortalare la performance su nastro, sewondering to yourself / If you might be gay / Your age
«One foot in the door / The other one in the gutter»
condo i bizzarri schemi di pensiero del
is the hardest age / Everything drags and drags»),
gruppo. Altrimenti, si passa da un brano
mentre Androgynous riprende il tema dell’ambiguità
all’altro senza costrutto, metà canzone (o
Eccoli lì, seduti sul tetto di casa Stinson, soin forma di frammento da piano bar tra il Bowie di
anche solo una strofa e ritornello) e via alla
lite facce da schiaffi (e da doposbronza) e
“Hunky Dory” e il Chilton di “Third/Sister Losuccessiva. E accade che sul palco, in quall’espressione di chi non ci pensa nemmeno a
vers”. Le radici hardcore sono esibite e sminuzzate
che serata eccessivamente alcolica o in cui la mettersi in posa per il fotografo. Se è vero, come
nella tonitruante We’re Coming Out, che parte a
componente cazzara è più marcata del solito scrive Michael Azerrad, che la copertina di quel
cento all’ora per poi imprevedibilmente rallentare a
(come negli show al CBGB’s di fine ’84,
disco è di per sé «un piccolo grande tassello nella
metà corsa e reinventarsi in un sincopato interdove si presentano col nome Gary & The
formazione del loro mito», è il titolo a completare
mezzo jazzato, prima di riprendere la corsa a perdiBoners), la scaletta del concerto sia compol’opera. “Let It Be”, come l’ultimo album uffifiato: è il suono di un gruppo che pare sul punto di
sta quasi esclusivamente da brani altrui.
ciale dei Fab Four: l’insolenza di un titolo così
andare a pezzi a ogni nota, e invece si regge miracoA testimonianza di tutto ciò c’è “The
pesante – scelto, pare, per far imbufalire Jesperlosamente insieme. Di contro, la caciarona cover di
Shit Hits The Fans”, l’unico manufatto live
son, fan terminale di Lennon & Macca, anche se
Black Diamond dei Kiss (!) è uno schiaffo ai puristi
del gruppo: una cassettina (confiscata a un
una delle tante leggende attorno ai ‘Mats vuole
che all’epoca vedevano come fumo negli occhi il
fan che stava registrando un bootleg) distri- che i quattro alludessero a un imminente progruppo di Simmons e Stanley.
buita in 10mila copie nel gennaio 1985 che grammato scioglimento. Quando registrano
documenta un’esibizione in una chiesa scon- quello che viene unanimemente ritenuto il loro
sacrata a Oklahoma City, l’anno precedente: capolavoro, i ‘Mats sono reduci dall’annata più turbolenta
della loro giovane vita: una tournée di spalla ai R.E.M. più
ricca di eccessi alcolici e chimici che di gloria e vil pecunia,
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bero cadere a pezzi – cadere e sbattere il muso,
cadere giù dal palco, cadere mentre tentano di librarsi in volo». Finire sulla copertina di una delle
maggiori riviste del paese potrebbe essere il primo
passo verso la gloria: e forse è invece l’inizio della
E poi c’è quella Unsatisfied su cui è stato versato inchiostro a fiumi: canzone dalla struttura insolita e apparentemente irrisolta, costruita sulla
ripetizione di un giro arpeggiato sulla dodici corde
dai marcati rimandi R.E.M., che punta a un climax emotivo continuamente rilanciato. Per molti,
la più bella melodia uscita dalla penna dell’ex inserviente: da parte mia, lasciatemi preferire il congedo di Answering Machine, con quella chitarra
solitaria, scorticata e fragilissima, e Westerberg che
spreme ogni oncia di dolore e rimpianto in un
grido d’aiuto che si frange contro la segreteria telefonica della persona amata. Il bastardello arrogante
di Kids Don’t Follow e Fuck School è diventato
uomo.
Si dirà: eppure “Let It Be” è anche l’album di
Gary’s Got A Boner, Seen Your Video, Tommy Gets
His Tonsils Out: che, lungi dall’essere riempitivi o
divertimenti estemporanei, svelano qui più che
mai l’essenza dell’”idea” Replacements. Prendiamo
Tommy Got His Tonsils Out, dedicata al «little brat»
del gruppo. Cosa fa una rock band se non suonare
per gli adolescenti che loro stessi furono? Ecco, nei
Replacements l’adolescente è ancora nel gruppo.
La presenza di Tommy dà alla loro musica una genuinità che altrove sarebbe impossibile da ottenere, e fa da cassa di risonanza ai testi di
Westerberg. Tommy che odia la musica,
fine. «Non c’è un occhio dell’uragano nei ReplaTommy che alla fine di Treatment Bound
cements, solo quattro forze che spingono in quatsfotte Paul per avere sbagliato accordi,
tro direzioni diverse» scrive Smith. E di quelle
Tommy che, “salvato” dal rock’n’roll, ha molquattro forze, una è ormai preponderante,
lato la scuola a 15 anni per andarsene in giro
mentre un’altra si fa sempre più irregolare, epicol gruppo, facendo ciò che i suoi coetanei
sodica, debole.
possono solo sognare tra un’interrogazione di
Fin dall’inizio Westerberg è il leader: commatematica e un compito in classe. Tommy a
cui Westerberg si rivolge idealmente in Sixteen pone le canzoni, canta, canalizza in sé la rabbia,
l’energia, il divertimento. Eppure la sua
Blue: «Your age is the hardest age / Everything
drags and drags / You’re lookin’ funny / You ain’t non pare una monarchia assoluta: i tentativi di
uscire dal seminato – come la ballata acustica
laughing, are you?». Di rado il rock ha saputo
You’re Getting Married, risalente ai tempi di
essere così diretto, così sincero.
