anno IV
numero 35
marzo 2007
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Io, il 77 l’ho visto attraverso la matita di Andrea Pazienza, le foto di Tano D’Amico, l’ho letto nelle pagine di Marco
Philopat e l’ho ascoltato in una marea di dischi. L’ho sentito urlare, piangere, cantare, io l’ho vissuto così. Perché io nel
77 non ero ancora nato. Eppure il 77 in un certo qual modo fa parte di me, qualcosa è rimasto. Come l’adolescenza, un
po’ come la cruciale soluzione di conflitto generazionale storico. Oggi, a trent’anni di distanza c’è qualcosa nell’aria
che rende questo compleanno stranamente attuale. Noi, come quasi tutti del resto, non abbiamo potuto esimerci
dall’omaggiarlo. Avevamo pensato di farlo non parlando di musica, ma alla fine è stato impossibile. E abbiamo
scoperto che esistono tanti 77, tante idee intorno all’argomento che non basterebbe un libro a contenerle. Motivo
per cui le pubblicazioni si sprecano, gli speciali, gli extra-qualcosa. Noi abbiamo cercato un taglio aperto al ricordo
e uno sguardo che andasse un po’ oltre quello che è il comune pensare sull’argomento. Non siamo un giornale
“impegnato”, chi ci conosce lo sa, ma abbiamo idee e la convinzione che la nostra non sia e non debba essere una
Blank generation, una generazione vuota: le firme, la vivacità delle penne che affollano queste pagine ne sono la
dimostrazione. Questo giornale è in fondo figlio di un modo di pensare l’editoria sviluppatosi in quegli anni. Quindi
Coolclub.it ringrazia il 77 dedicandogli questo numero. Una serie di interventi, interviste e riflessioni per raccontare
un anno, senza scaletta, legati da un filo emotivo. Dischi freschi di stampa come ogni mese, libri al bacio, film in sala
consigliati da noi. Il ritorno dei Verdena, dei Tre allegri ragazzi morti, quello di Ozpetek. Mentre in Tv va Sanremo nel mio
stereo va il nuovo di Lcd soundsystem ed è ufficialmente il compleanno di Coolclub.it. Il giornale compie quattro anni.
E pensare che il mio primo editoriale era dedicato a Bobby Solo e Little Tony (quell’anno insieme a Sanremo): non ci
avrei mai creduto.
Buona lettura
Osvaldo Piliego
CoolClub.it
Via De Jacobis 42 73100 Lecce
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Sito: www.coolclub.it
Anno 4 Numero 35
marzo 2007
Iscritto al registro della stampa
del tribunale di Lecce il
15.01.2004 al n.844
Direttore responsabile
Osvaldo Piliego
Collettivo redazionale
Dario Goffredo, Pierpaolo Lala,
C. Michele Pierri, Cesare Liaci,
Antonietta Rosato
Hanno collaborato a questo
numero: Mauro Marino,
Giuseppe Scarciglia, Michele
Frascaro, Andrea Rapini,
Berardino Amenduni, Valentina
Cataldo, Camillo Fasulo,
Livio Polini, Federico Baglivi,
Gennaro Azzolini, Nicola Pace,
Giovanni Ottini, Gianpaolo
Chiriacò, Ilario Galati, Elena
Cipresso, Antonio Iovane,
Fulvio Totaro, Davide Rufini,
Claudia Attimonelli, Silvestro
Ferrara, Anna Puricella,
Valentina Sansò, Silvia Visconti,
Rossano Astremo, Sabrina
Manna, Roberto Cesano.
Ringraziamo le redazioni
di Blackmailmag.com,
Primavera Radio di Taranto
e Lecce, Controradio di
Bari, Mondoradio di Tricase
(Le), Ciccio Riccio di Brindisi,
L’impaziente di Lecce,
QuiSalento, Pugliadinotte.net,
Rete Otto e Supertele.
Progetto grafico
dario
Impaginazione
Danilo Scalera
Mago Pancione
Stampa
Martano Editrice - Lecce
Chiuso senza conoscere il
vincitore di Sanremo
Per inserzioni pubblicitarie
Pierpaolo Lala 3394313397
4 Dancing
Queen vs
God save the
Queen
9 Luca Telese
6 Io e il ‘70
11 è davvero
esistito il 77?
13 Keep Cool
23 T.A.R.M.
27 Coolibrì
39 Appuntamenti
24 Verdena
33 Be Cool
46 Fumetto
35 Ferzan
Ozpetek
}
CoolClub.it C
Assioma musicale legato al 1977 è senza
dubbio il Punk. Niente di più sbagliato, o
meglio, limitato. Il ’77 è solo un’espressione,
anche tardiva, del punk (le sue origini vanno
cercate molti anni prima negli Stati Uniti);
sicuramente una serie di fattori, soprattutto
mediatici, lo hanno indissolubilmente
legato alla figura dei Sex Pistols. Il ’77 è un
anno in cui la musica sembra di fronte ad
una scelta. Sarà perché nel ’77 muore Elvis
Presley, e con lui simbolicamente svanisce
un certo modo di intendere la musica e il
rock, sarà perché il clima sociale suscita
nei giovani reazioni diverse e contrastanti,
sarà perché si verifica una sorta di
regressione ideologica o un indirizzarsi su
altri argomenti. In un periodo di profonda
rinascita per la musica, accanto al
nichilismo tipico del punk, si fanno avanti
ed emergono altri suoni, segno di un
sentire diverso un determinato e delicato
momento storico. Il boom economico degli
anni ’60 ha lasciato il posto
a un momento di grande
depressione, e non solo
economica. Questo provoca
una caduta dei sogni e
degli ideali del decennio
precedente e apre le porte
a un mondo musicale che
rifiuta l’estetica del passato
per cercarne una nuova e più diretta. Si
regredisce così a forme più primitive del
rock (vedi il punk) o ancora si cerca una
strada che sia emotivamente specchio di
una depressione generazionale diffusa:
la “blank generation”, una generazione
vuota. E poi i primi germi della new wave, il
reggae, la disco music e tanto altro.
Ecco che accanto al fondamentale Never
Mind The Bollocks, ovviamente dei Sex
Pistols, l’anno ci regala una serie di pietre
miliari che non si possono dimenticare. Il ’77 è
l’anno di un disco che meglio di tutti dipinge
un altro modo di concepire il rock, un disco
che ha fatto tesoro dell’insegnamento
dei Velvet Undergound affiancando alla
musica suonata una sua accezione più
alta e artistica. Il disco è Marquee Moon dei
Television. Il leader della band Tom Verlaine
è la reincarnazione (e il nome d’arte ne è la
prova) di una poetica decadente urbana
(perfetta rappresentazione della “blank
generation”). Dentro questo disco c’è il
punk, ma anche il blues, il free jazz, il folk.
È musica nervosa, ipnotica, desolante che
tanto rappresentava il lato oscuro di quegli
anni e molto anticipava di quello che
avrebbero alcuni gruppi della new wave
dopo.
Un disco fuori per certi versi dai canoni
musicali che lo circondavamo ma intriso
dei sentimenti del periodo. Accanto a loro
David Byrne e i Talking Heads pubblicavano
77 che contiene l’inno generazionale
Psycho Killer.
Nel frattempo a Berlino David Bowie, smessi i
panni glam, affiancato da Brian
Eno è alla scoperta di nuove
frontiere, del futuro. il suo Heroes
è stravolgente per i tempi, è
suggestionato e allo stesso
tempo suggestiona il krautrock.
L’elettronica disumanizza la
musica e diventa messaggio
quasi un monito alla perdita
di personalità, alla sopraffazione della
tecnologia sull’uomo. Sempre del 1977 è
Trans Europe express dei tedeschi Kraftwerk
padri di questo percorso intrapreso anche
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dal “nuovo” Bowie. Un viaggio in cui l’uomo quasi
scompare per diventare macchina, industria, in cui
la melodia si affianca all’ossessione del ritmo e della
velocità. Algidi e sovversivi padri del ritmo melodico e
della melodia meccanica. Un altro disco che in modo
diverso dipinge quest’anno è sicuramente Animals dei
Pink Floyd ispirato da Orwell (La fattoria degli animali), un
disco critico, cattivo, paranoico, che segna il passaggio
prima dell’arrivo al grande The Wall.
Tutt’altro messaggio veniva dalla Giamaica
e da colui che, in pochissimo tempo,
divenne la voce di un popolo, del suo
riscatto.
Parliamo di Bob Marley, l’uomo che portò
il reggae al successo planetario e di
Exodus disco che contiene brani come
Jammin’ e One Love/People get ready.
Accanto alla rabbia, al decadentismo,
all’alienazione e all’impegno un altro sentimento
animava quel sentimento: il disimpegno. Mentre i Sex
Pistols attentavano e oltraggiavano
l’immagine della regina d’inghilterra
in God save the Queen gli Abba la
facevano ballare in Dancing Queen.
Il gruppo svedese pubblicava The
Album in cui svettava la bellissima
Take a chance on me.
Mentre la disco music invadeva le
classifiche nelle sale usciva La febbre
del sabato sera con il quasi sconosciuto John Travolta
e le musiche dei Bee Gees. La disco music era la via di
fuga per chi voleva dimenticarsi delle proprie origini, di
tutto quello che lo circondava e immergersi in un mondo
fatto di glitter, fashion, danza, sesso.
Solo pochi esempi, uno sguardo più ampio a un anno
bellissimo in cui usciva il primo disco solista di Iggy Pop,
si formavano i Police, i Ramones pubblicavano due
dischi, Ian Curtis entrava a far parte dei Joy Division, in
cui ancora non ero nato e ancora oggi mi pento di non
aver avuto vent’anni.
Osvaldo Piliego
Il 1977 è stato per le
arti visive una specie
di spartiacque tra
tutte
le
correnti
artistiche degli anni
sessanta (pop art,
new dada, arte
concettuale ecc.)
e quello che verrà
nei primi ottanta
(transavanguardia
in
Italia,
neoespressionismo
in
Germania
e
graffitiamo
negli
Stati Uniti).
Intanto nel 1977 Andy
Warhol accresceva
il suo conto in banca
ritraendo i grandi
“porci” della Terra con i suoi Vanity
Portraits. Negli States imperava
l’arte iperrealista (o fotorealistica)
con artisti del calibro di Chuck
Close e Duane Hanson. A Firenze in
questi anni sorgeva Art/Tapes/22,
diretto da Maria Gloria Bicocchi,
dove lavorò dal ’74 al ’76 una figura
come Bill Viola. In Europa come in
Italia si sentivano gli ultimi vagiti
della Body Art e della poesia visiva.
Proprio su queste due correnti sii
focalizza l’estetica Punk inglese. Da
una parte parti del corpo trafitte
da piercing e spille da balia, care
a performer della body art come
Sterlarc, a i collage-decollage
molto usate nella grafica punk di
Jamie Reid, una riproposizione dei
“Merz Collage” di Kurt Schwitters.
“Repulsione”
era
la
risposta
all’ambiente sociale inglese dei
lavori grafici di Jamie Reid dei Sex
Pistols. Il disegno più potente che
mostrava meglio la sua inquietudine
fu realizzato durante le celebrazioni
del Giubileo nel 1977, ed era una
fotografia della Regina deturpata
da una scritta realizzata con lettere
ritagliate ed una spilla da balia che
le trapassava il labbro riprodotte
su poster e sulla copertina del 45
giri dei Sex Pistols God Save the
Queen. Utilizzando lo stile agitprop
che aveva perfezionato negli anni
precedenti, Reid parlava per e
a una generazione che aveva
fatto del singolo dei Sex Pistols il
più venduto nella settimana del
Giubileo.
La censura delle radio fece scoprire
che c’era un’altra Britannia, la
cui esistenza veniva formalmente
riconosciuta. La copertina era più
un grido che un quadro: poteva
essere molto grezza
(certamente
Artwork violento?),
questa riutilizzazione
di
un
prodotto
già esistente che
poteva essere presa
come un modello
di
ispirazione.
Lo
era
perché
rappresentava un
messaggio diretto
a
tanta
gente
che per anni è
stata costretta al
silenzio quando tutti
volevano soltanto
urlare. Il Punk è stato
preso
seriamente
quando gli uomini
del marketing e dei mass-media
hanno fiutato l’affare musicale,
vista la sua grande forza di
identificazione, ma Jamie rimaneva
continuamente ai margini e in
guerra con l’industria discografica.
Provocando
sconcerto
nelle
case, nelle scuole e nelle città,
l’immagine Punk è esplosa su mille
giubbotti di cuoio in migliaia di città
diverse, e ha cominciato a divenire
uno stile di vita. Ha dimostrato la
potenza del disegno dei grafici
all’industria della musica e ha
aperto la porta a una generazione
nuova di disegnatori britannici, i
cui scopi erano diversi da Jamie.
Hanno usato la libertà creativa
dell’industria musicale come una
vetrina di lavori emotivamente forti,
non mutilati da compromessi sociali.
La loro influenza si è diffusa dalla
musica alla moda, dai mass-madia
fino a condizionare il consumatore.
Politicamente, il punk è stato un
singhiozzo rivoluzionario nel clima
reazionario inglese. Nel periodo
in cui il Punk passava attraverso
lo spettro del marketing dalla A
alla Z nuovo, Jamie è rimasto a
distanza dal mondo commerciale,
solamente una breve apparizione
con un suo manifesto dal titolo
Lettera a Brezhnev, collaborando
con Frank e Margi Clarke. Negli
anni 70 il veicolo erano i Sex pistols
e Jamie poteva nascondersi dietro
ai suoi disegni. Ma lo slogan che ha
concepito per un poster “Ognuno
può essere i Sex Pistols” ha anche
voluto dire per lui che il prossimo
lavoro era più di un affermazione
delle sue ispirazioni (da Up the Rise,
catalogo della mostra di J. Reid).
Giuseppe Scarciglia
CoolClub.it C
Lecce1977.
C’era ‘Popof’di Carlo Massarini e Massimo
Villa alla radio e io chiuso in macchina mi
sintonizzavo per ascoltare musica e i ‘gr’
che dicevano gli scontri e le vittime di quei
giorni di piombo. Erano i ‘settanta’ e qui,
nell’estremo sud-est le cose arrivavano di
lato, come una botta al fianco. Sospiravo
passioni ed incazzature. I primi erano già in
giro a Firenze, a Bologna, a Roma da poco
universitari e poi Lecce non è mai stata
veramente città ai margini e, in quegli anni,
la tensione salì anche qui. Città universitaria
con un buon movimento studentesco nei
licei e negli istituti tecnici viveva la sua
bagarre politica con frequenti confronti tra
parti. “Fascisti e comunisti” era una battaglia
che animava le serate di nutriti gruppi di
giovani che si davano da fare crescendo,
un tempo di aggregazioni, di lotte, di amori.
Disegnando destini. L’ala creativa coltivava
le sue utopie: fanzine, gruppi musicali,
tentativi di teatro nutrivano l’illusione postpolitica. C’erano linfa e talenti e tutto
sembrava poter fiorire, al riparo da tensioni
e insane radicalizzazioni militari. La stessa
autonomia ‘operaia’ era una frangia che,
nei riguardi della tenuta militare delle fazioni
‘marx-leniniste’ e alla verve ideologica
e pragmatica dei gruppi della nuova
sinistra’, appariva più come una gioiosa
confraternita post-hippie. La Chiesa Greca
era divenuta in quegli anni il ‘quadrato’
delle esperienze di radicalizzazione politica.
Autonomia aveva il suo palazzo occupato,
e il Movimento Lavoratori per il Socialismo il
suo fortino.
Il primo ricordo è una vespetta verde con
due a bordo che trasportavano una grande
bandiera rossa, avevo undici anni, ed era
il 1967, il mio ingresso nella scuola media,
diventavo ragazzo. Avrei avuto ventuno
anni nel settantasette, e il mio crescere è
tutto racchiuso in quei dieci anni di travagli
esistenziali, di avventure, di clamori che
hanno mischiato la vita. Negli occhi il
‘movimento’ o più che altro il continuo
muoversi delle cose.
Ma più di tutto, se mi racconto vengono
persone a cui ho prestato fede.
Sempre mi sono lasciato accompagnare
nel desiderio di costruire in libertà il
percorso, per dar forma alla mia visione
della pratica creativa e della poesia. Agire
nell’attenzione, nel presente, per meglio
cogliere l’ attitudine al volo, alla planata,
allo sfiorare la lingua, l’espressione, le sue
modalità, per meglio comprenderla negli
altri, nel suo mostrarsi, dichiararsi. Nei poeti
come nel largo dell’arte, della creatività,
del fare propositivo, costruttivo e capace
di prefigurare, non solo opere, ma sempre,
una differente qualità della vita, delle
relazioni e dello stare a vivere. Questo
l’insegnamento post-politico degli anni
settanta per chi come me di quell’epoca e
a lungo poi, è stato “pubblico”, testimone,
con gli occhi aperti a guardare e a nutrirmi.
Dicevo guide: legami, molto spesso vissuti
in ascolto, a cogliere con lo sguardo,
provando in un apprendimento sempre
artigiano, da bottega. Prima “i più grandi”
nella adolescente vita di strada. Biciclette,
corse in campagna, incursioni notturne
nei caseggiati in costruzione della prima
periferia leccese, che costruiva la sua
circonvallazione in un epoca di ‘battaglie’
man mano divenute politiche. E’ stata
la politica l’elemento chiave di quella
socializzazione. Non capivo, ma percepivo
che l’idealità non era nello stato delle cose,
bisognava cercar altro, tentare altro, anche
quando molti anni dopo, ho scelto il teatro,
la fascinazione artistica, la poesia. Tutto s’è
mescolato nella politica, da quella stagione
di formazione vissuta per strada.
Prima fascista son stato. Subito appena
in strada, fascisti erano i miei pari,
anche se da qualche parte filtrava
l’infatuatuazione per i primi ascolti musicali
‘impegnati’: Beatles, Jimi Hendrix, Cream,
la pscichedelia americana. Chiusi in una
stanza a divagare di hippy, delle gioie di
Woodstock, imparavamo ad aggiustare il
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Un movimento, intanto, esiste. Non è un problema se non riuscite
ad attribuirgli le giuste dimensioni o le opportune etichette; se non
riuscite a trovare la sede unica di questo soggetto; se è difficile
ridurre le tante idee presenti in un unico pensiero. Quando serve,
un movimento c’è.
La lotta dei cittadini di Scanzano Jonico per difendere il proprio
territorio dalle scorie nucleari, lo sciopero a oltranza degli operai di
Melfi o la protesta delle famiglie di Termini Imerese per difendere il
lavoro, rappresentano dei fatti assolutamente straordinari all’interno
del panorama politico e sociale italiano. Non un movimento
politico, non solo. I cittadini della Val di Susa, o i duecentomila
di Vicenza non rappresentano una forma di opposizione ideale
alla politica del governo. Non solo. Sono fatti che parlano di
una voglia di partecipare da parte dei cittadini e, insieme, di un
deficit di rappresentanza. I partiti non sono più il tramite, il collante
tra le istanze della gente e i diversi livelli istituzionali: c’è troppa
distanza e, spesso, una forte autoreferenzialità. Ma, c’è dell’altro:
le posizioni che il movimento assume sui vari temi sono così radicali
(nei contenuti) che non riescono più a trovare una sponda limpida
e sicura all’interno del dibattito politico, troppo preoccupato nel
mantenere equilibri e interessi intatti. Da qualunque parte. Dal
livello nazionale a quello locale. Non può destare meraviglia che
un movimento contro la guerra si opponga alla costruzione di una
base militare, o protesti perché in Italia le spese militari continuano
ad aumentare. Si è per la pace, come scelta politica, non per
slogan.
Se i Cpt sono non luoghi vanno chiusi, non si possono superare. A
danno dei migranti. Se la legge 30 ha moltiplicato la precarietà,
ad ogni livello, va abrogata, non può essere superata. A danno
dei lavoratori. Le rivendicazioni del movimento non possono essere
ricondotte ad un’esibizione folcloristica, da relegare in spazi ben
tiro al desiderio. Era lo spirito del tempo che
iniziava a dettare le regole di un divenire
globalizzato che, con gli anni del boom
economico (i magnifici ‘sessanta’ della
dolce vita e delle cambiali) attraverso le
merci ed i consumi, aveva iniziato a rodere
la distanza tra centro e provincia.
Tra i fasci di guide ce n’erano, ‘arditi’ più
che altro, ma non buoni maestri. L’idealismo
mischiato alla nostalgia, aveva un che di
macabro, nessuna energia mutante, solo
atti più o meno valorosi per temprare,
per far ragazzi coraggiosi, assalti ai rossi e
presidi alle sedi. L’ultimo atto d’una guerra
civile ancora non digerita che aveva i suoi
scampoli tra i giovanotti schierati: fascisti
e comunisti, ma anche poi, strategie
terribili attentati, bombe, scontri, grande
tensione. Piazza Fontana per me è la leva
di consapevolezza e la scoperta d’un
altro agire, fare, credere. Da solo però, a
guardare, per molti anni nel movimento
da outsider e poi nella “follia intellettuale”
del PdUP (Partito di Unità Proletaria per il
Comunismo) con tante buone guide, di
pensiero, di riflessione, persone che ancora
stimo: Elettra Ingravallo, Piero Fumarola,
Franco Ungaro, Chino Salento, Gigi Perrone.
Da qui la mia sociologia (Urbino nel 1978),
la scelta di studiare elaborando tra teorie e
pratiche una mia idea del lavoro culturale.
Mi piacquero subito degli studi di sociologia
sud-americana. Il sociologo militante,
protetti.
Al
contrario
r a p p r e s e n t a n o
u n ’ a u t e n t i c a
piattaforma
di
un
programma di governo,
e che trova serie difficoltà
ad essere attuato da
chi si è proposto come
referente politico del
movimento stesso. Sono
idee che stanno alla base
di un progetto di società
diversa, sono quelle idee
che, a livello globale, ti fanno parlare di un altro mondo possibile.
Ma, attenzione: perché anche il movimento rischia seriamente di
fallire la propria missione, e questo è bene dirselo. Senza andare
lontano, l’ultimo appuntamento di Nairobi ha smascherato, ove
ancora ce ne fosse bisogno, quanto stia diventando elitario e
borghese, il movimento: e, d’altronde in Africa non sarebbe
potuta andare diversamente. Biglietti d’ingresso al forum troppo
costosi per i poveri, l’acqua venduta in bottiglie di plastica, il cibo
troppo costoso in una terra dove migliaia di bambini muoiono
di fame. E poi, i nostri delegati della Tavola della pace, delle
amministrazioni locali, alloggiati in lussuosi alberghi a cinque stelle,
in compagnia di ogni tipo di prelibatezza. C’è da pensare, se si
vuole costruire nei fatti e non solo con gli slogan, un altro mondo
possibile. C’è poco ancora da analizzare, lo si è fatto ormai per
troppo tempo; è ora che il movimento progetti interventi concreti
e azioni precise, per non rimanere vittime di illusioni. Tutti.
produttore di consapevolezza, non
scienziato, non separato, non numeratore
di questioni e fenomeni quello che poi
anni dopo ho realizzato con Motus ( Urbino
1985, la mia prima formazione di lavoro
culturale) e nell’incontro con Danilo Dolci.
Sperimentare la possibilità del contatto con
chi ha dato alla sociologia una poetica,
una tensione di accoglimento, di ascolto
dell’altro per muovere cambiamento,
sviluppo, progresso nella misura delle
necessità, delle priorità, del reciproco
adattamento creativo.
Nel mezzo di questi due momenti c’è
l’incontro, a Lecce nella seconda metà
degli anni settanta con Luigi Lezzi e
Stefania Miscuglio, teatro di strada,
pantomime ma anche una eccezionale
ensamble di musicisti Toni Robertini,
indimenticato compagno di vita, con la
Mela d’Oro sino a Bandaid, passando per
il Collettivo musicale di Terra d’Otranto.
La comunità hippie, l’ensamble creativa
si realizzò con viaggi di spettacolo che
attraversavano il sud d’Italia portanto il
Jazz e una formidabile energia condita
di fuochi d’artificio e suoni di banda. Una
vecchia Anglia, un furgone Volkswagen e
la mia vespa, i locomotori. Il teatro, quella
l’origine di un interesse sempre nutrito e in
progressione: l’infatuazione e la militanza
grotowskiana, i Festival di Sant’Arcangelo,
le esperienze urbinati, il clown, le prime
Michele Frascaro
autonomie produttive, sino alla lunga e
bellissima parentesi con il Teatro della
Valdoca di Cesare Ronconi e Mariangela
Gualtieri negli anni 90.
C’era stato il venir via da Urbino nel
1989, dopo Motus e venne l’incontro con
Antonio Verri nella stagione di Astragali,
l’inizio dell’avventura del laboratorio Santa
Maria del Paradiso verso il Fondo Verri e
le scene con Patrizia Rucco coreografa
della compagnia di teatro danza Skenè, a
realizzare il mio settantasette.
La relazione questo il centro. Oggi che “arte
relazionale” è divenuto un termine ed un
valore diffuso, io sorrido. Non lo chiamavo
così il mio agire, ma adesso è chiaro dove
inquadrarlo, come meglio comprenderlo.
Vengo comunque da lì da quegli ascolti,
da quelle spintonate d’energia cresciute
per strada, da quel camminare svelto
traversando le ‘cose’ del tempo a fronte
alta, trattenendo il respiro quando la botta
al fianco arrivava forte. Aperto sempre, è
sono felice d’aver costruito un percorso
originale, denso di occasioni e di incontri
che sempre rinnovano l’entusiasmo e la
vitalità del lavoro. Guardando, guardando
mi son fatto vivo!