“Stink” e scartata perché, come gli dice sul
muso Bob Stinson, «questi non sono i Replace«God, what a mess, on the ladder of success /
Where you take one step and miss the whole first ments» – sono neutralizzati dagli anticorpi interni al gruppo. Ma già con “Let It Be” gli
rung»
equilibri sono saltati. Un pezzo come I Will
Dopo “Let It Be” i Replacements sono fi- Dare è un Rubicone oltrepassato il quale non
si può tornare indietro. E il fatto è che, ubriaco
nalmente considerati dalla stampa nazionale
o no, strafatto o no, Bob Stinson ha sempre
come una delle promesse più fulgide della
meno posto nelle nuove composizioni di Wescena indipendente. Robert Christgau del
sterberg.
«Village Voice» affibbia all’album un A+, il
Secondo alcuni fan di vecchia data – memassimo dei voti, e RJ Smith, una delle firme
glio prenderla con il beneficio del dubbio – è
di punta del settimanale, si unisce a loro in
anche il momento in cui la genuina impreveditournée per una settimana: il risultato sarà
bilità degli esordi live lascia trapelare la rouuna cover story che mette nero su bianco
quella tradizione orale sugli eccessi alcolici del tine. D’altro canto, dopo l’articolo del “Village
gruppo che a Minneapolis e dintorni tutti ben Voice” e la pletora di aneddoti sulle stramberie
live dei ‘Mats, molti vanno ai loro show come
conoscono: «Parte del brivido in ogni show dei
Replacements è che in qualsiasi momento potreb- se andassero al circo, e restano delusi quando il
gruppo offre loro un “normale” concerto rock,
senza eccessi, sbronze, canzoni interrotte a metà e
risse tra Paul e Bob. È quel che accade al Grey Gardens di Trenton, New Jersey, nell’agosto ’85 (quello
dell’impagabile aneddoto su Bob Stinson che gioca
a flipper nel locale durante i primi tre pezzi e sale
sul palco alla fine di I Will Dare, raccontato in Color
Me Obsessed): molti spettatori intasano i centralini
delle stazioni radio locali con le loro proteste – lo fa
persino il promoter Randy Ellis (e Westerberg si
vendicherà col fiele di Shooting Dirty Pool, a lui “dedicata”).
Nonostante i ‘Mats facciano di tutto per non
farsi accalappiare, arriva la firma con una major: la
Warner, tramite la sussidiaria Sire di Seymour Stein.
Ancora una volta hanno battuto sul tempo gli Hüsker Dü. “Tim” (ottobre 1985) dovrebbe segnare la
definitiva consacrazione. Copertina – orrida! – di
Robert Longo, produzione affidata a Tommy Erdelyi alias Tommy Ramone (delle sessioni con Alex
Chilton resteranno solo una manciata di demo e le
backing vocals dell’ex Big Star su Left of the Dial),
una scrittura che ha ormai abbandonato le ultime
scorie hardcore e si è assestata su un rock classico
dalla disarmante orecchiabilità. Il produttore evita
quel suono di batteria radiofonico ed effettato che
in quel periodo ammorba la gran parte dei dischi
rock mainstream: ma cade nell’eccesso opposto, castrando la batteria di Mars e riducendola a un tintinnio sottile e sordo troppo basso nel missaggio. La
pulizia del suono, per quanto esalti il songwriting di
Westerberg – mai così a fuoco e quadrato – sembra
in qualche modo andare a detrimento del “concetto” Replacements.
Di fatto, “Tim” è già un disco senza Bob Stinson. Racconterà Erdelyi che alle sessioni di registrazioni il chitarrista non si presenta mai:
tocca portarlo in studio quasi a forza e fargli di uno stereo zooma indietro sulla stanza di un
registrare tutte le sue parti soliste in un
tizio – Westerberg, di cui vediamo solo le gambe,
giorno: l’assolo in stile Chuck Berry in Kiss
il dettaglio di una mano che regge una sigaretta,
Me On The Bus in realtà è suonato dallo
un piede… – intento ad ascoltare il brano sul suo
stesso Erdelyi, ma il pregevole staccato alla
giradischi, spaparanzato sul divano. E che alla
Duane Eddy di Swingin’ Party è farina del
fine si alza e piglia a calci la suddetta cassa, prima
sacco di Bob.
di andarsene. Qualcosa a metà tra Michael Snow
Tra le pieghe di una scrittura sempre più e l’Andy Warhol degli esordi, insomma: proprio
levigata, emergono influenze più (Hold My
quello di cui il pubblico di MTV ha bisogno, no?
Life, che pare di presa da “Radio City”) o
meno risapute: Roy Orbison o, perché no,
«One more chance to get it all wrong / One more
Frank e Nancy Sinatra – Something Stupid – night to do it all wrong / One more warning / One
per Swingin’ Party, mentre l’irresistibile Kiss
more warning sound»
Me On The Bus, reinventata rispetto alle
grezze versioni demo, è un quasi-rockabilly
Una delle cose che rendono unici i Replacestriato da cascate di rivoli chitarristici. Ma
ments è il modo di suonare di Bob Stinson. Non
non sono da meno altri gioielli come la sto- certo un virtuoso dello strumento, sia chiaro:
nesiana Little Mascara (che avrebbe meritato qualcuno ha detto che la sua maggiore abilità era
la gloria del 45 giri) dall’epico incipit e
di tirar fuori le note sbagliate al momento giusto.
quella Left of the Dial, dedicata a Angie Car- Eppure, i suoi assoli pazzoidi, sghembi e non di
lson dei Let’s Active, all’epoca fiamma di
rado brillanti – quando gliene riusciva qualcuno
Paul, che diventerà un classico nelle stazioni particolarmente bene, Bob si congratulava danradio di college rock cui fa riferimento il tidosi una pacca sulla spalla – sono parte essenziale
tolo.