Mauro Marino
Mauro Marino è attore, scrittore, operatore
culturale. Insieme a Piero Rapanà è anima
del Fondo Verri di Lecce
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Trentasette anni, giornalista, scrittore,
autore e volto televisivo (è da poche
settimane in onda su La7 la sua nuova
creatura Tetris), Luca Telese cura una
interessante collana per la Sperling &
Kupfer. Le radici del presente, spiega
lo stesso Telese, “raccoglie libri che si
propongono di uscire dal purgatorio
infinito delle memorie indeterminate, per
accendere qualche piccola candela che
illumini questa terra di nessuno così vicina
e impervia, il nostro passato prossimo”. I
primi volumi, alcune in realtà sono delle
ripubblicazioni, hanno avuto un ottimo
riscontro tra il pubblico come nel caso di
Nicola Rao e della sua Fiamma Celtica.
Lo stesso successo che pochi mesi fa
Telese ebbe con Cuori Neri nel quale il
giornalista, formatosi professionalmente
e culturalmente in ambienti di sinistra
come Rifondazione Comunista (è stato infatti nell’ufficio stampa
del partito di Bertinotti) e Il Manifesto, ripercorre con minuzia di
particolari l’assassinio di 21 giovani militanti di destra durante gli
anni di piombo.
La prima domanda è personale. Tu sei nato nel 1970. Che ricordo
hai del 1977?
Un ricordo terribilmente vivido. Ad esempio i giorni in cui rimasi
imbottigliato, il 12 marzo, insieme a mia madre nei vicoli del centro
storico di Roma, mentre piovevano i lacrimogeni, e la gente ci
tirava i limoni dalle finestre. Gli anni di piombo, per quelli della
mia età, sono allo stesso tempo la favola dell’orco e il sogno
psichedelico della nostra infanzia.
Come mai il 1977 viene considerato un anno così importante nella
storia italiana?
È un anno cardine, ed è quasi inutile
ricordare perchè: l’anno in cui di fatto
muore la strategia del compromesso
storico, l’anno dell’ultima e più feroce
guerriglia generazionale che questo
paese ricordi fra padri e figli, l’anno
zero per la sinistra italiana, che dopo il
massimo storico del 1975 e del 1976 si
ritrova dilaniata tra guerre di religione
intestine. E poi è l’annus orriblis della
lotta armata: record di gambizzazioni
e sequestri, l’anno della guerra e del
coprifuoco. In questi dodici mesi si
compie tutto: dalla creatività alla
guerriglia, dall’utopia dell’alternativa
che sembra ad un passo al tunnel delle morti per eroina.
Qual è stato l’avvenimento più importante del 1977?
Ce ne sono tanti: ma direi che la cacciata di Lama e la morte di
GIorgiana Masi possono raccontare tutto quello che ho detto.
Dal libro Cuori Neri alla collana Le radici del presente stai portando
avanti un interessante percorso di rilettura critica dell’Italia di questi
ultimi quarant’anni. Ma è veramente così difficile “pacificare”
questa nazione?
Assolutamente sì, ci vorrebbero i carri armati. E non potendo
ricorrere a quelli, risucire ad affermare un piccolo grande principio
che ispira la mia collana. Non esiste una memoria, ma “delle”
memorie. E l’unico modo per tenerle insieme non è la “memoria
condivisa” vagheggiata da Carlo Azeglio Ciampi (ci ho creduto
pure io, adesso mi sono arreso), ma almeno quella composta,
partecipata, che ti permette di tenerti il tuo frammento di verità,
ma almeno di conoscere anche quello dell’altro. Nelle Radici del
presente mi sono imposto di documentare il più ampio numero
possibile di punti di vista, anche quelli che non condivido. Non si
può arrivare alla verità per rivelaizoni, o per guerre egemoniche,
solo per approssimazione, direi. E mi pare già tanto. Ma di una
cosa sono convinto: se non si ricuciono le ferite dell’odio del nostro
passato prossimo, non si risolvono nemmeno le guerre per bande
del tempo che stiamo vivendo.
In Cuori neri hai raccontato gli omicidi dei militanti di destra molto
spesso dimenticati. Hai ricevuto qualche critica ma soprattutto
molti apprezzamenti anche da giornali come Liberazione e
Manifesto. è un buon segno (politicamente parlando) oppure è il
riconoscimento di un lavoro di ricerca minuzioso e imparziale?
Direi che le critiche positive, sopratutto all’inizio sono state una
sorpresa. Ma in un anno sono riuscito anche a incontrare schegge
e frammenti di intolleranza che non mi aspettavo potessero
sopravvivere. Non mi aspettavo un assalto all’arma bianca, in
piazza, a Bologna. Esiste una archelogia dell’odio, in questo paese,
tanto stratificata quanto radicata. Ci vorrà forse mezzo secolo,
ma forse riusciremo ad estinugere anche le fonti avvelenate delle
tifoserie ideologiche da stadio.
Qual è il lascito politico degli anni ‘70? Cosa pensi degli arresti
delle nuove Br e del ritorno di personaggi come Scalzone?
Su Scalzone andrebbe fatta una riflessione più complessa e
articolata. Però, se posso porcedere per titoli, è una sorta di
paradosso vivente. Il suo carisma è atipico, non si impone
per la leadership, ma per il senso di protenzione che ispira agli
ascoltatori. Il fatto che gli squarci della sua radicalità e del suo
ribellismo siano annegati fra citazioni di Spinoza, di Hegel, di
Truffaut o di Shakespeare, non riduce la gravità e la forza del suo
massimalismo da irriducibile.
Una domanda faceta (Coolclub.it è pur sempre un giornale
musicale). Cosa pensi della musica della fine degli anni ‘70 (se
non sbaglio ami il prog)?
Il progessive potrebbe essere preso per una metafora di tutto quello
che ho detto, di un’epoca, e forse di più. In ogni presentazione
che faccio, infatti, provo a dire che la chiave per capire l’utopia
e il senso di tragedia degli anni di piombo, la spensieratezza
dei grandi ideali, e la durezza della lotta armata, il vento forte
della rivolta, e la bonaccia della sconfitta, bisogna introdurre
una paroletta che di questi tempi è fuori moda: la complessità.
Ebbene, il pop è semplice, il progressive è complesso. Non puoi
capire il ‘68, il ‘77, gli indiani metropolitani, Berkley, Bob Kennedy,
Soldato Blu, il Laureato, Pazienza e Brubacker, il Pci e gli autonomi,
i giovani ribelli di destra e i golpisti, se non hai mai sentito, per dire
Selling England by the Pound. Non puoi
spiegare la coesistenza magmatica degli
opposti se non hai mai sentito Darkside
of the moon, se non hai compulsato la
partitura di Wish you were Here, se non
ti sei mai addentrato in The court of King
Krimson. C’è stato un tempo in cui si poteva
sognare di abbattere ogni frontiera,
anche quando si era apparentemente
rinchiusi dentro il reticolo chiuso di un
vinile. E invece adesso, anche dopo che
il digitale ha abbattuto ogni frontiera,
siamo compressi nel respiro asfittico del
gingle, dei successi derivati dagli spot, dei
fotogrammi e dell’insostenibile leggerenza
del pop. È per questo che quel ventennio di rivoluzioni musicali
che si aprono con i Beatles e si chiudono con The Wall potrebbero
essere il palinsensto perfetto per una scansione storiografica degli
anni di piombo. Ma questa, come si dice, è un’altra storia. (pila)
CoolClub.it C
10
CoolClub.it
“Il ‘48, il ‘68, il prosciutto
cotto..”: con queste parole,
uno dei più grandi sociologi
del secondo novecento
italiano - Rino Gaetano
- sbeffeggiava le fitte
retoriche sugli anni cruciali
del nostro passato collettivo,
quegli anni che vengono
sempre
seguiti,
manco
a
dirlo,
dall’aggettivo
rivoluzionario.
A
quella
sequenza
si
potrebbe
serenamente aggiungere il
‘77 che, a nostro modesto
avviso, è assente dal testo
menzionato soltanto per
problemi di rima. Esegesi
personali e non autorizzate
a parte, il ‘77 resta un vero
buco nero della storia
repubblicana, un evento
imprendibile a distanza di 30 anni dal suo dispiegarsi. Una distanza
che ormai dovrebbe consentire una lettura critica di
quell’annus terribilis come avvenne per altri episodi chiave
della storia nazionale. Basti citare la Resistenza la quale
- benché non certo esente da vertiginosi usi pubblici e
politici - dopo appena otto anni incontrava uno dei più
fertili e duraturi tentativi di ricostruzione storica (Roberto
Battaglia, Storia della resistenza, Einaudi, Torino, 1953). Il
destino del ‘77 è diverso. Eppure le interpretazioni non
mancano. Anzi, tre distinti campi hanno concorso ad
erigere una selva di rappresentazioni che ci allontanano
dalla reale comprensione di cosa sia stato realmente il
‘77.
Il primo è quello della memoria dei protagonisti. Dopo
aver esplicitamente sostenuto in un libro uscito a caldo
(Autori molti compagni, Bologna ‘77. Fatti nostri, Bertani,
Verona, 1977) che il ‘77 rifuggirà indisciplinatamente all’ordine del
discorso degli storici, intasano puntualmente ad ogni anniversario
tutti i mezzi di comunicazione raggiungibili. Ma la memoria, che
pur è una funzione importante per la costruzione delle identità
individuali e collettive, resta fisiologicamente imprigionata nel suo
punto di vista parziale. In questa prospettiva, si ripropongono come
un riflesso pavloviano le immagini di sempre: la cacciata di Lama
dalla Sapienza a Roma, il mite Lo Russo caduto sotto i colpi dei
carabinieri a Bologna, Radio Alice e la stantia contrapposizione
tra «creativi» e «duri e puri», Kossiga la vipera velenosa, infine,
nelle versioni più raffinate, la natura profetica di una insorgenza di
«non garantiti» (leggi oggi: precari). Troppo poco. Davvero troppo
poco per parlare di un movimento periodizzante nella storia del
‘900.
Di contro, si erige da trent’anni la rappresentazione dello stato,
degli uomini di allora e dei loro eredi nel governo del Paese. Il
discorso proveniente da questo campo lascia forse ancora più
interdetti coloro che all’alba del Terzo millennio vogliono capire
i conflitti del Novecento e progettare una società migliore per il
Terzo millennio. Si possono prendere in prestito le parole di Sarkozy,
ministro dell’Interno della Quinta Repubblica francese, che a
proposito del ribollire delle banlieus parigine così si è espresso:
«racaille», feccia. Dunque il ‘77 sarebbe il gesto disperato del
«fondo» del secolo morente, i reduci di un estremismo ideologico
e violento, gli scarti che le istituzioni hanno giustamente represso e
spazzato via. Da ultimo vi è il campo dei media il quale, salvo rari
casi, non ha fatto altro che appoggiarsi ora alla memorialistica
dei reduci, appaltando inopinatamente paginate di interviste agli
ex, ora al discorso dello stato e ai figliocci di Cossiga, che, nelle
prove più deliranti, spalmano su almeno trent’anni di vicende
11
complesse la categoria destoricizzata di terrorismo: il ‘77 alle origini
de rapimento Moro, il ‘77 alle origini delle BR vecchie e nuove,
il ‘77, perché no, ispiratore del terrorismo islamico. D’altronde,
cosa è stato il «nine-eleven» se non un gesto spettacolare, quello
spettacolo che i settantasettini distillavano in gocce di rivoluzione.
E prima di loro i dadaisti, i surrealisti, i futuristi. In ogni caso tutto il
peggio del ‘900! In questa babele di discorsi contrapposti, del ‘77
quale esso è stato non sappiamo ancora niente. Cosa succedeva
a Lecce intorno a quegli anni? E a Palermo, Napoli, Venezia? Si può
parlare di un movimento solo in virtù della mobilitazione di gruppi
radicalizzati di due o tre città? Quali i soggetti protagonisti? Quali
i conflitti generazionali? Quale la cornice internazionale, oppure si
deve concludere che si sia trattato di un caso periferico? Come
si ridefiniscono le culture politiche? E che ruolo ha il consumo
nell’erodere i tradizionali riferimenti politici della sinistra? Come
incide sulle istituzioni e sulle forme della politica ecc. ecc.
Insomma, in attesa di qualche risposta proveniente giocoforza
dalla generazione dei trentenni di adesso che con astuzia
diffidano non solo delle pratiche di etichettatura delle istituzioni
e dell’autoreferenzialità delle «memorie divise», ma anche dei
professionisti dell’opinione pubblica, dei mercanti della notizia,
non paia troppo iperbolico il titolo di queste note: «è davvero
esistito il ‘77»?
Andrea Rapini
Diffuso in seimila copie da un piccolo editore alla
fine del 1976 Porci con le ali di Rocco e Antonio,
pseudonimi dietro cui si celavano gli scrittori Marco
Lombardi Radice e Lidia Ravera, ci mise poco a
diventare un libro cult per la generazione del ‘77.
Diario di due adolescenti di sinistra alle prese con
le lotte politiche e l’emancipazione sessuale, il
libro offre un ritratto autoironico e scanzonato
della generazione “contro” italiana. Il racconto
si dipana tra avventure sessuali promiscue e
consumate in fretta, tra tradimenti e amori
impossibili, tra la scoperta del sesso opposto e di
quello omologo, tra infatuazioni per l’intellettuale
rivoluzionario e la studentessa annoiata di turno.
Quello che emerge nel modo più forte è il desiderio
di sperimentare, di trovare nuove strade, e l’impossibilità in
definitiva di riuscire a staccarsi completamente da quelli schemi
borghesi cui i protagonisti per nascita a tradizione erano legati.
Di un paio d’anni successivo, ma ambientato nella Bologna della
‘77 è Boccalone di Enrico Palandri, una storia d’amore dai primi
incontri nelle piazze della Bologna universitaria settantasettina
fino alla separazione e al dolore che ne consegue, forza motore
della stessa realizzazione del libro. E sullo sfondo c’è la politica,
un mondo lontanissimo dagli eventi tra cui il protagonista si
muove: tutto l’interesse di Enrico è per Anna, non c’è posto
per nient’altro, ed infatti gli unici momenti in cui il protagonista
partecipa a riunioni di collettivo, incontri alla radio e alla stesura
di riviste clandestine sono quelli in cui Anna, per un motivo o
per l’altro è assente. Significativo per descrivere il clima sociale,
ma soprattutto interiore, in cui nasce questo libro è l’ultimo
capoverso della dedica comparsa nella prima edizione: “A
quelli che capiranno che questo non è un romanzo e che io non
sono uno scrittore, che di stronzi è già pieno il mondo”. Ma cosa
è rimasto di quelle atmosfere, di quella voglia di spensieratezza
mischiata alla serietà delle armi e dei bastoni? Al di là delle
giuste considerazione sulla reale portata rivoluzionaria di una
stagione di lotte, quello che c’è da chiedersi oggi è se siamo
ancora in grado di stupirci di fronte a certe cose, o se siamo
tutti, irrimediabilmente, diventati più “maturi”, e l’idea che se si
è incazzati si possa spaccare una macchina, o se si ha voglia di
fare sesso lo si possa fare col primo sconosciuto visto sull’autobus,
ci scandalizzano più per stanchezza che per vero pudore. In
fondo è vero che di stronzi è già pieno il mondo e di questi quanti
hanno respirato l’aria del ‘77?
dario
Keep Cool
Pop, Alternative, Metal, Elettronica, Lounge,Italiana, Indie
la musica secondo coolcub
Lcd sound system
Sound of silver
Dfa/Emi
Dfa-sound / *****
Non a caso questo album è stato eletto
disco del mese. Non a caso in questo
numero dedicato al 77. James Murphy
è stato ed è ancora a pieno titolo
un rivoluzionario, uno dei nomi che si
nasconde dietro la sigla Dfa. Dfa (Death
from Above) è l’etichetta discografica
che ha scritto una nuova estetica del
suono. Ha preso il post-punk, la new
wave, il rock e li ha messi a braccetto con
la dance, la techno. Il risultato all’inizio è
stato deflagrante. Nascono definizioni
come punk-funk che sembra recuperare
la prima house per superarla. Oltre a
una serie di compilation la Dfa pubblica
i Rapture (solo per fare un esempio)
gruppo manifesto del nuovo stile.
Ma la mente illuminata del nostro Murphy
si cela anche dietro a Lcd soundsystem. Il
primo omonimo album è uscito nel 2005 è
ha sorpreso tutti per la capacità di mettere
insieme gli Stooges, Brian Eno, New Order,
gli !!!. Dopo averlo ballato per due anni
tutti lo aspettavamo alla difficile prova
del secondo episodio. Ripetersi sarebbe
stato troppo comodo, ha dichiarato
anche lo stesso Murphy. Impossibile per
lui non cambiare, non evolversi. Perché
il signor Lcd sembra avere il dono, la
sensibilità di sentire, filtrare, distillare, far
suonare la sua città: New York. Questo
nuovo Sound of Silver sembra essersi
scrollato di dosso un po’ di sporcizia
rispetto al precedente, corteggiato e
conquistato da una piega più dance. Ma
l’attitudine, quella è intatta. Le ritmiche
ti suonano in faccia, i sinth sembrano
recuperati da una cantina rimasta chiusa
trentanni, rispolverati e messi a punto per
l’occasione. Il gioco analogico, sintetico
funziona come non mai, il campanaccio
di Time to get away è irresistibile, ogni
tanto da lontano sembrano arrivare
altre canzoni, altri suoni (sarà il passato
o il futuro?). La strumentazione rock è
perfettamente a suo agio tra beat e
bassi che sembrano suonati nel tunnel
del metro. Ci sono momenti in cui il nostro
si dimostra più emotivo (Someone Great),
il loop di piano in partenza sembra non
possa mai diventare la bellissima, pop
e un po’ New Order style All my Friends.
Episodi come Us v Them sono un po’ più
allucinati come la title track dal sapore
house. Ma è la finale New york I love
you a lasciare sbigottiti. Una ballata
struggente, stanca, arrugginita come la
fine di una notte sfrenata, sullo sfondo le
prime luci dell’alba e la città che ami. Se
volete sapere che suono ha il 2007 Sound
of Silver è il disco che ve lo spiegherà.
Osvaldo Piliego
KeepCool
14
Sondre Lerche and Faces Down
Phantom Punch
Virgin
Power-Pop / ****
anche se vorresti piangere. Undici
splendide poesie di sei splendidi/e poeti/
esse di qualche tempo fa che si prestano
perfettamente ad essere arrangiate e
adattate musicalmente. Dal cartoncino
opaco del booklet, dalle fotografie in
copertina, dalla scelta dei testi e degli
autori non di certo fatta a caso - Parker,
Yeats, De La Mare, Dickinson, Auden,
Rossetti - si ha una ulteriore conferma del
gran gusto, oltre che della classe e della
poesia, di Carla Bruni. A quattro anni da
quel Quelqu’un m’a dit che aveva fatto
della modella una cantante, quanto bello
è stato sentirla cantare, voce bassa un po’
rauca, in francese? Esce ora No Promises.
Open disc con contenuti esclusivi e piccole
biografie di tutti gli artisti contenuti. Nessuna
promessa ma un caloroso consiglio.
Valentina Cataldo
Air
Pocket Symphony
Virgin
Avant-pop / ***
Quasi da non crederci. Sondre Lerche non ne sbaglia una. Lo avevamo lasciato
l’anno scorso alle prese col cocktail jazzato mezzo Bacharach mezzo Sinatra delle
Duper Sessions, e lo ritroviamo oggi con un bellissimo disco sorprendentemente rock,
dirompente e scanzonato. Niente miracoli, sia chiaro, ma con queste undici canzoni
neanche-una-brutta, questo giovane norvegese potrebbe mandare a casa metà
della pletora di gruppi oggi in circolazione che iniziano per the e finiscono per s. I suoi
compari Faces Down rumoreggiano a volume alto e tingono di colori saturi la sua
scrittura capace e brillante. Canzoni gustosamente pop, dal piglio facile, costruite
con maestria e tecnica impeccabile, ti si appiccicano sopra e non si scollano per
un po’. Ennesima prova di un talento che continua a maturare senza flessioni da
quando aveva 17 anni (quattro dischi fa) e che fa quasi invidia così bravo, carino,
biondo e con gli occhi azzurri. Magari gli puzza l’alito.
Giovanni Ottini
Mika
Life in Cartoon Motion
Island
Pop / **½
Non capivo. Mi sento
meglio. Il mio voto
resta lo stesso, ma
è stato comunque
consolatorio per me
sapere che un po’
dovunque
Mika,
almeno per la critica,
appaia
piuttosto
lontano da quello che autoreferenziali
spot definiscono “la prossima superstar”.
Non si può dire che sia partito male: Grace
Kelly è un tormentone intelligente, e se
dopo il secondo ritornello dichiarate di
non avere un deja-vù dalle parti di Freddie
Mercury, siete bugiardi (o fan intransigenti
dei Queen). Attorno al singolo azzeccato,
altre nove canzoni le quali, dopo ripetuti
ascolti, non offrono prove inconfutabili
del (presunto?) talento di questo ragazzo
libanese (23 anni), fuggito dalla guerra
nel suo paese e a Londra da quando, di
anni, ne aveva nove. Se gli Scissor Sisters
sono un frullatore del pop metrosessuale,
Mika frulla le “Sorelle” con Queen e Rufus
Wainwright… L’originalità? No, grazie.
Qualche buono spunto c’è (Any other
World, Stuck in the middle) e anche una
discreta dote vocale. Che dite, aspettiamo
il secondo cd prima di massacrarlo anche
noi?
Berardino Amenduni
Carla Bruni
No Promises
Naïve
pop / ***
Piacevole come una
notte a Parigi col vento
freddo e la luna piena,
delicato come il folk,
triste come un blues. Un
cd che va di sottofondo,
che non toglie i pensieri
dalla testa quando ne
è piena, non ti sveglia
se stai dormendo, non ti commuove
C’era molta attesa per
il quinto album degli Air.
Il motivo? Le loro scelte
artistiche e le possibili
chiavi di lettura. Prima di
tutto, nuovo produttore:
Nigel Godrich, fondamentale
nei
lavori
dei Radiohead. Poi,
il lavoro solista di Jean Benoit Dunckel
(a nome Darkel), un album piacevole
ma che nulla aggiunge alle sonorità
canoniche del duo. Poi, la produzione del
successo di Charlotte Gainsbourg (l’Album
5.55, che vanta le stesse collaborazioni di
questo Pocket Symphony) e, ancora, una
zingarata nel mondo del cinema (hanno
collaborato con Sofia Coppola per Marie
Antoinette). Se vogliamo, tutto poteva
essere letto come un possibile segnale di
cambiamento. Così non è. Godrich non
appare così influente, fatta salva Mayfair
Song, che potrebbe essere tranquillamente
una traccia dei Radiohead. I due ospiti,
Neil Hannon e Jarvis Cocker (ex cantante
dei Pulp) non graffiano. L’unica vera
novità è l’utilizzo di strumenti musicali tipici
della cultura giapponese (un “koto” e uno
“shamisen”) che conferma la ricercatezza
e l’eleganza del duo. In personalità,
invece, gli Air stentano un po’. E chissà con
qualche grande voce femminile (come nel
loro superlativo primo album, Moon Safari),
cosa sarebbe venuto fuori.
Dino Amenduni
The Datsuns
Smoke & Mirrors
Hellsquad/V2
Rock / ***
Soffiandonuvolonidifumosomafurentegarage
r’n’r davanti ad una lastra di lucido acciaio,
The Datsuns giocano a fare gli illusionisti…
e ci riescono benissimo. Senza nessuna
finzione sprigionano un’energia che senti
davvero autentica. Anticipando i conterranei
Wolfmother, però, The Datsuns avevano già
dimostrato cosa si può ottenere mandando
a memoria un’intera enciclopedia del rock,
dalla “A” di Ac/Dc fino alla “Z”… quella dei
mitici Zeppelin (Led Zeppelin, ovviamente).
KeepCool
Con il precedente Outta Sight/Outta Mind
(2004), produzione firmata addirittura John
Paul Jones, avevano forse calcato troppo la
mano sul versante heavy e questo li aveva un
po’ castigati. Ora che invece hanno ripreso
a suonare ciò che sanno fare meglio è tutta
un’altra storia. Certo, le influenze sono sempre
fin troppo evidenti ma, mischiando hard rock
& garage punk, riescono a recuperare quel
gusto istintivo ed appassionato di suonare
senza pensare troppo al risultato finale: suoni
semplici ed immediati, vena ironica e tanto
sano e viscerale r’n’r. Smoke & Mirrors è,
infatti, un disco perfetto per tutti quelli che al
r’n’r chiedono di essere eccitante, genuino
e suonato con convinzione: amplificatori a
manetta e riffoni tritaossa che più classici non
si può!
Camillo “RADI@zioni” Fasulo
The High Llamas
Can Cladders
Drag City / Wide
Indiepop-sixties / ***½
Sean
O’Hagan,
carismatico
leader
nel
progetto
High
Llamas, ha un passato
musicale
di
tutto
rispetto, una gavetta
ed un curriculum che
parte fin dagli anni ’80,
all’interno della scena
indie, fu chitarrista nella band Microdisney,
nome che forse vi dirà poco…, di discreta
qualità. Poi, subito dopo, intraprese la
carriera solista, facendo ricerche ed
esperimenti tra il pop ed il cantautoriato,
la psichedelia, ma anche l’elettronica,
dischi dove da solo, in realtà, non è mai
stato, perché accompagnato da fidati
collaboratori quasi fissi (Marcus e Dominic)
oltre che da ospiti occasionali importanti
Patrick Wolf
The Magic Position
Loog / Universal
Indiepop – electronica / ****
Se siete anche voi fra quelli rimasti
sensibilmente affascinati da Wind is
the Wires, secondo album del giovane
cantautore britannico di origini irlandesi
Patrick Wolf, non farete certo fatica ad
accogliere il suo nuovo ed entusiasmante
terzo lavoro, The Magic Position. Si riparte!
La formula espressa (sempre più materia
pop) non manca certo di raffinatezza
e qualità, abbandona, per certi versi,
il lato scuro prevalente nel passato.
Piacevoli e ben elaborati gli interventi
15
come Brian Wilson, Jimmy O’Rourke, o gli
Stereolab, gruppo in cui per un periodo
ha anche fatto parte. Quest’ultimo disco,
il sesto targato High Llamas, riprende
contatto col passato, ritornando così allo
stile delle origini, ispirandosi ai ’60 e ‘70,
con cori vocali femminili, e negli stumenti:
troviamo archi, piano, hammond, basso,
batteria e chitarra, oltre ad una leggera
elettronica. Delicato e ben curato, album
ricco di personalità.