del suono Replacements. Lo Stinson che emerge
Ci sono molte chitarre acustiche, in
dalle tante storie sui ‘Mats – sorta di gigante
“Tim”, e i ritmi calano spesso: non c’è più
tonto appassionato di pesca e il cui passatempo
da vergognarsi a inserire qualche ballata acu- preferito è guardare i treni passare al tramonto
stica come la splendida Here Comes A Regubevendosi una birra – è una specie di idiot savant.
lar, amara confessione dei problemi con
Si dice che una sera, appena prima di salire sul
l’alcol di Westerberg. Di contro, sono i mo- palco, Westerberg gli dipinga per scherzo altri
menti più rock a risultare in qualche modo
pallini bianchi sul manico dello strumento, oltre
forzati: come se l’autore sentisse il dovere di a quelli degli armonici, mandandolo in confuprovvedere quel minimo sindacale di irsione: quella volta Bob non azzecca un assolo. E
ruenza richiesto per contratto. Per questo,
a detta di Paul Stark della Twin/Tone, Stinson
forse, pezzi dignitosissimi quali Dose of
comincia a ingranare con la chitarra dopo cinque
Thunder e Lay It Down Clown suonano un
birre, e diventa davvero scarso dopo la settima.
pizzico artificiosi rispetto al resto. Lo stesso
non si può dire – e ci mancherebbe – per
quello che diventerà l’inno per eccellenza dei
‘Mats. Bastano esattamente sette secondi per fare
di Bastards of Young un classico del rock americano
di sempre: un riff che è una chiamata alle armi, a
introdurre una mirabile fusione di umori stonesiani, glam e punk che condensa in un pugno di
versi memorabili l’aspirazione al successo e la consapevolezza del fallimento, evocata simbolicamente
da una chiusa – appiccicata da Erdelyi dalla versione demo – in cui il pezzo si sgretola in una serie
di epilettiche rullate mentre Westerberg urla «take
it, it’s yours».
È Bastards of Young il brano che la Sire sceglie
per lanciare il gruppo su MTV. I discografici non
hanno però fatto i conti con l’indole dispettosa dei
quattro, e con una falla nel contratto che non specifica la presenza del gruppo nel videoclip: ragion
per cui, il video ufficiale è un’inquadratura fissa in
bianco e nero di tre minuti e mezzo che dalla cassa
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Col tempo, le birre diventano sempre di più, e non
solo quelle.
Non che gli altri si facciano mancare alcunché:
l’esibizione al “Saturday Night Live” del 18 gennaio 1986, che l’intera scena di Minneapolis accoglie come se fosse il Superbowl, è un altro tassello
nella loro discutibile parata di eccessi. Introdotti da
Harry Dean Stanton, attaccano una versione velocizzata, stonata e fragorosa – e per i primi secondi
praticamente irriconoscibile – di Bastards of Young.
Mars, infilato in una salopette, pare la versione
rock di Charlot in Tempi moderni, a mulinare le
bacchette come chiavi inglesi, al punto che ci si
stupisce non sfondi le pelli dopo due battute.
Tommy, giubbotto di pelle alla Sid Vicious, sembra
in preda alle convulsioni da quanto salta e rimbalza
in giro, e pesta i piedi sul palco come a volerci scavare un buco. Bob, che sfoggia una sobria tutina
femminile a strisce multicolori aperta sul petto fino
all’ombelico e i cui pantaloni gli arrivano al polpaccio, per una volta pare – solo un filino, eh! – meno
sbronzo di Westerberg. Che vaga per il palco con
passo malfermo, gioca ad atteggiarsi a rockstar, ammicca alla telecamera, non sta nemmeno a cantare
tutte le parole, e a metà del secondo ritornello
smette proprio. E quando il chitarrista è pronto e
carico per lanciarsi nell’assolo, borbotta un audibilissimo «C’mon fucker!» che fa drizzare i capelli all’eminenza grigia de SNL, Lorne Michaels.
Indimenticabile.
Tornano sul palco per una Kiss Me On The Bus
sensibilmente più rumorosa (e stonata) che su
disco: tutti, eccetto Bob, si sono scambiati i vestiti,
e con un tipico tocco di finezza replacementsiana,
Westerberg sostituisce un paio di volte la parola
“bus” con “butt” (che poi era il titolo originario del
pezzo). Che poi alla fine del pezzo Stinson lanci la
chitarra a terra dietro di sé con aria da monello che
l’ha fatta grossa, è la cicliegina sulla torta. E una
volta conclusa l’esibizione i quattro procedono a
spalmare sistematicamente i cestini della cena of-
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Per i sostenitori della prima ora che non
hanno mai digerito appieno Within Your Reach,
figuriamoci il passaggio alla Sire, l’ammorbidimento del suono e men che meno la cacciata del
membro fondatore, i Replacements sono ormai
diventati un gruppo college rock per il grande
pubblico. Westerberg non fa nulla perché cambino idea. Sceglie come produttore Jim Dickinson, registra il nuovo disco a Memphis, include
addirittura una sezione fiati.
“Pleased To Meet Me” (luglio 1987) è un lavoro estremamente autoconsapevole, già dalla copertina con quella stretta di mano interclassista
che a prima vista sembra una citazione da “Wish
You Were Here” e forse è invece non una dichiarazione d’intenti – ne hanno mai avuti, i ‘Mats? –
ma un’ammissione sarcastica del patto faustiano
stretto con l’etichetta. L’iniziale, muscolare
I.O.U. si fa carico di metterlo in chiaro («One
foot in the door / The other one in the gutter») e
sembra voler pareggiare i conti con Jesperson, al
quale Westerberg sibila «I owe you nothing» (non
ti devo nulla). Su disco si occupa lui di tutte le
parti di chitarra. Ma l’ombra di Stinson aleggia
come un convitato di pietra. «Volevo che intitolassero il disco “Where’s Bob?”, ma nessuno pensava
«Someone take the wheel / And I don’t know where
I’m going»
ferti dalla NBC su muri, soffitto e mobilio del camerino, a ficcare sandwich giù per lo sciacquone, e
a distruggere più o meno tutto quel che rimane intatto. Raggiungendo così Elvis Costello e i Fear
nella breve ma significativa lista degli artisti banditi dal “Saturday Night Live” (cui si aggiungeranno Sinead o’Connor e i Cypress Hill).
Durante il tour di “Tim” le tensioni interne al
gruppo si fanno insostenibili: all’ego di Westerberg, che non sopporta più gli eccessi e i conseguenti rovinosi blackout del chitarrista, ormai
incapace di suonare dal vivo, fanno eco le pressioni
dell’etichetta, che non vede certo di buon occhio
le loro esuberanze. Stinson cerca di disintossicarsi,
ma trova un muro di gomma nei compagni di
gruppo: «friends without no guts, friends that never
ache», come quelli contro cui Westerberg si scagliava in Johnny’s Gonna Die. Racconta l’ex moglie
di Bob che una sera, prima di un concerto, Westerberg arriva con una bottiglia di champagne, intimando al chitarrista, reduce da un periodo di
disintossicazione ordinatogli dal giudice: «O bevi,
figlio di puttana, o scendi dal mio palco».
Un paio di settimane dopo accade l’inevitabile. Nel maggio 1986, concluso il tour di “Tim”,
Stinson è fuori dal gruppo. E con lui Jesperson.
C’è chi parla di tradimento, di pugnalata alle
spalle, di capri espiatori in un momento in cui all’interno del gruppo i cervelli erano obnubilati da
spiriti e bianche polveri. Altri, come Robert Christgau, sono più realisti del re: «Fanculo l’arte.
Anche voi avreste cacciato Bob Stinson a calci dal
vostro gruppo».
fosse divertente. Chiamai il loro management e
chiesi loro di riportarlo lì. Volevo Bob. Quelli si
fecero il segno della croce e se ne andarono» sputa
fuori Jim Dickinson.
Ma le canzoni sono solide almeno quanto
quelle del disco precedente, se non di più. Dal
repertorio live arriva Can’t Hardly Wait, che
Westerberg priva delle asperità punk della versione registrata e scartata per “Tim” e Dickinson impreziosisce nel finale con i fiati che
doppiano il riff di chitarra, mentre The Ledge è
sorretta da un arpeggio che ricorda Don’t Fear
the Reaper dei Blue Öyster Cult. Avrebbe potuto essere la hit che il produttore si lamenterà
di non avere avuto da Westerberg, non fosse
per quei riferimenti al suicidio che fanno inarcare il sopracciglio ai caporioni di MTV. O
avrebbe potuto in sua vece toccare a quel cristallino tributo al proprio nume tutelare che è
Alex Chilton (gli Stones non hanno mai scritto
una Chuck Berry, per dire), che all’epoca apriva
gli show dei ‘Mats. Avrebbe dovuto. Ma in
fondo è appropriato che il tributo a uno dei
grandi perdenti del rock’n’roll – il cui spirito
aleggia anche su Never Mind e Valentine – abbia
avuto un destino analogo, idolatrato da pochi e
sconosciuto ai più. E se in Shooting Dirty Pool
Westerberg fa la voce grossa, è chiaro che si
sente ormai più a proprio agio nel pigro
lounge-jazz di Nightclub Jitters o, meglio ancora, tra le acustiche tintinnanti e il mellotron
dell’incantevole miniatura acustica Skyway.
In “Pleased to Meet Me” Westerberg si
guarda allo specchio, e quel che vede non gli
piace: un tizio che beve troppo (Red Red Wine),
che ha paura del domani (Never Mind), che
non sa cosa fare del proprio futuro (I Don’t
Know). E che condensa le proprie angosce
nell’aneddoto del ragazzo in piedi su un corniPer Bill Holdship, che su «Creem» li definisce «la più grande rock band del mondo, in questo
momento», “Pleased To Meet Me” è nientemeno
che «il miglior disco rock del 1987, se non degli
‘80». Il che però non basta a spingerlo in classifica: venderà un po’ meno di “Tim”, ottenendo
un magro centotrentunesimo posto nella classifica di “Billboard”. Non aiuta nemmeno un’altra famigerata apparizione televisiva, nel
programma di MTV I.R.S. Presents The Cutting
Edge condotto da Peter Zaremba, in cui i quattro si presentano con le sopracciglia completamente rasate per l’occasione. Nel frattempo ha
fatto il suo ingresso nel gruppo il nuovo chitarrista Bob “Slim” Dunlap: con una di quelle
mosse tipiche del gruppo, anziché rimpiazzare
Stinson con un chitarrista giovane e di bella
presenza, Westerberg e soci hanno pescato un
macilento veterano della scena delle Twin Cities
che potrebbe far loro da chioccia.
Don’t Tell A Soul” (febbraio 1989) è, nelle
intenzioni della rinata Reprise, il disco che dovrebbe fare dei ‘Mats delle star. La scelta del
produttore la dice lunga sulle difficoltà e le
pressioni cui il gruppo è sottoposto: scartati per
impraticabilità Pete Townshend e John Fogerty,
licenziato (o cacciato?) Tony Berg, tiratosi in-
«We’re gettin’ no place fast as we can / Get a noseful from our so-called friends / Gettin’ nowhere as
quick as we know how»
cione, assediato dai media e sul punto di buttarsi, di The Ledge: «All eyes look up to me / High
above the filthy streets /… I’m the boy they can’t
ignore / For the first time in my life, I’m sure».
Ecco, un ragazzo Westerberg non lo è più,
come non lo è più Tommy: il trauma maggiore
è affrontare questa verità.