Livio Polini
Khan
Who Never Rests
Tomlab
Funk, rock, disco… / ***
Prima release su Tomlab
records per il turcofinnico Khan, che arriva
dopo
innumerevoli
anni di attività su altre
etichette
con
altri
pseudonimi. Frenetico,
come il titolo dell’album
lascia intuire, tredici tracce in pieno stile
Tomlab. Un lavorio digitale nei minimi
dettagli sonori, duro e rock quanto basta,
elaborato nel sottofondo elettronico.
Per la prima volta Khan immortala la sua
voce, realizzando un’opera completa ed
intimista. Tra le migliori tracce On the Run,
Strip Down ed Excomunication. Funk, rock,
disco music, glitch, experimental, cut n’
paste, trip hop... ogni genere e sottogenere
è sfiorato o colpito in pieno, per un
insieme di influenze che non stonano, ma
anzi che contribuiscono a formare un
lavoro piacevolmente eterogeneo. Una
esplorazione nel sottobosco dei generi
musicali, da ascoltare almeno una volta
per tutti.
Federico Baglivi
di natura elettronica, così come il suono
di strumenti classici appartenenti alla
famiglia degli archi. Tratti malinconici e
di meditazione (come in The Bluebell) si
scontrano con gioia, rinascita e senso di
libertà, canzoni allegre e spensierate dai
ritmi sostenuti (Accident & Emergency
ad esempio, ma anche Overture). Ospite
prestigiosa di questo disco è Marianne
Faithfull, in duetto con Patrick nel brano
Magpie, dove i due ci regalano una
grande prova attraverso splendide
voci accompagnate da pianoforte e
viola. Emozionante, un disco di grande
qualità.
Livio Polini
Alex Gopher
Alex Gopher
Go 4 Music/Wide
Synthpop / ***
Uno dei guru dell’elettronica made in
France torna con un nuovo lavoro in dodici
tracce, lavoro intitolato Alex Gopher
appunto. Brani di indubbia bellezza, del
resto non ci si poteva aspettare altro da
uno dei personaggi che negli ultimi dieci
anni ha impresso una pesante impronta
nel panorama elettronico europeo. Sin dai
tempo degli Orange infatti, insieme ai due
futuri Air, Gopher è stato tra i personaggi
più rappresentativi di queste sonorità.
In queste dodici tracce che vanno dal
synth-pop alle sonorità più Air, Gopher
ci da lezioni di stile. Meno belle le tracce
synthpop più ballabili, semplicemente
stupende quelle più lente ed evocative.
Una rivincita verso chi ha considerato Air
e Daft Punk i punti di partenza e di arrivo
dell’elettronica francese? Di sicuro Gopher
fa sapere di esserci anche lui, come del
resto c’è sempre stato in questi ultimi dieci
anni. Sembra proprio essere il disco della
maturità.
Federico Baglivi
The Zincs
Black Pompadour
Thrill Jockey
Pop rock / ***½
Terza nuova uscita
per gli Zincs di Jim
Elkington (già nei
Sophia di Robert
Sheppard), e questa
sembra
essere
quella buona. Un
disco amabile e
maturo, più elettrico dei precendenti ma
comunque molto leggiadro e composto,
forte della direzione del grande John
McEntire al mixer. Dieci canzoncine
pop vicine per attitudine tanto ai Sea
and cake, per gli ottimi arrangiamenti
e l’impostazione vocale di Elkington,
quanto ai Luckysmiths, per lo spirito fresco
e accattivante ma mai stupido. Ottime
per un lungo viaggio in macchina,
anche perché è proprio durante un
lungo ed estenuante tour nei grandi
territori americani che l’album è stato
ideato. Il cupo sarcasmo delle liriche di
Elkington mescolate con queste melodie
apparentemente “leggere” (ma che di
fatto nascondono anch’esse un che di
inquietudine interiore) rendono questo
lavoro tutt’altro che easy. Piccola chicca:
in tre brani compare anche la delicata
voce di Edith Frost che impreziosisce
ulteriormente questo bel disco.
Gennaro Azzollini
KeepCool
16
Claude Cambed & the Now
HappyGoneStreet
Shinseiki
Pop / ***
Chi, come me, ha un passato modernista,
non può non amare questo disco. Claude
Cambed e suoi smaglianti The Now sono
una dichiarazione d’amore a gruppi e
a un periodo musicale che fanno parte
del background di ogni epigono del
Quadrophenia pensiero. Ed è proprio con
questa parola che ironicamente giocano in
questo album (HappyGoneStreet). Seguire,
interpretare l’opera dei grandi maestri
oggi senza cadere nello sterile revival non
è facile. Questo disco, come un gioco
di scatole cinesi, lascia scoprire traccia
traccia dopo influenze e citazioni. Lo fa
con una vivacità compositiva seducente
che guarda al passato. Fanno capolino a
questa festa della musica i Rolling Stones,
David Bowie accompagnato da Syd Barret,
i Kinks e tutto quello che di quegli anni si
ricorda con piacere… veramente tutto
(anche spruzzatine più hard). Concepito
come se si trattasse di un vinile, suonato
oggi con un’attitudine a cavallo tra i 60 e
70 questo HappyGoneStreet è un piccolo
gioiellino. (O.P.)
Deerhoof
Friend opportunity
Tom Lab
Avant pop / ****
La
musica
dei
Deerhoof
è
sfuggente: quando
credi
di
averla
afferrata
subito
intraprende
una
nuova strada.
Una band più che
eclettica epilettica,
capace di tenere
in equilibrio garage
rock, noise, progressive, pop, punk. Tutto
insieme, tutto in rapidissima sequenza,
come una carrellata vorticosa di suoni
e soluzioni possibili. Una traccia e i suoi
mille punti di fuga. Capaci di sintetizzare
tutto in meno di due minuti (Kidz are so
small) o in lunghe divagazioni strumentali
(Look away). Sbarazzini nella voce di
Satomi Matsuzaki, giocosi nell’approccio
musicale apparentemente senza regole
ma matematico nella costruzione, ipnotici
e malinconici (the Galaxist) quando
smettono di portare in giro la fanfara
(+81), sognanti (Whiter the invisibile bird).
I Deerhof sono mille cose e per lo stesso
motivo una cosa unica. (O.P.)
The Bird and the Bee
The Bird and the Bee
Metro Blue - Blue Note
Jazz e dintorni / ***
Greg e Inara - si legge sul loro space - si
sono incontrati qualche anno fa in quel di
Los Angeles (sono entrambi californiani)
e hanno scoperto di avere in comune un
folle amore per il jazz. Per un paio d’ore
hanno suonato insieme tutti i pezzi di loro
conoscenza e…questo album è niente più
che una conseguenza di quell’incontro.
Inara George è figlia d’arte e ha già
pubblicato un lavoro da solista, Greg
John Cale
Circus Live
Emi
rock-avanguardia / ****
È stato il fondatore, con Lou reed, dei Velvet Underground. È stato il produttore del
primo disco degli Stooges e di Patty Smith. ha influenzato in maniera imprescindibile
la musica contemporanea, Ha avvicinato sonorità inusuali, l’avanguardia ai canoni
del rock. jonh cale è indubbiamente uno dei musicisti viventi più importanti. la sua
carriera è costellata di collaborazioni, ha influenzato e ispirato moltissimi artisti. Dopo
quaranta anni di carriera john cale è ancora in pista e in pole position. Esce in questi
giorni Circus Live un doppio cd che documenta l’ultimo lungo tour dell’artista.
Emozionante dalla prima nota che tra scordate accordature introduce una bellissima
Venus in Furs. Il concerto condensa la poliedricità straordinaria di Cale che sa essere
epico (Helen of troy), vicino e alcolico (Buffalo Ballet). Quando rimaneggia classici
come femme fatale riesce a toccare corde che pensavamo non avere. Il primo
cd finisce ed è un battito d’ali, troppo tardi si è nel tunnel. Cale ti prende nel suo
vortice, ti trascina in un suo mondo come solo i grandi sanno fare. e ne scopri gli
angoli, le epoche, ne condividi i ricordi, ne senti la rabbia e la poesia. Il circo di John
Cale ha una serie di numeri strabilianti, personaggi sorprendenti, animali fantastici. Lo
spettacolo di John Cale è una di quelle cose che bisognerebbe vedere almeno una
volta nella vita.
Osvaldo Piliego
Radicalfashion
Odori
Hefty
Experimental, electronica, glitch /
***½
Kurstin ha studiato piano da grandi maestri
e ha scritto e prodotto per diverse band
tra cui the Flaming Lips, tanto per citarne
una. Armati dunque della loro passione
e conoscenza tecnica, lei alle voci lui
alle armonie strumentali, hanno dato vita
a questo album. Non solo jazz però, qui
dentro ci sono tastiere luccicanti distorsioni
dance e drum machine. Il disco che
metterei in pausa aperitivo, tra noccioline,
olive verdi e martini in ghiaccio risulta
essere altamente chic, allegro e anche
quel dolce quanto basta. Bossa, easy jazz
ed electronic pop schekerati insieme. E
testi ironici e diretti. Un assaggio tanto per
gradire? “Would you ever be my fucking
boyfriend?”. Eh?
Valentina Cataldo
Disco semplice ma complesso
allo stesso tempo. Semplice,
dicevamo, perché di partitura
non particolarmente difficile,
e complesso, come natura,
espressione, temperamento,
come
messaggio,
come
ricerca dei suoni e degli
ambienti. Ci impressiona così, con la
sua sperimentazione, Hirohito Ihara,
compositore, pianista giapponese di
formazione classica conosciuto in questo
progetto col nome di Radicalfashion. È la
sua opera prima, Odori, un miscuglio di
interferenze, ricerche, frammenti elettronici,
pianoforte, voci, visioni confuse e a tratti
nitide, emozioni, turbamenti, flashback,
pensieri discostanti. Per farvi un’idea del
livello di esperimento, pensate ai più famosi
Books, o, volendo rimanere in Giappone,
a Tujiko Noriko. Sono artisti originali anche
e quindi diversi da Hirohito, ma hanno
KeepCool
uno stile somigliante. Può convivere tutto
quello qui descritto all’interno di un solo
disco? Certo, è sicuro, basta non rinunciare
all’immaginazione, basta chiudere gli
occhi ed ascoltare, tu cosa vedi?
Livio Polini
Jon oliva’s pain
Maniacal Renderings
AFM/Audioglobe
Heavy / ****
Ad oltre venti anni dal suo debutto con i
Savatage, Jon Oliva è un personaggio,
ancora oggi, ricco di entusiasmo e di
progetti per il futuro. L’uscita di questo
secondo lavoro con i suoi Pain dà l’esatta
misura del suo attuale stato di salute,
artisticamente
parlando:
eccellente,
ovviamente! Diviso tra Savatage e Trans
Siberian Orchestra, tra una pausa di riposo e
l’altra, il buon Jon ha anche pensato bene
di “distrarsi” e di distrarci con i suoi Pain.
Ed è davvero una gran bella distrazione
questo Maniacal Renderings, quanto di più
vicino al capolavoro Dead Winter Dead
(1995) dei Savatage. L’album ci regala un
Oliva in gran forma, accompagnato da
una band di assoluto spessore. Impetuoso,
coinvolgente, puramente maestoso, e
poi senza la benché minima sbavatura
o caduta di tono, Maniacal Renderings
ha anche un altro grande merito: quello
di riuscire, se amate il genere, a tenervi
incollati allo stereo per molto, molto tempo,
regalandovi un pugno di canzoni fatte sì
con la testa di chi ha oramai esperienza
da vendere, ma soprattutto con il cuore di
chi sa dispensare ancora grandi e sincere
emozioni, e scusate se è poco! Vecchi
Sava-fans, gioite: “il re della montagna” è
ritornato!
Camillo “RADI@zioni” Fasulo
Archive
Lights
Studio Album
Archivio musicale / ****
Massive
Attack
Coldplay e Pink Floyd,
trip-hop pop melodico
e psichedelia, relax
sogni e trip mentali
tutto in un unico disco.
Undici
tracce
che
sembrano appartenere
ad artisti voci stili diversi
e risalgono invece ad un unico nome:
Archive. Un minestrone potrebbe dire - e
ha detto - qualcuno, un lavoro vario intenso
creativo lo definirebbe qualcun altro.
Violenti respiri e momenti di apnea, quelli
che solo intrecci post-rock possono creare
quando a disperarsi sono esclusivamente
gli strumenti, viaggi solo andata verso
destinazioni ignote quelli guidati da note
elettriche create dai synth e bassi potenti e
13
colpi di bacchette ripetuti e sempre uguali.
A questo, riff e parole di semplici sofferenti
canzoni d’amore. Discoteca camera
d’hotel a cinque stelle e soffocante cantina
di legno, un gin tonic un martini e un
bicchiere di vino rosso per accompagnare
Lights. Viso da bravo ragazzo e mani
affusolate contraddistinguono il nuovo
vocalist del gruppo, Pollard Berrier, entrato
al posto di Walker. Sul palco sono in sette,
tastiere, batteria, basso, campionatori,
chitarra, voce maschile che si alterna a
quella – struggente - della fedele Maria Q.
Non Londinium, non Take My Head, non
You All Look The Same To Me, non Noise,
qualcosa di ognuno e poi molto altro. Per
chi potesse, per chi ha voglia di ballare,
urlare, piangere, le loro date live sono su
www.archives-archive.com.
Valentina Cataldo
Virgin Steele
Visions of Eden
Sanctuary/Edel
Epic-metal/***
I Virgin Steele hanno
finalmente
rotto
il
silenzio che durava,
ormai, da quattro lunghi
anni. Il nuovo studio
album, Visions of Eden,
è un concept che si
svolge
idealmente
nei
pensieri
della
donna del ventunesimo secolo, intenta a
ripercorrere, storicamente, il suo ruolo nelle
civiltà sviluppatesi con il trascorrere dei
secoli. V.o.E ha come sottotitolo The Lilith
Project, infatti, gli undici brani in questione
sono parte di sessanta composizioni scritte
in questi anni e presentate come opera
metal dal titolo Lilith. Unico artefice del
master è David DeFais, compositore e
scrittore dal livello indiscutibile, il quale
se pur confermando i peculiari elementi
compositivi della band, questa volta, però,
ha commesso delle sbavatura in sede di
produzione. Infatti, anche se i pezzi sono
eseguiti al meglio, tuttavia, le chitarre
sono mixate bassissime, il basso è appena
percettibile, mancano interventi solistici,
capaci di dare maggiore complessità alla
partiture e che in più avrebbero donato,
assieme alle parti tastieristiche, un unicum
più curato ed espressivo.
Nicola Pace
Rhapsody on Fire
Triumph or Agony
SPV/Audioglobe
Hollywood score metal / ***
Eccoli tornati i nostrani
Rhapsody,
questa
volta
“…on
Fire”;
nel frattempo sono
cambiate molte cose:
cambio di etichetta,
avvicendamento
di
manager e rettifica
di moniker (a causa
di un’omonimia). Il loro Hollywood score
metal è sempre più coadiuvato da
incantevoli motivi dal sapore medioevale
e tardo rinascimentali, il tutto ornato da
sontuosi arrangiamenti di archi e fiati su
cui le solenni ed, a tratti, ieratiche voci del
coro sono libere di manifestarsi. In questo
Triumph or Agony, la parte speed del loro
stile è stata momentaneamente messa
in secondo piano per dare voce al lato
folk, ed è una cosa che apprezzo, ma
mi accorgo di come, progressivamente,
nuove idee stentino ad emergere. Ritengo,
infatti, che la composizione più eccitante
di questo nuovo lavoro sia la suite The
mystic prophecy of demonknight, in cui la
band pur riprendendo le proprie tipicità, no
è cascata nell’auto-citazione. Insomma,
gli arrangiamenti sono ineccepibili, la
produzione è impeccabile, ma i Rhapsody
possono fare senz’altro di più, in termini di
originalità.
Nicola Pace
Ralfe Band
Swords
Talitres rec.
Alt-folk / ***
Immaginate se gli Hack and A Hacksaw,
con la loro commistione di folk europeo
e americano, provenissero invece che
dal new Mexico dall’Inghilterra, se
condissero le loro melodie malinconiche
con quell’inconfondibile humor britannico,
se possedessero la stessa capacità
camaleontica della prima Beta Band,
se invece di dedicarsi al solo amore
per la musica balcanica si lasciassero
contaminare da tutte le varie espressioni
folk europee (in particolare dalle
orchestrazioni di Pascal Comelade) beh,
forse il loro nome sarebbe stato Ralfe Band.
Swords, il disco d’esordio di questa gruppo
capitanato dal fantasioso Oly Ralfe, è
di una squisitezza particolare. E già John
Peel si era accorto delle qualità delle loro
produzioni nel 2004 quando, mandando il
loro primo singolo durante il suo programma
pensò: “Its difficult to tell who they’ve been
listening to...”. Ed infatti sembra che i loro
punti di riferimento, per i testi quanto per le
melodie, siano davvero innumerevoli. Ad
ogni nuovo brano, ma anche all’interno di
ciascun brano stesso, la giostra dei rimandi
sembra non fermarsi mai. Ciò nonostante,
il disco possiede una sua forte personalità,
determinata credo proprio dalla origine
inglese dei componenti della band, da
quell’ineliminabile ostinazione dei musicisti
di quelle terre di render tutto decisamente
pop. Quando cercate della buona musica
indie dall’Inghilterra, scansatevi le porcherie
brit-rock patinate e ricercate roba come
questa, sono certo che, a lungo termine,
sarete ben più contenti dell’acquisto, felici
di scoprire come possa mantenersi fresco
al di là di tutte le mode.
Gennaro Azzollini
KeepCool
18
The Stooges
The Weirdness
Virgin
rock / ****
Quando uno arriva alla
soglia dei 60 comincia a
guardarsi indietro, magari
con la nostalgia dei 20 anni.
Se a farlo è Iggy Pop, la
reazione e rimettere in piedi
la band. Tornano gli Stooges
con un nuovo album in
studio.
Personalmente
sono contrario alle cariatidi
del rock, ma questa è
l’eccezione che conferma
la regola. Chi ha visto Iggy dal vivo può
capire. Il fuoco del rock and roll non si
è mai spento in lui. Questo nuovo The
Weirdness lo vede più attizzato che
mai, la produzione è affidata a Steve
Albini, gli Stooges dietro fanno il loro,
pesanti, sporchi. Non siamo dinanzi al
capolavoro, questo è chiaro. Ma lo
smalto dei fuori classe c’è e si sente.
Niente fronzoli, niente fashion victim, ma
sudore e rabbia. (O.P.)
Cut of Mica
Finally it’s Friday
Green Fog
rock / ***
Fa piacere che una
band al primo esame
dimostri
una
tale
applicazione
nella
materia scelta. In
questo caso i Cut of
mica hanno scelto
la matematica del
rock e se la cavano
egregiamente facendo sempre quadrare i
conti. Come argomento a piacere portano
gli Shellac e sembra il buon maestro Albini
sia stato studiato a fondo e assimilato. I cut
of mica sono ragazzi curiosi e si applicano
trovando spunti anche in territori post,
punk, hardcore. Emotivi nelle deflagrazioni
umoristiche riescono in aperture soniche
lancinanti che si alternano a momenti
dalle cadenze spezzate alla Karate. Un
debutto che mette in tavola molte carte e
tutte buone da giocare. (O.P.)
Urlaub in polen
Health and welfare
Tomlab
rock / ***
Cresciuti
con
il
Krautrock a colazione e
con il noise nel taschino
non
ci
saremmo
aspettati un’apertura
“melodica” da parte
di
questa
band.
I
tedeschi
sono
cambiati e lo fanno
con un disco che ne dimostra l’ottimo
“stato di salute”. Dopo gli sperimentalismi
delle origini scelgono la strada della
comprensibilità, scelgono la strada più
diretta. Dritti alla meta, con uno sguardo
ai Kraftwek e un altro al post-punk. Come
in un gemellaggio Inghilterra/Germania,
Grinderman
Grinderman
Mute
rock / ***½
Si dice che con i cinquanta arrivi la crisi di mezza età. C’è quindi chi si tinge i capelli,
chi si cerca l’amante e chi compra la Porsche. Da par suo Nick Cave (49 ancora
per poco) si fa crescere un paio di baffoni da camionista, imbraccia una chitarra
elettrica e, insieme a tre dei suoi compagni di sempre Bad Seeds, cerca di scrollarsi
di dosso un po’ della tediosa raffinatezza che plastificava i suoi ultimi lavori. In effetti
basta il puzzolente fuzz dell’apripista Get It On e il tappeto acido di chitarre wha
del seguente “blues senza fica” a farci capire che qui non si va tanto per il sottile.
Il ricercato lirismo del “Re Inchiostro” è qui mutuato con turpiloquio e spacconeria
da bancone del bar. In brani come Honey Bee, Depth Charge e Love Bomb quasi
riecheggia la follia autodistruttiva e psicotica dei Birthday Party. E quando si tratta
di tirare il fiato e di concedersi alla melodia tutto è scarno, scuro ed essenziale.
Pungente rivendicazione di chi negli ‘80 era meno stempiato, baciava le capre e si
scriveva bestemmie (con l’errore) sul petto.
Giovanni Ottini
come se Bowie attraversasse il suo nuovo
periodo berlinese. Da lontano, dietro il beat
e il muro di sinth si sentono echeggiare le
onde dei Joy Division, Cocteau Twins… Ci
sono spunti quasi dance, i Neu, il gospel,
tutti insieme e la convivenza e più che
pacifica. Per molti, forse non proprio tutti.
(O.P.)
Ladytron
Whitching hour
Sleepingstar
sinth pop / ***
Glaciale e allo stesso tempo sensuale.
Questo è da sempre il suono di Ladytrhon,
sinth pop con venature dark. Per questo
nuovo Whitching hour la rotta si è aperta
verso mari pieni di Shoegaze. Il suono é
più denso, gli spigoli del passato sono
smussati. Come un raggio di sole che filtra
dai nuvoloni e ti mette la voglia di ballare,
così è l’attitudine da dancefloor dei
Ladytron. Electro-clash quando ancora
se ne parlava poco sono stati capaci di
trovare una personale evoluzione che
oggi li porta ad aver maturato una scrittura
variegata addirittura aggressiva in alcuni
frangenti. Su tutto sembra posarsi però una
polverina magica capace di rendere tutto
così dreamy. Ladytron era il titolo di una
canzone dei Roxy music, Ladytron è una
delle band che guardano agli anni 80 ma
con la testa rivolta verso il futuro, il cerchio
è chiuso, ed è perfetto. (O.P.)
10 Corso Como
Sacro e Profano
Irma
world music / ***
Due opposti che alla
fine
si
incontrano,
incrociano
e
mescolano. Il bianco
e il nero, l’uomo e
la donna, il bene e
il male, il sacro e il
profano. Assoluti che
accomunano il mondo
così come la musica: diversa ma alla fine
unica. Sacro e profano è il terzo volume
di una compilation che esplora la world
music con un lavoro di ricerca storico e
geografico, world ma non solo, tra le tracce
si trovano anche piacevoli divagazioni di
generi che vivacizzano l’ascolto. Il primo
disco è il sacro. Il canto ti avvicina a Dio si
dice ed è proprio la voce la protagonista
del disco. Sia essa preghiera, richiamo,
invocazione, dichiarazione o addirittura
silenzio nella chiusura lasciata a Keith
Jarret e al suo piano che parla tutte le
lingue del mondo. Nel secondo è il ritmo a
prevalere a farsi avanti e prepotente. Suoni
latinotronics, il calypso di Harry Bellafonte,
KeepCool
il tropicalismo di Caetano Veloso e tanto,
tanto ancora. Un disco preziosissimo nel
packaging come nel contenuto. (O.P.)
Frankie Valentine
The world of what
Sunshineenterprise
Cill out Dance World / ***
Un’artista come Frankie ha
trascorso gli ultimi trent’anni
della sua vita a far ballare
la gente, dall’alto della
sua consolle ha guardato
il mondo. Ha suonato il
reggae, la dance fino a
scoprire una sua vocazione
da produttore. Esce World
of what, suo secondo album, suo nuovo
studio sulle possibilità del ritmo, sulle sue
modernità da pescare nella tradizione. E
sembra proprio partire dall’inizio, spiazzati
come se si trattasse di un album di world. Un
disco in crescendo come un’introduzione
alla modernità. Come se Frankie ci
prendesse per mano e ci accompagnasse
a scoprire da dove si parte e dove si può
arrivare. Ogni traccia sembra aggiungere
uno strato, un impulso che da acustico
diventa sintetico e batte i quarti, avvolto
dai sinth. House calda riscaldata da
influenze latin, jazz, a tratti deep. (O.P.)
19
Stefano Giaccone
Tras os montes
La locomotiva / Venus
Canzone d’autore / ****
Spesso ci si chiede
quale sia lo stato
della musica d’autore
italiana, quella che
dovrebbe proseguire
lungo la via segnata
da Ciampi, Tenco, De
Andrè, De Gregori,
Fossati e molti altri. La
risposta sarebbe incoraggiante o, ancor di
più, entusiasmante se molti dischi avessero
a che fare con l’intensità e la poeticità di
Tras os montes di Stefano Giaccone. Già
leader dei Franti, uno dei più importanti
gruppi underground italiani degli anni ’80
dal quale proviene anche la cantante
Lalli, ha partecipato a vari progetti, ha
collaborato con numerosi artisti ed è ora
giunto alla sua quinta fatica da solista.
L’album si muove tra chitarre e spunti
jazz con testi che potrebbero essere letti
anche senza musica che spaziano dal
personale all’impegno sociale. Registrato
in Galles con l’ausilio di Dylan Fowler, il
disco ospita musicisti internazionali come
Nathan Thomson, Tomos Williams, Gillian
Stevens, Oliver e Rachel Wilson-Dickson.
Avion Travel
Danson Metropoli
Sugar
Rivisitazione d’autore / ****
Non è mai facile realizzare una
cover giacché si rischia sempre
di scivolare in imitazioni ridicole
o in interpretazioni che fanno
rimpiangere l’originale. Gli Avion
Travel, guidati dall’istrionico Peppe
Servillo nella nuova formazione in
quartetto (abbandonati i fasti e
gli “sprechi sonori” della Piccola
orchestra), riescono nella difficile
impresa di reinterpretare un maestro
sacro della musica d’autore come
Paolo Conte. Danson Metropoli accoglie undici canzoni dell’avvocato piemontese,
e non tutti pezzi molto conosciuti, e un inedito scritto appositamente (Il giudizio di
Paride). Nelle versioni firmate Avion Travel convivono la grande passione di Servillo e
il virtuosismo chitarristico di Fausto Mesolella, arrangiamenti asciutti e non barocchi e
soluzioni stilistiche originali. Lo stesso Conte si mette in gioco e accompagna la band
e una strepitosa Gianna Nannini in una intensa versione di Elisir. La napoletanità degli
Avion spicca poi in Spassiunatamente. Da segnalare anche la versione strumentale
di Max. “Abbiamo cercato di essere interpreti ma anche, un poco, autori, come del
resto un buon interprete dovrebbe essere sempre”, aveva commentato Servillo. E,
secondo me, sono riusciti nell’opera.
Pierpaolo Lala
Tra gli undici brani anche Senza sicura di
Marco Peroni ed Edoardo Cerea, La neve
dei 24 Grana e Tuo per sempre, traduzione
da John Doe. Buone notizie. (pila)
Anonimo Ftp
Lo sguardo dal cielo
Il re non si diverte
Rock / ***
“La semplicità è più importante della voglia
di stupire”, la frase impressa sull’ultima
pagina del booklet e sull’home page
del sito fotografa al meglio la proposta
musicale degli Anonimo Ftp. Dall’alternative
rock dell’esordio Vetro (2002), alla vena
psichedelica del successivo My Dreams,
con questo Lo sguardo dal cielo la band
milanese viaggia diretta verso l’essenzialità
pop/rock (nella migliore delle accezioni).
Ovviamente nulla di innovativo ed
entusiasmante ma è un disco che gira
bene, è ben suonato, ben cantato e ospita
alcuni brani interessanti. Gli Anonimo Ftp
sono destinati a crescere. (pila)
..A Toys Orchestra
Technicolor Dreams
Urtovox
Indie ****
Gli ...A Toys Orchestra
sono
cresciuti,
sbocciati come un
fiore. I loro giochi sono
diventati più intriganti,
i mezzi a disposizione
solidi (merito anche
di
un’interminabile
tour),
la
poetica
rafforzata da una
maturità stilistica e
artistica
raggiante.
Le loro canzoni fatte
di sogni sono oggi in
Technicolor, sgargianti
anche nelle tinte più autunnali. La band
campana ha scelto, per questo disco, di
fare le cose sul serio. Sono stati prodotti
Dustin O’Halloran (Devics) che gli ha
cucito addosso un suono che profuma
di internazionale. Il risultato è Technicolor
Dreams che arriva a tre anni dall’esordio
in casa Urtovox e appaga le aspettative.
La band riesce a muoversi su registri che
passano dall’indie al pop, grandi aperture,
surreali teatrini, isterismi, carezze, corali
reminiscenze anni 60. Pink Floyd, Delgados,
Blonde Redhead tutto e alla fine niente
perché con questo album gli ...A toys
Orchestra dimostrano di aver intrapreso
un percorso assolutamente personale e
unico, per lo meno in Italia. Un gruppo che
è pronto a spiccare il volo. (O.P.)
KeepCool
20
Vito Ranucci & Musicisti di
Napoli Est
Il giardino delle delizie
La Frontiera / Rai Trade
ElectroFolk / ****
È un disco curioso,
sofisticato
e
appassionante.
Se ne ascoltano i
primi passaggi e si
ha l’impressione di
avere a che fare col
già sentito, con un
prevedibile esempio
di musicista partenopeo irretito dalle
contaminazioni e dal suo stesso dialetto.
Epperò, ascoltando più a fondo Il giardino
delle delizie, si coglie lo spessore delle sue
scelte, la corposità dei suoni, le rifiniture di
mestiere. Vito Ranucci è principalmente
un sassofonista - dal suono splendido
peraltro - ma è anche un compositore, un
musicoterapeuta, un filosofo, e un sessionman di rango. E tutto questo si intuisce con
l’andare del tempo. Il suo sound attinge
all’elettronica (Cala ‘a sera) e al jazz
(Etoile), al popolare (Bella figliola) e alla
musica antica (Canto veranlis); e mischia
tutto quanto in un modo efficace, che non
è leggero, tuttavia non è nemmeno borioso
o saccente. È frutto di una conoscenza
attenta, e di un’atmosfera concentrata,
ma nondimeno è sornione e istintivo, come
tutti i napoletani.
Gianpaolo Chiriacò
La Resistenza
La ballata ti lu clandestinu
Autoproduzione
Folk-rock d’autore / ****
Che si usi l’inglese, l’italiano, il sanscrito o il
dialetto di Mesagne, il difficile - trattando
di canzoni - sta nel dosare le parole al
punto giusto, nel posizionare sillabe e note
con accorta semplicità. La Resistenza
possiede questa virtù: sa giocare abilmente
con il materiale a disposizione; sa fare
dell’economia espressiva la sua arma
migliore. La band ha poco più di due anni
di vita, ma già una certa fama, dovuta alla
professionalità e al vigore con cui affronta
ogni brano. Nel disco si scorgono le qualità
migliori dei musicisti, in particolare la carica
di Enrico Cervellera alla voce e il melodiare
scattante di Emanuele Raganato al
sassofono. I testi, scritti in dialetto e densi di
tensione civile, riconducono direttamente
Paolo Zanardi
I Barboni Preferiscono Roma
Olivia/Venus
cantautore / ****
Zanardi è un talento. Lo avevo scritto
in occasione dell’uscita di Portami a
Fare Un Giro, e lo ribadisco per questo
nuovo I Barboni Preferiscono Roma. Cosa
ha di speciale il cantautore pugliese?
Forse niente, a parte il fatto di saper
scrivere canzoni significative senza dover
ricalcare per forza chi lo ha preceduto.
Quanta voglia c’avete di ascoltare un
cantautore caposseliano? Zero? Io lo
stesso. E la musica di Zanna non c’entra
una mazza né con Vinicio né con altri
cattivi maestri. Assomiglia solo a se stessa.
Inoltre, come se niente fosse, il nostro è
capace di inventarsi melodie notevoli
a servizio di storie di marginalità dotate
di una poetica non comune. Il tutto
infarcito da una precarietà – strumentale
e non - assolutamente disinvolta. Il disco, dall’apertura di Piazza Vittorio sino a Lady
Lazarus (ottava traccia!) praticamente non conosce cedimenti e mantiene, sino alla
conclusiva Suite, un livello molto elevato. Canzoncine assortite abitate da personaggi
ai limiti, dalla nutrita fauna di Piazza Vittorio al Pompeo di Paz -, passando per barboni
e altre frattaglie urbane, senza che affiori mai maniera o autocompiacimento. Del
resto Zanardi è uno vero. Sarebbe il caso che qualcuno se ne accorgesse.
Ilario Galati
al linguaggio delle posse, ma con un
certo tocco d’autore. Gioverebbero
certamente, al sound del gruppo, una
varietà maggiore nei campionamenti e
nell’uso delle percussioni. Ma ogni gruppo,
in fondo, è perfettibile, soprattutto se
cresce in fretta come La Resistenza.
Gianpaolo Chiriacò
Antonello Messina
Aziyz
Dodicilune
jazz / ****
Aziyz è strada, fatica, amore, forza,
coraggio, dubbio, pensiero. Pezzi che
hanno forza melodica, fantasia ritmica,
pensiero intenso, che parla con respiro di
fisarmonica, di bandoneon, voce di piano,
mai tanto atteso e sperato, e fiato di tromba
il tutto sostenuto brillantemente da sapiente
contrabbasso e batteria. Assolutamente
generoso, Antonello Messina ha scritto
ogni fraseggio come se fosse quello del
suo strumento, la tromba da’ fiato alla
trama delle stelle
sostenute
dal
cielo dipinto dal
piano, che sfiora
in più occasioni lo
spettro cromatico
dell’anima,
la
batteria,
il
contrabbasso
sembrano
figli
prediletti. La fisarmonica e il bandoneon
hanno uno spazio definitivo. Come dire, in
quel contesto, in quel brano,dietro quella
melodia non si può, o meglio non si deve
dire nulla di più e nulla di meno. La traccia
n.3 è una rivisitazione assolutamente
geniale del brano di Ivano Fossati
L’orologio Americano. Un omaggio sentito
e sincero. Chi già conosce quel brano
sentirà che, se si può fare un’operazione
del genere, quella è l’unica possibile, e
forse l’unica consentita. Fedele, generosa
e assolutamente riverente… poi... poi
un’inversione ritmica che non lascia fiato,
ti prende per le spalle, e ti trascina, ma
KeepCool
non troppo veementemente fra tutto
un tempo impazzito, che gira intorno
per poi a riportarti gentilmente lì dove
ti aveva preso, a lasciarti accarezzare
dal fraseggio noto e delicato, come lo si
vorrebbe, come solo deve essere. Waltz for
Debby, la traccia n.9 è un’altra splendida
interpretazione del celebre brano di Bill
Evans. Amore puro, pura passione, come
specifica lo stesso Antonello Messina. Il
resto è un percorso fra strutture, note,
alternanze, soffi di vento, intonazioni
evocanti di bandoneon, e le mille dita di
Messina sanno farsi sentire, ma se appena
ci si sofferma ad ascoltare, allora entrano,
e parlano, di stelle, di luci piccole e grandi,
che si fermano ad illuminare il tempo che
abbiamo e non abbiamo. Nostalgie come
felicità vicine e lontane, bocconi di vento,
e tutti gli imprevisti del caso. Un disco che
si lascia ascoltare, non troppo tecnico, non
troppo scontato. Intenso come i grandi
sentimenti, e come quelli, proprio come
quelli, semplice, percorribile e sconfinata.
Elena Cipresso
Luca Lo Bianco
La scomparsa di Majorana
Silta Records
Teatro musicale / *****
Spesso, si dice, la musica ha un intento
narrativo. Talvolta, invece, si ispira a un testo
già scritto. Talaltra, sono le parole a essere
plasmate dalla musica. Ma raramente si
giunge a una tale compenetrazione fra
suoni e trama, fra l’impianto armonico
e il racconto. L’idea di Luca Lo Bianco si
può sintetizzare nell’espressione “teatro
musicale”, ma affronta la difficoltà
21
supplementare di essere compressa in
un disco, di non avere a disposizione una
scenografia, un palco e delle quinte per
sostanziarsi. Ebbene, nonostante tutto,
La scomparsa di Majorana è un cd che
catalizza completamente l’attenzione,
che si impone a tutte le facoltà cognitive,
e pretende di essere ascoltato. Perché ha
tutto: una struttura musicale avvincente,
fatta di jazz ma anche di sequenze
elettroniche e di fioriture vocali; un
testo (recitato, perlopiù) che avvince e
cattura, costruito intorno all’omonimo
libro di Leonardo Sciascia; un’indiscutibile
originalità. E perdipiù si innesta su un caso
- quello di Ettore Majorana - che si colloca
tra i più delicati (quindi meno pecorecci)
misteri italiani. Il disco ha anche il merito di
riscoprire tale caso, di raccontarlo in pochi
tocci ma con chiarezza, e di interpretarlo
con gran classe.
Gianpaolo Chiriacò
I Tarantolati di Tricarico
U’Squatàšçë
Compagnia Nuove Indie
Folk / ***½
Nel campo della riproposizione della
musica popolare, I Tarantolati di Tricarico
rivestono un ruolo dominante. La loro
attività ha più di trent’anni di vita, e da
sempre sono riconoscibili per il ritmo
travolgente, l’insieme di voci potenti
e generose, e il talento live unico. Per
tali motivi, i Tarantolati di Tricarico non
possono fare altro che incidere un disco
dalla pulsazione incessante, in cui spicca
(e come non potrebbe farlo?) un muro
di percussioni pauroso. Molto azzeccate
anche le intromissioni del basso, che
riescono a dare un ulteriore tocco di
groove alla portata ritmica di U’Squatàšçë.
Certo, nel suo genere, il disco è un piccolo
capolavoro, o perlomeno non ha alcun
difetto: è ben suonato - ascoltare Lillilà,
il brano iniziale, per averne una chiara
idea -, cantato con eccezionale vitalità
(soprattutto nelle filastrocche musicate
di Hàtta mammóne e di Uno: montë la
lunë) e realizzato con squisita onestà.
Ciò nonostante, non riesce a spostarsi
dal proprio specifico campo d’azione quello del folk -, ed è un peccato, perché
i Tarantolati, dal vivo, riescono a solleticare
anche il più inveterato anti-tradizionalista:
potrebbero riuscirci facilmente anche con
le incisioni.
Gianpaolo Chiriacò
Pilar
Femminile singolare
Valter Casini Music
jazz mediterraneo / ****
Prendi la tradizione e trasformala in
habanera (Curre a mamma toja);
prendi le onde fredde dell’Atlantico che
raggiungono il Portogallo di Pessoa (Alma
fluvial); e poi prendi musica leggera, ma
nel senso calviniano di “sottrazione di
peso”; infine prendi una voce autorevole,
limpida, abilissima nel fraseggio rapido
(rapidità, altra categoria di Calvino) e nei
toni acuti, e lascia che impastino flicorno
e fisarmonica. Femminile singolare è un
album pieno di Mediterraneo, acquatico,
dove le protagoniste non sono le parole
(che talvolta indulgono nell’ingenuità
- da segnalare qualche gabbiano di
troppo), ma le correnti. La personalità di
Pilar unifica, sintetizza e governa canzoni
di sensazioni. Le storie sono poche, contro
il dominio della musica che le parole
assecondano con mestiere. In Femminile
singolare attendi il climax, aspetti che la
musica cresca, che la voce lasci le proprie
catene (Lontana, Alma fluvial). Ed è in
questo scatenamento, nella dimensione
verticale più che in quella orizzontale,
l’essenza e l’originalità di Femminile
singolare, che rivela i suoi momenti più alti
– oltre che nelle canzoni già citate – nella
ritmatissima Cenere e diamanti, in Piuma,
Scacco matto e Amistad. Del carisma di
Pilar ci si può capacitare anche vedendo
il dvd-concerto allegato al cd: la canzone
trascina, qui, anche sostenuta da una
grammatica del corpo molto personale.
Correda il cofanett anche un book a dire
il vero piuttosto disorganico con brevi
“momenti” della vita del quartiere San
Paolo di Roma, quello da cui Pilar proviene,
descritti e fotografati.
22
C’era una volta, nella lontana e incasinata città di Los Angeles,
un gruppo di studenti del Dipartimento di Belle Arti dell’Ucla:
Bruce Licher, Philip Drucker, Mark Erskine, Jeff Long si ritrovavano
nei sottopassaggi e nei parcheggi dell’università per registrare
strani suoni strumentali metallici e percussivi. Si chiamavano Africa
Corps. Di lì a poco sarebbero diventati i Savage Republic.
Era il 1981, il mondo era stato da poco sconvolto dal terremoto del
punk, il nuovo genere musicale che prometteva valanghe di soldi
per le case discografiche che facevano a gara per accaparrarsi
qualche gruppo di debosciati che potessero diventare i nuovi Sex
Pistols. Qualcosa di buono ne uscì comunque fuori, ma per lo più
fu una carnevalata.
Come giustamente sottolinea il buon Reynolds, nel suo Post-punk
(Isbn ed.), quella del punk fu una parentesi di radicalismo whiterock conservatore all’interno di una lunga storia di art-rock che
dal progressive e il kraut-rock dei primi ’70 è proseguito di fatto
senza sosta fino alla metà degli anni ’80 con la new wave. Anche
L.A. subì le sue ferite nichiliste (ben documentate da Penelope
Spheeris in The Decline of Western Civilization) e potette godere
di propri martiri (Darby Crash). Ma il punk era roba per disadattati
sociali, per i reietti, era l’espressione di sofferenza e di rivalsa dei
giovani dei ceti bassi. Gli ambienti artistici studenteschi, al contrario,
esprimevano ben altre esigenze, mostravano un’attitudine
marcatamente arty e intellettualoide, e portarono avanti un
discorso di ricerca e sperimentazione musicale in definitiva del
tutto opposto al rigorismo rock’n’roll del punk.
La musica non era uno sfogo, ma una componente di un
più complesso e ampio sviluppo concettuale. A tal proposito
ricordiamo cosa scrisse Bruce Licher, fondatore dei Savage
Republic e dell’etichetta Indipendent Project: “Tragic Figures
si presenta come un tentativo (pienamente riuscito) di opera
d’arte totale (Gesamtkunstwerk). L’unità concettuale che lega la
dimensione sonora a quella visiva non può essere scissa, pena la
sostanziale incomprensione del progetto Savage Republic e più in
generale del progetto I. P. Rec.”.
La creazione artistica in ogni sua forma seguiva un preciso filo
ideologico che andava oltre la musica stessa. I Savage Republic
d’altra parte non furono un caso isolato: intorno a loro sorse una
variegata comunità di musicisti e artisti, nonché di progetti ed
etichette indipendenti. Tra queste bisogna ricordare la Trance Port
Tapes, che di fatto diede il nome alla scena, la “trance music”.
Qui si definiva il comune interesse per il concetto di trans-porto,
di veicolamento, di medium, e di conseguenza per il viaggio,
l’esplorazione, ma anche il rapimento mentale, l’estasi. Spiega
A Produce, uno dei fondatori: “Non siamo interessati alla trance
KeepCool
Sarebbe stato interessante
far uscire questo numero
con un elenco di definizioni
chieste un po’ in giro su cosa
significhi punk oggi, cioè a
distanza dei 30 anni che ci
separano dalla sua nascita.
Non è scontato domandarsi
cosa voglia dire punk nel
nostro tempo, al cospetto,
ad esempio, di generazioni
più giovani e di tendenza che hanno adottato il termine punk,
nelle varianti di punk-a-bestia e punk-a-merda, per indicare
individui spregevoli e paria della società; né è chiaro il legame
che, ad esempio, il mondo della moda ha coltivato con cura
in questo trentennio - Zandra Rhodes, Vivienne Westwood
e Jean Paul Gaultier - mantenendo inalterato il fascino per
gli accostamenti radicali, per gli strappi e le scuciture, per le
borchie, per i piercing, per le ciocche di capelli colorate e per
l’uso di tanto, tanto nero, dalle unghie smaltate alle spalline
dei reggiseni che spuntano, soprattutto se si pensa che il punk
nasceva come rifiuto dei canoni della moda: punk is attitude
not fashion.
Il punk musicale è fortemente connesso con il tessuto
urbano, con quelle città dove le forme di produzione sono
improvvisamente mutate, il lavoro è diventato immateriale
e il disagio giovanile si concretizza in rabbia, contestazione,
antagonismo e performance-shock. È punk Londra, Berlino,
Milano, Bari – indimenticabile l’esperienza della giungla
barese degli anni ’80. Poi, improvvisamente, il 25 novembre
2006 muore Professor Bad Trip (nella foto), il più grande
artista underground italiano che aveva dato luci e visioni
all’immaginario punk. Allora lab080 ha pensato di richiamare
alla memoria quegli anni con la piccola rassegna Supamolly
1977-2007 (dal nome di un club underground berlinese):
due live (3 e 23 marzo) in collaborazione con Tiger Town e
interni alla rassegna Planet of Sound e due reading-concerto
affiancati da seminari all’università. Supamolly è un progetto
che pratica l’etica del D.I.Y., è autoprodotto, ad ingresso
gratuito e si dirama per varie location del sottobosco urbano.
(info www.myspace.com/lab80)
Claudia Attimonelli (aka lenore)
music al suo stato puro e minimale, quanto all’idea o all’elemento
trance così come si manifesta in differenti idiomi musicali”, e di
fatto la scena trance non possiede alcuna forma univoca nello
stile, “l’elemento trance si può cogliere sin da quando africani
e asiatici cominciarono a battere su percussioni artigianali”. Nel
1982 uscì Tragic Figures, un album determinante per quella che
sarà l’evoluzione musicale del post-punk e non solo (in particolare
influenzò il desert rock, la neo-psichedelia, l’industrial e soprattutto
il post-rock, del quale furono protagonisti con il loro progetto
successivo, gli Scenic). Dopo un cambio di formazione seguirono
l’EP Trudge e un secondo grande capolavoro: Cerimonial. Qui
la fascinazione per le sonorità esotiche si accentua dando vita
ad un complesso e inedito ethnic rock, una sorta di world music
psichedelica: la trance raggiunge il suo vertice creativo. Dice
Licher a proposito di questa loro ammirazione per i temi esotici: “Il
mondo arabo, mediorientale è un’autentica miniera assai poco
sfruttata, una esplosione di colori, di simbolismi. Il semplice alfabeto
arabo d’altronde ha un’eccellente densità pittorica nelle sue
lettere”. Giunsero poi Jamahiriya (1988) e Customs (1989), ultimo
definitivo passaggio nell’evoluzione del gruppo, il momento della
loro estrema maturità. La loro ultima esibizione fu il 25 febbraio
1989. Era il momento giusto, per evitare una triste e immeritata
degenerazione nella formalità o peggio nella pacchianeria. Ora
sono tornati, convinti di avere ancora qualcosa da dire. E in attesa
del nuovo album, godiamoci per ora questo inaspettato live, certi
che potranno ancora trans-portarci, anche se solo per un’oretta,
attraverso quelle loro magiche atmosfere. L’appuntamento è
martedì 13 marzo al Bohemien di Bari all’interno della rassegna
Planet of sound.
Gennaro Azzollini
23
Si intitola La Seconda Rivoluzione dei Tre Allegri Ragazzi morti il
nuovo lavoro della band capitanata dal rocker-fumettista Davide
Toffolo. Il trio di Pordenone, giunto al suo quinto disco, celebra
così il suo primo decennio di vita. Registrato presso il Green Fog
Studio di Genova (di proprietà dei Meganoidi) e prodotto da
La Tempesta, label gestita degli stessi T.A.R.M., l’album giunge a
tre anni di distanza dal precedente Il Sogno del Gorilla Bianco.
La Seconda Rivoluzione Sessuale contiene al solito brani secchi,
veloci, ironici e profondamente pop, pur introducendo una serie
di novità interessanti nella scrittura e negli arrangiamenti. Abbiamo
intervistato Enrico Molteni, bassista della band.
Questo disco segna il vostro ritorno discografico dopo circa tre
anni di assenza. Vi siete occupati anche di altro in questi ultimi
anni ma mi pare di capire che questo vostro ritorno sia piuttosto
ragionato e meno spontaneista rispetto ai dischi precedenti.
Sicuramente, la differenza è che questa volta siamo partiti
dalla musica, mentre prima partivamo da un’idea della singola
canzone, dalle parole o dal ritornello. Questa volta siamo partiti
dalla musica e ci siamo concentrati specialmente su di essa, pur
non essendo noi dei virtuosi dello strumento. Forse per questo
suona un po’ più ricco dei precedenti.
Soddisfatti quindi?
Direi di si. Le registrazioni sono durate 5 mesi e in questo lasso di
tempo l’umore naturalmente andava su e giù nel senso che fino
all’ultimo momento non eravamo certi che il tutto ci avrebbe
davvero soddisfatto. Una volta finito invece tutti e tre ci siamo
ritrovati d’accordo sul valore del lavoro che credo rappresenti
bene quello che siamo adesso.
La Seconda Rivoluzione Sessuale è il vostro quinto lavoro, che
chiude idealmente il primo decennio di vita dei T.A.R.M. Che
effetto fa suonare rock’n’roll e non essere più coetanei della
propria audience?
Questa è una domanda difficile. Io ho iniziato questa avventura
che avevo diciotto anni per cui c’era una totale corrispondenza
anagrafica con il nostro pubblico. Adesso siamo cresciuti ma mi
piace pensare che siamo riusciti a mantenere un approccio e
uno spirito che ci tiene legati agli adolescenti. Anche se devo dire
che i nostri ascoltatori sono un po’ cresciuti rispetto agli esordi,
nel senso che alcuni, diciottenni all’epoca, continuano a seguirci
ancora adesso a dieci anni di distanza.
Il disco l’avete registrato a Genova nello studio dei Meganoidi.
Città importante per la musica italiana, come sottolineano le note
stampa che accompagnano il disco…
…Diciamo che il vero contatto iniziale è stato proprio quello con i
Meganoidi infatti Mattia (Cominotto ndr)ha registrato il disco e ha
suonato in alcuni pezzi. Quindi la scelta della città era inizialmente
in secondo piano. Poi ci siamo resi conto di come Genova sia
una città che ti influenza. È una città difficile per certi versi, che
si è rivelata piena di musica e di persone nuove con ottime idee.
Infatti ci venivano spesso a trovare in studio e molti di loro sono
entrati nel disco.
E nel disco ci sono anche gli Zen Circus e Brian Ritchie dei Violent
Femmes. Raccontami di questi incontri.
Allora, dopo aver registrato il disco siamo andati a Ferrara a missarlo
e nello stesso studio c’erano gli Zen Circus che avevano questo
contatto con Brian Ritchie e stavano cominciando a registrare il
loro nuovo disco. Brian, oltre ad essere un grande musicista, è una
gran bella persona. Gli abbiamo chiesto in inglese maccheronico
di buttare un basso in un nostro pezzo e lui ha detto “si, perchè
no” e da lì è nata questa collaborazione che per noi è stata molto
importante perché abbiamo sempre seguito la sua musica.
Entriamo nel disco. C’è un pezzo che si intitola La Sindrome di
Bangs e che omaggia a vostro modo il celebre critico musicale.