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Better Than Here, uno dei pochi brani dove fumidietro Scott Litt, tocca al giovane ed entusiasta
gano le ceneri dell’irruenza di un tempo.
Matt Wallace. Che non ha idea di quel che lo atTutto ciò, per nulla, o quasi. Certo, “Musician”
tende. Le registrazioni sono un’ordalia, e la tenli mette in copertina (ottobre ’89) e li definisce
sione si taglia con il coltello. Il dilungarsi delle
“The Last Best Band of the ‘80s” (e il mese dopo
session losangeline – con Tommy che torna a casa
Bon Jovi scrive alla redazione: «come possono i Reper sposarsi e Westerberg e Dunlap che esaTom Petty farà proprio in Into the Great Wide
gerano con gli overdub, snaturando la semplacements essere il miglior gruppo degli anni ’80 se
Open), mentre la tanto vituperata dai fan Asking
plicità del suono Replacements – produce
non li ho mai nemmeno sentiti nominare?»…). Treun risultato che lascia di stucco un po’ tutti. Me Lies, con il suo ritmo quasi funk e la chitarra
centomila copie e un cinquantatreesimo posto in
Tra le tante assurdità che circondano le regi- alla Nile Rodgers, è un esercizio pop che tanti fa- classifica sono troppo poco per la Warner, e l’album
rebbero carte false per scrivere. Eppure, nascoste
strazioni c’è anche un’apparizione di Tom
finisce presto tra i forati. Per un nuovo adepto guatra le pieghe di “Don’t Tell A Soul” ci sono
Waits, che capita in zona con Kathleen
dagnato alla causa, uno di lungo corso getta la spugrandi canzoni. Non sono sicuro che lo sia Achin’ gna. Anche dal vivo le stupidaggini di un tempo
Brennan: le abbondanti libagioni produrTo Be, per molti la pietra fondante dell’alt-counranno una manciata di brani uno dei quali,
suonano sempre più forzate, come quelle di un cotry o Americana che dir si voglia, che pure suona mico che ripete per l’ennesima volta, senza più
il gospel-boogie chiesastico di Date to
già
di
maniera:
di
certo,
invece,
lo
è
la
quasi
imChurch, finirà sul lato B del singolo I’ll Be
verve, la medesima barzelletta. Durante uno show a
palpabile Rock’n’Roll Ghost, che mostra come
You e nella compilation postuma “All For
Nashville, di spalla a Tom Petty, salgono sul palco
ormai
Westerberg
abbia
trovato
la
propria
diNothing / Nothing For All” (Reprise,
con gli abiti delle mogli degli Heartbreakers (e Mars
mensione ideale con la spina dell’amplificatore
1997), mentre gli altri verranno riesumati
ha un paio di corna di cervo attaccate alla testa con
staccata.
una ventina d’anni dopo da Westerberg in
nastro adesivo), suonano una Walk On The Wild
È vero, come scriverà Ira Robbins su «Rolling Side strumentale di nove minuti e si congedano
“3oclockreep”.
Stone», che “Don’t Tell A Soul” «reclama la pro“Don’t Tell A Soul” – originariamente,
mandando affanculo Petty e, intanto che ci sono,
pria indipendenza confondendo le aspettative del“Dead Man’s Pop”: gran titolo – soffre di
pure Nashville e lo stato del Tennessee.
l’ascoltatore», ma l’audacia della mossa del cavallo
una produzione imbarazzante, figlia delle
Se quelli di “Don’t Tell A Soul” non sono più i
peggiori mode degli anni ’80, gravato com’è cozza contro il muro di un album disperatamente veri Replacements, “All Shook Down” (settembre
adulto. Una bruciante consapevolezza che emerge 1990) è a tutti gli effetti un disco solista di Westerda diavolerie assortite in sovraincisione, dal
dall’iniziale Talent Show – molto migliore nella
riverbero alla batteria da stadio, che semberg. Che si fa produrre da Scott Litt e si circonda
veste elettrica che si può ascoltare nei bonus della di un nugolo di ospiti di rango, da Steve Berlin a
brano dare ragione a chi parla di comproristampa
Rhino
–
dove
Westerberg
sintetizza
in
messo a fini di lucro, per non parlare di un
John Cale, da Johnette Napolitano a Benmont
pochi versi i compromessi affrontati («Well we got Tench. L’immagine di copertina, due cani randagi
missaggio che, a detta dello stesso Wallace,
our
guitars
and
we
got
thumb
picks
/
And
we
go
on
suona come «la fine degli anni ‘80». Di
in una strada piovosa, dice già tutto. E il retro – un
after some lip-synch chicks / We’re feelin’ good from
certo, I’ll Be You è finalmente un singolo (e
cartello dedicato a un cucciolo scomparso, Have
the pills we took») e l’inevitabile esito («Well it’s the
un video) che è possibile programmare su
biggest thing in my life I guess / Look at us all, we’re
MTV (e contiene uno dei versi più memorabili di Paul, quel «rebel without a clue» che nervous wrecks»), o da titoli emblematici quali Anywhere’s
60
Dopo essere stato allontanato dal gruppo che
aveva fondato, Robert Neil Stinson suona saltuariamente in altri gruppi di Minneapolis, come gli Static Taxi e i Bleeding Hearts. Ma anziché sul palco,
lo si vede più spesso al bar, a cercare di scroccare
una bevuta gratis o un cheeseburger. C’è chi lo
tratta come lo scemo del villaggio, invitandolo sul
palco quando a malapena si regge in piedi, per farsi
due risate. È praticamente un senzatetto, e spesso si
arrangia come può sul divano o nel seminterrato di
qualcuno che si prenda a cuore la sua sorte.
Muore, a soli 35 anni, il 18 febbraio 1995. Accanto al corpo viene ritrovata una siringa, ma non
si tratta di overdose: Stinson non ha fatto in tempo
a iniettarsi l’eroina. Il suo organismo era così debilitato dagli abusi che, semplicemente, ha ceduto.
Una fine triste, squallida e solitaria, senza ombra di
poesia o redenzione. Del tipo riservato ai veri perdenti, quelli che la gloria l’hanno solo vista da lontano, come un treno che passa sferragliante al
tramonto – il tempo di un sorso, e non c’è più. «Gonna last for always / It’s gotta last for always…»
lascia paralizzato. Il 3 ottobre Westerberg e Stinson
si chiudono in studio assieme a Kevin Bowe e al
batterista Peter Anderson, e mettono su nastro cinque brani per il progetto di beneficenza “Songs For
Slim”. Nessun originale: due pezzi dal repertorio
solista di Dunlap (il blues diddleyano Busted Up e
la fragorosa Radio Hook Word Hit), I’m Not Sayin’
di Gordon Lightfoot, una robusta versione di Lost
Highway di Leon Payne e – in accordanza con le
bizzarre abitudini dei ‘Mats in fatto di cover – una
saltellante Everything’s Coming Up Roses dal musical
Gypsy, dal fragrante aroma roots. Il tutto con piglio
da buona la prima, come ai vecchi tempi, e una
verve più che discreta per dei signori di mezz’età.
Le 250 copie del 10” in vinile vengono vendute
all’asta lo scorso gennaio, raccogliendo la bella cifra
di oltre 105 mila dollari.
foto Greg Helgeson
DISCOGRAFIA ESSENZIALE
Sorry Ma, Forgot To Take Out The Trash (LP Twin/Tone, 1981; CD Twin/Tone 1991; CD
Rhino, 2008)
Stink (EP Twin/Tone, 1982; CD Restless, 2002; CD Rhino, 2008)
Hootenanny (LP Twin/Tone, 1983; CD Restless, 2002; CD Rhino, 2008)
Let It Be (LP Twin/Tone 1984; CD Twin/Tone 1993; CD Restless 2002; CD Rhino)
The Shit Hits The Fans (Cassetta Twin/Tone, 1985)
Tim (LP Sire, 1985; CD Sire, 1993; CD Rhino, 2008)
Pleased To Meet Me (LP/CD Sire, 1987; CD Rhino, 2008)
Don’t Tell A Soul (LP/CD Sire/Reprise, 1989; CD Rhino, 2008)
All Shook Down (LP/CD Sire/Reprise, 1990; CD Rhino, 2008)
Songs for Slim (EP/MP3 New West Records, 2013)
You Seen Lucky? – affonda il dito nella piaga. A dispetto dei
toni ingannevolmente leggeri dell’iniziale Merry Go Round,
l’essenza è di una cupezza ottundente. Difficile dare torto a
Kevin Bowe quando definisce “All Shook Down” «la colonna
sonora della morte di una band, e forse del leader di quella
band».
In Someone Take The Wheel Westerberg confessa «I don’t
know where we’re going», ed è uno dei pochi sprazzi in cui
emerge l’«io» in un disco dove la seconda persona è il viatico
per le ammissioni più amare. In Attitude – l’unico brano in
cui i ‘Mats, o quel che ne rimane, suonano insieme, e uno dei
pochi in cui ancora v’è traccia degli antichi fuochi punk –
Paul parla ancora una volta apertamente del suo alcolismo
(«Well when you open that bottle of wine / You open a can of
worms ever time»), e in Happy Town riconosce il proprio fallimento («The plan was to set the world on its ear / and I’m willing to bet you don’t last a year / the plan was to set the world on
fire / but it rains every day on the liar»).
È un disco controverso, “All Shook Down”. Odiato da
molti fan della prima ora, più per i sentimenti che contiene e
provoca che per le canzoni in sé. Ha anche fan insospettabili,
come Elvis Costello. Non certo Robert Christgau, che sul
«Village Voice» salva appena un paio di
brani: forse è troppo severo, ma neppure
«All over but the shouting, just a waste of time /
lui può fare a meno di amare il congedo
Never mind / All over but the shouting, it’s a waste of
in sordina ma di gran classe della pianitime».
stica The Last. O quella Sadly Beautiful,
carezzata dalla viola di John Cale, che si
Dopo i Replacements, Tommy Stinson forma
incammina sul medesimo sentiero di It’s
altri due gruppi: Bash & Pop (in cui suona anche
All Over Now, Baby Blue.
Foley), con cui pubblica “Friday Night Is Killing
Sia come sia, è iniziato il conto alla ro- Me” (1993), e Perfect (due dischi all’attivo, l’EP
vescia. Chris Mars esce dal gruppo nel no- “When Squirrels Play Chicken”, del ’96, e “Once,
vembre ’90, rimpiazzato da Steve Foley:
Twice, Three Times a Maybe”, del 2004). Nel
secondo Tommy, «ha deciso di andarsene, e 1998 entra nei Guns ‘n’ Roses. Nel 2004 pubblica
noi abbiamo deciso di aiutarlo ad
il suo primo disco solista, “Village Gorilla Head”,
andarsene». Gli ultimi mesi sono una triste seguito nel 2011 da “One Man Mutiny”. Nel fratconsunzione, che si completa il 4 luglio
tempo suona anche con i Soul Asylum in “The Sil1991 all’annuale festival gratuito organiz- ver Lining”. Chris Mars pubblica quattro album
zato dalla radio WXRT al Grant Park di
solisti di scarso interesse prima di mollare tutto e
Chicago. Davanti a 50.000 persone, ha
dedicarsi alla pittura. Steve Foley muore nel 2008
luogo la definitiva dissoluzione del
per un’overdose accidentale di un farmaco prescritgruppo, quando Westerberg, Stinson e gli togli. Di Paul Westerberg solista si dirà in altra ocaltri due apportano una variante alla con- casione, su queste pagine.
sumata prassi di scambiarsi gli strumenti
Gli ex compagni si ritrovano occasionalmente
durante una canzone: stavolta li passano ai in studio: nel 2006 per due nuovi pezzi (Pool &
roadie durante l’esecuzione di Hootenanny. Dive e Message To The Boys) registrati dai tre memNon avrebbero potuto scegliere un pezzo
bri originari e inseriti nella compilation Rhino
più indicato.