Posto che ormai il vecchio Lester è un feticcio (con tutto quello
che ne consegue e in primis una certa acriticità di giudizio, ndr),
come è nata questa idea?
Ovviamente è Davide che scrive i testi per cui lui ti risponderebbe
meglio. Comunque, mi sembra un pezzo particolare… è difficile
che si scrivano pezzi per parlare di giornalisti musicali. Naturalmente
è soprattutto un omaggio ad un certo tipo di critica e giornalismo
libero. Con uno stile letterario tutto suo. A leggerlo oggi cogli che
tutto sommato nella nostra epoca manca un’altra figura come
lui.
Inoltre nel disco c’è una cover. Non è la prima volta che vi misurate
con pezzi altrui ma questa volta lo avete fatto in modo particolare.
Anzitutto perché avete scelto My Little Brother degli Art Brut?
Perché ci piaceva l’idea di interpretare un brano di una band
contemporanea. Abbiamo visto il loro live e ci ha colpiti la loro
attitudine che è molto simile alla nostra: un set fatto di canzoni
fresche, veloci, con tanti slogan. Quella canzone in particolare
ci sembrava suonasse bene perché in molti ci dicono “per colpa
vostra il mio fratellino – o mio figlio – adesso ascolta il rock’n’roll,
siete voi che gli avete fatto conoscere uno stile di vita diverso”.
Per cui, Mio Fratellino Ha Scoperto Il Rock’n’Roll ci sembrava
perfetta. L’abbiamo tradotta praticamente alla lettera, senza
reinterpretare liberamente il testo. L’abbiamo decisa al volo. Ed è
diventato un pezzo dei Tarm Brut (ride)…
Qualche cambiamento all’orizzonte per quanto riguarda
le ‘strategie’ mediatiche dei Tarm? Intendo: abbasserete la
maschera?
(ride) No, credo proprio di no. A questo punto non avrebbe molto
senso tornare indietro. È interessante l’idea di inventarsi nuovi modi
per trasmettere la propria immagine, senza però accantonare la
mascherina, che ormai è un simbolo e ai concerti vengono tutti
in maschera. Non potremmo mai abbandonarla. Ci piacerebbe
sfruttare i fumetti di Davide Toffolo, un po’ come hanno fatto i
Gorillaz, ma per noi è difficile immaginare degli show spettacolari
come quelli della band di Albarn.
Ilario Galati
24
KeepCool
REQUIEM
TOrNA
IL rITO DEI
VErDENA
I Verdena sono quello che il rock dovrebbe essere. Hanno mosso
i primi passi giovanissimi e sempre giovani hanno raggiunto fama
e credibilità. Merito di una scrittura decisa, di un talento grintoso
e di una sana dose di strafottenza. Amati o odiati come ogni
estremo, i Verdena escono in questi giorni con il loro nuovo album
Requiem. Dopo varie collaborazioni questa volta decidono di
fare tutto da soli (o quasi, due brani sono prodotti da Mauro
Pagani). La prima parola che viene in mente ascoltando il disco
e parlando con il cantante chitarrista Alberto è sincerità.
Sono passati tre anni dal vostro precedente Il suicidio dei samurai
una pausa lunga, cosa è cambiato in questo periodo, come siete
cambiati?
Sono stati per certi versi tre anni di riposo; la sensazione, quello che
sentivamo in questo periodo, era di non farlo, di non realizzare un
nuovo disco, non era in programma per lo meno. Poi negli ultimi
sei mesi ci siamo messi in studio e abbiamo cominciato a registrare
qualsiasi cosa. Per la maggior parte erano jam, improvvisazioni a
volte lunghissime a cui hanno partecipato anche amici. Dopo
questo periodo abbiamo riascoltato tutto e scelto quello che ci
sembrava migliore. Credo che tra una cosa e l’altra abbiamo
scelto tra 150 pezzi, frammenti, robe. Questa volta non ci siamo
imposti niente.
Molti si riferiscono a voi usando parole come maturità raggiunta,
io credo sia una vostra evoluzione, una normale crescita, tu come
ti vedi se ti guardi alle spalle e come vedi oggi te e i Verdena?
Credo la metodologia sia sempre la stessa fin dall’inizio. Quello
che cambia è l’esperienza, quello si. Sai, c’è il mondo che
cambia che a un certo punto salta fuori, ti scopri diverso. Cose
che da piccolo non vedi. Forse è vero che sarebbe meglio
restare bambini per sempre. Oggi credo di avere un’attitudine
più rabbiosa, sono stanco della spensieratezza.
Da rivelazione e giovane promessa del rock italiano siete oggi
una delle realtà più solide e più seguite in Italia, sentite una
responsabilità verso il vostro pubblico?
Non sento una responsabilità, certo mi rendo conto che ci
sono tante persone che ci ascoltano, che cantano le canzoni
ai nostri concerti, che sanno le nostre canzoni a memoria, che
magari riflettono su quello che dico. Credo sia una cosa molto
interessante.
Avete fatto, nel bene e nel male, proseliti, ci sono decine di
gruppi nati attingendo al vostro stile, cosa ne pensate?
Sentirlo fa un certo piacere. Sinceramente io non sento molte
cose che ci somigliano in giro. Mi è successo qualche volta con
dei demo. Alla fine quello che penso è ...non ce la farete mai!
(ride, ndr).
Dopo il disco, il live, una dimensione a voi congeniale, chi vi ha
visto dal vivo ne è rimasto folgorato, qual è il vostro rapporto con
il palco?
Sicuramente il live è una dimensione in cui ci muoviamo bene. È
una cosa magica, credo si tratti di adrenalina. Se c’è da tutte e
due le parti, band e pubblico l’effetto è pazzesco, c’è scambio...
è una cosa difficile da spiegare.
Questo numero di Coolclub.it è dedicato al 1977, che rapporto
hai con quegli anni e con il punk?
Il punk è importante per me come i Beatles, Miles Davis. Mi piace
molto, pensa che quando sono nervoso torno a casa metto su
Damaged dei Black Flag e mi rilasso. E poi sicuramente i Nirvana,
loro erano molto punk...
Quali nuovi gruppi ti piacciono.
Mi vengono in mente solo i Jennifer Gentle.
Osvaldo Piliego
25
Un lungo percorso come chitarrista
alle spalle, un presente che lo vede
pubblicare il suo primo disco solista con
Il re non si diverte. Nato in Canada ma
milanese a tutti gli effetti, Giuliano Dottori
è autore di canzoni dense di sentimento,
melodia, eleganza. Lucida è un disco che
ci ha subito conquistati. Mentre la radio
passa sentimenti annacquati Giuliano è
la risposta a chi chiede notizie sul nuovo
rock. America, Inghilterra, Italia si danno
appuntamento in queste tracce toccanti.
Una serie di musicisti ispirati al suo fianco,
elettrico e acustico alla stesso tempo,
indipendente per scelta Giuliano Dottori è
un talento che va scoperto.
Un esordio arrivato con calma, quella
necessaria per realizzare un disco così
intenso, cosa ti ha portato a Lucida?
Le prime registrazioni del disco risalgono
al 2004: è stato un lavoro in effetti molto
lungo. Non è stata in realtà una scelta,
perché il progetto è nato davvero nei
ritagli di tempo lasciati liberi dai vari
progetti in cui sono impegnato come
chitarrista. Ovviamente questo mi ha
permesso di riflettere molto su questo
disco, scrivendo moltissimo materiale che
poi ho accantonato e provando più strade
sia di arrangiamento che di produzione
artistica.
Nel tuo disco si sentono i Radiohead,
Nick Drake, gli Air, Battisti, gli Afterhours,
Moltheni, quanto di questo c’è dentro la
tua musica, quant’altro?
Confesso di non aver neppure un disco
di Battisti: conosco alcune sue canzoni,
quelle che conoscono tutti, ma devo
dire (eresia!) che mi piace davvero
poco, pur riconoscendone la grandezza
– diciamo – “storica”. Negli altri nomi che
citi mi riconosco abbastanza, nel senso
che sono riferimenti diretti (Nick Drake)
o artisti cha apprezzo molto (Afterhours,
Radiohead). La lista sarebbe poi in realtà
quasi infinita: Beck, Paolo Benvegnù, Elliott
Smith, Bob Dylan, Francesco De Gregori,
Neil Young, Led Zeppelin, tanto per citare
i nomi più celebri. Poi ho senz’altro diversi
riferimenti nel campo della musica colta,
applicata e non: Steve Reich, Howard
Shore, Shostakovich, Debussy e centinaia
di altri nomi. Che poi si sentano echi di
questa musica nel mio disco non spetta a
me dirlo.
La tua vocazione è acustica, il disco è
arrangiato con eleganza rara, ha delle
piccole salite per poi rituffarsi in momenti
molto intimisti, è un modo per mettere
in evidenza i testi, la voce, un modo per
avvicinarti alla tradizione cantautorale...
cosa?
Avrei voluto, in origine, che Lucida
fosse un disco acustico. Poi mi sono
reso conto che in un disco d’esordio è
molto importante definire il più possibile
il proprio mondo musicale, che nel mio
caso – come ho accennato sopra – è
davvero molto variegato. Così ho curato
nei minimi dettagli gli arrangiamenti e mi
sono volutamente sbizzarrito, chiamando
a raccolta i tanti musicisti con cui ho avuto
la fortuna di suonare in questi anni. Non ho
fatto tutto questo per avvicinarmi a una
tradizione che sinceramente non sento
mia, quanto per rivendicare l’idea, in un
mondo dominato da Pro Tools e Auto-Tune,
che la musica si può ancora scrivere sul
pentagramma e che è possibile fottersene
di avere o meno un singolo “forte”.
Definiresti
Lucida
un
disco
triste,
malinconico, riflessivo?
È sicuramente un disco riflessivo. Tutti i testi
sono in definitiva riflessioni sul passato che
ritorna, sulla potenza dei ricordi.
Esci con una indipendente ma il tuo disco
ha potenzialità da major. È una scelta o un
percorso?
Non so se questo sia un complimento, ma
lo prendo come tale e ti ringrazio. Credo
che da un punto di vista strettamente
musicale non sia l’etichetta discografica
a fare il prodotto: ci sono meravigliosi
artisti major e migliaia di artisticoli che
pubblicano con una indipendente con la
speranza di arrivare un giorno a una major.
Io dalle major non ci sono neppure andato,
c’avevo provato anni prima con altri
progetti, ma non questa volta. Ho fatto una
scelta di crescita, in un certo senso. Credo
che da anni la major abbiano una politica
del breve termine, del tipo “proviamo con
un singolo e se va male addio”. Viceversa
nel mondo indipendente, dove si lavora
più per passione che per fare fatturato, si
pensa a far crescere gli artisti, anche nel
corso di più anni. Penso che il percorso
degli Afterhours da questo punto di vista
sia stato esemplare.
Osvaldo Piliego
26
Continua senza sosta il nostro viaggio nel sottobosco discografico
italiano. A ben guardare si trovano fiori, strane piante o animali
teneri e socievoli con la passione per la musica. Sono quelli della
Macaco. Abbiamo parlato con Alberto e Solenn.
Macaco: una strana bestia si aggira tra le etichette indipendenti.
Quando è stata avvistata per prima volta?
Alberto: Siamo usciti dalla giungla nel 2004. All’epoca eravamo in
quattro e suonavamo assieme nei Grimoon e nei Libra. Era logico
partire con le nostre produzioni per sondare il territorio e abbiamo
fatto uscire il primo cd dei Grimoon Demoduff #1 e uno split dei
Libra. La cosa ci è subito piaciuta e abbiamo continuato con
Alessandro Grazian Caduto, poi con Marcho’s, Vega Enduro e
adesso stiamo continuando per allargare sempre più il catalogo.
Avere un etichetta era un nostro sogno. Venivamo fuori già da
altre esperienze finite male, volevamo ripartire e abbiamo unito le
forze per farlo.
Ascoltando il vostro catalogo la prima cosa che colpisce è
l’ecletticità della proposta. Da Grazian a Marcho’s passando per
i Vega Enduro. Come vi avvicinate agli artisti in catalogo, seguite
una linea o vi lasciate guidare da infatuazioni...
Alberto: Dalla nascita dell’etichetta abbiamo sempre lavorato
con artisti che ci piacciono…è la condizione fondamentale, al di
là dei generi musicali. Effettivamente i titoli in catalogo spaziano
da un genere a un altro. Essendo i Macachi degli animali docili
e socievoli ci piace stare assieme alla gente. Il nostro catalogo
è fatto di amici ma anche di artisti incontrati nel nostro percorso,
strada facendo. La macaco vuole essere una struttura dove i
musicisti si possano sentire accolti e assieme a loro organizziamo il
lavoro sulla produzione del disco.
Ci parli un po’ dei vostri gruppi?
Solenn: Nella cesta della musica cantautoriale c’è Alessandro
Grazian, autore e interprete delle proprie canzoni. Abbiamo
collaborato con la Trovarobato
per far uscire il suo primo disco.
Alessandro è un musicista molto
professionale e determinato.
Le sue canzoni in questo disco
sono dei piccoli frammenti
della sua personalità. È un
lavoro che arriva dopo molti
anni di preproduzione.
Tra cantautorato, folk e pop,
ci sono i Grimoon che hanno
appena fatto un nuovo disco
(che stanno promuovendo
in
questo
periodo),
La
lanterne magique. I Grimoon
propongono
un’immersione
nell’immaginario collettivo (e personale) con le loro musiche e i
loro cortometraggi. Sono anche il nostro ponte tra la Francia e
l’Italia. Tra pop e elettronica c’è Marcho’s, alieno delle montagne
che si esibisce in compagnia di 2 altri alieni. Nella sua musica c’è
il pop danzante e nei suoi testi il cinismo del mondo moderno. Poi
c’erano i Travolta, i Libra e i Vega Enduro che purtroppo sono fermi
adesso. Con i primi eravamo vicini ad un pop punk in italiano,
cinico e spensierato. I Libra erano più introspettivi e dilatati con
musiche tra rock e psichedelia e i Vega Enduro capitanati da
Giovanni Ferrario sono un vortice di suoni rock pop psichedelico.
E infine, lavoriamo come ufficio stampa e booking per Marta
Collica, in collaborazione con l’etichetta sarda Desvelos. Marta
incarna il blues cantautorale femminile italiano.
Dimenticavo, tra un po’ produrremo il disco solista di musica
elettronica di Erik Ursich. Erik con le sue macchine analogiche
è senza dubbio uno dei migliori esponenti dell’elettronica
sperimentale Italiana ed Europea.
La gente che si vuole avvicinare ai vostri gruppi, come può fare
(che tipo distribuzione avete, che canali)?
Solenn: Abbiamo distribuzione nazionale tramite Audioglobe per
la maggior parte del catalogo. I titoli che non sono disponibili
con Audioglobe sono disponibili tramite il nostro sito. Ovviamente
poi ci sono i concerti: ad ogni concerto di gruppi dell’etichetta
sono in vendita anche tutti i titoli del catalogo Macaco, www.
macacorecords.com. E infine c’è una newsletter che aggiorna
chi si interessa alla giungla su concerti, eventi, dischi in uscita.
Nell’intricato mondo della musica indipendente c’è un continuo
brulicare di case discografiche, questa è un’opportunità ma
anche un rischio, tu cosa ne pensi?
Solenn: Al di là delle etichette musicali, credo ci sia una
“sovrapproduzione” di musica indipendente, spesso di bassa
qualità. Oggi sembra che basti prendere una chitarra in mano,
registrarsi qualcosa in casa per poter ambire a diventare star
della musica indipendente. Si è persa la cultura musicale, la
conoscenza. Di fronte a
tanta domanda, ci sono
anche moltissime etichette
indipendenti, spesso nate dai
gruppi stessi che fanno uscire
altrettanti dischi, troppo spesso
di bassissima qualità. E quindi
succede quel che sappiamo:
non si mangia più (sempre
che si consideri che prima si
potesse mangiare…). Il mondo
dell’indipendente è molto
piccolo, già essendo in 10 non
c’è spazio per tutti. Adesso
che siamo 10.000 figuriamoci…
Anche per la promozione, per
il booking, per le vendite…c’è
troppo e non c’è spazio per
tutti… Le etichette di una
volta non ci sono più (pensare che anche Mescal ha venduto il
suo catalogo…) e quindi è crollato un modello di etichetta che
poteva fornire all’artista un’offerta valida. Il pubblico di una volta
non c’è più…il “mercato” indie crolla e spuntano fuori etichette
come funghi in autunno…perché? Forse farsi un’etichetta è una
nuova forma di autoproduzione…
Quale gruppo italiano avreste voluto produrre?
Solenn & Alberto: I Sepiatone, gruppo di Marta Collica e Hugo
Race. Ma collaborando al disco di Marta ci siamo avvicinati a
questo sogno…
Osvaldo Piliego
Coolibrì
Narrativa, Noir, Giallo, Italiana, Sperimentale
la letteratura secondo coolcub
Tutti i miei amici sono supereroi
Andrew Kaufman
Meridiano Zero
Ogni giorno ci abbarbichiamo cercando
di rendere la nostra quotidianità speciale.
Ognuno di noi ha una spiccata qualità,
o un preponderante difetto poco
importa, un elemento dominante che
supera gli altri. Alcuni di noi sono eroi della
normalità. I fumetti ci hanno venduto
una verità sbagliata, i supereroi volano,
riescono a fermare un treno in corsa,
riescono a vedere attraverso gli oggetti.
Ma non è così: basta guardarsi intorno
con un po’ di fantasia.
Il mondo è pieno di supereroi.
Metaforicamente parlando, magari,
ma quasi in ognuno di noi nascosto un
super eroe. Basta pensare in piccolo,
guardarsi intorno. Ecco che una monoossessione come il perfezionismo diventa
superpotere identifica un personaggio.
Questo è il gioco sottile, quanto geniale
che Andrew Kaufmann usa per intessere
una storia in cui amici e avventori
diventano supereroi agli occhi della
mediocrità del protagonista. Una galleria
di personaggi strambi muovono una
storia in cui il situazionismo, l’attitudine
allo scrocco, il presenzialismo diventano
poteri che nella società moderna fanno
emergere un uomo. Ecco che il surreale
diventa leggera ma pungente critica
della contemporaneità. Sullo sfondo uno
spettatore protagonista che scompare
agli occhi della sua amata. Un teatrino
ingenuo solo all’apparenza è il ritratto del
mondo in cui viviamo, un mondo in cui
la normalità non è più di moda, in cui il
peggio di noi è costretto ad emergere.
Nonostante questo Tutti i miei amici sono
supereroi non è un romanzo amaro, ma
esilarante. Perché alla fine scorrendo le
pagine ci riconosciamo, riconosciamo i
nostri amici quello che odiamo e invidiamo
in loro. Poetico a tratti Kaufmann, regista
e autore radiofonico, rende in poche
pagine il ritratto di un amante che non si
sente all’altezza ma che cerca con i denti
e le unghie di difendere il proprio amore.
Una soluzione narrativa più che originale
ci va vedere l’ordinario sotto una nuova
luce. Non ci sono reali superpoteri ma
piccoli giochi di potere. Una favola agrodolce che lascia il segno e il sorriso sulle
labbra.
Osvaldo Piliego
Coolibrì
28
28
guerra per la libertà dell’Occidente
Marshall e Joyce portano avanti la loro
guerra personale, con la stessa logica:
l’amico del mio nemico è mio nemico.
L’abilità dell’autore è quella di mettere
sullo stesso piano le strategie degli eserciti
e quelle degli avvocati della coppia nel
crescendo di azioni e reazioni. Da una
parte Marshall che cerca di manomettere,
con effetti comici il fondo di investimenti
di sua moglie e Joyce che cerca di
conquistare il migliore amico di suo marito;
dall’altra gli americani che cadono nella
trappola dei regolamenti di conti tra le
tribù dell’Alleanza del Nord in Afghanistan
e bombardano la popolazione civile. E
il sospetto che ci sia una sorgente unica
di questa furia cieca, che ha contagiato
l’Occidente fino alle scelte individuali, resta
anche dopo la conclusione, visionaria e
provocatoria di questa storia. (F.T.)
Le saggezze antiche
Michel Onfray
Fazi Editore
1977. L’ultima foto di famiglia
Lucia Annunziata
Einaudi
Ogni volta che Michel Onfray si siede e scrive, i suoi propositi non sono mai poca cosa.
Dopo aver affondato le religioni nel discusso Trattato di ateologia (vedi Coolclub n° 34),
è ora il turno della storia della filosofia. Così come la conosciamo, infatti, non sarebbe
altro che una variazione sul tema dell’idealismo, confezionata ad arte dal potere
cristiano, che a partire dal quarto secolo ha cancellato quella parte della filosofia
antica ritenuta incompatibile con lo spiritualismo e la cristianità, perseguitando filosofi,
vietandone l’insegnamento, chiudendo scuole, bruciando biblioteche, distruggendo
manoscritti o falsificandone le copie. Da allora, venticinque secoli di filosofia “minore”
sono stati messi in soffitta: sistematicamente ignorati, dimenticati o persino distrutti.
Tocca quindi a Le saggezze antiche aprire la strada agli otto volumi della controstoria
della filosofia, progetto ambizioso, dichiaratamente provocatorio, ma quanto mai
necessario. Il libro è un entusiasmante tuffo nel passato che svela l’altro volto della
filosofia antica, fatto di uomini che indagano la materia, che difendono la varietà
delle sensazioni, che insegnano il relativismo, che esaltano il piacere, il corpo, il vino,
le passioni, che rivendicano la libertà totale. Nel raccontare di pesci masturbatori e
sepolture nel miele, Onfray sfodera una prosa invidiabilmente fresca - impreziosita
dal gusto per l’aneddoto -, con la quale celebra una filosofia schiettamente umana,
terrena, ma capace di sorprendere con squisite raffinatezze del pensiero.
Silvestro Ferrara
Uno stato
disordine
Ken Kalfus
Fandango Libri
particolare
di
Marshall e Joyce,
sposati e con due
figli,
scampano
per miracolo agli
attentati
dell’11
settembre.
Lui
arriva nel suo ufficio
alle Torri Gemelle
in leggero ritardo e
riesce a uscirne in
tempo. Lei annulla
all’ultimo momento
il
suo
viaggio
sull’aereo che si
schianterà in Pennsylvania. Eppure nel
dolore di quella mattina, Marshall e Joyce
gioiscono segretamente della possibile
morte del partner. Anche se vivono ancora
nella stessa casa, marito e moglie sono
sull’orlo del divorzio. E la consapevolezza
di essere sopravvissuti al terribile attentato
invece che aiutarli a venire fuori dal caos
della loro esistenza, li spinge ancora di più
in un abisso di rancori e odio reciproco.
Così, in quelli che sono probabilmente i
mesi più bui della storia recente degli Stati
Uniti, le due vicende individuali di Marshall
e Joyce, residuo di una tranquilla storia
familiare si incrociano e si confrontano con
le angosce dell’intera nazione e le loro
conseguenze nel mondo: dal crollo del
World Trade Center all’invasione dell’Iraq,
passando per l’allarme antrace e la guerra
in Afghanistan. Che valore ha per Joyce, in
questo stato di disordine mentale il ricordo
di un passato recente in cui pensava a
quanto fosse fortunata ad essere giovane
e brillante e vivere a New York con amici
intelligenti e un marito intraprendente?
Cosa è cambiato per Marshall ora che di
fronte al disordine sociale, si rende conto
di aver vissuto “nella stupida convinzione
che bastavamo noi per dare un senso a noi
stessi”? Non c’è nessun valore terapeutico
in questo particolare stato di disordine
perché mentre sta per cominciare la
“In Italia quasi la
metà dei delitti viene
consumata in famiglia.
A questa regola non
sono sfuggite le grandi
famiglie della politica
italiana. Nel 1977 la
famiglia della sinistra
uccise
suo
padre,
il Partito comunista
italiano. Un delitto a
lungo
cercato”.
Ci
vuole un certo distacco – temporale e poi
mentale – per ricostruire la portata di eventi
chiave della storia italiana, soprattutto se
vissuti in prima persona e con la foga delle
ideologie. Lucia Annunziata, giornalista
ed ex presidente della Rai, racconta il suo
’77, senza aver la pretesa della scrittura
saggistica, anzi, evitandola di proposito
dato il suo coinvolgimento nei fatti narrati.
L’ultimo grande tentativo di ribellarsi ai
“vecchi” e ai padri, e di farlo a suon di
slogan e P38, se necessario. Il ’77 si è
lasciato dietro tra l’altro una scia di sangue
giovane, poco importa se per colpa della
polizia o delle Br. In una recente intervista a
Daria Bignardi, la Annunziata ha affermato:
“Tutti quelli che hanno vissuto quell’anno
ne hanno pagato le conseguenze, sia
in politica che nella vita privata. Anche
Cossiga ha avuto il suo inferno personale”
Anna Puricella
Nada
Carmen Laforet
Neri Pozza
Come un cerchio, il libro
si chiude così come
si è aperto. Gonfio di
aspettative, proteso in
avanti su di un futuro
che sa e può portare
cambiamento.
Così
si apre su una svolta
forte, il cambio di città,
l’arrivo a Barcellona
per
studiare,
poi
corre e scorre veloce
scandito da tre parti
che portano dentro
Coolibrì
tre nuovi, non grandissimi, passaggi,
comunque importanti per il ‘nostro’
racconto, ed infine si chiude nuovamente
e finalmente, al colmo dell’esasperazione
e sull’orlo della follia, con la partenza per
Madrid ed una nuova vita. Andrea, la
protagonista io narrante, lascia Calle de
Aribau dopo un anno di delusa esistenza.
Magrissima di fame e povera. Sola. L’unico
affetto acquisito a Barcellona sarà quello
che la libererà dai legacci della casa di
calle de Aribau e la porterà a spostarsi a
Madrid. Scritto nei primi anni ‘40 del secolo
scorso, Nada vince il premio ‘Nadal’ nel
1944 e si distingue tanto da esser definito
dalla critica uno dei migliori romanzi del
dopoguerra spagnolo. In Italia torna in
commercio con una edizione tutta nuova
- grazie alla borsa di studio vinta da una
nuova traduttrice Barbara Bertoni alla
‘casa del traductor’ di Tarazona (Spagna)
- per tipi di Neri Pozza. Nada è un libro che
corre veloce, scritto e tradotto benissimo.