“Don’t You Know Who I Think I Was?”, lo scorso
ottobre per’occasione più triste. Il 21 febbraio
2012 Slim Dunlap ha un colpo apoplettico che lo
COLOR ME INDEPENDENT
Come ti è venuto in mente di fare un documentario sui Replacements senza mai mostrare loro immagini, e soprattutto senza una
singola nota della loro musica? Sei stato ispirato dalla biografia di Jim Walsh All Over
But the Shouting?
A dire la verità, per niente. Stavo cercando
un approccio diverso al genere del documentario rock ’n roll. E, letteralmente, ero sdraiato sul letto una notte a pensare: non credo
in Dio, ma credo nei Replacements. E quello
mi ha portato a capire che la gente crede in
Dio senza vederlo o sentirlo. Sarei stato in
grado di far sì che la gente credesse a questo
gruppo allo stesso modo, attravero le storie e
DEL SUO BELLISSIMO documentario sui
Replacements, Color Me Obsessed, s’è detto
nel n. 178. Ora Gorman Bechard sta ultimando Every Everything: The Music, Life &
Times of Grant Hart, che se possibile si annuncia ancora più succoso. Bizzarra davvero,
la carriera di questo filmmaker del Connecticut. Esordisce con Disconnected (1983), storia di due gemelle coinvolte negli omicidi di
un maniaco. Azzecca il cult con Psychos In
Love (1987), stralunata commediaccia splatter (girata nei fine settimana nel suo appartamento con avanzi di pellicola) su una coppia
di serial killer a metà tra John Waters e i
Monty Python. Firma un contratto con la
Empire Pictures di Charles Band, stracciato
dopo un micidiale uno-due – il demenziale
sci-fi Galactic Gigolo (1987) e Cemetery High
(1989), storia di un gruppo di vittime di stupro che si organizzano in un commando
vendicativo – che stroncherebbe lo spettatore
più bendisposto. Si ricicla scrittore: nel suo
primo romanzo, The Second Greatest Story
Ever Told, Dio invia la figlia teenager sulla
terra per salvare il mondo: perfetto se Kevin
Smith decidesse di dare un seguito a Dogma.
Torna al cinema negli anni 2000, ancora da
indipendente duro e puro, tra fiction e documentario (come il recentissimo What Did
You Expect?, film concerto sulla reunion degli
Archers of Loaf ). Più motivato e grintoso
che mai.
la passione altrui? Quasi come una specie di Bibbia del
rock’n’roll… In più, stiamo parlando di un gruppo che
per il suo primo videoclip aveva scelto di mostrare la
cassa di uno stereo per quattro minuti. Non farli mai vedere e non fare mai sentire la loro musica nel film mi è
sembrato straordinariamente appropriato. Era decisamente nello spirito dei Replacements.
Mi ha colpito il fatto che in Color Me Obsessed hai scelto
di dare ampio spazio a ogni sorta di punto di vista e opinioni da musicisti, artisti, amici del gruppo e semplici
fan, di modo che il risultato è una visione molto più intricata e stimolante del solito documentario celebrativo…
Non sono un fan di quei documentari rock che passano
tutto il tempo a baciare il culo del loro soggetto. Queste
sono persone reali, con lati buoni e lati cattivi, ed entrambi i lati sono responsabili della grande musica che
hanno fatto. E mi piace molto il fatto che alcuni degli intervistati ritenessero che il gruppo si fosse praticamente
sciolto quando Bob Stinson fu cacciato. O che delle 145
persone che ho intervistato, solo uno abbia accettato di
parlare del loro ultimo album.
Cos’hanno detto del film i membri del gruppo? Gli è
piaciuto il risultato?
Peter Jesperson, il “quinto Replacement”, ha amato il
film. Sua moglie mi ha detto che ha
pianto, la prima volta che lo ha visto.
In quanto ai membri del gruppo, diciamo che tutto ciò che ho sentito è in
via ufficiosa. Ma in ogni caso mi ha
fatto sorridere.
Ovviamente sei un grande fan del
gruppo. Qual è il tuo punto di vista
sui Replacements?
A metà degli anni ’70 il rock ‘n roll
stava morendo. Gruppi come gli Eagles e gente come Billy Joel lo stavano
uccidendo in fretta. E poi è arrivato il
punk, con tutto quel che sappiamo.
Ma nel 1981, il punk sarebbe potuto
diventare new-wave. E ancora una
volta il rock era sul punto d’essere
strangolato dalla mosciaggine e dalle
tastiere. E questi due gruppi di Minneapolis cambiarono completamente il
modo con cui ascoltiamo il rock ’n
roll – e sto parlando ovviamente dei
Replacements e degli Hüsker
Dü. Non credo che il rock ‘n roll
come lo conosciamo oggi esisterebbe
senza questi due gruppi. Niente scena
di Seattle. Niente emo. Niente Green
Day. Niente se non robaccia senza
palle come Vampire Weekend e Fun.
Quanto tempo ti ci è voluto per finire
il film? Al di là delle interviste integrali a Robert Christgau, Grant Hart e
Quattro chiacchiere con GORMAN BECHARD
di Roberto Curti
61
Gorman Bechard
62
Jim De Rogatis che troviamo come extra nel DVD,
c’è altro materiale interessante rimasto fuori?
Ci abbiamo messo otto mesi a montarlo. E avevamo 250 ore di materiale. Così ci sono molti altri
spezzoni interessanti che abbiamo dovuto lasciare
fuori. Ma i migliori sono finiti tra gli extra del
DVD.
Album e canzone preferita dei ‘Mats?
“Tim” e Here Comes a Regular.
Una presenza che non passa inosservata è quella di
un tizio di nome Robert Voedisch, un fan stralunato del gruppo che nel tuo film ha parecchio spazio…
A dire la verità non so molto di Robert. Mi ha
scritto dicendomi che aveva una storia interessante
sulle sue conversazioni immaginarie con Tommy
[Stinson] quando era un adolescente nella sua fattoria nel nord del Minnesota. Lo abbiamo intervistato e siamo usciti pensando che fosse lui la star
del film. Ho capito subito che sarebbe stata la migliore intervista che avremmo avuto. Si è letteralmente messo a nudo. Ed è strano, perché molti
spettatori maschi hanno avuto problemi con le
scene di Robert. Credo che sia perché ricorda loro
chi erano quando avevano 14 anni. Ma hanno
paura di ammetterlo.
Tra gli intervistati, mi ha colpito la presenza di
Grant Hart. Non sembra passarsela molto bene, a
essere sinceri, e tuttavia è tra le voci più affascinanti
e acute del film, e i suoi ricordi e pensieri sul
gruppo non sono mai banali. L’idea di fare un documentario su di lui ti è venuta durante le riprese
di Color Me Obsessed?
Grant è stato uno dei miei preferiti tra gli intervistati nel film. Ma l’idea di Every Everything è uscita
fuori dopo una serata in cui abbiamo presentato
Color Me Obsessed a Bruxelles in Belgio. Abbiamo
Durante le registrazioni di Every Everything al vecchio Cheapo Records di St. Paul, dove
Grant Hart (seduto, di fronte) incontrò per la prima volta Bob Mould (di spalle da sinistra:
Gorman Bechard, Jan Radder (in piedi), Taryn Welker e Sarah Hajtol
parlato parecchio in quei due giorni. E ho
capito che sarebbe stato il soggetto perfetto per l’idea che avevo in mente. Ossia
di fare un Fog of War [celebre documentario
di Errol Morris del 2003 su Robert McNamara, segretario alla Difesa sotto John Kennedy e Lyndon Johnson, NdA] rock ’n roll.
Un solo soggetto, una sola persona che
parla, un solo punto di vista per l’intero
film.
Hai iniziato la carriera di regista negli
anni ’80 con film dell’orrore come Psychos
In Love, poi sei passato alla scrittura dopo
una brutta esperienza con la Empire Pictures. Che è successo di preciso?
Ha a che fare con il modo di lavorare della
Empire. Niente anima, niente intelligenza, niente originalità. È stata una delle
peggiori esperienze che abbia mai avuto
nella mia carriera. Erano come papponi. E
non avevo nessun interesse a diventare la
loro puttana. Ci sono fin troppi registi
che accettano quel ruolo gioiosamente.
Come descriveresti la tua esperienza nel
mondo del cinema indipendente nell’ultimo quarto di secolo?
Credo che fare un film sia la cosa più difficile a questo mondo. E fare un buon film è
dieci volte più difficile. Il problema è che
troppa gente non lo prende sul serio o non
ha la minima idea di quanto sia duro. Mi
uccide vedere persone che sprecano il budget di un film ingaggiando i loro amici o
famigliari. O gente che non ha idea di
come si scrive una sceneggiatura, o di
come la gente parla nella vita vera. Quest’anno completerò quattro film, lavoro
dodici ore al giorno e sette giorni alla settimana, e di rado mi prendo un giorno di riposo.
E i tuoi romanzi? So che per The Second Greatest
Story Ever Told s’era parlato di un adattamento cinematografico…
Un giorno ci sarà. Ma dovrà essere perfetto. Ho
tolto i diritti del libro dal mercato dodici anni fa, e
sto aspettando che le stelle si allineino.
Il tuo nuovo progetto, Every Everything, è stato finanziato con il crowfunding, e la raccolta di fondi
è stata un successo. Credi che sia questo il futuro
del cinema e della musica indipendenti?
Sì, è questo il futuro del vero cinema indipendente. È una barzelletta che ci sia gente che spende
15 milioni di dollari in un film e poi lo definisce
“indipendente”. Non c’è nulla di indipendente in
15 milioni di dollari. Il mio ultimo film a soggetto, Broken Side of Time, è costato 15 mila dollari. È un road movie lungo due ore e sei minuti.
Ed è indipendente in ogni suo aspetto. È probabilmente il film più indipendente che si possa trovare
in giro quest’anno. E, sì, il crowdfunding permette
a un artista di raggiungere direttamente i fan, o
comunque persone che siano interessate in ciò che
sta facendo. È forse la cosa più grossa che sia mai
accaduta al cinema indipendente.
Qual è l’obiettivo che vuoi raggiungere con Every
Everything, rispetto a Color Me Obsessed? A che
punto è il film?
Stiamo per iniziare il sound mix. L’obiettivo è di
farlo girare per i festival, organizzare qualche proiezione speciale, e poi preparare una buona edizione in DVD.
Come mai un documentario su Grant Hart? Forse
per il suo status di “figlio di un dio minore” rispetto alla carriera solista di successo di Bob
Mould?
A dire il vero è venuto prima il concetto di base.
Come dicevo prima, l’idea di un Fog of War in
chiave rock ‘n roll. Con una sola persona intervistata per tutto il film. E dopo una serie di conversazioni con Grant, ho capito che lui sarebbe stato
la persona adatta. È un uomo affascinante, intelligente, divertente, stizzoso e sarcastico. E ha una
storia incredibile da raccontare, la storia di come
sia vivere una vita rock ‘n roll.