Benché a tratti di una tristezza profonda,
per le tematiche e le vicende di cui tratta,
la scrittura resta sempre fresca e luminosa,
lieve come un vapore, avvolgente e
capace di restituire più di ogni altra cosa
il clima umano ed intimo di Andrea nella
Barcellona della sua giovane età. Stupisce
la modernità del linguaggio che pesca
nel gergo parlato con estrema disinvoltura
descrivendo eventi e sensazioni con una
immediatezza bellissima, senza il filtro
spesso inevitabile delle convenzioni del
tempo. Non so ancora bene se questa sia
l’esatta cifra dell’autrice, Carmen Laforet,
o (più probabilmente) la differenza tra
la nostra cultura e quella spagnola, che
senz’altro mi è sempre parsa più brillante
nel descrivere l’umanità senza far uso
di pregiudizi, filtri e convenzioni. È così
sorprendente seguire il filo del racconto che
è imperlato di luminose visioni sul mondo,
sull’architettura della città vecchia, sul
contesto cittadino e sulla ‘fauna umana’
che Andrea incontra lungo il suo cammino
durato un anno della sua vita condivisa
con noi... lettori. L’impressione è quella di
avere una presa diretta con il suo pensiero,
come se il passaggio in scrittura non avesse
minimamente incrinato o intaccato la
qualità della visione... L’autrice si è fatta
così protagonista indiscussa e geniale
della materia che racconta.
Valentina Sansò
Franco Battiato 1965-2007.
L’interminabile cammino del
Musikante
Vanna Lovato
Editori Riuniti
Nei piani alti della classifica con il suo
nuovo cd Il vuoto, Franco Battiato sbarca
anche nelle librerie con un volume, curato
da Vanna Lovato, che ripercorre tutta la
carriera del cantante e musicista siciliano,
dai suoi esordi nel 1965 sino alle attuali
digressioni nelle altre arti. Franco Battiato
1965-2007. L’interminabile cammino del
Musikante rientra nella Collana Momenti
rock, diretta da Ezio Guaitamacchi, della
Editori Riuniti.
Il libro è un interessante viaggio,
adatto soprattutto ai fan più sfegatati,
nell’articolato mondo di Battiato dai primi
approcci musicali nelle balere lombarde,
2329
Bertoncelli, Battiato dirà “Cage! Un mito
di carta: non so quanto potrà restarne un
domani”. Il volume scivola via tra aneddoti,
dichiarazioni di Battiato (recuperate da
interviste e libri precedenti), analisi dei dischi
e dei singoli brani. Non mancano anche gli
altri lati di Battiato. Da autore a produttore,
da pittore a cineasta. Un compendio ben
curato per uno dei casi musicali dell’Italia
degli ultimi quarant’anni. Sempre discusso,
spesso discutibile. Franco Battiato, per ora,
non tramonta mai. (pila)
Voi siete qui. Sedici esordi
narrativi
a cura di Mario Desiati
Minimum fax
dove approdò poco più che diciottenne
abbandonata la sua isola, alla prima
incisione del 1965 pubblicata, udite
udite, in allegato al settimanale Nuova
Enigmistica Tascabile. L’amore è partito
(cover di un pezzo di Beppe Cardile,
chi era costui) segna dunque l’avvio di
una fortunata carriera che è trascorsa
attraverso il prog degli anni ‘70, con album
culto come Fetus, Pollution, Sulle Cordie di
Aries, sino alla consacrazione pop dei primi
anni ‘80 o giù di lì. Da L’era del cinghiale
bianco in poi si apre una vera e propria
stagione nuova per Battiato che entra
in classifica, va in tv, diventa icona di un
certo pubblico che non lo abbandonerà
più. Una virata decisa verso la forma
canzone, lontana dagli sperimentalismi
che suscitò anche numerose critiche e
affermazioni molto dure nei confronti dei
suoi “maestri” Stockhausen e Cage. In
quel periodo in una intervista a Riccardo
“Sulle riviste letterarie gli scrittori già
pubblicati possono osare, i nuovi scrittori
possono esordire”. Spiega anche così
l’importanza delle riviste lo scrittore
pugliese Mario Desiati che ha curato il
terzo Best off della Minimum fax, in questa
edizione 2007 dedicato agli esordienti.
Sedici autori e sedici racconti recuperati
qua e là sul territorio nazionale da riviste e
fanzine, blog e siti internet. Uno spaccato
interessante di quello che si può leggere
in giro. L’importanza di Voi siete qui è
molteplice. Dal punto di vista letterario
si possono leggere spunti interessanti e
giovanissimi scrittori (alcuni alle soglie dei
venti anni) già formati e come si direbbe
in maniera poco oxfordiana “sgamati”
stilisticamente. Dall’altra invece queste
operazioni editoriali rilanciano discussioni
troppo spesso sopite sullo stato della
letteratura italiana che, a ben leggere,
non è messa poi così male. Tra i racconti
segnaliamo (patriotticamente) anche
quello di Cristiano de Majo apparso sulla
rivista salentina Vertigine, curata da
Rossano Astremo. (gazza)
L’incanto delle macerie
Rossano Astremo
Icaro Editore
Un uomo. Una donna. I loro corpi rinchiusi in uno
spazio domestico. Un amore totale, il loro. Uno
schermo proietta immagini. Programmi di tutto
il male che c’è. Flashback della realtà lasciata
alle spalle. Potere, guerre, collassi. Due solitudini.
Un’unione. Inseparabili, mediatizzati: vivono
attendendo un mutamento che li travolga.
Questa in sintesi la storia raccontata in versi in
L’incanto delle macerie, seconda raccolta
poetica del nostro prezioso collaboratore
Rossano Astremo, edita da Icaro, pubblicata
ad oltre tre anni di distanza da Corpo poetico
irrisolto. Scrive il poeta piemontese Flavio Santi
nell’introduzione al libro: “Nella centrifuga di
stimoli e impulsi che questa poesia muove e genera, a fine lettura si ha l’impressione
che essa consista, non slabbri o ecceda – il rischio di tanto barocco-, ma sia.
Sia e dunque dica, senza concedersi aloni o zone d’ombra. Dica di un mondo
dove trionfa lo spettacolo, lo scambio simbolico e la morte, dove la finzione viene
survoltata e diventa realtà (…) Dica di una storia d’amore che, consentaneo
specchio del mondo, è finzione nel momento in cui è reale, ed è reale nel momento
in cui finge (…) Dica di un mondo dove guerra è sempre: Iraq è metonimia della
globale devastazione. Di un mondo visto come enorme e roboante discoteca
dove techno e pop music scandiscono la forza degli stessi versi, sublimandoli e
desublimandoli schizofrenicamente”. Rossano Astremo è redattore della rivista
Vertigine (anche on line vertigine.wordpress.com).
Coolibrì
30
Raffabook
Rose e pistole
Le grandi personalità
di solito si celebrano
da morte. Se ne
ricordano
episodi
inediti,
miracoli,
opere e omissioni,
abitudini
e
pettegolezzi, in un
profluvio di libri dischi
dvd
documentari
e,
nel
migliore
dei casi, fiction.
Non è il caso di
Raffaella Carrà, viva e arzilla più che mai,
tornata in tv lo scorso inverno ma sempre
presente nel cuore degli italiani. Non come
semplice icona gay dell’ultima ora - lei
stessa ammette di non sapere perché sia
tanto amata dal pubblico omosessuale
- , la Carrà ha segnato la tv italiana. Ha
osato sfidare il perbenismo, ci ha mostrato
ammiccante l’ombelico, ha incarnato
l’ideale della rivoluzione sessuale. Faceva
invidia quando ballava disinibita il Tuca
Tuca, regina incontrastata del sabato sera,
dalla figura minuta ma in grado di togliere
il podio – e l’occhio delle telecamere – ai
conduttori uomini. Fabio Canino e Roberto
Mancinelli le dedicano un volume che più
che un libro ad memoriam è uno show
del sabato sera: foto inedite, commenti di
quanti hanno lavorato con lei, disegni dei
suoi abiti, gadget, la discografia completa
e una selezione di brani da inserire
urgentemente sull’Ipod. Raffa o si odia o si
ama, come tutti i grandi. Sfido io comunque
a trovare qualcuno che non abbia mai,
e dico mai, canticchiato Rumore o Tanti
Auguri in vita sua.
Anna Puricella
L’ampia gamma di libri dedicati al 1977 ci
propone anche questo Rose e pistole (titolo
al quale ci siamo ispirati per questo numero
di Coolclub.it) di Stefano Cappellini. Il
libro, corredato da alcune foto di Tano
D’Amico, è molto ben articolato giacché
non si limita ad una mera elencazione
dei fatti accaduti ma cerca di descrivere
il clima all’interno del quale morti e
creatività, scontri in piazza e radio libere,
riuscirono a convivere. Quella convivenza,
all’apparenza impossibile, tra le rose e
le pistole, tra la violenza più insensata
e l’innovazione del pensiero. Cappellini
dedica un intero capitolo all’identikit
dei personaggi che animarono quella
stagione irripetibile dagli autonomi agli
indiani metropolitani, dalle femministe ai
terroristi. E poi racconta tre episodi chiave
dell’anno come la cacciata di Lama, gli
scontri di Bologna, durante i quali perse la
vita Lorusso, e la tragedia di Roma nella
quale rimase vittima la diciannovenne
Giorgiana Masi. Storie incredibili se lette
con gli occhi di oggi, normalità per i
giovani dell’epoca. Per chi, come me, nel
1977 è nato libri come questo ricordano
e insegnano che quel clima di paura e
sgomento che la mia generazione ha
vissuto nei giorni di Genova, trent’anni fa
erano sentimento quotidiano. (pila)
Fabio Canino e Roberto Mancinelli
Sperling & Kupfer
Il caso e l’inganno
Valerio Morucci
Bevivino
Associare
il
nome
di Valerio Morucci
solo all’autore, ormai
stimato, di noir mi
riesce un po’ difficile.
Inevitabilmente finisco
col pensare alla sua
storia personale ed al
fatto che, nel bene e
nel male, sia stato uno
dei protagonisti di una
delle vicende più controverse e dolorose
dei cosiddetti anni di piombo, la strage
di via Fani e il rapimento di Aldo Moro.
Ed è ancora più difficile credere che sia
proprio lui il padre del commissario Amidei,
protagonista del libro, uomo di legge per
necessità, senza atteggiamenti stereotipati
da duro e puro, costretto a fare i conti
quotidianamente con le sue frustrazioni
e le sue occasioni mancate. Il libro ha la
classica struttura di un noir, dove si inizia
da un omicidio senza movente, ma ciò
sembra solo un espediente narrativo per
permettere al commissario Amidei di fare
un viaggio a ritroso nel tempo e provare
a rimarginare alcune sue ferite ancora
aperte, il tutto raccontato con uno stile mai
banale.
Silvia Visconti
Stefano Cappellini
Sperling & Kupfer
Playboy a Miami
Charles Willeford
Marcos y Marcos
Sembrano usciti da un film di Quentin
Tarantino i quattro protagonisti di Playboy
a Miami di Charles Willeford che arriva,
finalmente, anche in Italia grazie all’opera
di una casa editrice come Marcos y
marcos. Willeford,
classe 1919, dopo
essere
rimasto
orfano
entrò
nell’esercito,
e vi rimase per
vent’anni.
La
sua carriera di
scrittore iniziò a
trentasei anni ma
il vero successo
arrivò solo nel
1984 con Miami
Blues.
Quattro
anni di successi
e di notorietà prima di andare incontro
ad una prematura morte. Questo Playboy
a Miami è un libro cattivo e spietato
nel quale amici vitelloni pieni di soldi e
spavalderia, abitanti di un microcosmo
dedicato ai single, una specie di riserva
indiana per playboy e giovani donne alla
ricerca dell’uomo giusto, ne combinano di
tutti i colori. Tra una ragazza sfasciata dalle
droghe e un grilletto premuto con troppa
rapidità, tra un marito eccessivamente
geloso a regali “bellissimi”, i paradossali
racconti di Eddie Miller, Don Lucchesi,
Hank Norton e Larry Dolman si infittiscono
e vengono visti da diverse angolazioni. Il
finale, che di certo non ti aspetti, non può
che rispecchiare tutta questa follìa.
(Pila)
Mara Nanni, ex brigatista rossa condannata
all’ergastolo nel primo processo Moro e
uscita dal carcere nel 1994 dopo aver
scontato 15 anni, ha percorso tutte le tappe
che caratterizzarono gli “anni di piombo”.
Giovanissima contestatrice all’università,
ai primi anni Settanta si avvicinò agli
ambienti dell’estrema sinistra e quindi
all’area che poi costituì il nucleo storico
delle Brigate Rosse. Entrò in clandestinità
e nel 1979 venne arrestata. In quel
momento cominciò un nuovo percorso
che, attraverso le varie carceri speciali, la
portò a riconsiderare il suo passato, le sue
scelte ideologiche e, in un certo senso, la
storia di quegli anni drammatici a cavallo
del delitto Moro. Dopo E allora?, biografia
scritta a quattro mani col giornalista
romano Stefano Pierpaoli, pubblicata da
Edizioni Interculturali nel 2002, è da poco
nelle librerie il graphic novel La storia di
Mara, romanzo per immagini firmato da
Paolo Cossi ed edito da Lavieri.
Mara, dopo E allora?, che comunque
rappresenta un’ottima biografia sulla tua
vicenda personale, perché la scelta di
affidare ad un fumettista la tua storia?
Il fumetto, secondo me, rappresenta
una forma importantissima di espressione
letteraria. Purtroppo sottovalutata nel nostro
Paese. Credo quindi che sia un’importante
mezzo di comunicazione a cui affidare una
storia così particolare come la mia. Forse
il fumetto riesce anche a sdrammatizzare
una storia comunque normalmente legata
a metodi di racconto drammatici. Inoltre ho
affidato la stesura della versione a fumetti
ad un artista che ritengo sensibile e di
grande talento come Paolo Cossi, sia sotto
il profilo narrativo e di sceneggiatura, che
come artista grafico, in grado di imprimere
le giuste sensazioni alla mia vicenda anche
attraverso le immagini.
A distanza di trent’anni cosa rimane di
quell’esperienza umana e politica?
Di quell’esperienza rimangono una serie
di prove, difficili da superare, che hanno
formato il mio carattere e la mia attuale
personalità. Molte delle cose che ho fatto
erano scelte determinate dallo spirito
di quei tempi e dal coinvolgimento in
un movimento giovanile che aspirava a
trasformare il mondo, spesso seguendo
analisi teoriche che in seguito si sono rivelate
erronee. Alcune trasformazioni della cultura
del costume e della società sono state
senza dubbio positive ,gli anni ’70 non sono
stati solo anni di violenza politica ma anche
anni di creatività e di evoluzione, ma è vero
anche che in quella fase storica in molti
abbiamo seguito un’utopia che non ha
portato risultati positivi né a noi né agli altri.
È indubbio che la scelta della lotta armata
mi appare oggi come completamente
avulsa dalla storia e controproducente
Coolibrì
per tutti coloro ai quali doveva portare dei
risultati positivi.
Quindici anni di carcere segnano
indelebilmente la vita di chiunque. Quanto
è stato difficile ricominciare?
L’esperienza della costrizione carceraria
segna in modo indissolubile qualsiasi
individuo. Lo aliena completamente dal
mondo circostante, impedendogli di
captarne molte delle trasformazioni e delle
mutazioni. Il tornare in libertà mi ha mostrato
una società completamente cambiata di
cui ho esplorato luoghi a me sconosciuti.
Ho focalizzato la mia attenzione sulle
tematiche culturali. Un argomento che ho
visto essere in completa involuzione nelle
società attuale. Malgrado nuovi mezzi di
comunicazione siano diventati accessibili
alle masse, queste sembra non averne
sempre colto le possibilità. Mi interesso
di letteratura, di fotografia, di cinema,
della multimedialità, delle possibilità di
espressione e comunicazione che derivano
dall’informatizzazione.
In questi ultimi anni, basti pensare ad un
evento cardine quale il G8 di Genova del
luglio 2001, sembrava essere riemersa una
nuova attenzione verso una partecipazione
attiva alla vita politica del Paese da parte
della giovani generazioni. Ora, mi sembra,
che ci sia stato una sorta di riflusso, un
ritorno nei propri spazi domestici. Cosa
avevate voi ragazzi degli anni ’70 che
manca ai giovani di oggi?
La fase storica che ha caratterizzato
il movimento degli anni ’60 e ’70 era
impregnata di una forte connotazione
ideologica. L’aspirazione collettiva era, pur
se con metodologie diverse, cementata
dalla comune adesione ai principi
marxisti. L’esempio che ci proveniva
dal Vietnam dalla Cina da Cuba era il
Un uomo fermo ad un semaforo,
mentre sta per andare al lavoro, nel
tempo breve richiesto dal passaggio
dal rosso al verde, ricorda un caso
affrontato quando era ancora un
praticante, dieci anni prima. Ne
ricorda il fallimento, ricorda ogni
dettaglio apparentemente destinato
a cambiare la sua vita, ricorda una
per una quelle che sembravano delle
opportunità, compreso un cadavere
e tutto il suo sangue, offerte da quegli
anni luminosi, ricorda il periodo in cui
tutto sembrava possibile, ricorda tutti
i suoi sforzi per correggere la realtà
che gli si palesava innanzi al fine di condurla a sé, ad una verità
accettabile, alla perfezione, alla bellezza. Questa in sintesi la
trama de Il correttore, secondo romanzo della scrittrice leccese
Elisabetta Liguori, edito da peQuod.
Evitiamo ogni equivoco. Il tuo romanzo non è un giallo. Certo,
c’è un omicidio, un’indagine, tutto segue i crismi della scrittura
di genere, ma sembra trattarsi solo di un espediente narrativo
per gettare luce sulla vita di Nicola e Angela, i due indiscussi
protagonisti del romanzo.
Sì, la scrittura di genere è stata evocata quasi naturalmente dalla
scelta stessa di trattare temi attinenti al mondo della giustizia.
Mi è sembrato quello il linguaggio più adatto, d’impatto più
immediato, per raccontare il lavoro di chi fa indagini penali, la
fatica, il concatenarsi obbligato dei passi. Il linguaggio che il
lettore poteva sentire come più familiare, utile a favorire poi una
specie di più facile, inevitabile approfondimento del tema stesso.
Il genere è la cornice, il quadro è fatto di uomini, dei loro gesti
concreti e quotidiani, piccoli e grandi. La differenza quindi sta nel
dettaglio, nell’analisi accurata dei personaggi.
punto di riferimento generazionale, pur
essendo oggetto di una analisi che ne
sopravvalutava il ruolo. La mancanza di
un pensare collettivo, di una visione della
vita basata sulla solidarietà fra persone
dello stesso paese e non solo, sono ormai
assenti da molto tempo, a prescindere dai
contenuti ideologici di allora, nella cultura
occidentale. I movimenti che attraversano
questa fase, oltre ad essere privi di una
visione ideologica e politica omogenea,
fanno i conti con una società in cui trionfa
l’individualismo e la passività culturale.
L’interpretazione utopistica che del
marxismo ha avuto il movimento degli anni
’60 ’70 ha prodotto si dei danni gravissimi,
ma l’assenza dei valori di riferimento
e la confusione ideoligica potrebbero
comunque produrne di ulteriori.
Rossano Astremo
Infatti una delle caratteristiche della tua scrittura è la capacità
di entrare con precisione chirurgica nelle menti dei tuoi
personaggi..
I personaggi sono la mia ossessione: mi piace essere precisa,
dettagliata, ma non scientifica, risolutiva, mi piace far germinare
dubbi, ipotesi. La struttura del giallo si serve sul dubbio, lavora sul
dubbio, lo trasforma, ha il dubbio come motore, e quindi risulta
affine alla natura del mio protagonista, Nicola uomo che vuol
imparare, e che tenta disperatamente di liberarsi dai suoi dubbi,
cancellarli, risolverli e trovar verità.
Al racconto in prima persona di Nicola sulle vicende legate al
primo omicidio sul quale ha lavorato si alternano interi capitoli in
cui trascrivi le telefonata tra l’uomo e sua moglie Angela. Dialoghi
in puro discorso diretto, senza interventi esterni. Pure partiture
teatrali. Perché questa scelta?
I dialoghi sono la parte più importante del libro, sono il suono e le
immagini della storia. Quello che se fossi uno sceneggiatore o un
regista, forse avrei scritto e filmato più volentieri. Alle domande
astratte e personali che la storia pone, si oppongono i dialoghi.
Grazie a questi la vicenda evolve, anche nel ricordo. I dialoghi
sono la verità: una verità sempre e comunque doppia, perché
composta dal fondersi di due personalità, contaminata dai
desideri di chi la attraversa, dai suoi bisogni. Qui i dialoghi sono
il motore perché una coppia è motore, mezzo di trasporto. Una
coppia comprende le cose del mondo, la sua attualità, attraverso
la coppia stessa, finché funziona, e lo fa servendosi delle parole di
coppia, nate con il tempo, grazie ad artifici noti solo dalla coppia
stessa; sono parole diverse da quelle che gli esseri umani utilizzano
nelle altre forme di relazione. Volevo raccontare la verità che
nasce da questa comunione e come questa verità, forse la sola
che abbiamo, possa essere messa in pericolo dalla distanza. Ora
che ci penso ho scritto un libro quindi anche sulle distanze e su
quello che siamo costruiti a fare per ridurle.
Rossano Astremo
Coolibrì
La minimum fax è nata ufficialmente
nel 1993, anche se allora era soltanto
una piccola rivista sotterranea, una
pubblicazione periodica che veniva
diffusa via fax. Nel 1994 la redazione
decise che era giunto il momento di
dare un corpo cartaceo a quello
che avevano da dire, a quello
avrebbero voluto leggere e che
fino ad allora avevano affidato solo
alle linee telefoniche. Molto tempo
passato e molte cose sono cambiate
da quegli anni. La minimum fax è una delle realtà editoriali
indipendenti più interessanti in Italia, che si contraddistingue per
la ricercatezza e la qualità della scelta dei libri da pubblicare.
Per questo numero di Coolclub.it abbiamo scambiato quattro
chiacchiere con Marco Cassini, direttore editoriale e fondatore
della casa editrice romana.
Marco, qual è il ricordo che più conservi dei primi anni? Di quella
rivista mandata via fax da cui tutto è partito?
L’idea che più mi lega in modo affettuoso ai nostri inizi è quella di
un gruppetto di persone che facevano qualcosa senza sapere
cosa sarebbe diventata, cioè se era destinata a rimanere
una esperienza effimera o (come non potevamo nemmeno
immaginare) la cosa più importante della nostra vita. Eravamo
pionieristici e sconsiderati, imbranati e avventurosi, come
può esserlo solo chi ha un progetto in cui crede ma lo porta
avanti senza averlo programmato: insomma, non potevamo
immaginare che dopo quindici anni saremmo stati ancora qui.
Non ne sapevamo niente di editoria (se non da lettori, ma non
è un elemento decisivo nel curriculum di un editore) soprattutto
non ne sapevamo granché di imprenditoria. Ci siamo tuffati da un
trampolino che non finiva mai, e a dirla tutta credo che ancora
non siamo arrivati a bagnarci le punte dei piedi.
La minimum fax ha iniziato ad abbandonare l’underground
editoriale dopo la pubblicazione e il discreto successo di vendite
dei primi libri di Carver e delle raccolte di versi di Bukowski.
Questa attenzione per la letteratura americana vi ha sempre
contraddistinti. Altre scoperte quali David Foster Wallace, Rick
Moody e, da ultimo, D’Ambrosio, sono legate alla vostra attenzione
per ciò che accade oltreoceano. Ma cosa ha in più la letteratura
americana rispetto alla nostra?
Lasciami dire che non credo proprio minimum fax abbia
abbandonato, o quanto meno non del tutto, l’underground.
È innegabile che Carver sia “meno underground” – se esiste
qualcosa come una scala di undergroundness – di uno qualsiasi
degli autori esordienti (italiani o stranieri) che abbiamo incontrato
per strada. (Ma per onestà bisogna anche dire che, prima che
lo rilanciassimo, era completamente scomparso dalle librerie,
dai cataloghi degli editori, e in buona parte dall’immaginario
letterario di molti). Ma visto che parli di underground editoriale e
non letterario, credo che siamo ancora molto molto sotterranei (e
del resto è proprio questo il nome che abbiamo dato alla collana
principale della nostra casa editrice). Perché siamo indipendenti,
non allineati ai meccanismi che regolano e muovono i grandi
numeri. Certo siamo emersi un po’ rispetto agli inizi, i nostri libri si
vedono di più in libreria, si trovano più recensioni sulle pagine di
cultura dei quotidiani, più gente rispetto al 1994 sa cos’è minimum
fax (e mia madre un giorno mi ha chiamato tutta emozionata per
dire che “minimum fax” era la risposta a un quiz del programma del
pomeriggio condotto in tv da Gerry Scotti...) e del resto considero
tutto questo nulla più che il risultato di un decennio e mezzo di sforzi
e sacrifici (per noi) sovrumani. Ma d’altro canto esistono libri di altri
editori che in una sola edizione e in una sola settimana vendono
(lo dico senza esagerazione) più di tutte le copie di tutti i titoli che
abbiamo pubblicato in tutti gli anni da che esistiamo. Venendo
al cuore della domanda: “cosa ha la letteratura americana più
della nostra?” credo di poter rispondere: forse niente. Ci sono cose
distanti, toni differenti, approcci diversi, tutto questo è innegabile
e ovvio. Prediligiamo, è vero, alcuni scrittori o aspetti o filoni che
provengono dagli Stati Uniti (e che – certo, certo! – sono il prodotto
di un immaginario ricco, di un “essere al centro del mondo”, ecc
ecc) ma se stessi qui a fare l’elogio dell’unicità e prevalenza
della letteratura americana, cosa che ovviamente non mi preme
particolarmente, sono sicuro che lo stesso potrebbe fare, che so,
Voland per la letteratura dell’est europeo, Cavallo di Ferro per la
lusitana, e/o per il noir mediterraneo...
Poi qualche anno fa avete scelto di puntare sulla giovane
narrativa italiana con la nascita della collana Nichel. Un azzardo
che sta dando ottimi frutti: ottimi scrittori e ottimi libri. La Parrella,
ma anche Raimo, Pacifico, Lagioia, Meacci, e l’elenco sarebbe
infinito, sono passati (e molti restati) da voi... Cosa vi ha spinto a
puntare sui giovani? Non è un ulteriore rischio per una “media”
casa editrice come la vostra?
Pubblicare autori italiani, soprattutto se esordienti, è un passo che
a un certo punto abbiamo sentito necessario, e dico necessario
con tutta la forza e il peso che questo aggettivo può avere. È
connaturato all’idea di editoria quella di scoprire, di dare forma
e visibilità a qualcosa che fino a un certo punto “non esiste” nel
mondo esterno. C’è un forte senso si responsabilità in tutto questo,
che noi sentiamo e che ci governa. Responsabilità nei confronti
dei lettori come per ogni libro, ma in questo caso, è fortissimo
nei confronti degli autori. Decidere se dare o no voce e forma
a un manoscritto e farlo diventare libro, decidere insomma
se pubblicarlo o meno, e quando, e come, fino a decisioni
apparentemente innocue o secondarie come il mese di uscita o
l’illustrazione o addirittura il prezzo di copertina. Siamo fin troppo
consapevoli che ogni piccolo dettaglio di ciò che farà di un
manoscritto un libro può essere determinante per le sue sorti, e
quindi per le sorti dell’autore che ha covato, partorito, coccolato
quel romanzo o quella raccolta di racconti.
Altro elemento che vi contraddistingue è la vostra capacità
nell’organizzare eventi legati alla promozione dei libri. Tra book
party, happy hour, feste, reading, e quant’altro, l’ingegno di certo
non vi manca... Avete nuove sorprese in cantiere?
Per ora ci stiamo concentrando sulla valorizzazione dell’idea di
book party, una festa il cui motore stesso sia un libro. Il libro diventa
al contempo la ragione stessa della festa, il suo epicentro e il
“biglietto di ingresso”. Dopo averlo lanciato per la prima volta a
Roma a gennaio, in occasione dell’uscita dell’antologia Voi siete
qui, da mezza Italia ci stanno chiedendo di organizzarne altri. È
possibile che se ne facciano ancora, e in effetti ne abbiamo già
in cantiere due (uno a Torino e uno ancora al Rialto Santambrogio
di Roma) ma non vogliamo farlo diventare né un business né una
abitudine: da una parte non vogliamo sminuirne la portata di
“eccezionalità” (e se ne facessimo una a settimana ci stuferemmo
ben presto, tanto noi quanto i nostri lettori), dall’altra vogliamo
davvero rimanere concentrati sull’unica passione e sull’unico
lavoro a cui dedichiamo tutti i nostri (molti) sforzi: la ricerca di
buone storie che valga la pena pubblicare e diffondere fra i
lettori.
Rossano Astremo
Be Cool
il cinema secondo coolcub
Death of a president
Gabriel Range
Newmarket Films
Con Death of a president torna il film
“politicamente scorretto”. L’ultimo lavoro
dell’inglese Gabriel Range, autore ancora
poco conosciuto dal nostro pubblico,
ha già conquistato il Premio della critica
al Festival Internazionale di Toronto.
Rappresenta uno dei rari esempi di
“mockumentary”. Non è solo dunque un
semplice documentario, ma anche una
finzione, uno “scherzo”. La particolarità di
questo film sta proprio nella sua struttura.
Rappresenta un ottimo collage di
fiction, girata dal regista, e di autentico
materiale d’archivio. Arriva nelle sale
già investito da una enorme ondata di
polemiche. Basti pensare, infatti, che le
sue proiezioni sono state espressamente
vietate dalla Casa Bianca in molte delle
maggiori città degli USA, tranne che nei
circuiti d’essai. D.O.A.P, ambientato nel
2008, vuole essere un’ipotetica inchiesta
e un’opera commemorativa alla figura di
George W. Bush, morto in un attentato il
19 Ottobre 2007. Nel suo ultimo giorno di
vita, il Presidente si trova a Chicago per
una conferenza. Fuori, ad attenderlo,
una folla inferocita che sfila in corteo,
assiepando le strade della città.
Al termine del suo discorso, pieno
di riferimenti al patriottismo e alla
questione mediorientale, la situazione
diventa incontrollabile. La reazione dei
manifestanti è furiosa. Bush, di ritorno
all’auto presidenziale, muore, raggiunto
da un colpo d’arma da fuoco. Quando
il vice Dick Cheaney prende il suo posto,
comincia una vera e propria caccia
all’uomo. Molti degli indiziati vengono
trattenuti e interrogati dall’FBI, fino a
quando tutti i sospetti non ricadono su
un cittadino americano di origini siriane.
Da questo momento, le massicce misure
antiterroristiche attuate dal nuovo
Presidente si rivelano, in realtà, delle
enormi limitazioni alle libertà del cittadino.
Range è abilissimo nella direzione
artistica, e si rivela ancora maggiormente
nel saldare insieme del materiale così
estremamente variegato, grazie anche
al gran lavoro di montaggio di Brand
Thumim. Questo “documentario” scritto
dallo stesso regista e da Simon Finch,
che ne è anche produttore, oltre ad
essere un ottimo fanta – thriller politico,
offre soprattutto dei grandi spunti di
riflessione e apre un dibattito su quella
che è l’odierna realtà internazionale. I
fatti dell’11 settembre hanno alterato
per sempre “la mentalità americana”, e
non solo. La perenne sensazione di essere
sotto lo scacco del terrorismo ha assalito
l’intera popolazione. I provvedimenti
legislativi attuati dalla Casa Bianca, come
il Patriot Act, già aspramente criticato
da Michael Moore in Fahrenheit 9/11,
dietro l’intento di preservare la sicurezza,
stritolano in realtà i fondamentali diritti
del cittadino.
Sabrina “Zero Project” Manna
Be Cool
34
In memoria di me
Saverio Costanzo
Medusa
Borat
Larry Charles
20th Century Fox
Finalmente arriva anche nelle nostre sale
Borat, il film più discusso, controverso
e politicamente scorretto dell’anno.
Interpretata alla grande dal comico
inglese Sacha Baron Coen, la pellicola
è incentrata sul presunto viaggio
del reporter kazako Borat Sagdyiev,
incaricato dal suo governo di girare un
documentario sul più grande paese del
mondo, gli Usa. Il falso giornalista irrompe
nel perbenista mondo americano col
suo carico di misoginia e antisemitismo
e questo da vita ad una serie di gag
irresistibili, che vanno dall’incontro con
un gruppo di femministe alla cena
a casa di un predicatore del sud, in
cui lo stravante personaggio si rivela
paradossalmente più tollerante dei
suoi interlocutori. Il film, girato a basso
costo con una camera a spalla, è in
Letters from Iwo Jima
Clint Eastwood
Warner Bros
Come da attore nei suoi film più celebri,
anche il Clint Eastwood regista non sbaglia
un colpo, grazie a questo film commovente
e dalle sicure emozioni. Letters from Iwo
Jima è il secondo e ultimo capitolo della
saga della battaglia della
seconda
guerra
mondiale
iniziata con Flags of our fathers.
Lo sguardo, questa volta, è
interamente incentrato sul punto
di vista nipponico, quello degli
sconfitti che come al solito hanno
gli spunti più interessanti da offrire.
Al centro non più la guerra ma
l’uomo, nelle sue sfaccettature
più intense. Così le lettere inviate
dai soldati alle loro famiglie, che
danno nome al titolo, diventano il
pretesto per raccontare il terrore
realtà efficacissimo nel raccontare lo
strisciante razzismo di quello che a torto
si ritiene il paese più democratico al
mondo. Non sono mancate ovviamente
le critiche, a partire da quelle del (vero)
governo del Kazakistan che ha ritenuto
il lavoro offensivo e poco aderente alla
realtà, fino a vietarlo. Resta il fatto che
questo Borat fa ridere e non risparmia
nessuno, bianchi, neri, omo ed etero fino
ad arrivare al presidente Bush e alla sua
schiera di neocon. Ci si accorge così
che quella che inizialmente parte come
una risata facile dettata dal contrasto e
dal luogo comune, prende pian piano
la forma di un pensiero ragionato e
incisivamente critico. Uno strumento in
più per riflettere sul mondo e sulle sue
contraddizioni, su realtà ed apparenza.
E se come dice qualcuno questo film è
facile, stupido ed offensivo, allora è il
miglior film del genere che si possa fare.
Michele C. Pierri
di chi va a morire e le crisi di coscienza di
chi, malgrado tutto, ce li deve mandare.
Vite spezzate in cui non si avverte alcuna
differenza di bandiera, non ci sono colpe
o ragioni, solo il tragico peso di quello che
si potrebbe chiamare destino. Interessante
la scelta stilistica di sopprimere il colore,
quasi nasconderlo, e di farlo emergere
solo nel rosso dei fiumi di sangue versati da
vite innocenti.
Questo accorgimento, per
niente originale, si rivela però
il vero punto forte in un film
intenso, ma privo di un vero
punto di vista. In definitiva un
film che niente aggiunge ma
neanche toglie al genere,
e che tutto sommato dopo
più di due ore fa uscire dalla
sala un po’ turbati, ma anche
arricchiti. E di questi tempi,
non può far male.
Michele C. Pierri
Nuovo film drammatico per il figlio d’arte
salito alle cronache lo scorso anno con
Private, intenso affresco sul conflitto
israelo-palestinese. Al centro del racconto
questa volta la vita di Andrea, giovane in
crisi che decide di trovare la sua strada
intraprendendo il noviziato. In convento
scoprirà un mondo fatto di controllo
e potere che lo porterà a dubitare
pesantemente della sua fede e dell’intero
sistema in un viaggio morale che è
innanzitutto una presa di coscienza.
La masseria delle allodole
Paolo e Vittorio Taviani
01 Distibution
Il ritorno dei fratelli Taviani, autentiche
glorie del cinema di casa nostra. Tratto
dall’omonimo romanzo di Antonia Arslan, il
film affronta in maniera intensa il genocidio
armeno per mano del popolo turco, un
altro dei numerosi e drammatici capitoli
dimenticati nel percorso dell’uomo. La
storia è quella di una famiglia armena che
ristuttura una vecchia masseria in Italia, in
attesa che tutta la famiglia arrivi per viverci
assieme. Ma l’attesa sarà vana perchè dei
parenti non è rimasta alcuna traccia. Nel
cast Paz Vega e Alessandro Preziosi.
Still life
Jia Zhang-Ke
Lucky Red
Arriva
dalla
Cina
questo documentario
a g r o d o l c e ,
selezionato all’ultimo
festival di Venezia.
Il film prende il titolo
dagli oggetti inanimati
(in inglese still life) che
fanno da legante ai vari capitoli in cui
l’opera è divisa. Nel racconto il vecchio
villaggio di Fengjie è stato abbandonato
perchè al centro di un territorio dove è
stata costruita un’immensa diga. Il luogo,
ormai sommerso e desolato, diviene
comunque teatro di incontri e di ricerche in
cui sentimenti vecchi e nuovi si incrociano.
Un’intensa pellicola che regala un nuovo
sguardo su un oriente ancora poco
conosciuto.
Saturno contro è il sesto film di Ferzan Ozpetek, forse la sua
opera più matura ed intimista. Protagonista un gruppo di amici,
improvvisamente costretti ad affrontare un dolore incolmabile, alle
prese con l’impossibilità di separarsi perché incapaci di affrontare
le proprie paure. Saturno contro è un intreccio sapiente di vite
ed emozioni, in puro stile Ozpetek, con tante risate e momenti di
profonda commozione. Merito anche di un cast d’eccezione:
Pierfrancesco Favino, Margherita Buy, Stefano Accorsi, Luca
Argentero, Serra Yilmaz, Ennio Fantastichini, Isabella Ferrari, Filippo
Timi e una sorprendente Ambra Angiolini.
Nuovamente una famiglia allargata protagonista del film. Ma se
ne Le fate ignoranti era alternativa, stravagante, ora è molto più
stabile e normale. Crede che questa normalità possa sconvolgere
maggiormente il pubblico?
Credo che se un giorno facessero un Gay Pride in cui tutti fossero
vestiti in maniera normalissima, tutti camminassero con naturalezza,
senza fare casino, alla gente prenderebbe un colpo. Sarebbe
bellissimo. In Saturno contro c’è uno sguardo diverso rispetto a Le
fate ignoranti. Lì eravamo molto più leggeri, non c’era stato l’11
settembre, avevamo un altro sguardo
verso le cose. Qui invece tutto è più
posato. In questo senso Saturno contro è
un film più intenso, perché in primo luogo
è il mio sguardo ad essere cambiato.
A sette anni da Le fate ignoranti torna
anche la coppia Buy - Accorsi, con
tanto di tradimento e crisi. È lo sviluppo,
neanche tanto ideale, dell’amore
sbocciato alla fine di quel film?
No, sono personaggi completamente
diversi, sia lei che lui. Mi dispiace quando
dicono che io privilegio la coppia
omosessuale, io credo che contino le
persone, non la loro scelta sessuale. Una
grande giornalista (Natalia Aspesi, su
Repubblica, ndr) mi ha detto che questo
è il film più gay che abbia mai fatto. Mi
ha fatto molto sorridere e anche tanto
piacere. Secondo lei è il mio film più
gay proprio perché non se ne parla,
tutto è mischiato alle emozioni e ai
sentimenti. All’uscita de Le Fate Ignoranti
invece hanno detto che era un film gay
militante, perché entrava nelle case e
nelle persone che non sarebbero mai
andate a vedere due uomini o due donne
baciarsi.
Arcigay, come gran parte della comunità
gay, è insoddisfatta dei Dico fino al punto
di dichiararsi pronta a scendere in piazza
e manifestare per una legge più giusta.
Per lei invece i Dico sono una proposta di
legge ottima. Crede che l’atteggiamento
di Arcigay sia una presa di posizione
testarda?
Trovo buonissimo questo disegno di legge,
perché credo che sia l’inizio di molte cose.
Penso che si debba approvare prima
questa legge, poi in seguito si vedrà.
Facciamo un passo alla volta, mi dico,
altrimenti non si fa niente e non si va avanti.
Non capisco l’ottusità delle persone che si
lamentano e vogliono sempre qualcosa
di differente. Partiamo da questa legge,
almeno è una cosa.
Il tema musicale del film è firmato da Neffa.
Oltre a questo, che musica sta ascoltando
in questo periodo?
In questo periodo ascolto molto Bruno
Lauzi, mi ha preso proprio la mania. Ascolto
anche Gabriella Ferri (sua la sensazionale
Remedios, presente nel film, ndr). Ho
trovato alcune sue vecchie produzioni,
e ogni volta che la ascolto è veramente
stupenda. Insieme a Lauzi sono due grandissimi.
Può raccontarci un episodio divertente avvenuto durante le riprese
di Saturno contro?
Ce ne sarebbero mille, ci siamo davvero divertiti molto. Il più
divertente però riguarda Serra (Yilmaz) che ha rimorchiato suo
marito nel film (Filippo Timi), che ha 20 anni meno di lei. Dovevamo
girare una scena, che nel film non c’è, in cui loro due si baciavano.
Ecco, hanno cominciato ad usare la lingua, e al momento dello
stop non si sono fermati più. Il giorno dopo ero sul set, sento un mio
amico che mi dice che stava facendo la spesa per Serra, che abita
sopra di me. Quando gli ho fatto notare che non ce n’era bisogno
perché non dovevamo andare a cena da lei, lui mi fa: “Veramente
è Timi che sta andando a cena da lei!”.
Sviluppi?
Non so. Ma, sai, intuisco.
Anna Puricella
36
Una ricognizione su quella che fu la stampa marginale a Lecce
negli anni Settanta non può che partire dalla rivista Mu. Un
ciclostilato dal destino singolare e dalla particolare longevità
(ne uscirono 12 numeri, dal 1974 al 1976) che, nel corso
della propria evoluzione accompagnò ed in parte anticipò
tematiche proprie del rapporto musica-politica allora molto in
voga. Con un occhio particolarmente attento alle mutazioni
dei costumi ed alla cultura giovanile, Mu fu per diversi anni
punto di riferimento per tutti i “cani sciolti” della nuova sinistra
leccese che non si riconoscevano più nel fare politico rigido
ed istituzionalizzato delle organizzazioni della sinistra “storica”
(ma anche della nuova sinistra) e che sentivano l’esigenza di
un diverso rapporto cultura-politica.
Il 77, naturalmente era dietro l’angolo.
Mu nacque agli inizi del 1974. La redazione, allora ristretta ad
un solo eroico componente (Francesco Galli) si occupò, per i
primi due numeri - formato quadrato in stampa eliografica –
esclusivamente di musica pop. L’ingresso di nuovi collaboratori
(tra loro Toni Robertini, enfant prodige del movimento
creativo leccese) modificò il taglio della rivista, che assunse
una connotazione più “militante”. L’obiettivo era quello di
diffondere il rock ma, seppur timidamente e fra mille ingenuità,
comparve la parola passe-partout “controcultura”. Era aperto il
campo alla discussione di tematiche quali la droga, la sessualità
(s’apprestavano gli anni de “il personale è politico”) ma anche
il cinema e la letteratura undeground.
Il successo della rivista convinse i suoi collaboratori a tentare
la creazione di un vero e proprio “centro di controcultura”.
Il progetto fallì, a partire dal numero 9, Mu assunse una
connotazione sempre più politicizzata. Accanto alle recensioni
dei dischi e concerti trovarono spazio articoli di taglio più
“teorico”. Il progetto era quello di mettere in comunicazione
politica e musica, due settori sino ad allora distanti ma che in
seguito avrebbero sempre più marciato di pari passo.
A partire dal numero 10, fino alla fine, Mu accentuò la sua
politicizzazione e, anche in seguito ad un rimescolamento
della redazione, si schierò con la consistente “ala creativa” del
Movimento. Riscoperta della felicità, espropri, illegalità di massa
furono le tematiche che presero il sopravvento sull’impostazione
originaria. Il ’77, con tutto il suo carico di contraddizioni,
spontaneismo, irrazionalità, aveva fatto ormai irruzione nella
struttura del giornale, che non resse l’urto.
Dichiaratamente schierati con Autonomia furono i due epigoni
di Mu: Te’ all’arancia ed In/Contro. Tematiche non dissimili dagli
ultimi numeri di Mu, con un accentuazione della violenza a livello
grafico: due riviste dalla vita breve e dalla veste volutamente
rozza e “sporca”.
Non vide mai la luce Brutti Sporchi e Cattivi, di cui esiste solo un
provino in eliografia. Già il titolo della testata è indicativo del
contenuto della rivista: il collegamento era con le esperienze
del movimento bolognese, il tratto distintivo l’ironia.
Soltanto curiosità per Col sangue agli occhi, rivista dell’Autonomia più incazzata e violenta (almeno a parole). La lotta
contro la repressione fu il suo carattere distintivo, e ciò la dice
lunga sulla piega che stavano prendendo gli eventi.
Schierata anch’essa sulla linea “creativa”, e con un occhio
rivolto agli “indiani metropolitani” fu Finalmente il cielo è caduto
sulla terra, ne uscì un solo numero.
Nessun numero uscì de L’elefante bianco, titolo di una canzone
degli Area, solo prove di impaginazione e un menabò discusso
ed elaborato nel tentativo di ritornare alla musica e a contenuti
culturali sperimentando un lavoro di redazione che sempre
si perdeva in ascolti appassionati (nella casa di Alessandro
Salerni ricca di buoni dischi) che scordavano la missione da
compiere.
Con New Wave siamo invece già in pieno post-settantasette.
Mentre il Movimento si chiedeva se per caso i punk inglesi
non fossero fascisti, una nuova leva di fan diede vita ad un
ciclostilato dal taglio prettamente musicale (autore principale
di quell’esperienza fu Pierfrancesco Pacoda, oggi affermato
scrittore e critico musicale).
Gran cura nell’impaginazione grafica, dinamismo e verve sul
piano della scrittura uniti ad uno spirito “d’impresa” nuovo e
spregiudicato sono invece i tratti salienti di Gola, una vera
fanzine sul modello delle riviste analoghe sorte in USA e in
Gran Bretagna sull’onda del punk. Gola ebbe vita breve ma
colpì sicuramente nel segno. Stampata in tipografia e con un
suo piccolo ma efficiente portafoglio pubblicitario, la rivista
aggiornò il gusto ed aprì a tutte le novità del nuovo decennio.
Anche qui la musica fu la componente determinante (alcuni dei
suoi redattori provenivano da New Wave), ma non mancava
un approccio disinibito e “cool” alla cultura giovanile. Di Gola
uscì un solo numero. Il secondo fu solo distribuito agli amici.
E poi gli anni ottanta…
Mauro Marino
CoolClub.it C
38
CoolClub.it
E poi la gente si lamenta che non c’è mai
niente. Dal 15 al 31 marzo in piazza Palio a
Lecce sarà montato un tendone da circo
che però non ospiterà animali e trapezisti
ma concerti, dj set, incontri, spettacoli
teatrali e molto altro ancora. Livello 11/8 chi
vuole intendere... in tenda è un progetto di
11/8 records organizzato in collaborazione
con le Albania Hotel e Salento Mind Express
e numerose altre realtà che operano nel
territorio, sotto la direzione artistica di Cesare
dell’Anna (nella foto a destra).
“Il progetto”, sottolineano gli organizzatori,
“nasce dalla necessità di trovare uno spazio
fruibile quotidianamente di cui il territorio
appare essere oggettivamente sfornito e
che riunisca le più differenti forme artistiche
secondo il principio di pari opportunità e
dignità: un contenitore per artisti esordienti
e professionisti, su un medesimo palco
attrezzato”.
L’articolato programma prevede incontri
mattutini, che coinvolgeranno le scuole
leccesi, stage di giocoleria pomeridiani
(dalle 16 alle 19 a cura di Salento Busker
Fest) e i grandi eventi della sera. Si parte
giovedì 15 con Opa Cupa e si continua con
Montefiori Cocktail (ven 16), Nidi d’arac
(sab 17), Links meet 11/8 (dom 18). Cruska e
Abash (lun 19), lo spettacolo teatrale Oggi
sposi di Ippolito Chiarello e il concerto del
Mirko signorile quintet (mar 20), il live dei
Meganoidi (mer 21), il progetto elettronico
Tenda 00/1 (gio 22), il reggae di Rankin Lele,
Papa Leu, Marina e i Sud Sound System (ven
23), lo spettacolo Via di Fabrizio Saccomanno
e la miscela sonora di Taranta virus (sab 24),
la musica leccese di Enzo Petrachi (dom
25), una selezione di gruppi locali (lun 26),
lo spettacolo di danza Orbata di Barbara
Toma e il progetto My Miles (mar 27), il dub
tarantolato dei Mascarimirì (mer 28), il rock
strabiliante degli italoscozzesi Hormonauts
(gio 29, nella foto),
le
contaminazioni
di Zina (ven 30) e il
festacchione finale
con la musica dei
Seventy Level (sab
31). Nel corso delle
serate sono previste
inoltre estemporanee
di pittura e mostre
fotografiche. Sabato
24 marzo è previsto
un
interessante
appuntamento
dedicato al cinema.
Cine paese vedrà
la
partecipazione
di registi e operatori del settore per una
riflessione sulle politiche di sostegno
all’industria cinematografica. L’inizio degli
spettacoli teatrali è fissato per le 20.00. i
concerti partiranno alle 22.00 e saranno
seguiti da dj set. Info 0832305693 – www.118records.com.
Canti di Passione
39
Grecìa Salentina 25 marzo – 1 aprile
Moni Ovadia, Ambrogio Sparagna e
Nabil, leader dei Radiodervish, sono alcuni
degli ospiti della quarta edizione dei Canti
di passione, una manifestazione dedicata
al recupero e alla riproposizione dei canti
devozionali della passione di Cristo che
si terrà dal 25 marzo al 1 aprile. Nelle
Chiese degli undici comuni della Grecià
Salentina, di Galatina e di Alessano infatti
congreghe e cori provenienti da tutta
l’area del Mediterraneo, a testimonianza
di un diffuso e comune sentire religioso
su temi così particolari, e cantori
locali proporranno il loro repertorio. La
manifestazione, curata artisticamente da
Luigi Chiriatti e Gianni De Santis, prenderà
il via domenica 25 marzo da Cutrofiano
con il concerto di Moni Ovadia (nella foto).
Tra gli ospiti i portoghesi Banda Larga,
i molfettesi Calixtinus, i lucani Ethnos, i
siciliani Al Qantarah, la Confraternita di
Sant’Antonio Abate Speloncato (Corsica),
le Confraternite di Vico del Gargano, il
gruppo di cantori di Terranova del Pollino La Totarella, la Confraternita di Bonnanaro
proveniente dalla Sardegna, la spagnola Banda de Santa Maria del Sur, i ciprioti
Thriskeftiko orthodoxo idrjma flias, i cretesi Sirma.
Ambrogio Sparagna (martedì 27 ad Alessano) con una piccola orchestra sarà
interprete del dolore di madre Maria e del figlio dolente. Il cantante palestinese
Nabil, voce dei Radiodervish, canterà in duetto con il salentino Antonio Castrignanò
(mercoledì 28 a Melpignano). Saranno presenti infine moltissimi cantori e interpreti
della tradizione musicale salentina e grica.
Nel corso della settimana il Nuovo Cinema Elio di Calimera sarà aperto alla proiezione
di film dedicati alla passione. La selezione è stata curata da Cecilia Mangini che
introdurrà le pellicole assieme a Goffredo Fofi. L’appuntamento è organizzato da
Unione dei Comuni della Grecìa Salentina e Regione Puglia, in collaborazione con
Provincia di Lecce e Istituto Diego Carpitella. Tutte le info su www.cantidipassione.it
CoolClub.it C
40
CoolClub.it
MUSICA
ogni martedì / Sonic the tonic e Mr Moon
alla Negra Tomasa di Lecce
ogni mercoledì / Acoustic live alla Negra
Tomasa di Lecce
ogni mercoledì / Conversazioni sonore allo
Spazio Sociale Zei di Lecce
mercoledì 7 / Ocelle Mare ai Sotterranei di
Copertino (Le)
giovedì 8 / Arancia Meccanica al Jack’n Jill
di Cutrofiano (Le)
giovedì 8 / I 30 denari e Queimada ai
Bucanieri di Barletta
venerdì 9 / Warm Transition allo Spazio
Sociale Zei di Lecce
Lo spazio sociale Zei di
Lecce
inaugura
una
nuova rassegna musicale.
SuonArci ospita alcuni
interessanti
progetti
musicali
del
Salento.
Primo
appuntamento
con Warm Transition. Il
repertorio è stato ideato
per miscelare la musica
Dance con la musica
più raffinata come la jazz
music (della serie: si può
ballare ma si può anche semplicemente
ascoltare). Il progetto coinvolge Francesco
Coppola e Raffaele Vasquez. Ingresso
gratuito. Info www.zei.le.it
venerdì 9 / Miss Fraulein Torre Santa Sabina
(Br) Palmares club
sabato 10 / Giuseppe Di Gennaro alla
Saletta della Cultura di Novoli (Le)
Giuseppe Di Gennaro è nato a Milano
trent’anni fa, il mare di Gallipoli ha fatto
da sfondo alla sua adolescenza, ma sono
state Ferrara, Bologna, Roma e Milano a
vederlo formarsi artisticamente. Innamorato
della dolcezza di Francesco De Gregori,
dell’essenzialità di James Taylor, dell’incisività
di Bob Dylan, Giuseppe Di Gennaro ha
all’attivo importanti riconoscimenti. Ingresso
gratuito.
sabato 10 / Villa Ada e Brusco all’Arci Terra
Rossa di Taviano
domenica 11 / Paolo Zanardi a Monopoli
(Ba)
lunedì 12 / Le Singe Blanc (Francia) ai
Sotterrani di Copertino (Le)
martedì 13 / Deep Purple al Palasport di
Andria
martedì 13 / Jam Session al Lord Sinclair di
Lecce
Roberta & Carlo presentano Jam Session,
un live itinerante dedicato ai musicisti
appassionati di tutti i generi. Dodici
appuntamenti per dodici locali tra le
province di Lecce e Brindisi. Ingresso
gratuito.
giovedì 15 / Paolo Zanardi alla Feltrinelli di
Bari (Ba)
giovedì 15 / Skarlat al Jack’n Jill di Cutrofiano
(Le)
Sono giovanissimi e sono scatenati. Gli
Skarlat propongono brani dal carattere
deciso, incalzante ma anche melodico
e coinvolgente. Energia allo stato puro.
La band salirà sul palco del Jack’n Jill di
Cutrofiano. Inizio ore 22.00. Ingresso gratuito.
Info 0836541126
giovedì 15 / Hyra, OneWayTicket, Rest ai
Bucanieri di Barletta
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sabato 17 / Europe Connection al Teatro Antoniano di
Lecce
La rassegna Suoni a Sud, organizzata dall’Associazione
Antoniano e dall’Orchestrina e diretta dalla pianista leccese
Irene Scardia, prosegue con una serata dedicata al Jazz.
Sul palco saliranno infatti gli Europe Connection, ensemble
composto da Gianlivio Liberti (batteria), Gaetano Partipilo
(sax), Yuri Goloubev (contrabbasso), Gianluca Cacucciolo
(piano), Alberto Parmegiani (chitarra).
Gli Europe Connection proporranno un concerto ricco di
colpi di scena e di interplay, presentando un repertorio
esclusivo di brani originali sulla scia dei grandi del jazz
moderno. Tra i brani in scaletta Lontano, Eugenia’ step,
Sonora, Joy, Psicomagia a gò gò e Luca’s mood. Sipario ore 21.00. Ingresso platea 10
euro (ridotto 8) e galleria 5 euro. Info 0832.392567
giovedì 15 / Kurt Rosenwinkel al Teatro
Paisiello di Lecce
Kurt Rosenwinkel è da molti considerato il
chitarrista più notevole e futuribile della sua
generazione, e nonostante l’ancor giovane
età la sua figura musicale è stata spesso
accostata a quella di innovatori dello
strumento quali Pat Metheny, John Scofield,
John Abercrombie e Bill Frisell. Ingresso da 5
a 20 euro. Info 0832316512.
venerdì 16/ Lisergica al Willy Nilly Irish Pub di
Squinzano (Le)
venerdì 16 / Agnese Manganaro allo Spazio
Sociale Zei di Lecce
Col Salento nel sangue e il Brasile nel cuore
Agnese Manganaro si muove con agilità nel
repertorio a lei caro: la bossa e gli anni ’60.
Il suo repertorio di cover comprende brani
in portoghese, inglese, spagnolo, italiano
e giapponese, ispirato all’atmosfera del
lounge. Ingresso gratuito. Info www.zei.le.it
sabato 17 / Bang on a can all stars al Teatro
Paisiello di Lecce
Bang on a Can All-Stars da New York a Lecce:
sei musicisti virtuosi, avventurosi, dinamici ed
intensi, a proprio agio nelle più diverse forme
musicali oggi esistenti, sbarcano il 17 marzo
al Teatro Paisiello di Lecce, promettendo
una serata indimenticabile. Una formazione
piuttosto unica: clarinetti e sax, chitarra
elettrica, violoncello, contrabbasso, piano
e percussioni. Una strumentazione che non
rientra in una categoria ben definita: da
un lato ensemble da camera, a tratti rock
band e infine gruppo jazz, i BoaC All Stars
possiedono una flessibilità che li ha resi
famosi nella scena della musica classica
contemporanea, la cosiddetta new music
Americana ed internazionale. Da vent’anni
alla ricerca di nuove frontiere musicali, con
un repertorio che continua ad allargarsi
grazie alle loro commissioni a compositiri
riconosciuti ed emergenti, sono oggi
riconosciuti come I pionieri di una musica
che sfida le categorie e abbatte ogni
limite e continua ad evolversi nel tempo.Sul
palco Robert Black (basso), David Cossin
(percussioni), Steven Gostling (pianoforte),
Wendy Sutter (pianoforte), Mark Stewart
(chitarra), Evan Ziporyn (clarinetto). Inizio
ore 21.00. Ingresso platea euro 20 , palchi
euro 15 , palchi ridotto euro 10 , loggione
euro 7,5. www.bangonacan.org
sabato 17 / Dj Gruff all’Istanbul Cafè di
Squinzano (Le)
Virtuoso inarrivabile del mixer e dei
piatti, DJ Gruff riesce a far convivere
una straordinaria, artigianale abilità
nell’assemblare le rime, con le possibilità
infinite offerte dai suoni campionati e
dalla pratica dello scratch. Funky, soul,
le radici africane del ghetto e la “old
school” che si ricompongono all’interno
di un suono travolgente ed essenziale,
scandito metronomicamente dal pulsare
inarrestabile della batteria elettronica. Ha
collaborato con tutta la scena italiana,
dall’Isola Posse All Stars di “PassaParola”
a Carry D. sino al Sud Sound System e a
Neffa. È anche un bravissimo breaker.
Proprio di recente DJ Gruff è tornato alla
sua passione originale, quella per il dj style
e la manipolazione continua di piatti e
vinili. Offrendosi dunque ad un mercato
non più soltanto limitato ai devoti dell’hip
hop. Ha fatto parte dei seguenti gruppi :
Ghost Town Rockers, the Place2Be, Fresh
Press Crew, Radical Stuff, Casino Royale,
I.P.A.S., Sangue Misto, 0s3ss, Alien Army,
Royalize, Maserio. Ora ha un gruppo tutto
suo chiamato Sinfonaito, fondato con il
suo socio di sempre Alessio Manna. Un
nuovo appuntamento imperdibile firmato
Istanbul Cafè.
CoolClub.it C
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CoolClub.it
sabato 17 / Koop al Mavù di Locorotondo
(Ba)
I Koop - ovvero il duo Magnus Zinmark e
Oscar Simonsson - sono riusciti a realizzare
due lavori discografici ricchi di novità, che
suggestionano come ai tempi del jazz degli
anni Cinquanta. Ogni traccia di è un ricamo
incorniciato, che vive di fusion e di jazz, di
ricercata elettronica e di voci bellissime.
sabato 17 / Carmen Consoli al Teatro Italia
di Gallipoli (Le)
sabato 17 / Ninfea ai Sotterranei di Copertino
(Le)
sabato 17 / Finali regionali Arezzo Wave a
Grottaglie (ta)
sabato 17 / Hic niger est all’Arci Terra Rossa
di Taviano (Le)
domenica 18 / Sergio Caputo a Polignano
a Mare (Ba)
lunedì 19 / Sergio Caputo al Teatro Italia di
Gallipoli (Le)
A tutt’oggi Sergio Caputo ha pubblicato
più di 100 canzoni, molte delle quali sono
diventate dei classici. In questo risiede la forza
dei suoi spettacoli: solo successi, il meglio
del meglio del suo repertorio, canzoni che
sono state e sono in radio, in tv, in videoclip,
canzoni che hanno fatto sognare intere
generazioni. Ed è proprio il pubblico, attivo
e partecipe, che diventa il terzo elemento
vincente dei suoi spettacoli. Oggi Sergio ha
una marcia in più, l’esperienza americana,
l’essersi esibito davanti al pubblico più
smaliziato del mondo, e averlo conquistato.
0833/266940
martedì 20 / Sergio Caputo al Teatro Curci
di Barletta
giovedì 22 / Lisergica al Bing Bang di Brindisi
giovedì 22 / The Second Grace al Jack’n Jill
di Cutrofiano (Le)
Islanda e Messico, Caracas e Buenos
Aires, Dublino e Londra, Madagascar e
Cape Town: la musica dei palermitani
The Second Grace è un viaggio sonoro
infinito. Il quartetto ha da poco pubblicato
l’album d’esordio nel quale sono chiare le
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sabato 24 / Primo maggio tutto l’anno al Teatro Kismet di Bari
Grande successo anche quest’anno per la terza
edizione della rassegna nazionale curata dalla Primo
Maggio srl (società organizzatrice del Concerto del
Primo Maggio) in collaborazione con AudioCoop,
MEI – Meeting delle Etichette Indipendenti e con
alcune delle più importanti realtà radiofoniche
italiane, riservata a gruppi emergenti, che ha fatto
registrare, in Puglia, un incremento delle adesioni
con ben 71 demo raccolti, provenienti da tutte
le province. Sono 6 i gruppi che hanno superato
questa prima fase di selezione e che si esibiranno
dal per aggiudicarsi il passaggio alla successiva fase di selezione nazionale. I gruppi
sono: C.F.F. e il Nomade Venerabile (nella foto), caratterizzati da un percorso artistico
multiforme in cui pop-rock riverberato, dark cantautorale, strisciante psichedelia e
improvvise virate distorte si inseguono e si intrecciano alle suggestioni scatenate dal
teatro-danza e dalla video-arte; Accanitofan (Hnf) miscela di sonorità soul, dub, funkj,
house, drum&basss e breakbeat, Sud Foundation Krù esperimento musicale tra hip
hop, sonorità rock, funky e reggae; The Carving musica new wave / rock anni ‘80;
Uross pop cantautorale; Queimada con il loro sound ruvido e rock. I primi tre classificati
passeranno di diritto alla selezione nazionale della rassegna, che si svolgerà a Roma con
le stesse modalità delle selezioni regionali determinando gli artisti che poi suoneranno
sul prestigioso palco del concerto del Primo Maggio 2007 in Piazza San Giovanni a
Roma. La serata sarà ad ingresso libero. Informazioni al numero 080 558.35.41
influenze di personaggi chiave della musica
contemporanea come Sigur Ros, Calexico,
Nick Drake, Jeff Buckley, Damien Rice e
Devendra Banhart. L’appuntamento è al
Jack’n Jill di Cutrofiano. Inizio ore 22.00.
Ingresso gratuito. Info 0836541126
giovedì 22 / Oloferne, Pixel, Railway ai
Bucanieri di Barletta
giovedì 22 / Reckless Tide al Nord Wind
Disco Pub di Bari
A colorare (di nero) la sempre più fervida e
interessante scena metal Pugliese, vengono
questa volta chiamati in causa i tedeschi.
Loro sono i Reckless Tide, ormai affermato
gruppo Thrash Metal di origine teutonica e
saranno protagonisti, del secondo special
event all’interno della rassegna di musica
metal settimanale “The Metal Place” che la
Vivo Management organizza da diversi anni
tutti i giovedì sera al Nord Wind Disco Pub
di Bari.
venerdì 23 / Meganoidi al Demodè
di Bari
venerdì 23 / Hic niger est all’Istanbul
Cafè di Squinzano (Le)
venerdì 23 / Ninfa Giannuzzi & Palmiro
Durante acoustic project allo Spazio
Sociale Zei di Lecce
Ninfa Giannuzzi è una delle figure
storiche della musica salentina. In questa
formazione in duo, accompagnata alla
chitarra da Palmiro Durante, ripropone tutto
il suo repertorio dalla musica tradizionale
ai cantautori italiani. Ingresso gratuito. Info
www.zei.le.it
sabato 24 / Elettronoir all’Istanbul cafè di
Squinzano (Le)
Elettronoir è un gruppo di Roma, 5 elementi,
un suono che sta a metà tra Morricone e
Cure, tra Warp e Labrador, gli anni ‘70 dei
poliziotteschi e gli anni ‘80 della new wave.
Avanguardia e melodia. In una parola,
Pop.
sabato 24 / Mashrooms a Francavilla
Fontana (Br)
domenica 25 / Mashrooms ai Sotterrani di
Copertino (Le)
domenica 25 / Irene Scardia al Castello
Carlo V di Lecce
Irene Scardia, pianista, compositrice,
performer.
Il
linguaggio
stilistico
dell’artista rivela sotto
il profilo armonico
e compositivo una
matrice
jazzistica
in
combinazione
con
elementi
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martedì 27 / Ludovico Einaudi al Teatro Team di Bari
In bilico tra suoni colti e avanguardia, suggestioni etniche ed
elettronica, Ludovico Einaudi, pianista e compositore tra le figure
di punta della musica contemporanea europea, presenterà
martedì 27 marzo 2007 al TeatroTeam di Bari il suo ultimo capitolo
discografico “Divenire”. Con lui sul palco il sestetto d’archi
composto da Marco Decimo (violoncello), Thomas Schrott (violino),
Laura Riccardi (violino), Svetlana Fomina (viola), Antonio Leofreddi
(viola), Franco Feruglio (contrabbasso). Live electronics: Robert
Lippok. “Un percorso vario, movimentato e imprevedibile, come
un grande paesaggio di montagne e pianure, di fiumi e di mari… quell’energia che ti
spinge ad assaporare il mondo fino ad annullartici dentro, in continuo divenire”.
Botteghino: P.zza Umberto, 35 - Bari; Tel. 080.5210877 / 080.5241504. Per l’acquisto online:
www.teatroteam.it. Poltronissima Vip € 30,00 + € 3,00 prevendita; Poltrona € 25,00 + € 3,00
prevendita; Galleria € 20,00 + € 2,00 prevendita.
impressionistici e riferimenti al pianismo
moderno, modulati secondo uno stile molto
personale dalle sonorità morbide e raffinate.
Forte di una formazione tra musica, danza
e teatro, l’artista predilige la produzione e
realizzazione di spettacoli e performances
interdisciplinari. Inizio ore 21.00. Ingresso
gratuito.
martedì 27 / Frank Gambale a Brindisi
martedì 27 / Jam Session al Nyx di Trepuzzi
(Le)
giovedì 29 / Adel’s al Jack’n Jill di Cutrofiano
(Le)
è impossibile ascoltare questa band
siciliana senza lasciarsi trasportare dal ritmo
frenetico del rock. Gli Adel’s sono un trio
attivo sin dal 1994, sono giunti al loro quinto
cd e soprattutto al loro primo DVD. Il loro
sound è assolutamente personale: blues,
surf e rockabilly si mischiano in un cocktail
esplosivo. L’appuntamento è al Jack’n Jill di
Cutrofiano. Inizio ore 22.00. Ingresso gratuito.
Info 0836541126
giovedì 29 / Camillo Re, Hope Leaves,
Leitmotiv, Metafora ai Bucanieri di Barletta
venerdì 30 / Ninfea all’Istanbul Cafè di
Squinzano (Le)
venerdì 30 / Creme allo Spazio Sociale Zei
di Lecce
Creme è un cantautore capace di
scrivere canzoni che giocano con il pop,
il folk. Canzoni che sembrano ispirate alla
tradizione italiana, alla musica di Battisti
soprattutto, ma che suonano oblique
sfiorando la psichedelia inglese di artisti
come Robin Hichock. Ingresso gratuito. Info
www.zei.le.it
sabato 31 / MadHornet + Mass Murder
Machine ai Sotterranei di Copertino (Le)
sabato 31 / Paolo Belli al Teatro Politeama
Greco di Lecce
giovedì 5 aprile / Blog al Jack’n JIll di
Cutrofiano (Le)
Serata all’insegna del punk e del rock
salentino allo storico locale di Cutrofiano.
Sul palco due delle band più longeve della
scena alternativa di Lecce: i Bludinvidia e
gli Psycho Sun. In apertura spazio ai Logo.
L’associazione culturale C-ARTE durante
lo spettacolo metterà in scena alcune
performance dalla caratteristica vena
surreale. Ingresso gratuito.
TEATRO
venerdì 9 marzo / Bad&Breakfast ai Cantieri
Teatrali Koreja di Lecce
Camera doppia è uno spettacolo teatrale
musicale un po’ bizzarro, ironico, travolgente
in cui può succedere di tutto… Sul palco
Emanuela Gabrieli (voce) e Carla Petrachi
(pianoforte). Ingresso unico € 7,00. Info:
0832.242000
giovedì 15 / Sacco & Vanzetti al Teatro di
Nardò (Le)
giovedì 15 / Assurdo a sud al Teatro
Comunale di Ruffano (Le)
venerdì 16 / Processo a dio al Teatro Paisiello
di Lecce
martedì 20 / Oggi sposi al Teatro di Livello
11/8 di Lecce
mercoledì 21 / Banda 25 al Teatro Filograna
di Casarano (Le)
25 anni di storia della Banda Osiris in una
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rilettura ironica e non cronologica di alcune
tappe significative dell’iter creativo della
band, tra musica seria e comica, citazioni
colte e trash d’annata, canzoni d’autore
e jingle pubblicitari. Sipario ore 21.00. Info
0833514242
venerdì 23 e sabato 24 / Aspettando Godot
ai Cantieri Koreja di Lecce
La rassegna Strade Maestre dei Cantieri
Koreja di Lecce prosegue con un classico
del teatro contemporaneo. Aspettando
Godot di di Samuel Beckett in questa
rilettura del Teatro di Pontedera per la regia
di Roberto Bacci. “Quando Aspettando
Godot è diventato il fantasma a cui dare
corpo, la scelta di come lavorare per la
sua messa in scena non poteva che essere
quella della fedeltà alla scrittura originale,
trovando tuttavia i necessari tradimenti per
dialogare con il testo”, sottolinea il regista.
“Si è aperto così un mondo nuovo in cui
vivono antiche domande. Chi sia Godot o
che cosa significhi l’attesa sono alcune di
queste. Lo spettacolo potrà fare da ponte
verso possibili risposte anche se non c’è una
vera speranza che ci riscatti dall’assurdità
della nostra esistenza. Ogni possibile
conclusione sta alla nostra coscienza
individuale. Purtroppo, nel 2006, saranno
100 anni da che Samuel Beckett è nato
e devo confessare che mi è sembrato
uno scherzo del destino quando, una
volta che ho deciso di mettere in scena
Aspettando Godot, me lo hanno fatto
notare. Era ormai troppo tardi per tornare
indietro. Pazienza, saremo in buona
ed abbondante compagnia: tanti artisti in
attesa di tanti Godot. Allora, 100 di questi
Godot, Signor Beckett”, conclude Bacci.
Biglietto intero 10 euro - ridotto (sotto i 25 e
sopra i 60) 7 euro. info 0832.242000.
venerdì 23 e sabato 24 / Lo Zì al Teatro
Comunale di Bitonto
venerdì 23 / Il Processo di Franz Kafka al
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Cinema Elio di Calimera (Le)
Continuano gli appuntamenti della Rassegna
organizzata da Somnia Theatri a Calimera
(Lecce), che propone visione di spettacoli
teatrali e stages di formazione attoriale. Sul
palco la prima assoluta del Processo di Franz
Kafka per la regia di Principio Attivo Teatro. In
scena Dario Cadei, Silvia Lodi, Cristina Mileti,
Otto Marco Mercante, Daniele Morleo, Fabio
Quarante, Giuseppe Semeraro. Come le
altre opere Kafkiane, il Processo può essere
considerato l’emblema di una nuova epoca
- quella della crisi dei valori e della paralisi
dell’individuo di fronte alla modernità e alle
nuove dinamiche di controllo stabilite dalla
“macchina del potere”. Info 0832875283;
[email protected].
venerdì 30 e sabato 31 / Il teatro comico ai
Cantieri Koreja di Lecce
I Cantieri Koreja ospitano, in questo nuovo
appuntamento della rassegna Strade
Maestre, la Compagnia Katzenmacher che
ripropone il teatro Comico di Carlo Goldoni.
La regia è affidata ad Alfonso Santagata.
Tre Attori bravissimi Rossana Gay, Johnny
Lodi, Massimiliano Poli, ormai da anni al
fianco del regista, che interpretano ruoli
diversi moltiplicando i personaggi. Uno
spettacolo tra il comico e il commovente,
una rilettura del testo di Goldoni intelligente
e mai scontata. Biglietto intero 10 euro ridotto (sotto i 25 e sopra i 60) 7 euro. info
0832.242000.
venerdì 30 / Lo Zì al Teatro Illiria di Poggiardo
(Le)
Lo Zì è uno spettacolo, di Mimmo Mancini
e Pietro Albino di Pasquale,
con Mimmo Mancini, che si
propone di mettere in risalto
il problema della diversità.
Che cosa accadrebbe
se un uomo si accorgesse
di soffrire di una malattia
invalidante? Come dirlo
agli altri e come imparare
ad accettarsi? Un’ora e
un quarto di spettacolo,
uno scoppiettante monologo comico in
cui l’attore si mette in gioco dando prova
di straordinarie capacità interpretative. La
rappresentazione di un’opera matura come
“Lo Zì” può compiere un grande prodigio: il
sorriso.
sabato 31 / Lo Zì al Teatro Impero di Brindisi
La redazione di CoolClub.it non è responsabile
di eventuali variazioni o annullamenti.
Gli altri appuntamenti su www.coolclub.it
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Vi sono fumetti che scuotono le nostre
intorpidite coscienze presentandoci gli orrori
dell’empietà umana presente, futura e
passata; altri ci accompagnano lievemente
per mondi nei quali ogni fantasia è realtà.
Blankets di Craig Thompson (edito in Italia
da Coconino Press) non possiede nessuna
di queste qualità: è un’opera che ci
accompagna nella poesia del quotidiano,
e lo fa attraverso la scelta coraggiosa di
narrare il passato autobiografico del suo
giovane autore, con struggente tenerezza.
Craig, appena adolescente, incontra la
coetanea Raina; labbra carnose e morbidi
capelli biondi lo seducono, conducendolo
in un piacevole labirinto di passioni carnali
e sentimenti più alti.
I corpi che si sfiorano, le anime che vibrano
all’unisono sono alcune delle potenti
emozioni che i due ragazzi vivranno
durante quella esperienza unica che è
il primo amore. Ma Craig e Raina non
sono comuni adolescenti: le loro famiglie
provengono da una realtà molto diffusa
nel Middle West statunitense, quella
del fondamentalismo cristiano ed il loro
legame li porterà a confrontarsi con tabù
e convenzioni arcaici e stolti. Thompson
non esprime condanne forti verso tale
realtà, semplicemente registra il distacco
lento ed inesorabile, che l’ha condotto
lontano dalla sua famiglia, per il quale è
divenuto un estraneo. Blankets illustra il
primo innamoramento del suo autore, oltre
a raccontare di una rivoluzione silenziosa,
intimista, compiuta da un individuo che
rompe col proprio ambiente; è il diario
della presa di coscienza di Craig che
grazie all’esperienza amorosa riconsidererà
il suo ruolo e le rigide regole in cui la sua
religiosità lo ha costretto. Inizia dunque,
per lui un processo di formazione che lo
condurrà lontano dalla propria casa, verso
quel mondo in cui ha sempre temuto e
sperato di perdersi e rigenerarsi.
Il sentimento per Raina è la chiave
d’accesso alle scelte che lo renderanno
adulto e lo porteranno a diventare un
fumettista.
Non è neanche un caso che l’autore
abbia scelto l’ateismo, pur non recidendo
totalmente i contatti con una famiglia
ingombrante ma amata; essa è parte di
lui, quanto l’educazione religiosa nella
quale s’è formato e non la rinnega. Tuttavia
da ciò egli si è allontanato attuando la più
grande lotta che l’uomo moderno possa
compiere: costruire la propria sfaccettata
individualità in tempi di omologazione
coercitiva. Blankets è un opera raffinata
come i disegni che l’ha incanalano nella
struggente ricerca di un senso nuovo della
propria esistenza. Le tavole in bianco e
nero del giovanissimo fumettista sono
raffinate e molto stilizzate, capaci di
restituire le atmosfere ora sentimentali, ora
più sognanti che caratterizzano il fumetto
durante le sue pagine.
Roberto Cesano
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